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Verminiscenza

Durante il mio soggiorno nella valle calatina, dove i sogni come mozziconi
di sigarette lasciati morire sui bordi delle strade bagnate si spengono,
conobbi un canuto signore, affascinante quanto basta per tenermi
incollato sulla sedia che gentilmente mi aveva offerta per star comodo
quando mi avrebbe raccontato le sue antiche storie.
Visitavo, spinto dalla curiosità di ricostruire le leggende attorno le più
celebri ‘ngiurie, moltissimi anziani; alcuni erano davvero molto anziani e
spesso, sbattendo il portone alle mie spalle, mi domandavo come facessero
ad aver ancora voglia di respirare istante dopo istante.
Io avevo circa ventiquattro anni e avevo tentato il suicidio già tre volte,
la prima a dir il vero fu un incidente che da tragedia divenne un’epifania:
mi aprii un nuovo mondo di emozioni che non possono essere descritte.
Era una sera burrascosa, mio padre sin da quando ero capace di produrre
rumori, mi aveva inculcato la paura degli incendi causati da piccoli
cortocircuiti. Una volta, per terrorizzarmi, mi raccontò la storia di una
famiglia carbonizzata proprio da questo; mi scioccò moltissimo tant’è che
nel giro di qualche settimana rinchiusi quell’orripilante ricordo in qualche
buio angolo del mio inconscio, in attesta che un serio momento di
meditazione possa risvegliarlo, infatti da allora non riesco ad avere una
visione chiara di quelle inquietanti parole. La sera ero, quindi, solito
scollegare tutte le prese: era diventata un’abitudine a cui non prestavo
molta attenzione.
In una notte di queste, dopo aver rigenerato il mio corpo dai fumi
dell’alcol della serata appena trascorsa, con ancora l’accappatoio addosso
iniziai un viaggio che mi sembrò più lungo della corsa di Fidippide. Portato
a termine i tre quinti delle prese, raggiunsi quella che alimentava il
computer, la stampante e il modem, erano state saggiamente collegate a
una presa a ciabatta con anche un interruttore di sicurezza. Quando
staccandola una catena di elettroni altamente eccitati attraversò il mio
emaciato corpo, caddi a terra perdendo i sensi. Mi risvegliai l’indomani a
causa dell’aria fredda che da una finestra lasciata socchiusa entrava; avevo
il viso sbavato e sotto di questo c’era anche una piccola pozza di saliva,
l’accappatoio aveva scoperto verticalmente la parte centrale del mio
corpo, non nascondendo una curiosa erezione procuratami dalla scossa. In
quel momento compresi un remoto piacere nel procurarmi danno.
Dopo quella prima volta, che tenni nascosta alla mia famiglia (avevo
vent’anni e vivevo in un piccolo appartamento da solo) e alla mia ragazza
Salvia, escogitai metodi che facessero apparire il tutto un incidente e non
un suicidio; la prima volta andò bene, caddi dal primo piano della casa dei
miei mentre ripulivo le ampie vetrate che gentilmente avevo proposto di
lucidare; nessun ebbi nessun danno celebrale, soltanto una frattura al
perone sinistra, il collo leggermente slogato e un foro nei pantaloni. La
seconda andò un po’ peggio: nei mesi successivi abituai i miei al fatto che
depilassi ogni parte del mio corpo – nel contempo Salvia andò a lavorare a
Trani – e, sei mesi e mezzo dopo il primo incidente, nella vasca di casa dei
miei (avevo pur sempre bisogno di aiuto dopo il sacrificio) m’immersi in
mezzo1 l’acqua calda. Preparai un nuovo rasoio che, per evitare fastidiose
infezioni sterilizzai con l’alcol. Quando mi trovarono semicosciente in una
pozza che sembrava fragolino dozzinale, avevo appena ripulito le gambe
da fastidiosi peletti e avevo iniziato con le braccia strappando intere
porzioni di pelle rivelando la parte più intima della mia carne. A quel punto
strozzate grida ribalzarono sulle pareti con mattonelle bianche, e
omettendo di chiedermi cosa fosse successo (ai loro occhi forse abbastanza
chiaro), andarono a chiamare aiuto.
In quel momento ero piuttosto sicuro che enormi quantità di sangue
confluivano tra le mie gambe, se riuscivano a scappare dai giganteschi fori
nelle mie braccia. Avrei potuto far credere loro che si trattava di un
incidete, se non fosse che quando ritornarono nel macabro bagno, lo
tenevo stretto e duro con la mano sinistra mentre con l’altra cercavo di
grattare via la grossa vena superiore; fui “graziato” dal miscuglio di peli,
pelle e sangue coagulato che rendeva il rasoio poco efficiente e dalla rapida
detumescenza che lo rese ben presto flaccido.
Il giorno seguente ero abbastanza incosciente e mi rinchiusero in un
centro a Santo Pietro dove si presero cura della mia mente e delle mie
ferite. Qui passavo le giornate con depravati e anziani, non c’era internet e
la biblioteca forniva solo Famiglia cristiana e stupidi libri di ricette.
Fortunatamente ritrovai un libro rilegato malissimo di un autore locale
sulla ‘ngiuria. Passai i successivi tre anni a studiare ogni singolo rigo e
1
LOL. M’illumino d’immenso – m’immersi in mezzo
fantasticare sulle origini di quei nomi, finché una notte spinto dalla stessa
voce che mi portò a conoscere le mie violente eiaculazioni, lasciai un
biglietto decorato con eleganti bestemmie multicolore e scappai…
Strinsi i denti in un sardonico sorriso, allungai il braccio sinistro e lo
massaggiai con quello destro. In un profondo respiro, rilassai i muscoli che
sarebbero stati lacerati. Le lame erano calde quando le poggiai sulla pelle
bagnata; iniziai all’altezza della spalla, delicatamente eliminai i peli e poi,
in un secondo momento spinsi decisamente più forte.

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