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I Gau∂œya Vaißñava dall’epoca di Akbar all’indipendenza Indiana

di Davide Tomba

1.1 Akbar

Durante il regno dell’imperatore moghul Jalaladdin Akbar (1542-1605), da misero villaggio


di campagna, Vrindavana divenne una importante città in prossimità della via di
comunicazione che collegava Delhi ad Agra e a Fatehpur Sikri, che a turno divennero le
capitali dell’impero. Con il permesso di Akbar salito al trono nel 1556, Vrindavana si
arricchì gradualmente di numerosi monasteri (ma™ha) e templi (mandira) alcuni dei quali
monumentali come il magnifico tempio di Govinda fondato da Rüpa Gosvåmin (1489-
1564). I primi gosvåmin inviati da Caitanya a Vrindavana attorno al 1510 quando ancora a
Delhi governavano gli ultimi sultani Lodi seguiti da Babur (1483-1536) capostipite della
dinastia moghul, furono Bhugarba Gosvåmin e Lokanåtha Gosvåmin seguiti qualche anno
dopo da Rüpa Gosvåmin, Sanåtana Gosvåmin (1488-1558), Gopala Bha™™a Gosvåmin (1503-
1578), Raghunåtha Dåsa (?-?), Raghunåtha Bha™™a (1505-1579) e Jœva Gosvåmin (?-1618). Ad
essi sono attribuite complessivamente circa 220 opere. Fu ‡rœnivåsa Åcårya (XVII sec.), un
discepolo di Jœva Gosvåmin nel poema di otto versi ¯a∂gosvåmi aß™aka a individuare questi
sei gosvåmin tra i tanti autorevoli rinunciati gau∂œya allora presenti a Vrindavana. Il
termine gosvåmin spesso tradotto letteralmente con mandriano o padrone (svåmin) di
mucche (go), è un titolo onorifico meglio traducibile con signore (svåmin) dei sensi (go), è
l’equivalente del titolo svåmin, signore o padrone di sé, attribuito ai saµnyåsin della
tradizione da†anåmin di ‡aõkara.
E’ probabile che a Vrindavana siano stati i capifamiglia bråhmaña discepoli dei sei
gosvåmin addetti al culto delle immagini sacre di K®ßña nei templi fondati da Rüpa,
Sanåtana e dagli altri ad attribuire loro il titolo gosvåmin. Rüpa Gosvåmin, il fratello
maggiore Sanåtana Gosvåmin e il loro nipote Jœva Gosvåmin appartenevano a un’alta classe
di bråhmaña originari del Karnataka. E. Dimock in ‘The place of the hidden moon’ (1966),
fornisce alcuni cenni biografici della vita di Rüpa e Sanåtana Gosvåmin. Il padre
Kumaradeva accettando un impiego nell’amministrazione del nawab del Bengala Jalaludin
Fateh Shah (1441-1497) divenne mussulmano o almeno così fu considerato dalla ortodossa
comunità brahmanica. I due figli di Kumaradeva, Santo†a e Amara, i futuri Rupa Gosvåmin
e Sanåtana Gosvåmin, ricevettero una vasta educazione divenendo ben versati nella
letteratura sanscrita, persiana e araba e furono avviati a carriere di rilievo nella
amministrazione del regno. Santo†a divenne segretario privato del sultano Alauddin
Hussein Shah (1494-1519) successore di Jalaludin, con il titolo di Dabir-i-khas, mentre
Amara divenne ministro delle finanze con il titolo di Sakara-mallika. A causa della
conversione del loro genitore e del servizio che anch’essi prestavano al sultano, Santo†a e
Amara furono esclusi dalla comunità dei bråΔmaña ortodossi e considerati fuori casta.
Nella Caitanya-caritåm®ta, K®ßñadåsa Kaviråja narra che Santo†a e Amara dopo aver
incontrato Caitanya, riuscirono a disimpegnarsi dal sultano che per dissuaderli imprigionò
Amara, recandosi a Jagannatha Puri abbandonando ogni ricchezze e prestigio. Gopala
Bha™™a Gosvåmin proveniva da una famiglia di bråΔmaña di Srirangam (Tricy, Tamil
Nadu`), conobbe Caitanya quando il padre Veõkata Bha™™a ospitò Caitanya durante il suo
pellegrinaggio nell’India del Sud tra il 1410 e il 1416. Råghunåtha Bha™™a Gosvåmin era il
figlio del bråhmaña Tapana Mi†ra e Råghunatha Dåsa Gosvåmin era figlio di Govardhana
Dåsa un proprietario terriero appartente ad una sottoclasse †üdra detta kayastha dedita a
mansioni amministrative.
A Delhi a Babur successe il figlio Humanyum (1508-1556) che dopo averla ceduta a un
governatore ribelle, riconquista Delhi per lasciarla al proprio figlio Akbar. Fu durante il
regno di Akbar e con il patrocinio di Råja Man Singh I (1550-1614) che governava la vicina
Amber (nei pressi dell’odierna Jaipur in Rajasthan) che oltre al tempio di Govinda vennero
eretti gli altrettanto importanti templi di Madanamohana, Gopœnåtha, Vallabha e Harideva
a Govardhåna mentre fu rinnovato e ampliato il più antico tempio di Ke†ava a Mathura. I
cinque templi sopracitati erano costruiti in arenaria rossa e tra gli articoli (upacåra) offerti
all’immagine sacra di K®ßña (mürti) vi era il bianco scacciamosche di coda di yak (bos
grunniens). Dimorare in un edificio in arenaria rossa e godere dello scacciamosche di coda
di yak erano prerogative regali che permesse da Akbar ai vaißñava di Vrindavana per il
culto delle immagini sacre di K®ßña e ai più importanti råjput alleati.
Il patronato di Råja Man Singh I e dei suoi successori che finanziarono la costruzione di
templi di K®ßña a Vrindavana non si limitò ai gau∂œya, ma si estese anche alle altre
tradizioni vaisñava emergenti.
Nel corso del XVI e XVII sec., da semplice villaggio Vrindavana divenne uno dei più
importanti luogo di pellegrinaggio vaißñava dell’India del Nord, il principale dedicato al
culto di K®ßña superando l’importanza della vicina e molto più antica Mathura. Prima di
diventare un luogo sacro vaißñava, Mathura fu per lungo tempo un importante luogo di
culto e insegnamento buddhista e jaina. Secondo il mito puranico, K®ßña appare a Mathura
5000 anni fa come figlio di Vasudeva e Devakœ. Appena nato nella prigione dello zio Kamsa,
viene portato da Vasudeva a Nandagram dove viene adottato dal capo pastore Nanda e
dalla moglie Ya†odå. K®ßña cresce a Nandagram con le mucche, gli amici pastorelli (gopa)
e le amanti pastorelle (gopœ) scorazzando nelle dodici foreste che circondano Mathura.
Vrindavana è una delle dodici foreste, precisamente quella dove K®ßña nelle notti di Luna
piena, si dedica alla famosa danza rasa (råsa-lœlå) in compagnia delle sue amanti pastorelle
(gopœ) come è descritto nei cinque capitoli (råsa-pa∞cådhyåyœ) contenuti nel decimo
skandha del Bhågavata-puråña. Per questo motivo per i gau∂œya, benché Krßña sia apparso
a Mathura, tra tutte le foreste Vrindavana è la più importante. Il grande afflusso di
pellegrini hindü stimolarono lo sviluppo di attività commerciali e la ricchezza del luogo che
favorirono la costruzione di altri templi di K®ßña da parte di ogni tipo di sette vaißñava. Al
giorno d’oggi tra grandi e piccoli, importanti e trascurati, dispersi nel tessuto urbano tra
bazar, giardini, ricoveri per pellegrini (dharmasala) e monasteri (ma™ha), si contano
diverse migliaia di templi di Krßña e recentemente con il boom del benessere, il loro
numero ha ripreso a incrementare.
Man Singh I fu il più influente tra i reggenti (råjput) di città-stato del Rajasthan che
accettarono di servire come vassalli l’imperatore Akbar. Råja Man Singh I ricoprì la carica
di capo dell’esercito moghul e governatore di Kabul, del Bihar e dell’Orissa che conquistò
per Akbar. Uno dei primi regni indipendenti annessi da Akbar vi fu quello di Baz Bahadur
della incantevole Mandu (Dhar, Madhya Pradesh) sconfitto nel 1561. Alcuni råjput tennero
testa a lungo ad Akbar e a Man Singh I, come Udai Singh (1522-1572) di Chittor (Mewar) e
il figlio Pratap Singh (1540-1597). Nel 1568 Udai Singh fu sconfitto definitavamente da Man
Singh I e costretto ad abbandonare Chittor gia persa e ripresa due volte in precedenza.
Udai Singh si rifugiò nell’area di Aravalli nel basso Rajasthan dove fondò la città di
Udaipur persa dal figlio Pratap Singh nel 1576 con la battagkia di Haldighati (Udaipur).
Nel 1576 e nel 1580 Akbar invia il suo esercito comandato da Man Singh I alla riconquista
del Bihar e del Bengala che si erano resi indipendenti e dell’Orissa che nel frattempo era
diventata provincia del Bengala. L’espansione dell’impero di Akbar prosegue nel 1580 con
l’annessione del Sindh e del Kashmir. Nel 1588 Akbar nomina Man Sing I governatore del
Bihar e con tale incarico, nel 1592 a Mednipur (Bengala) sconfigge Sahid Khan il
governatore del Bengala che si era reso indipendente. Dal 1594 al 1606 Akbar nomina Man
Sing I governatore dell’Orissa.
La figura di Akbar è piuttosto controversa. A lungo è stato esaltato dai governanti prima
inglesi e poi indiani post-indipendenza dal Congres Party come esempio di tolleranza
religiosa ed efficienza amministrativa. Da qualche tempo questa valutazione è messa in
dubbio dagli storici indiani revisionisti moderni simpatizzanti dei partiti fondamentalisti
hindü oltre che in parte da alcuni storici occidentali. Essi ritengono che la presunta
tolleranza religiosa di Akbar fosse dettata dalla diplomazia. Si sarebbe trattato di un
sovrano assoluto scaltro e opportunista che avrebbe capito che la tolleranza religiosa
avrebbe semplificato il governo di un impero così vasto e costituito in larga maggioranza da
hindü. Comunque sia, benché sunnita per nascita, è indubbio che Akbar aveva in mente un
grande progetto che superava le divisioni religiose. Nella sua corte egli si avvalse dell’aiuto
di consiglieri e ministri senza considerare il loro credo religioso valutandone soltanto le
effettive capacità e sopratutto la fedeltà al trono. Inoltre impiegò come governatori delle
province del suo impero e come generali (mansabdar) del suo esercito imperiale, sia
mussulmani che hindü in egual numero. In cambio del versamento di un tributo annuale e
dell’offerta di un certo numero di cavallieri all’esercito imperiale, i governatori godevano
della raccolta delle tasse locali, del permesso all’uso delle insigne reali e di una posizione
rispettata alla corte imperiale moghul. L’assegnazione delle cariche amministrative e
militari senza distinzione religiosa aveva come obiettivo conquistare la lealtà degli
incaricati, separare e tenere sotto controllo persone potenzialmente pericolose che
avrebbero potuto coalizzarsi contro di lui. Per creare vincoli di sangue e legare
maggiormente a se questi governatori, accettò come mogli nel suo grande harem molte
delle loro figlie.
Nel 1562 Akbar sposa la più importante tra le sue mogli Hira Kunvarœ figlia di Råja Bharmal
(1548-1574), il råjput di Amber (Rajasthan). Anche in politica estera adotta lo stesso
metodo sposando le principesse di molti stati stranieri con i quali intratteneva relazioni
diplomatiche. Il suo harem era composto di principesse di religione mussulmana,
buddhista, cristiana ed ebrea e a tutte loro egli permise di praticare liberamente la loro
fede. Tra le riforme di Akbar vi fu dal 1564 un efficiente sistema di tassazione fondiaria
introdotto dal suo ministro delle finanze, l’hindü Todar Mall (?-1589), l’abolizione nel 1563
dei dazi sulle merci dei mercanti hindü e sui viaggi dei pellegrini hindü a Mathura, Gaya e
Varanasi e l’abolizione nel 1564 dell’odiosa tassa di capitazione (jizya) che pesava solo sui
non mussulmani esclusi i più poveri e i bråhmaña. La jizya era stata per la prima volta
imposta in suolo indiana da Bin Qasim (695-715) nel Sindh appena conquistato più per la
necessità di rifornire le casse statali che per discriminazione religiosa. Più tardi questa stessa
tassa fu imposta dai sultani di Delhi nel XIII sec. e definitivamente abolita nel 1720 dal
moghul Mohamed Shah (1702-1748). La tassa di capitazione escogitata in origine dai dotti
legislatori di Damasco era applicata solo alle privilegiate minoranze monoteiste cristiane ed
ebree, ossia ai protetti (dhimmi) popoli del libro (Vangelo e Torah). Il pagamento della
jizya garantiva a queste minoranze il tranquillo esercizio del loro culto purchè riservato,
l’esenzione del servizio militare e la protezione del sultano come gli altri sudditi.
Una prima estensione della jizya si era verificato in Persia dove i califfi umaiadi e abbasidi
di Bagdad dall’VIII sec. l’avevano imposta alle minoranze parsi e buddhiste. Diverso era il
caso dell’India dove eccetto che nel Sindh e nel Kashmir, i mussulmani costituivano una
minoranza concentrata per lo più nelle città lungo la valle del Gange dall’Uttar Pradesh al
Bengala, attorno ad Ahmedabad in Gujarat e ad Hyderabad in Andhra Pradesh. Nulla era
più lontano dell’hinduismo dalla dottrina e dalla pratica religiosa islamica; per i
mussulmani ortodossi la variegata massa di indiani non erano che indistinguibili idolatri,
politeisti e infedeli (kafir). Diversamente le varie e numerose sette sciite, ismaelite e
sincretiche sufi che dal XII sec. cominciano a diffondersi nell’India del Nord erano da loro
considerate eretiche e nemiche. Fin dall’instaurazione del sultanato mamaluk di Delhi nel
XIII sec., i sultani si resero conto della difficoltà a convertire gli hindü, soprattutto quelli
appartenenti alle classi più elevate (bråhmaña e kßatriya) dei quali avevano bisogno per
amministrare il regno. Riuscirono a convertire soltanto gli strati più bassi della società, che
vedevano nell'Islam che proclamava l'uguaglianza di tutti gli uomini, un superamento della
suddivisione in caste della società hindü.
I sultani di Delhi, anche i più autoritari, furono tutti più o meno reggenti laici rinunciando
alla funzione di leader religiosi. Fin dall’inizio si sforzarono di dare coesione culturale a un
vasto territorio con una cultura originaria profondamente diversa innanzitutto attenuando
le rivalità fra le fazioni mussulmane sufi, sciite e sunnite e cercando di integrare gli hindü
nell’amministrazione del regno. Già lo storico persiano Al-Biruni (973-1048) al seguito del
razziatore Mahmud Ghazni nel primo cap. del Kitab al-hind, aveva osservato ‘… (gli
indiani) differiscono completamente da noi in materia di religione, noi non crediamo in
nulla di cui loro credono e viceversa … il loro fanatismo è diretto contro chi non fa parte
della loro cerchia, contro ogni tipo di stranieri che chiamano impuri (mlecha) e vietano
ogni tipo di contatto con loro per non esserne contaminati … non è loro consentito
accogliere nessuno che non appartenga alla loro cerchia anche se questi lo desidera o è
attratto dalla loro religione … credono che non ci sia nessuna terra, nessuna nazione,
nessun governo, nessuna religione e nessuna scienza come la loro … sono poco inclini a
condividere il loro sapere a chi non appartiene alla loro casta e agli stranieri …’ Oltre alla
vastità e alla disomogeneità della letteratura religiosa, filosofica e scientifica indiana, ciò
che per secoli ha frustrato i popoli residenti a Ovest dell’Indo di capire la cultura indiana
era la gelosia o spocchia dei colti bråhmaña.
Sovente al termine di varie upanißad e tantra come nella Gœtå 18.67, si trovano passi che
vietano espressamente la diffusione degli insegnamenti contenuti nel testo ai non
qualificati o non iniziati. I bråhmaña erano totalmente disinteressati a comunicare con
l’esterno, basti pensare che fino a qualche secolo fa se un hindü si recava oltre i confini
della terra del dharma (l’India) era scomunicato. Soltanto all’epoca della conquista di
Alessandro della Bactriana, le arti come la scultura e le scienze elleniche come l’astronomia
e la matematica hanno arricchito quelle indiane allora ancora rudimentali. E’ molto
probabile che le filosofie e le dottrine indiane hanno influenzato i platonici di Alessandria
(III sec d.C.), le sette gnostiche cristiane (dal III al IV sec.) e manichee dei nestoriani (dal
IV-V sec.), i padri esicasti del deserto (IV-XIV sec.) e le sette sufi (dal VII sec.) del medio
oriente fino al kabalismo fondato da Abulafia (1240-1291). Le storie del principe Ibrahim
Ibn Adham e di Barlaam e Josaphat originate in Persia nel VII sec., trasposizioni della
antica storia della vita del Buddha, attraversano l’islam e nel IX sec., arrivano
nell’occidente cristiano.
La medicina indiana esposta nella Caraka-saµhitå e Su†ruta-saµhitå (IV-VI sec.) e la
matematica esposta da Brahmagupta (VII sec.) nel Bråmaspu™asiddhånta che introduce lo
zero e il sistema decimale, dall’IX sec. interessano gli studiosi persiani e arabi. Mentre in
pratica, nei trattati religiosi e filosofici composti dai bråhmaña non c’è traccia di influenze
della filosofia greco-romana, né di dottrine cristiane, eccetto forse Madhva (1238-1317) che
nella formulazione della dottrina dvaita potrebbe aver preso qualche idea dalle comunità
nestoriane e islamiche allora presenti nel Malabar. Le alte caste hindü resistettero
orgogliosamente ai tentativi di conversione operati dai mussulmani dopo il IX sec. e alla
discriminazione di cui furono oggetto. In ogni caso la forma di islam che maggiormente
riescì ad attecchire e a diffondersi in India è il sufismo alcune delle cui sette furono
ampiamente influenzate dalle dottrine e dalle pratiche tantriche hindü e buddhiste.
Nell’India del Nord, i primi esperimenti di convergenza religiosa islam/hindü si
manifestano per opera dei sant nirguñi Kabir (XIV sec.), Dådü (1544-1603), Guru Nanak
(XV sec.) e molti altri tutti ostili all’adorazione degli idoli e provenienti da caste basse. Già
nel XI sec. in Punjab si era diffusa la setta sufi di Gazi Mian la cui dottrina e pratiche erano
molto influenzate dal buddhismo tantrico. Nell’India del Nord-Ovest la setta sufi più
importante era la chisti fondata da Khvajah Muinuddin Chisti (1141-1230) alla cui tomba ad
Ajmer Akbar si recò più volte in pellegrinaggio a piedi. Un importante ramo chisti fu
fondato a Delhi da Nizamuddin (1238-1325) e dal suo discepolo Amir Khusro (1253-1325) il
padre del qawali. Nizamuddin predicò una religione di amore per Dio oggetto dell'amore
dell'asceta e per l’umanità che si manifestava nella tolleranza che toccava il cuore anche
degli hindü. Oltre alla nizarpanthi, un ramo ismailita diffuso nel Sindh da Pir Sadruddin
(XIV sec.), tra le più importanti sette sufi sincretiche diffuse nell’India del Nord-Ovest vi fu
quella di Baba Farid (1173-1280) e di Lal Shahbaz Qalander (XIII sec.) diffuse nel Sindh e
nel Punjab. I sufi degli ordini dei malamatiya ‘i biasimati’ e dei qalandariya ‘vagabondi’
rigettavano la vita mondana ed erravano per il paese mendicando attirandosi il biasimo dei
mussulmani ortodossi per via della loro condotta scandalosa e libertina. I sufi si
opponevano alle manifestazioni esteriori della fede considerando vanagloria palesare la
propria religiosità e la santità.
Altre sette sciite sufi sincretiche furono la shattari e la rasul-shahi (XIV sec.) che fecero
proprio l’Am®takuñ∂a un tardo testo di hatha-yoga attribuito a Goraknåth e la satpanthi di
Iman Shah (1430-1520) di derivazione ismaelita-nizarpanthi diffusa in Gujarat e Rajasthan e
quella di Abdul Quddus Gangohi (1456-1537) autore del Rushanama, testo molto
influenzato dalle dottrine dei nåth. Nel Sindh, Punjab, Rajasthan e Uttar Pradesh si
diffusero la sette di Hajiratan/Ratannåth (XVI sec.), di Devacånd (1581-1655) fondatore
dei prañåmœ, di Jagjœvan (XVII sec.) fondatore dei satnåmœ, di Sarmad Kashani (XVII sec.)
fatto giustiziare da Auranzeb per il suo sostegno a Dara Sikoh e di Råmcarañ (1720-1799)
fondatore dei råmsnehi. In Bengala il sufi Shaikh Zahed (XV sec.) compose il poema in
versi bengali Adyaparichaya, Sayyed Sultan (1550-1648) compose il J∞ånapradœpa e Ali Reza
(XVII sec.) compose il J∞ånasågara e lo Yogakalandar o lo yoga dei qalandariyah. Tutti e
quattro le opere erano molto influenzate dalle dottrine tantriche buddhiste, dei vaißñava-
sahajœya e dei nåth.
In Andhra Pradesh nel XVI sec. il nåth N®simha Sarasvati (1378-1458) diffonde il culto
tantrico di Dattatreya trasfigurato in loco dalle sette sufi in Shah Datta o Alam Prabhü.
Tutti i fondatori di sette sincretiche a cominciare da Kabir composero versi, canzoni o
poemi mistici nelle loro lingue dialettali. Molto apprezzati furono il Padmavat di Malik
Muhammad Jayasi (1477-1542) poeta avadhi alla corte del nawab di Lucknow e il
Madhumalati di Mir Sayyid Manjhan (XVI sec.), chiari esempi di sincretismo di sufismo e
tantrismo destro.
I rapporti tra sunniti e sufi sono sempre stati conflittuali, di fatto non appena i sunniti si
assicuravano l’appoggio dei re o dei governatori, facevano perseguitare i sufi accusandoli di
essere eretici e ignoranti. Ciò che più disturbava i sunniti dei sufi erano le contaminazioni
con altre fedi religiose dovute alla loro tolleranza religiosa, la venerazione dei maestri (pir
e shaikh) sia da vivi che da morti nei cenotafi (dargah), il misticismo e le pratiche
esoteriche di meditazione di derivazione hindü-tantrica, il ricorso alla magia e
all’astrologia, l’espressione devozionale attraverso il canto, la poesia, la musica e la danza,
l’idea che il paradiso e l’inferno sono dentro di noi, ecc. In particolare, la venerazione dei
maestri secondo i sunniti, si opponeva al tawhid, il principio di assoluta unicità di Allah.
Sovente i sufi per proteggersi dai sunniti facevano ricorso alla dissimulazione (tabiya) ossia
l’apparivano in pubblico come sunniti o altrimenti si fingevano pazzi per farsi disprezzare e
lasciare in pace.
Il sincretismo religioso diviene dottrina di stato con Akbar (XVI sec.) e il suo sfortunato
nipote Dara Sikoh (XVII sec.) assassinato dal meno tollerante fratello Aurangzeb. Nel 1571
per celebrare l’annessione del Gujarat e per avvicinarsi al luogo dove viveva Salim Chisti
(1478-1572), un noto santo sufi, Akbar comincia ad edificare Fatehpur Sikri (la città della
vittoria), una nuova capitale a una trentina di km. da Agra (Uttar Pradesh). Dopo la morte
prematura dei suoi due figli Hasan e Husain, Akbar visitò Salim Chisti che lo benedisse con
la nascita di un figlio. Quando Jodhabai, una delle sue mogli hindü partorisce un figlio,
Akbar in onore del santo sufi, lo chiama Salim. Nel 1575 fà erigere a Fatehpur Sikri una sala
delle assemblee religiose (idabat-khana) all’inizio riservata ai suoi consiglieri sunniti, ma
poi disgustato dalla loro arroganza e scarsa fedeltà diventa, il giovedì sera una sorta di
parlamento di rappresentanti delle diverse fedi religiose: sunniti, sciiti, hindü, parsi, jaina,
sikh, buddhisti, cristiani ed ebrei. Tutto ciò accadeva mentre buona parte dell’Europa e
delle colonie spagnole era sconvolta dall’inquisizione cattolica.
Dalle cronache pare che Akbar dal 1578 cominciò a trascurare la pratica delle cinque
preghiere quotidiane, l’osservanza del digiuno del mese di ramadan, ecc. Differentemente
dai suoi avi, Akbar consumava moderatamente bevande alcoliche e oppio, diventa quasi
vegetariano, non abbandona del tutto la caccia, ma spesso libera la selvaggina dopo la
cattura. Con l’editto (firman) della pace generale (suhli-kull) del 1579, Akbar proclama la
toleranza di tutte le religioni e stabilisce che in ogni questione civile e religiosa, egli ha
l’ultima parola. In pratica assume il ruolo di guida religiosa e temporale islamica (califfo)
sottraendosi all’autorità politica dello scià di Persia e spirituale del gran mufti sunnita di
Damasco. Da allora Akbar comincia a permettere liberamente la costruzione di ogni tipo di
templi e monasteri hindü, la restaurazione di quelli in disuso, la possibilità di accettare
donazioni esenti da tasse e la pubblica celebrazione di festività religiose hindü.
Nel 1582 introduce il calendario solare mettendo da parte quello tradizionale islamico
lunare basato sull’egira. Akbar introduce nel cerimoniale di corte usi e costumi hindü
come la concessione dell’udienza (dar†ana) e la prostrazione completa (sijdah) al suolo dei
sudditi di fronte all’imperatore. Questi provvedimenti considerati idolatri e pagani furono
molto criticati dagli eruditi (ulema) sunniti che tradizionalmente ricoprivano le cariche di
giudici (kazi) e consiglieri dotti in legge coranica (sharya) e teologi (sadr) per i quali anche
solo l’aver accettato per sé uno dei nomi di Allah, Akbar il grande, era una eresia. Tra
questi lo storico Abdalqadir Badauni (1540-1615) nel Muntakhab At-Tawarikh giudica
questi provvedimenti sintomi di apostasia. Quando questi critici alzavano troppo la voce o
sospettava che tramassero per rovesciarlo dal trono, Akbar reagiva allontanandoli o
mettendoli a tacere.
Nel 1583 con un editto Akbar regola la macellazione degli animali e proibisce quella dei
bovini, nel 1584 permette ai mussulmani di radersi la barba, il commercio di bevande
alcoliche e istituisce nelle città dei quartieri separati per le prostitute. Nel 1585 a causa
dell’esaurimento delle risorse idriche, Akbar abbandona Fatehpur Sikri trasferendo la
capitale prima a Lahore e poi di nuovo ad Agra. Nello stesso anno permette ai bråhmaña di
risolvere le controversie legali tra hindü, nel 1590 scoraggia l’immolazione (satœ) delle
vedove hindü per le quali sostenne il secondo matrimonio e nel 1593 permette anche ai
cristiani di edificare chiese in tutto il regno e di fare proseliti. Grazie al controllo della ‘via
della seta’ e dei porti portoghesi sull’oceano indiano che diventano i terminali delle vie
marittime di commercio con l’Europa, l’impero di Akbar e dei suoi immediati successori
sviluppa una ricchezza favolosa raccontata nei resoconti dei viaggiatori provenienti da ogni
dove.
Il triangolo Delhi, Agra e Fatehpur Sikri diventa la capitale culturale orientale del mondo
islamico. I mercanti di Akbar procuravano ai mercanti europei tessuti, sete e spezie, ma
poco interessati agli scambi con le merci europee, preferivano il pagamento in oro, argento
e gemme (smeraldi) che agli europei non mancavano approvigionandosi di tali beni
preziosi nelle miniere del Sud-America o depredando i galeoni spagnoli. La ricchezza e il
clima di pacifica convivenza religiosa dell’imero moghul favorì gli scambi culturali tra
mondo islamico e indiano e la fioritura delle arti, delle scienze e della letteratura. Diede
nascita a scuole di pittura e miniatura che arricchirono ogni tipo di manoscritto. Benchè
Akbar fosse illetterato, probabilmente era dislessico, possedeva una vasta e favolosa
biblioteca e promosse la traduzione in persiano di molti testi sanscriti che riguardavano la
musica, la poesia, l’architettura, ecc., e le scienze come la medicina, l’astronomia, la
matematica, ecc. Tra gli altri furono tradotti e studiati per la prima volta fuori dall’India
l’Atharva-veda, il Råmåyaña, il Mahåbhårata, il Bhågavata-puråña e la Hitopade†a.
Secondo alcune fonti nella corte di Akbar apparve una breve upanißad chiamata Alla-
upanißad, una chiamata alla preghiera mussulmana frammista a bœja-mantra tantrici.
Secondo una diffusa tradizione postuma, tra i suoi nove principali ministri e consiglieri
(navaratna) figurano Faizi (1547-1595), poeta di corte persiano e Abdul Rahim (1556-1626)
poeta di corte hindi. Fin dalla gioventù fu grande estimatore del poeta persiano Hafiz (XIV
sec.), ma in seguito incoraggiò anche la composizione di opere in versi nelle lingue locali,
l’urdu e l’hindi, Attraverso i portoghesi con i quali era venuto in contatto con la conquista
del Gujarat nel 1572-1573, Akbar diventa curioso del cristianesimo. Nel 1579-1583 invita una
prima missione di gesuiti portoghesi da Goa che arriva a Fatehpur Sikri guidata da Jerome
Xavier (1595-1617) e Antoni de Monserrat (1536-1600) al seguito di una delegazione
diplomatica. Questa missione gesuita è seguita da una seconda nel 1591-1592 e da una terza
nel 1595-1605. Akbar accolse i gesuiti ogni volta con gentilezza e discusse con loro di
religione nella sua corte. I gesuiti gli regalarono Bibbie e immagini della Vergine Maria,
Cristo e Mosè e scambiarono la sua disponibilità al dialogo come desiderio di farsi
convertire. Akbar nominò Antoni de Monserrat insegnante di Murad, uno dei suoi figli, ma
non del tutto convinto evitò di farsi battezzare e nel 1605 i gesuiti delusi se né tornarono a
Goa.
Secondo il Dabestan, nel 1584 Akbar fondò una confraternita sufi senza libri sacri,
sacerdoti né luoghi di culto chiamata din-i-ilahi (fede divina) alla quale oltre ai cortigiani
mussulmani aderì solo l’hindü Birbal. Si trattava di una dottrina sincretica fondata sulla
ragione e composta di precetti etici e morali universali come la carità, la continenza, il
vegetarianesimo, la compassione e il non proselitismo. Pare che per un periodo Akbar
cominciò ad adorare il fuoco come i parsi e il Sole come gli hindü con la recitazione dei
mille nomi del Sole (‡uryasaha†ranåma-stotra) e con altri riti quotidiani di sua invenzione.
In ogni caso, oltre la intima cerchia di cortigiani, gli aderenti alla nuova fede furono pochi
e venne presto dimenticata dopo la sua morte. Durante il suo regno Akbar si dedicò
instancabilmente ad allargare l’impero con guerre di aggressione e annessioni pacifiche e a
sedare rivolte interne una delle quali guidata da suo figlio Jahangir con il quale poi si
riconciliò. Alla morte di Akbar, l’impero moghul comprendeva l’Afganistan, tutta l’India
del Nord dal Sindh al Bengala e il Madhya Pradesh e contava oltre cento milioni di sudditi.

1.2 Jahangir, Shah Janan e Aurangzeb

Il periodo fiorente di Vrindavana proseguì anche durante il regno dei moghul successori di
Akbar. Jahangir (1569-1627) figlio di Akbar e di Hira nato a Fatehpur Sikri, salì al trono
grazie all’appoggio di Man Singh I di Amber e conservò l’atteggiamento religioso tollerante
del padre. Pare che Jahangir si ritenesse discepolo di Miyan Mir un santo sufi della setta
quadiriya e di Jadrup Gosain uno yogin vaißñava. Shah Jahan (1592-1666) figlio di Jahangir
è ricordato per l’amore che lo legava alla sua prima moglie Arjumand Banu (1593-1631) da
lui chiamata Muntaj (gioiello) morta dando alla luce il quattordicesimo figlio e per il
consumo smodato di oppio al quale sconsolato si abbandonò da vedovo. Nel 1639 fonda
Shahjahanabad (oggi old Delhi) la nuova capitale dove stabilisce la sua residenza nel Lal
qila (Forte Rosso) adiacente alla grande moschea chiamata jåmå masjid. Nel 1653 Shah
Jahan completa ad Agra (Uttar Pradesh) la costruzione del magnifico cenotafio della
moglie in marmo bianco di Makrana (Rajasthan) noto come Taj Mahal (il palazzo di
Muntaj).
Shah Jahan ebbe quattro figli, il primogenito erede designato al trono Darà Sikòh (1615-
1659) governatore della provincia di Allahabad, Sujah governatore del Bengala, Murad
governatore del Gujarat e il più giovane Aurangzeb (1637-1707). Dara Sikoh e Aurangzeb
non avrebbero potuto essere più diversi. Dara Sikoh, affiliato alla setta sufi afgana
quadiriya, non era un uomo d’azione, piuttosto si interessava di religione e filosofie
indiane, mentre Aurangzeb era un ambizioso e capace amministratore, ma un fervente
sunnita che si circondava di dotti in legge coranica.
Dara Sikoh è ricordato per aver commissionato il Sirr-i akbar,’la prima traduzione in
persiano di cinquanta upanißad, l’Ab-i zindagì una traduzione della Bhagavad-gœtå e per
aver composto il Majm’al-bahrain testo sincretico nel quale cerca di dimostrare che non c’è
differenza tra hinduismo e islam. In esso Dara Sikoh sostiene che i Veda e le upanißad sono
scritture rivelate come il Corano, che i saggi veggenti (®ßi) loro autori sono profeti come
Gesù e Maometto, che Bråhma, Vißñu e Siva sono angeli e che il Sè supremo o Paramåtman
è Allah. In quegli anni, Vanamåli Dåsa (?-1668), conosciuto anche come Wali Råm, un
poeta al servizio di Dara Sikoh e discepolo come Dara Sikoh del sufi Shah Badakshi,
traduce in persiano due testi advaita: il Prabhodacandrodaya di K®ßña Mi†ra (XI sec.) e lo
Yoga-våsiß™ha (IX sec.) Oltrea ciò Chandarbhan Brahman (?-1658) pañ∂ita di corte di Shah
Jahan, traduce in persiano l’Åtma-vilåsa attribuito a ‡aõkara e l’Aß™åvakra-gœtå, mentre
Abdal-Rahman Cisti (?-1683) compone un commentario Sufi della Bhagavad-gœtå in
persiano intitolato Mirat al-haqa iq.
Quando nel 1658 l’anziano Shah Jahan si ammala, nella lotta alla successione al trono
imperiale che si accese tra tutti i suoi quattro figli in particolare Dara Sikoh e Aurangzeb,
ebbe la meglio quest’ultimo grazie all’appoggio della sorella Roshanara (1617-1671). Dopo
aver sconfitto in battaglia Dara Sikoh e i suoi alleati, Aurangzeb lo fece trascinare a Delhi,
condannare per eresia e giustiziare nel 1659.
Aurangzeb accusò il padre Shah Jahan di aver sperperato ingenti risorse per la costruzione
del Taj Mahal portando l’impero quasi alla bancarotta, lo fece imprigionare nel forte rosso
di Agra situato nei pressi del Taj Mahal oltre il fiume Yamunå dove morì nel 1666.
Rimanevano gli altri due fratelli di Aurangzeb, Sujah e Murad che, pur avendolo aiutato a
sconfiggere Dara Sikoh, potevano aspirare al trono. Aurangzeb si liberò anche di loro, il
primo nel 1660 e il secondo nel 1662. Nel 1671 non avendo più bisogno neanche dy
Roshanara pare che Aurangzeb, a causa della scandalosa promiscuità sessuale della sorella,
la faccia avvelenare. In materia religiosa, la politica di Aurangzeb prese subito le distanze
da quella del padre, del nonno e del bisnonno Akbar. Lasciandosi consigliare da bigotti
dotti sunniti e sufi ma di tipo ortodosso, cominciò a governare con il pugno di ferro in
accordo alla legge islamica (sharya). Aurangzeb riformò la giustizia e tentò di eliminare
l’endemica corruzione degli esattori delle tasse con una riforma fiscale tesa a favorire i
contadini e commercianti. Tuttavia nel 1679 per sanare le finanze dell’impero, reintrodusse
la jizya, ma non ai råjput fedeli alleati e nuovi dazi doganali discriminanti per i mercanti e
pellegrini non mussulmani.
Con una serie di editti eliminò dalla corte la festa della primavera hindü (vasanta-
pa∞camœ), il consumo di bevande alcoliche, la musica, la danza e le cortigiane (baiji). E’
stato osservato che l’ampia diffusione del consumo di bhang una miscela di latte, the nero e
hashish nell’India del Nord è stata causata proprio dalla proibizione del consumo delle
bevande alcoliche. Aurangzeb è l’unico moghul a non incaricare uno scrittore a comporre
la sua biografia e a fare un editto che proibisce di tenere resoconti strici degli avvenimenti
che accadono durante il suo regno. Con altri editti inoltre Aurangzeb vietò la costruzione
di ogni tipo di luoghi di culto non islamici e la celebrazione pubblica di ogni tipo di festa
religiosa non islamica. Istituì la figura del censore (muhtasib) guardiano della pubblica
moralità per combattere nelle città il consumo di bevande alcoliche, gli spettacoli indecenti
e la prostituzione. Inoltre declassò i råjput che dal tempo di Akbar servivano come vassalli
nel suo esercito, perseguitò gli eretici sciiti e i sufi contaminati dall’hinduismo. Nel 1669
Aurangzeb fece demolire il tempio di Visvanåtha (‡iva) a Varanasi che era stato restaurato
nel 1585 da Todar Mall (?-1589) ministro delle finanze di Akbar. Al posto del tempio di
Vi†vanåtha, Aurangzeb fece erigere la moschea ancora esistente. Nel 1688 Aurangzeb fa
erigere una moschea dove si trovava l’antico tempio di Ke†ava (K®ßña) a Mathura eretto
nel luogo dove secondo la tradizione apparve K®ßña ampliato da Vœrasiµha mahåråja di
Orcha (Madhya Pradesh) durante il regno di Akbar. Da allora Mathura viene rinominata
Islamabad in tutti i documenti moghul.
Nel 1692 irritato dallo spirito indipendente degli hindü di Jagannatha Puri, Aurangzeb
ordinò la demolizione del tempio di Jagannåtha. Il locale mahåråja Divyasimha Deva
corrupppe i funzionari inviati da Aurangzeb e salvò il grande tempio. Mentre nel 1706
l’ordine di demolizione del tempio di Somnath in Gujarat venne eseguito. Tuttavia le
distruzioni dei templi hindü ordinate da Aurangzeb non furono sistematiche, piuttosto
erano un provvedimento punitivo al quale egli ricorreva in caso di rivolte o slealtà.
Recentemente sono state documentate anche delle donazioni che egli fece ad alcuni
monasteri (ma™ha) hindü.
Quanto Akbar per lungo tempo è stato esaltato per la sua tolleranza, altrettanto
Aurangzeb a volte ingiustamente è stato accusato di intolleranza e crudeltà. Certamente
Aurangzeb era un mussulmano osservante attento a dare il buon esempio e non tollerava le
commistioni di hinduismo e islam, ma è stato appurato che durante il suo regno non si
verificarono mai conversioni forzate all’islam. Considerando nella lunga storia indiana pre
dominazione mussulmana l’alta frequenza di eventi bellici tra regni hindü dove
normalmente si verificavano distruzioni di templi e furti di idoli, le accuse di iconoclastia
che alcuni storici hindü moderni rivolgono ad Aurangzeb, appaiono esagerate. Nel 1669
Aurangzeb seda la rivolta dei contadini hindü della casta jåt oppressi dalle tasse e dalla
discriminazione che scoppiò a Mathura appoggiata da alcuni locali amministratori
(zamindar). Nel 1672 fu la volta dei satnåmœ una sorta di setta sincretica hindü, sikh e
mussulmana sedata a Narnaul (Haryana).
La setta sikh fondata da Guru Nanak durante il regno di Akbar era cresciuta sotto Shah
Jahan, ma fu perseguitata da Jahangir che nel 1606 fece uccidere il quinto guru Guru Arjan
(1563-1606) perchè alleato del figlio Kusrau in una rivolta. Più tardi i sikh cominciarono a
reclamare sovranità territoriale e per questo motivo nel 1675 a Delhi Aurangzeb fece
convocare e condannare a morte Tegh Bahådur (1621-1675) il loro nono guru. Il figlio di
Tegh Bahadur, Guru Govind (1666-1708) divenuto il decimo e ultimo guru fonda la
comunità dei puri (khålså), costituisce un esercito con il quale occupa il Punjab e resiste a
tutti i tentativi di repressione di Aurangzeb e dei suoi successori fino alla annessione del
regno sikh agli inglesi nel 1859. Nel 1699 in una grande cerimonia, Guru Govind impose ai
suoi seguaci l’adozione di cinque vistosi simboli religiosi o cinque k: barba e capelli (kesh),
pettine (kangha), pugnale (kirpan), bracciale di ferro (kara) e pantaloni (kach) da esibire
fino al raggiungimento della completa indipendenza territoriale e di culto. Questa
prescrizione è valida ancora oggi.
Tra il XVI e il XVII sec., nell’impero moghul entra in crisi l’economia basata
sull’agricoltura e la rendita fondiaria. I contadini e i proprietari terrieri (zamindar) si
rivoltano contro l’imposizione di tasse sempre più esose pretese da Aurangzeb per
finanziare la macchina amministrativa dell’impero e le guerre di espansione. Il mondo si stà
evolvendo, è nel commercio globale che si fonda il futuro e le potenze europee avide di
beni e merci orientali sviluppano la navigazione disegnando le rotte marittime che
evitando il califfato ottomano, collegano l’Europa con l’India e oltre.
Nel 1685 Aurangzeb conquista i sultanati sciiti di Bijapur (Maharastra) e Hyderabad
(Andhra Pradesh) dove fà occupare la moschea sciita dalla sua cavalleria. Tuttavia, pur
stabilendosi ad Aurangabad (Maharastra) per oltre dieci anni, Aurangzeb non riuscirà mai
a pacificare del tutto i nuovi regni conquistati. Dal 1659 i marathi principi hindü ribelli alla
guida di torme di banditi (piñ∂årœ) eseguivano continue scorribande nel Maharastra e nel
Madhya Pradesh formalmente province del regno moghul. ‡ivajœ Bhonsle (1627-1680)
coalizzando sotto al suo comando i principi marathi, nel 1664 saccheggia Surat (Gujarat)
ma l’anno successivo fu fermato da Jai Singh I (1611-1667) di Amber (Rajasthan).
Nel 1670 ‡ivajœ isituisce un regno indipendente hindü nell’odierno Maharastra con capitale
Nagpur che ricorda i fasti dell’impero hindü di Vijayanågara (Hampi, Karnataka) fiorente
dal XIV al XVI sec. Nel 1672 saccheggia nuovamente Surat. Malgrado il successo, il regno di
‡ivajœ rimane basato su una coalizione di principi turbolenti e non perde mai il suo
essenziale carattere precario e predatorio. Alcuni storici moderni hindü nazionalisti a
cominciare da B.G. Tilak hanno creato un vero e proprio mito di ‡ivajœ paladino degli
hindü e acerrimo nemico del mussulmano Aurangzeb caricando lo scontro di valori
confessionali. Certamente ‡ivajœ era sostenuto dagli hindü, lui stesso era fervente †aiva; nel
1674 un consesso di bråΔmaña a Varanasi (Uttar Pradesh) benchè di nascita †üdra, lo
promosse al rango di kßatriya e lo dichiarò re. Tuttavia sia ‡ivajœ che Aurangzeb avevano
per alleati råjput hindü e nawab mussulmani e i loro esercito composti da mercenari e
regolari di ogni fede e non discriminati.
Nel 1681 Aurangzeb è tradito dal proprio figlio Akbar II figlio che si allea con i råjput di
Udaipur e Johdpur (Rajasthan) in rivolta. Nel 1684 Akbar II si allea anche con Sambajœ
(1657-1689) il figlio di ‡ivajœ, ma Aurangzeb sconfigge in battaglia Sambajœ, lo fa giustiziare
e dissolve il regno marathi. Malgrado ciò, i marathi si riorganizzano presto e riprendono a
dare noia ad Aurangzeb che non riuscirà mai a domarli del tutto. Tra il 1701 e il 1704
Aurangzeb seda una nuova rivolta dei sikh in Punjab guidati da Guru Govinda Singh (1666-
1708) e quella guidata dal bandito Papadu (?-1710) nel Telengana (Andhra Pradesh). Dopo
anni di guerre e futili vittorie, l’impero moghul è finanziariamente dissanguato. Stanco e
deluso, Aurangzeb scompare nel 1707 lasciando l’impero a 17 figli e varie decine di nipoti in
lotta per occupare il trono. Aurangzeb è sepolto in un umile cenotafio ad Aurangabad
(Maharastra), niente a che vedere con i maestosi mausolei di Akbar ad Agra e di
Humanyum a Delhi e con lui ha termine anche la politica di espansione e centralizzazione
dell’impero moghul.

1.3 Declino dei moghul e ascesa della East India Company

Dopo la scomparsa di Aurangzeb, altri nove moghul spesso dopo aspre lotte di successione
si avvicenderono al trono a Delhi. In questo periodo gli stati vassalli che avevano composto
il grande impero moghul fino ad Aurangzeb, si resero indipendenti. Alla morte del decimo
e ultimo guru dei sikh, Govinda Singh (1666-1708), Banda Singh Bahadur (1670-1716)
guida una rivolta dei sikh in Punjab contro Bahadur Shah I (1643-1712). Banda Singh viene
sconfitto da Farrukhsiyar (1685-1719) nipote di Bahadur Shah I. Nel 1724 i nizam di
Hyderabad (Andhra Pradesh) si rendono indipendenti, seguiti nel 1730 dai nawab di Oudh
(Lucknow, Uttar Pradesh), del Bengala, dell’Orissa e del Bihar. Nel 1739 Muhammad Shah
(1702-1748) non riesce ad evitare il sacco di Delhi del persiano Nadir Shah (1688-1747) che
si ritira accontentandosi dell’annessione del Sindh (Pakistan). Nello stesso periodo
diventano indipendenti anche i råjput in Rajasthan, i jåt di Bharatpur e i marathi in
Maharastra che riuniti ancora una volta in coalizioni nel 1741 e 1748 si spingono con le loro
razzie in Bengala e nel 1758 in Punjab. Nel 1757 l’afgano Ahmad Shah Abdali (1722-1772)
saccheggia Delhi, ma nel 1761 alleato di Shah Alam II (1728-1806) sconfigge i marathi a
Panipat (Haryana). Nel 1764 Shah Alam II alleato di Shuja-ud-daula (1732-1775) nawab di
Oudh (Lucknow, Uttar Pradesh) viene sconfitto dagli inglesi a Buxar (Baskar presso Patna,
Bihar). Nel 1772, 1778 e 1783 i sikh saccheggiano Delhi e nel 1799 Lahore (Pakistan). A
questo punto gli inglesi sono alle porte di Delhi.
Il primo approccio degli europei in India era avvenuto a Calicut (Kerala) nel 1498 con lo
sbarco del portoghese Vasco de Gama (1460-1524). Due anni dopo i portoghesi stabiliscono
basi commerciali a Goa (Maharastra) e Dyu (Gujarat), nel 1522 a Madras (Tamil Nadu) e
nel 1533 a Bombay (Maharastra). Nel 1522 una spedizione spagnola guidata da Magellano
(1480-1521) completa la prima circunavigazione del globo. Nel 1602 gli olandesi si
stabiliscono a Madras (Tamil Nadu), nel 1668 i portoghesi cedono Bombay agli inglesi e nel
1674 i francesi si stabiliscono a Pondicherry (Tamil Nadu). I moghul e gli altri regnanti
indiani abbagliati dall’opportunità di arricchirsi ulteriormente non intravedono il pericolo
rappresentato dagli europei. Concedono agli europei avamposti commerciali sulle coste
dell’India convinti di poterli ricacciare in mare facilmente se necessario. Nel 1746 i francesi
occupano Madras che cedono agli inglesi nel 1749. Gli scontri tra inglesi e francesi iniziati
nel 1742, diretti o mediati dai regni locali messi l’uno contro l’altro, terminarono con il
ritiro dei francesi dall’India, eccetto Pondicherry (Tamil Nadu), in base al trattato di Parigi
del 1763 che pose fine in Europa alla guerra dei sette anni.
Nel 1599 un gruppo di mercanti inglesi e danesi per sottrarsi al monopolio del commercio
delle spezie con le indie in mano agli olandesi, fonda la East India Company all’inizio una
società per azioni per procurarsi direttamente le spezie dall’India. Elisabetta I (1533-1603)
lo stesso anno concede loro il diritto esclusivo del commercio inglese con l’oriente. Nel
1600 la prima nave della East India Company attracca a Surat (Gujarat) allora provincia
moghul di Akbar, nel 1609 la East India Company vi apre una base commerciale a Surat
(Gujarat) e nel 1617 ottiene l’autorizzazione da Jahangir allo sviluppo del porto e alla
costruzione di ampi magazzini per le merci, ma non alla sua fortificazione e
militarizzazione. La East India Company opera come un grossista privato, importa merci
dall?india e le vende all’asta alla borsa di Londra ricavando enormi profitti. Nel 1630 gli
inglesi sostituiscono i danesi a Serampore (Bengala), nel 1638 aprono una base
commerciale a Bombay (nell’odierno Maharastra) e nel 1639 a Madras (nell’odierno Tamil
Nadu).
All’inizio gli inglesi avevano soltanto mire commerciali e chiedevano agli imperatori
moghul, ai mahåråja e nawab locali il permesso di aprire basi commerciali, ma col tempo
cominciarono a mirare alla diretta amministrazione delle aree occupate. L’impero moghul
e gli altri regni indiani pressoché privi di flotte commerciali, accolsero favorevolmente i
mercanti europei che, pagando in oro, acquistavano spezie, tè, stoffe, indaco (indigofera
tintoria), salnitro, ecc. Nel XVII sec. l’India dei moghul è ancora una superpotenza
economica e militare ben più ricca dei piccoli regni europei, nessuno si sogna di invaderla.
L’india commercia con il mondo dall’inizio dell’era cristiana ma preferibilmente via terra
attraverso la via della seta considerando i traffici via mare poco sicuri. I progressi
tecnologici nella navigazione fatti in Europa spostano l’economia mondiale sui traffici
marittimi, i paesi europei costituiscono flotte con le quali prendono il controllo degli
oceani e delle rotte. Sono loro che si recano in India e in Cina via mare, non i mercanti
indiani e cinesi che si recano in Europa.
In Inghilterra la grande quantità di tè indiano a basso prezzo per creare la domanda, gli
inglesi prendono l’abitudine del consumo del tè. Nel 1651 gli inglesi costruiscono un porto
e dei magazzini sull’Hugli un ramo nel delta del Gange in Bengala presso tre villaggi
chiamati Govindapore, Sutanuti e Kolkata, che nel 1690 diverrà l’odierna Calcutta. Nel
1696 gli inglesi erigono un forte a Calcutta, Fort William, e nel giro di pochi anni il
territorio controllato dalla East India Company si espande nei dintorni con l’acquisto di
altri 38 villaggi. Grazie ai commerci con gli inglesi, il Bengala diventa la regione più ricca
dell’India, i mercanti e i governatori locali si arrischiscono a dismisura e diventano più
fedeli agli inglesi che ai lontani moghul di Delhi. Gli inglesi in pratica ‘comprano’ il
Bengala, dopodiché armano una serie di eserciti di indiani comandati dai loro ufficiali con
i quali progressivamente conquisteranno l’India intera.
Con il Regulating Act del 1773 e una serie di decreti successivi, il parlamento inglese
riforma la East India Company, comincia ad assumerne il controllo e a governare
direttamente l’India. Nel 1776 A. Smith (1723-1790) pubblica ‘The wealth of nation’ in esso
egli sostiene che il Bengala governato dalla East India Company da paese ricco e florido si è
trasformato in paese povero e soggetto a carestie. A. Smith propone le dottrine
economiche liberiste che verranno recepite dal governo inglese con i decreti del 1813 e
1833 che eliminano del tutto i monopoli di cui la East India Company aveva fino ad allora
ampiamente goduto. Nel tentativo di attrarre l’attenzione dei colti braΔmaña locali,
durante la sua permanenza a Serampore il reverendo battista W. Carey (1761-1834), si fa
aiutare da uno dei più noti pañ∂ita di Navadvipa Gopål Nyåyålaõkåra a tradurre la Bibbia e
il Vangelo in sanscrito e più tardi in Bengali. Appena tollerati dalla East India Company, i
missionari cristiani proponevano agli indiani una nuova religione permeata di rigore
morale, povera di riti e cerimonie alla quale riuscirono a convertire pochi individui di bassa
casta. Non riuscirono ad attrarre l’elite mussulmana, nè gli hindü di alta casta per i quali
niente più di quella rigida religiosità era lontana dalle dottrine, esuberanti mitologie e
ritualismi hindü. Piuttosto, dalla fine del XVII sec. alcuni inglesi illuminati come W.
Hasting (1732-1818), primo governatore del Bengala, W. Jones (1746-1794) e poi tedeschi e
francesi cominciarono ad interessarsi alla letteratura, alle dottrine e filosofie indiane. Pare
che fu Jagannåth Tarkapa∞cånana un pañ∂ita di Navadvipa a insegnare il sanscrito a W.
Jones.
W. Hasting aiuta a fondare nel 1784 la Asiatic Society of Bengal che comincia a raccogliere
ogni genere di antichi manoscritti in sanscrito, persiano e dialetti locali. Nel 1785 Hasting
fa tradurre la Bhagavad-gœtå per la prima volta in inglese da C. Wilkins (1749-1836) e nel
1791 autorizza l’istituzione del Sanscrit College a Benares che nel 1907 diventa la Benares
Hindu University. Molto importanti furono anche gli storici e gli archeologi britannici
come J. Prinsep (1799-1840), A. Cunningham (1814-93) fondatore nel 1861
dell’Archeological Survey of India, V. Smith (1848-1920) e J. Marshall (1876-1958) che si
prodigarono per ricostruire le fasi della storia indiana, trovare, restaurare i siti archeologici
e studiarne i reperti.
Nel 1832 ad Oxford viene istituito il dipartimento di studi di sanscrito diretto da H. H.
Wilson (1786-1860), M. Muller (1823-1900) e M. Monier Williams (1819-1899) che compone
il primo dizionario sanscrito-inglese. A differenza dei portoghesi le cui spedizioni militari
erano benedette da monaci cattolici, la East India Company fino al 1813 non incoraggia in
alcun modo la conversione degli indiani al cristianesimo e le chiese che venivano erette
servivano solo per le guarnigioni inglesi e le loro famiglie.
Quando gli inglesi si sentirono ormai forti e padroni, la politica della non intromissione
nelle questioni religiose venne abbandonata e nel 1813 cadde il divieto di predicazione del
cristianesimo da parte dei missionari cristiani britannici. Gli inglesi della East India
Company si rendono conto di essere troppo pochi per amministrare direttamente un così
vasto territorio, devono creare un corpo di polizia, un sistema giudiziario e amministrativo
educando gli indiani, ma le risorse da investire erano poche, perciò permettono ai
missionari europei protestanti e cattolici di aprire scuole e naturalmente luoghi di culto. Il
timore della conversione a una religione aliena che faceva perdere agli hindü la casta di
appartenenza e diventare i mussulmani infedeli condusse alla coalizzione di hindü e
mussulmani nella rivolta del 1857. Nel 1868 la regina Vittoria (1819-1901) riconoscendo
l’errore del tentativo di cristianizzare le colonie, proclama ufficialmente la libertà di
religione in tutto l’impero inglese. Nel 1874, non avendo più ragione di esistere, la East
India Company viene definitivamente sciolta.
Nel 1705 quando i marathi conquistano il Gujarat, i moghul di Delhi cercarono nuove vie
commerciali ad Est attraverso il Bengala dove già c’erano gli inglesi. Nel 1756 la East India
Company fortifica il porto di Calcutta rompendo un trattato stipulato con il locale nawab
Siraj-ud-daullah (1733-1757). Il nawab attacca Calcutta e conquistàFort William facendo 146
prigionieri europei che rinchiusi una notte in una angusta cella morirono tutti per asfissia
eccetto 23. Questo truce episodio è noto come ‘The blak hole of Calcutta’ .
Gli inglesi si riorganizzano e l’anno successivo con l’ausilio di forze miltari della Company
giunte in soccorso da Madras, sconfiggono Siraj-ud-daullah a Plassey (Palashi nei pressi di
Murshidabad in Bengala). Gli inglesi istituiscono in Bengala un nawab fantoccio e
rivolgono la loro attenzione ad Ovest. Nel 1764 con la battaglia di Buxar (Baskar, Bihar), la
Company sconfigge Shuja-ud-daulah (1732-1775) nawab di Oudh (Lucknow) e Shah Alam
II (1728-1806) di Delhi.
La East India Company inizia a governare in Bengala come vassallo ed esattore delle tasse
per i moghul di Delhi, accetta il persiano come lingua amministrativa e conia monete
(rupie) con effige dell’imperatore moghul fino al 1832. Da questo momento fino alla prima
guerra mondiale compresa, l’esercito indiano che serve per la conquista dell’India è
interamente mantenuto dal gettito fiscale indiano, quindi agli inglesi non costa nulla. Per
espandersi ad Ovest lungo la valle del Gange gli inglesi approfittano delle rivalità e
corruzione dei nawab e mahåråja dell’India del Nord. La East India Company si estende
grazie ad annessioni più o meno forzate e alla stipula di trattati che rompe a tempo
oppotuno.
Nel 1773, consapevole della necessità di istituire un sistema giuridico valido nei territori
controllati dalla East India Company, il governatore W. Hasting chiese a Gopål
Nyåyålaõkåra uno dei più noti pañ∂ita di Navadvipa di comporre un manuale di legge.
Gopål Nyåyålaõkåra con l’ausilio di altri undici pañ∂ita compose il Vivådårñava-setu basato
largamente sul Dåyatattva del bengali Raghunandana (XVI sec.). Questo testo fu tradotto
dapprima in persiano e nel 1776 in inglese con il titolo “Code of Gentoo Laws”.
Hasting raccolse una commissione di colti smårta-bråmaña e una di dotti sunniti (ulema)
nella legge islamica per redigere due codici separati di leggi hindü e mussulmane. La
commissione hindü propose ad Hasting di adottare il Dåyatattva di Raghunandana, un
commento al Dåyabhåga di Jœmütavåhana (XII sec.), mentre la commissione di ulema
propose il codice islamico della shariya. Ambedue i codici in uso fino al termine
dell’amministrazione coloniale inglese, erano inevitabilmente influenzati l’uno dal
conservatorismo brahmanico e l’altro dall’ortodossia sunnita. Tuttavia, dopo secoli di
esclusione, ambedue i bråhmaña e gli ulema erano contenti della politica inglese di non
ingerenza in materia religiosa e di poter esercitare autorità legislativa sulle rispettive
comunità. Gli inglesi intenzionalmente non si rivolsero ai precedenti amministratori hindü
e mussulmani che avevano governato i regni e le province sorte dalla frantumazione
dell’impero moghul.
Prima degli inglesi, i precedenti governanti e amministratori indiani avevano sempre
cercato di mediare tra le diverse comunità religiose e si erano spesso dimostrati
sufficentemente laici e progressisti. Nelle mani degli inglesi l’idea delle caste divenne uno
strumento per registrare e dividere, per tenere sotto controllo gli indiani e poter meglio
sfruttare le risorse dell’India. Del resto la East India Company era una impresa privata e
rispondeva agli interessi degli azionisti di Londra. L’amministrazione diretta della East
India Company tra il XVIII e il XIX sec. provoca nei territori occupati una profonda
depressione, la scomparsa di produzioni, vie di commercio e l’impoverimento di intere
classi mercantili e artigianali. In pratica l’India comincia a crescere solo dopo
l’indipendenza del 1947. Mentre le antiche capitali dei moghul, mahåråja e nawåb
languono, si sviluppano le città di Calcutta, Madras e Bombay i nuovi centri di potere dove
trovano lavori servili gli indiani che abbandonano le campagne. Nelle cronache è riportato
che dal 1769 al 1773, il Bihar, l’Orissa e il Bengala furono colpiti da siccità che produssero
spaventose carestie ed epidemie di peste, colera, tifo e vaiolo che, pressocché ignorate dagli
inglesi, uccisero oltre un quarto della popolazione indigena.
Le carestie furono aggravate dalle politiche agricole della East India Company che
obbligava le monocolture del papavero da oppio da vendere in Cina e nelle americhe, del
te, del cotone dell’indaco da esportare in Inghilterra. Queste produzioni tolsero spazio al
riso, ai legumi, ecc. che costituivano la base alimentare della popolazione indiana. Le
carestie provocarono una serie di rivolte popolari che finivano per essere sedate nel
sangue. In Bengala nel 1757, 1763, 1771 e 1773 scoppiano le rivolte dei saµnyåsin e fakir. Nel
1773 W. Hasting mette al bando i samnyåsin, i vaißñava-vairågin, gli yogin-nåth e i fakir
itineranti, mentre dichiara tollerati gli stessi sedentari dediti alle sole loro pratiche
religiose. Nel 1799 scoppia la rivolta chuar a Raipur (Chatisgarh) guidata dall’ex zamindar
Durjan Singh, nel 1831 Titumir (1782-1831) guida una rivolta di contadini mussulmani nei
distretti di Nadiya, dei 24 Parganas e di Faridpur.
Nel 1793 il governatore generale Lord C. Cornwalis (1738-1805) con il ‘Permanent
Settlement Act’ cambia il sistema di amministrazione e tassazione del territorio basato sul
sistema degli zamindar, esattori di tasse, immutato dal tempo dei moghul, adottato dai
mahåråja e nawab i moghul. Con il ‘Permanent Settlement Act’ gli zamindar diventano
proprietari terrieri e tassati in base a quanto dovevano secondo gli inglesi far fruttare i
fondi da loro amministrati. Con questa riforma gli inglesi intendevano modernizzare e
sviluppare una economia industriale e capitalistica di mercato, ma l’effetto fu che gli
zamindar gravati da tasse, non furono più in grado di ammassare generi alimentari per il
popolo da conservare come scorte di cibo in caso di carestie che di tanto in tanto
flagellavano il Nord-India. Inoltre le nuove tasse impedirono ai proprietari terrieri di
offrire la tradizionale ospitalità e beneficenza ai saµnyåsin itineranti nei luoghi sacri hindü
e ai fakiri e sufi dell’ordine madari nel loro pellegrinaggio annuale dal Bengala a Makanpur
(Kanpur, Uttar Pradesh) luogo di nascita del loro fondatore Zinda Shah (XV sec.)
Nel 1835-40 il colonnello W. H. Sleeman (1788-1856) con una apposita campagna militare
in Bihar e Uttar pradesh combatte le bande degli assassini sthaga o thagi (per gli inglesi
thugs). Dopo la rivolta dei sepoy del 1857, per gli inglesi il fenomeno thugs diviene una vera
e propria paranoia pan-indiana. Nel 1871 reagiscono con il ‘Criminal Tribes Act’ che
peraltro, oltre ai banditi, classificava come criminali, vagabondi e ciarlatani dalla nascita
anche le comunità dei mendicanti, dei sådhu e degli yogin itineranti, degli †aiva-någå, dei
vairågin vaißñava, dei sufi e dei fakir e degli eunuchi (hijrå).
Nel 1838 scoppia la rivolta faraizi guidata da Dudu Miyan (1819-1862), nel 1855 scoppia la
rivolta dei tribali santal guidati dai quattro fratelli Murmu nel Jharkhand oggi compreso tra
il Bihar e il Bengala. Nel 1859 scoppia la rivolta dei coltivatori di indaco del distretto di
Nadiya (Bengala).
Dopo aver annesso il regno di Oudh (Lucknow), dal 1773 gli inglesi cominciarono a
scontrarsi con i principi marathi e i loro alleati francesi. L’unico vero ostacolo all’avanzata
degli inglesi nell’India del Sud rimaneva il regno indipendente di Mysore (Karnataka)
governato da Fateh Ali Tipu (1750-1799). Nell’India del Sud, dal 1766 ebbero luogo una
serie di battaglie dall’esito alterno che terminarono nel 1799 con la definitiva capitolazione
del sultano Tipu. Nel 1803 gli inglesi sconfiggomo il moghul Shah Alam II (1728-1806)
difeso una coalizione di principi marathi e si insediano a Delhi dove reinsediano Shah
Alam II. Nel 1804, Jasvant Rao Holkar (1776-1811), il råja marathi dello stato di Indore
(Madhya Pradesh) occupa l’area di Mathura e Vrindavana che il råja marathi Daulat Rao
Shindia (1794-1827) di Gwallior (Madhya Pradesh) aveva ceduto agli inglesi l’anno
precedente. Nello stesso anno Jasvant Rao Holkar attacca Delhi ma fu respinto dal
‘Resident of Delhi’ D. Ochterlony, il rappresentante locale della East India Company. Nel
1805 in seguito alla rottura della coalizione contro gli inglesi formata da Jaswant Rao
Holkar con il råja jåt di Bharatpur Ranjit Singh (1745-1845), Jasvant Rao Holkar fu
costretto a trattare con gli inglesi e rendere loro il controllo dell’area di Mathura-
Vrindavana.
Grazie a intrighi diplomatici tra il 1805 e il 1819 gli inglesi sottomettono i marathi delle
dinastie shindia a Gwalior (Madhya Pradesh), bhonsle a Nagpur (Maharasthra), holkar a
Indore (Madhya Pradesh) e gaekwad a Baroda (Gujarat). Tutti questi regni passano sotto il
diretto governo inglese o diventano protettorati inglesi. Con la vittoria della prima guerra
afgana (1839-1843), approfittando della scomparsa del sikh Ranjit Singh (1780-1839),
l’ultimo grande råja indipendente dell’India del Nord, gli inglesi prendono il controllo del
Punjab e del Sindh.
Il governatore generale Lord Dalhousie (1812-1860) è lo stratega dell’annessione del regni
marathi di Satara (Maharastra) nel 1848, di Jhansi (Uttar Pradesh) nel 1853, di Nagpur
(Maharastra) e dei nizam di Hyderabad (Andhra Pradesh) nel 1854. Nel 1856 annette il
regno di Oudh (Lucknow, Uttar Pradeh) detronizzando l’ultimo nawab Vajid Ali Shah
(1822-1887) accusandolo di immoralità e cattiva amministrazione perchè troppo dedito al
consumo di oppio, di bevande alcoliche e agli spettacoli (mujra) di danza, poesia, canto e
teatro tradizionale che gli inglesi consideravano adatti a debosciati o effemminati.
L’episodio è stato narrato dal regista bengali Satyajit Rai in ‘The chess players’ (1977). Gli
inglesi cominciano ad amministrare sfruttando a loro favore le divisioni culturali, religiose
e linguistiche tra i popoli delle tante e diverse province e protettorati indiani.
Cacciati dall’America del Nord in seguito alla guerra di indipendenza (1775-1783), gli
inglesi si rivolsero all’India per procurarsi il cotone. Ha così inizio il nocivo sistema di
economia coloniale caratterizzato dall’importazione di materie prime e l’imposizione alle
colonie dell’acquisto dei prodotti finiti. Il cotone indiano acquistato a prezzi irrisori ritorna
in India in forma di tessuti prodotti dai telai meccanici di Manchester in un mercato
monopolistico dove erano esclusi tutti i prodotti tessili non britannici. Per favorire il loro
mercato gli inglesi smantellarono il commercio interno e la fiorente produzione di tessuti
bengalesi che era diventata la ricchezza del sultanato del Bengala fino al loro arrivo. Fino
all’inizio del XX sec. gli inglesi impedirono lo sviluppo industriale indiano mantenendo
l’India a lungo nella fase pre-industriale. Priva di industria dell’acciaio, dal 1870 al 1920,
l’india importa locomotive, rotaie per il sistema ferroviario e ogni altro materiale metallico
dall’Inghilterra. Malgrado ciò, lo storico inglese James Mill (1773-1836) in ‘The History of
British India’ (1817), divide la storia dell’India in hindü, mussulmana e britannica e
sostiene che l’India dopo secoli di governo dispotico per la prima volta aveva l’occasione di
beneficiare della pace e della saggezza del governo britannico. Nel 1833 il governo
britannico sancisce in tutto impero l’abolizione della schiavitù.
Nel 1835 lo storico e politico inglese T.B. Macaulay (1800-1859), membro del India
Governor General’s Council dal 1834 al 1838, con la riforma del sistema educativo indiano
interrompe l’insegnamento del sanscrito e del persiano nelle scuole finanziate dal governo
dalla sesta classe in poi e introduce l’inglese come lingua dell’amministrazione coloniale.
Macaulay dichiarò di voler creare una classe di indiani anglicizzati che serva da
intermediari tra gli alti amministratori inglesi e il popolo. Grande risonanza ebbe in India
un discorso pubblico nel quale Macaulay affermò che tutte le informazioni storiche che si
possono raccogliere in tutti i libri in sanscrito valgono meno di ciò che può essere trovato
nei più succinti libri di testo di storia usati nelle scuole inglesi.
Gli inglesi giustificavano il loro domino coloniale sugli indiani anche su basi culturali e
religiose adducendo la virile superiorità della cultura inglese basata sulle loro vittorie
militari e capacità amministrative. Dai primi del XVIII sec. cessano i matrimoni misti e sono
condannati gli inglesi che adottano usi, costumi indiani. Gli inglesi ammirano il moghul
Akbar, ma disprezzano il rammollimento dei suoi successori dovuto agli ozi e ai piaceri, il
tantrismo hindü con i suoi eccessi e i culti devozionali a divinità maschili in particolare
K®ßña e in misura minore Råmå, pervasi da sentimenti amorosi (mådhurya-rasa). Fin dal
XVII sec. nelle corti dei mahåråja e dei nawab si esibivano musicisti, poeti e cortigiane in
convegni letterari (mehfil) in urdu, brajboli e sanscrito in stile ghazal e dhrupåd e in spettacoli
(mujra) di teatro, canto e danza spesso ispirati ai passatempi erotici di K®ßña con le gopœ
accompagnati dal consumo di oppio e bevande alcoliche che divennero in alcuni casi molto
licenziosi. Leggendari sono rimasti gli spettacoli delle cortigiane Adbegun e Nurbai alla corte
di Delhi del moghul Muhammad Shah (1702-1748). Gli inglesi cominciarono a considerare
molli e depravati i mahåråja e i nawab dediti a questo genere di intrattenimenti di corte e le
cortigiane nient’altro che prostitute.
Nel 1857 a Meerut (Uttar Pradesh) scoppia la rivolta degli indiani arruolati nell’esercito
inglese (sepoy) dal persiano sipahi soldati. Gli inglesi perdono il controllo dell’Uttar
Pradesh e del Bihar e di alcune aree del Madhya Pradesh. Città come Delhi, Kanpur,
Gwallior e Lucknow cadono in mano ai rivoltosi che fanno riferimento all’imperatore
moghul di Delhi, il riluttante anziano Bahadur Shah Zafar (1775-1862) insediato sul trono a
Delhi nel 1852 dagli stessi inglesi. Si tratta di una serie di eventi distanti e non coordinati
caratterizzati da efferati atti di sangue ed eroismi da parte degli inglesi e dei rivoltosi. I
disordini e i saccheggi furono eseguiti dalle bande marathi come quella di Nana Sahib
(1824-1858), da bande (akhårå) di †aiva-någå, di vaißñava-vairågin, di sufi e fakir, di
contadini jat come quella di Shah Mal nell’area di Baghpat presso Delhi e di pastori gujjar
come quella di Dev Singh nell’area di Mathura (Uttar Pradesh). La fatale figura di Bahadur
Shah Zafar e la rivolta a Delhi sono stati descritti da C. Hibbert in ‘The great mutiny - India
1857’ (1978), e da W. Darlymple in ‘The last Mughal’ (2006). La rivolta terminò l’anno
successivo con la caduta del forte di Gwalior difeso dall’eroina hindü Rånœ Lakßmibai (1835-
1859) di Jhansi (Uttar Pradesh) e la vendetta inglese su Bahadur Shah Zafar e i suoi
famigliari a Delhi.
Sedata la rivolta tutto il sub continente indiano, a parte i territori controllati dai mahåråja
e nawab alleati e qualche piccolo insediamento commerciale dei portoghesi sulle coste del
Maharastra (Goa), del Gujarat (Dyu) e dei francesi rimasti a Pondicherry (Tamil Nadu), si
ritrovò riunito sotto il diretto dominio coloniale inglese diviso in undici province. Nel 1858
la East India Company venne sciolta e il governo passò direttamente alla corona inglese che
nominò primo vicerè C. Canning 1812-1862. Dopo la rivolta del 1857 l’esercito diventa più
rispettoso degli usi, costumi e fedi religiose dei soldati indiani, vi arruola preferibilmente i
sikh che non avevano partecipato alla rivolta e li impiega in una serie di guerre di
espansione dell’impero coloniale e per sedare rivolte in Crimea, Birmania, Cina, Sud-Africa
e Persia. Invia masse di indiani a lavorare nelle piantagioni delle isole Mauritius nell’oceano
indiano, del Natal in Sud Africa e della Guayana inglese in America del Sud.
Nella lunga storia indiana, solo i maurya, dal IV al II sec a.C., i gupta, dal IV al V sec. d.C., i
tughlah di Delhi nel XIII sec. d.C., e infine i moghul dal XVI al XVII sec., avevano
governato su vaste porzioni di territorio indiano, ma era la prima volta che un’unica
amministrazione governava tutta l’India, dall’odierno Pakistan alla baia del Bengala e
dall’arco dell’Himalaya a Kanyakumari (Capo Comorin, Tamil Nadu). Sicuri di se, poche
decine di migliaia di inglesi governarono istituendo una sorta di aparthaid diverse
centinaia di milioni di indiani per oltre un secolo. Gli inglesi si consideravano superiori agli
indiani da tutti i punti di vista, non ebbero grosse difficoltà ad imporsi sfruttando il
naturale fatalismo della religione hindü con il suo sistema delle caste. Dal 1850, attuando
un programma di modernizzazione del paese, l’amministrazione inglese inizia a unire le
grandi città indiane con strade, ferrovie, il telegrafo e il servizio postale. In realtà
inizialmente tutte queste infrastrutture furono progettate e realizzate per spostare
velocemente le truppe nel paese per sedare le tante rivolte locali e provvedere al trasporto
delle materie prime ai porti di esportazione in Inghilterra. Dalla fine del XIX sec. gli inglesi
iniziano a deportare indiani nelle loro colonie in Sud Africa, isole Maurithius e nelle
Antille Inglesi carenti di manodopera dando inizio al fenomeno della diaspora indiana.
All’inizio del XX sec. in Bengala divennero molto popolari le immagini stampate su carta
di Kålœ inghirlandata con teste di barbuti dai tratti apparentemente inglesi e ciò non mancò
di preoccupare l’amministrazione coloniale inglese. Dopo la rivolta del 1857 gli inglesi
intensificarono gli sforzi per separare e mettere una contro l’altra le comunità hindü e
mussulmane concedendo privilegi alle minoranze locali mussulmane o hindü che fossero.
Per amministrare efficacemente l’India, l’amministrazione inglese inizia il lavoro di
catalogazione delle caste e delle professioni culminato con il censimento del 1905 dove
determinarono con precisione in ogni stato la percentuale di aderenti alle varie confessioni
religiose, alle quattro generiche caste (varña) e alle professione(jåti). Ma la pretesa di
attribuire una particolare professione a ogni individuo appartenente a una delle quattro
caste senza attenzione alle specificità locali, da una parte incrementò il senso di
appartenenza alla jåti, ma dall’altra generò attriti prima inesistenti o quasi tra individui
appartenenti a jåti e a varña diversi. L’introduzione dal 1918 del sistema delle quote negli
impieghi pubblici e di rappresentanza politica in parlamento in base alla casta rafforzò
anziché debellare il senso di appartenenza alla casta.
Nel 1885 a Bombay un gruppo di intellettuali e uomini d’affari inglesi e indiani fonda il partito
Indian National Congress nel cui programma politico è prevista l’idea di autogoverno (svaråj)
condivisa da M. K. Gandhi (1896-1948) che dal 1915 diventerà leader di questo partito. A
cavallo tra il XIX e il XX sec., molti tra gli emergenti leader religiosi, intellettuali e politici
indiani in parte influenzati dal moralismo vittoriano, tentano di riformare il vasto patrimonio
culturale, religioso e filosofico indiano. In questo ambito si situano gli sforzi del politico e
filosofo B.G. Tilak (1856-1920), dei bengalesi Råm Mohan Roy (1774-1833) che nel 1828 fonda
la Brahmo Samaj, del romanziere Bankim Chandra Chatterjee (1838-1894), di Vivekånanda
Svåmin (1863-1902) che nel 1897 fonda la Råmak®ßña Mission, di Rabindranåth Tagore (1861-
1941) che nel 1913 fonda la ‡antiniketana University, del gujarati Dayanånda Sarasvati (1824-
1883) che nel 1875 fonda la Arya Samaj, dello scrittore e politico V. D. Savarkar (1883-1966)
che nel 1915 fonda il partito Mahåsabhå e del giornalista K. B. Hedgewar (1889-1940) che nel
1925 fonda l’organizzazione paramilitare nazionalista Råß™riya Svayamsevak Sangh. V. D.
Savarkar e K. B. Hedgewar elaborarono la dottrina reazionaria, nazionalista e fondamentalista
dell’hindütva o ‘hinduità’, ancor oggi sostenuta dai partiti hindü conservatori come il
Bharatœya Jånatå Party. Tutti queste personalità benché diverse e in modo talvolta conflittuale,
concorrono a quel movimento che viene chiamato rinascimento hindü. Gli indiani ricchi,
colti o intellettuali che sostenevano il rinascimento hindu erano riconoscibili perché
preferivano indossare i tradizionali dotœ e kurtan, gli uomini e i sårœ, le donne, invece degli
abiti di tipo occidentale, per l’uso delle lingue locali a scapito dell’inglese, per il sostegno
dell’apertura di scuole di ogni grado dove le materie di studio erano insegnate con le locali
lingue indiane, ecc.
Katherine Mayo in “Mother India” (1927) descrive l’India come una camera degli orrori
dal matrimonio dei bambini, all’immolazione delle vedove, la segregazione femminile,
l’intoccabilità dei paria, l’arroganza dei bråhmaña, ecc. Questo saggio fu considerato da
Gandhi fazioso e unilaterale, da lui paragonato al rapporto di un ispettore delle fogne, non
che negava quegli orrori, ma sosteneva che l’India non era quello soltanto.

In Bengala il censimento nel 1905 condusse alla divisione del Bengala in occidentale e
orientale in base alla professione religiosa della maggioranza della popolazione. Questa
divisione a causa della grande opposizione popolare sarà annullata nel 1911. Nel 1912 in
occasione della visita ufficiale di Giorgio V (1865-1936) fu organizzata a Delhi una grande
cerimonia alla quale furono invitati tutti i 565 mahåråja e nawab che ancora direttamente o
indirettamente amministravano dei territori nell’India intera. In realtà solo dodici tra
questi 565 governavano regni vasti e ricchi, già allora altri 28 erano più o meno benestanti
e i rimanenti avevano solo il titolo di mahåråja, di fatto non governavano più nulla ed
erano mantenuti dagli inglesi. In quella occasione fu anunciato lo spostamento della
capitale amministrativa dell’India da Calcutta a Delhi, inaugurata nel 1931 col nome New
Delhi. Nel marzo del 1921, Arthur duca di Connaught (1850-1942), settimo figlio della
regina Vittoria, si recò in India per inaugurare la nuova costituzione indiana decretata nel
1919.
A causa dei crescenti movimenti nazionalisti indiani agli inizi del XX sec. gli inglesi si
resero conto di dover concedere qualche riforma democratica avviando il processo di
creazione di uno stato con moderne strutture politiche. Da alora gli indiani, ad esclusione
dei mussulmani che non né sentivano la necessità sentendosi già per tradizione parte di
una comunità di fedeli (umma) ben più ampia dei confini dell’India, cominciarono ad
attribuirsi una identità religiosa nazionale. Malgrado la varietà di culti, sette e dottrine
ortodosse ed eterodosse che fino ad allora avevano a volte anche violentemente
contrapposti gli hindü, nasce la moderna onnicomprensiva identità religiosa della
maggioranza degli indiani.
Nel XVI sec. Vrindavana era diventata la capitale del culto di K®ßña, ma nei secoli successivi
conobbe periodi molto difficili. Durante il regno di Aurangzeb si era verificata la
distruzione di numerosi templi hindü in tutta l’India del Nord. I più importanti templi di
Vrindavana come Govinda, Madana-mohana, Gopœnåtha, Damodåra, Vallabha, Harideva a
Govardhana e Ke†ava a Mathura erano stati abbandonati prima di essere dissacrati,
danneggiati o distrutti. Questi atti di vandalismo hanno indotto alcuni storici a pensare che
si trattasse di banditi mussulmani, ma in quegli anni l’area di Vraja fu interessata dalle
rivolte dei jåt nel 1669 e dei satnåmœ nel 1672, dalle scorrerie dei marathi nel 1707, dalla
campagna militare di Jai Singh II contro i jåt di Dig nel 1710 e dell’afgano Ahmad Shah
Abdali che nel 1757 saccheggia Delhi e Mathura, e infine dalla rivolta dei sepoy (1858-
1859). Le originali immagini sacre (statue) di K®ßña adorate nei sancta santorum dei templi
furono spostate in aree protette da locali mahåråja hindü dove si trovano tuttora. Nel corso
del XVII sec. Govindajœ, Damodårajœ e Gopœnåthajœ furono spostati a Jaipur (Rajasthan),
Madana-mohana a Karauli (Rajasthan), Nåthajœ a Nathadvara (Rajasthan), Haridevaªi e
Ke†avajœ a Kanpur (Uttar Pradesh), mentre le immagini di Vallabhajœ, Råmañajœ e
Baõkibiharijœ rimasero nascoste a Vrindavana. Tutto questo stava accadendo mentre
Vi†vanåtha Cakravartin era a Vrindavana.
Generalmente gli asceti hindü non si interessano di questioni politiche considerando che
tutti i problemi sono dovuti all’era di Kali (kali-yuga). Fedele a questa linea di condotta,
Vi†vanåtha Cakravartin non menziona mai nei suoi scritti gli eventi del suo tempo, anche se
è inevitabile che guerre, persecuzioni, saccheggi, carestie e rivolte che in quel periodo
sconvolsero tutta l’India del Nord non potevano mancare di nuocere o comunque
influenzare la vita degli hindü e lo sviluppo delle loro sette e dottrine.
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