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L'HPTLC: una metodica moderna per l'analisi ed il controllo degli

estratti vegetali.

“Negli ultimi anni si è registrato un ritorno prepotente alla richiesta del prodotto naturale”. Questa
classica frase, apparentemente molto vera ed accattivante, è in realtà in gran parte sbagliata e
forviante. In realtà, il fenomeno che sta interessando l’impiego delle sostanze naturali ha
caratteristiche e richieste del tutto nuove ed innovative. Salviamo l’inizio e riproviamo.
Negli ultimi anni sono apparsi sul mercato una serie di nuovi prodotti in risposta a molteplici
richieste riguardanti prodotti derivati da matrici naturali. I prodotti occupano uno spazio indefinito
dall’alimentare al medicinale, con un centro di gravità determinato dall’aspetto salutistico e
benefico, perché intrinseco alla potenzialità della sostanza naturale. Svariati quindi i campi, le
forme, addirittura i neologismi, nutriceutici, cosmeceutici, biotici e quant’altro. Un intero universo
di prodotti che ha addirittura rivoluzionato anche la sicura fortezza della chimica farmaceutica. Un
avvento tanto tumultuoso e rapido non poteva non comportare una serie di problemi. L’esondare dei
prodotti e dei produttori ha incontrato problemi di accettazione a cominciare dalla normativa fino
alla definizione e collocazione. Un atteggiamento che spesso confina con la prevenzione, si intride
di fastidio per le novità e può cadere nella trappola dello scientismo.

IMPORTANZA CENTRALE DELLA QUALITA’

Messe così le cose, un argomento vale l’altro, ma solo nella migliore delle ipotesi, perché se
l’atteggiamento negativo annullatorio viene dalle autorità regolatorie, le cose si fanno pericolose.
Se accettiamo che l’aspetto qualitativo sia e sarà fondamentale, ne deriva la ovvia domanda: come
mai finora è stato largamente assente nei pensieri dei soggetti suddetti? La risposta deve considerare
due aspetti, uno relativo alla conoscenza e uno relativo al costo. Nel caso delle sostanze naturali,
esistono tecniche analitiche d’elezione, ma tuttavia, richiedono operatori qualificati e costi elevati.
Inoltre purtroppo ha evidenziato una preoccupante tendenza verso la specializzazione e la
specificità. Per una ditta di piccole e medie dimensioni questa situazione finisce per costituire un
ostacolo insormontabile e quindi non restano che due soluzioni: affidarsi ciecamente alle altrui
certificazioni, quando presenti, o sperare che tutto vada sempre nel migliore dei modi. Ma nel caso
specifico il problema consiste che queste tecniche non si adattano alla specificità del caso, o meglio
alla complessità del caso. Fortunatamente esiste una via alternativa costituita dalla TLC, o meglio
dalla sua ultima versione l’HPTLC (High Performance ad Alta Prestazione).
Grazie alla fitochimica aiutata dalla fisica, la strumentazione analitica ha creato macchine potenti
che permettono di fotografare molecolarmente le matrici organiche. Il risultato è il cosiddetto
fingerprint, una immagine il più fedele possibile della complessa composizione molecolare di un
estratto, al fine di fornirne una chiara chiave di identificazione e di evidenza qualitativa.
HP sta per alta prestazione, TLC per Thin Layer Chromatography per Cromatografia su Strato
Sottile ovvero si riferisce all’impiego di strumenti analitici tecnologici di ultima generazione adatti
all’analisi dei prodotti naturali perché generati con questa missione. Ma in questo caso felicemente
la tecnologia si sposa con la semplicità delle immagini, perchè “Un’immagine vale più di mille
parole”.
Fig.1 Analisi HPTLC di estratti di Iperico con a destra alcuni standard dei costituenti. E’ evidente
la sensibilità e la capacità di separazione della miscela complessa e risultano facili da
comprendere sia le piccole differenze nei fingerprint che le corrispondenze con le sostanze di
riferimento.

Storia della cromatografia

Se la madre di tutte le cromatografie è quella su colonna, tuttavia la più usata nei laboratori per gli
impieghi di routine è la TLC. Il passaggio dall’una all’altra non è stato semplice.
Per la TLC riguardo ai primi passi, dobbiamo guardare alla Russia, o meglio all' Ucraina, dove nel
1937-38 all’Università di stato di Kharkov, Nikolai A. Irmailov e la sua giovane assistente Maria S.
Shaiber si applicavano nel trovare dei metodi adatti all’analisi di estratti vegetali galenici. Erano
scontenti della lentezza della Cromatografia su colonna(CC) e della complicata applicazione.
Stratificando vari adsorbenti su vetrini da microscopia ed applicando le gocce di estratto al centro,
ottennero promettenti cerchi concentrici di differente colorazione ed apparenza alla luce UV. Non
avendo altra scelta, pubblicarono le loro osservazioni in russo, ma fortunatamente a quei tempi (e
per lungo tempo a seguire) i Chemical Abstracts pubblicavano una sintetica, ma utile, recensione
dei lavori in russo e così tutto capitò sotto gli occhi di M. O’ Crowe, del N.Y. Dep. of Health, che le
ripetè su capsula di Petri, aggiungendo al centro gocce di solvente e confermando la validità della
prima applicazione. Seguirono una serie di tentativi per migliorare soprattutto l’aspetto più debole,
ovvero natura ed efficienza della fase fissa. Tutto questo fino all’entrata in scena di Egon Stahl.
Stahl nello studio dei componenti degli olii essenziali si rese conto del vero tallone d’Achille della
TLC, consistente nel trattamento dell’adsorbente. Per cui, insoddisfatto dei prodotti in commercio
offerti dalle varie ditte, si mise personalmente a costruire un apparato semplice che fosse in grado di
produrre lastrine con adsorbente trattato di alta qualità. I suoi sforzi culminarono nel 1958 con la
presentazione da parte della Merck a Francoforte all’International Achea Exibition del “Silica gel G
according to Stahl for TLC” della strumentazione di base per realizzare le lastrine in modo
standardizzato. Il metodo non solo permise di abbattere i costi con una produzione artigianale, ma
provocò la diffusione a macchia d’olio della TLC nei laboratori di tutto il mondo, grazie anche
all’opera fondamentale dello stesso Stahl “Dunnschicht-Cromatographie, ein
Laboratoriumhanbuch”, tradotta in una quantità di lingue.
Sebbene avesse realizzato un passo avanti qualitativo fondamentale e vada pertanto considerato il
padre della TLC, Stahl stesso non era del tutto soddisfatto dei suoi risultati. Sulla falsariga di quanto
avvenuto nella cromatografia su colonna con l’HPLC, venne il tempo dell’High Performance TLC:
Il gel di silice di Stahl era costituito da particelle di una grandezza varia da 10-60 μm con una media
di 20 μm, il nuovo materiale venne selezionato a dimensioni più omogenee e portato a valori medi
di circa 5 μm, secondo quanto introdotto da K. Kaiser. L’uso di particelle più fini migliorò le
prestazioni in caso di miscele complesse, anche se comportò una diminuzione della velocità del
flusso ora rallentato; un problema poi risolto con un l’ausilio di un apposito flusso forzato nella
Flow-Forced TLC (FFTLC). Nel futuro della TLC dovrebbe esserci sicuramente l’accoppiamento
con le tecniche di determinazione strutturale, quali IR, MS e NMR, attualmente rallentato dalla
diversità di interfaccia e, forse, una TLC in continuo, come nella CC, dove le sostanze vengano
raccolte in qualche modo alla fine della corsa, ovvero meglio estratte dalla lastrina secondo un
metodo ancora confinato alla fase sperimentale.

Essenzialità della cromatografia

La cromatografia quindi a buon diritto ha acquisito questo nome, perché, seppure la sua
applicazione non si limiti assolutamente alle sostanze colorate, tuttavia la sua scoperta fu resa
possibile dall’applicazione sui pigmenti naturali. In altre parole, seppure un pigmento deve
possedere un gruppo cromoforo, ovvero una serie di insaturazioni coniugate dotate di elettroni che,
grazie alla loro delocalizzazione nel gruppo, possono assorbire facilmente certe lunghezza d’onda
della luce, la determinazione della struttura della sostanza non ha avuto alcuna influenza sullo
sviluppo della cromatografia. In vero è giusto il contrario, grazie alla cromatografia è stato possibile
e relativamente facile ottenere delle sostanze pure e quindi poterle studiare chimicamente ed
assegnarne la struttura. Senza la cromatografia, o meglio prima della cromatografia, l’alternativa era
la lunga, tediosa e spesso inefficace tecnica della cristallizzazione o della ripartizione, del resto
applicabile solo a sostanze presenti in grande concentrazione rispetto a tutti gli altri costituenti della
soluzione.
La cromatografia ha, in un certo senso, permesso di effettuare il percorso inverso dell’estrazione:
nella cellula vivente vige il principio della compartimentazione, una divisione ossessiva per ottenere
l’ordinamento di reattivi, substrati, componenti di vario tipo, operata grazie al sistema di
endomembrane, dal reticolo endoplasmatico fino ai diversi organuli. Questo per quanto riguarda il
mondo microscopico della matrice organica, ancora a noi in gran parte precluso sia dal punto di
vista fisico che concettuale. Per poter studiare questo sistema è stato necessaria una violazione
profonda: l’estrazione asporta e mescola moltissime sostanze travasandole nella stessa soluzione,
alterando il precedente ordine e creando un coacervo di impressionate miscuglio, altrettanto
instudiabile quanto il precedente sistema cellulare. Per ritrovare l’ordine perduto è necessario
riseparare le sostanze. Finora l’unica tecnica, che ha permesso di realizzare in modo semplice ed
efficace questo piccolo miracolo, si chiama cromatografia. La cromatografia è quindi
essenzialmente un sistema di elezione per la separazione di sostanze organiche in soluzione.

Le cromatografie

La logica molecolare delle sostanze naturali

La cromatografia non avrebbe ragione di esistere ed i suoi risultati non sarebbero comprensibili se
non si facesse riferimento alla particolare natura chimica delle sostanze naturali. La struttura
chimica di una sostanza organica risponde ad una precisa logica, determinata dalla sua origine
fotosintetica e dallo scopo per cui è stata selezionata e sintetizzata. Tale logica è così stringente che
ha determinato una forma di scrittura specifica sviluppata dalla chimica organica per queste
sostanze. Possiamo distinguere nelle sostanze naturali due tipologie costitutive:
a) una parte fissa, costituita dallo scheletro idrocarburico derivato dalla sequenza di carboni
legati covalentemente a formare una definita e riconoscibile forma molecolare, caratteristica
del composto e della classe di prodotti naturali a cui appartiene. Tale struttura di base
generalmente si mantiene intatta nella sequenza metabolica reattiva della molecola con i
recettori e i complessi enzimatici.
b) La maggior parte dei legami eccedenti quelli C-C dello scheletro molecolare è saturata da
legami C-H dotati di nulla o poca reattività. Lo scheletro molecolare è generalmente stabile
e immutato, mentre la parte reattiva, e quindi variabile, è garantita dai cosiddetti gruppi
funzionali, comprendenti gli altri atomi, ovvero gli eteroatomi, generalmente ossigeno ed
azoto.
I gruppi funzionali, quali ossidrili, acidi carbossilici, ammine, ecc., sono quindi la parte reattiva
della sostanza, ma è lo scheletro molecolare che determina la reattività del gruppo funzionale e
quindi quella complessiva della molecola. In altre parole, anche nelle sostanze naturali, un ossidrile
alcolico risponde esattamente alle reazioni dettate dalla chimica organica, quali esterificazione,
ossidazione, ecc., ma la sua reattività, e quindi la differenza tra eguali gruppi funzionali, è
determinata dall’R, ovvero in questo caso dalla parte dello scheletro molecolare a cui è legato. La
parte idrocarburica scheletrica costituisce il core della struttura, mentre i gruppi funzionali tendono
a sporgere verso l’esterno, pronti a reagire con l’ambiente cellulare.
Bisogna a questo punto ricordarsi che i gruppi funzionali possono andare incontro a due tipi di
reazioni, quelle dovute a legami forti con rottura dei legami covalenti originari e formazione di
nuovi, e quelli di natura elettrostatica, ovvero dovuti ad interazioni tra cariche. Questi ultimi, spesso
trascurati dalla chimica organica classica, sono invece importantissimi nel metabolismo, perché
permettono l’interazione con l’ambiente cellulare pur mantenendo l’identità della sostanza. Sotto i
nostri occhi, i corpi degli organismi rimangono immutati ed affidabili, ma le molecole che li
compongono sono in gran parte soggette a continui mutamenti di forma, adattandosi alle condizioni
del solvente o dell’organulo di cui fanno parte. Una sostanza organica, grazie soprattutto ai gruppi
funzionali, è quindi in grado di interagire mediante la sua parte periferica con l’ambiente che la
circonda, pur mantenendo la sua integrità, come noi muoviamo ed usiamo braccia e mani.
Questa filosofia chimica, basata sui legami deboli delle forze elettrostatiche, è alla base della
cromatografia. Permette alla sostanza di interagire selettivamente con un eluente o un substrato, sia
esso una endomembrana o la superficie del gel di silice, mantenendo la propria identità. Durante il
percorso lungo la colonna o la lastrina, i gruppi funzionali interagiscono con quelli della fase fissa e
di quella mobile; lo scheletro cambia la conformazione, ovvero la forma tridimensionale, per poi
ritornare alla fine esattamente uguale a quella che avevamo prima della cromatografia. Questo
fenomeno è possibile grazie alla eccezionale plasticità stereochimica delle sostanze naturali in grado
di modificare la loro conformazione in pochi microsecondi, senza subirne alcuna conseguenza
sull’identità strutturale.
Nella cromatografia, quindi, i legami sono soggetti a forze deboli di attrazione, ovvero
adsorbimento, della fase fissa e a quelli opposti di veicolazione, ovvero deadsorbimento, della fase
mobile: aggregazione contro solubilità. Deve vincere la solubilità, ma la difficoltà con cui prevale
crea la discriminazione cromatografia.
La cromatografia di adsorbimento si basa quindi su un concetto di interazioni chimico-fisiche tra
superfici.
Un concetto che oggi ci appare quasi scontato, ma che ha avuto una certa difficoltà ad affermarsi e
deve la sua realizzazione pratica alla facilità con cui è possibile realizzarlo e con cui è possibile
ottenere dei risultati sorprendenti.
Anche la cromatografia di ripartizione è relativamente facile da realizzare, ma concettualmente è
più complicata, in quanto si tratta di considerare (ed immaginare) sia l’interazione con il sistema
bifasico dei solventi, sia la molecola con il suo corredo variabile di molecole di solvente nell’ambito
dei cluster solvente/soluto. Dal punto di vista pratico comunque una lastrina in cellulosa funziona
come quella in gel di silice, magari è un poco più lenta, ma è molto adatta per i composti di media
ed alta polarità, proprio in virtù del suo contenuto acquoso.
Il metodo

La cromatografia deve essere articolata ed adattata a seconda del tipo di sostanze su cui la si vuole
applicare, ma essenzialmente si basa su una strumentazione più o meno complicata, ma funzionante
sulla base di tre elementi:

• una forza trainante unidirezionale, che può essere la forza di gravità, oppure un flusso di un
gas inerme oppure un fluido spinto da pompa
• una interazione chimico-fisica tra una base reattiva e una o più sostanze capaci di reagire
selettivamente ed individualmente con la base
• un sistema di raccolta dei costituenti separati e di rivelazione del risultato raggiunto nella
separazione.

Semplificando, il processo cromatografico si basa sull’equilibrio tra due forze contrastanti: quella
traente della fase mobile (l’eluente) e quella resistente della fase fissa (l’adsorbente). Le sostanze
danzano sui gruppi funzionali adsorbenti cercando il prima possibile di liberarsi del loro fastidioso
legame. Alcune sostanze ci riescono meglio grazie alla loro maggiore famigliarità chimica con
l’eluente, altre se ne tengono lontane, immobilizzandosi. A noi interessano quelle che reagiscono in
modo intermedio. Il processo cromatografico che appare così tipico del laboratorio e asettico, in
realtà ha una derivazione organica, che ricorda molto quello che avviene nella cellula nel trasporto e
permeazione delle sostanze nel citosol e negli organuli.
Una sostanza organica, grazie soprattutto ai gruppi funzionali, è quindi in grado di interagire
mediante la sua parte periferica con l’ambiente che la circonda. La sostanza a seconda della sua
funzionalizzazione sarà in grado di interagire selettivamente con il substrato, sia esso una
endomembrana o la superficie del gel di silice, mantenendo la propria identità. Durante il percorso
lungo la colonna o la lastrina, i gruppi funzionali interagiscono con quelli della fase fissa e di quella
mobile; lo scheletro molecolare della sostanza durante questo percorso cambia la conformazione,
ovvero la forma tridimensionale, per poi ritornare alla fine esattamente uguale a quella che avevamo
prima della cromatografia. Questo fenomeno è possibile grazie alla eccezionale plasticità
stereochimica delle sostanze naturali in grado di modificare la loro conformazione in pochi
microsecondi, senza subirne alcuna conseguenza.
Nella cromatografia, quindi, i legami sono soggetti a forze deboli di attrazione, ovvero
adsorbimento, della fase fissa e a quelli opposti di veicolazione, ovvero deadsorbimento, della fase
mobile: aggregazione contro solubilità. Deve vincere la solubilità, ma la difficoltà con cui prevale
crea la discriminazione cromatografia.

Operativamente:

Fase 1. Semina
Nella cromatografia su strato sottile, TLC, la sostanza disciolta nel solvente viene posta alla base
della lastrina ovvero sul punto di partenza grazie all’uso di un capillare.

Fase 2. Corsa
Dopo attenta evaporazione del solvente dell’estratto, la lastrina viene posta verticalmente nella
vasca dove si trova già l’eluente. L’eluente sale per capillarità e trascina selettivamente le sostanze,
generando la separazione.

Fare 3. Rivelazione
Poco dopo l’arrivo dell’eluente al limite superiore, la lastrina deve essere tolta, asciugata e rivelata.
La rivelazione dipende dal tipo di sostanze, se sono visibili all’UV e/o evidenziabili per reazione
con opportuno agente chimico. Più l’agente di rivelazione è selettivo, migliore l’evidenza e la
caratterizzazione del tipo di sostanza, se si usa invece un agente capace di carbonizzare qualsiasi
composto organico, si può rivelare tutto.

Fase 4. Interpretazione
La lastrina mostra di fatto una serie di macchie a diversa distanza dal punto di partenza (Rf) e
differente colorazione.

Pro e contro HPTLC-TLC

I peccati originali della TLC, che ne hanno minato la sovranità a favore di altre tecniche
cromatografiche come la HPLC, sono noti: inaffidabile, irriproducibile, inconfrontabile, in una
parola non del tutto scientificamente affidabile. L’ultima evoluzione della TLC, la HPTLC, frutto di
altri 50 anni di studi e miglioramenti, spazza via in un sol colpo tutte le imperfezioni. La TLC
abbandona la romantica artigianità da cui era nata ed entra nella modernità cibernetica. Tutto il
processo è automatizzato e controllato nei dettagli operativi e nelle condizioni, fino a diventare
totalmente riproducibile e confrontabile. E poi l’efficienza delle nuove lastrine con articolato molto
più fine che aumenta la superficie di adsorbanza e quindi la capacità di separazione.
Per cui tre i problemi principali da affrontare. Affidabilità, ripetibilità, interpretazione. Tre le
soluzioni: annullare ogni interferenza e influenza derivati dalle variabilità delle condizioni in cui
viene effettuata l’analisi, migliorare la qualità dei materiali utilizzati, utilizzare la strumentazione al
posto dell’uomo. Il risultato è l’evoluzione della TLC nella HPTLC, un passaggio determinante dal
punto di vista dell’affidabilità analitica.
In primo luogo l’HPTLC è praticamente una lastrina la cui silice ha una granulometria molto
minore, dai 11-12 μm delle vecchia TLC fino ai 5-7 μm della HPTLC, per uno spessore della
lastrina di circa 200 μm, il che aumenta enormemente la superficie di adsorbimento. Questo, con
altri minori ma necessari accorgimenti, permette di ottenere risultati decisamente migliori rispetto
alla TLC con un aumento della capacità di separazione di 10 volte. La prima impressione di fronte
ad una lastrina HPTLC per chi è abituato a quella con la TLC è di sorpresa per la migliore
precisione: le macchie risultano ben definite e circoscritte, si limita la sovrapposizione e le
antipatiche “scodature”, in realtà guardando bene e con maggiore attenzione le macchie sono in
gran parte le stesse soprattutto quelle principali, ma il risultato in ogni caso appare ben diverso.
Rimane il problema della riproducibilità, senza la quale nessun risultato può dirsi scientifico, e
questo grazie a Galileo. Tutti coloro che hanno eseguito delle TLC, sanno bene che variazioni nelle
condizioni di temperatura e umidità possono influire notevolmente sui risultati, come importante è
la deposizione, ovvero la semina delle soluzioni. La soluzione è la messa a punto di una macchina
che automatizza le seguenti operazioni: controllo delle condizioni, semina con speciali supporti che
possono operare sia depositando quantità controllate in modo omogeneo sia come macchie o come
tracce, visualizzazione e registrazione digitalizzata assicurate. In tal modo è stato possibile rendere
la cromatografia planare all’altezza del difficile compito di affrontare la sfida dell’interpretazione
del sistema complesso costituito dagli estratti vegetali o dal fitocomplesso.
Sebbene standardizzata, la strumentazione proposta dalla CAMAG rimane ancora il risultato di
recente sperimentazione. Richiede ancora la sedimentazione che permetterà di diminuire il costo
delle lastrine (ma si risparmia sul solvente) e delle macchine, che rimane tuttora alto, specialmente
se confrontato con quello assolutamente minimo della vecchia TLC. Va comunque considerato che
rispetto anche alle tecniche alternative, quali HPLC o Spettrometria di Massa, o spettroscopia
RMN, il costo è decisamente minore ed i risultati più adatti all’analisi dei prodotti naturali.
L’ ”impronta digitale” degli estratti

Durante l’identificazione botanica di un campione botanico, può essere generato il cosiddetto


fingerprint cromatografico. Il campione viene estratto e quindi cromatografato. Il risultato si
presenta con una specifica serie di picchi o zone derivate dai componenti noti e ignoti dell’estratto.
Il fingerprint di un materiale botanicamente identificato serve quale referenza primaria rispetto alla
quale un materiale da identificare deve essere confrontato. L’identificazione può essere effettuata
anche in riferimento a standard chimici nel caso in cui si ritiene che il campione ne contenga. Una
“buona” qualità di un campione nel test di identificazione significa che la specie vegetale desiderata
risulta presente.
Più elevate la risoluzione e la specificità del cromatogramma, più evidenti diventeranno le piccole
differenze tra i campioni. E’ altamente improbabile che due piante e conseguentemente due prodotti
appaiano esattamente gli stessi. Per conseguenza, deve essere scelto un metodo analitico che
permetta la certa identificazione ma tolleri delle minime variazioni. L’identificazione può essere
considerata una delle principali applicazioni della HPTLC. Una delle caratteristiche più interessanti
dei fingerprint HPTLC consiste nell’impressione visiva (vedi Fig.1). Si può determinare e
descrivere un ampio spettro di costituenti senza bisogno di conoscere la natura chimica di ciascuna
zona del cromatogramma.

Fig.2 Analisi di estratti di Cynara scolimus e Cassia senna ottenuti in due modi differenti e
confrontati con gli standard specifici. Fase mobile: THF/toluene/facido formico/acqua 16:8:2:1;
rivelazione con Anisaldeide.

L’HPTLC è una tecnica utile e versatile che consente di risolvere diverse problematiche relative ai
prodotti naturali. Le domande a cui il fitochimico si trova a dover rispondere nell’approccio al
fitopreparato sono poste qui di seguito con la relativa soluzione fornita dalla cromatografia planare
ad alta risoluzione.

Sono sicuro del materiale di partenza utilizzato?

La sola analisi morfologica botanica non è spesso sufficiente per la corretta identificazione del
materiale di partenza utilizzato. In molti casi i prodotti vengono preparati (volontariamente o meno)
con specie diverse da quelle dichiarate in etichetta.
L’HPTLC consente di ottenere un profilo cromatografico caratteristico per ciascuna specie; i dubbi
sull’appartenenza dei diversi campioni ad una specie o all’altra potranno così essere sanati mediante
semplice confronto visivo.
La qualità del materiale che sto usando o che ho ottenuto è superiore o inferiore agli standard
richiesti?

L’HPTLC permette in poco tempo di ottenere un confronto diretto e nelle stesse identiche
condizioni di più di 20 campioni nella stessa analisi e di comparare efficacemente questi risultati
con quelli richiesti dalla normativa.

Sono presenti adulteranti o altri composti non richiesti?

Questa tecnica è particolarmente adatta a rivelare eventuali “corpi estranei” soprattutto se di origine
non-naturale. E’ per questo via via sempre più usata nelle indagini di questo tipo seppure sia stata
perfezionata solo negli ultimi 2-3 anni.

Se effettuo delle variazioni al processo di estrazione o di preparazione del prodotto posso


verificare gli eventuali vantaggi?

Le analisi sono svolte in condizioni controllate e sono eseguite da macchine specializzate, per cui
un’analisi eseguita anni fa oppure dall’altra parte del mondo sarà perfettamente riproducibile e
confrontabile (vedi Fig.2).

Sarò in grado di verificare i risultati dell’analisi o devo affidarmi all’interpretazione di un


esperto?

Tra i vantaggi che rendono unica la HPTLC vi è la visibilità diretta del risultato dell’analisi che può
essere interpretata nei confronti diretti anche da un bambino.

Potrò avere i risultati in tempo breve di modo da prendere decisioni rapide?

L’HPTLC è di semplice e rapida esecuzione, i risultati vengono prodotti in immagine digitalizzata


facilmente inviabile via e-mail o con altri mezzi fino al telefono cellulare. E’ facile anche costruire
una propria banca dati personale da cui attingere per successive analisi e confronti.

Posso avere anche dei risultati sul contenuto effettivo di una certa sostanza di riferimento
normativo?

E’ anche facile acquisire dati quantitativi con diverse metodiche (VideoScan, Densitometria)
che sempre più frequentemente vengono accoppiate all'HPTLC.

Queste sono solo alcune delle domande che quotidianamente affollano le menti di chi lavora con gli
estratti vegetali ma l'univocità delle risposte riportate fornisce una chiara immagine dell'importanza
che questa metodica riveste nel settore fitoterapico.

Università “Sapienza” di Roma,


Dipartimento di Biologia Vegetale

Prof. Marcello Nicoletti


Dr.ssa Valentina Petitto
Dr.ssa Sara Iannuzzi

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