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marzo 2016

Michel de Certeau
Un teatro della soggettività
a cura di Diana Napoli

Premessa 3

Élisabeth Roudinesco Michel de Certeau


o l’erotizzazione della storia 9
Diana Napoli Il Don Coucoubazar 16
Gaetano Lettieri Storia come promessa del corpo
perduto 31
Silvana Borutti Tracce e resti. Forme dell’alterità
in Michel de Certeau 47
Rossana Lista Il soggetto in Michel de Certeau:
un’identità impossibile 64
François Dosse Michel de Certeau e l’archivio.
L’enigma irrisolto della storia 79
Alfonso Mendiola L’altro del sapere 95

CONTRIBUTI
Bruno Latour Affetti dal capitalismo 111
Edoardo Greblo Al di là del sangue e del suolo.
I dilemmi dell’appartenenza 128
Antonello Sciacchitano Certezza mitica vs
incertezza scientifica 153
Tiziano Possamai La ripetizione come processo
di rimozione adattiva. Da Samuel Butler a
Peter Sloterdijk 164

DISCUSSIONI
Andrea Zhok Rileggere Heidegger alla luce dei
Quaderni neri 178

POST
Pier Aldo Rovatti “Mettersi in gioco.” Qualche
istruzione per l’uso 191
Storia come promessa
del corpo perduto
GAETANO LETTIERI

Q
ueste pagine vorrebbero rilevare, trami-
te la rilettura di poche e brevi citazio-
ni, l’intima relazione certiana tra teoria
e pratica della storia come eterologia e interpretazione delle ori-
gini cristiane, incentrate sulla memoria della perdita del corpo
di Cristo, sulla reviviscenza eucaristica del corpo morto, risorto
e asceso/sottrattosi, quindi sul farsi presente di un’assenza irre-
cuperabile, di cui pure si vive nell’attesa dell’avvento promesso.
La scrittura della storia, se capace di autentica eterologia, dipen-
derebbe da una storicamente determinata fabula mistica. Essa ri-
peterebbe o manterrebbe, pure con tutta l’autonomia e il rigore
della scienza che indaga eventi del passato, una traccia memoria-
le cristiana, capace di distendere la presenza del soggetto – che
assume il ruolo e il luogo dello storico scrittore/narratore – nel-
la a) memoria di un passato che è lacuna, assenza cifrabile, ep-
pure in sé irrecuperabile, e b) ferita che si converte in proten-
sione verso un avvento indisponibile.1 In questa prospettiva, la

Gaetano Lettieri è professore ordinario di Storia del cristianesimo e delle chiese e di Sto-
ria delle dottrine teologiche presso l’Università La Sapienza di Roma. Dal 2012 è presiden-
te nazionale della Consulta universitaria per la storia del cristianesimo e delle chiese. Ha
pubblicato, tra gli altri, saggi sulle origini cristiane, lo gnosticismo, Origene, Agostino e
la loro fortuna sino alla contemporaneità, Machiavelli, Pascal e il giansenismo, il pensiero
teologico contemporaneo, la storia della mistica cristiana, il rapporto tra cristianesimo e
democrazia, la teologia politica.
1. “La figura del passato conserva il suo valore originario, che consiste nel rappresen-
tare ciò che fa difetto. Con un materiale che, per il fatto di essere oggettivo, si trova neces-

aut aut, 369, 2016, 31-46 31


stessa spiazzante conclusione di La scrittura della storia, con due
densissimi capitoli dedicati a Freud e al rapporto tra psicoanali-
si, storia e interpretazione del religioso, restituirebbe come leg-
ge della coscienza l’affermazione, rintracciata a partire dal Mosè
freudiano, ma enunciata come segreto dello stesso annuncio cri-
stiano, secondo la quale: “L’identità non è uno, ma due”.
La scrittura della storia, pertanto, si costituirebbe a partire
da questa verità davvero “apocalittica”, in quanto decostruttiva
di qualsiasi identità: cristologicamente, il soggetto vive della sua
morte, si identifica nel suo rapporto con un’alterità irriducibi-
le, è aperto progettualmente soltanto a partire dalla memoria di
un’assenza. Sicché un accenno, almeno, sarà dedicato a indicare
un possibile legame – lacaniano? – tra Freud e Agostino (il qua-
le è una strana lacuna nella documentazione della produzione di
Certeau, forse presto colmata attraverso la pubblicazione di al-
cuni inediti), tra analisi e confessio, decostruzione dell’io padro-
ne di sé e apertura all’evento dell’Altro, che sola costituisce la
soggettività come temporalità consapevole, crisi e decisione, per-
dita e protensione, quindi come storicità.

1. La matrice dell’opera di Certeau: il differire


dell’origine cristiana
La storia delle origini cristiane dipende da due perdite irreparabili:
la perdita di Gesù, il Messia, l’Amato, il porta Parola di Dio, in
particolare la perdita del suo corpo come oggetto storico d’amore;
la perdita dell’identità religiosa, culturale, nazionale subita dagli
ebrei assolutamente erranti, che perdono Israele, inseguendo colui
che è ri-apparso sottraendosi:

sariamente lì, ma in forma tale da connotare un passato nella misura in cui rinvia innanzi-
tutto a un’assenza, l’operazione storica introduce anche la faglia di un futuro. Come è no-
to, un gruppo può esprimere quello che gli si trova di fronte – quello che ancora manca –
soltanto tramite una ridistribuzione del suo passato. Così la storia è sempre ambivalente: il
suo ritagliare un posto per il passato è anche un modo per far posto a un avvenire” (M. de
Certeau, L’écriture de l’histoire, Gallimard, Paris 1975; trad. di A. Jeronimidis, La scrittura
della storia, a cura di S. Facioni, Jaca Book, Milano 20062, cap. “L’operazione storiografi-
ca”, pp. 62-120, in particolare p. 100).

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In effetti il cristianesimo si è istituito su la perdita di un corpo –
perdita del corpo di Gesù, raddoppiata dalla perdita del “corpo”
d’Israele, di una “nazione” e della sua genealogia. Una scomparsa
effettivamente fondatrice. Essa specifica l’esperienza cristiana
rispetto alla certezza che mantiene il popolo ebraico ancorato
alla sua realtà biologica e sociale, dunque a un corpo presente,
distinto e localizzato, separato in mezzo agli altri dall’elezione,
ferito dalla storia e inciso dalle Scritture. La parola cristiana as-
sume forma “cattolica” (universale) e “pentecostale” (spirituale)
solo grazie al distacco che la separa dalla sua origine etnica e da
un’eredità. […] Nel Vangelo di Giovanni, il corpo di Gesù è
strutturato dalla disseminazione, come una scrittura. Da allora i
credenti continuano a interrogarsi – “Dove sei?” – e, di secolo in
secolo, domandano alla storia che passa: “Dove l’hai messo?”.2

Questo significa identificare la scaturigine “mistica” di qualsiasi


discorso cristiano, ove per “mistica” si intende qui non una tec-
nica spirituale o la definizione oggettiva di una disciplina, bensì
la struttura paradossalmente aperta, per questo irriducibilmente
soggettiva, confessiva, narrativa del vivere/pensare/parlare di Dio
e del sé come eterologico.3 Proprio in quanto fondato sul corpo
di Gesù, “luogo” storico irrinunciabile di rivelazione e oggetto
assolutamente privilegiato di amore, il discorso mistico non può
essere che eterologico, fratto, differente, quindi inconcludente.

2. Id., La fable mystique, 1. XVIe-XVIIe siècle, Gallimard, Paris 1982; trad. di S. Facioni,
Fabula mistica. XVI-XVII secolo, Jaca Book, Milano 2008, cap. “La scienza nuova”, pp. 85-
127, in particolare pp. 87-88.
3. Cfr. P. Royannais, Michel de Certeau: l’anthropologie du croire et la théologie de la fai-
blesse de croire, “Recherches de science religieuse”, 91, 2003, pp. 499-533: “Plutôt que de
partir à la recherche d’un dit qui caractériserait la mystique, Certeau, comme Foucault et le
structuralisme, repère une structure de la parole mystique. Plutôt que de comparer la perti-
nence dogmatique des énoncés, il se met à l’écoute des textes comme l’analyste à celle de l’a-
nalysant. La mystique étudiée apparaît comme un discours nouveau, à la première personne,
qui tente d’arracher à l’objectivité du discours de la théologie devenue scientifique une pos-
sibilité de parler de Dieu autrement qu’à le réduire à un savoir. Là où le discours scientifique
objectivise, rend présent en représentant, assigne à résidence, la stratégie des mystiques pour
parler de l’autre, sans le réduire à ce que l’on en peut connaître, consiste à inscrire le manque
dans le discours; inscrire le manque au cœur du discours c’est, pour les mystiques, la possibi-
lité de recueillir, évanescent, le discours de l’autre” (ivi, p. 500).

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Con la morte, prima, con l’ascensione poi, il corpo di Gesù è del
tutto sottratto e questa incolmabile lacuna, che fonda l’identità
cristiana sin dalla sua origine decostruita, non può essere colmata
dall’identità ebraica di appartenenza etnico-religiosa, all’interno
della quale una faglia si è rivelata come crisi insanabile, quindi
come alterità non più identificabile.
La stessa cattolicità dipende da un processo di disseminazio-
ne paradossalmente atopico, ove il corpo stesso di Gesù è dap-
pertutto e in nessun luogo, in un’infinita esperienza di esodo e di
rincorsa, che non può che condurre al di fuori di qualsiasi tra-
dizione e verità identitaria, religiosa, culturale, nazionale, poli-
tica, fino a compiersi nella più radicale secolarizzazione, nell’ul-
tima kenosi della dispersione. La storia cristiana si costituirebbe
come farsi carico dell’assenza del corpo amato, quindi come me-
moria di una differenza incolmabile: narrazione di un incontro
perduto, memoria chiamata a cercare in ogni altro in infinitum il
proprio oggetto d’amore, attesa di un ritorno sottratto a qualsia-
si possibilità di presa. Dove sei? Dove l’hai messo? Dove ti cerco
e dove ti ritrovo? Nell’attesa di quel singolarissimo corpo perdu-
to, tutti gli infiniti corpi perduti, morti, persino dimenticati, sono
cercati, ricordati, amati e attesi come tracce dell’Altro.
Infatti, come la storia di Israele nasce a partire dall’esodo, così
la storia cristiana non può che ripeterne all’infinito – disseminan-
dosi fino alla cancellazione – quel movimento costitutivo di fuo-
riuscita dalla presenza: l’origine è escatologica, estatica, kenotica.
Alla ricerca di quel singolarissimo, irripetibile corpo perduto, si
diceva, il cristianesimo nasce come assoluto perdersi per cercarlo
ovunque. Se il corpo è prima morto, poi riapparso per essere an-
cora più radicalmente sottratto alla presa, il cristianesimo si fon-
da su un’assenza raddoppiata, afferma la propria identità come
irriducibilmente eterologica e mortuaria, è teofania dello scom-
parso, quindi logos di morte. Fino all’estrema possibilità dell’a-
teismo, del nichilismo stesso, senza i quali il discorso credente
non avrebbe credibilità alcuna.4

4. F.C. Bauerschmidt, The Otherness of God, in I. Buchanan (a cura di), Michel de Cer-

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Ma questo logos diviene, paradossalmente, accoglienza infini-
ta di vita, esposizione inerme all’evento: essendo inesausta ricer-
ca e attesa del ritorno del corpo perduto, è insopprimibile ospita-
lità politica dell’altro-a-venire, di qualsiasi altro-a-venire, di ebreo,
pagano o chicchessia. La carità, allora, è il rischio assoluto im-
posto dalla fedeltà al corpo perduto, di colui che aveva afferma-
to l’eterologia assoluta dell’ama il tuo nemico (Vangelo di Matteo
5,43-48), l’esposizione impossibile del porgi l’altra guancia (5,38-
42), l’apocalisse catastrofica delle beatitudini (5,1-12), la dissemi-
nazione infinita della pura gratuità del donare, sicché si può do-
nare soltanto “senza saperlo”, in-avvertitamente, come se si fosse
furtivamente derubati del proprio, senza che una mano sappia cosa
faccia l’altra (6,3-4). E tutto ciò come rivelazione dell’utopico “se-
greto” come luogo nel quale Dio vede e avviene (cfr. 6,5-6; 6,16-
17), quel Dio che quindi può solo essere invocato come escatolo-
gico (e inevitabilmente universale) Pater noster (cfr. 6,7-14):

Con una parola si potrebbe dire: mentre l’altro è per noi sempre
una minaccia di morte, il credente, con un movimento irragio-
nevole, da lui attende anche la vita. Far posto al prossimo, sarà
cedere il proprio posto – poco o tanto morire – e vivere... Questo
lavoro di ospitalità nei riguardi di ciò che è straniero è la forma
stessa del linguaggio cristiano. Non si produce se non parzial-
mente; resta relativo al posto particolare che si “occupa”. Non
è mai finito. È perduto, felicemente annegato nell’immensità
della storia umana. Sparisce come Gesù tra la folla.5

Ma questo significa che io-sono-l’altro, che io porto in me l’al-


tro come mia scaturigine. L’io differisce irriducibilmente in sé:
l’ospitalità l’ha sempre già espropriato, la sua presenza è sempre
decostruita e contaminata dalla passione e dalla morte, protesa

teau – in the Plural, “The South Atlantic Quarterly”, 2, 100, 2001, pp. 349-364, in partico-
lare pp. 360-361.
5. M. de Certeau, La faiblesse de croire, Seuil, Paris 1987; trad. di S. Morra, Debolez-
za del credere. Fratture e transiti del cristianesimo, Città Aperta, Troina 2006, pp. 238-239.

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verso un evento incondizionabile.6 Soltanto questa può essere
un’autentica antropologia giudaica-cristiana. L’Ego sum qui sum
di Esodo 3,14 è il nome che nascostamente rivela il differire di
Dio: nome del sottrarsi del nome, “traccia di un ritiro”,7 il “sarò
quel che sarò” può e deve persino rovesciarsi nell’assolutamente
inquietante, minaccioso, mortale “sarà quel che sarà”.
Ebbene, il nome cristiano che risponde all’Ego sum qui sum
non può che essere il confessivo “ego sum quicumque sum”,8 l’e-
statico io sono chiunque sia, io sono quel che mi sarà dato di esse-
re, il qui pro quo, quell’altro-che-viene-in-me come io, divenu-
to portavoce di un’altra Parola che parla in me.9 Per questo l’“e-
go sum qui sum” è il nome im-proprio che Agostino graziato ri-
ferisce a sé all’inizio del X libro delle Confessiones, introducendo
la straordinaria immersione nella memoria, luogo dell’interiorità
ove la Presenza assoluta si dà latitando, venendo soltanto come
Dono, come infinito differire. Dunque, l’“ego sum qui sum” è
l’iperbolica “nominazione” eterologica e autodecostruttiva della
soggettività estatica (temporalmente confessiva, narrativa nel suo

6. J. Derrida, Adieu à Emmanuel Lévinas, Galilée, Paris 1997; trad. di S. Petrosino e


M. Odorici, Addio a Emmanuel Lévinas, Jaca Book, Milano 1998, p. 107: “L’ospitalità pre-
cede la proprietà”; e ancora: “L’altro è in me prima di me: l’ego (anche collettivo) impli-
ca l’alterità come propria condizione. Non si tratta di un io che eticamente fa posto all’al-
tro, ma che è strutturato dall’alterità in lui e che è lui stesso in stato di autodecostruzione,
di dislocazione […]. Perciò parlo di messianico: l’altro, in ogni modo, c’è, verrà, se vuole,
ma prima di me, prima che abbia potuto prevederlo” (J. Derrida con M. Ferraris, Il gusto
del segreto, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 101).
7. Cfr. M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., cap. “La finzione della storia”, pp.
319-367, in particolare pp. 359-361, dove Certeau si dedica a quest’analisi decostruttiva
della paradossale denominazione di Esodo 3,14, con la quale il Dio si rivela come essenzial-
mente nascosto. Notando la singolare assenza della questione del nome di Dio nel Mosè di
Freud, Lacan parla di “ellissi”, Certeau addirittura di vera e propria “rimozione” (p. 359).
Cfr. Id., Fabula mistica, cit., p. 205: “Il soggetto spirituale sorge da un ritrarsi o da un ritar-
do degli oggetti del mondo. Nasce da un esilio. Si forma dal non volere niente e dall’esse-
re soltanto garante del puro significante ‘Dio’ o ‘Yahvè’ la cui sigla, a partire dal Roveto ar-
dente, è l’atto di bruciare tutti i segni: Ho per nome solo ciò che ti fa partire”.
8. Agostino, Confessiones, X, 3, 4.
9. Riferendosi a Teresa d’Avila, scrive Certeau: “‘Chi altro abita in te?’ e ‘A chi parli?’.
Una problematica dell’essere e della coscienza è deviata di colpo verso l’enunciazione, cioè
verso una struttura dialogale dell’alterazione – ‘Tu sei l’altro di te stesso’. L’anima diventa
il luogo dove tale separazione dal con sé è l’esito di un’ospitalità, di volta in volta ‘ascetica’ e
‘mistica’, che fa posto all’altro. E poiché quest’‘altro’ è infinito, l’anima è uno spazio infini-
to in cui entrare e ricevere –, ‘le Indie di Dio’” (Fabula mistica, cit., p. 225).

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darsi soltanto eventuale), che è in sé soltanto differendo da sé, al-
terandosi, o meglio essendo alterata, ospitando l’alterità prima di
qualsiasi proprietà identitaria. Quello agostiniano è pertanto un
soggetto eucaristico, che fa memoria della passione, morte, re-
surrezione, avvento interminabile di Cristo.
Nutrendosi di quel corpo scomparso, l’eucarestia non può
che divenire storia, memoria del futuro:

Hoc est corpus meum, “Questo è il mio corpo”: questo logos


centrale richiama uno scomparso e chiama un’effettività. Quanti
prendono sul serio questo discorso sono coloro che provano
il dolore di un’assenza di corpo. La “nascita” che attendono
tutti, in un modo o nell’altro, deve inventare al verbo un corpo
d’amore. Di qui il loro andare in cerca di “annunciazioni”, di
parole che facciano corpo, di un parto mediante l’orecchio.10

La storia cristiana cerca, pertanto, di significare l’assenza di quel


corpo con l’invenzione di altri corpi; di un corpus mysticum, ap-
punto, che designa prima l’eucarestia, poi la chiesa, infine la storia
secolarizzata, nel suo ultimo differire cristiano.11 E non nasce la
storia cristiana come compensazione del ritardo della parousia,
attraverso il quale si apre il tempo della conversione dell’altro?
La storia umana, che vive del comune protendersi verso l’evento
della nascita, dell’avvento del nuovo, è interpretata come infinita
attesa, invenzione, paradossale memoria di un corpo d’amore: il
“dogma” dell’incarnazione del Verbo, quindi l’eucarestia (pre-
senza decostruita, teofania kenotica, nuova identità escatologica)
come il darsi di quel corpo che sempre differisce, ne è, per Certeau
(un paradossale Abramo neohegeliano?), il segreto. Sicché la storia
moderna, pure fuoriuscita da qualsiasi ipoteca e tutela teologica,
comunque continua, nella sua stessa pratica scientifica, a essere

10. Ivi, p. 86.


11. “Con gli avvenimenti che sono echi venuti d’altrove, con i discorsi cristiani che co-
dificano l’ermeneutica di nuove esperienze, e con le pratiche comunitarie che rendono
presente una carità, essi ‘inventano’ un corpo mistico – mancante e cercato – che sarebbe
anche il loro” (ivi, p. 88).

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più o meno consapevolmente segnata da un debito,12 dal rapporto
di accoglienza e rimozione di un’eterologia che potremmo definire
apocalittica o, con Derrida, messianica senza più messianismo:
la memoria del passato come apertura al futuro, dal quale l’altro
si attende venire; il lavoro di memoria come custodia, attesa e
dischiusura liberante del morto e come (neotestamentaria!)13 in-
vocazione all’Altro: “Vieni!”.14

2. Storia e psicoanalisi: l’uno-e-l’altro


Storia secolare e “mistica eucaristica” dell’atopica origine cristia-
na, che differisce lungo l’intera storia della chiesa, sono pertanto
intimamente connesse. Ma l’operazione storica è, per Certeau,
eminentemente ambigua.
La moderna, dominante scrittura della storia, di cui significa-
tivamente si identifica la nascita con Machiavelli e Guicciardini,15
coincide con la volontà di presa di potere (scrivere in vece del
principe!), con l’assunzione di un posto che cerca di garantire la
presenza della società e il ruolo dominante proprio dello storico
in essa. Questa scrittura della storia (in maniera del tutto analoga
alla nuova filosofia cartesiana) cerca di esorcizzare la morte, co-
stituendo un discorso efficace che, selezionando il passato signi-
ficativo, renda la sua memoria utile alla presenza.
Così facendo, questa scrittura della storia non eterologa,

12. “La storia moderna occidentale inizia con la differenza tra il presente e il passato.
Per questo, si distingue anche dalla tradizione (religiosa), da cui non riesce mai a separar-
si completamente, mantenendo con quest’archeologia una relazione di indebitamento e di
rigetto” (M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., cap. “Scritture e storia”, pp. 5-21, in
particolare p. 7).
13. “Maranà Tha, Vieni Signore” (1 Cor 16,22; Ap 22,20); cfr. Ap 22,17.
14. Cfr. J. Derrida, Psyché. Inventions de l’autre, vol. I, Seuil, Paris 1987, 19882; trad.
di R. Balzarotti, Psyché. Invenzioni dell’altro, vol. I, Jaca Book, Milano 2008, I, pp. 11-66,
in particolare pp. 64-66. Scrive Nancy dell’intera filosofia di Derrida: “‘Vieni!’ sarà stata
la sua parola, forse, in un certo senso, il suo pensiero più forte. ‘Vieni!’ non rimanda a più
tardi, non programma una presenza come parousia: l’ousia o l’essere vi si sospende tutto
intero e vi si ritira. ‘Vieni!’ è qui e adesso, nella distensione dell’istante” (J.-L. Nancy, Der-
rida da capo, in G. Dalmasso, a cura di, A partire da Jacques Derrida. Struttura, decostru-
zione, ospitalità, responsabilità, Jaca Book, Milano 2007, pp. 17-24, in particolare p. 23).
15. Cfr. M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., pp. 11-16, par. “Storia e politica:
un posto”.

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tutt’al più erudita del passato, tenta ingenuamente di cancella-
re la natura irriducibilmente temporale e mortale della storia,
dell’uomo, della sua cultura.16 Evoca i morti per sacrificarli e in-
terrarli in una tomba, che garantisca con la sua stessa chiusura
una loro presenza soltanto fittizia, di fatto funzionale ai sistemi
di garanzia sociale.17 Con la sua pretesa di oggettività scientifica,
erede dell’ontoteologia cristiana che pure vuole togliere e supera-
re, la scrittura moderna della storia si pone come presa di pote-
re, volontà conquistatrice di dominio e denominazione dei cor-
pi (simboleggiata dall’incisione Vespucci davanti all’indiana che si
chiama America di Jan van der Straet, che apre La scrittura della
storia), strumento di ancoraggio a identità capaci di garantire il
presente: surrogati illusorii delle presenze reali, che si danno nel-
la storia soltanto come assenti, quindi come corpo di desiderio.
Al contrario, Certeau pensa alla scrittura della storia non co-
me esorcistica operazione di soggiogamento del tempo e della
morte, ma come foucaultiana invenzione della forzatura dei di-
spositivi identitari; quindi come eterologa “rottura instauratri-
ce”, effrazione utopica dei dispositivi ideologici e delle relazio-
ni sociali dominanti. Ma con e oltre Foucault, la storia certia-
na è inquietante, gira a vuoto, intorno a un presente che manca.
Essa mette al centro del metodo le nozioni di scarto, resistenza,
lapsus, faglia, taglio, di lavoro sul limite e sul particolare, di rap-

16. “La storia erudita […] pretende di ricondurre dei contenuti nel testo, ma per sal-
vare dall’oblio queste positività, deve dimenticare che obbedisce al dovere di produrre una
finzione letteraria destinata a ingannare la morte, a nascondere l’effettiva assenza delle fi-
gure di cui parla. Fa come se esistesse, tesa a costruire del verosimile e a colmare le lacune
attraverso le quali si rivelerebbe l’irreparabile perdita della presenza, ma viene in definitiva
autorizzata dal posto di specialista come presenza; mira così a cancellare il proprio rappor-
to con il tempo. È discorso” (ivi, p. 339).
17. “La scrittura non parla del passato che per seppellirlo. È una tomba, nel duplice
senso che, attraverso lo stesso testo, onora ed elimina. Il linguaggio ha qui la funzione di
introdurre nel dire quello che non si fa più. Esorcizza la morte e la colloca nel racconto che
le sostituisce pedagogicamente qualcosa che il lettore deve credere e fare […]. Una società
si dà così un presente grazie a una scrittura storica […]. Costruisce una ‘tomba’ per il mor-
to […]. Si può allora dire che fa dei morti affinché vi siano altrove dei vivi” (ivi, pp. 119-
120). Invece, l’eucarestia cristiana – che pure è una macchina culturale che vuole trarre vi-
ta da morte – celebra e attende l’avvento inesauribile del morto fuori-uscito dal sepolcro,
di chi inquieta la storia, come uno spettro.

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porto irrinunciabile con il limite del pensabile, con le tracce mu-
te che la morte ha definitivamente cancellate,18 con l’oblio stesso.
Così come la lingua del mistico, disdicendo il Discorso incontro-
vertibile, si avvicina sempre più al silenzio, alla morte e all’assen-
za della Parola, così come il soggetto “mistico” differisce tempo-
ralmente in sé, protendendosi verso un corpo assente di cui inse-
gue le tracce disseminate (ritrovandolo nelle parole insignifican-
ti, come negli innumerevoli corpi di carità), così lo storico ete-
rologo decostruisce la pretesa di identificazione del passato, ne
evidenzia l’impossibile ricomposizione, la dolorosa irriducibile
perdita, eppure la sfida liberante che la sua assenza sempre costi-
tuisce per la pretesa di identità presenziale.
La storia è autentica operazione umanizzante se è storia degli
scarti rispetto ai sistemi della garanzia di presenza, se tenta im-
possibilmente di aprirsi al ritorno del rimosso, alle sue impre-
vedibili reviviscenze, capaci di generare sempre nuove identi-
tà: storia, quindi, eminentemente messianica (e benjaminiana)19
dei morti, degli ultimi, dei reietti, di coloro che parlano un’al-
tra lingua, anzi che tacciano muti, rimossi, cancellati, rispetto al
Discorso dominante, dogmatico e persino illuministico, incontro-
vertibilmente scientifico, oggettivo, del tutto lucido ed evidente,
quindi sempre violento e ingannevole.
Diventa pertanto comprensibile perché La scrittura della sto-
ria si concluda con un’intera sezione di Scritture freudiane. Im-
pegnato a sottolineare l’eccedenza del metodo analitico rispet-
to al pure condizionante metodo scientifico oggettivista e positi-
vista – in fondo condiviso con il metodo di scrittura della storia
dominante nella modernità –, Certeau interpreta (troppo laca-
nianamente?) l’analisi freudiana come irriducibile all’applicazio-
ne ripetitiva, all’automatismo di una scienza esatta. Freud rifiu-
terebbe di sottoporre l’analizzato corpo psichico a delle leggi in-
variabili, riconoscendo l’analisi come possibilità critica rigorosa
di un’interpretazione della prassi arrischiata, mai oggettivamente

18. M. de Certeau, L’absent de l’histoire, Mame, Paris 1973, p. 11.


19. Cfr. Id., Fabula mistica, cit., pp. 267-268.

40
garantita, dunque come interminabile chiarificazione esposta al-
la sorpresa:

La storia può essere il gesto di un ricominciamento […]. È


almeno quanto ci mostra quella forma di storia che già la pras-
si freudiana è. Essa trova alla fine il suo vero senso non nelle
chiarificazioni che sostituisce a rappresentazioni precedenti,
ma nell’atto stesso, mai finito, di chiarificare […]. La prassi
analitica resta un atto rischiato. Non elimina mai una sorpresa.
[…] L’Aufklärung resta “una questione di tatto” – eine Sache
des Takts. Questa “divinazione”, ultima risorsa di una “dotta
ignoranza” […]. A una follia che viene prima della scienza si
oppone, in Freud, una “follia” che parla la scienza […]. Nulla
assicura quest’atto.20

La psicoanalisi come dotta ignoranza, come paradossale eco della


teologia negativa, modalità di testimonianza della fedeltà a un’ir-
recuperabile assenza: la psiche è in sé altro, differisce, soffre il
sottrarsi dell’oggetto d’amore, vive di un transfert infinito. La stra-
ordinaria novità del metodo freudiano sarebbe, pertanto, quello di
ospitare in sé l’ignoranza, dunque il dubbio, il resto, l’eccesso, la
lacuna e il desiderio inappagabile (Lacan, ancora) come elemen-ti
interni irriducibili, insuperabili, restituendo la psiche come corpo
morto/vivo, testo scritto da decifrare infinitamente, quindi come
scrittura espropriata, estatica, “confessante”21 la propria inap-
propriabile storia eterologica. Ferita da un’assenza, sempre
impropria, la psiche è parlata dal venire dell’altro:

[In Freud] il dubbio e il metodo si implicano reciprocamente,


mentre in Descartes si escludevano. La scrittura nasce e tratta

20. Id., La scrittura della storia, cit., cap. “Quello che Freud fa della storia”, pp. 297-
318, in particolare pp. 316-318.
21. “Nella citazione come nella parola, l’analisi insinua il plurale al posto dell’univoco.
[…] Essa restaura in ogni luogo un movimento a cui partecipa – proprio perché confessa
il suo rapporto con il non sapere, il suo debito nei confronti dell’altro e i suoi conflitti inter-
ni” (ivi, p. 350, corsivo mio).

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del dubbio confessato, della divisione esplicitata, in sostanza
dell’impossibilità di un luogo proprio. Essa articola un fatto
costantemente iniziale, quello cioè che il soggetto non è mai
autorizzato da un luogo, che non può fondarsi in un cogito inal-
terabile, che rimane estraneo a se stesso e privato per sempre
di un suolo ontologico, e dunque sempre un resto o un eccesso,
sempre debitore di una morte, indebitato rispetto alla sparizione
di una “sostanza” genealogica e territoriale, legato a un nome
senza proprietà. Questa perdita e quest’obbligo generano la
scrittura.22

Questa scrittura non è, allora, Discorso potente e dominante, com-


prensione logica, ma interpretazione “sensibile”, estaticamente
capace di tocco – eine Sache des Takts –, di autentica memoria, che
è quella fessurata da una faglia incolmabile: la scrittura della psiche
(quella di cui essa è tracciata e quella che cerca di restituirne la
storia) parla “sragionando” e soffrendo, delira come il linguaggio
del mistico, si sottrae patologica, eversiva, desiderante alla presa di
dominio del cogito, che pretende di governarla dal luogo di potere
dell’io. Essa dipende da una latenza immemorabile, irriducibile,
da un soggetto che è fuori luogo, senza luogo proprio, quindi
sempre improprio in sé e generato dalla morte che lo costituisce
come sottratto a sé. Non chiamando mai in causa apertamente
l’inconscio freudiano, Certeau è interessato a restituire l’analisi
come lavoro della differenza, come “memoria di una separazione
dimenticata”:23 come se il punto non fosse la determinata topologia
della psiche, ma il suo funzionamento di supplementarietà, ritar-
do, scrittura eterologa, appunto. Il discorso analitico è pertanto
chiamato a originare una scrittura infinita:

Cessando di essere il discorso che dà la cosa o che un posto


sostiene, il testo diventa finzione. Quello che appare così è il
discorso analitico, lavorato dalla divisione, capace di articolare la

22. Ivi, p. 335.


23. Ivi, p. 338.

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storia dia-logale del transfert, durante la quale l’analista è “chia-
mato dal paziente in un luogo dove egli non è”, ed è debitore
di questo luogo estraneo di cui egli rifiuta di appropriarsi. […]
Questo discorso non ha mai cessato di scriversi […]. Quando
si ferma non è perché arriva. Come una favola, non conclude.
Rimane in sospeso nel momento dell’enigma della contrad-
dizione o del dubbio. […] Esso è obbligo di essere passante,
di passare all’infinito. È necessario quello che non cessa di
scriversi. Occorre continuamente tracciare il debito. Scrivere
è quanto rimane da fare in un cammino “interminabile” dove
si ripete l’avvenimento che non ha (avuto) luogo.24

La vita della psiche, la sua scrittura interminabile entrano in evi-


dente risonanza con il linguaggio sempre in debito del mistico, del
Mosè dell’Esodo e dei seguaci del Messia atopico, morto e risorto
per sottrarsi ancora, per ascendere in un altrove, ove non è luogo.
Lo straordinario ultimo capitolo di La scrittura della storia,
dedicato all’analisi del freudiano Mosè e il problema del mono-
teismo, congiunge apertamente indagine storico-religiosa, resti-
tuzione del metodo e della prassi psicoanalitici, interpretazio-
ne della scrittura della storia. L’avvenimento è quello fondativo
dell’origine: a esso Freud si avvicina con le sue eversive tesi su
Mosè e la genesi del monoteismo ebraico, cioè del più poten-
te mito di fondazione dell’Occidente, della sua cultura, che è la
cultura storico-religiosa di Freud e di Certeau. La celebre, para-
dossale tesi freudiana – alle cui modalità compositive ed esposi-
tive “insicure” sono da Certeau dedicate pagine straordinarie25
– è che Mosè, il fondatore dell’identità ebraica, quindi cristiana,
non fosse ebreo, ma egizio. La scrittura eterologica della psiche
corrisponde alla decostruzione della storia sacra. Non esiste fon-
damento identitario, non esiste purezza dell’origine, ma soltan-
to contaminazione, alterazione del proprio, sottrazione del luo-
go. “L’identità non è uno, ma due. L’uno e l’altro. All’inizio, c’è

24. Ivi, pp. 338 e 341.


25. Ivi, pp. 321-329.

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il plurale. È il principio della scrittura, dell’analisi (analysis, divi-
sione, scomposizione) e della storia.”26
Ma dire che Mosè è l’ebreo-egizio significa, inversamente,
dire che il cristiano è il pagano-ebreo, colui che – come affer-
ma apertamente Paolo in Romani 11 – è innestato contro natu-
ra su un’altra radice, quella ebraica, nella quale soltanto l’espo-
sizione all’indisponibilità inappropriabile del Dono lo connette.
Se quindi il luogo del cristiano è l’alterità sottratta ed espropria-
ta dell’ebreo, il luogo dell’ebreo è l’alterità sottratta ed espro-
priata dell’egizio, del pagano. Il soggetto è sempre, in se stes-
so, un fuori-uscito. La psiche è divisa, l’identità è alterità, la ve-
rità differisce incessantemente, l’archeologia è un’escatologia, la
sacralità è contaminata e disseminata, la storia è una scrittura in-
finita, attraverso la quale nessun luogo è occupabile come pote-
re identitario, ma interminabilmente il senso si sottrae kenotico,
avvenendo sempre fuori luogo.27 Cristica, messianica o apocalit-
tica che dir si voglia, questa eterologia taglia e inquieta l’identi-
tà culturale e la nostra scrittura della storia. Essa dice l’uno e l’al-
tro, l’affermazione e la negazione: è accettazione amorosa del sot-
trarsi del corpo perduto, che promette di tornare e a cui, nell’at-
tesa, si risponde soltanto con innumeri sì, nella ripetizione arri-
schiata della fede priva di garanzie, fede che è lo stesso differire
del desiderio nel tempo. Come se la storia non potesse che dive-
nire, da fittizio discorso scientifico, autentica, estatica invocazio-
ne confessiva.28
“Freud reintroduce l’altro nel posto. Questo è ‘Mosè egi-
zio’.”29 L’altro nel posto, quindi il fuori luogo che contraddice

26. Ivi, p. 327.


27. Cfr. G. Lettieri, “Fuori luogo”. Topos atopos dal Nuovo Testamento allo Pseudo-Dio-
nigi, in D. Giovannozzi, M. Veneziani (a cura di), Locus Spatium. XVI Colloquio internazio-
nale del lessico intellettuale europeo, Olschki, Firenze 2014, pp. 81-148.
28. “Il lavoro [freudiano] della differenza cambia il discorso scientifico e didattico del-
la storia in una scrittura ‘fuori posto’ (in se stessa e rispetto alla ‘disciplina’), cioè in un ro-
manzo, testo costruito in un altrove che ‘disgrazie e viaggi’ rendono possibile” (M. de Cer-
teau, La scrittura della storia, cit., p. 362).
29. Ivi, p. 362. “In questa leggenda Freud si introduce come il ladro di una legittimità.
È sacrilego: saccheggia il luogo sacro. Con il suo ‘Mosè egizio’, egli instaura il dis-ordine in
questo luogo protetto dalla leggenda: lo straniero, l’uomo di umile estrazione e senza origi-

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“la ragione del luogo” e il suo preteso, violento, sempre politico
potere identitario.30 Al contrario, con Freud “ebreo-che-è-paga-
no”, si riconosce il differire nell’identità, la storia della psiche e
della cultura come indisponibile venuta dell’Altro inappropria-
bile; compito politico infinito della democrazia-a-venire. Ecco
perché, per Certeau interprete di Freud, la narrazione deve so-
stituire la definizione: perché il Senso non è mai dato, ma con-
tinua a venire e a promettersi; e per questo avviene sottraendo-
si, si comunica soltanto eventualmente, nell’assenza di presen-
te che è il dono. Come scrive Derrida, nel suo saggio dedicato a
Certeau:

La scrittura nel testo mistico: è anche, da cima a fondo, una pro-


messa. […] Nel cuore del medesimo tempo, di una sola volta,
l’apertura e il taglio. […] “Angelus Silesius identifica il grafo
del Separato (Ya, o Yahvé) con l’illimitato del ‘sì’ (Ja). Il mede-
simo fonema (Ja) fa coincidere rottura e apertura, Non Nome
dell’Altro e Sì del Volere, separazione assoluta e accettazione
infinita: Gott spricht nur immer ja [Dio dice sempre soltanto Sì
(oppure: Io sono)]. […] Una sorprendente parola di san Paolo
a proposito del Cristo: In lui c’è stato solo sì”.31

ne confessabile, l’avventuriero, in poche parole l’Egizio, è nel posto. Inquietante familiari-


tà” (ivi, p. 352). E cosa dire di Cristo, l’avventuriero crocifisso come maledetto dalla Leg-
ge giudaica (cfr. Galati 3,13), che finisce per essere il sostituto del Tempio, di cui squarcia
il velo del sancta sanctorum e che toglie in sé, riconosciuto da alcuni “spostati” come Mes-
sia? Cristo-egizio?
30. “Certo la storiografia ‘conosce’ il problema dell’altro. Il rapporto del presente con
il passato è la sua specialità. Ma la sua disciplina consiste nel creare dei luoghi ‘propri’ per
ciascuno, collocando il passato in un luogo diverso dal presente, oppure supponendo tra
loro la continuità di una filiazione genealogica (sotto forma di patria, di nazione, di am-
biente, ecc., si tratta sempre dello stesso soggetto della storia). Tecnicamente, essa postu-
la sempre delle unità omogenee (il secolo, il paese, la classe, il livello economico o socia-
le ecc.) e non può cedere alla vertigine che l’esame critico di queste fragili frontiere provo-
cherebbe: non vuole saperne […]. Essa suppone la capacità che il luogo, in cui essa stessa
si produce, ha di dare senso […]. Sotto questo aspetto, sostanzialmente politico, il discorso
storico suppone la ragione del luogo” (ivi, pp. 362-363).
31. J. Derrida, Psyché. Inventions de l’autre, vol. II, Seuil, Paris 1987, 20032; trad. di R.
Balzarotti, Psyché. Invenzioni dell’altro, vol. II, Jaca Book, Milano 2009, “Innumeri sì”, pp.
283-294, in particolare pp. 283-285.

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“Ego sum quicumque sum”,32 io sono chiunque sia, altro, impro-
prio33 e ignoto a me stesso, colui nel quale l’Altro/altro viene, grazie
al quale mi confesso sottratto a me stesso; privo di ragione del
luogo, espropriato ed estaticamente proteso, io attraverso il tempo
nel quale differisco in me – “at ego in tempora dissilui”34 –, verso
l’assenza del corpo perduto, eppure promesso, cercato e atteso.

32. “La teoria, interamente investita nell’operazione di scriversi, è il lavoro del sog-
getto che si produce in quanto può solo inscriversi, analiticamente, nella forma del qui pro
quo” (M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., p. 348).
33. “Non c’è più un luogo proprio come non c’è nome proprio” (ivi, p. 335).
34. “At ego in tempora dissilui, quorum ordinem nescio, et tumultuosis varietatibus
dilaniantur cogitationes meae, intima viscera animae meae, donec in te confluam purgatus
et liquidus igne amoris tui” (Agostino Confessiones XI, 29, 39).

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