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marzo 2016
Michel de Certeau
Un teatro della soggettività
a cura di Diana Napoli
Premessa 3
CONTRIBUTI
Bruno Latour Affetti dal capitalismo 111
Edoardo Greblo Al di là del sangue e del suolo.
I dilemmi dell’appartenenza 128
Antonello Sciacchitano Certezza mitica vs
incertezza scientifica 153
Tiziano Possamai La ripetizione come processo
di rimozione adattiva. Da Samuel Butler a
Peter Sloterdijk 164
DISCUSSIONI
Andrea Zhok Rileggere Heidegger alla luce dei
Quaderni neri 178
POST
Pier Aldo Rovatti “Mettersi in gioco.” Qualche
istruzione per l’uso 191
Storia come promessa
del corpo perduto
GAETANO LETTIERI
Q
ueste pagine vorrebbero rilevare, trami-
te la rilettura di poche e brevi citazio-
ni, l’intima relazione certiana tra teoria
e pratica della storia come eterologia e interpretazione delle ori-
gini cristiane, incentrate sulla memoria della perdita del corpo
di Cristo, sulla reviviscenza eucaristica del corpo morto, risorto
e asceso/sottrattosi, quindi sul farsi presente di un’assenza irre-
cuperabile, di cui pure si vive nell’attesa dell’avvento promesso.
La scrittura della storia, se capace di autentica eterologia, dipen-
derebbe da una storicamente determinata fabula mistica. Essa ri-
peterebbe o manterrebbe, pure con tutta l’autonomia e il rigore
della scienza che indaga eventi del passato, una traccia memoria-
le cristiana, capace di distendere la presenza del soggetto – che
assume il ruolo e il luogo dello storico scrittore/narratore – nel-
la a) memoria di un passato che è lacuna, assenza cifrabile, ep-
pure in sé irrecuperabile, e b) ferita che si converte in proten-
sione verso un avvento indisponibile.1 In questa prospettiva, la
Gaetano Lettieri è professore ordinario di Storia del cristianesimo e delle chiese e di Sto-
ria delle dottrine teologiche presso l’Università La Sapienza di Roma. Dal 2012 è presiden-
te nazionale della Consulta universitaria per la storia del cristianesimo e delle chiese. Ha
pubblicato, tra gli altri, saggi sulle origini cristiane, lo gnosticismo, Origene, Agostino e
la loro fortuna sino alla contemporaneità, Machiavelli, Pascal e il giansenismo, il pensiero
teologico contemporaneo, la storia della mistica cristiana, il rapporto tra cristianesimo e
democrazia, la teologia politica.
1. “La figura del passato conserva il suo valore originario, che consiste nel rappresen-
tare ciò che fa difetto. Con un materiale che, per il fatto di essere oggettivo, si trova neces-
sariamente lì, ma in forma tale da connotare un passato nella misura in cui rinvia innanzi-
tutto a un’assenza, l’operazione storica introduce anche la faglia di un futuro. Come è no-
to, un gruppo può esprimere quello che gli si trova di fronte – quello che ancora manca –
soltanto tramite una ridistribuzione del suo passato. Così la storia è sempre ambivalente: il
suo ritagliare un posto per il passato è anche un modo per far posto a un avvenire” (M. de
Certeau, L’écriture de l’histoire, Gallimard, Paris 1975; trad. di A. Jeronimidis, La scrittura
della storia, a cura di S. Facioni, Jaca Book, Milano 20062, cap. “L’operazione storiografi-
ca”, pp. 62-120, in particolare p. 100).
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In effetti il cristianesimo si è istituito su la perdita di un corpo –
perdita del corpo di Gesù, raddoppiata dalla perdita del “corpo”
d’Israele, di una “nazione” e della sua genealogia. Una scomparsa
effettivamente fondatrice. Essa specifica l’esperienza cristiana
rispetto alla certezza che mantiene il popolo ebraico ancorato
alla sua realtà biologica e sociale, dunque a un corpo presente,
distinto e localizzato, separato in mezzo agli altri dall’elezione,
ferito dalla storia e inciso dalle Scritture. La parola cristiana as-
sume forma “cattolica” (universale) e “pentecostale” (spirituale)
solo grazie al distacco che la separa dalla sua origine etnica e da
un’eredità. […] Nel Vangelo di Giovanni, il corpo di Gesù è
strutturato dalla disseminazione, come una scrittura. Da allora i
credenti continuano a interrogarsi – “Dove sei?” – e, di secolo in
secolo, domandano alla storia che passa: “Dove l’hai messo?”.2
2. Id., La fable mystique, 1. XVIe-XVIIe siècle, Gallimard, Paris 1982; trad. di S. Facioni,
Fabula mistica. XVI-XVII secolo, Jaca Book, Milano 2008, cap. “La scienza nuova”, pp. 85-
127, in particolare pp. 87-88.
3. Cfr. P. Royannais, Michel de Certeau: l’anthropologie du croire et la théologie de la fai-
blesse de croire, “Recherches de science religieuse”, 91, 2003, pp. 499-533: “Plutôt que de
partir à la recherche d’un dit qui caractériserait la mystique, Certeau, comme Foucault et le
structuralisme, repère une structure de la parole mystique. Plutôt que de comparer la perti-
nence dogmatique des énoncés, il se met à l’écoute des textes comme l’analyste à celle de l’a-
nalysant. La mystique étudiée apparaît comme un discours nouveau, à la première personne,
qui tente d’arracher à l’objectivité du discours de la théologie devenue scientifique une pos-
sibilité de parler de Dieu autrement qu’à le réduire à un savoir. Là où le discours scientifique
objectivise, rend présent en représentant, assigne à résidence, la stratégie des mystiques pour
parler de l’autre, sans le réduire à ce que l’on en peut connaître, consiste à inscrire le manque
dans le discours; inscrire le manque au cœur du discours c’est, pour les mystiques, la possibi-
lité de recueillir, évanescent, le discours de l’autre” (ivi, p. 500).
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Con la morte, prima, con l’ascensione poi, il corpo di Gesù è del
tutto sottratto e questa incolmabile lacuna, che fonda l’identità
cristiana sin dalla sua origine decostruita, non può essere colmata
dall’identità ebraica di appartenenza etnico-religiosa, all’interno
della quale una faglia si è rivelata come crisi insanabile, quindi
come alterità non più identificabile.
La stessa cattolicità dipende da un processo di disseminazio-
ne paradossalmente atopico, ove il corpo stesso di Gesù è dap-
pertutto e in nessun luogo, in un’infinita esperienza di esodo e di
rincorsa, che non può che condurre al di fuori di qualsiasi tra-
dizione e verità identitaria, religiosa, culturale, nazionale, poli-
tica, fino a compiersi nella più radicale secolarizzazione, nell’ul-
tima kenosi della dispersione. La storia cristiana si costituirebbe
come farsi carico dell’assenza del corpo amato, quindi come me-
moria di una differenza incolmabile: narrazione di un incontro
perduto, memoria chiamata a cercare in ogni altro in infinitum il
proprio oggetto d’amore, attesa di un ritorno sottratto a qualsia-
si possibilità di presa. Dove sei? Dove l’hai messo? Dove ti cerco
e dove ti ritrovo? Nell’attesa di quel singolarissimo corpo perdu-
to, tutti gli infiniti corpi perduti, morti, persino dimenticati, sono
cercati, ricordati, amati e attesi come tracce dell’Altro.
Infatti, come la storia di Israele nasce a partire dall’esodo, così
la storia cristiana non può che ripeterne all’infinito – disseminan-
dosi fino alla cancellazione – quel movimento costitutivo di fuo-
riuscita dalla presenza: l’origine è escatologica, estatica, kenotica.
Alla ricerca di quel singolarissimo, irripetibile corpo perduto, si
diceva, il cristianesimo nasce come assoluto perdersi per cercarlo
ovunque. Se il corpo è prima morto, poi riapparso per essere an-
cora più radicalmente sottratto alla presa, il cristianesimo si fon-
da su un’assenza raddoppiata, afferma la propria identità come
irriducibilmente eterologica e mortuaria, è teofania dello scom-
parso, quindi logos di morte. Fino all’estrema possibilità dell’a-
teismo, del nichilismo stesso, senza i quali il discorso credente
non avrebbe credibilità alcuna.4
4. F.C. Bauerschmidt, The Otherness of God, in I. Buchanan (a cura di), Michel de Cer-
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Ma questo logos diviene, paradossalmente, accoglienza infini-
ta di vita, esposizione inerme all’evento: essendo inesausta ricer-
ca e attesa del ritorno del corpo perduto, è insopprimibile ospita-
lità politica dell’altro-a-venire, di qualsiasi altro-a-venire, di ebreo,
pagano o chicchessia. La carità, allora, è il rischio assoluto im-
posto dalla fedeltà al corpo perduto, di colui che aveva afferma-
to l’eterologia assoluta dell’ama il tuo nemico (Vangelo di Matteo
5,43-48), l’esposizione impossibile del porgi l’altra guancia (5,38-
42), l’apocalisse catastrofica delle beatitudini (5,1-12), la dissemi-
nazione infinita della pura gratuità del donare, sicché si può do-
nare soltanto “senza saperlo”, in-avvertitamente, come se si fosse
furtivamente derubati del proprio, senza che una mano sappia cosa
faccia l’altra (6,3-4). E tutto ciò come rivelazione dell’utopico “se-
greto” come luogo nel quale Dio vede e avviene (cfr. 6,5-6; 6,16-
17), quel Dio che quindi può solo essere invocato come escatolo-
gico (e inevitabilmente universale) Pater noster (cfr. 6,7-14):
Con una parola si potrebbe dire: mentre l’altro è per noi sempre
una minaccia di morte, il credente, con un movimento irragio-
nevole, da lui attende anche la vita. Far posto al prossimo, sarà
cedere il proprio posto – poco o tanto morire – e vivere... Questo
lavoro di ospitalità nei riguardi di ciò che è straniero è la forma
stessa del linguaggio cristiano. Non si produce se non parzial-
mente; resta relativo al posto particolare che si “occupa”. Non
è mai finito. È perduto, felicemente annegato nell’immensità
della storia umana. Sparisce come Gesù tra la folla.5
teau – in the Plural, “The South Atlantic Quarterly”, 2, 100, 2001, pp. 349-364, in partico-
lare pp. 360-361.
5. M. de Certeau, La faiblesse de croire, Seuil, Paris 1987; trad. di S. Morra, Debolez-
za del credere. Fratture e transiti del cristianesimo, Città Aperta, Troina 2006, pp. 238-239.
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verso un evento incondizionabile.6 Soltanto questa può essere
un’autentica antropologia giudaica-cristiana. L’Ego sum qui sum
di Esodo 3,14 è il nome che nascostamente rivela il differire di
Dio: nome del sottrarsi del nome, “traccia di un ritiro”,7 il “sarò
quel che sarò” può e deve persino rovesciarsi nell’assolutamente
inquietante, minaccioso, mortale “sarà quel che sarà”.
Ebbene, il nome cristiano che risponde all’Ego sum qui sum
non può che essere il confessivo “ego sum quicumque sum”,8 l’e-
statico io sono chiunque sia, io sono quel che mi sarà dato di esse-
re, il qui pro quo, quell’altro-che-viene-in-me come io, divenu-
to portavoce di un’altra Parola che parla in me.9 Per questo l’“e-
go sum qui sum” è il nome im-proprio che Agostino graziato ri-
ferisce a sé all’inizio del X libro delle Confessiones, introducendo
la straordinaria immersione nella memoria, luogo dell’interiorità
ove la Presenza assoluta si dà latitando, venendo soltanto come
Dono, come infinito differire. Dunque, l’“ego sum qui sum” è
l’iperbolica “nominazione” eterologica e autodecostruttiva della
soggettività estatica (temporalmente confessiva, narrativa nel suo
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darsi soltanto eventuale), che è in sé soltanto differendo da sé, al-
terandosi, o meglio essendo alterata, ospitando l’alterità prima di
qualsiasi proprietà identitaria. Quello agostiniano è pertanto un
soggetto eucaristico, che fa memoria della passione, morte, re-
surrezione, avvento interminabile di Cristo.
Nutrendosi di quel corpo scomparso, l’eucarestia non può
che divenire storia, memoria del futuro:
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più o meno consapevolmente segnata da un debito,12 dal rapporto
di accoglienza e rimozione di un’eterologia che potremmo definire
apocalittica o, con Derrida, messianica senza più messianismo:
la memoria del passato come apertura al futuro, dal quale l’altro
si attende venire; il lavoro di memoria come custodia, attesa e
dischiusura liberante del morto e come (neotestamentaria!)13 in-
vocazione all’Altro: “Vieni!”.14
12. “La storia moderna occidentale inizia con la differenza tra il presente e il passato.
Per questo, si distingue anche dalla tradizione (religiosa), da cui non riesce mai a separar-
si completamente, mantenendo con quest’archeologia una relazione di indebitamento e di
rigetto” (M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., cap. “Scritture e storia”, pp. 5-21, in
particolare p. 7).
13. “Maranà Tha, Vieni Signore” (1 Cor 16,22; Ap 22,20); cfr. Ap 22,17.
14. Cfr. J. Derrida, Psyché. Inventions de l’autre, vol. I, Seuil, Paris 1987, 19882; trad.
di R. Balzarotti, Psyché. Invenzioni dell’altro, vol. I, Jaca Book, Milano 2008, I, pp. 11-66,
in particolare pp. 64-66. Scrive Nancy dell’intera filosofia di Derrida: “‘Vieni!’ sarà stata
la sua parola, forse, in un certo senso, il suo pensiero più forte. ‘Vieni!’ non rimanda a più
tardi, non programma una presenza come parousia: l’ousia o l’essere vi si sospende tutto
intero e vi si ritira. ‘Vieni!’ è qui e adesso, nella distensione dell’istante” (J.-L. Nancy, Der-
rida da capo, in G. Dalmasso, a cura di, A partire da Jacques Derrida. Struttura, decostru-
zione, ospitalità, responsabilità, Jaca Book, Milano 2007, pp. 17-24, in particolare p. 23).
15. Cfr. M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., pp. 11-16, par. “Storia e politica:
un posto”.
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tutt’al più erudita del passato, tenta ingenuamente di cancella-
re la natura irriducibilmente temporale e mortale della storia,
dell’uomo, della sua cultura.16 Evoca i morti per sacrificarli e in-
terrarli in una tomba, che garantisca con la sua stessa chiusura
una loro presenza soltanto fittizia, di fatto funzionale ai sistemi
di garanzia sociale.17 Con la sua pretesa di oggettività scientifica,
erede dell’ontoteologia cristiana che pure vuole togliere e supera-
re, la scrittura moderna della storia si pone come presa di pote-
re, volontà conquistatrice di dominio e denominazione dei cor-
pi (simboleggiata dall’incisione Vespucci davanti all’indiana che si
chiama America di Jan van der Straet, che apre La scrittura della
storia), strumento di ancoraggio a identità capaci di garantire il
presente: surrogati illusorii delle presenze reali, che si danno nel-
la storia soltanto come assenti, quindi come corpo di desiderio.
Al contrario, Certeau pensa alla scrittura della storia non co-
me esorcistica operazione di soggiogamento del tempo e della
morte, ma come foucaultiana invenzione della forzatura dei di-
spositivi identitari; quindi come eterologa “rottura instauratri-
ce”, effrazione utopica dei dispositivi ideologici e delle relazio-
ni sociali dominanti. Ma con e oltre Foucault, la storia certia-
na è inquietante, gira a vuoto, intorno a un presente che manca.
Essa mette al centro del metodo le nozioni di scarto, resistenza,
lapsus, faglia, taglio, di lavoro sul limite e sul particolare, di rap-
16. “La storia erudita […] pretende di ricondurre dei contenuti nel testo, ma per sal-
vare dall’oblio queste positività, deve dimenticare che obbedisce al dovere di produrre una
finzione letteraria destinata a ingannare la morte, a nascondere l’effettiva assenza delle fi-
gure di cui parla. Fa come se esistesse, tesa a costruire del verosimile e a colmare le lacune
attraverso le quali si rivelerebbe l’irreparabile perdita della presenza, ma viene in definitiva
autorizzata dal posto di specialista come presenza; mira così a cancellare il proprio rappor-
to con il tempo. È discorso” (ivi, p. 339).
17. “La scrittura non parla del passato che per seppellirlo. È una tomba, nel duplice
senso che, attraverso lo stesso testo, onora ed elimina. Il linguaggio ha qui la funzione di
introdurre nel dire quello che non si fa più. Esorcizza la morte e la colloca nel racconto che
le sostituisce pedagogicamente qualcosa che il lettore deve credere e fare […]. Una società
si dà così un presente grazie a una scrittura storica […]. Costruisce una ‘tomba’ per il mor-
to […]. Si può allora dire che fa dei morti affinché vi siano altrove dei vivi” (ivi, pp. 119-
120). Invece, l’eucarestia cristiana – che pure è una macchina culturale che vuole trarre vi-
ta da morte – celebra e attende l’avvento inesauribile del morto fuori-uscito dal sepolcro,
di chi inquieta la storia, come uno spettro.
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porto irrinunciabile con il limite del pensabile, con le tracce mu-
te che la morte ha definitivamente cancellate,18 con l’oblio stesso.
Così come la lingua del mistico, disdicendo il Discorso incontro-
vertibile, si avvicina sempre più al silenzio, alla morte e all’assen-
za della Parola, così come il soggetto “mistico” differisce tempo-
ralmente in sé, protendendosi verso un corpo assente di cui inse-
gue le tracce disseminate (ritrovandolo nelle parole insignifican-
ti, come negli innumerevoli corpi di carità), così lo storico ete-
rologo decostruisce la pretesa di identificazione del passato, ne
evidenzia l’impossibile ricomposizione, la dolorosa irriducibile
perdita, eppure la sfida liberante che la sua assenza sempre costi-
tuisce per la pretesa di identità presenziale.
La storia è autentica operazione umanizzante se è storia degli
scarti rispetto ai sistemi della garanzia di presenza, se tenta im-
possibilmente di aprirsi al ritorno del rimosso, alle sue impre-
vedibili reviviscenze, capaci di generare sempre nuove identi-
tà: storia, quindi, eminentemente messianica (e benjaminiana)19
dei morti, degli ultimi, dei reietti, di coloro che parlano un’al-
tra lingua, anzi che tacciano muti, rimossi, cancellati, rispetto al
Discorso dominante, dogmatico e persino illuministico, incontro-
vertibilmente scientifico, oggettivo, del tutto lucido ed evidente,
quindi sempre violento e ingannevole.
Diventa pertanto comprensibile perché La scrittura della sto-
ria si concluda con un’intera sezione di Scritture freudiane. Im-
pegnato a sottolineare l’eccedenza del metodo analitico rispet-
to al pure condizionante metodo scientifico oggettivista e positi-
vista – in fondo condiviso con il metodo di scrittura della storia
dominante nella modernità –, Certeau interpreta (troppo laca-
nianamente?) l’analisi freudiana come irriducibile all’applicazio-
ne ripetitiva, all’automatismo di una scienza esatta. Freud rifiu-
terebbe di sottoporre l’analizzato corpo psichico a delle leggi in-
variabili, riconoscendo l’analisi come possibilità critica rigorosa
di un’interpretazione della prassi arrischiata, mai oggettivamente
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garantita, dunque come interminabile chiarificazione esposta al-
la sorpresa:
20. Id., La scrittura della storia, cit., cap. “Quello che Freud fa della storia”, pp. 297-
318, in particolare pp. 316-318.
21. “Nella citazione come nella parola, l’analisi insinua il plurale al posto dell’univoco.
[…] Essa restaura in ogni luogo un movimento a cui partecipa – proprio perché confessa
il suo rapporto con il non sapere, il suo debito nei confronti dell’altro e i suoi conflitti inter-
ni” (ivi, p. 350, corsivo mio).
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del dubbio confessato, della divisione esplicitata, in sostanza
dell’impossibilità di un luogo proprio. Essa articola un fatto
costantemente iniziale, quello cioè che il soggetto non è mai
autorizzato da un luogo, che non può fondarsi in un cogito inal-
terabile, che rimane estraneo a se stesso e privato per sempre
di un suolo ontologico, e dunque sempre un resto o un eccesso,
sempre debitore di una morte, indebitato rispetto alla sparizione
di una “sostanza” genealogica e territoriale, legato a un nome
senza proprietà. Questa perdita e quest’obbligo generano la
scrittura.22
42
storia dia-logale del transfert, durante la quale l’analista è “chia-
mato dal paziente in un luogo dove egli non è”, ed è debitore
di questo luogo estraneo di cui egli rifiuta di appropriarsi. […]
Questo discorso non ha mai cessato di scriversi […]. Quando
si ferma non è perché arriva. Come una favola, non conclude.
Rimane in sospeso nel momento dell’enigma della contrad-
dizione o del dubbio. […] Esso è obbligo di essere passante,
di passare all’infinito. È necessario quello che non cessa di
scriversi. Occorre continuamente tracciare il debito. Scrivere
è quanto rimane da fare in un cammino “interminabile” dove
si ripete l’avvenimento che non ha (avuto) luogo.24
43
il plurale. È il principio della scrittura, dell’analisi (analysis, divi-
sione, scomposizione) e della storia.”26
Ma dire che Mosè è l’ebreo-egizio significa, inversamente,
dire che il cristiano è il pagano-ebreo, colui che – come affer-
ma apertamente Paolo in Romani 11 – è innestato contro natu-
ra su un’altra radice, quella ebraica, nella quale soltanto l’espo-
sizione all’indisponibilità inappropriabile del Dono lo connette.
Se quindi il luogo del cristiano è l’alterità sottratta ed espropria-
ta dell’ebreo, il luogo dell’ebreo è l’alterità sottratta ed espro-
priata dell’egizio, del pagano. Il soggetto è sempre, in se stes-
so, un fuori-uscito. La psiche è divisa, l’identità è alterità, la ve-
rità differisce incessantemente, l’archeologia è un’escatologia, la
sacralità è contaminata e disseminata, la storia è una scrittura in-
finita, attraverso la quale nessun luogo è occupabile come pote-
re identitario, ma interminabilmente il senso si sottrae kenotico,
avvenendo sempre fuori luogo.27 Cristica, messianica o apocalit-
tica che dir si voglia, questa eterologia taglia e inquieta l’identi-
tà culturale e la nostra scrittura della storia. Essa dice l’uno e l’al-
tro, l’affermazione e la negazione: è accettazione amorosa del sot-
trarsi del corpo perduto, che promette di tornare e a cui, nell’at-
tesa, si risponde soltanto con innumeri sì, nella ripetizione arri-
schiata della fede priva di garanzie, fede che è lo stesso differire
del desiderio nel tempo. Come se la storia non potesse che dive-
nire, da fittizio discorso scientifico, autentica, estatica invocazio-
ne confessiva.28
“Freud reintroduce l’altro nel posto. Questo è ‘Mosè egi-
zio’.”29 L’altro nel posto, quindi il fuori luogo che contraddice
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“la ragione del luogo” e il suo preteso, violento, sempre politico
potere identitario.30 Al contrario, con Freud “ebreo-che-è-paga-
no”, si riconosce il differire nell’identità, la storia della psiche e
della cultura come indisponibile venuta dell’Altro inappropria-
bile; compito politico infinito della democrazia-a-venire. Ecco
perché, per Certeau interprete di Freud, la narrazione deve so-
stituire la definizione: perché il Senso non è mai dato, ma con-
tinua a venire e a promettersi; e per questo avviene sottraendo-
si, si comunica soltanto eventualmente, nell’assenza di presen-
te che è il dono. Come scrive Derrida, nel suo saggio dedicato a
Certeau:
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“Ego sum quicumque sum”,32 io sono chiunque sia, altro, impro-
prio33 e ignoto a me stesso, colui nel quale l’Altro/altro viene, grazie
al quale mi confesso sottratto a me stesso; privo di ragione del
luogo, espropriato ed estaticamente proteso, io attraverso il tempo
nel quale differisco in me – “at ego in tempora dissilui”34 –, verso
l’assenza del corpo perduto, eppure promesso, cercato e atteso.
32. “La teoria, interamente investita nell’operazione di scriversi, è il lavoro del sog-
getto che si produce in quanto può solo inscriversi, analiticamente, nella forma del qui pro
quo” (M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., p. 348).
33. “Non c’è più un luogo proprio come non c’è nome proprio” (ivi, p. 335).
34. “At ego in tempora dissilui, quorum ordinem nescio, et tumultuosis varietatibus
dilaniantur cogitationes meae, intima viscera animae meae, donec in te confluam purgatus
et liquidus igne amoris tui” (Agostino Confessiones XI, 29, 39).
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