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Università degli Studi di Padova

Facoltà di Scienze della Formazione

Dipartimento di Filosofia

Corso di perfezionamento in
Metodologia dell'insegnamento filosofico
a.a. 2011/2012

Il caso-limite dello zombi. Un percorso didattico per parole nel


problema mente-corpo

di Marco Ambra
Introduzione

Perciò non bisogna disprezzare, al modo dei ragazzi, la ricerca


sugli animali meno ragguardevoli, perché in tutte le cose
naturali si trova qualcosa di meraviglioso: e come si racconta
che Eraclito abbia detto agli stranieri che volevano incontrarsi
con lui, poiché mentre si avvicinavano si erano fermati,
avendolo visto scaldarsi presso il focolare (li esortò a entrare
con fiducia, giacché anche lì vi erano dei) […].
(ARISTOTELE, Le parti degli animali, tr. it. di A.L. Carbone,
Rizzoli, Milano 2002, 645a 15-20, p. 217).

Noi riconduciamo le parole dal loro impiego metafisico al loro


impiego corretto nel linguaggio.
(L'uomo che disse non è possibile scendere due volte nello
stesso fiume, disse qualcosa di falso; si può scendere due volte
nello stesso fiume)
(L.WITTGENSTEIN, The Big Typescript, tr. it. di A. De Palma,
Einaudi, Torino 2002, XII, 88, p. 411).

Nell'aneddoto su Eraclito con cui Aristotele quasi si scusa per l'indagine scientifica sugli
«animali meno ragguardevoli», la forma stilistica del dettaglio, del minuto racconto esemplare
lascia ingenuamente trasparire la massa consistente di un motivo rilevante, e senza dubbio
comune ad ogni intenzionalità teoretica. Alcuni stranieri, mossi dalla fama del filosofo, si recano
ad Efeso per incontrarlo. Probabilmente immaginano di vederlo impegnato in qualche inconsueta
operazione designata dalla parola “pensiero”, in un commercio continuo con l'essenza della
realtà, o comunque intento all'ascolto di qualcosa di “alto”. Invece le loro aspettative vengono
disilluse dalla scena consueta, quasi banale, che si presenta ai loro occhi: Eraclito si sta
scaldando presso il focolare, come qualunque uomo che in una giornata d'inverno sia colto da
brividi di freddo. Scrutati gli sguardi interdetti degli ospiti, percependo la loro curiosità delusa, il
filosofo li invita a entrare e a raggiungerlo attorno al focolare «giacché anche lì vi erano dei».
Rimanendo presso il focolare, comportandosi come uomo tra gli uomini, Eraclito invita i propri
ospiti che – presumibilmente – vogliono imparare qualcosa “di filosofico”, a non trascurare ciò
che appartiene all'ambito del quotidiano, ciò con cui hanno talmente tanta consuetudine da darlo
per acquisito in maniera definitiva alla conoscenza della realtà. Commentando questo aneddoto
Heidegger rileva come le parole di Eraclito pongano la scena quotidiana che si presenta ai
visitatori sotto un'altra luce: con un rovesciamento di prospettiva radicale il solito, ovvero il

2
focolare dove ogni cosa è familiare e corrente, si rivela l'ambito aperto per il presentarsi dell'in-
solito, degli dei1. Dunque, con questo racconto apparentemente inessenziale alla struttura
dell'argomentazione, Aristotele richiama l'attenzione di chi voglia impegnarsi nell'indagine
filosofica del reale a partire da ciò che superficialmente appare come noto e non degno di
interesse scientifico. Lo sguardo teoretico del filosofo è ciò che pone il solito, l'usuale, il
consueto in un'altra luce individuando in esso lo spazio per l'insolito, l'assente, il non ancora
conosciuto. Nello scavare questo spazio con le armi della logica e dell'argomentazione, la
filosofia non deve abbandonare mai il terreno saldo da cui prende le mosse. Il terreno quotidiano
del solito, quello espresso nell'uso irriflesso delle parole che articolano e configurano il nostro
agire pratico, sociale, politico. Parafrasando Wittgenstein non bisogna dimenticare che la vita
non è qualcosa di accidentale, sebbene sia «una cosa sulla quale normalmente non mi rompo mai
la testa: è l'effettuale!»2. L'alternativa all'esercizio della filosofia come critica radicata
nell'effettuale è quel cattivo filosofare in cui è implicito un duplice rischio. Nella storia della
filosofia occidentale - specialmente negli ultimi due secoli- non è difficile rilevare una tendenza
parallela, da un lato a sganciarsi dallo sguardo sul solito per barricarsi nell'illusione
dell'immediatezza, nel rapporto diretto con un presunto sapere assoluto, e dall'altro ad accettare
in modo acritico gli asserti di sfondo delle scienze naturali e storico-sociali. In entrambi i casi
l'abbandono della specificità della filosofia, quella «trasformazione dello sguardo» 3 sul solito alla
quale Eraclito invita i propri ospiti, e l'abbandono di tale specificità nell'insegnamento della
filosofia – ammesso e non concesso che tale separazione sia concepibile - ha sollevato nella
pratica didattica delle scuole e delle accademie dubbi sulla legittimità della presenza di un ambito
disciplinare autonomo nei curricula degli studenti. A ciò si aggiunga che negli ultimi vent'anni,
lo scioglimento delle calotte ideologiche e storiche all'interno delle quali si erano sviluppati
diversi modi di fare e insegnare filosofia, ha fatto largo alla religione unica del libero mercato. La
centralità del concetto di crescita economica misurabile con i criteri statistico-quantitativi del PIL
ha funzionato da rasoio di Occam per ogni forma di organizzazione dei saperi e della loro
trasmissione nelle scuole che non rientrasse in quel paradigma. Le discipline umanistiche, e in
particolare la filosofia, sono state oggetto di una Kulturkampf volta a sottolineare l'assenza di una
loro produttività tangibile, traducibile nei termini di oggetti culturali d'uso e consumo immediati.
Martha Nussbaum ha sottolineato come Negli Stati Uniti e in India si sia consolidata una

1 Cfr. M. HEIDEGGER, Lettera sull'«umanismo», tr. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 2011, pp. 91-93.
2 L. WITTGENSTEIN, The Big Typescript, tr. it. di A. De Palma, Einaudi, Torino 2002, XII, 91, p. 426.
3 Cfr. P. HADOT, Esercizi spirituali e filosofia antica, tr. it. di A.M. Marietti, Einaudi, Torino 1988, p. 166: «Questa è
la lezione della filosofia antica: un invito per ogni uomo a trasformare se stesso. La filosofia è conversione,
trasformazione della maniera di essere e del modo di vivere, ricerca della saggezza. »
3
concezione dell'istruzione pensata in funzione del profitto economico, che non coincide
necessariamente con l'istruzione quale luogo di crescita e sperimentazione della democrazia a
partire dalla centralità delle potenzialità cognitive di ciascun discente 4. È in questo quadro
globale che in Italia le Indicazioni nazionali del 2010, con i nuovi criteri per l'insegnamento della
filosofia- pur nella loro imprecisione metodologica e nel richiamo ideologicamente connotato
all'universo semantico delle competenze- hanno aperto la possibilità di ridefinire (senza per
questo fissare definitivamente) la specificità della filosofia come disciplina umanistica autonoma.
Il tramonto del paradigma gentiliano, che risolveva l'enigma dell'oggetto specifico della filosofia
attraverso un rapporto circolare con la storia5, rimette in questione la relazione tra storia della
filosofia (nei modi e nella struttura che questa “etichetta” ha assunto in Italia), procedure logico-
argomentative come metodo del filosofare, ed esercizio dello spirito critico che questo stesso
filosofare dovrebbe garantire. Se la filosofia è un sapere concettuale, un sapere che procede oltre
il riferimento al caso singolo e al particolare per cogliere l'essenza dell'oggetto del proprio
discorso6, allora il suo insegnamento non può prescindere da un confronto serrato con le parole
che rendono esplicito tale sapere.
Questo lavoro s'inscrive pertanto in quel tentativo di rimettere in circolo la relazione a tre -
storia della filosofia/procedure logico-argomentative/sapere critico - a cui Alberto Gaiani ha dato
il nome di “didattica per parole”: il discorso filosofico praticato a scuola deve mirare ad una

4 Cfr. M.C. NUSSBAUM , Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, tr. it. di R.
Falcioni, il Mulino, Bologna 2011, pp. 31-44. Da una prospettiva radicalmente alternativa a quella della Nussbaum,
Yves Citton ha individuato nella linea della politica europea su istruzione e ricerca- la cosiddetta “strategia di
Lisbona”- la riduzione della «cultura dell'interpretazione», centrale nell'insegnamento delle discipline umanistiche,
alla «economia della conoscenza», ovvero alla produzione di esternalità economiche positive e quantitativamente
misurabili. Cfr. Y. CITTON, Future umanità. Quale avvenire per gli studi umanistici?, tr. it. di I. Mattazzi, :duepunti
edizioni, Palermo 2012, pp. 7-24.
5 La circolarità viziosa tra storia e filosofia pensata da Gentile come cuore metodologico dell'insegnamento della
filosofia nei Licei del Regno d'Italia può essere definita come una relazione «in cui la filosofia è storia della filosofia
(è il suo sviluppo) e la storia della filosofia è filosofia (nel senso che non si può dare autentica storia della filosofia
se non come sviluppo della filosofia)» (L. ILLETTERATI, Introduzione a Insegnare filosofia. Modelli di pensiero e
pratiche didattiche, a cura di L. Illetterati, Utet, Torino 2007, pp. XI-XII).
6 Nella connotazione del campo specifico della filosofia con il sapere concettuale è implicita l'idea che la realtà
fenomenica non sia totalmente e definitivamente esaurita dalla descrizione scientifica specialistica. In altre parole
l'idea che l'oggetto specifico della filosofia sia un sapere di tipo concettuale rifiuta la riduzione dell'ambito mentale-
la “fucina” dei concetti- al biologico o al neurofisiologico. Sebbene la descrizione della mente in termini
naturalistici sia indispensabile allo sviluppo delle conoscenze su questo ambito, la connotazione della filosofia
sostenuta in questo lavoro considera unilaterale la possibilità che il contenuto di un concetto possa essere esaurito da
una strategia esplicativa esclusivamente riduzionista ed esternista. Su internismo/esternismo cfr. A. COLIVA, I
concetti. Teorie ed esercizi, Carocci, Roma 2006, pp. 49-54.
4
qualche forma di giustificazione delle parole usate ordinariamente, nel discorso quotidiano e
consueto, attraverso procedure logico-argomentative e senza prescindere dalle forme
storicamente riconosciute che quelle parole hanno assunto nei pensatori del passato 7. Questo
esercizio sulle parole del discorso ordinario, in cui sono compresenti la profondità dello sguardo
storico e la precisione di superficie della logica argomentativa (e in parte formale), si traduce
nell'attivazione di un'effettiva dimensione critica. Nella radicale messa in discussione dei
presupposti irriflessi, dei luoghi comuni, della relazione tra le opinioni autorevoli e i contesti
doxastici del discorso ordinario. In modo molto più concreto ed evidente si possono mettere in
discussione i luoghi comuni che innervano il discorso ordinario (l'uso ordinario di parole
rilevanti dal punto di vista concettuale come bene, bello, giustizia, proprietà, scienza, corpo
ecc...) a partire dalla storia dei modi in cui i filosofi li hanno di volta in volta messi in questione.
Così si può rimettere in circolo la forza argomentativa- nella forma e nei contenuti- con cui i
filosofi hanno scardinato i pregiudizi del loro tempo, in un dialogo irrisolto e attivo con le nostre
precomprensioni.
Ma questo è solo un lato della questione. Infatti, la relazione tra le forme argomentative con cui
i pensatori del passato hanno messo in questione le trame del discorso ordinario e i problemi
della filosofia nella loro totalità - l'ambito del sapere concettuale - non può essere risolta in
maniera definitiva. Ciò non implica e non ha mai implicato che i problemi filosofici sollevati
dall'interrogazione delle parole concettualmente rilevanti nel loro uso ordinario siano
indecidibili. Perché i filosofi del passato problematizzando determinate questioni, aprendo una
strada verso il concetto solo in alcune parole, scegliendo modalità discorsive specifiche nella
messa in questione dei luoghi comuni, hanno configurato la regione dei concetti in un certo modo
anziché in un altro. La “didattica per parole” andando a scavare l'origine della definizione storica
dei diversi ambiti concettuali, gettando uno sguardo archeologico sulla stratificazione dei
concetti nell'uso ordinario delle parole, individua anche ciò che viene scartato. L'analisi
concettuale delle parole della filosofia recupera le soluzioni abbandonate, i sentieri interrotti.
Pensa anche l'altro lato della questione dell'oggetto della filosofia riconoscendo la funzione che
l'oblio svolge nella storia del pensiero. Come ha notato T.W. Adorno, «uno dei casi più singolari
di questo oblio è certamente rappresentato dal problema della connessione di corpo e anima, di
interiorità ed esteriorità, che ha dominato tutta la grande filosofia del cosiddetto razionalismo del
XVII secolo a partire da Descartes, e che tutte le possibili filosofie si siano continuamente sentite
in obbligo di discutere e ridiscutere»8 ma che ha perso la sua carica emotiva, la sua capacità di
focalizzare lo sguardo teoretico, quando il trionfo delle scienze naturali tra XVIII e XIX secolo

7 Cfr. A. GAIANI, Insegnare concetti. La filosofia nella scuola di oggi, Carocci, Roma 2012, pp. 125-142.
8 T.W. ADORNO, Terminologia filosofica, tr. it. di A. Solmi, Einaudi, Torino 2007, pp. 110-111.
5
l'ha privato di attualità. Ciononostante quello che Adorno chiama il problema della connessione
di corpo e anima, e che la filosofia della mente contemporanea ha ribattezzato il problema mente-
corpo, non ha ancora trovato una soluzione convincente, una teoria definitiva. È riemerso
dall'oblio, dalla negazione riduzionista, in cui il XIX secolo e la prima metà del XX secolo lo
avevano sepolto. In questo lavoro proverò dunque a costruire un percorso didattico su una parola
che, a mio parere, sintetizza e ri-articola la storia della trattazione e dell'oblio del problema
mente-corpo: la parola zombi. Com'è noto si tratta di una parola legata a un determinato tipo di
oggetti di consumo culturale di massa, i film horror di Hollywood e le serie tv statunitensi,
attraverso cui ci si riferisce a dei mostri con una particolare caratteristica, quella di essere dei
morti viventi. Come cercherò di dimostrare in seguito, nella maschera del morto vivente si
coagula, in maniera ingenua e quasi del tutto irriflessa, il problema mente-corpo nella sua
configurazione storico-filosofica. Lo zombi può essere infatti una chiave d'accesso tratta
dall'immaginario pop – munita quindi di per sé di una certa dose di appeal retorico-performativo
sui teenager – all'analisi dei concetti di mente e corpo così come vengono argomentati e
strutturati a partire da Descartes. Non si tratta di fare della dietrologia pseudointellettuale su
oggetti di consumo culturale di massa come i film horror o le serie tv, ma di creare dei veri e
propri incroci (crossovers)9. Attivare dei meccanismi di trasformazione a partire da giochi
mentali con il tesoro accumulato dei testi filosofici, utilizzati come fughe del pensiero dalla
dimensione immediata della visione al cinema o in tv di un film, della lettura di un fumetto,
dell'ascolto di musica pop.
Fatte queste precisazioni di carattere preliminare è possibile introdurre il modo in cui il percorso
didattico verrà strutturato e argomentato. La trattazione si articola in tre parti. Nella prima
illustro l'argomento sugli zombi elaborato dal filosofo della mente David Chalmers in relazione
al dibattito attuale sulla natura della mente; inoltre ne approfondisco la relazione con gli zombi
cinematografici. A partire da una “fenomenologia” dei morti viventi nei film di George A.
Romero e in alcune serie tv, cercherò di individuarne affinità e differenze con gli zombi
dell'argomento di Chalmers. Nella seconda parte approfondisco lo sfondo metodologico
all'interno del quale la parola “zombi” diventa uno strumento in grado di delucidare lo sviluppo
concettuale delle parole mente e corpo. Infine, nella terza parte, traccerò il vero e proprio
percorso didattico: la ri-articolazione dei temi legati al problema mente-corpo nelle Meditazioni
cartesiane servirà da apripista per una trattazione del tema dello zombi in alcuni pensatori vissuti
tra XVI e XVIII secolo.

9 Cfr. S. REGAZZONI , Prologo in Pop Filosofia, a cura di S. Regazzoni, il melangolo, Genova 2010, pp. 10-20.
Sull'aridità delle polemiche riguardo la legittimità dell'approccio proposto da Pop Filosofia cfr. il post di Girolamo
De Michele su Carmillaonline del 15/09/2012 su http://www.carmillaonline.com/archives/2012/09/004440print.html
6
1. Lo zombi come parola-limite. Tra cinema horror, filosofia della mente e storia
della filosofia

What's in your head,


In your head,
Zombie, zombie, zombie?
(The Cranberries, Zombie)

Va innanzitutto fatta chiarezza su cosa intenda per “zombi” e quale tipo di problema
concettuale venga sollevato dal significato di questa parola. Nel cinema horror hollywoodiano
quello che qui chiamo genericamente zombi - avvalendomi di uno slittamento semantico ormai
entrato nel discorso ordinario - appartiene ad una categoria di mostri specifica: i morti viventi.
Proprio come lo zombi della tradizione vodu haitiana, il morto vivente è privo di una volontà
individuale e autonoma. Però, a differenza di questo “zombi classico” o “tradizionale”, il morto
vivente non è un vivo in stato di morte apparente, ma un morto effettivamente resuscitato 10. C'è
innanzitutto una sorta di continuità del sistema fisico-cerebrale tra il morto vivente e l'uomo che
è stato. Inoltre, il risveglio dei morti viventi non ha mai un motivo, una ragione fondata, come
invece ad esempio l'intenzionalità criminale dello stregone haitiano che trasforma un vivo in uno
zombi-schiavo, o lo spirito faustiano che muove il dottor Frankenstein nel dar vita al proprio
mostro. La specificità dello zombi come morto vivente va ricercata pertanto nel fatto che
l'assenza di volontà individuale è da intendersi letteralmente: nessun burattinaio guida la sua
azione, la quale resta del tutto priva di senso. Il tratto caratteristico del morto vivente è
un'originaria assenza di soggettività – espressa da una totale assenza di volontà individuale e più
in generale della vita interiore - del tutto priva di una causa. Nei film dei qual sono protagonisti
gli zombi spezzano la continuità senso-motoria della narrazione ripetendola all'infinito, fino a
farle perdere senso. La coazione a ripetere il gesto antropofàgico sclerotizza l'immagine-
movimento fatta di piani sequenza orizzontali e verticali – che caratterizza le scene in cui sono
presenti esseri umani – a vantaggio di movimenti meccanici e volti indecifrabili. Gli zombi sono
l'esatto opposto dei personaggi «indecidibili» che Deleuze attribuiva al superamento
dell'immagine-movimento, propria del cinema classico, nel neorealismo italiano e nella nouvelle

10 Sul topos dello zombi haitiano lavorano classici dello zombie movie come Zombi bianco (1932) di Victor
Halperin, in cui a controllare la volontà dello zombi-schiavo è un padrone bianco, Ho camminato con uno zombi
(1943) di Jacques Tourneur nel quale il ruolo del padrone è svolto da una madre rancorosa e possessiva, e infine, La
vendetta degli zombi (1943) di Steve Sekely dove lo “zombificatore” di turno è uno scienziato nazista. Cfr. D.
BUZZOLAN, George A. Romero. La notte dei morti viventi, Lindau, Torino 1998, pp. 13-15.
7
vague: la coazione a ripetere nella quale sono intrappolati i loro corpi non crea lo spazio per il
gesto creativo, per il limite in cui «l'azione è sostituita dall'atteggiamento», per la sostituzione del
concatenamento causale della sceneggiatura con la fabulazione o leggenda 11. L'inesplicabilità
della figura del morto vivente non risiede quindi nella gamma di azioni potenziali che questi
esseri mostruosi possono realizzare, lo spettatore dello zombie movie non si trova di fronte
all'enigma di una soggettività mostruosamente imprevedibile. Si trova di fronte all'esatto
opposto: all'indecifrabilità di una serie di comportamenti che è priva di motivazioni, priva di una
causa razionale. Secondo il filosofo americano Nöel Carroll il meccanismo paradossale incarnato
da questo tipo di rappresentazioni mostruose, in linea di principio inconoscibili, è lo stesso
meccanismo alla base dell'attrazione degli spettatori per i film horror 12. Un meccanismo
doppiamente paradossale. Prima di tutto, perché lo spettatore prova emozioni – paura, ansia,
angoscia - di fronte a qualcosa che sa non esistere realmente. In secondo luogo, perché chi
guarda un film horror per una scelta consapevole è attratto da un genere cinematografico che
provoca sensazioni dalle quali, nella vita quotidiana, vorrebbe fuggire. La fonte di questo duplice
paradosso si nasconderebbe, stando a Carroll, nella concordanza in senso forte che lo spettatore
stabilisce tra il piacere suscitato dalla possibilità di risolvere i rompicapo, gli enigmi e i misteri
della narrazione e la propria curiosità rispetto al baricentro di questo tipo di narrazione; rispetto
ai mostri, agli oggetti sconosciuti e irriducibili ad una spiegazione razionale, come i morti
viventi:

I mostri, inoltre, sono un veicolo perfetto per suscitare questo tipo di curiosità e per sostenere il
dramma della dimostrazione, poiché (almeno fisicamente, sebbene non in generale dal punto di
vista logico) sono esseri impossibili. Essi destano interesse e attenzione in virtù del fatto di
essere apparentemente inesplicabili e fortemente inusuali di fronte alle nostre abitudini
categoriali, instillando per questo motivo un desiderio di conoscere e saperne di più al loro
riguardo.13

Il nodo dell'attrazione verso qualcosa di disgustoso può essere sciolto solo ricorrendo a una
spiegazione più ampia, che sia in relazione con il nostro interesse per le figure paradossali e per
la funzione da esse svolta all'interno di una struttura narrativa. Il fascino del disgustoso suscitato
dai morti viventi presenta una somiglianza di famiglia con il fascino suscitato dal paradosso

11 Cfr. G. DELEUZE, Cinema, tempo e pensiero in Estetica e cinema, a cura di D. Angelucci, Il Mulino, Bologna
2009, pp. 215-228.
12 Cfr. N. CARROLL, The Philososphy of Horror, or Paradoxes of the Heart, Routledge, New York 1990 e Teoria
generale e teoria universale del piacere dell'horror, in Estetica e cinema, op. cit., pp. 229-243.
13 Ivi, p. 233.
8
filosofico14. O meglio da un nonsenso filosofico, dall'interesse che un errore categoriale, un
errore nell'uso dei nostri concetti, provoca in un lettore attento di un'argomentazione filosofica.
La figura dello zombi funziona all'interno di una narrazione cinematografica come un
fraintendimento tra concetti, come un'equivoco sorto dall'uso della rappresentazione di un essere
fisicamente analogo a un essere umano ma che non è cosciente. L'errore categoriale risiede nel
collasso della rappresentazione ordinaria di un sistema fisico vivente che, per ipotesi, è privo di
stati mentali coscienti perché non vivente 15.
Quindi, i problemi di natura concettuale sorgono quando individuiamo nel morto vivente la
rappresentazione di un nonsenso: un essere in qualche misura senziente, spinto da una pulsione
incontrollabile a cibarsi di tutto ciò che è vivo, e tuttavia privo di una vita cosciente nel senso
pieno del termine. Privo di volontà autonoma o eterodiretta, lo zombi ripete inspiegabilmente
senza alcuna consapevolezza il gesto meccanico di divorare ogni forma di vita che trova sul
proprio inerziale cammino. Il problema sollevato dallo zombi si manifesta in un nonsenso –
l'incomprensibile assenza di soggettività - relativo all'ambito concettuale della coscienza. Un
nonsenso che ci porta a urtare contro il limite, o meglio il confine, a partire dal quale nel discorso
ordinario ci rappresentiamo e descriviamo un essere cosciente. La rappresentazione
cinematografica dello zombi assume nel discorso ordinario la funzione retorica di designare un
caso-limite rispetto alla concepibilità logica ed empirica delle caratteristiche che attribuiamo ad
un essere cosciente: è l'assenza di soggettività cosciente per antonomasia.
A questo punto sorgono una serie di interrogativi. Cosa significa utilizzare la parola zombi come

14 La co-appartenenza di fascino e orrore al medesimo oggetto narrativo è un meccanismo che può essere
individuato anche in figure mitologiche del mondo antico greco-romano come la Gorgone, cfr. U. CURI, La forza
dello sguardo, Bollati Boringhieri, Torino 2004, pp. 68 e sgg. Secondo l'interpretazione psicanalitica freudiana-
lacaniana il fascino dell'orrore è collegato all'esplosione di un elemento perturbante all'interno di una narrazione,
causata a sua volta da una qualche distorsione sopravvenuta nell'inserimento di un individuo all'interno dell'ordine
simbolico. Nel caso de Gli Uccelli (1963) di Alfred Hitchcock, ad esempio, gli ostacoli alla relazione sessuale tra
Mitch e Melania, frapposti dalla madre del primo, provocano la lacerazione dell'ordine simbolico espressa
nell'elemento perturbante del comportamento aggressivo degli uccelli; cfr. S. FREUD, Il perturbante, in Opere 1886-
1921, ed. it. a cura di D. Agozzino, C. Balducci, L. Breccia, et al., Newton Compton, Roma 2010, pp. 2232-2253.
Riprendendo questa posizione Slavoj Žižek interpreta i morti viventi come esempi di «oggetti parziali», di qualcosa
che persiste, che rimane in vita anche in uno stato di morte e che pertanto è indistruttibile. I morti viventi
incarnerebbero quindi quella che Freud chiamava «pulsione di morte». Sull'interpretazione di Žižek cfr. il docu-film
Pervert's guide to cinema (2006) di S. Fiennes presentato dallo stesso filosofo sloveno.
15 La figura dello zombi è un errore categoriale analogo al dualismo cartesiano delle sostanze che a livello
antropologico si riflette nella descrizione dell'essere umano come una macchina complessa abitata da un “fantasma”,
cfr. G. RYLE, The Concept of Mind, tr. it. Lo spirito come comportamento, a cura di F. Rossi-Landi, Einaudi, Torino
1955, pp. 15-20.
9
parola-limite? E prima ancora: cosa significa parola-limite? Quale funzione svolge rispetto alla
definizione dell'ambito concettuale aperto dal problema mente-corpo? Cosa può dirci la storia del
dibattito su questo ambito concettuale?

1.1 Gli zombi di Chalmers: una questione di senso per la filosofia della mente

Partiamo dalle ultime due domande, alle prime due cercherò invece di dare una risposta nella
seconda parte. A mio parere il potenziale concettuale della parola zombi si colloca nella capacità
posseduta dalla rappresentazione cinematografica del morto vivente di insinuare il dubbio in
un'altra rappresentazione, quella familiare e irriflessa che nella psicologia del senso comune
investe la relazione tra mente e corpo. Si tratta quindi di far emergere quelle conoscenze
implicite nel discorso ordinario, relative all'ambito del mentale e legate ad una qualche forma di
dualismo16. Attendersi un certo grado di soggettività da un'altra persona è un atteggiamento che
riflette una particolare aspettativa sulla presenza, in quella persona, di una specifica concezione
della vita interiore consapevole, in una qualche relazione di identità e/o differenza con il suo
comportamento manifesto, con la vita esteriore. Lo sa bene il filosofo della mente David J.
Chalmers, che nella ricerca di una teoria fondamentale della coscienza per le scienze cognitive ha
formulato un argomento sugli zombi, per mezzo del quale ha cercato di fondare da un punto di
vista filosofico una forma di dualismo naturalistico delle proprietà di mente e cervello 17. Nel
tentativo di definire l'ambito concettuale della mente, il filosofo australiano ha fatto riferimento
ad una descrizione della coscienza come il «provare la sensazione di essere coscienti» 18. In base a
questa definizione, uno stato mentale cosciente è tale solo se possiede una sensazione qualitativa
associata all'esperienza “essere coscienti”. Questo ovviamente non esaurisce l'ambito del

16 Questa posizione è in palese contraddizione con la versione standard dell'antropologia cognitiva, focalizzata
sull'ipotesi che il dualismo mente-corpo, in tutte le sue varianti, sia un caratteristico errore categoriale applicato dai
saperi occidentali nell'interpretazione di numerosi fenomeni, alla stregua di un tratto culturale universale. Le
differenze culturali presentano in realtà un quadro molto più complesso di quello raffigurato in questa
contrapposizione, come nel caso dei Vezo del Madagascar, cfr. P. PERCONTI, Coscienza, il Mulino, Bologna 2011, pp.
35-42 e R. ASTUTI, Siamo tutti naturalmente dualisti? Un approccio cognitivo in Modelli della mente e processi di
pensiero. Il dibattito antropologico contemporaneo, a cura di A. Lutri, Ed.it, Catania 2008, pp. 161-187.
17 D. CHALMERS, The Conscious Mind. In Search of a Fundamental Theory, Oxford University Press 1996, pp. 94-
99 e tr. it. La mente cosciente, a cura di M. Di Francesco, McGraw-Hill, Milano 1999, pp. 96-101.
18 Con questa espressione Chalmers richiama il celebre esperimento mentale di Thomas Nagel sull'impossibilità di
sapere cosa si prova ad essere dei pipistrelli, con il quale l'autore oppone alla pretesa di esaustività delle spiegazioni
funzionaliste del mentale il carattere irriducibilmente soggettivo dell'esperienza cosciente. Cfr. T. NAGEL, What Is It
Like to Be a Bat?, tr. it. di G.Longo, in L'io della mente. Fantasie e riflessioni sul sé e sull'anima, a cura di D.R.
Hofstadter e D.C. Dennett, Adelphi, Milano1985, pp. 379-391.
10
mentale, che non è solo ed esclusivamente provare la sensazione dell'esperienza conscia. Le
esperienze sensoriali, il provare dolore e l'esperienza del senso del sé sono fenomeni della mente
qualitativamente differenti da ciò che intendiamo quando parliamo di stato di veglia,
introspezione, autocoscienza e conoscenza. Riprendendo le considerazioni di Ned Block 19,
Chalmers ha distinto tra un concetto fenomenico di mente, corrispondente all'esperienza
cosciente, e un concetto psicologico in cui gli stati mentali svolgono la funzione di base causale o
esplicativa del comportamento osservabile. Queste due concettualizzazioni del mentale non sono
contrapposte e co-occorrono nella spiegazione di fenomeni legati alla vita cosciente. Ad esempio,
l'apparato concettuale relativo all'esperienza del dolore viene utilizzato per connotare tanto un
aspetto fenomenico della coscienza, soggettivo e privato, quanto il tipo di stato mentale prodotto
quando un organismo subisce un danno, e che produce a sua volta reazioni di malessere
osservabili. Ma le proprietà fenomeniche della mente, la vita cosciente in senso stretto, non sono
per Chalmers riducibili alle proprietà psicologiche e viceversa. Lo stato mentale relativo al mal
di denti può essere descritto attraverso le reazioni psicologiche che lo determinano, ma questa
descrizione fallisce laddove pretende di essere esaustiva e definitiva rispetto all'esperienza del
mio mal di denti. Il dolore causatomi dal mal di denti presenta un aspetto fenomenico che non
può essere affrontato e risolto esclusivamente nel suo ruolo funzionale, nel segnale di
avvertimento che il mio organismo ha subito un danno. Se il programma di ricerca sviluppato da
psicologia cognitiva, filosofia della mente, antropologia cognitiva, linguistica e neuroscienze ha
cercato di fornire risposte ai rompicapo posti dalla concetto psicologico di mente, al ruolo
funzionale delle proprietà psicologiche, la stessa cosa non è avvenuta con il concetto
fenomenico. In altre parole il programma di ricerca delle scienze cognitive cerca di mettere capo
alla questione neuroscientifica di come e perché un sistema fisico possieda determinate proprietà
psicologiche. Tuttavia, Chalmers sostiene che la riduzione del mentale al solo ambito funzionale
lascia inevaso un problema ancor più originario e difficile (hard problem): come può un sistema
fisico dare origine a un'esperienza cosciente? Detto altrimenti, rimane da comprendere il perché
e il come le proprietà psicologiche di un sistema fisico - descritte e spiegate dall'approccio
funzionalista delle scienze cognitive - possano essere accompagnate da qualità fenomeniche. Per
Chalmers l'irriducibilità della coscienza fenomenica alla coscienza psicologica (e viceversa)
esclude l'ipotesi della sopravvenienza, almeno logica, della prima da qualsiasi tipo di sistema

19 Cfr. N. BLOCK, On a Confusion about a Function of Consciousness, in The Nature of Consciousness.


Philosophical Debates, a cura di N.Block, O.Flanagan e G.Güzeledere, MIT, Cambridge 1997, pp. 375-415. Block
individua una confusione metodologica nell'identificazione della coscienza in senso stretto con la consapevolezza,
da lui definita «coscienza d'accesso». Solo la coscienza d'accesso, riconducibile all'accesso privilegiato del soggetto
ad alcune informazioni che possono essere utilizzate per controllare il comportamento, può essere naturalizzato.
11
fisico20. Questa conclusione viene sostenuta attraverso un argomento a priori sulla concepibilità
(possibilità logica) degli zombi 21.
Ipotizziamo che io abbia, in un mondo fisicamente identico al nostro, un gemello zombi
(qualcuno o qualcosa fisicamente identico a me) ma completamente privo di esperienze consce.
In un mondo regolato dalle stesse leggi fisiche del nostro esisterebbe allora un mio replicante che
è cosciente in senso psicologico (padroneggia stati funzionali come la veglia) ma non lo è in
senso fenomenico. Mentre sto scrivendo e guardo fuori dalla finestra ciascuna delle esperienze
interne associate a queste operazioni è accompagnata da un'esperienza conscia autentica. Il
soffermarmi con lo sguardo su un passante o su una nuvola ha per me un particolare “sapore”,
irriducibilmente soggettivo. Nel caso del mio gemello zombi, invece, scrivere e guardare fuori
dalla finestra, indugiare con lo sguardo su un passante o su una nuvola, assaporare una fetta di
torta, determina un'esperienza interna priva di un risvolto cosciente autentico. L'argomento di
Chalmers ha dunque questa forma: se un mio gemello zombi in un mondo identico al nostro è
logicamente possibile allora la sopravvenienza delle proprietà fenomeniche da un sistema fisico
non è logicamente concepibile. Ma il mio gemello zombi è una possibilità coerente, posso
pensare senza contraddizioni a realizzazioni non standard della organizzazione funzionale della
mia mente. Quindi la mia coscienza fenomenica – l'insieme delle proprietà fenomeniche della
mia mente – non sopravviene, almeno dal punto di vista logico, dal mio sistema fisico,
dall'organizzazione funzionale del mio cervello.
Si noti innanzitutto che gli zombi dell'argomento di Chalmers sono zombi fenomenici, cioè
replicanti fisicamente e funzionalmente identici a noi, ma inconsci. Da questa prospettiva gli
zombi fenomenici sono esseri diversi, almeno in linea di principio, dagli zombi hollywoodiani:

Questo tipo di zombie è molto diverso dagli zombie dei film di Hollywood, che tendono ad
avere significativi danni funzionali. La coscienza di cui gli zombie di Hollywood sono

20 La sopravvenienza del mentale sul fisico è quella proprietà del mentale stesso per cui, se due cervelli si
trovassero in due stati fisici perfettamente identici, anche gli stati mentali su di essi implementati non potrebbero
essere diversi. Il concetto è stato definito con particolare accuratezza nell'ambito del materialismo non riduzionista
da J. KIM, Supervenience and mind. Selected philosophical essays, Cambridge University Press 1993. Si veda in
particolare il capitolo 4, Concepts of supervenience, pp. 53-78.
21 L'esposizione di un argomento sugli zombi in una prospettiva antiriduzionista è già presente in R. KIRK, Zombies
v. Materialists, in «Proceedings of the Aristotelian Society», Supplementary volumes, n. 48 (1974), pp. 135-163.
Secondo Kirk ammettere che sia possibile una nostra copia fisica zombi per la quale non valgono le definizioni non-
relazionali che ci vengono attribuite – tutte quelle descrizioni di un oggetto x l'applicazione delle quali è logicamente
indipendente da tutto ciò che non è x o parte costituente di x - significa ammettere che non siamo oggetti della realtà
descrivibili in termini completamente fisici. L'argomento di Kirk è molto simile a quello di Chalmers ma è calibrato
su un lessico anti-fisicalista un po' datato e decisamente privo di interesse didattico.
12
ovviamente privi è di genere psicologico: generalmente hanno scarsa capacità introspettiva e
non hanno una raffinata capacità di controllo volontario del comportamento. 22

Rispetto agli zombi dei film horror, dai quali siamo strutturalmente e visibilmente diversi, gli
zombi di Chalmers riproducono la nostra stessa organizzazione funzionale. La loro struttura
causale incorporata nei meccanismi responsabili del comportamento è identica alla nostra. Ma
non hanno la nostra stessa capacità di vivere ogni stato mentale con un “sapore” che lo distingue
dagli altri, con un marchio che ce lo fa apparire come nostro. Chalmers difende quindi una
prospettiva sulla mente di tipo emergentista: la coscienza fenomenica è un effetto emergente di
una macchina biologica estremamente complessa, ma la possibilità logica dello zombi ne mette
in luce l'irriducibilità ai suoi aspetti funzionali e con ciò l'indipendenza ontologica dall'attività
cerebrale che la genera.
Sebbene ritenga che gli zombi di Chalmers abbiano in comune con i loro omonimi
cinematografici molto più di quel che il filosofo attribuisce loro, e che l'argomento abbia diversi
punti deboli23, quel che mi preme sottolineare in questa sede è la fecondità argomentativa legata
ad un'immagine così strana. Lo zombi ripropone in una forma estraniante il dualismo mentale-
fisico, implicito nel discorso ordinario, e quello psicologico-fenomenico interno al discorso della
filosofia della mente. Destabilizza ogni concezione lineare della relazione tra vita interiore
consapevole e comportamento manifesto. Una prima caratterizzazione del potenziale concettuale
della parola zombi deve mettere in conto questa capacità di far diventare improvvisamente strano
e distante il nostro modo abituale di parlare della mente, di far diventare straniera una condizione
di sfondo del nostro discorso ordinario su cose come la consapevolezza di uno stato interno.
Indipendentemente dalla solidità filosofica del dualismo naturalistico delle proprietà credo che il
nocciolo della questione sia nel significato, diverso o analogo a quello ordinario, che filosofi
della mente come Chalmers attribuiscono alla parola “coscienza”. Gli zombi irrompono nel
quadro problematico-concettuale sortendo su questo significato un effetto estraniante, e ciò può
essere documentato anche per quanto riguarda quei filosofi della mente su posizioni alternative e
critiche rispetto a quella di Chalmers. Come nel caso dei sostenitori del naturalismo materialista,
per i quali tanto la coscienza psicologica o funzionale, quanto quella fenomenica, sono
riconducibili ad una qualche attività del cervello. I materialisti attaccano quelle che sembrano
essere le due premesse implicite nell'argomento di Chalmers. Ammesso che gli zombi siano

22 D. CHALMERS, op. cit., tr. it., p. 97.


23 Uno su tutti: il passaggio dalla concepibilità psicologica di qualcosa alla sua possibilità logica non è così pacifico
come vorrebbe Chalmers. Su questo punto anche un antiriduzionista come Nagel esprime alcune perplessità, cfr. T.
NAGEL, Conceiving the Impossible and the Mind-Body Problem, «Philosophy», vol. 73, n. 285 (1998), pp. 337-352.
13
logicamente possibili, perché l'argomento funzioni è necessario che:

a) devono essere indistinguibili da noi dal punto di vista fisico (e quindi anche funzionale e
comportamentale);
b) devono potere essere del tutto privi di coscienza fenomenica.

Ora, per la critica materialista l'affermazione di una delle due premesse implicherebbe la
negazione dell'altra e viceversa. Daniel Dennett ha sostenuto che la differenza reale argomentata
da Chalmers tra una persona cosciente e uno zombi fenomenico è un'intuizione priva di
fondamento, un'Impressione Zombica (Zombic Hunch)24. Per la premessa (a) il comportamento
degli zombi è indistinguibile da quello degli esseri umani, perciò se provassi a chiedere ad uno
zombi - “sei un essere dotato di coscienza?”- questi dovrebbe rispondere affermativamente. Ma,
continua Dennett, poiché l'esser coscienti equivale ad avere la disposizione comportamentale a
rispondere in quel modo a quella domanda, allora lo zombi è ipso facto cosciente. Quindi la
premessa (b) è falsa. L'obiezione di Dennett rifiuta in partenza la distinzione tra coscienza
fenomenica e coscienza funzionale, relegando la prima al ruolo di pregiudizio infondato del
discorso ordinario. Per il filosofo statunitense, infatti, la coscienza o è completamente
descrivibile in termini funzionalistici minimi 25, come funzione emergente di un sistema fisico
complesso, oppure è sofisticheria. Il tallone d'Achille in questa posizione è che se applicassimo al
problema della coscienza esclusivamente criteri epistemici di terza persona allora obtorto collo
dovremmo assumere la conclusione paradossale che gli zombi sono coscienti. Quindi, piuttosto
che farsi carico di questo paradosso fino alle sue estreme conseguenze, Dennett preferisce
rifiutarlo in blocco come il frutto di un'illusione, come un storiella infantile che non si confà alla
serietà della scienza e alla descrizione del mondo funzionalista. Preferisce non fidarsi dei concetti
di mente e di coscienza solo perché sono il retaggio di una dubbia tradizione, impastata di
filosofia e religione.

24 Cfr. D. DENNETT, Sweet Dreams. Illusioni filosofiche sulla coscienza, tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano
2006, pp. 1-21.
25 Dennett individua nel funzionalismo il quadro di riferimento descrittivo unificato della realtà a partire
dall'efficacia che esso ha nella spiegazione scientifica, cfr. Ibid., p. 15: «Il funzionalismo, nella sua accezione più
ampia, è così onnipresente nella scienza da poter essere considerato presupposto imperante di tutte le discipline
scientifiche. Poiché la scienza è alla continua ricerca di semplificazioni, della massima generalità raggiungibile, il
funzionalismo ha di fatto, un'inclinazione verso il minimalismo, ovvero verso l'idea che le cose che contano siano
meno di quanto si sarebbe potuto pensare». Questo argomento è soggetto ad una forma di circolarità viziosa perché
Dennett ricorre alla pregnanza del funzionalismo nell'ambito delle scienze cognitive allo scopo di fondare
l'importanza della nozione di coscienza funzionale.
14
Secondo Sandro Nannini l'obiezione di Dennett verrebbe rafforzata se partissimo dalla verità
della seconda premessa per dimostrare la necessaria falsità della prima: «se è vero che gli zombi
non sono coscienti come afferma (b), allora è davvero plausibile sostenere, come afferma (a), che
è logicamente possibile che essi siano nondimeno identici agli esseri umani dal punto di vista
fisico?»26. Ammettere che gli zombi non siano coscienti esclude necessariamente la premessa che
li vuole a noi identici, quindi l'argomento di Chalmers non funziona. Anzi, e in questo Nannini si
spinge più in là di Dennett, l'argomento sarebbe viziato da una forma di circolarità in cui è
presupposto il concetto di coscienza che si vuole dimostrare. La coscienza fenomenica che il
filosofo australiano vorrebbe salvare dalla riduzione materialista, sebbene emerga da un sistema
fisico, non è una proprietà fisica. Pertanto sarebbe logicamente possibile immaginare che essa sia
assente anche quando la sua base fisica sia viceversa presente. Ma la possibilità di tale
separazione coscienza/base fisica era quanto l'argomento degli zombi pretendeva di dimostrare 27.
Si noti che anche questa contro-argomentazione va incontro a delle obiezioni puntuali. Ad
esempio, utilizzando la premessa (b) per dedurre la falsità della premessa (a) Nannini, come
Dennett, si rifà ad un significato di “coscienza” che esclude quello di “coscienza fenomenica”, in
quanto circolare. E questa mossa viene a sua volta fondata su una presa di posizione definita e
non argomentata sulla natura della coscienza, sul fatto che non è possibile distinguere negli altri
per via empirica la presenza di uno stato mentale cosciente dalla sola presenza della disposizione
a comportarsi in un certo modo. Lo stato di avanzamento del programma di ricerca delle scienze
cognitive non ce lo permette. Quindi, anche un materialista determinato come Nannini obietta
all'argomento dello zombi contrapponendo alla nozione di coscienza fenomenica una concezione
della coscienza radicalmente alternativa, fondata su una serie di presupposti che affondano nel
dibattito e nei problemi aperti dal comportamentismo logico. Se accettassimo a priori questa
concezione della coscienza la sua critica all'argomento di Chalmers diverrebbe inattaccabile,
almeno da un punto di vista logico-argomentativo. Ma questo sarebbe concedere ai materialisti
tutto quello che loro vorrebbero negare a Chalmers. Detto di passaggio, i naturalisti materialisti
sembrano voler dire che se Chalmers avesse concepito i suoi zombi più somiglianti a quelli del
cinema, come esseri del tutto sprovvisti di coscienza fenomenica e con gravi danni a quella
funzionale ma in qualche misura senzienti, allora questi sarebbero stati logicamente concepibili 28.

26 S. NANNINI, Naturalismo cognitivo. Per una teoria materialistica della mente, Quodlibet, Macerata 2007, p. 36.
27 Ibid., p. 37.
28 Cfr. Ivi: « Se, al contrario, si prende sul serio l'ipotesi che la coscienza umana sia il prodotto della combinazione
di più fenomeni mentali (memoria, self, ecc.) con la “coscienza allo stato puro” e che quest'ultima sia identica ad
una certa dinamica del cervello (chiamiamola D), allora la differenza tra uno zombi ed un essere umano diviene
chiaramente concepibile, anche laddove accertarla per via empirica in terza persona, sebbene possibile in linea di
principio, sia in pratica molto difficile: il cervello umano possiede la proprietà D, quello dello degli zombi no; [...]».
15
Sembra quasi che l'ipotesi dello zombi riesca a farsi sempre un po' di spazio, divorando
voracemente ciò che lo occupava prima.
Certo, potremmo mettere da parte l'argomento di Chalmers e accettare la prospettiva della
naturalizzazione della coscienza. Sembra infatti che le scienze cognitive permettano di guardare
ad alcuni concetti – quello di io, di coscienza e di intenzionalità – ricondotti in passato ad un
unico fenomeno convergente, la mente, come a fenomeni distinti implementati da processi
cerebrali differenti. Tuttavia, ciò non andrebbe minimamente ad intaccare l'inquietudine filosofica
da cui nascono ipotesi come quella dello zombi. C'è qualcosa di insensato nella rappresentazione
macabra di morti viventi sprovvisti di ciò che ordinariamente chiamiamo coscienza, qualcosa che
ci porta a nutrire una profonda insoddisfazione tanto per la nostra posizione di partenza (la
nozione di coscienza implicita nel discorso ordinario), quanto per la spiegazione scientifica 29.
Nei tentativi del programma di ricerca neuroscientifico di inglobare la mente in una spiegazione
unificata percepiamo l'esistenza di una vera e propria “lacuna esplicativa” (explanatory gap)30,
che Chalmers ha cercato di esprimere avventandosi contro i limiti della concepibilità logica,
attraverso l'ipotesi dello zombi. La lacuna non interesserebbe la relazione tra coscienza e natura
fisica, bensì il rapporto tra i nostri concetti della natura fisica e i nostri concetti di mente,
coscienza e io; sarebbe una lacuna al contempo epistemologica e concettuale 31. Questo vuol dire
che chiunque voglia dimostrare l'inconsistenza dell'impossibilità logica di ridurre la mente a
processi cerebrali, espressa dall'argomento dello zombi, non può semplicemente tacciarla di
pseudoscientificità ma deve affrontarla su un piano che è allo stesso tempo storico e concettuale.

1.2 Fenomenologia dello zombi di Romero (e non solo)

Prima di passare all'esposizione del modo in cui la storia della filosofia può aiutarci a chiarire la
questione di senso sollevata dagli zombi, sarà utile compiere una breve digressione
29 Mi pare ci sia una relazione fra i meccanismi di consumo di massa di prodotti cinematografici horror (con
protagonisti gli zombi) e la sensazione che le risposte delle scienze cognitive sulla natura della mente- l'immagine
dell'essere umano nell'era della svolta cognitiva - non soddisfino l'attrazione/repulsione per le inquietudini
filosofiche implicite nello zombi. Se m'è concesso, si tratta di un rilievo di matrice wittgensteiniana, cfr. L.
WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus, tr. it. di A. G. Conte, Einaudi, Torino 1998, p. 108, 6.52: «Noi
sentiamo che, persino nell'ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi
vitali non sono ancora neppure sfiorati. Certo, allora non resta più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta».
30 L'espressione “lacuna esplicativa” per connotare la resistenza della coscienza fenomenica ai tentativi di riduzione
al sistema fisico da cui emerge è stata introdotta da J. LEVINE, Materialism and Qualia: the Explanatory Gap,
«Pacific Philosophical Quarterly», n. 64 (1983), pp. 354-361.
31 Una prospettiva di questo tipo sulla coscienza è stata sostenuta recentemente da G. VARNIER, Autocoscienza e
Linguagggio I: Naturalismo Cognitivo senza Riduzionismo, prossima pubblicazione novembre 2012.
16
cinematografica, per mettere in chiaro come tale questione di senso si situi nel nostro
immaginario. Nel paragrafo precedente ho espresso alcune riserve sull'affermazione di Chalmers
secondo il quale gli zombi del suo argomento sarebbero palesemente diversi dagli zombi dei film
di Hollywood. In questo paragrafo motiverò le mie riserve gettando uno sguardo da appassionato
del genere sui primi tre zombie movie di George Andrew Romero.
In La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1968) compaiono per la prima volta
sugli schermi cinematografici i mostri noti come morti viventi: sono individui umani morti che
per un qualche inspiegabile motivo – forse una radiazione proveniente dal pianeta Venere – si
sono risvegliati. Ma questa “seconda vita” non ha i tratti evangelici della vita dopo la morte, si
tratta piuttosto di uno stato di semi-coscienza in cui la decomposizione fisica rallenta (ma non si
arresta) e in virtù della quale i morti viventi sono spinti da una pulsione irrefrenabile a cibarsi di
carne viva (umana e non). I protagonisti di questo film sono esseri umani che fronteggiano
l'avanzata dei morti viventi barricandosi in un casolare di campagna, creando una scissione tra
un interno-casa-umano e un esterno-strade-zombi, cercando inutilmente di capire cosa sta
succedendo con la gente morta. La caratteristica fenomenica dei morti viventi che faticano di più
a comprendere è la combinazione tra gli schemi senso-motori alterati (deambulazione faticosa,
movimenti rallentati, sguardo vuoto) segni di danni cerebrali permanenti e la ripetizione
meccanica della voracità nei confronti della carne. Si tratta di una vera e propria coazione a
ripetere tipica degli automi: di fronte a un essere vivente gli zombi di Romero sembrano non
avere alcun danno alle funzioni della coscienza d'accesso, perché si gettano con barlumi di
consapevolezza lucida e feroce sulla propria vittima32. In Zombi (The Dawn of the Dead, 1979)
la coazione a ripetere dei morti viventi sembra acquisire nuove caratteristiche: barricati questa
volta in un centro commerciale, i protagonisti umani del film vedono gli zombi ripetere
all'interno degli esercizi commerciali gli stessi gesti meccanici con i quali da vivi (in senso
pieno) soddisfacevano la loro ansia di consumo. I morti viventi sembrano adesso dotati della
capacità di comprendere le finalità di utilizzo di strumenti elementari, ma soprattutto sembrano
essere ancora animati dal culto feticistico delle merci che li caratterizzava in vita. Un ulteriore
elemento, a questa breve fenomenologia cinematografica dello zombi, può essere tratto dalla
serie tv – arrivata alla terza stagione e tuttora in corso – The Walking Dead. Nella realtà
apocalittica di questa serie, lo sceriffo Rick Grimes e la sua famiglia devono vedersela con una
32 La coazione a ripetere dello zombi si traduce in un potenziamento del suo corpo, condannato ad un infinito
processo di putrefazione che lo pone al di là dei limiti biologici umani. Nell'espressione di questi automatismi lo
zombi si presenta come una variante della nozione di postumano, dal momento che la sua comparsa in scena tende a
spezzare le antinomie attraverso cui viene descritta la condizione umana: umano/non-umano, natura/cultura,
animato/inanimato, uomo/donna; cfr. J. CLARKE, The Paradox of the Posthuman. Science Fiction/Techno-Horror
Films and Visual Media, VDM, Saarbrücken 2009.
17
massa di morti viventi che oltre alla coazione a sbranare la carne umana sono sottoposti alla
pulsione a camminare (per questo i protagonisti li battezzano “walkers”). Quando si trovano in
un luogo in cui finisce il “cibo”, i walkers iniziano a spostarsi radunandosi in mandrie.
Nell'episodio 6 della prima stagione (TS-19, 2010) i protagonisti della serie, perennemente in
fuga, giungono in un grande centro di ricerca scientifica degli Stati Uniti. Qui il medico Edwin
Jenner, che ha condotto degli esperimenti sulla moglie morta durante il processo di
trasformazione in walker, spiega loro che l'infezione si manifesta nel “risveglio” del solo tronco
encefalico, quella parte del cervello che fra le tante funzioni controlla (attraverso motoneuroni e
interneuroni) i riflessi, i movimenti delle viscere, i centri che regolano il respiro e la circolazione
sanguigna. In forza di ciò, secondo il fantomatico dottor Jenner, i morti si risveglierebbero
conservando della loro vita soltanto l'istinto primordiale a sfamarsi. Questo approfondimento
della “psicologia zombica” è presente anche nel terzo zombie movie di Romero. In Il giorno
degli zombi (The Day of the Dead, 1986) un neuroscienziato che insieme ad alcuni militari e ad
altri ricercatori si è rifugiato in un bunker sotterraneo, fa catturare gli zombi per eseguire sul loro
cervello macabri esperimenti. Ad esempio, separa l'apparato digerente di un morto vivente dalle
terminazioni nervose attraverso cui opera il tronco encefalico e scopre che gli organi continuano
a vivere, esprimendo la stessa implacabile pulsione a fagocitare qualsiasi cosa viva. Tra i tanti
esperimenti il folle neuroscienziato riesce ad addomesticare un morto vivente e lo chiama Bub.
Bub è un manifesto “vivente” del comportamentismo logico: grazie ad un regime di severi
stimoli pavloviani impara a non aggredire gli esseri umani che gli stanno intorno e ri-impara ad
utilizzare utensili di tipo complesso e articolato (telefoni, rasoi, pistole) che aveva usato in vita.
In altre parole lo zombi Bub sembra esprimere certe funzioni appartenenti a quella che Chalmers
chiama coscienza funzionale o psicologica. Ciò che invece continua a non esprimere è la
coscienza fenomenica. Cosa lo differenzia allora dagli esseri umani che ha intorno? In che senso
Bub non prova alcuna emozione quando ascolta sul proprio walkman la nona sinfonia di
Beethoven?
Ho illustrato questa rapida carrellata nella galleria degli orrori di Romero ( e non solo), per far
emergere come anche la figura cinematografica del morto vivente possa essere utile a suscitare le
medesime inquietudini, lo stesso scacco da insensatezza riscontrato a proposito dell'argomento di
Chalmers. Nella seconda parte cercherò di chiarire la prospettiva metodologica dalla quale
l'argomento dello zombi si relaziona al concetto di coscienza e a quello di corpo su un piano
storico-problematico.

18
2. Lo zombi come parola-limite. Osservazioni sul metodo

In un mondo dove i morti tornano in


vita, la parola “problema” perde molto
del suo significato
(Kaufman interpretato da Denis
Hopper in La terra dei morti viventi,
2005)

Nella prima parte ho concluso l'importanza della dimensione storico-problematica per la


trattazione del concetto di coscienza, dall'insieme di questioni che l'argomento di Chalmers
solleva nel dibattito attuale. Per far ciò sono partito dall'analisi della parola zombi, e dalla sua
funzione segnalatrice di una “lacuna esplicativa”, di un'assenza, in argomenti che oggi si
ritengono decisivi per una chiarificazione definitiva dei concetti di mente e coscienza. Infine, ho
concluso che il gap segnalato sia un limite dell'orizzonte di senso, e pertanto rimanda allo sfondo
storico e problematico dei concetti in gioco. In altre parole, ho rilevato come la parola zombi,
segnando il confine delle questioni di senso che si sviluppano sull'asse sincronico dei concetti di
mente e coscienza, possa essere la coordinata da cui emerge l'importanza dell'asse diacronico,
della loro stratificazione storico-problematica. Lo zombi segnala l'intersezione tra asse sincronico
e asse diacronico, tra questioni di senso attuali e storia dei concetti. Questa figura inquietante può
esser vista relativamente alla ri-semantizzazione moderna e cartesiana del concetto di coscienza,
come l'origine, come punto zero.
La concezione della coscienza per cui è banale attendersi un certo grado di soggettività da
un'altra persona, legato ad una certa concezione della vita interiore consapevole, è in Occidente il
precipitato storico-culturale di una tradizione varia e stratificata. Detto in maniera lacunosa e
approssimativa, se assumessimo come punto di riferimento storico la centralità che la vita
interiore consapevole gioca nella tradizione cristiana e nella filosofia di Agostino - che della
prima segna in un certo senso le coordinate - allora potremmo individuare nella concezione della
soggettività socratico-platonica la direzione che stavamo cercando. A tale concezione si annoda e
in un certo senso si sovrappone l'immagine bipartita in corpo e anima della persona umana e la
concezione del saggio come colui che è in grado di prendersi cura di sé 33. Questa «cultura di sé»

33 Il quadro storico-concettuale nel quale Platone forgia la propria concezione della soggettività cosciente, ammesso
che ne avesse una, è in realtà ben più complesso della contrapposizione binaria tra soma e psyché, che invece buona
parte delle interpretazioni tradizionali ha dedotto da Gorgia 493 A: «Anche noi in realtà, forse siamo morti e che il
corpo per noi è una tomba, e che questa parte dell'anima in cui si trovano le passioni è tale da cedere alle seduzioni e
da mutare facilmente direzione in su e in giù» (tr. it. di G. Reale, in PLATONE, Tutti gli scritti, p. 902). Basti qui
19
si afferma come correlato filosofico di una morale sessuale e di una serie di pratiche focalizzate
sulla diffidenza nei confronti dei piaceri, sull'autocontrollo, sulla presa di distanza dagli abusi.
Nel lasso di secoli che da Socrate va agli stoici, dal V sec. a.C. al II secolo d.C., la «cura di se
stessi» si rifrange nelle critiche dei primi moralisti cristiani alla società in cui vivevano e nelle
teorie dei medici. Il sé e il lavoro di introspezione che lo fa affiorare in superficie, alla portata di
una tecnologia che in età classica ne plasma il modo di essere, diventa un valore da tutelare e da
contrapporre ad una dimensione meramente esteriore e mondana del vivere 34. Questo groviglio di
temi si confonde nell'Occidente medioevale con un quadro di preoccupazioni che è allo stesso
tempo etico, religioso e psicologico. Anima, persona, coscienza morale diventano - in un
travagliato percorso di reinterpretazione della filosofia greca e delle sue letture arabo-bizantine -
aspetti della relazione unica e plurivoca tra uomo e Dio, tra immanenza e trascendenza. Ed infine,
nello sgretolarsi di questo quadro culturale unitario (la scoperta dell'alterità nel Nuovo
Continente, la frammentazione dell'unità religiosa europea, il dissolversi del paradigma
scientifico aristotelico-tolemaico e la nascita della scienza sperimentale moderna), sorgono tesi
filosofiche che riprendono e innovano il travaglio concettuale della mente e della coscienza. Tra
esse il dualismo cartesiano è una di quelle che ha avuto maggiore influenza sul dibattito
dell'intera modernità e sulla psicologia del senso comune da essa plasmata. Come rileva
giustamente Pietro Perconti:

Il modo più comune di figurarsi le creature umane, almeno nei paesi occidentali moderni,
consiste infatti nel ritenere che il destino di ciascuno di noi sia determinato dalla particolare
alchimia che si realizza tra un corpo manifesto e una mente, o un'anima, che rimane celata dietro
le apparenze.35

accennare al fatto che la nozione platonica di psyché è gravata da esigenze al contempo etico-politiche ed
epistemologiche, e pertanto presenta una complessità irriducibile all'identificazione con una sostanza immateriale
che abita il corpo, cfr. Timeo 69 D-70 E, 73 C-D. Una complessità di carattere analogo investe il campo semantico
della parola anima nella tradizione giudaico-cristiana. Ad esempio, nella Torah la parola nefesh, generalmente
tradotta con “spirito” o “anima” non designa una sostanza immateriale distinta dal corpo ma, secondo il contesto,
una forza materiale di vita interna al corpo o una forza animatrice che appartiene al corpo e che può essere attiva o
estinta; cfr. sull'argomento S. NADLER, L'eresia di Spinoza. L'immortalità e lo spirito ebraico, tr. it. di D. Tarizzo,
Einaudi, Torino 2005, pp. 58-64.
34 La nozione di cultura di sé, utilizzata da Pierre Hadot per individuare il quid della pratica filosofica nel mondo
antico, è ripresa da Foucault per indicare il punto di partenza teorico da cui si può definire la forma storica del
rapporto tra “soggetto” e “verità” in Occidente, nella triangolazione tra manipolazione dei corpi, strutture del potere
e controllo della sessualità; cfr. P. HADOT, op. cit. e M. FOUCAULT, La cura di sé. Storia della sessualità 3, tr. it. di L.
Guarino, Feltrinelli, Milano 1985, pp. 43-71.
35 P. PERCONTI, op. cit., p.65. Il dualismo non è l'unica tesi filosofica cartesiana ad aver contribuito alla
20
Con l'universo di senso dischiuso dai lemmi del dibattito su mente e corpo presente nelle
Meditazioni metafisiche, il percorso storico-concettuale cui dobbiamo guardare prende la strada
di casa. Nelle conclusioni sostenute tra XVII e XVIII secolo tutto ci appare connotato da
sembianze alle quali siamo abituati, le parole mente, coscienza e corpo risuonano su una
frequenza a noi nota, facilmente comprensibile. Detto altrimenti, per rispondere all'inquietante
incedere degli zombi è indispensabile indagare la storia dei concetti con i quali presumiamo di
marcare differenze essenziali tra mente e natura fisica: bisogna guardare alla storia della filosofia
e ai luoghi in cui sorge il dibattito moderno sui concetti di mente e corpo, sui modi in cui si
realizza la loro connessione, sulle prospettive metafisiche ad essi correlate.
Interrogandosi su cosa significhi scrivere storicamente sulla filosofia, Bernard Williams
distingue tra l'approccio della “storia delle idee” e quello della “storia della filosofia”. Se la
prima guarda al contesto delle idee di un filosofo al fine di capire il senso delle sue asserzioni in
quella situazione storica contingente, la seconda pone in relazione quelle asserzioni con i
problemi filosofici attuali. Il prodotto della “storia delle idee” è quindi il tentativo di una
riproduzione del significato delle concezioni storico-culturali sul proprio asse sincronico. Non ci
dice niente sui nostri problemi attuali, non elabora conclusioni di carattere filosofico. Al
contrario, la “storia della filosofia” ci aiuta a sfruttare le idee del passato per comprendere le
nostre, cercando di far emergere la serie dei fraintendimenti che inevitabilmente accompagnano
l'applicazione di concetti elaborati in un quadro storico del passato al quadro problematico-
concettuale attuale. Secondo Williams la storia della filosofia – liberando questi fraintendimenti
– esprime l'esortazione nietzscheana a «operare contro il tempo» 36. La forza della storia della
filosofia risiede quindi nella propria inattualità rispetto a quanto dei nostri problemi ci sta
davanti, nella capacità di far emergere la contingenza dei concetti del passato e con essa la
relatività storica di quelli attuali:

configurazione, nella modernità, del concetto di coscienza. Foucault, ad esempio, ha individuato nel «momento
cartesiano» una svolta epistemologica nella storia del concetto di verità, in cui la direzione del rapporto tra “verità” e
“soggetto” si inverte: è la prima adesso ad essere definita a partire dal secondo, cfr. M. FOUCAULT, L'ermeneutica del
soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982), edizione stabilita da F. Gros, tr. it. di M. Bertani, Feltrinelli,
Milano 2003, pp.16 e 23-27.
36 Cfr. F. NIETZSCHE, Considerazioni inattuali, II: sull'utilità e il danno della storia per la vita, tr. it. di S.
Giammetta, Adelphi, Milano 1973, Prefazione, pp. 4-5: «Ma questo devo potermelo concedere già per professione,
come filologo classico: non saprei infatti che senso avrebbe mai la filologia classica nel nostro tempo, se non quello
di agire in esso in modo inattuale – ossia contro il tempo, e in tal modo sul tempo e, speriamolo, a favore di un
tempo venturo». Sulla nozione di inattuale e sulla polemica antistoricista di Nietzsche cfr. E. MAZZARELLA,
Nietzsche e la storia. Storicità e ontologia della vita, Guida, Napoli, 2000, pp. 37-48.
21
Per giustificare la propria esistenza essa deve mantenere una distanza storica dal presente, e
deve farlo in termini tali che corroborino la sua identità come filosofia. Appunto in questa
misura essa può essere utile, perché […] può aiutarci a sfruttare le idee del passato al fine di
comprendere le nostre. […] Un modo in cui la storia della filosofia può servire a questo scopo è
quello fondamentale di far parere strano il familiare e viceversa, ma occorre imparare come
farlo al meglio. 37

Lo scopo della storia della filosofia, secondo Williams, è quello di guadagnare un punto di vista
inattuale sul testo filosofico, di mettere in questione la sua appartenenza ad una tradizione
consolidata e ipostatizzata, facendo apparire strano il familiare e viceversa. L'inquietudine
filosofica generata dallo zombi, la “lacuna esplicativa” che ci costringe a saltare o ad aggirare, va
proprio in questa direzione.
Nell'evocare l'analisi diacronica del contenuto semantico di un concetto non si può non fare
riferimento all'ambito della Begriffsgeschichte di Reinhardt Koselleck. In Storia dei concetti e
storia sociale lo storico tedesco collega la delucidazione semantica dei concetti politico-sociali
alla dinamica di interpretazione e comprensione degli avvenimenti storici 38. Si tratta di seguire il
contenuto semantico della parola di un concetto storico-politico, dapprima nel proprio contesto e
poi attraverso la successione dei tempi, collegando tra loro i significati che la parola acquisisce
con rigore storico-filologico. In questo modo i concetti emersi da un determinato contesto
politico e culturale vengono colti nel loro sviluppo linguistico, ed esplicitano l'intersezione a
livello antropologico tra lo spazio di esperienza e l'orizzonte di aspettativa del tempo espressa
dalle parole. L'obiettivo è quello di evitare che l'analisi semantica si limiti a fissare sull'asse
sincornico il significato del concetto storico-politico preso in esame, estraendone e
ipostatizzando una Bedeutung metastorica, una struttura39. Si tratta piuttosto di esercitare la
chiarificazione semantica dei termini che rimandano ad ambiti concettuali interessanti per lo
storico, in una prospettiva dialogica ed esplicativa rispetto alle parole e ai concetti attuali;
riportando lo sguardo diacronico al presente la storia dei concetti :
37 B. WILLIAMS, Descartes e la storiografia filosofica, in Il senso del passato. Scritti di storia della filosofia, tr. it. di
C. De Marchi, Feltrinelli, Milano 2009, p. 281.
38 L'accostamento Williams-Koselleck per definire l'ambito d'azione di una didattica per parole è stato già evocato
da A. GAIANI, op. cit., pp. 115-123. Il saggio sulla Begriffsgeschichte citato è in R. KOSELLECK, Futuro passato. Per
una semantica dei tempi storici, tr. it. di A. Marietti Solmi, Marietti, Genova 1986.
39 Sulla relazione tra evento e struttura, e sul confronto tra i due livelli temporali con i quali si costruisce una
rappresentazione storiografica, quello della narrazione di un avvenimento e quello della descrizione delle
determinazioni funzionali superindividuali e intersoggettive cfr. R. KOSELLECK, La storia sociale moderna e i tempi
storici, in La teoria della storiografia oggi, a cura di P. Rossi, Il Saggiatore, Milano 1983, pp. 141-158.
22
[...] deve osservare la prescrizione di tradurre i significati passati delle parole nel loro senso
attuale. Ogni storia di parole o di concetti va da un accertamento di significati passati ad una
definizione di questi significati per noi. Questo procedimento si riflette nella metodologia della
storia concettuale, sicché l'analisi sincronica del passato viene integrata diacronicamente. È un
imperativo metodologico del procedimento diacronico ridefinire scientificamente, per noi, i
significati delle parole registrati in passato. 40

Si tratta allora di scegliere con quali concetti tagliare il continuum semantico dei significati, la
storia linguistica. Questa scelta comporta una riflessione sul modo in cui solo alcune parole
assumono una dimensione concettuale. Ora, secondo Koselleck tra concetti e parole esiste una
relazione univoca: ogni concetto è legato a una parola, ma non tutte le parole sono legate a
concetti. Il motivo è che mentre tutte le parole possiedono un'intrinseca plurivocità semantica –
una gamma di usi legati a situazioni storiche contingenti – solo le parole che designano i concetti
associano a questa plurivocità una «pretesa concreta di universalità» 41. Ad ogni modo, questa
universalità delle parole concettuali, non si riduce mai ad un'unità semantica semplice, alla
denotazione di un'essenza metastorica, ma assume sempre un certo grado di problematicità. I
concetti hanno qualcosa in più rispetto alle parole: sebbene abbiano una presa epistemica
sull'asse diacronico, sono strumenti che individuano qualcosa riuscendo allo stesso tempo a non
esaurire nella definizione la propria potenzialità espressiva.
Anche se la storia dei concetti si limita all'ambito politico-sociale, la sua portata metodologica
può essere estesa ai concetti dell'ambito teoretico-epsitemologico, come quello di coscienza.
Nella prima parte ho messo in luce come gli zombi di Chalmers spingano lo sguardo dello
storico della filosofia a rimettere in movimento, sull'asse diacronico, la «pretesa concreta di
universalità» nella definizione della relazione diretta tra mente e sistema fisico, avanzata dal
nostro concetto di coscienza. Lo zombi è un limite del nostro modo di pensare determinati
problemi che ci spinge a interrogarci su come ce li siamo creati.
A questo punto è opportuno approfondire cosa intenda quando affermo che una parola – in
questo caso la parola zombi - marca il limite dell'orizzonte di senso di un concetto. Fare la storia
dei concetti, e con ciò scegliere alcune parole piuttosto che altre, vuol dire riflettere su queste
parole per individuare il momento in cui diventano elementi di chiusura dei possibili orizzonti di
trasformazione, di de-finizione di un confine. La parola zombi segnala che c'è un momento nella
storia della filosofia, tra XVII e XVIII secolo, in cui il concetto di coscienza definisce lo steccato
delle questioni di senso ad esso inerenti. Si sanzionano si e rendono visibili le differenze tra il
40 R. KOSELLECK , Storia dei concetti e storia sociale, in op. cit., p. 98.
41 Ibid., p. 101.
23
concetto di coscienza e quello di corpo, si compie un salto.
Michel Foucault ha intercettato la svolta epistemologica della storia dei concetti, l'enfasi sul
presente catalizzata dall'analisi semantica dei concetti, e ha posto l'accento sul ruolo giocato
dalla discontinuità. Tale nozione si afferma come metodo nel discorso storiografico alla fine del
XIX secolo con la nascita di discipline come la psicanalisi, la linguistica e l'etnologia. E
contemporaneamente preconizza la scomparsa di un modo di fare storia legato all'efficacia
dell'attività sintetica del soggetto, alla proiezione sul passato della continuità ininterrotta della
coscienza. Lo storico si trova adesso ad affrontare l'interpretazione di qualcosa che è lui stesso a
mettere in gioco. La nozione di discontinuità è paradossale:

[…] poiché essa è al tempo stesso strumento e oggetto di ricerca, poiché delimita il campo di
un'analisi di cui è l'effetto; poiché permette di individualizzare i domìni, ma può essere stabilita
soltanto mediante la loro comparazione; poiché essa rompe delle unità soltanto per stabilirne
altre; poiché scandisce delle serie e duplica i livelli; e perché in definitiva, essa non è
semplicemente un concetto presente nel discorso dello storico, ma è quest'ultimo che
segretamente lo presuppone […].42

La centralità delle discontinuità posta e agita dallo storico all'interno del discorso storiografico
neutralizza il continuum irriflesso del soggetto e della verità, il canovaccio mediante cui si
pretende di organizzare in anticipo il discorso che si vuole analizzare. La posta in gioco in questo
spostamento dello sguardo è un modo di fare storia che renda conto dei saperi, dei discorsi, dei
campi d'oggetti senza aver bisogno di riferirsi a un soggetto trascendente (o anche
trascendentale) degli avvenimenti. Questo è possibile grazie ai due postulati metodologici che
Foucault ascrive all'uso delle discontinuità: 1) non è mai possibile individuare nell'ordine del
discorso l'irruzione di un evento effettivo, un inizio o un'origine inamovibili da cui prendere le
mosse; 2) in virtù di ciò ogni discorso manifesto è segretamente legato a un già-detto, che non è
una frase già pronunciata bensì «[...] un “mai-detto”, un discorso senza corpo, una voce
silenziosa come un soffio, una scrittura che è la carità della propria traccia» 43. Quanto al primo
postulato, esso esprime l'esigenza di svincolare il discorso dalla lontana presenza dell'origine, per

42 M. FOUCAULT, Il sapere e la storia. Due risposte sull'epistemologia, tr. it. di M. De Stefanis, Savelli, Perugia
1979, p. 24. Sull'importanza della discontinuità per il metodo delle scienze storico-sociali cfr. anche l'Introduzione a
L'archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura, tr. it. di G. Bogliolo, Rizzoli, Milano 1999,
pp. 5-25.
43 Ibid., p.33. I due postulati della discontinuità possono essere individuati nella loro relazione con le altre regole
del metodo critico-genealogico (rovesciamento, specificità, esteriorità) in M. FOUCAULT, L'ordine del discorso, in Il
discorso, la storia, la verità. Interventi 1969-1984, ed. it. a cura di M. Bertani, Einaudi, Torino 2001, pp. 29-33.
24
restituirgli il proprio carattere di evento. Foucault si rivolge a Nietzsche leggendo una continuità
tematica e lessicale tra la polemica antistorica della Seconda Inattuale (1874) e il concetto
maturo di Genealogia della morale (1887)44. Se nello scritto giovanile la storia critica è rifiutata
in nome della vita e dell'azione, nell'opera della maturità le modalità di questo rifiuto vengono
riprese e messe in atto in una nuova concezione del sapere storico: la genealogia. Lo sguardo
storico del genealogista è uno «sguardo dissociante capace di dissociarsi da lui stesso», in grado
di invertire il rapporto tra l'evento singolare e la continuità ideale (naturale o culturale) in cui il
primo si dipanerebbe. L'evento deve essere inteso come un rapporto di forze sottoposto al «caso
della lotta», mentre lo sguardo storico non deve temere di essere un sapere prospettico vincolato
al luogo dal quale si volge45. Il secondo postulato permette invece di guardare al campo di forze
da cui emerge l'evento, liberi dalla maglia concettuale con cui la continuità ideale definisce e
plasma la verità storica, per fare riaffiorare ciò che in questo lavoro di definizione viene
offuscato, coperto o cancellato. Questo mai-detto, che Foucault fa riaffiorare nell'indagine
genealogica condotta sulla nascita delle istituzioni psichiatriche e carcerarie, sposta lo sguardo
sui rapporti di forza, sugli sviluppi strategici, sulle tattiche astute mediante cui un regime di
potere costruisce la propria peculiare relazione tra soggettività e verità, instaurandosi nel campo
del sapere. Da un lato si tratta di rintracciare nei discorsi il gioco di regole che determinano in
una cultura la comparsa o la scomparsa dei singoli enunciati, la loro persistenza o cancellazione,
l'esistenza paradossale degli eventi, attraverso un approccio che è quello dell'archeologo.
Scavare le stratificazioni, riportare alla luce il sostrato di fossili che conforma il terreno in
superficie, guardare al lungo periodo, indagare l'archivio. Dall'altro lato però nel secondo
postulato si percepisce l'origine pratica del discorso, il suo radicamento in un complesso di
interventi, attività, relazioni, posizioni codificate, intenzionalità in lotta, che gli fanno da sfondo.
E in ciò la genealogia sperimenta l'insormontabilità della dimensione linguistica in cui si esprime
la descrizione degli inizi e degli effetti, di un linguaggio che «[...] esiste ovunque e ci sfugge
44 Cfr. F. NIETZSCHE, Genealogia della morale. Uno scritto polemico, tr. it. di F. Masini, Adelphi, Milano 1984. La
continuità tematica è rintracciata da Foucault a partire dalle parole che Nietzsche utilizza per esprimere l'ambito
concettuale dell'origine. Nello specifico è possibile rilevare due effetti di senso contrapposti tra la parola Ursprung
(Nietzsche la usa in tono polemico per marcare il senso metafisico di origine) e le parole Herkunft ed Entstehung.
Quanto alle ultime due, connotano l'uso genealogico di origine agendo due effetti di senso differenti. La prima si
riferisce all'ambito semantico della provenienza, alla stirpe e all'appartenenza di gruppo, per sottolineare
l'artificialità dell'identità e della coerenza di un evento: risalire la stirpe permette di scorgere la somma di
contingenze, l'insieme di dispersioni che l'evento esprime. La seconda denota invece l'origine come emergenza,
come momento della nascita, come singolarità di un'apparizione, e con ciò si riferisce al campo di forze, al non
luogo dello scontro in cui si verifica l'evento; cfr. M. FOUCAULT, Nietzsche, la genealogia, la storia, in Il discorso, la
verità, la storia, op. cit., pp. 43-53.
45 Cfr. Ibid., pp. 54-55.
25
nella sua stessa sopravvivenza. Sopravvive distogliendo da noi il suo sguardo, il volto inclinato
verso una notte di cui non sappiamo nulla» 46. Perché quell'insieme di pratiche che fanno da
sfondo alla descrizione delle origini e alla stratificazione archeologica degli effetti, non possono
essere mostrate nella loro dimensione originaria se non ricorrendo nuovamente all'unità minima
di funzionamento concreto del linguaggio, al discorso. Con questa tensione paradossale tra
l'esigenza di indagare la struttura formale di un sistema di segni significanti e il mostrarsi di tale
struttura solamente in un insieme eteroclito di unità di funzionamento concreto, come i discorsi,
pare che Foucault si avvicini a ciò che Pierre Hadot, a proposito di Wittgenstein, ha definito un
«uso indicativo del linguaggio»47.
Credo che, riprendendo quanto appena detto sul metodo critico-genealogico di Foucault, si
possa estendere la funzione indicativa di un insieme articolato di discorsi (su mente, coscienza,
corpo) alla figura paradossale dello zombi. Lo zombi soddisfa entrambi i postulati della
discontinuità: da un lato destabilizza ciò che sull'asse sincronico del concetto di coscienza è
l'insieme dei discorsi veri o falsi sulla sua natura, mettendo in gioco un nonsenso che è l'assenza
della coscienza in un sistema fisico umano; dall'altro lo zombi agisce un paradosso, mostra un
mai-detto che è il sottofondo rimosso dal dibattito attuale interno alla filosofia della mente, il
campo di lotte per la definizione delle coordinate semantiche dei concetti di coscienza e corpo
nella fucina filosofica del XVII e XVIII secolo. È in questo senso che la parola zombi si dispiega
intorno alla geografia del concetto occidentale di coscienza come un limite, come un confine.
Nel Tractatus logico-philosophicus Wittgenstein individua il compito della propria filosofia nel

46 M. FOUCAULT, Sui modi di scrivere la storia, in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste. I, 1961-1970.
Follia, scrittura, discorso, ed. it. a cura di J. Revel, Feltrinelli, Milano 1996, p. 164.
47 Cfr. P. HADOT, Riflessioni sui limiti del linguaggio a proposito del Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein,
in Wittgenstein e i limiti del linguaggio, tr. it. di B. Chitussi, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 25-50. Secondo
Hadot, Wittgenstein distinguerebbe, sulla base della distinzione tra sagen (dire) e zeigen (mostrare), almeno quattro
usi del linguaggio: 1) l'uso rappresentativo proprio delle proposizioni sensate, quelle empirico-descrittive delle
scienze; 2) l'uso tautologico, delle proposizioni prive di senso (sinnlöse) di logica e matematica; 3) l'uso non-sensato
attivo in buona parte del discorso filosofico, religioso e metafisico, per cui la forma logica delle proposizioni viola i
limiti della raffigurazione combinando segni privi di significato o non- combinabili; 4) l'uso indicativo, espresso nel
Tractatus dall'occorrenza del verbo zeigen, con cui le proposizioni insensate (unsinnigen) cercano di dire qualcosa
che non si può esprimere, come la forma logica stessa della proposizione. Questa impossibilità avrebbe indirizzato
Wittgenstein sulla strada dei giochi linguistici e del linguaggio come fenomeno originario delle Ricerche filosofiche.
Non è il caso di discutere la legittimità di questa interpretazione. Va da sé, comunque, che la distinzione tra uso non-
sensato e uso indicativo del linguaggio non è così pacifica come vorrebbe Hadot, dal momento che collasserebbe
nella proposizione 6.54 del Tractatus, in cui Wittgenstein afferma il paradosso dell'insensatezza delle proposizioni
componenti l'opera. Forse la distinzione di Hadot funzionerebbe se l'uso indicativo fosse attribuito non tanto ad
alcune proposizioni del Tractatus, ma ad esso nella sua interezza.
26
condurre, chiunque vi si avvicini, a vedere un limite. L'obiettivo della chiarificazione logica dei
pensieri perseguito dalle proposizioni dell'opera è quello di tracciare un limite al linguaggio
dall'interno, sistemando l'asticella che separa le questioni di senso, quelle per le quali sorge una
domanda cui è possibile dare risposta, dalle questioni insensate:

Il libro vuole, dunque, tracciare al pensiero un limite [dem Denken eine Grenze ziehen], o
piuttosto – non al pensiero stesso, ma all'espressione dei pensieri [dem Ausdruck der Gedanken]:
Ché, per tracciare un limite al pensiero, noi dovremmo poter pensare ambo i lati di questo limite
(dovremmo, dunque poter pensare quel che pensare non si può). Il limite non potrà, dunque,
venire tracciato che nel linguaggio [nur in der Sprache], e ciò che è oltre il limite non sarà che
nonsenso [einfach Unsinn]. 48

Se le proposizioni del linguaggio possono rappresentare il sussistere o meno di stati cose, di


porzioni di mondo, allora le proposizioni sensate sono solo quelle che soddisfano questo criterio
raffigurativo. Di tale risma sarebbero per Wittgenstein soltanto le proposizioni delle scienze
naturali. La filosofia invece non si trova presso le scienze naturali, non è impegnata nella
raffigurazione di porzioni di mondo, perché il suo compito è interrogarsi sul senso e sui limiti di
questa attività descrittiva49. Essa è una prassi che da un lato ci indica come questo meccanismo
raffigurativo funzioni nella descrizione scientifica del mondo, dall'altro ci mostra quando tale
meccanismo s'inceppa scambiando per il proprio contenuto la forma della descrizione. Ad ogni
modo l'attività bifronte del filosofo non può surrogare il meccanismo raffigurativo,
descrivendolo: può solo mostrarcelo. Quindi, l'attività di delucidazione del linguaggio, ciò che
Wittgenstein chiama «il rischiaramento logico dei pensieri» si trova in una relazione di co-
appartenenza al gesto filosofico con il riconoscimento del nonsenso. Detto altrimenti, l'attività di
delucidazione (Erläuterung) di ciò che si trova al di qua del confine del senso pone la filosofia in
una posizione limitanea. Una posizione che è allo stesso tempo paradossale, perché dicendo
questo limite la filosofia trasgredisce ciò che fissa, toglie con un gesto estremo ciò che afferma.
Prova ne è che per Wittgenstein le stesse proposizioni del Tractatus sono insensate, perché
culminano nella realizzazione segnica e semantica della forma generale della proposizione 50. E
una volta letto, il libro andrebbe chiuso per guardare al mondo con uno sguardo nuovo,

48 L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus, op. cit., Prefazione, p. 23. D'ora in avanti citato come TLP,
numero della proposizione e pagina. Si noti come in questo passo della Prefazione siano già presenti tutti i temi del
Tractatus: il problema di ciò che si può pensare sensatamente, l'espressione del pensiero, la raffigurazione
dell'espressione del pensiero nel linguaggio, ciò che non raffigura l'espressione del pensiero come puro nonsenso.
49 TLP, 4.111-4.112, p. 49.
50 TLP, 6.54, p. 109.
27
coerentemente con le indicazioni sul modo di leggerlo date dal suo autore nell'unica nota di tutto
il testo51. L'attività filosofica è dunque «critica del linguaggio» (Sprachkritik, TLP 4.0031)
attività di riconoscimento dei fraintendimenti sorti quando si scrive su «cose filosofiche», dallo
scambio tra funzionamento concreto del linguaggio e struttura logica del pensiero; è sguardo
direzionato sulla nostra incapacità di percepire questo scambio, sul nostro «girare a vuoto» 52. Il
limite (die Grenze) in cui risiede l'attività filosofica è al contempo un misurare le dimensioni
dell'ambito del sensato dall'interno (begrenzen) e un separare l'ambito del senso da quello del
nonsenso, un marcare una frattura, un segnare discontinuità (abgrenzen)53. Tale esigenza
dell'attività filosofica è riconosciuta da Wittgenstein anche quando viene meno la concezione
essenzialista del linguaggio propria del Tractatus, quella per cui è possibile individuare la
struttura logica del pensiero che determina la forma significante della proposizione. Com'è noto,
nell'insieme di annotazioni che costituiranno le Ricerche filosofiche, la filosofia assume una
dimensione terapeutica, in un senso molto vicino a ciò che per Freud era l'obiettivo dell'analisi:
si tratta di desublimare gli effetti di senso prodotti sul discorso ordinario dalla grammatica
filosofica essenzialista/metafisica in rappresentazioni perspicue (übersichtlichen Darstellungen)
dei nostri giochi linguistici. Alla struttura logica del pensiero come forma unica dell'espressione
linguistica sensata subentra adesso un'attenzione quasi ossessiva al funzionamento concreto del
linguaggio, alla massa complessa di giochi linguistici nei quali impieghiamo parole e forme
sintattiche. Le rappresentazioni perspicue sono immagini delle nostre pratiche linguistiche per
mezzo delle quali “mettere ordine” nella rete di relazioni, differenze e somiglianze di famiglia
che emergono nell'uso delle parole all'interno di un gioco linguistico. Si tratta innanzitutto di
produrre quanti più esempi possibili dell'uso di una parola in diversi giochi, alla stregua di un
pittore che traccia schizzi dello stesso paesaggio in condizioni di luce e posizioni diverse, di

51 La nota è quella segnalata dall'asterisco a TLP 1, p. 25. Sugli equivoci interpretativi nati dalla mancata attenzione
a questa nota cfr. L. BAZZOCCHI, L'albero del Tractatus. Genesi, forma e raffigurazione dell'opera mirabile di
Wittgenstein, Mimesis, Milano-Udine 2010.
52 Cfr. TLP 4.002, pp. 42-43, in cui le tacite intese per la comprensione del linguaggio comune, ovvero i diversi
scopi in vista dei quali ci comprendiamo, sono ciò che traveste il pensiero, sono ciò che occulta il meccanismo
logico raffigurativo attraverso cui il pensiero si esprime nel linguaggio. Per il tema delle ruote che girano a vuoto
cfr. Ludwig Wittgenstein e il Circolo di Vienna. Colloqui annotati da Friedrich Waismann, ed. it. a cura di S. de
Waal, La Nuova Italia, Firenze 1975, colloquio del 22.12.1929, p. 36: «Se mi volto, la stufa non c'è più. (Negli
intervalli della percezione le cose non esistono). Se si intende “esistenza” in senso empirico e non metafisico,
quest'asserzione è una ruota che gira a vuoto. Il nostro linguaggio va bene purché si comprenda la sua sintassi e si
riconoscano le ruote che girano a vuoto».
53 Cfr. il commento a TLP 4.113-4.114, p.50 di F. GIRGENTI, Wittgenstein. Insegnare il limite, in Insegnare filosofia,
op. cit. p. 195.
28
individuare fratture e discontinuità54. Ma si tratta anche di vedere le connessioni tra i differenti
usi, di trovare analogie, di agganciare le molteplici varianti delle pratiche linguistiche per mezzo
di «membri intermedi»55. In questa duplice prospettiva il metodo di lavoro di Wittgenstein
diventa quello di vagliare l'efficacia chiarificatrice di una tesi sul funzionamento di un gioco
linguistico inventando un caso-limite, una situazione in cui questo frammento di funzionamento
concreto del linguaggio assume una forma pura, non ancora offuscata dalle diverse intenzioni
comunicative, implicite o esplicite, che ne vivificano l'impiego nel discorso ordinario. L'esempio
più noto da cui si evince questo metodo è la trattazione del linguaggio oggetto-designazione
rilevato da Wittgenstein nella citazione di Agostino, con la quale si aprono le Ricerche: il gioco
linguistico della denominazione di un oggetto viene scarnificato sino al suo funzionamento
ideale, quello di un linguaggio costituito esclusivamente da denominazioni, per dimostrare che la
spiegazione tradizionale – la designazione di un oggetto mediante un nome - sia in realtà un
paradigma presupposto e infondato, una sublimazione filosofica del linguaggio ordinario 56. Il
nesso intermedio rappresentato nel gioco linguistico dei due muratori che si passano gli oggetti
utilizzando un «linguaggio primitivo completo» composto solo da nomi (RF § 2), è il caso-limite
di una certa immagine della denominazione, una postazione di confine da cui guardare ad un
presupposto, ad un fondamento implicito nel nostro modo di giocare la denominazione. Si noti
inoltre che il linguaggio dei muratori è un'ipersemplificazione paradossale e insensata di come
la stessa intenzione comunicativa funzionerebbe calata nella concretezza del quotidiano.
La stessa strategia chiarificatrice è messa all'opera da Wittgenstein nella riflessione sui giochi
linguistici di prima persona, quelli in cui un “io” si attribuisce degli stati coscienti accessibili
direttamente solo a lui. Ricercando una rappresentazione perspicua dei giochi linguistici di prima
persona, il filosofo viennese vaglia la concepibilità di un membro intermedio in cui gli stati
coscienti sono del tutto assenti:

Ma non posso immaginare che gli uomini intorno a me siano automi privi di coscienza, anche
54 La metafora degli «schizzi paesistici» è presente nella Prefazione delle Ricerche filosofiche, tr. it. di M.
Trinchero, Einaudi, Torino 1967, p. 3; d'ora in avanti citato come RF, paragrafo e numero di pagina. Come nella
metafora della “scala da gettar via” di TLP 6.54 anche in questo caso è possibile individuare un elemento di
continuità nella concezione del lavoro filosofico: la rinuncia a fondare ipotesi, teorie o spiegazioni definitive sulla
natura del linguaggio, cfr. G. VARNIER, «Esilio» fondazionalistico e nomadismo da Wittgenstein e Neurath a Quine,
in La memoria del male. Percorsi tra gli stermini del Novecento e il loro ricordo, a cura di P. Bernardini, D. Lucci,
G. Luzzatto Voghera, Cleup, Padova 2006, pp. 39-122.
55 RF § 122, p. 69. Il tema del vedere membri intermedi come rielaborazione del tema dello stabilire i limiti del
pensiero dall'interno (begrenzen) è formulato da Wittgenstein a partire dai primi anni Trenta, cfr. L. WITTGENSTEIN,
Note sul “Ramo d'oro” di Frazer, ed. it. a cura di S. de Waal, Adelphi, Milano 1975, p. 29.
56 Cfr. RF §§ 1-80, pp. 9-54.
29
se il loro comportamento è lo stesso di sempre? - Se lo immagino ora – mentre sono solo nella
mia stanza – vedo la gente attendere alle proprie faccende con lo sguardo fisso (come in trance)
– forse l'idea è un po' sinistra. Ma prova a mantener ferma quest'idea nelle tue relazioni
quotidiane, per esempio quando sei per strada! Per esempio, dì a te stesso: « Quei bambini là
sono semplici automi; la loro vivacità è puramente automatica », e queste parole diventeranno
del tutto insignificanti; oppure si risveglierà in te una specie di sentimento sinistro, o qualcosa
del genere.
Il vedere un uomo vivo come un automa è analogo al vedere una figura come caso-limite, o
variante, di un'altra; per esempio il telaio a crociera d'una finestra come una svastica.57

A questo punto non dovrebbe essere difficile scorgere la somilgianza di famiglia tra l'automa di
Wittgenstein lo zombi di Chalmers. Solo che qui l'obiettivo non è costruire un argomento a priori
sull'impossibilità della riduzione della coscienza al sistema fisico dal quale emerge, si tratta
piuttosto di «vedere una figura come caso-limite». Nel caso-limite, nell'esemplificazione
paradossale attraverso cui Wittgenstein vaglia l'attrito tra tesi filosofiche e discorso ordinario, tra
riflessione soggettiva e sfondo intersoggettivo, emerge tutta l'inquietudine filosofica generata dal
nonsenso. La medesima inquietudine per cui il telaio a crociera di una finestra può apparire come
la svastica che nel marzo del 1938 compare sui palazzi di Vienna, ad annunciare un'altra
catastrofe.

57 RF § 420, p. 166.
30
3. Lo zombi cartesiano: storia di un caso-limite nel problema mente-corpo tra XVII
e XVIII secolo

A questo punto non rimane che verificare la possibilità di impiegare la figura dello zombi per
riflettere sulla genealogia del concetto di coscienza, sulla relazione con il concetto di corpo, su
quanto dei nostri problemi attuali su di essi venga dai percorsi semantici aperti da Descartes. Per
far questo costruirò un percorso didattico che rileva la figura dello zombi in Descartes al fine di
assumerla come “stella polare” del dibattito sulla natura della mente e del suo rapporto con il
corpo tra XVII e XVIII secolo. Il percorso si articolerà nei quattro paragrafi successivi seguendo
questa scansione storica e problematica: 1) la posizione del problema in Descartes; 2) la
soluzione materialista da Hobbes a La Mettrie; 3) la soluzione “parallelista” di Leibniz; 4) alcuni
cenni all'alternativa di Locke.

3.1 Prima di scavare alla ricerca del morto vivente nel discorso filosofico del XVII secolo
bisogna fare due premesse. Innanzitutto, il dibattito nato attorno alla prospettiva cartesiana era
gravato da dubbi non dipendenti in maniera diretta dal dualismo mente-corpo. La tesi che suonò
in modo più immediato come una sfida ai suoi contemporanei fu senza alcun dubbio il ruolo di
architrave della fondazione della nuova filosofia che Descartes attribuiva ad un “io” immateriale
e consapevole, il cogito. In secondo luogo, l'affermazione del dualismo sembra essere un effetto
secondario del tentativo cartesiano di separare in virtù del proprio metodo due campi epistemici,
la fisica e la metafisica, e di porre la seconda a fondamento della prima. Infatti ne Il Mondo
(1630) Descartes individua come cardini della propria fisica due concezioni fondamentali 58:
a) una concezione del movimento modellata su alcune semplicissime regole che
deantropomorfizzano l'approccio alla natura della fisica aristotelica, quali sono la legge d'inerzia,
la legge di conservazione della quantità di moto impressa originariamente da Dio al mondo, la
tendenziale rettilineità del movimento;
b) una concezione della materia come estensione in tre dimensioni, ovvero costituita
semplicemente da proprietà geometrico-matematiche e dalle configurazioni che queste di volta
in volta possono assumere, grazie al movimento originariamente impresso da Dio. Su questa
concezione Descartes scarta la tesi dell'esistenza del vuoto (l'estensione coincide con lo spazio e
non ha confini). Ma soprattutto riprende la tesi antiaristotelica e galileiana per cui le

58 R. DESCARTES, Opere filosofiche 1. Frammenti giovanili, Regole per la guida dell'intelligenza, La ricerca della
verità mediante il lume naturale, Il Mondo o Trattato sulla luce, L'uomo, Discorso sul metodo, ed. it. a cura di E.
Garin, Laterza, Roma-Bari 1986. Per il ruolo fondazionale della metafisica rispetto alla fisica cartesiana cfr. E.
SCRIBANO, Guida alla lettura delle Meditazioni Metafisiche di Descartes, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 6-15.
31
caratteristiche qualitative percepite dai sensi (le qualità reali della fisica aristotelico-scolastica)
non costituiscono l'essenza della materia, perché sono stati mentali provocati dalle modificazioni
subite dal nostro corpo nell'incontro con altri corpi. Qualità reali e forme sostanziali, oggetto
della teoria della conoscenza aristotelico-tomista, sarebbero meri costrutti mentali privi di
fondamento in re.
In forza di questa conclusione Descartes ha bisogno di una teoria della conoscenza che sia
indipendente dai sensi: le essenze geometrico-matematiche che configurano l'estensione sono
state liberamente create da Dio, il quale ne ha poi impresso le idee nella mente umana. Il fulcro
teorico dell'operazione fondazionalista di Descartes è una teoria della conoscenza indipendente
dal valore dell'esperienza sensoriale in quanto basata sul carattere innato delle idee che
esprimono l'essenza della realtà. Una teoria della conoscenza che sia in grado di fugare il dubbio
iperbolico, gravante sulla veracità dell'esistenza del mondo esterno e dell'operato divino, con cui
iniziano le riflessioni sulla fondazione metafisica della scienza naturale. Il problema
epistemologico che fa da sfondo alle Meditazioni metafisiche è la giustificazione dell'innatismo
attraverso una precisa concezione dei rapporti nel complesso umano tra la funzione impegnata
nella conoscenza della realtà, la mente, e il corpo soggetto alle modificazioni determinate dal
contatto con gli altri corpi. In questo contesto, la distinzione reale tra mente e corpo diventa la
leva intorno alla quale si realizza il rovesciamento dell'empirismo aristotelico insegnato nelle
Università. Lungo il percorso meditativo le tappe di questo rovesciamento sono le seguenti:
I. nella Seconda Meditazione, Descartes oppone al primato della conoscenza dei corpi la
priorità della conoscenza (non sensibile) che l'anima o mente ha di se stessa (Io sono, io
esisto). Si tratta dell'argomento del cogito, per cui abbiamo una conoscenza di noi stessi
primitiva e indubitabile. Inoltre, poiché la conoscenza del nostro “io” come pensiero è chiara
e distinta possiamo concludere che esso esiste indipendentemente dal corpo. Il pensiero è un
attributo sostanziale della nostra mente. Quindi tutte le facoltà attribuite dalla tradizione
aristotelica all'anima possono essere individuate senza far necessariamente ricorso a realtà
extramentali. L'anima non è la forma del composto umano59 ma una res completa sussistente
in maniera indipendente dal corpo 60;
II. tuttavia perché la distinzione sia dimostrata come vera nell'ordine della realtà, Descartes
deve fondarla sulla dimostrazione dell'esistenza e della veracità divina (Terza Meditazione),
59 ARISTOTELE, De anima, II, 1, 412b.
60 Tale conclusione è argomentata a partire da una certa concezione della sostanza (res) e delle sue proprietà, cfr. R.
DESCARTES, Opere filosofiche 3. Princìpi di filosofia, ed. it. di E. Garin, Laterza, Roma-Bari 1986, §§ 51-53. Per
capire invece cosa si debba attribuire esattamente ai corpi come sostanze separate cfr. R. DESCARTES, Opere
filosofiche 2. Meditazioni metafisiche, Obbiezioni e risposte, ed. it. a cura di E. Garin, Laterza, Roma-Bari 1986,
Risposte alle seste obbiezioni, pp. 405-406.
32
sulla delucidazione della natura dell'errore (Quarta Meditazione) e infine sulla deduzione
della sostanzialità dei corpi dalla loro strutturazione secondo i princìpi logico-matematici
innati nella mente umana (Quinta Meditazione);
III. solo nella Sesta Meditazione Descartes può infine sostenere un argomento teologico a favore
della realtà della distinzione tra mente e corpo. Forte della veracità divina e del presupposto
che Dio non può farsi garante di ciò che è oscuro e confuso (perché comporterebbe
contraddizione), il filosofo struttura l'argomento in questo modo: 1) l'onnipotenza divina può
far tutto quello che concepisco chiaramente e distintamente; 2) concepisco chiaramente e
distintamente la mente (sostanza pensante) e il corpo (modo della sostanza estesa) come due
sostanze complete e distinte; 3) dunque la mente e il corpo possono essere separati almeno
dalla potenza divina.
Mente e corpo sono sostanze complete quindi realmente distinte. Il dualismo metafisico di
sostanza pensante e sostanza estesa viene concluso a partire dal dualismo delle proprietà di
mente (Seconda Meditazione) e corpo (Quinta Meditazione): pensiero ed estensione non solo
sono attributi reciprocamente irriducibili ma individuano realtà distinte. A questo punto
l'obiettivo di fondare la nuova fisica meccanicista su una teoria della conoscenza radicalmente
differente da quella della fisica aristotelica è riuscito: i sensi non possono fornire qualsivoglia
informazione sulla natura dei corpi, i princìpi logico-matematici in base ai quali è strutturata la
materia sono innati nella mente e di conseguenza indipendenti dai corpi. La fisica cartesiana è un
edificio interamente a priori.
Ora, l'argomentazione cartesiana è tutta imperniata sull'esigenza di dimostrare l'illusorietà,
l'esposizione all'inquietudine del dubbio, di tutte quelle teorie della conoscenza che non
individuano nelle nozioni del puro intelletto (le proprietà geometrico-matematiche delle cose, le
leggi semplici del movimento e le leggi logiche d'inferenza) la condizione di possibilità della
conoscenza sensibile, della strutturazione nel giudizio di quell'insieme di modificazioni che il
corpo subisce nell'incontro con un altro corpo. Al primato della conoscenza dei corpi della fisica
aristotelica, Descartes oppone la priorità della conoscenza (non sensibile) che l'anima ha di se
stessa. L'esperimento mentale del pezzo di cera presente nella Seconda Meditazione61 ha proprio
questa finalità: allontanare l'idea che l'esperienza sensibile diretta di qualcosa possa fondare e
legittimare la conoscenza vera, chiara e distinta, salva dal baratro del dubbio, di alcunché.
L'identità del pezzo di cera, e la possibilità che abbiamo di riconoscerlo come tale,
indipendentemente dalle trasformazioni contingenti cui è sottoposto, dimostra non soltanto che
dai sensi non proviene alcuna conoscenza, ma che lo stesso concetto di esperienza sensibile
dipende dall'attività della mente. Ma proprio in questo contesto fa capolino un'ipotesi

61 Ibid., Seconda Meditazione, pp. 28-31.


33
inquietante, che grava pesantemente sulla distinzione reale tra mente e corpo. Anche se l'analisi
del pezzo di cera mette in luce come la possibilità di esperire con i sensi la natura di una cosa
riposi sul lato puramente intellettuale delle mie facoltà conoscitive, anche se ho afferrato questa
distinzione, posso ancora scivolare nel dubbio e nell'errore:

Poiché, sebbene senza parlare io consideri tutto ciò in me stesso, le parole, tuttavia,
m'arrestano, e sono quasi ingannato dai termini del linguaggio ordinario; noi diciamo infatti di
vedere proprio la cera, se ci è presentata, e non di giudicare che essa c'è, inferendolo dal colore e
dalla figura: donde quasi concluderei che si conosce la cera per mezzo della visione degli occhi,
e non per la sola ispezione dello spirito, se per caso non guardassi da una finestra degli uomini
che passano nella strada, alla vista dei quali non manco di dire che vedo degli uomini, proprio
come dico di veder della cera. E, tuttavia, che vedo io da questa finestra, se non dei cappelli e dei
mantelli, che potrebbero coprir degli spettri o degli uomini finti, mossi solo per mezzo di molle?
Ma io giudico che sono veri uomini, e così comprendo per mezzo della sola facoltà di giudicare,
che risiede nel mio spirito, ciò che credevo di vedere con i miei occhi.62 (corsivo mio)

Gli uomini finti mossi solo per mezzo di molle che compaiono alla finestra dell'incredulo
Descartes sono il risultato di un errore categoriale sorto dalla nostra concezione del processo
conoscitivo. Gli zombi cartesiani sono un'allucinazione quasi cinematografica: si muovono
apparentemente privi di volontà, congegni di molle e oggetti di abbigliamento che danno
l'illusione della presenza umana, come i walkers della serie tv. Così come l'analisi del pezzo di
cera ha dimostrato che dai sensi non proviene alcuna conoscenza sulla natura della cera, e che la
stessa esperienza sensibile della cera ha bisogno di nozioni dell'intelletto per poter esser tale,
anche l'analisi degli uomini visti passare per strada ha bisogno della sola facoltà di giudicare, e di
nient'altro, per permettermi di concludere che quegli uomini non sono automi particolarmente
complessi ma uomini autentici. Quello che vorrei qui sottolineare e che Descartes utilizza la
figura dello zombi, del replicante funzionale privo di coscienza, per sostenere la legittimità del
rovesciamento teoretico perpetrato ai danni dell'empirismo aristotelico-tomistico. Ma non si
accorge che gli spettri privi di mente chiamati in causa sollevano, rispetto alla conclusione della
chiarezza e distinzione dell'autonomia del mentale da tutto ciò che non è pensiero, un problema
ben più grosso. Com'è possibile, infatti, che nel composto umano due sostanze distinte
comunichino? Non si tratta forse di una conclusione controintuitiva, che apre lo spazio
dell'immaginazione a obiezioni paradossali, qual è la possibilità che i passanti per strada siano
corpi privi di coscienza? Al di là delle risposte che Descartes diede ai suoi interlocutori proprio

62 Ibid., p. 30.
34
su questo tema63, credo che la figura dell'automa mosso da molle, precursore dei nostri zombi
(cinematografici e filosofici) segnali nella Seconda Meditazione questa lacuna esplicativa. Per
questo motivo, nella Sesta Meditazione, Descartes corre ai ripari e conferisce alle sensazioni il
ruolo di prove tangibili dell'esistenza di un rapporto intrinseco al composto umano tra mente e
corpo:

La natura m'insegna anche, per mezzo di queste sensazioni di dolore, di fame, di sete, ecc., che
io non sono solamente alloggiato nel mio corpo, come un pilota nel suo battello, ma che gli sono
strettissimamente congiunto, e talmente confuso e mescolato da comporre un sol tutto. Poiché,
se ciò non fosse, quando il mio corpo è ferito, non perciò sentirei dolore, io che non soltanto
sono una cosa pensante, ma percepirei questa ferita per mezzo del solo intelletto, come un pilota
percepisce con la vista se qualcosa si rompe nel suo vascello; […]. Perché, in effetti, tutte queste
sensazioni di fame, di sete, di dolore, ecc. non sono altro che maniere confuse di pensare, che
provengono e dipendono dall'unione, e come dalla mescolanza, dello spirito con il corpo.64

In questo modo Descartes recupera il finalismo aristotelico-tomista del composto umano per
attestare lo strettissimo legame che – in ambito pratico e non conoscitivo – caratterizza la
relazione tra mente e corpo65. La fugace apparizione dello zombi nella Seconda Meditazione è in

63 Si tratta di rispondere alla domanda: come interpretare la coesistenza di mente e corpo nel composto umano? Su
questo punto sorsero numerosi equivoci, anche nel campo cartesiano. Un esempio di fraintendimento può essere
quello del fisico cartesiano Henricus Regius che in una disputa con l'aristotelico Voetius sostenne a partire dalla
distinzione reale che l'uomo non sia un composto per se, ma un ens per accidens. Nella sua corrispondenza con
Regius, Descartes cercò di rettificare questa opinione dicendo che «non è per accidente, ma per sua stessa natura che
l'anima è congiunta al corpo umano; poiché avendo il corpo tutte le disposizioni richieste a ricevere l'anima, e senza
le quali non è propriamente un corpo umano, solo per miracolo l'anima non può essergli unita;[...].» (R. DESCARTES,
Tutte le lettere. 1619-1650, ed. it. a cura di G. Belgioioso, Bompiani, Milano 2005, lettera a Regius del dicembre
1641, p. 1547). Nella possibilità che il corpo possa sussistere senz'anima fa di nuovo capolino lo spettro fatto di
molle e automatismi della Seconda Meditazione.
64 R. DESCARTES, Opere filosofiche 2, op. cit., p. 75. Da questo passo emerge come rispetto alla tripartizione
aristotelica dell'anima in funzione vegetativa, sensitiva e intellettiva Descartes mantenga nell'ambito del mentale la
distinzione tra sensitivo e intellettivo, attribuendo invece al corpo le funzioni vitali espresse dall'anima vegetativa;
cfr. S. JAMES, The emergence of the Cartesian mind, in History of the Mind-Body Problem, ed. by T. Crane e S.
Patterson, Routledge, London and New York 2000, pp. 111-130.
65 Descartes ritiene l'unione sostanziale tra mente e corpo una condizione pre-filosofica, non bisognosa di
spiegazioni, a differenza della distinzione reale, cfr. R. DESCARTES, Tutte le lettere, op. cit., lettere da e a Elisabetta
del Palatinato del maggio 1643, pp. 1744-1751. L'idea che Descartes pensasse alla distinzione reale come a una
conquista filosofica da difendere e all'unione sostanziale come ad una condizione di sfondo, esperibile in prima
persona ma indimostrabile in terza persona è argomentata con diverse incursioni nell'epistolario cartesiano da M.
PRIAROLO, Piloti, angeli e orologi: Descartes e Leibniz sull'unione anima-corpo, in Sostanza e verità nella filosofia
35
questo modo esorcizzata: relativamente a sensazioni come la fame, la sete, il dolore siamo tutti in
grado di fare esperienza diretta dell'altissimo livello di coesione tra la mente e il corpo, pertanto
la visione degli uomini finti, dei congegni a molla simili agli uomini, è puro nonsenso. Queste
entità interamente meccaniche non sarebbero in grado di esperire che la sete, la fame, il dolore
sono forme della comunicazione tra il corpo e la mente, in vista della salvaguardia e
conservazione dell'intero composto umano66. Se la distinzione reale tra mente e corpo esprime
l'esigenza teoretica di fondare la fisica meccanicistica su princìpi a priori, l'unione sostanziale tra
mente e corpo nel composto umano emerge invece dall'esigenza di spiegare la natura delle
sensazioni, il discrimine tra il mondo ordinario degli esseri umani e quello oscuro degli automi
privi di coscienza.

3.2 Se gli automi privi di coscienza invadono la tesi cartesiana di un dualismo delle proprietà
(pensiero-estensione), il loro raggio d'azione nell'immaginario filosofico del XVII secolo non
tocca l'ipotesi dell'antropologia materialista, avanzata da Hobbes. Negli Elements of Law,
Natural and Politic (1640) il filosofo inglese sviluppa una spiegazione in chiave rigorosamente
meccanicista, del prodursi della sensazione, della formazione delle immagini, del meccanismo
del piacere e del dolore, che a sua volta dà origine alle passioni. Opera una riduzione
materialistica di tutte quelle funzioni tradizionalmente attribuite all'anima, e che qui vengono
invece interpretate in termini di movimento di parti corporee 67. Siamo oltre quindi la sola

di Leibniz, a cura di F. Perelda e L. Perissinotto, Il Poligrafo, Padova 2006, pp. 111-127.


66 A livello fisiologico questa connessione si realizzerebbe grazie alla famosa ghiandola pineale. Sulla consistenza
della conclusione cartesiana cfr. E. SCRIBANO, op. cit., pp. 130-133. Se il fortino metafisico fin qui strutturato da
Descartes fosse coerente allora i sentimenti e le pulsioni, ciò che designa con il termine-massa “sensazioni”
dovrebbero essere sempre praticamente veraci, non dovrebbero mai spingerci a compiere azioni che si rivelerebbero
dannose per il composto umano. Tuttavia esistono malattie, veri e propri «errori di natura» secondo Descartes, nelle
quali si provano desideri la cui soddisfazione nuoce alla salute, come nel caso dell'idropisia: «Ma certo, sebbene
riguardo al corpo idropico non si tratti che di una denominazione esterna, quando si dice che la sua natura è corrotta
pel fatto che, senza aver bisogno di bere, ha pur sempre la gola secca e arida; tuttavia, riguardo a tutto il composto,
cioè allo spirito o all'anima unita a questo corpo, non è più una pura denominazione, ma un vero errore della natura
il fatto che esso ha sete quando gli è perniciosissimo bere; e pertanto resta ancora da esaminare come la bontà di Dio
non impedisca che la natura dell'uomo, presa in questo modo, sia fallace e ingannatrice». (R. DESCARTES, Opere
filosofiche 2, op. cit., Sesta Meditazione, p. 79). Si noti come la pulsione nociva a bere dell'idropico sia analoga alla
coazione a ripetere dello zombi cinematografico.
67 Nelle Terze Obbiezioni alle Meditazioni metafisiche Hobbes contesta l'identificazione dell'io come sostanza
immateriale separata dal corpo a partire dall'arbitrarietà della scelta del pensiero come suo attributo sostanziale: il
pensiero individuerebbe l'essenza dell'io tanto quanto il mangiare o il passeggiare. Questa critica viene fondata su
una diversa concezione, da quella cartesiana, della nozione di sostanza: riprendendo le Categorie aristoteliche
Hobbes concepisce la sostanza come subiectum, come sostrato distinto dalle proprie modificazioni. In tale
36
meccanizzazione cartesiana delle funzioni vitali che la tradizione aristotelica attribuiva alla
funzione vegetativa dell'anima, perché per Hobbes anche il pensiero e la volontà sono
espressione dei movimenti interni al corpo68. Non esiste distinzione tra il movimento corporeo,
nervoso o cerebrale che sia, e il concetto, l'elemento di base dell'ambito del mentale: la mente è il
complesso dei concetti, e i concetti sono traduzioni di movimenti. Ciò vale anche per
quell'intelletto agente, sul quale l'aristotelismo cristiano aveva fondato la possibilità di una
conoscenza disincarnata e con essa l'immaterialità e immortalità dell'anima 69. Per Hobbes infatti
l'intelletto è la facoltà che collega i concetti ai nomi, mentre la ragione è un meccanismo
puramente formale di connessione di nomi, privo di quel potere normativo assoluto che
Descartes le ascriveva. Questo non vuol dire che la semplice reazione ad uno stimolo sia di per sé
espressione di attività senziente: gli esseri senzienti sono esseri animati che rispondono agli
stimoli causati dagli oggetti esterni con l'eccitazione dei nervi e del cervello, dal movimento dei
quali si generano immagini o fantasmi. Il fantasma è l'atto della sensazione in cui l'attività
mentale, determinata dai movimenti cerebrali e nervosi, forma le qualità di un oggetto. La
sensazione è un giudizio sulle cose formato dal confronto tra diverse immagini o fantasmi:
poiché i fantasmi dipendono dalla configurazione che gli organi di senso assumano quando sono
eccitati da un corpo esterno, Hobbes conclude che la sensazione è determinata da una «continua
varietà di fantasmi»70. La differenza tra la presenza e l'assenza di attività senziente non va
individuata, come vorrebbe Descartes, nella capacità di un io immateriale di confrontare e
distinguere i fantasmi che il corpo accumula con l'esperienza del mondo esterno. Non esiste una
memoria come collezione di immagini standard delle qualità delle cose. Se così fosse i fantasmi
dovrebbero sempre essere uguali, dovrebbero riprodursi sempre nello stesso modo. Invece, il
presupposto dell'attività senziente autentica è la varietà delle immagini, legata a sua volta alla

prospettiva il concetto cartesiano di res cogitans diventa in sé contradditorio, perché ciò che è sostrato è anche
necessariamente materiale; cfr. R. DESCARTES, Opere filosofiche 2, op. cit., pp. 163-167.
68 La natura della volontà e con essa il problema del libero arbitrio si risolvono interamente nella reazione ad uno
stimolo esterno, cfr. T. HOBBES, De Homine, tr. it. di A. Pacchi, Laterza, Roma-Bari 1970, cap. XI, § 2, p. 148: «Le
cause quindi, sia della sensazione che dell'appetito e della repulsione, del piacere e della molestia, sono gli oggetti
stessi dei sensi. Dal che si può comprendere che né il nostro appetito né la nostra repulsione possono essere la causa
per cui desideriamo o rifuggiamo questo o quello; vale a dire, non desideriamo per il fatto che vogliamo. Infatti, la
volontà stessa è un appetito; né noi rifuggiamo perché non vogliamo, bensì perché sia il desiderio sia l'avversione
sono generati dalle cose stesse desiderate o detestate, e seguono necessariamente alla prefigurazione della
piacevolezza o della molestia che da quegli stessi oggetti ci derivano».
69 Sulla relazione tra la concezione tomista della visio beatifica e della conoscenza angelica e la sua influenza sugli
sviluppi del razionalismo cartesiano cfr. E. SCRIBANO, Angeli e beati. Modelli di conoscenza da Tommaso a Spinoza,
Laterza, Roma-Bari 2006.
70 T. HOBBES, De corpore in Elementi di filosofia, tr. it. di A. Negri, Utet, Torino 1972, cap. XXV, § 5, p. 381.
37
varietà degli stimoli fisiologici e cerebrali che il corpo riceve. Sopprimere il carattere eteroclito
della sensazione significherebbe ridurre i nostri rapporti col mondo esterno ad un'unica
lunghezza d'onda, ad una rappresentazione della realtà povera e unilaterale:

Se supponessimo, infatti, un uomo fatto con occhi chiari e con tutti gli altri organi della vista
ben disposti, e poi non fornito di nessun altro senso, e rivolto sempre alla stessa cosa dello stesso
colore e della stessa figura, tale che non appare nemmeno con la minima varietà, a me
certamente sembrerebbe, checché ne dicano altri, che egli non veda più di quanto mi sembra che
io senta, attraverso gli organi del tatto, le ossa dei miei arti; e, tuttavia, esse sono continuamente
e da ogni parte toccate da una sensibilissima membra. Direi che egli è attonito e che forse, la
cosa, la guarda stupito, non direi che la vede; tanto sentire sempre la stessa cosa e non sentire è
lo stesso.71

Non è difficile individuare in questo personaggio attonito lo sguardo privo di coscienza dello
zombi72. Hobbes contesta in questo passo la riduzione della sensazione ad uno stimolo
unilaterale, e del pensiero all'attività. Se così fosse sarebbe possibile immaginare un essere
dotato di un solo organo sensoriale, la vista, in grado di formare fantasmi a partire dagli stimoli
che i suoi occhi ricevono sempre da un oggetto invariabile. Tale essere avrebbe una vita solo
apparentemente senziente: la sua sensazione dell'oggetto sarebbe un flusso costante, una
ripetizione unilaterale della stessa immagine, uguale alla sensazione delle ossa degli arti del
nostro corpo. L'abitudine alla sensazione tattile generata dal contatto tra la carne e le ossa è
talmente costante e invariante da non essere più percepita; sentire sempre i nostri arti equivale a
non sentirli. Quindi, in questo passo Hobbes sembra suggerirci che l'immagine insensata di un
uomo dotato solo della vista e costretto a fissare lo sguardo sempre sullo stesso oggetto, di un
uomo monodimensionale privo di una vita cosciente autentica è solo il prodotto filosofico di una
sottovalutazione della ricchezza e complessità dell'attività senziente. Lo zombi che fissa sempre
lo stesso oggetto, forse la sua prossima vittima, è un'utile reductio per mostrare la povertà
concettuale dell'utilizzo della nozione di sensazione limitatamente alla spiegazione della
relazione tra pensiero logico-formale, l'attività puramente cosciente dell'io cartesiano, e corpo.
La sensazione non ha finalità intrinseche, come la salvaguardia del composto umano, ma è il
risultato di un complesso gioco di stimoli, reazioni e atti di sensazione all'interno dell'organismo.

71 Ibid., p. 382.
72 Anche Romero indugia sullo sguardo degli zombi come chiave d'accesso ad una qualche forma di umanità
residuale, quindi di attività senziente della loro mente. Questo elemento critico rispetto alla monodimensionalità del
consumismo e dello stile di vita occidentale può essere riscontrato nei suoi ultimi zombie movies, soprattutto in La
terra dei morti viventi (Land of the Dead, 2005).
38
Lo zombi è un'ipotesi plausibile solo nell'assenza di questa complessità.
Che l'antropologia materialista posta da Hobbes a fondamento del proprio sistema filosofico sia
immune all'inquietudine suscitata dallo zombi cartesiano è evidente anche in un autore del XVIII
secolo come Juliene Offray de La Mettrie. Il materialismo di La Mettrie è riduzionista e monista:
il pensiero è una proprietà della materia, pertanto la coscienza costituisce soltanto una
modificazione della sostanza materiale; l'uomo è una macchina, un congegno particolarmente
complesso, un sistema fisico che può essere spiegato ricorrendo esclusivamente alle leggi della
natura73. L'anima, la sostanza immateriale e immortale della tradizione, se non viene identificata
con il principio fisiologico e materiale di movimento dell'intera macchina umana è soltanto
un'ipotesi inutile. In L'uomo macchina (1747) queste conclusioni vengono argomentate a partire
dall'osservazione empirica di cadaveri e animali dissezionati. In tutti gli esempi menzionati La
Mettrie rileva come anche dopo la morte, per un certo periodo di tempo, le diverse parti di un
organismo continuano a muoversi secondo i ritmi regolari che gli sono propri:

Se le dissezioni si facessero su criminali suppliziati i cui corpi fossero ancora caldi si


vedrebbero nei loro cuori gli stessi movimenti che si osservano nei muscoli del viso delle
persone decapitate.
Il principio motore dei corpi interi oppure delle parti tagliate a pezzi è tale da produrre
movimenti non sregolati, come si è creduto, ma regolarissimi; e ciò tanto negli animali caldi e
perfetti quanto in quelli freddi e imperfetti.74

Tutti gli organismi complessi, compreso quello umano, sono formati da parti organiche ognuna
delle quali esprime una funzione determinata dal movimento meccanico di un insieme di molle
più o meno vivaci75. L'anima è una sorta di “molla delle molle”, un principio di movimento
situato nel cervello da cui hanno origine pensieri, sentimenti, piaceri e passioni: «con esso si
spiega tutto lo spiegabile, ivi compresi gli effetti sorprendenti dell'immaginazione» 76. Con La

73 Cfr. J.O. DE LA METTRIE, L'uomo macchina e altri scritti, tr. it. di G. Preti, Feltrinelli, Milano 1973, p.34:
«L'uomo è una macchina così complessa che è impossibile farsene a prima vista un'idea chiara, e quindi definirla.
Per questo, tutte le ricerche che i più grandi filosofi hanno condotto a priori, vale a dire volendo servirsi in qualche
modo delle sole ali dello spirito, sono state vane».
74 Ibid., p. 66. Il riferimento alle dissezioni dei cadaveri ancora caldi mostra l'esistenza di una pratica che per quanto
macabra ha contribuito all'affinamento delle conoscenze anatomiche, come mostra in chiave ironica la black comedy
di John Landis Burke & Hare – Ladri di cadaveri (2010). Il film fa riferimento alle vicende dei due serial killer di
Edimburgo che tra 1827 e 1828 fornirono ai medici dell' Edinburgh Medical College i corpi di ben 17 persone per le
dissezioni.
75 J.O. DE LA METTRIE, L'uomo macchina, op. cit., p. 66.
76 Ibid., p. 67.
39
Mettrie l'antropologia materialista esorcizza definitivamente l'ombra dello zombi cartesiano,
tanto che gli uomini finti della Seconda Meditazione, gli spettri fatti di molle, cappelli e mantelli
che un Descartes allucinato scrutava dalla propria finestra, sono diventati gli uomini in carne e
ossa. Sono i cadaveri ormai innocui, messi a tacere per sempre dalla giustizia terrena, di ex
criminali osservando e dissezionando i quali il medico illuminista redige le proprie annotazioni
sulla natura della coscienza.

3.3 Anche Leibniz si trova ad affrontare l'enigma cartesiano della distinzione reale tra mente
e corpo. Solo che nella prospettiva leibniziana il problema del rapporto che la mente o anima
intrattiene con il corpo non si traduce nella posizione pregiudiziale del problema della
comunicazione tra due sostanze eterogenee. Partendo dall'idea che esistono differenti forme di
organizzazione degli enti reali, si tratta di capire in che modo le sostanze comunichino. Questo
perché tanto al dualismo metafisico di pensiero ed estensione, quanto al monismo materialista,
Leibniz preferisce una concezione pluralista della nozione di sostanza. In un lasso di tempo che
va dalla fine degli anni '80 del XVII secolo al primo ventennio del XVIII, egli elabora nel
concetto di sostanza la funzione di unità metafisica minima del reale, di tassello irriducibile di
ogni spiegazione del mondo. La sostanza leibniziana è un ente individuale senza estensione e
figura, in perenne attività, vero e proprio “atomo spirituale” completamente autonomo dal punto
di vista ontologico77. Privo di relazioni dirette con altre sostanze semplici, è un cinema sprovvisto
di vie d'uscita o finestre in cui si proietta senza interruzioni lo spettacolo del mondo. Ogni
sostanza semplice esprime tutte le rappresentazioni o percezioni che nascono spontaneamente
dalla sua natura, in quanto comprese nella sua nozione completa. In questo modo le sostanze
semplici, che Leibniz chiamerà monadi, potranno costituire sostanze composte, tra cui si possono
distinguere le sostanze individuali e le sostanze corporee. Il nodo centrale della ricchezza
lessicale che il filosofo di Lipsia riferisce all'area semantica della sostanza è il problema della
comunicazione tra sostanze semplici: ne va della sostanzialità dei corpi, del loro essere unità reali
al di là dell'opinione78. In tale prospettiva e portando alle estreme conseguenze le caratteristiche
della nozione cartesiana di sostanza, ovvero l'assoluta indipendenza ontologica da altro (eccetto
Dio) e l'essere un'entità completa, Leibniz individua il problema centrale del dualismo
nell'incapacità di render conto della sostanzialità dei corpi. Il corpo cartesiano, infatti, si presenta
77 La nozione di sostanza individuale è definita da Leibniz a partire da considerazioni logico-linguistiche, dalla sua
identificazione con il soggetto e i suoi predicati. Il concetto espresso dal predicato è sempre compreso nel concetto
del soggetto (in esse), per cui conoscere la nozione completa di un soggetto significa poter dedurre tutti i predicati e
con essi tutti i possibili accidenti della sostanza che il soggetto esprime; cfr. G.W. LEIBNIZ, Discorso di Metafisica, in
Scritti filosofici I, ed. it. a cura di D. O. Bianca, Utet, Torino 1967, § 8, p. 268.
78 Cfr. M. PRIAROLO, Piloti, angeli e orologi: Descartes e Leibniz sull'unione anima-corpo, in op. cit., pp. 118-126.
40
come un mero aggregato di parti meccaniche incapaci di spiegare la propria unità organica, il
proprio essere un corpo79. Identificando l'identità-unità dei corpi con la loro sostanzialità-realtà,
Leibniz conclude che una sostanza corporea per esser tale ha bisogno della subordinazione ad un
principio che le conferisca unità senza per questo essere necessariamente ridotto a sua
espressione o parte80. Questo principio immateriale di unità viene introdotto a partire dalla
riabilitazione delle forme sostanziali nel Discorso di Metafisica (1686): l'anima è la forma che,
aristotelicamente, conferisce ad un aggregato di materia la propria sostanzialità, l'atomo formale
che conferisce ad un aggregato la sua vera unità81. Questo comporta almeno due conclusioni sulla
natura del composto umano. In primo luogo la sostanza corporea è tale solo in senso lato, la sua
sostanzialità dipende dall'organizzazione della materia secondo un principio immateriale di unità.
Inoltre, l'uomo è concepito come una sostanza composta, un sistema gerarchico di monadi: il
corpo è composto da una serie innumerevoli di monadi, di aggregati di materia uniti da altrettante
forme sostanziali (le entelechie prime), la cui organicità è garantita dalla subordinazione ad una
monade dominante, un'altra sostanza semplice che è appunto l'anima. La relazione tra mente e
corpo può essere chiarita solo facendo luce sulla relazione tra la monade dominante e il
complesso di monadi ad essa subordinato. La soluzione di Leibniz al problema mente-corpo
consiste nell'assumere un parallelismo perfetto tra fisico e psichico: mente e corpo sono entrambi
costituiti da monadi, la comunicazione delle quali è possibile perché Dio le ha regolate all'inizio
dei tempi. Si tratta dell'ipotesi metafisica dell'armonia prestabilita: come un orologiaio saggio
Dio ha predisposto le monadi perché ognuna rispecchiasse la realtà in accordo con le altre e
senza alcuna interferenza esterna 82.
Quanto invece a Descartes e ai cartesiani, il loro errore è stato assumere pregiudizialmente il
dualismo metafisico, spingendosi a conferire la dignità di sostanza pensante soltanto a quella che
Leibniz ritiene essere la monade dominante (ma non l'unica) della sostanza composta-uomo. In

79 Nella corrispondenza con Arnauld per spiegare in che senso i corpi senza forma sostanziale siano aggregati di
sostanze privi di unità, Leibniz utilizza l'espressione arena sine calce, cfr. G.W. LEIBNIZ, Scritti filosofici I, op. cit.,
lettera ad Arnauld del 30 aprile 1687, pp. 336 e sgg.
80 Cfr. M. MUGNAI, Introduzione alla filosofia di Leibniz, Einaudi, Torino 2001, pp. 128-133.
81 Cfr. G.W. LEIBNIZ, Discorso di Metafisica, in op. cit., §§ 10-12 e Nuovo sistema della natura e della
comunicazione tra le sostanze, nonché dell'unione che si ha tra anima e corpo, in Scritti filosofici I, ed. a cura di M.
Mugnai e E. Pasini, Utet, Torino 2000, pp. 448-449.
82 Leibniz utilizza inizialmente l'espressione «ipotesi degli accordi», mentre la formula «armonia prestabilita»
compare per la prima volta nel Chiarimento del nuovo sistema indirizzato a Foucher, cfr. G.W. LEIBNIZ, Scritti
filosofici I, ed. it. a cura di M. Mugnai e E. Pasini, op. cit., p. 466. La tesi dell'armonia tra le sostanze è espressa con
particolare efficacia anche nella metafora dell'orchestra in cui i musicisti non si vedono e non si sentono ma chi
ascolta la musica ode un'armonia meravigliosa, cfr. G.W. LEIBNIZ, Scritti filosofici I, op. cit., lettera ad Arnauld del
30 aprile 1687, p. 330.
41
altre parole Descartes avrebbe individuato il principio immateriale di unità del composto umano
solamente nel pensiero cosciente, in ciò che Leibniz chiama appercezione, trascurando invece il
fatto che le entelechie delle monadi costituenti la sostanza corporea sono a loro volta capaci di
percezioni oscure e confuse83. Tra il pensiero chiaro ed evidente espresso dall'appercezione e il
pensiero oscuro e confuso delle monadi della sostanza corporea - antesignano dell'inconscio
freudiano - non esiste un'irriducibile differenza ontologica fondata sul dualismo di pensiero ed
estensione, ma un diverso gradiente di perspicuità. Questo comporterebbe che le percezioni, i
pensieri oscuri e confusi del corpo, non siano riducibili alle configurazioni differenti della
materia corporea. È in questo contesto che Leibniz rispolvera il paradosso dello zombi
cartesiano:

Immaginiamo una macchina strutturata in modo tale che sia capace di pensare, di sentire, di
avere percezioni; supponiamola ora ingrandita, con le stesse proporzioni, in modo che vi si possa
entrare come in un mulino. Fatto ciò, visitando la macchina al suo interno, troveremo sempre e
soltanto pezzi che si spingono a vicenda, ma nulla che sia in grado di spiegare una percezione.84

L'intuizione di Descartes, l'immagine degli uomini finti che celano sotto cappello e mantello
molle e congegni per il movimento, non suggerisce a Leibniz di dubitare delle apparenze
immediate. Se infatti provassimo ad ingigantire uno di questi automi molleggiati e a visitarne
l'interno ci accorgeremmo che gli ingranaggi potrebbero spiegarci la natura dei suoi movimenti
ma non avremmo fatto nessun passo in avanti nella spiegazione delle sue percezioni e dei suoi
pensieri coscienti. Proprio come lo zombi di Chalmers, l'ipotesi di un replicante funzionale di me
stesso mostra l'irriducibilità a una spiegazione di carattere funzionalista (nel caso di Leibniz
meccanicista) degli aspetti fenomenici e qualitativi della mente. Un automa del genere, secondo
Leibniz, sarebbe un mistero perché non saremmo in grado di spiegare l'origine di quella scala di
sfumature cogitative che dall'oscura percezione di una monade della sostanza corporea porta alla
piena appercezione della monade dominante il composto umano. Ciò che ci rende umani rispetto
agli zombi cartesiani non è l'avere una sostanza pensante e immateriale, distinta dal corpo, ma la
differenza qualitativa tra un aggregato di movimenti meccanici e una totalità organica, un sistema
complesso di funzioni vitali che si esprimono secondo diversi gradi di consapevolezza.

3.4 Nei paragrafi precedenti ho prospettato come l'intuizione cartesiana dello zombi abbia
attraversato le soluzioni antitetiche al problema mente-corpo fornite da Hobbes (e dal

83 Sulla teoria della conoscenza di Leibniz cfr. M. MUGNAI, op. cit., pp. 68-80.
84 G.W. LEIBNIZ, Princìpi della filosofia o Monadologia, tr. it. di S. Cariati, Bompiani, Milano 2001, § 17, p. 65.
42
materialismo fino a La Mettrie) e da Leibniz. Ho assunto questi pensatori come paradigmi di
soluzioni radicalmente opposte all'inquietudine filosofica dello zombi: i materialisti del XVII e
del XVIII secolo, proprio come quelli attuali, sembrano volerci dire che la spiegazione scientifica
del mondo non teme i morti viventi; Leibniz decide invece di affrontare con serietà l'immagine
dello zombi e di dissolverla in un complesso gioco di rimandi metafisici in cui la nozione di
sostanza semplice e quella fisica di forza viva permettono di liquidarla come un errore.
Per brevi accenni, possiamo riscontrare come l' “intuizione zombica” possa aiutarci ad
affrontare le soluzioni al problema mente-corpo anche di altri pensatori del XVII secolo. Ad
esempio, in Locke la problematicità del dualismo cartesiano è dissolta sul piano della
indecidibilità: il filosofo inglese non prende parte alla disputa, perché ritiene che nozioni come
quella di sostanza travalichino i limiti del dominio del conoscibile, ovvero dell'ambito delle idee
possedute dalla mente85. Sebbene Locke sembri stabilire l'indecidibilità della questione
metafisica e ritenga plausibile al livello del senso comune il dualismo delle proprietà 86, la
questione della natura della relazione tra mente e corpo riemerge quando il filosofo tratta il
problema dell'identità personale. Nel capitolo XXVIII del Libro II del Saggio sull'intelletto
umano l'identità personale viene sganciata dalla base metafisica della nozione di sostanza: la
permanenza del corpo nel tempo, l'ipotesi di una sostanza immateriale pensante, non bastano a
giustificare la continuità dell'esperienza consapevole e della memoria. Occorre piuttosto uno
schema formale, la vita interiore è infatti qualcosa che si dispiega nel tempo ed è tenuta insieme
dalla coscienza e dalla memoria87. La coscienza, per Locke, è questo meccanismo impalpabile
che permette la continuità e la riconoscibilità come tale della nostra vita interiore. Come nel caso
dello zombi Bub de Il giorno dei morti viventi, la perdita di ciò che era il suo sé umano non
implica la perdita della memoria dei gesti quotidiani compiuti in vita. Lo zombi addomesticato
del terzo film di Romero rappresenta con ingenuità cinematografica la tesi lockeana sul concetto
di identità personale.
Per concludere, il percorso storico filosofico sul caso-limite dello zombi potrebbe individuare
una via di fuga prospettica nella soluzione di Spinoza al dibattito sul dualismo cartesiano.
Rispetto all'inquietudine filosofica dell'ipotesi dello zombi l'Etica traccia un vero e proprio esodo
dalla questione della relazione tra mente e corpo. Affermando l'unicità della Sostanza o Natura,
Spinoza interpreta pensiero ed estensione, mentale e fisico, come suoi attributi. Come forme

85 Cfr. J. LOCKE, Saggio sull'intelletto umano, tr. it. di N. Abbagnano, Utet, Torino 1971, Libro IV, cap. III, § 6.
86 Ibid., Libro II, cap. XXIII, § 30.
87 Ibid, Libro II, cap. XXVIII, §§ 11-21. L'esempio del Socrate sveglio e del Socrate addormentato per chiarire il
concetto di identità personale opera a livello argomentativo in maniera analoga all'argomento del gemello zombi di
Chalmers per delucidare il concetto di coscienza fenomenica.
43
espressive differenti di uno stesso spartito metafisico88. L'esistenza di un essere cosciente ma
privo di soggettività autentica qui non trova patria, rimane un pensiero intruso che non varca la
soglia della conoscenza chiara e distinta. Forse, in questo senso, Spinoza e gli sviluppi
spinozistici contemporanei (da Nietzsche a Bataille, da Marx a Deleuze), tracciano una via
d'uscita dal dibattito moderno sulla natura della coscienza che nelle scienze cognitive sembra
invece intrappolata nella ripetizione di vecchie inquietudini. Per dirla con Karl Kraus, «quando
da lungo tempo abbiamo abbandonato un certo errore, i superficiali ci rimproverano proprio
quell'errore e i radicali ci accusano di incoerenza» 89.

88 Cfr. B. SPINOZA, Etica. Dimostrata con metodo geometrico, tr. it. di E. Giancotti, Editori riuniti, Roma 2004,
Parte II, proposizione 7, corollario e scolo, pp. 127-128. La teoria della corrispondenza senza causalità tra pensiero
ed estensione avanzata da Spinoza è stata paragonata, tra le posizioni nel dibattito attuale, al monismo anomalo di
Donald Davidson per il quale sebbene tra mentale e fisico non esista alcuna distinzione ontologica è impossibile
formulare leggi scientifiche psicofisiche in grado di fornire una spiegazione naturalista completa degli eventi
mentali; cfr. R. FERBER, Concetti fondamentali della filosofia II, tr. it. di L. Garzone, Einaudi, Torino 2009, pp. 165-
172.
89 K. KRAUS, Detti e contraddetti, tr. it. di R. Calasso, Adelphi, Milano 1972, p. 172.
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Zombi bianco (1932) di V. Halperin.


Ho camminato con uno zombi (1943) di J. Tourneur.
La vendetta degli zombi (1943) di S. Sekely.
Gli Uccelli (1963) di A. Hitchcock.
La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1968) di G. A. Romero.
Zombi (The Dawn of the Dead, 1979) di G. A. Romero.
Il giorno degli zombi (The Day of the Dead, 1986) di G. A. Romero.
La terra dei morti viventi (Land of the Dead, 2005) di G. A. Romero.
Pervert's guide to cinema (2006) di S. Fiennes.
Burke & Hare – Ladri di cadaveri (2010) di J. Landis.
The Walking Dead (serie tv, 2010- in corso).

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