31 Ivi, p. 124.
32 Termine tecnico nel jazz significa modello e come tale deve essere considerato; è
in pratica un suggerimento melodico scritto dal quale trarre idee per cercare un
linguaggio personale.
33 Cfr. H. BECKER, The Etiquette of Improvisation, in “Mind, Culture and Activity”, 2000,
vol. 7, n. 3, pp. 171-176.
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in secondo piano, non che essi scompaiano, ma diventano più spontanei e
permettono invece di godere dei piccoli dettagli del paesaggio, addirittura
di scoprire scorciatoie ed angoli nascosti. Tutti gli elementi e i model-
li indicati in precedenza sono proprio i landmakers dell’improvvisazione.
Ecco che appare chiaro come l’improvvisazione si basi sempre su una
solida struttura, e che essa necessiti di una profonda assimilazione di tutti
questi componenti. Ma non si parla solamente di jazz! Spero che riportare
un’esperienza personale possa essere utile a comprendere meglio la gene-
si si un’improvvisazione. Preparando forse uno dei concerti più belli per
violoncello solo, il concerto n. 1 in do maggiore di Haydn, alla fine del
primo tempo, il moderato, è richiesta una cadenza. La cadenza è una va-
riazione virtuosistica svolta dal solista nella fase finale di un brano. Prima
del diciannovesimo secolo non veniva messa per iscritto perché si lasciava
tutto all’estro improvvisato dell’esecutore.34 Ora, in genere, è riportata in
piccolo, alla fine dello spartito, una cadenza spesso trascritta dallo stesso
compositore, che è ormai prassi eseguire senza lasciar spazio a fantasie. E
perché non provare a creare una cadenza propria? All’inizio si ha un vuoto
pneumatico, non si sa cosa fare, si prova ad ascoltare qualche esecuzione
famosa, molti eseguono quella scritta, altri, pochi, si discostano35… vengo-
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no ripetuti stilemi tipici del brano, come in questo caso le sestine ribattute
sulla corda vuota, si aggiunge, ecco un primo punto di riferimento, poi si
suona un gruppetto, un abbellimento, e si va così a tentativi… ogni volta
qualcosa di diverso, alcune volte per nulla soddisfacente, altre volte si sal-
vano le parti che piacciono di più e si cercano di riproporre variate nella
successiva esecuzione. Si esplora, ed esplorando il testo sembra più vivo, la
musica inizia a diventare propria. Nessun miracolo, ci si accorge di quanto
lavoro sia necessario per improvvisare sul serio. Sono piccoli tentativi, un
punto di partenza… insomma una base all’improvvisazione.
Al di là dei modelli
L’episodio appena narrato può essere utile perché ci apre una nuova
strada. Nella cadenza di Haydn non ci si deve limitare a riproporre la melodia
già esposta grazie allo studio nel corso del brano, bisogna scoprire e cercare
una svolgimento sulla traccia di una nuova originalità. L’ordito dell’improv-
visazione infatti da una parte è composto dalla trama della tradizione e della
memoria, dall’altra da quella dell’innovazione: l'ostinata ricerca di qualcosa di
nuovo. L’improvvisazione non consiste, infatti, soltanto nella combinazione
di modelli e di linee melodiche preconfezionate36 come si trattasse solo di un
magazzino a cui attingere le risorse. Se l’improvvisazione consistesse soltan-
to in un assembramento di frasi preconfezionate i risultati sarebbero cata-
strofici: non ci sarebbe alcuna continuità, la musica risulterebbe poco fluida,
farraginosa, come se chi improvvisa dovesse “consultare il catalogo delle
sue frasi fatte” per poi stabilire con una procedura dispendiosa quali fare.37
www.youtube.com/watch?v=72JClSO5fPM
e quella eseguita ed ideata da Mstislav Rostropovich, forse il più grande violoncellista
di sempre, al minuto 7:26 https://www.youtube.com/watch?v=eU5KdY_04kU
36 D. SPARTI, Suoni inauditi, cit., p. 133.
37 Ibidem.
138
138
Una celebre frase di Miles Davis ci fa capire che c’è qualcosa che ci
fa superare questo stallo: “L’improvvisazione è andare al di là di ciò che
si sa”.38
È in questa componente va trovata l’originalità del jazz e dell’im-
provvisazione in generale.39 La tradizione, per quanto indispensabile, deve
essere solamente un trampolino di lancio per l’originalità vera e propria e
per la creatività.
L'improvvisazione: le forme
38 Riportato da P. DAMIANI nel saggio L’arte dell’improvvisazione, un sapere nel mentre si fa,
in G. L A FACE BIANCONI-A. SCALFARO, La musica tra conoscere e fare, ed. FrancoAngeli,
2011.
39 Vedi capitolo primo, p. 4.
40 E. FERRARI, op.cit., p. 126.
41 A. WILLS, L’organo, la storia e la pratica esecutiva, Franco Muzio editore, Padova, 1987,
p. 211.
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Bruckner erano noti improvvisatori e si può essere sicuri che quest’arte
veniva praticata anche dai loro contemporanei meno dotati.42 Le due
forme di improvvisazione che si analizzeranno in questo capitolo sono
quelle che oggi godono ancora di una certa vivacità, cioè vengono an-
cora praticate e il loro studio viene trasmesso ed ascoltato. Sto parlando
della grande prassi organistica e dell’improvvisazione nel jazz. Questa
scelta, per quanto riduttiva, servirà a darci almeno un assaggio di cosa
significhino nel concreto i modelli che nel secondo capitolo abbiamo
enunciato in maniera generale. Il bacino di raccolta dell’improvvisazione
infatti è molto ampio, quindi mostrare le differenze e, perché no, anche
le dissonanze che questa pratica tiene unite aiuta a dare un quadro com-
pleto a questo lavoro.
L’organo
42 Ibidem.
43 A. WILLS, op.cit., p. 212.
140
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dalla tradizione liturgica che pescano sia nella musica medievale, il canto
gregoriano, e poi via via a tutte le composizioni sul genere fino a quelle di
anni più recenti. Non di rado l’organista si basa su una melodia che poi
ritornerà nel corso della messa, per esempio durante la comunione di un
eventuale coro viene richiesto un preludio basato sull’inno che poi deve se-
guire o magari può essere necessario aggiungere qualche rigo alla fine di un
inno per coprire il tempo in cui si completa il raccoglimento, o ancora un
postludio di una certa estensione alla fine del servizio.44 Questi brani, una
volta immagazzinati e memorizzati, uniti ad una approfondita conoscenza
dello strumento, permettono quindi all’esecutore di realizzare pienamente
le proprie idee che nascono sull’estro del momento.
Ma i modelli in questo caso fungono anche da punto di partenza per
imparare la stessa pratica. La base dello studio si fonda infatti sull’utilizza-
zione del materiale preesistente e sull’approccio contrappuntistico. Questo
materiale preesistente può essere un cantus firmus o una melodia corale45.
Riporto l’esempio di un cantus firmus al quale si chiede per esempio
di aggiungere una o più parti superiori al basso senza l’ausilio della nota-
zione (le note in piccolo sono un possibile svolgimento dell’esercizio).
44 Ivi P. 226.
45 Ibidem.
46 Ivi p. 213
141
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Il modello presentato è elementare, ma ci permette di fare qualche
veloce considerazione.
• Con esso si impara a pensare con un certo anticipo le note che segui-
ranno. Le note vengono lasciate alla libera creatività dell’artista nel ri-
spetto delle regole armoniche dettate dalla nostra tradizione musicale.
• Il basso in qualche modo, in seguito a vari tentativi, entra a far parte
della memoria dell’artista, che poi potrà riprodurlo tutto o in parte
durante una successiva esecuzione.
• L’esecuzione sarà sempre diversa, si terrà memoria di quelle preceden-
ti, ma mai in maniera nitida e questo permette la continua creatività.
• Si comprende bene cosa si intendesse quando si parlava di riferi-
menti, il modello diventa punto di partenza e di riferimento.
142
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Salve regina, frammento in notazione gregoriana.50
Al minuto 1:31 è evidente il tema d’inizio del “Salve” che viene ri-
proposto immediatamente per imitazione su una diversa ottava, ma con
differente conclusione. Tale inizio viene poi riproposto al minuto 3:14 ma
con un ampia aggiunta di note che formano una scala sulla tastiera. Il resto
del brano è slegato dal tema originale, ma un orecchio allenato sarà capace
di ritrovare brevissimi richiami al tema principale, di cui si cerca di dare
un’ampia armonizzazione.
A volte l’esecutore può decidere di non riferirsi in maniera espli-
cita ad un tema preesistente. Posto che in realtà, anche se in maniera
latente, forse perfino allo stesso esecutore esso si riferirà a qualche
melodia presente nella memoria, anche in questo caso non si esula da
modelli di riferimento. All’organista è sempre richiesta prima di tutto
un’utilizzazione coerente e proporzionata del materiale che vuole utiliz-
zare e la capacità di tracciare uno schema di tonalità logico e bilanciato.
Per esempio un’improvvisazione di tipo contrappuntistico si centra sul-
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lo sviluppo di una singola linea melodica che può seguire per esempio
questo schema.51
Nel corso della sua storia evolutiva, iniziata nel secolo scorso, il Jazz vanta
una ramificazione in una gran quantità di stili e sottogeneri, non tutti com-
pletamente capiti, approfonditi, sviluppati. Solamente per darne un’idea si
possono ricordare alcuni tra i più importanti: Bebop, Cool Jazz, Hard bop,
Jazz modale, Free Jazz, Jazz-rock etc… Descrivere il Jazz risulta così un’im-
presa ardua come anche rintracciare i modelli caratterizzanti ogni singola
corrente. Faremo quindi alcuni esempi paradigmatici.
Già nelle sue origini il Jazz ha dei modelli a cui riferirsi: la sua strut-
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tura, infatti, nasce sicuramente dal Blues e ad esso si richiama, ma spesso si
rifà anche alla reinterpretazione di brani popular.52
Sparti ci fornisce alcuni degli schemi tipici. Un brano Jazz consiste
in una melodia eseguita sopra una sequenza o progressione di accordi.53
Il brano è spesso scomponibile in quattro sezioni, le quali, nel complesso,
formano un chorus, che di solito ha un modello metrico di trentadue battu-
te. Si tratta di quattro cicli di otto battute così suddivisi:
145
145
come delle frasi di riserva per colmare i vuoti ed intervenire quando si è
a corto di idee.55
Richiamandoci al capitolo secondo dei possibili standards possono
essere canzoni provenienti da musical di Broadway o le ballata scritte da
Gerschwin,56 ma non solo.
Storicamente, nell’epoca in cui il Jazz era soprattutto una musica da
club trasmessa oralmente, i musicisti passavano ora ed ora e praticare la
musica a confrontarsi con i colleghi. In quel momento più che ora c’era
un’ampia circolazione di modelli. Esisteva una sorta di idolatria per i musi-
cisti più anziani e si imparava gli uni d’agli altri nelle jam session. È quella che
Sparti chiama “la comunità Jazz”.57 In essa molti brani venivano ascoltati
ed imitati. Gli strumentisti apprendevano quindi le trame della loro musica
nel confronto con gli altri anche all’interno delle vere e proprie esecuzioni.
Anche l’errore, in questo tipo di musica più che in altri, può poi
diventare esso stesso modello creato all’interno dell’esecuzione sul quale
poi insistere e svilupparsi. Riporto un aneddoto: durante un concerto del
secondo quintetto di Davis, Herbie Hancock suonò un accordo sbagliato.
Nel sentire l’insolita configurazione dei suoni, Davis, la usò come vettore
per la sua immaginazione musicale, elaborando una linea melodica del tut-
to inattesa.58 Nel jazz appare quindi rilevante non il fatto di aver commesso
un errore, ma il modo di suonare dopo che l’errore è stato commesso.
L’errore in una performance successiva potrebbe poi essere riproposto come
un vero e proprio modello.
Ora che il Jazz non è più una pratica tramandata solo oralmente, è
possibile anche con una semplice ricerca, trovare una notevole quantità di
55 Ivi, p. 157.
56 Ivi, p. 126.
57 Ivi, p. 128.
58 Ivi, p. 184.
146
146
patterns. Come già accennato si tratta di suggerimenti melodici scritti da
memorizzare per poi trovare un linguaggio proprio.
Conclusioni
59 http://mattotto.org/modern-jazz-vocabulary-vol-2-ii-v-i/
147
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la creatività e la spontaneità di cui si parlava nell’introduzione, invece di
essere bloccate o in qualche modo offuscate dai modelli, sono in realtà
rese possibile da questi: senza non potrebbero esprimersi. In questo modo
si risolve anche la contraddizione di una prassi che riesca a conciliare il
massimo della spontaneità con l’uso degli schemi pregressi.
Dalla prima considerazione ne discende di conseguenza la seconda:
i modelli sono quelli che permettono che ci sia un’intesa tra artista e frui-
tore e tra artista ed altro artista. Sono il linguaggio comune che permette di
scambiare significato e che quindi rende l’improvvisazione dotata di senso.
Senza di essi, che fungono da base comune, il pubblico farebbe fatica a
comprendere l’artista.
Un altro spunto interessante: ancora una volta, anche nel campo
che sembra più lontano dall’interessarla, viene ribadita l’importanza della
tradizione. Come spesso si dice che non è possibile fare filosofia senza
conoscere la storia stessa del pensiero, così si può dire che non è possibile
improvvisare senza conoscere la storia del proprio genere, averne acquisi-
to i paradigmi, le tracce e i modelli che vengono trasmessi da esso.
Infine sono gli stessi modelli la condizione di possibilità della tra-
smissione della pratica dell’improvvisazione. Sono la costante, il punto in
comune, quelli che ne permettono la sua stessa apprensione. Su questo
punto si trovano d’accordo sia il lavoro sul Jazz di Sparti che quello sull’or-
gano di Wills.
Concludo con delle idee suggerite in “L’orgue, souvenir et avenir”
di Jean Guillou60
L’arte dell’improvvisazione si accorda con il suo interprete e aderi-
sce alla sua personalità fino a creare una nuova opera, l’improvvisazione
è sempre nuova creazione, essa tiene vivace l’arte stessa e il suo stesso
60 J. GUILLOU, L’Orgue, souvenir et avenir, Buchet/ Chastel, Paris, 1996, p. 246 e seguenti.
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divenire, è in grado di ridonare all’opera scritta e sepolta da tempo, una fre-
schezza che non guarda al passato, ma verso l’avvenire. L’improvvisazio-
ne quale furore poetico, movimento quasi mistico, dà nuova espressione
al sapere estetico dischiudendo strade non ancora provate, terre vergini
da esplorare. L’improvvisazione grazie ai suoi ingranaggi, il meccanismo
dell’immaginazione, i processi di elaborazione, l’esecuzione spontanea, ci
ricorda la stessa libertà dell’arte e della vita. Si formano infatti elementi che
obbediscono a leggi del loro proprio sviluppo e che determinano i loro
criteri immanenti.
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