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Mezza Rivoluzione

o
La Rivoluzione Intregrale

di Francesco Scatigno

Appunti di riflessione e spunti per una rivoluzione sociale


concreta
Mezza Rivoluzione o La Rivoluzione Intregrale
Francesco Scatigno

Edito dal Collettivo libertario “Rivoltiamo La Terra” di Barletta


luglio 2016
INDICE

5 INTRODUZIONE

6 1. IL POTERE
Cos’è e dov’è
Come si muove il potere
Democrazia e logica del potere
Il "potere fantasma"
Dove vorremmo che vada il potere
Un passo indietro: la politica
Propositi

13 2. IL LAVORO E L'ECONOMIA
Cos’è il lavoro
Propositi

15 3. LA RIVOLUZIONE ECONOMICA
Presupposti
La rivoluzione capitalista
Il collettivismo
La rivoluzione economica
Propositi
Dallo stato sociale alla socialità collettiva

21 4. ESPERIENZE E MODELLI RIVOLUZIONARI


La Rivoluzione Integrale
Il fenomeno vegano
Cucina Sovversiva e modello Integrano

25 5.“PROGETTO CAFIERO”
Presentazione
Moneta complementare e circuito
Piattaforma web
Ruolo della moneta complementare nella
piattaforma web
Il ruolo delle fondazioni nel “Progetto Cafiero”

29 6. CONCLUSIONI
31 7. NOTE
36 8.APPENDICE
INTRODUZIONE

“Mezza Rivoluzione o La Rivoluzione Integrale” a partire da un’analisi su cos’è il


potere e su cos’è il lavoro, vuole far chiarezza su quella che è la situazione attuale: sul
ruolo dei poteri politici ed economici in questa fase di transizione in cui si può
osservare un trasferimento di quegli stessi poteri verso piani più alti di controllo.

Tale pubblicazione propone soluzioni per costruire un percorso a partire dal lavoro
cooperativo, dall’auto­occupazione e dalle piccole aziende a gestione familiare per
riappropriarsi del potere sottraendolo alla centralizzazione. Ovunque dev’essere
indispensabile far tesoro dell’esperienza curda, ma anche di quella spagnola, che dal
2013 ad oggi attraverso la “Rivoluzione Integrale” è stata capace di delineare un
percorso chiaro e di coinvolgere migliaia di persone. Non nella piazza che manifesta,
o non solo, ma direttamente nella politica autogestionaria e in processi economici
comunitari.

Cos’è la “Mezza Rivoluzione” citata nel titolo della seguente pubblicazione?

E’ una “Rivoluzione a metà” perché certamente non ha la pretesa di realizzare


l’utopia socialista; ma punta su quel percorso autogestionario che si avvia sia nella
costruzione di un percorso economico con tutte le realtà che decidono di
allontanarsi dal sistema capitalista, sia nella costruzione di un percorso politico
locale/municipale di autogoverno con tutte le individualità interessate.

Tutto ciò è realmente rivoluzionario dal momento in cui, con le giuste pratiche,
evolvendo diventa capace di allargarsi e delegittimare l’autorità costituita.“Integrale”
lo è, invece, perché non cede a compromessi per concretizzarsi: Non rinuncia mai a
se stessa. Mezza Rivoluzione fa questo ed altro. A partire da una particolare analisi
del “fenomeno vegano” ad esempio, tenta di definire un modello alimentare ed in
generale di consumo, che per sua natura non può e non dev’essere strumentalizzato
dal capitalismo per il suo business, inoltre non si limita a diatribe etiche tra chi è
favorevole o no al consumo di carne. Ciò, condurrebbe la riflessione verso un
“modello­altro” che in questa trattazione viene indicato come “modello Integrano”; un
nuovo strumento ipotizzato, utile a coinvolgere piccole attività economiche già
esistenti in una filiera innanzitutto libera dal lavoro salariato e
dall’approvvigionamento dalla grande distribuzione.

Per concludere, quello che questo testo vuole evidenziare è che percorsi collettivi
autogestionari sono realmente possibili, ma bisogna dotarsi di mezzi migliori per
consolidare ed incanalare tutte le energie per contrastare concretamente il sistema,
che ci imbriglia e che tenta di sventare qualsiasi tentativo di emancipazione.

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IL POTERE
Cos’è e dov’è

Il potere è una funzione essenziale della società e dello stato. E’ rappresentato oggi
dalla struttura amministrativa, dai governi comunali, provinciali, regionali e nazionali;
dai diversi livelli della macchina giudiziaria e penitenziale. Il potere è la capacità
decisionale, legislativa di uno stato affiancata poi dalla capacità di far rispettare le
leggi, di reprimere il dissenso e le infrazioni che lo stesso stato organizza, attraverso
organi di polizia e strutture giudiziarie. Il potere è la capacità dell’ordine costituito di
rinnovarsi attraverso nuove leggi, di imporsi e di evitare derive pericolose alla
sopravvivenza del sistema cui fa riferimento. Il potere principale di uno stato è nel
suo governo centrale che promulga leggi. Ci sono, poi, i governi regionali e
provinciali che legiferano, senza entrare in contrasto con il governo nazionale, con
una libertà legislativa maggiore in alcuni settori come quello della sanità. Il potere
nella società odierna governa dall’alto verso il basso, dal centro verso le periferie. Le
linee di condotta vengono decise dal governo centrale e gli organi regionali,
provinciali e comunali possono muoversi entro quegli steccati ed a quelle linee
devono attenersi. Non è cosa di poco conto perché nella sede del governo centrale
vengono prese decisioni su questioni che riguardano da vicino i territori e coloro che
ci vivono, senza che questi possano effettivamente consigliare, correggere, influire
sulla loro vita, la loro salute e l’ambiente in cui vivono. Per fare un esempio, il governo
nazionale può decidere di dover costruire un traforo attraverso una montagna senza
conoscere bene le problematiche di chi vive nei pressi di quella montagna. Le
comunità locali non possono rifiutare quella decisione ed opporsi in qualche valida
maniera. I fautori del legalismo ed i difensori dello stato potrebbero affermare che i
cittadini possono fare dei ricorsi a vari tribunali, indire referendum, organizzare
manifestazioni di protesta. Ma sappiamo con certezza, e la storia ce lo dimostra, che i
poteri cooperano tra loro per la realizzazione dei disegni, dei progetti di riforma dello
stato ed è molto difficile che lo stato fermi se stesso. I referendum vengono ignorati1,
le manifestazioni delegittimate ed addirittura criminalizzate. Il problema è alla radice:
è nell’organizzazione del potere.

Come si muove il potere

Possiamo immaginare il potere come un’entità animata e vitale che evolve, cresce,
prende forma quasi come un essere animato nel corso della sua vita. Lo vediamo in
passato tutto accentrato in un’unica figura nelle monarchie assolute più lontane e nei
regimi totalitari più recenti. Lo osserviamo poi scomporsi in un potere legislativo,
esecutivo e giudiziario, affidato a figure diverse, nello stato di diritto delle moderne
democrazie. Resta comunque centralizzato nelle strutture della capitale e continua ad

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essere emanato dall’alto verso il basso, da pochi eletti a tutto il popolo e mai una
decisione di un organo periferico può contraddire la linea del governo centrale.
Ma la vita del potere non si ferma qui. Con la nascita della Comunità Europea e con
la sottoscrizione di diversi trattati europei, i governi centrali hanno deciso di cedere
gradualmente pezzi del proprio potere a strutture governative di un livello più alto,
europeo, continentale, sovranazionale. E’ come se i poteri nazionali di tanti stati
europei avessero deciso di unirsi per costituire un unico potere più grande e più
centrale rispetto ad una porzione di territorio più grande degli stati da cui proviene: il
continente.
Ciò è quello che sta già avvenendo; come per un oggetto in movimento potremmo
dedurre la traiettoria e il percorso ancora da fare, così per il potere possiamo provare a
dedurne le evoluzioni osservandone il movimento.
Il potere, ora non solo tende ad essere accentrato verso un governo o parlamento
europeo ma tende anche a sfarsi, a mettere in pericolo se stesso entrando in una
dimensione in cui lo stesso potere centrale europeo non sarà più padrone di se stesso.
L’Unione Europea sta firmando dei trattati commerciali per il libero scambio con i
paesi nordamericani che trasferiranno sempre più poteri alle multinazionali attraverso
tribunali internazionali privati che saranno giudici delle dispute tra corporation e stati
nazionali. Queste dispute avranno conseguenze prevedibili che porteranno gli stati ad
essere condannati a pagare multe milionarie ed essere costretti a ritirarsi da ogni
settore compreso scuole e sanità, lasciando questi settori completamente nelle mani
dei privati.Tutti i settori dell’economia saranno completamente in balia dei privati e lo
stato non potrà intervenire in nessuna questione per non contravvenire alla regola del
“libero mercato”, principio fondamentale dei trattati internazionali che stanno per
essere pericolosamente adottati nell’epoca attuale; a rendere l’idea di tutto ciò
basterebbe citarne uno ed approfondire la gravosa minaccia che si nasconde dietro di
esso: il “TTIP” (Transatlantic Trade and Investment Partnership).
Oltre al dato di fatto che gli stati dovranno e potranno restare fuori da tutte le
questioni economiche, delegando ai privati ciò che finora veniva considerato un diritto
fondamentale dei cittadini; adesso con le dispute perse contro le corporation, saranno
costretti a vendere pian piano tutto il patrimonio pubblico (musei, opere d’arte,
strutture, parchi) per ripagare i debiti accumulati.
Gli stati verranno così smembrati, svuotati e ci resterà un potere centrale europeo
completamente servo delle multinazionali.
Possiamo tradurre questo movimento come uno spostamento del potere dal suo
baricentro verso un punto sempre più alto di una piramide immaginaria. Il potere così
si allontana sempre più visibilmente dalla base, dalla popolazione, dai territori; non che
prima vi fosse stato poi così vicino, ma sicuramente possiamo affermare che in questo
momento storico stiamo subendo una deriva sempre più autoritaria.

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Democrazia e logica del potere

“Democrazia” (dal greco (démos):“popolo” e (cràtos):“potere”) etimologicamente


significa “governo del popolo”.
Il termine fu coniato nell’antica Grecia per indicare una particolare forma di
governo in cui l’organo decisionale era un’assemblea in cui tutti i cittadini avevano
diritto di prendere parola. Molto tempo dopo le monarchie hanno cominciato
riformarsi stabilendo statuti, costituzioni; alcune trasformandosi in repubbliche e,
cedendo il potere legislativo ad un governo eletto dal popolo, sono diventate le attuali
democrazie rappresentative.
La differenza sostanziale tra la democrazia greca e le democrazie di oggi è la
porzione di territorio che fa da unità di misura per queste democrazie. Quella greca era
la forma di un governo adottata da una città (polis), comunemente detta città­stato; le
democrazie di oggi sono stati molto ampi, eredi di vecchi regni con una attitudine
espansionistica.
Solo tra il dodicesimo e il tredicesimo secolo apparve qualcosa di simile alle antiche
democrazie greche con il nascere nell’Italia settentrionale di comuni che rifiutavano la
soggezione feudale degli imperatori. Quanto può influire la grandezza di uno stato
nella realizzazione di una democrazia compiuta? E’ fondamentale. Nel governo di una
città, seppure con limitazioni alla partecipazione del popolo al potere, l’organo che ha
il potere legislativo e decisionale, se non influenzato da apparati superiori e più grandi,
deve sottostare in qualche modo al consenso della popolazione. In caso di decisioni
molto lontane dell’interesse popolare è facile individuare il responsabile, che sia un
signore, un principe, un console od un governatore.Ad esempio, numerose sono state
nella storia le rivolte per l’aumento del prezzo del pane, scagliandosi sempre contro un
potere locale responsabile di decisioni impopolari. Il potere, nel governo di una città, è
comunque molto vicino al popolo che in qualsiasi momento può ribellarsi ed
ostacolare decisioni che non hanno interesse comune.
Quando il potere viene trasferito su livelli più alti, il controllo popolare sugli organi
decisionali è molto più difficile. E lo diventa man mano che il potere si trasferisce dai
comuni alle province, dalle province alle regioni, dalle regioni allo stato.
Il controllo della popolazione sugli organi decisionali è meno efficace man mano
che il potere viene trasferito in governi centrali di stati caratterizzati da un territorio
più esteso.

Il "potere fantasma"

Attualmente siamo in una situazione indefinibile, di transizione dei poteri statali ad


organi europei.Ed in questa situazione avvengono cose particolari in cui non si capisce
bene da dove e da chi arrivino, decisioni così fondamentali da influire sull’economia di
interi territori. A questo proposito, ad esempio, si inserisce il caso, dell’ordine di

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espianto di numerosi alberi di ulivo sani come iniziativa per limitare il diffondersi della
“Xylella in Puglia”. L’ordine è stato dato dal comandante della Guardia Forestale; il
Presidente della Regione Puglia dichiarava che non c’è alternativa all’espianto perché
altrimenti l’Europa avrebbe boicottato i prodotti pugliesi così come aveva già fatto la
Francia per un certo periodo. Da dove arriva realmente l’ordine di espianto,
considerato che il fenomeno xylella, se realmente esistente è limitato a pochi alberi e
che l’espianto non è una soluzione concreta al problema? Il fatto che la zona
interessata dalla xylella è la stessa in cui dovrebbe realizzarsi il gasdotto “TAP” e che la
presenza di ulivi centenari potrebbe rappresentare un ostacolo ai lavori per la
realizzazione del gasdotto, potrebbe suggerire l’ipotesi che interessi geopolitici
europei, legati alla NATO, di boicottare il gas russo per ovvie ragioni di rivalità
imperialistica tra Russia ed USA, farebbero pressione sui vari livelli di potere per
accelerare l’espianto degli ulivi e la realizzazione del gasdotto.
La domanda resta senza risposta. Potrebbe essere il governo americano, con
l’aggravarsi della situazione ucraina prima e siriana poi, che ha visto l’intervento
militare russo, in accordo con il governo europeo ed italiano. Ma non lo sappiamo con
certezza.
Un altro esempio sono le concessioni, conferite dai governi italiani che si sono
succeduti, per l’esplorazione e le trivellazioni per la ricerca di gas e petrolio sia a terra
che nei nostri mari. Qual è il vero interesse nei confronti dell’estrazione di gas e
petrolio in una regione, come quella pugliese che di turismo vive e di energia ne
produce più di quella che consuma? E’ una iniziativa che parte dal governo? Perché i
governi non sanno respingere le avances di potentati economici? Il governo centrale è
realmente sovrano oppure risponde ad ordini o direttive di multinazionali? Le leggi che
vengono varate in parlamento a suon di fiducia sono realmente scritte da ministri e
leader politici oppure vengono elaborate da avvocati e giuristi per conto di centri di
potere come Confindustria e poi sottoposti all’attenzione dei vari governanti
fantoccio?

Dove vorremmo che vada il potere?

Intorno alla metà del XIX secolo cominciarono a diffondersi teorie socialiste
libertarie che immaginarono una società che rifiutava ogni idea di organizzazione
verticale e verticistica sia del mondo del lavoro che dell’organizzazione politica.
Nacquero così varie correnti ed ideali anarchici che teorizzarono l’autonomia dei
territori, governati da assemblee popolari e federate tra loro in federazioni di comuni
liberi.
Approssimativamente le teorie anarchiche sono andate progressivamente
evolvendosi con motti e saggi che prevedevano l’abbattimento dell’autorità sia essa
rappresentata dallo stato, dal capitale, della religione.
Sul piano storico, si sono avute delle insurrezioni tese a propagandare l’ideale
anarchico di libertà incondizionata dell’umanità da ogni forma di autorità capace di

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soffocare gli individui, attraverso leggi restrittive e tasse di ogni tipo, persino sulla
macina del grano nei molini statali2.
Camillo Berneri prima, con il concetto di “Comunalismo” e “Federalismo
libertario” e Murray Bookchin dopo, con l’elaborazione del concetto di
“Municipalismo libertario”3 (ovvero di comuni liberi autogovernati dai cittadini e
federati con altri comuni liberi), hanno espresso forse il modello più alto di
organizzazione sociale anarchica che corrisponde ad una democrazia pienamente
realizzata o ai concetti moderni di democrazia diretta, l’unica possibile, quella
municipale.
ll potere non può essere abbattuto, né può essere distrutto o abolito; è un fenomeno
che viene fuori dalle relazioni tra gli uomini. Ma se il potere, nella sua accezione
positiva, è la potenzialità di un individuo di fare, operare, lavorare, di comunicare ed
infine di influire e partecipare alla vita pubblica e alla gestione ed alla organizzazione di
tutto ciò che riguarda la collettività; il potere è anche dentro il concetto di anarchia.
Anarchia è “assenza di governo”, di autorità, di concentrazione di potere, ed è
contemporaneamente la realizzazione di una certa uguaglianza nella partecipazione al
potere.Anarchia è la realizzazione del massimo grado di uguaglianza e libertà. Il potere
deve, quindi, passare da una organizzazione negativa, verticale o piramidale ad una
positiva di “organizzazione”, attraverso la quale nessuno viene escluso dai processi
decisionali.
L’unica forma possibile di organizzazione orizzontale del potere è quella municipale
attraverso il metodo del consenso nelle assemblee pubbliche. Queste potrebbero
anche essere più di una, in città più grandi per territorio e popolazione. Le città, a loro
volta, si federalizzano tra loro prevedendo momenti o forme di discussione tra diverse
città per questioni che hanno un impatto su un territorio più esteso. Lo stesso Gandhi
stava cercando, prima di essere assassinato, di organizzare l’India ormai indipendente
con questo tipo di organizzazione del potere. L’unità politica principale del suo
progetto erano i villaggi governati da assemblee pubbliche, con assemblee provinciali o
regionali a cui avrebbero partecipato delegati dai villaggi. Queste assemblee regionali
non dovevano avere il potere di imporre decisioni ai villaggi. Il potere positivamente
inteso, nel progetto di Gandhi, doveva emanare dal basso verso l’alto ed avendo come
centri principali, sovrani potremmo dire, del potere i villaggi, l’unità base4.
Nel mondo contemporaneo, i principali portatori di questa idea innovatrice ed
avanzata di società democratica e libertaria sono le organizzazioni curde situate tra
Turchia, Siria, Iraq ed Iran.
Il movimento di liberazione delle popolazioni curde inizialmente situato su
posizioni staliniste, su impulso del loro leader Abdullah Öcalan, ha cominciato ad
elaborare teorie e pratiche libertarie fino ad arrivare all’idea di confederalismo
democratico bene decodificato nel testo omonimo di Öcalan.
In questo “manifesto” si delinea il percorso di emancipazione del popolo curdo dai
governi e dagli stati che lo opprimono, e si delinea altresì l’autonomia di comunità
locali, insieme ad un forte sentimento femminista, con delle contaminazioni di Ecologia
Sociale (in cui si prefigura una società completamente in armonia con l’ambiente e la

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natura, contrariamente al concetto di economia sostenibile che considera lo
sfruttamento di risorse ambientali accettabile se non portato all’estremo). Con il
“confederalismo democratico”, il popolo curdo rinuncia alla rivendicazione di un
proprio stato, nei territori in cui la popolazione curda è maggioranza, preferendo una
confederazione di comunità locali, che vada oltre i confini degli stati entro cui si
trovano, sul modello del municipalismo libertario. Il confederalismo democratico si
oppone al modello capitalista di sfruttamento delle risorse di oppressione di individui
e popoli individuando una via d’uscita concreta e libertaria alla portata del popolo
curdo. Non solo, si offre anche come modello per la risoluzione del conflitto israelo­
palestinese e per gli altri stati arabi che soffrono di una instabilità politica ed
istituzionale a causa della varietà di etnie e credi religiosi coinvolti entro uno stesso
confine statale.

Un passo indietro: la politica

La forma di potere più nobile è certamente la politica intesa nel suo senso
originario. Ovvero quella politica che era innanzitutto confronto e discussione sulla
gestione della città e che si praticava non solo nelle assemblee pubbliche ma in ogni
momento come un esercizio del e al potere. Grazie a questo esercizio quotidiano del
potere, non solo si formano carattere ed individualità, ma si forma anche un corpo
politico, una cittadinanza in grado di gestire la propria città. Infatti, in diversi periodi
storici la politica è stata centrale nella forma di governo della città prima con la
democrazia delle polis greche, poi con l’amministrazione dei comuni e delle signorie.
Alla base di questi governi vi era il confronto politico dei cittadini, seppure vi fossero
Consigli o governatori, questi dovevano tenere conto di ciò che produceva la
discussione politica nella città.
Con la nascita dello stato­nazione il concetto di politica è stato distorto ed è
diventato una sorta di legittimazione di interessi altri. L’esercizio politico si è ridotto al
diritto di voto di rappresentanti che hanno pieno potere di esprimere linee politiche
senza dover tenere conto dei cittadini che li hanno votati e che hanno già espresso il
massimo del loro potere attraverso il voto; riducendo il cittadino a votante.
L’esercizio della politica, in uno stato moderno di diverse decine di milioni di
abitanti, è limitato a poche centinaia di persone elette dal popolo. La politica in questo
modo è snaturata e perde il suo senso.Togliendo al cittadino il potere dell’esercizio
politico, si sottrae anche la convinzione della capacità di poter gestire i propri interessi.
La politica diventa questione da politicanti di mestiere, come se servissero requisiti per
fare politica, come se la gestione di questioni di interesse comune non riguardasse i
cittadini.
Anche il concetto di democrazia diretta, inteso, come la possibilità dei cittadini di
uno stato di poter votare dei provvedimenti attraverso referendum, senza ricorrere alla
mediazione di rappresentanti eletti, vede la politica ridotta alla possibilità di esprimere
un voto, una preferenza e, quindi, privata di un potere fondamentale: quello di

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esprimere una opinione e di confrontarla con le opinioni altrui ed attraverso un
confronto politico arrivare a condividere una soluzione.
La logica porta all’unica forma naturale di governo, quello della città. Nel governo
della città, la politica prende forma nel dibattito e nelle assemblee, mentre il concetto
di democrazia trova la sua espressione più alta attraverso il governo del popolo
esercitato attraverso la politica.

Propositi

Bisogna prendere atto che il confederalismo democratico rappresenta soprattutto


un’opportunità di riunificazione di tutte quelle forze anticapitaliste ed antimperialiste
alla luce del fallimento del socialismo reale di matrice marxista adottato e sperimentato
da paesi socialisti e comunisti nell’incapacità di organizzarsi in una forma realmente
emancipatoria per le popolazioni a causa della conseguente trasformazione in regimi
totalitari, militari, costretti anche a cedere al capitalismo per non chiudersi in un
patetico e umiliante isolamento internazionale. Inoltre, è necessario considerare che
coscienze individuali con una cultura marxista e comunista extraparlamentare, stanno
rientrando entro parametri libertari ed autogestionari, anche grazie all’esperienza
curda.
Per avviare un percorso realmente rivoluzionario e di trasformazione sociale è
necessario che localmente, a partire ad esempio sul piano concreto, dal manifesto
curdo di confederalismo democratico, si costituiscano assemblee autogestionarie
affinchè queste possano relazionarsi tra loro in confederazioni regionali
autogestionarie.
E’ necessario, successivamente, un lavoro di sensibilizzazione su queste tematiche,
attraverso momenti pubblici di approfondimento, confronto e discussione sui temi del
potere in un’ottica costruttiva, del federalismo, del confederalismo democratico, del
municipalismo libertario e dell’autogestione sia per renderli alla portata della gente
comune e riuscire a promuovere l’interiorizzazione di questi valori nella coscienza
popolare; sia per individuare percorsi di concretizzazione e trasformazione sociale del
potere da prerogativa di pochi a diritto di tutti, in una società egualitaria e libertaria.
Le assemblee autogestionarie devono porsi l’obiettivo di includere quanti più
individui, di allargarsi alla gente comune che non milita in collettivi o soggetti politici.
Queste assemblee devono realizzare l’antico ideale di politica portando la gente a
incontrarsi e confrontarsi sulle problematiche della città e non solo.
Devono essere inclusive e devono diventare il luogo e il momento politico per
eccellenza. Devono creare la consapevolezza che la politica non è affare di altri ma
riguarda tutti e tutti posseggono le capacità per affrontare una discussione e cercare
collettivamente delle soluzioni a problematiche di interesse comune. Le assemblee
pubbliche devono sottrarre man mano spazio ed aria alla politica istituzionale, alla
politica rappresentativa dello stato e devono diventare l’organo decisionale della città.
Le istituzioni cittadine soffocate dalla capacità popolare di autodeterminarsi e

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autogovernarsi, devono limitarsi a ratificare le decisioni prese collettivamente nelle
assemblee pubbliche e assumere una funzione puramente burocratica.

IL LAVORO E L'ECONOMIA

Cos’è il lavoro

Il lavoro è l’impiego di tempo, forza ed energia nella produzione di un bene per la


società. Si esercita attraverso un mestiere, e si fa per se stessi (autonomo) o per qualcun
altro (subordinato). Può essere fisico o intellettuale, volto alla produzione di un bene
materiale, un bene di consumo, o di un servizio (terzo settore).
Il prodotto, il risultato del lavoro viene venduto a chi ne fa richiesta generando
ricchezza monetaria sia per chi lo ha prodotto che per chi l’ha venduto, generando
benessere per chi lo ha consumato o per chi ha usufruito del bene o del servizio, che
esistono e possono essere elargiti, grazie al lavoro di chi l’ha prodotto.Affinché tutti
possano acquisire beni, la società ha inventato la moneta come forma di scambio e
come sostituzione al baratto. Un individuo lavora per acquisire moneta e poi attraverso
la moneta acquisisce altri beni di cui ha bisogno. La moneta è una forma di potere
perché chi la possiede, acquisisce la potenzialità di comprare beni, proprietà ecc.
Il lavoro, quindi, genera benessere nella società permettendo agli individui di
soddisfare i propri bisogni primari (cibarsi, vestirsi, abitare) e quelli secondari che
cadono per lo più nell’ambito dello svago e del divertimento, del tempo libero e,
quindi, anche della cultura (libri, concerti, teatro ecc.).
Ma il benessere viene a crearsi solo e fino a quando gli individui hanno accesso a
beni e servizi, ovvero fino a quando hanno disponibilità economica e quindi accesso al
consumo. Non solo accesso ai bisogni fondamentali ma anche a quelli secondari. Una
società sana è una società in cui gli individui hanno la possibilità coltivare le proprie
passioni, i propri hobby attraverso l’accesso a beni di consumo secondari il cui
espletamento diventa fondamentale in una società che vuole dirsi progredita e civile.
Il benessere di una società dipende, quindi, dalla disponibilità economica, di
moneta, degli individui che ne fanno parte, dal loro potere economico, dalla loro
potenzialità di acquisire beni e di usufruire di servizi.
Così come il potere politico, anche il potere economico può essere concentrato,
centralizzato, limitando l’accesso della popolazione alla moneta e di conseguenza a
beni e servizi, producendo un forte impoverimento, crisi, instabilità e precarietà.Anche
il potere economico, così come quello politico, tende a muoversi verso il centro, a
sottrarsi alle popolazioni, non per volontà sua stessa e della moneta ma per un disegno
politico che prevede e desidera questo spostamento del potere economico. La ragione
principale di questo spostamento ed il mezzo attraverso cui questa volontà politica di
spostare il potere economico e di sottrarre disponibilità economica alle masse, è una
sola.

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La ragione è nell’organizzazione del lavoro, perché è il lavoro a fornire un reddito, a
dare il potere economico. Quando, però, il lavoro è subordinato, ovvero quando un
individuo lavora per conto di un imprenditore che trattiene per sé la maggior parte
della ricchezza, generata dal lavoro dell’operaio, in quel momento il potere economico
viene concentrato da una parte, nelle mani di pochi, e negato, d’altra parte, alla maggior
parte degli individui. Questo è il meccanismo che produce una mancata
democratizzazione del potere economico dove per democratizzazione si intende
l’accesso al potere, la possibilità per tutti di avere le stesse potenzialità di acquisto e di
consumo. E la maniera per interrompere questo processo di impoverimento della
popolazione è l’eliminazione del lavoro subordinato costruendo realtà di
cooperazione, ovvero rapporti di lavoro orizzontali: senza padrone, senza quella figura
che trattiene risorse, che filtra ricchezza a discapito di chi lavora. Aziende in cui gli
operai che lavorano sono loro stessi padroni, sono una realtà già esistente ma poco
diffusa. Una trasformazione in questo senso di tutti i rapporti di lavoro porterebbe ad
una maggiore disponibilità di risorse per tutti coloro che lavorano: eliminata la figura
che trattiene più risorse economiche, la divisione dei guadagni produrrà stipendi più
alti per tutti.

Propositi

Così come da un punto di vista politico i movimenti popolari dovrebbero


compattarsi, seguendo l’esempio del confederalismo curdo attuale, in modo da
risultare più efficienti e da proporre un’alternativa democratica reale all’attuale
sistema di governo; allo stesso modo sul fronte economico vanno proposte iniziative
per avviare concretamente una vera trasformazione sociale.
Un primo passo, quello culturale che serve a forgiare coscienze critiche potrebbe
essere, per esempio, in linea pragmatica, l’organizzazione, anche due volte l’anno di
una “Giornata per l’Abolizione del lavoro salariato” che promuova dibattiti e
conferenze su questo tema in modo da rendere la problematica del lavoro salariato
sempre più di dominio diffuso, sempre più appartenente ad una consapevolezza
diffusa. Il bisogno di istituire, dal basso, questa giornata non dovrebbe ovviamente
avere il senso di chiedere qualcosa al governo; al contrario si pone l’obiettivo di
diffondere dalla parte degli sfruttati, quel concetto che costringe gli uomini a lavorare
per altri, arricchendo questi ultimi, con sempre maggiori difficoltà per i lavoratori
nella realizzazione dei bisogni primari, quelli fondamentali, a cui nessuno non
dovrebbe mai avere accesso. Questo non basta, ma è un passo propedeutico alla
rivoluzione che il movimento deve fare da subito per riuscire ad attuare una
rivoluzione economica vera a propria.

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LA RIVOLUZIONE ECONOMICA

Presupposti

Quando si parla di rivoluzione, si intende un processo di trasformazione che genera


un cambiamento profondo nella società. Il processo di cambiamento può essere veloce
e violento oppure lento e pacifico. In questo ultimo caso parleremo di evoluzione
sociale5.
La storia è ricca di esempi di rivoluzioni armate su cui poter riflettere dell’effettivo
valore ed utilità delle stesse. Gran parte di esse hanno fallito da un punto di vista di
redistribuzione del potere, sostituendo ad un potere molto centrale e dispotico, un
altro potere centrale e dispotico, seppure socialista.
Carlo Cafiero alla fine del diciannovesimo secolo aveva, in modo come sempre
lungimirante, ben inteso che la rivoluzione socialista non poteva avere né come fine, né
come mezzo, la realizzazione di un governo autoritario.
Come dichiara nelle sue pagine, in special modo in “Anarchia e Comunismo”,
l’uguaglianza propugnata dalle teorie comuniste o socialiste, senza la libertà, vale poco.
Dall’altra parte ci sono i fautori della rivoluzione culturale, quelli per cui non sarà
una rivoluzione violenta a cambiare lo stato delle cose, ma una presa di coscienza
collettiva, quelli per cui il cambiamento arriva, nel momento in cui ogni singolo
individuo ha preso piena consapevolezza delle problematiche della società e capacità
di analisi su come, invece, dovrebbe essere idealmente. Su questa base, ci sono teorie
che stabiliscono in modo quasi evoluzionista che il cambiamento sociale si ha quando
la popolazione diviene consapevole, senza bisogno di spargere sangue; quando è la
gran parte degli individui a prendere coscienza, allora questi individui saranno anche
dentro le istituzioni e nei luoghi di potere. La rivoluzione culturale dovrebbe attuarsi
attraverso manifestazioni pacifiche, iniziative di sensibilizzazione capaci di far
cambiare opinione alla gente e costruire una nuova massa critica che entrando nelle
istituzioni porterà al cambiamento dei paradigmi sociali.
L’errore di queste teorie, è il non tener conto della fisiologia del potere , della
capacità che esso ha di rinnovarsi, proteggersi, conservarsi.
La stessa teoria della rivoluzione culturale ha un margine di azione molto limitato,
per la presenza di mezzi di comunicazione di massa e di forme di linguaggio televisivo
e giornalistico che rappresentano un evidente invito alla discriminazione, alla
condanna di ogni forma di protesta nei confronti del potere costituito attraverso abili e
distorte rappresentazioni della realtà. Su questo tema, superlativo è il lavoro di Noam
Chomsky6.
Dunque, non solo la rivoluzione culturale ha dei limiti, ed oggi su alcuni fronti di
questa rivoluzione culturale possiamo, senza dubbio, dire di aver fatto passi indietro,
ma se consideriamo che questa teoria prevede che il cambiamento debba arrivare da
persone consapevoli all’interno delle istituzioni, possiamo dedurre che questo

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cambiamento, questa evoluzione non ci sarà mai perché abbiamo sottovalutato la
capacità conservativa del potere.
Mai nessun individuo che conquista il potere rinuncerà ad esso. Mai il cambiamento
potrà arrivare dall’alto, dalle istituzioni.
In questo periodo stiamo osservando una regressione del potere in circoli sempre
più ristretti, dentro direttive oligarchiche. Non possiamo neanche trascurare il peso
che hanno i potentati economici, le lobby, le multinazionali nell’influenzare il potere
politico, e quindi il governo di un paese, e gli organi di comunicazione, agendo
direttamente sul pensiero delle masse, sulle loro abitudini, consumi , aspettative, umori.
Il potere economico, già concentrato e dispotico, controlla sia il potere politico che
quel potere rappresentato dagli organi di comunicazione, e tiene a freno qualsiasi
movimento di consapevolezza diffusa, creando un’aurea positiva attorno ad esempi di
conservazione del potere come santi, forze dell’ordine, imprenditori, denigrando
qualsiasi forma di opposizione al potere, seppure ideale, dialogica. Non solo vengono
criminalizzate le lotte sociali, ma non viene neanche lasciato loro lo spazio per potersi
esprimere, per potersi spiegare e far comprendere le proprie ragioni a chi vive lontano
e quelle lotte non può conoscerle direttamente nelle strade. La rivoluzione culturale ha
quindi un potere limitato in quanto il cambiamento culturale è manovrato, rallentato
da altri poteri, principalmente da quello economico che controlla ed influenza gli altri,
ed è fonte di ogni iniziativa, e che rappresenta anche per le masse una speranza di
benessere per il futuro perché comunemente si crede che dove c’è il potere c’è anche
la possibilità di lavorare e quindi per gli individui di crearsi un accesso al potere
economico. Ma abbiamo già visto che è proprio la concentrazione del potere
economico ad essere la causa di povertà e precarietà, attraverso lo sfruttamento del
lavoro.

La rivoluzione capitalista

L’unica rivoluzione che possiamo considerare attuata con successo nell’ultimo secolo,
a livello globale, è quella capitalista. Il capitalismo sta attuando i suoi programmi
superando tutti gli ostacoli, tutte le proteste e mobilitazioni che vorrebbero fermarlo.
La rivoluzione capitalista è lenta e graduale in modo che possa essere metabolizzata
senza grandi sconvolgimenti nella vita delle persone. La rivoluzione capitalista è
audace perché riesce a realizzare, in pochi decenni, cambiamenti che non saremmo
in grado di prevedere o immaginare. La rivoluzione capitalista è astuta perché è
capace di farci accettare, con il passare degli anni, cose che se ci fossero proposte
immediatamente, rifiuteremmo o combatteremmo.
Potevamo prevedere qualche decennio fa quello che sarebbe diventato il precariato
nel mondo del lavoro? E’ stato costruito gradualmente con leggi che credevamo
insignificanti, spesso proposte dalla sinistra istituzionale.
Potevamo prevedere cosa sarebbe diventata Taranto oggi? Assolutamente no, o lo
abbiamo sottovalutato affascinati come eravamo dalla soddisfazione per il posto di

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lavoro, dal benessere che l’Ilva portava in città.
Potevamo prevedere il ricatto della Fiat di Marchionne ai lavoratori e il rischio che la
produzione potesse essere delocalizzata in altri paesi dopo tanti anni di finanziamenti
pubblici dei vari governi alla Fiat? Potevamo prevedere che quella Tv pubblica che
inizialmente portava alfabetizzazione nelle case degli italiani si sarebbe trasformata in
uno strumento di controllo e di stagnamento delle consapevolezze individuali? E
quando Prodi e Ciampi ci portarono in Europa (entrambi furono premiati ricevendo
successivamente cariche più prestigiose) potevamo immaginare che l’Europa delle
Banche avrebbe imposto diktat ai governi nazionali, misure da intraprendere, riforme
sociali e che per imporle avrebbe fatto cadere capi di governi e li avrebbe sostituiti
con altri di proprio gradimento senza passare per legittime elezioni?
Il capitalismo ha deciso di non volere più avere, in Europa, così tanti interlocutori
quanti sono gli stati membri e di dover influenzare e corrompere così tanti individui.
Il percorso di europeizzazione facilita il lavoro del capitalismo. Un solo governo da
convincere a promulgare riforme, a prendere certe misure, ad approvare determinate
leggi che poi tutti gli stati devono recepire e attuare. Ma il capitalismo va ancora oltre.
Sta, praticamente, concretizzando l’ideologia anarco­capitalista che prevede
l’abbattimento degli stati e delle sue leggi per creare una dittatura del capitalismo e
delle leggi di mercato. Il capitalismo, così, vuole disfarsi di tutte le regole e le
limitazioni imposti dagli stati per poter agire incontrollati sullo sfruttamento delle
risorse e dei lavoratori. Senza tutele sul lavoro, il capitalismo, generando e sfruttando
immigrazioni di massa di gente disperata vuole minimizzare il costo del lavoro senza
nessun genere di tutele per operai. Le condizioni del lavoro le decide il mercato per
cui ci sarà sempre qualcuno più bisognoso di lavoro disposto ad accettare lavoro
sottopagato e senza tutele, in assenza di leggi sul salario minimo e altri diritti dei
lavoratori.
Il capitalismo crea fenomeni funzionali alla propria rivoluzione che ha come primo
nemico gli stati e il settore pubblico. Gli stati vengono destabilizzati con crisi create
apposta che hanno lo scopo di imporre agli stati privatizzazioni dei settori e delle
aziende controllate dallo stato, norme più flessibili sul lavoro per indurre le aziende
ad assumere e svendite di beni pubblici per risanare un debito pubblico che non
verrà mai estinto ma di tanto in tanto enfatizzato per tirar fuori nuovamente lo
spauracchio e rimettere le mani sul patrimonio pubblico. Mettendo in crisi gli stati, il
capitalismo riesce ad assoggettare meglio i lavoratori abbassando il costo del lavoro
per essere più competitivi sui mercati in una folle corsa al maggior profitto
minimizzando le spese. Fin quando il costo del lavoro dovrà essere oggetto di
risparmio aziendale per favorire la logica del profitto? Un nuovo schiavismo è alle
porte?
Tuttavia il capitalismo con la sua rivoluzione sta tracciando un solco interessante e sta
facendo ciò che gli anarchici non sono mai riusciti a fare: abbattere lo stato, lo
statalismo e il capitalismo di stato. Su questo solco si può seminare un nuovo genere
di rivoluzione economica che, quando il capitalismo avrà messo all’angolino gli stati e
li costringerà a cedere o chiudere scuole, ospedali, acquedotti ecc., potrà proporre

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una terza via, alternativa sia al capitalismo privato del profitto a tutti i costi, sia allo
statalismo che vuole aziende di interesse strategico proprietà pubblica dello stato per
garantire i servizi fondamentali: la terza via è il collettivismo.

Il collettivismo

Il collettivismo si contrappone agli istituti pubblici statali e a logiche privatistiche. Il


collettivismo rappresenta una valida alternativa al capitalismo di stato e a quello
privato. La gestione collettiva di aziende serve ad eliminare tutte le falle della gestione
privata che porta gerarchia nei poteri e nei salari e genera disparità, povertà e
precarietà contro ricchezza e strapotere. Non solo risolverebbe i problemi legati alla
tradizionale gestione capitalista delle aziende ma colmerebbe le lacune anche della
gestione statale delle aziende. Le aziende gestite dallo stato hanno tutte le stesso
problema.All’interno di esse riesce a fare carriera chi ha raccomandazioni e chi porta
voti al politico influente. L’azienda statale diventa un grosso macigno al piede dello
stato che dovrà farsi carico di numerose assunzioni nei tempi immediatamente
precedenti alle campagne elettorali, personale superiore rispetto ai compiti da
espletare nel lavoro con aggravio sui conti dello stato.
La gestione, collettiva, invece, non stabilisce gerarchie, capi, dirigenti strapagati e
imprenditori predoni ma una linea orizzontale di potere che si realizza nell’assemblea
a cui tutti gli operai partecipano. E’ l’assemblea dei lavoratori che autogestisce l’azienda
e decide le direttive aziendali su assunzioni, produzione e vendite. E’ tutto interesse
degli operai mantenere una gestione oculata dettata dal buon senso in modo da
garantirsi, essi stessi, il proprio salario.
Il collettivismo non rappresenta un’alternativa solo alla gestione economica delle
aziende ma anche alle varie forme di governo caratterizzate tutte da apparati statali
marci che fanno affari con mafie e imprenditori approfittando della disperazione della
gente gestendo servizi in appalto. Il collettivismo, invece, è l’unica forma di democrazia
diretta piena, quella dell’autogoverno attraverso le assemblee pubbliche. Si distingue
dalla gestione pubblica statale per l’assenza di delega. Non sono i sindaci, gli assessori, i
dirigenti, ministri e deputati a prendere decisioni ma direttamente il popolo attraverso
momenti di confronto pubblico. Il luogo decisionale torna ad essere la piazza. Se una
qualche forma di “istituzione”dovesse sopravvivere in un “regime politico collettivista”,
dovrà occuparsi esclusivamente di questioni burocratiche, di prendere atto delle
decisioni prese collettivamente e di attuarle. Mai più queste figure avranno potere
decisionale. Il collettivismo come forma politica di governo si organizza su base locale,
cittadina nel governo della città che diventerebbe il fulcro dell’attività politica. Gli stati
cesserebbero di esistere e i comuni si federalizzerebbero tra loro mantenendo ognuno
la sua autonomia.

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La rivoluzione economica

Non ci resta che immaginare una trasformazione sociale che venga attivata proprio in
ambito economico andando a sfruttare le debolezze del sistema per inserire, dentro
di questo, elementi innovativi che ne vadano a cambiare profondamente la natura
dispotica, in modo da realizzare quella distribuzione del potere che permetta a tutti di
avere accesso al consumo e quindi ad una porzione dello stesso potere economico.
Ciò che bisogna abbattere è la concentrazione del potere, non il potere in sé, perché
esso non cesserà mai di esistere. E nel momento in cui sarà abbattuta la
concentrazione di potere economico, la concentrazione di potere politico non avrà
più senso perché dal potere economico viene nutrita ed in funzione di questa essa
esiste.
Il potere politico autoritario e centrale serve a costruire e conservare un potere
economico sempre più concentrato e forte. Senza questo ultimo, il potere politico
centrale autoritario perde il suo senso e viene meno.Vedremo meglio come.
La questione essenziale è che il processo di trasformazione è lento e graduale, e che
viene dal basso. Alla base del cambiamento dev’esserci il movimento “antagonista”,
autogestionario, non più diviso e frammentato ma compatto, seppure composto da
individui con diversa formazione politica ed ideologia. Il movimento deve
compattarsi attorno ad idee autogestionarie e confederaliste democratiche e partire
dalla rielaborazione e dall’esperienza del movimento di liberazione curdo. Il
movimento, unitosi attorno a queste basi ideologiche può cominciare a lavorare sulla
diffusione dei concetti politici propri (autogestione, autogoverno, confederalismo,
municipalismo) e a creare consapevolezza sulla questione dei rapporti di lavoro
anche attraverso l’organizzazione delle “Giornate per l’abolizione del lavoro
salariato”.
A questo punto bisogna intervenire nel sistema economico creando esempi di
organizzazione del lavoro che diventino modello sociale, si diffondano e vadano a
sostituire le già note forme di sfruttamento del lavoro e concentramento del potere
economico. La fondazione, come forma di controllo e proprietà collettivo, può essere
uno strumento da utilizzare per la costituzione di nuove aziende che non abbiano né
un controllo privato, né pubblico istituzionale.
Aziende di proprietà collettiva, attraverso l’istituto delle fondazioni possono essere
gestite e controllate con assemblee pubbliche. L’assemblea pubblica diventa luogo di
confronto e discussione, luogo decisionale, luogo di democrazia diffusa, partecipata,
luogo di autogestione ed infine luogo di autogoverno nel momento in cui tutti i
servizi di interesse pubblico verranno controllati dalle fondazioni e le istituzioni
pubbliche non avranno più ragione di esistere.

Propositi

Il primo passo della rivoluzione economica è quello di autofinanziare la nascita di una

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fondazione a gestione collettiva che sia capace di iniziare una prima attività
economica. La fondazione deve operare a livello comunale ed ogni paese o città deve
avere la sua fondazione di riferimento mentre città più estese e popolate è
auspicabile che arrivino ad avere più fondazioni.
L’ attività economica, non essendoci la figura imprenditoriale che trattiene per sé la
maggior parte degli introiti, deve essere avviata con l’aiuto e il supporto del
movimento intero, pagate le spese gestionali e stipendi adeguati, e sopra la media per
chi lavora nell’azienda, i profitti rimanenti vanno a costituire il “capitale
rivoluzionario”, un fondo che servirà all’innesco di una reazione a catena, alla
diffusione della trasformazione sociale.
Il capitale rivoluzionario che finirà nella cassa della fondazione servirà ad ampliare
l’attività esistente inglobando più lavoratori nel progetto e assicurandosi di avere un
impatto più incisivo nell’economia e nei conseguenti introiti aziendali oppure
serviranno ad aprire nuove attività. Man mano che la fondazione, e quindi la
collettività, gestirà più aziende e la sua capacità rivoluzionaria sarà maggiore, il
progetto rivoluzionario sarà più concreto diventando esempio pratico delle
possibilità di emancipazione delle masse e di realizzazione di una società realmente
democratica attraverso le pratiche autogestionarie.
La fondazione a questo punto potrà contribuire anche e soprattutto
economicamente, alla costituzione di altre fondazioni nelle città vicine in modo da
andare a costruire filiere di produzione e distribuzione completamente autogestite.
La fondazione potrà anche finanziare l’apertura di botteghe ed esercizi commerciali
che diventino punti di distribuzione della filiera e dei prodotti delle aziende
controllate. Le attività finanziate ed aperte, seppure controllate da singoli o gruppi
con rapporti lavorativi orizzontali, restano di proprietà della fondazione e, quindi,
gestite dalla collettività.
Le fondazioni potranno anche acquisire attività e fabbriche già esistenti
convertendole ad una gestione orizzontale e collettiva. Potrà oltremodo, gestire
qualsiasi tipo di attività, persino giornali e tv andando ad operare, come un virus, una
trasformazione complessiva della società non lasciando spazio alcuno a sfruttamento
di individui e risorse.
Quando la crisi delle istituzioni, generata e voluta dal capitalismo, sarà così forte da
non poter più, le amministrazioni pubbliche, controllare ospedali, scuole, acquedotti e
servizi pubblici di ogni genere, le fondazioni dovranno essere pronte per farsi avanti e
acquisire o prendere in gestione queste strutture garantendo ai cittadini tutti i servizi
essenziali e di interesse comune.
A questo punto la rivoluzione economica è fatta. Tutte le attività economiche e
lavorative, da avere un controllo privato o pubblico passano ad un controllo
collettivo. Le assemblee pubbliche delle fondazioni andranno a sostituire la funzione
decisionale che attualmente hanno le pubbliche amministrazioni per cui i governi,
locali o nazionali, non avranno più senso di esistere. Saranno le assemblee pubbliche
delle fondazioni collettive a decidere se, quando e come riparare una strada, costruire
un ponte, installare nuove illuminazioni nelle strade eliminando così definitivamente

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la corruzione che è un fenomeno naturale e fisiologico delle democrazie
rappresentative in cui i poteri sono concentrati e delegati.

Dallo stato sociale alla collettività

Come scriveva un lucido, razionale e intuitivo Berneri all’inizio del ‘900, la rivoluzione
non può abbattere lo stato con tutte le sue strutture sociali che dispensano pensioni,
stipendi per i dipendenti, cure sanitarie gratuite, istruzione pubblica e gratuita
(allegato 2). La rivoluzione deve essere lenta e graduale e deve andare sostituendo
tutte quelle forme di potere accentrato con forme di partecipazione collettiva al
potere. Berneri scriveva già di “comunalismo libertario”, un concetto molto simile al
municipalismo libertario elaborato da Murray Bookchin.

Attraverso la rivoluzione economica anche quelle forme di assistenza pubblica


definite “stato sociale” non vengono eliminate ma controllate collettivamente,
attraverso le fondazioni, si trasformano in una sorta di socialità collettiva. Le
fondazioni dovranno, quindi, occuparsi anche di assicurare adeguato accesso al
potere economico a chi per questioni fisiche, di età, di infortuni non potrà prestare il
proprio lavoro.

Un’accusa che potrà essere rivolta a questa rivoluzione economica è il dubbio che le
fondazioni siano realmente capaci di pagare stipendi ai lavoratori delle aziende e poi
nelle fasi più inoltrate della rivoluzione stessa di pagare addirittura pensioni. La
risposta è semplice ed intuitiva: se con l’attuale sistema, che vede la maggior parte
delle ricchezze concentrate nelle mani di poche persone, riesce a reggersi, come può
un sistema che vuole ridistribuire il potere economico e quindi la ricchezza stessa, la
moneta stessa, attraverso forme di gestione collettiva di ogni attività economica, non
riuscire a sostenere l’accesso degli individui al potere economico?
Come scriveva a suo tempo Carlo Cafiero, vi sarebbe abbastanza ricchezza,
abbastanza potere per tutti.

ESPERIENZE E MODELLI RIVOLUZIONARI

La rivoluzione integrale

In Spagna esiste un’esperienza molto radicata e concreta di trasformazione sociale. Si


tratta della Rivoluzione Integrale, un percorso collettivo che immaginando la meta, il

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fine, il modello di società desiderato, utilizza solo strumenti idonei, concordi, in linea
con il cambiamento che si vuole produrre.
Quale società ed umanità vuole costruire la Rivoluzione Integrale?
Rapporti umani equi basati sulla solidarietà, reciproco aiuto e privi di ogni tipo di
discriminazione. L’utilizzo delle assemblee popolari come forma di organizzazione di
ogni tipo di comunità di persone opponendosi allo stato in ogni sua forma. I popoli
diventano liberi di auto­determinarsi attraverso forme orizzontali di organizzazione e
attraverso la confederazione delle comunità. Rifiuto della proprietà privata come
strumento di dominio, recuperando il controllo di terre e mezzi di produzione
intendendoli come beni comuni e quindi proprietà comune della comunità al fine di
costruire un sistema pubblico cooperativo ed autogestionario basato sul reciproco
aiuto. Questo percorso vuole abbattere il capitalismo come sistema di dominio
fondato sulla crescita dei bilanci delle multinazionali attraverso sistemi di produzione
immorali che usano lo sfruttamento del lavoro, delle risorse e dei territori per
soddisfare le proprie ambizioni di potere.
Per abbattere il capitalismo, bisogna abolire il lavoro salariato che permette lo
sfruttamento del lavoro per concentrare la ricchezza. Strumenti di ausilio nel
percorso della Rivoluzione Integrale sono le monete sociali, il baratto, la costruzione
di relazioni dirette, locali ed eque tra produttori e consumatori.
In Spagna ci sono organizzazioni regionali che fanno riferimento alla Rivoluzione
Integrale. Si chiamano Cooperative Integrali. Ogni cooperativa integrale adotta una
sua moneta sociale sia per ridurre l’uso dell’euro che per facilitare l’accesso a beni e
servizi. La Cooperativa Integrale Catalana, per esempio, è costituita da nuclei di
autogestione locali che sono lo spazio di interazione tra individui e collettività
all’interno di quartieri di grandi città o in paesi piccoli o medi. Le Ecoreti, invece,
sono connessioni bioregionali o provinciali tra le realtà che ne fanno parte. E’ a
questo livello che si incentiva l’uso della moneta sociale per rafforzare l’economia di
prossimità e le relazioni di fiducia. L’adozione di una forma prevista dall’ordinamento
giuridico serve proprio a combattere la prepotenza dello stato e dei privati, per
esempio nei casi di pignoramento di terre e abitazioni.

Il fenomeno vegano

Abbiamo visto cosa è la Rivoluzione Integrale, un percorso di trasformazione sociale


completo e senza compromessi. Integrale appunto. Cosa può facilitare la diffusione di
un percorso come quello della Rivoluzione Integrale? Sicuramente la creazione di
uno stile di vita che partendo da analisi teorico­ideologiche faccia breccia nei
comportamenti umani nel campo del consumo. Prima di elaborare un nuovo stile di
vita è necessario fare un’analisi di quello che è il modello di consumo più di successo
negli ultimi anni, quello vegano.
Lo stile di vita vegano si basa sull’esclusione dalla propria alimentazione di qualsiasi
prodotto composto da ingredienti di origine animale. Basta un colorante di origine

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animale a rendere un alimento non adatto per vegani. Oltre che all’alimentazione
vegana, i vegani antispecisti dovrebbero stare attenti a non acquistare prodotti testati
su animali, abbigliamento con parti di origine animale e a non assistere e sostenere
economicamente spettacoli che utilizzano animali. Gli antispecisti sono coloro che
rifiutano qualsiasi tipo di discriminazione da parte dell’uomo nei confronti degli altri
animali.
Ma quale può essere la chiave del successo del veganesimo?
La dieta vegana, oltre alle ragioni etiche antispeciste, può avere delle ragioni salutiste
in quanto basata su vegetali, ragioni ambientaliste in quanto gli allevamenti intensivi
producono inquinamento, ragioni sociali perché gli stessi allevamenti sottraggono
territori, coltivazioni e cibo a popolazioni in via di sviluppo. Quindi vi sono anche
altre o più ragioni per cui si diventa vegani.
Ma le ragioni del successo del veganesimo non sono solo nelle ragioni che portano
alla adozione di questo stile di vita ma anche nella modalità di sviluppo e diffusione di
questo modello. Colui che diventa vegano si fa portatore di questo stile di vita nella
società,non è una scelta che resta nel privato delle cucine domestiche. C’è chi
organizza conferenze, chi dibattiti, chi organizza cene ed aperitivi vegani, chef che
scrivono libri di ricette vegane e chef che organizzano corsi di cucina. C’è tutto un
movimento che fermenta.Anche, se vogliamo, disorganizzato nel senso che non fa capo
ad una organizzazione specifica. Tante sono le associazioni che ne promuovono la
diffusione, alcune di rilevanza nazionale ed altre locali.
Ma l’aspetto principale di questo fenomeno è sicuramente questa specie di adesione
incondizionata verso determinate scelte di vita e di identità individuale e collettiva,
comunitaria. Ogni vegano, per coerenza con la propria scelta, deve necessariamente
scontrarsi con il mondo esterno, principalmente con l’industria alimentare e con le
attività ristorative. Per cui nel momento in cui un vegano all’interno di un ristorante
dichiara la sua scelta alimentare, e man mano che questo fenomeno cresce, costringe
il ristoratore a proporre dei piatti vegani all’interno del proprio menù.
Questo fenomeno ha, però, anche i suoi lati negativi perché sviluppa una certa
intolleranza da parte dei vegani nei confronti di chi non vuole “convertirsi” a questo
“credo”. In questo modo cresce anche una “schiera” di persone che odiano
profondamente i vegani e la loro scelta estrema. Ciò avviene essenzialmente per una
ragione . La scelta vegana si basa principalmente su ragioni etiche che appartengono
alla sfera della coscienza individuale, ovvero la consapevolezza o sensibilità di non
voler contribuire all’uccisione e sfruttamento di animali con il proprio consumo.
Seppure questa scelta si possa spiegare agli altri, non è logica, immediata, matematica
se vogliamo, ma legata ad una sensibilità che una persona può avere mentre un’altra
no; per cui chi non ha questa sensibilità resta libero di non condividere la scelta e
non farla propria. Questo è il limite del veganesimo, ma non solo questo. Un altro
limite o distorsione del veganesimo è l’effetto che produce nella grande
distribuzione che per sfruttare questa nuova fetta di mercato ha messo in vendita
linee di prodotti per vegani, non necessariamente salutari, ma privi di sofferenza
animale. Sono le stesse aziende multinazionali che hanno costruito i loro business su

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carne e derivati a proporre alternative vegane alle quali in molto abboccano
felicemente. C’è quindi nel fenomeno vegano qualcosa che non funziona, se
concepito acriticamente, come dovrebbe nonostante il suo grande successo.

Cucina Sovversiva e modello “Integrano”

Considerati quelli che sono gli aspetti del modello vegano che ne determinano il
successo e gli aspetti critici, possiamo ora elaborare un nuovo modello più completo
e rivoluzionario. Parte di questo lavoro è già stato svolto dal Manifesto di Cucina
Sovversiva7 che indica una via rivoluzionaria di fare la spesa. La domanda che
dobbiamo porci quando acquistiamo un prodotto è “c’è lavoro salariato dietro questo
prodotto?”. Il lavoro salariato va a creare disparità sociali ed economiche.
Immaginiamo un nuovo stile di vita con solide ragioni sociali, economiche ed etiche
basato sul consumo esclusivo di prodotti di piccoli produttori che non impiegano
lavoro salariato, ovvero lavoratori autonomi, piccole aziende a gestione familiare o
cooperative di lavoratori.
Immaginiamo che questo consumo sia quasi esclusivamente di origine vegetale e che
tolleri, per evidenti ragioni ambientali e sociali, il consumo di carne e derivati animali
da piccoli produttori per un paio di volte alla settimana solo per chi non vuole farne
a meno.
Immaginiamo di diffondere questo stile di vita con conferenze, dibattiti, corsi di
cucina, libri di ricette.
Immaginiamo che questo stile di vita si chiami Integrano (da Rivoluzione Integrale) e
che quando ci sediamo in un bar, in un ristorante o in un pub dichiariamo di essere
Integrani e di non poter mangiare piatti che abbiano tra gli ingredienti principali
prodotti provenienti dalla grande distribuzione e che, quindi, la nostra pizza deve
essere fatta con la farina del contadino e con la salsa di pomodoro di una piccola
azienda che non sfrutta manodopera, italiana o extracomunitaria non importa.
Immaginiamo pure che il ristoratore la prima volta ci rida in faccia ma man mano che
aumentiamo, e la “fetta di mercato” aumenti, dovranno trovare il modo di
accontentare questa “nuova sensibilità”.
Stiamo immaginando una rivoluzione che demolisce la grande distribuzione
organizzata, l’agricoltura intensiva o monocultura, lo sfruttamento del lavoro, delle
risorse, il mercato globale che vuole rovinare l’esistenza dei piccoli produttori e
contadini assoggettandoli alle sue logiche. E stiamo promuovendo la costruzione, al
posto di ciò che demoliamo, di una società e di una economia basati sulla
cooperazione e sul mutuo appoggio.
Questo tipo di scelta, a differenza di quello vegano, non può essere strumentalizzato
dalla grande distribuzione e da grandi aziende. Su questo stile di vita non si può fare
business perché si basa sulla volontà di creare rapporti orizzontali, non disparità.
Questa scelta, inoltre, fa propria la visione di una società umana che disprezza ogni
tipo di discriminazione ed intolleranza. Chi è integrano non disprezza chi non lo è.

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Spiega le sue ragioni che sono logiche, sociali, economiche e condivisibili da
chiunque abbia un pò di buon senso. Può esserci un integrano onnivoro, un integrano
vegetariano ed un integrano vegano. Ciò che importa è che la carne ed i derivati non
li si comprino dalla grande distribuzione ma da piccoli allevatori e che li si consumi al
massimo un paio di volte a settimana per una ragione di sostenibilità di questa scelta.
Sicuramente la scelta integrana onnivora, con il consumo ridotto di carne e derivati,
può ridurre il numero di animali sacrificati per l’alimentazione umana ma
sicuramente va ad abbattere l’economia degli allevamenti intensivi.
Al di fuori dell’alimentazione, l’integrano evita di comprare dalla grande
distribuzione:
– vestendosi con abbigliamento di piccoli produttori, sarti o comprando dall’usato dei
mercatini;
– utilizzando cosmetici fatti in casa o di piccoli produttori naturali reperendoli in
mercatini o gruppi di acquisto;
– cerca di sostenere piccoli spettacoli teatrali, la piccola editoria indipendente,
l’artigianato, il riciclo e il riuso, il baratto o lo scambio di prestazioni lavorative.

"PROGETTO CAFIERO"

Presentazione

Affinché il lavoro delle fondazioni libertarie possa essere incisivo e realmente


efficace, soprattutto nelle fasi iniziali della loro attività è necessario un sistema che
supporti le produzioni e i servizi in modo che le fondazioni non subiscano un
clamoroso insuccesso a causa dei prezzi concorrenziali di prodotti e servizi simili già
presenti sul mercato.
Per assicurarsi che l’attività delle fondazioni abbia successo e registri da subito una
crescita in vendite, profitti e di conseguenza in produzione e occupazione di
lavoratori, bisogna fare in modo che il prodotto o il servizio fornito dalle fondazioni,
non solo sia più genuino, sia rivolto alla costruzione di una società egualitaria e
libertaria abolendo il lavoro subordinato e la conseguente accumulazione di
ricchezze nelle mani di pochi da una parte e l’impoverimento delle masse dall’altra
parte; ma sia anche più conveniente sia per ragioni economiche per che altre ragioni.
Carlo Cafiero è stato tra i primi socialisti ad affrontare il problema del lavoro
subordinato spiegandolo con semplicità alle masse, e poi a sacrificare la propria vita e
i beni di famiglia per cercare di cambiare la condizione economica, lavorativa delle
popolazioni.
A lui va intitolato questo progetto in quanto fonte di ispirazione e modello di una
ricerca costante e incessante di una logica egualitaria e libertaria applicabile.Ai nostri
tempi è sicuramente utile un sistema informatico complesso e strutturato che

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permetta a chi lo utilizza di ricevere agevolazioni nella scelta di questo sistema e nel
consumo dei prodotti delle fondazioni.

Moneta complementare e circuito

Una parte del sistema informatico è costituito da una moneta complementare sociale
virtuale per facilitare l’accesso ai prodotti e ai servizi. Quello che si va creando è un
circuito di produttori, distributori e consumatori. Non bisogna confondere la moneta
sociale con alcune di quelle monete complementari che ora vanno tanto di moda,
lanciate da società private o agenzie di comunicazione, il cui scopo è solo quello di
generare business per le imprese. La moneta sociale parte dal bisogno della gente di
aumentare il proprio potere di acquisto.
La moneta complementare sociale serve ad avere accesso ai prodotti e servizi del
circuito utilizzando, negli acquisti, in parte moneta reale ed in parte moneta
complementare virtuale.
In tal modo si riduce l’uso di moneta reale, e prodotti e servizi del circuito hanno un
prezzo inferiore. La moneta complementare virtuale, quindi, aiuta ad accedere al
consumo del circuito riducendo i costi reali dei beni e rendendoli più competitivi.
Così è più facile che la gente preferisca i prodotti del circuito perché, spesso, per
quanto si possa essere animati da buoni propositi, ci si trova a scontrarsi con le
difficoltà reali e con la scarsa disponibilità di denaro.
La moneta sociale diventa anche un’unità di misura per baratto di oggetti o di
prestazioni lavorative e può essere riutilizzata per acquisti.

Piattaforma web

Di pari passo alla moneta complementare si sviluppa una piattaforma web dentro cui
vengono indicizzate le attività che fanno parte del circuito: dai produttori, ai
commercianti e distributori. Queste attività vengono valutate da una commissione di
volontari del movimento su dei parametri specifici.
Le valutazioni servono a definire quali sono le “Attività ideali”, ovvero quelle che, nel
sistema a cui vorremmo giungere, hanno una organizzazione orizzontale e lavorano
per una redistribuzione delle ricchezze.
Le aziende che rispondono positivamente ai criteri vengono definite “Attività ideali” o
“Attività integrali”, come se fosse un certificato, e giudicate con valore numerico
massimo su base centesimale.
I criteri principali per la valutazione delle aziende sono:

1) Il Lavoro:
Come è organizzato il lavoro nell’azienda? Gli operai sono subordinati alla figura di

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un imprenditore? In questo caso il valore attribuito sarà basso. Quanti più operai
lavoreranno nell’azienda, più sarà basso il valore attribuito perché maggiore sarà la
capacità dell’azienda di accumulare profitti e di concentrarli nella figura
imprenditoriale. Se c’è lavoro subordinato ma gli operai appartengono allo stesso
nucleo familiare dell’imprenditore e non ci sono altri operai al di fuori della famiglia,
il valore attribuito sarà intermedio perché trattasi di un’azienda a conduzione
familiare e la ricchezza generata resta delle disponibilità della famiglia cui
appartengono gli stessi operai. Nel caso di attività individuale di cooperativa il valore
attribuito sarà massimo perché la ricchezza generata sarà divisa tra tutti gli operai nel
caso di cooperativa oppure trattenuta dal singolo nel caso di attività individuale che
però non utilizzando lavoro altrui per aumentare gli incassi, e basandosi sul lavoro di
una sola persona avrà comunque una capacità limitata di produrre e accumulare
ricchezza.
2)Le Forniture:
Con questo criterio si valuta l’origine delle materie prima utilizzate in una
determinata azienda e il valore attribuito all’azienda fornitrice. Se stiamo valutando
una pizzeria dobbiamo identificare le aziende che forniscono farina, salsa, latticini,
verdure e ortaggi. Se queste fanno parte del circuito ed hanno un valore massimo
allora sul criterio “Forniture” alla pizzeria daremo un valore massimo. Se le aziende
fornitrici non fanno parte del circuito il valore sarà minimo. Questo criterio
rappresenta un incentivo per le aziende a rifornirsi di materie prime da altri
produttori interni al circuito. In questa maniera si può chiudere il ciclo della filiera
coinvolgendo coltivatori di grano, creando un’azienda­cooperativa che macini il grano
dei produttori coinvolti e che confezioni la farina. La farina viene distribuita tra
panificatori, pizzerie e pastifici che hanno interesse a far parte del circuito perché
riceverebbero una buona valutazione e i consumatori sono incentivati a scegliere loro
per motivi che affronteremo in seguito;
3)Il Km0:
L’ultimo tra i criteri di valutazione principali è il Km0, se nel circuito ci sono
produttori di farina in Puglia e in Lazio, sarebbe cosa buona che le pizzerie ubicate
nel territorio laziale si riforniscano dai produttori laziali. Se, per ipotesi, tutte le
pizzerie italiane si rifornissero dai produttori pugliesi di farina, ci sarebbero enormi
instabilità e derive perché si disincentiverebbe la produzione locale, la biodiversità di
varietà diverse e locali di grano, tutte ugualmente antiche e preziose, si
concentrerebbe il potere produttivo ed economico in pochi produttori che
potrebbero monopolizzare la produzione e controllare i prezzi. A questo criterio,
quindi si attribuisce valore positivo massimo quando la scelta delle materie prime è
locale. Decisi questi criteri principali, ad ogni azienda che si propone di entrare nel
circuito si attribuisce un valore confrontandosi con chi le gestisce, con chi ci lavora e
controllando le materie prime utilizzate. Attribuito il valore, numerico e su base
centesimale, l’azienda, che potrebbe non essere completamente soddisfatta del
giudizio ricevuto, può chiedere alla commissione di intraprendere un percorso
partecipato di trasformazione della stessa azienda. Per cui l’azienda, per esempio, in

­ 26 ­
cambio di un valore più alto nel criterio “Lavoro”, qualora avesse operai subordinati,
potrebbe destinare una parte dei profitti, destinati all’imprenditore, ad una
ripartizione tra i dipendenti in modo da aumentare il potere economico degli operai
e lavorare, nel piccolo, ad una redistribuzione del potere economico.

Attribuiti dei valori alle aziende, si creano classifiche delle aziende, divise per
tipologia, in modo che chi fa parte del circuito possa premiare le più virtuose.

Ruolo della moneta complementare nella piattaforma web

Compreso come può funzionare il sistema di valutazione delle aziende, con un valore
numerico in centesimi da attribuire loro e la definizione di “Attività ideale” per quelle
aziende che hanno il punteggio massimo in tutti i criteri, passiamo ad analizzare
come la moneta complementare virtuale interagisce con sistema di valutazione delle
aziende.
Innanzitutto una quantità minima di moneta complementare viene concessa subito
nel momento in cui si decide di aderire al circuito e viene creato un conto virtuale
individuale. Per far funzionare il sistema serve immettere moneta virtuale nel sistema
stesso attraverso alcune modalità: per esempio, alcuni crediti possono essere
assegnati periodicamente ai soggetti sociali che fanno parte del movimento e poi
ridistribuiti all’interno degli stessi soggetti sociali. Altri crediti possono essere
assegnati in occasione dell’organizzazione di eventi con funzione sociale e per la
tutela di beni comuni come la pulizia di spiagge o di parchi e/o a quei soggetti e
collettivi che svolgono attività di interesse collettivo come le mense sociali
autogestite, biblioteche autogestite, occupazioni abitative ecc. e poi ridistribuiti trai
singoli che ne fanno parte e che contribuiscono al funzionamento dei progetti.
Altri crediti possono essere assegnati alla commissione che volontariamente si
occupa della valutazione delle attività. Altri ancora, possono essere assegnati, invece,
in una forma che incentivi il consumo dalle aziende che hanno la valutazione
migliore nel circuito, quindi le “Attività ideali”.
Vediamo come.
Le aziende che fanno parte del circuito accettano di utilizzare la moneta
complementare virtuale come forma di pagamento parziale per i propri prodotti.
L’azienda definisce la percentuale di moneta complementare che accetta sul prezzo
di un prodotto e può scegliere percentuali diverse su prodotti diversi. Ad esempio
una pizzeria può scegliere di accettare il 10% di pagamento in moneta
complementare sulle bibite e il 20% sui prodotti da forno. Stabilito questo, una forma
di incentivo all’acquisto dalle “Attività ideali” è quella di restituire all’acquirente la
quantità di crediti utilizzati nell’acquisto di prodotti da “Attività ideali”.
Se la mia spesa in una pizzeria valutata “Attività ideale” è di 35€ che pago, per
esempio, in base alle percentuali stabilite dall’azienda stessa, con 28€ in moneta reale
e 7 crediti di moneta complementare virtuale; io cedo i 7 crediti alla pizzeria in cui

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ho effettuato l’acquisto ma il sistema mi restituisce i crediti utilizzati perché ho scelto
di fare gli acquisti in una delle attività valutate ideali e che con il loro lavoro
contribuiscono alla redistribuzione della ricchezza e dei poteri.
Nel caso in cui in una determinata tipologia di aziende non dovessero esserci “Attività
ideali” il sistema potrebbe restituire solo metà dei crediti a chi fa la spesa dalle attività
con la migliore valutazione.
In questa maniera si va a creare una sorta di competizione tra le aziende per ottenere
una migliore valutazione e accaparrarsi più clienti. Ma le aziende con le migliori
valutazioni sono quelle che hanno una organizzazione orizzontale e che
ridistribuiscono i profitti, ed aziende che si riforniscono da altre aziende simili.
Il sistema produce quindi una concorrenza a diventare “Attività ideali”, una
competizione positiva a chi fa più passi avanti nella costruzione di una
trasformazione sociale su larga scala.
Per incentivare all’uso della moneta complementare coloro che aderiscono al circuito
si possono creare in linea concreta e al passo con i tempi, applicazioni per i moderni
telefoni cellulari in modo che la cessione dei crediti possa essere istantanea nel
momento del pagamento durante un acquisto oppure un sistema tramite sms per
accettare la cessione dei crediti, per coloro che hanno meno familiarità con i
dispositivi elettronici.
Una alternativa all’immissione di moneta sociale, attraverso la piattaforma web, può
essere quello di non prevedere nessuna immissione di crediti ma lasciare libertà di
cessione di crediti tra privati. Si parte tutti da 0 crediti e si comincia a relazionarsi
cedendo ed acquisendo crediti. Si possono stabilire un numero massimo di crediti ed
un limite di debito. Per cui chi usufruisce di servizi, prodotti ad un certo punto deve
anche trovare il modo di acquisire crediti per compensare il debito.Tuttavia il debito
in questo modo di intendere la moneta sociale, verrebbe vissuto con più serenità
rispetto al debito nel sistema creditizio reale. Il debito della moneta sociale sarebbe
una condizione fisiologica necessaria che non dovrebbe destare allarme o
preoccupazione, in quanto non c’è una moneta reale che viene immessa nel sistema e
che bisogna acquisire e restituire. E’ come se il credito o debito fossero una unità di
misura di favori elargiti o ricevuti per cui esserne in debito sarebbe condizione
normale e con tutta calma si troverà il modo, successivamente, di restituire il favore.

Il ruolo delle fondazioni nel “Progetto Cafiero”

A questo punto bisogna inquadrare il ruolo delle fondazioni all’interno di questo


sistema. Le fondazioni devono avviare quelle tipologie di aziende che nel mercato
non hanno una forma ideale e sostenibile, che sappiamo con certezza non potranno
mai avviare un percorso per trasformarsi in attività ideali. Si tratta per lo più di grandi
aziende che trasformano in maniera industriale prodotti agricoli e li inseriscono nel
mercato della grande distribuzione.
Quindi sempre in una prospettiva concreta, ad esempio è compito delle fondazioni

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cercare i migliori produttori agricoli di pomodori in una determinata zona e creare
un’azienda che li trasformi in salsa in modo da avere un prodotto da inserire nel
sistema che si va creando.
Un processo simile può essere avviato assieme ai produttori di grano in modo da
avere farina confezionata da inserire nel circuito.
Le aziende che le fondazioni creeranno saranno a gestione collettiva.Tuttavia esistono
già numerose attività che sono a conduzione familiare o forme di società tra fratelli,
parenti o soci che cooperano. Si tratta di piccole botteghe, panetterie, minimarket,
fruttivendoli, pasticcerie, bar ecc.
Questo tipo di attività non è necessario acquisirle, andrebbero solo coinvolte dato
che è loro interesse farne parte in un sistema sociale autogestionario e libertario, esse
dopotutto hanno già al loro interno un’organizzazione del lavoro che noi vorremmo
portare in tutto il mondo del lavoro ed in ultima analisi, da questo tipo di circuito
potrebbero solo trarvi beneficio.

CONCLUSIONI

Quella che si va delineando in questo testo è una proposta. Una proposta su cui
innanzitutto riflettere e discutere. Una proposta da cui partire per la tessitura di reti
funzionali alla costruzione di un percorso collettivo, partecipato di emancipazione.
Una proposta, a dire il vero, neanche tanto originale. Ma una proposta. Pratica, reale,
percorribile, già percorsa altrove. Una proposta modificabile, da modellare sulle
esigenze dei territori e dei movimenti che vi operano.
Cio da cui bisogna partire sono le realtà locali, delle città. Costruire assemblee
cittadine con tutte le realtà e le individualità che condividono l’idea di praticare
autogestione, in maniera collettiva, senza autorità e senza autoritarismi, senza
discriminazione alcuna. Mantenere l’assemblea pubblica per la discussione di
tematiche riguardanti la città avviando un percorso che porti l’assemblea a decidere
linee guida o una carte dei beni comuni che vanno imposte alle amministrazioni per
far valere il potere popolare su quello istituzionale. In questa Carta, per esempio, si
può proporre una moratoria sul consumo di suolo per fermare altre concessioni per
le imprese edili che sottraggono territorio che magari un tempo era destinato alla
coltivazione per la costruzione di nuove case. Ma in questa carta si possono definire
collettivamente una serie di principi, di tutele delle risorse del territorio da
valorizzare per creare lavoro collettivo, non salariato.
Mentre l’assemblea autogestionaria lavora su ambiti generali, gruppi di lavoro
possono affrontare e cercare di risolvere questioni economiche, abitative, educativa,
legate alla salute, tecnologiche e scientifiche, proponendo progetti di
microfinanziamento collettivo e di supporto alla auto­occupazione, progetti che si

­ 29 ­
discostino dal sistema educativo imperante attraverso modelli di educazione libertaria
e autogestita, progetti che favoriscano l’occupazione di immobili abbandonati ad uso
abitativo, la cessione di immobili tra privati, il ripopolamento rurale; progetti per la
nascita di mercatini autogestiti, spacci popolari, l’uso di una moneta sociale che
favorisca un’economia comunitaria, l’apertura di laboratori per la trasformazione
delle materie prime agricole; progetti per lo studio e la costruzione di utensili,
macchinari per l’agricoltura (per falciare, decorticare cereali, arare ecc.) e
l’artigianato, a partire da oggetti recuperati, a basso costo e competitivi con i
macchinari industriali che sono accessibili solo a grandi proprietari o attraverso
mutui.
Questo è ciò che si può fare localmente, nelle città. Ma ciò che si costruisce
localmente deve essere il nodo di una rete più ampia, regionale che deve essere
capace di mettere in comunicazione le realtà locali. Così ciò che si produce in una
realtà locale, sia come prodotto agricolo o artigianale, sia come pratiche, riflessioni,
intenti, può tornare utile alla realizzazione dei progetti di un altro territorio della
stessa regione.
La rete regionale deve essere capace anche di trovare espedienti legali per evitare il
pignoramento di abitazioni, locali o terreni perfino attraverso la costituzione di
associazioni o cooperative che prendano in gestione questi immobili per strapparli
all’acquisizione di banche o altri poteri forti privati.
Di pari passo bisogna mettere in piedi iniziative, dibattiti, conferenze per spiegare
cosa si sta facendo e far crescere questo movimento tenendo a mente che ogni
progetto realizzato non è la fine di un percorso, la realizzazione completa di un’ideale
ma solo un passo in più, in avanti di un processo più amplio, complessivo per
costruire l’autogestione lavorativa e l’autogoverno delle città.

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Note

1.Vedi il Referendum su acqua bene comune e nucleare del 2011.

2. La banda del Matese 1876­1878. I documenti, le testimonianze, la stampa dell'epoca


di Tomasiello Bruno

3. Il municipalismo libertario vuole raggiungere il potere, non vuole semplicemente


sfruttare la rivendicazione del potere a scopi di propaganda e di spettacolo, e non
respinge l'uso del potere, ma vuole darlo in mano alla gente nelle assemblee popolari.
“Municipalismo libertario perché” di Murray Bookchin fonte:
http://www.arivista.org/riviste/Arivista/258/30.htm

4. Gandhi.Teoria e pratica della non violenza. Einaudi 1973. Dal capitolo V paragrafo
14 “Sulla organizzazione di un'India indipendente fondata sul decentramento del
potere”.http://www.magozine.it/sulla­organizzazione­di­unindia­indipendente­
fondata­sul­decentramento­del­potere/

5. Evoluzione, rivoluzione e ideale anarchico in Natura e Società. Scritti di geografia


sovversiva di Elisée Reclus edito da Elèuthera

6. Sistemi di potere. Conversazioni sulle nuove sfide globali di Noam Chomsky La


televisione inculca schemi di pensiero rigidi, che senz’altro ottundono le menti. Le
dottrine non vengono formulate in maniera esplicita. Non è come la Chiesa cattolica:
«Devi credere in questo. Devi leggere questo ogni giorno, devi ripetere questo ogni
giorno». È solo insinuato. Si insinua un sistema, e alla fine le persone lo fanno proprio.
Un valido sistema di propaganda non esplicita i propri principi o le proprie
intenzioni. È una delle cause dell’inefficacia del vecchio regime sovietico, per quanto
ne sappiamo. Se si dice alle persone: «Dovete pensare così», allora capiscono che è
quello che il potere vuole che pensino, quindi escogitano un modo per sottrarsi a tale
costrizione. È più difficile liberarsi da un sistema di presupposti non dichiarati che
non da una dottrina esplicitamente enunciata. È così che funziona una buona
propaganda. Il nostro apparato propagandistico è molto sofisticato. I fautori di questo
sistema danno l’impressione di sapere perfettamente cosa fanno. Prendiamo le
presidenziali americane del 2008 che, al pari di tutte le elezioni, non sono state altro
che un grande evento di pubbliche relazioni. L’industria pubblicitaria aveva ben
chiaro il proprio ruolo.Tanto è vero che, poco dopo le elezioni, la rivista Advertising
Age ha assegnato l’annuale riconoscimento per la migliore campagna marketing alla
campagna elettorale di Obama, organizzata appunto dall’industria delle pubbliche

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campagna elettorale di Obama, organizzata appunto dall’industria delle pubbliche
relazioni. Anzi, si è aperto un dibattito sulla stampa economica per questo
riconoscimento. C’era euforia negli ambienti economici. Questo evento cambierà lo
stile della comunicazione dei board aziendali. Sappiamo ingannare le persone meglio
che in passato. Evidentemente nessuno credeva davvero che il vincitore fosse stato
scelto per le sue politiche o i suoi propositi: era semplicemente una buona campagna
marketing, migliore di quella di John McCain.

7. Manifesto di Cucina Sovversiva. Pubblicato su magozine.it

Manifesto del progetto.

Cucina Sovversiva vuole essere un tentativo collettivo di immaginare una maniera di


preparare un cibo che “alimenti” relazioni sane, mutuali e orizzontali tra chi produce e
chi consuma, tra chi abita i territori in cui si coltiva e il destinatario finale del
prodotto.
Cucina sovversiva vuole essere la visione utopica e reale, concreta al tempo stesso di
una filiera del cibo che spezzi tutte le catene dello sfruttamento capitalista che non
vede altre ragioni d’essere se non quello del profitto a discapito dei territori violentati
e depauperati, dei lavoratori sfruttati fino a quando regge il business e poi lasciati a
loro stessi, dei complessi ecosistemi i cui equilibri vengono rotti da coltivazioni
intensive, da monoculture e da un largo uso di diserbanti e pesticidi che
impoveriscono i terreni rendendoli, a lungo termine, improduttivi.
La nostra cucina vuole sovvertire questi modelli di produzione su cui si basa la nostra
economia e immaginare relazioni completamente diverse. Crediamo che il consumo
di cibo sia, tra le diverse aree della speculazione, quella su cui la gente possa influire
maggiormente con le proprie scelte.
“Cucina Sovversiva”, per questo, vuole diventare una comunità virtuale, orizzontale,
aperta a chiunque desideri sperimentare nuovi modi di cucinare e condividere le
proprie esperienze per diffondere il tentativo di sovversione non solo in contesti
politici, sociali e rivoluzionari ma anche nelle cucine delle case private e dei locali
pubblici concretizzando la trasformazione sociale a partire dal consumo del cibo.

Il fattore sociale come approccio principale del progetto.

Il senso della cucina non può limitarsi al gusto dei singoli ingredienti utilizzati ed a
quello del piatto finito. E’ necessario chiedersi quale origine abbiano gli ingredienti
utilizzati e da quale tipo di produzione e distribuzione provengano. Quando
cuciniamo dobbiamo poterlo fare con la convinzione che gli ingredienti che
utilizziamo e la maniera attraverso cui vengono prodotti non abbiano un impatto
nefasto sull’ambiente, sull’economia e sulle condizioni di lavoro di chi partecipa ai
processi produttivi. Dobbiamo cucinare con la consapevolezza di poter ripetere la
stessa ricetta alla stessa maniera e con gli stessi ingredienti anche tra 10, 50, 100 anni.

­ 32 ­
Per avere un impatto sociale positivo la nostra cucina deve utilizzare materie prime
provenienti da produttori e agricoltori del nostro territorio che producono loro stessi
senza l’intermediazione di altri e senza aver bisogno del lavoro altrui per
incrementare la produzione ed arricchirsi.
I nostri ingredienti devono provenire rigorosamente da auto­ produttori: senza
difficoltà possiamo procurarci farine, cereali, legumi, ortaggi e verdure.
Andiamo a fare la spesa alla fiera delle autoproduzioni, prendiamo contatti con i
produttori che ci interessano ed ordiniamo da loro ciò che ci serve. Sosteniamo tutti i
circuiti delle autoproduzioni della nostra zona, impariamo a conoscerli e andiamo a
visitare aziende agricole, campagne per vedere di persona come vengono coltivati i
prodotti che utilizziamo in cucina.

“Cucina etica”, ma non solo.

Alla base di questo tipo di cucina deve esserci una sorta di “sostenibilità” ovvero l’idea
che un modello possa essere riprodotto oggi in qualsiasi parte del nostro pianeta e
che possa durare nel tempo senza andare incontro all’esaurirsi di risorse, al consumo
di terre, a condizioni che impediscono la perpetua riproduzione del modello a causa
del modello stesso.
Nei decenni successivi all’ultima guerra mondiale l’occidente ha assistito ad una
grossa crescita economica che non è stata pari per le altre aree del pianeta, anzi è
stata tale per l’occidente a discapito di altre aree del pianeta.
“Crescita economica” vuol dire che circola moneta, che aumenta il consumo e che
multinazionali e grande distribuzione cercano di soddisfare le richieste per ingrassare
a loro volta.
Grandi appezzamenti di terre del sud del mondo sono stati comprati da
multinazionali per essere destinati alla produzione di semi e cereali per alimentare gli
animali degli allevamenti intensivi occidentali sorti nel dopoguerra per soddisfare la
crescente domanda di carne e derivati di origine animale. Oggi noi sappiamo con
certezza che questa filiera non è sostenibile, non lo è mai stata. Molte persone per
questa, ma anche per altre ragioni, scelgono di adottare un regime alimentare
vegetariano o vegano. Tuttavia, queste scelte non possono essere imposte perchè
riguardano lo spazio della coscienza individuale, ciò nonostante, bisogna prendere
atto della “non sostenibilità” di questo determinato tipo di consumo. I nostri antenati
limitavano l’uso della carne in cucina ad una o due volte alla settimana. Oggi chi non
vuole eliminare il consumo di carne e derivati deve rendersi conto che ha due scelte:
la prima è quella di consumare carne e derivati solo due giorni a settimana ed
acquistare questo tipo di prodotti solo da piccoli allevatori che non usano il sistema
di allevamento intensivo; la seconda possibilità è quella di alimentare il sistema che
sfrutta territori, chi li abita, chi ci lavora e distrugge interi ecosistemi.
Noi vogliamo immaginare che questi meccanismi deleteri possano essere riconosciuti
e abbattuti e per questo vogliamo sperimentare e condividere esperienze culinarie
basate esclusivamente su prodotti di origine vegetale – senza derivati animali.

­ 33 ­
Dunque, il progetto “Cucina Sovversiva” utilizza ingredienti di origine esclusivamente
vegetale e provenienti dagli auto­produttori. Non dobbiamo confondere la Cucina
Sovversiva con la cucina vegana dei supermercati o dei circuiti bio. In tal senso, la
Cucina Sovversiva è molto di più che, esteriormente vegana, opponendosi al business
che la grande distribuzione sta creando attorno a questa nuova tendenza. Crediamo
che comprare prodotti vegani già pronti dallo scaffale del supermercato non è affatto
etico. Spesso questi prodotti sono di origine industriale e prodotti e confezionati oltre
frontiera. Protestare contro l’alta velocità e comprare prodotti con una filiera così
lunga non è per nulla etico, coerente, sovversivo.

Cucina genuina, energia, vitalità e salute.

Ciò che alimenta deve nutrire, aiutare a crescere e non deve distruggere o nuocere.
La Cucina Sovversiva deve essere per quanto possibile salutista senza perciò negare il
piacere del buon cibo. Un’alimentazione prevalentemente vegetale è tendenzialmente
ma non necessariamente salutista. Se cominciassimo a ridurre lo zucchero e ad
evitare il cibo industriale avremmo fatto un primo passo in avanti.
L’eliminazione del cibo industriale ha un carattere non solo salutista ma soprattutto
etico e sociale.
C’è però tutta quella tipologia di cibi definita da fast­food su cui bisogna fare una
riflessione.
Queste catene di punti vendita che fanno riferimento ad una azienda madre da cui
sono obbligati a rifornirsi di tutti i prodotti, usano quasi esclusivamente cibo
surgelato di produzione industriale che ne facilita la preparazione in pochi minuti.
Non possiamo ambire a portare un cambiamento all’interno dei fast­food che in
quanto tali (punti vendita di multinazionali) andrebbero sempre boicottati, però
possiamo riprodurre quel tipo di cibo utilizzando ingredienti provenienti da
autoproduzioni:Ad esempio, il pane bianco possiamo farlo in casa con farina di grano
tenero comprata direttamente dal contadino di fiducia; le patatine possono essere
preparate in tanti modi a partire da patate genuine; e così via per salse, creme e
condimenti: si preparano in poco tempo con ortaggi, legumi e latti vegetali; mentre
hamburger e polpettine vegetali si modellano a partire da cereali, legumi conditi con
spezie.“La Cucina Sovversiva” deve fare anche questo: immaginare una trasformazione
del cibo spazzatura in cibo “sfizioso e salutare” da preparare in casa con facilità.
In questo, viene meno il vincolo alla rinuncia verso questo tipo di cibo, che ancora
attrae tanta gente, da parte di chi vuole rispettare le implicazioni salutiste, e quelle
etiche e sociali di una certa maniera di “fare cucina”.
Di pari passo, va fatto un lavoro di recupero delle ricette delle tradizioni regionali,
spesso definite “povere”, accessibili a tutti, genuine e basate sull’essenzialità degli
ingredienti vegetali, stagionali e su piante selvatiche; ricette rielaborate quando serve
per ricollocarle nella prospettiva visionaria progettuale della “Cucina Sovversiva”.

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Cucina popolare, contro la disuguaglianza e la disparità sociale

La Cucina Sovversiva, come già detto, deve essere chiaramente accessibile a tutti e
non deve comportare costi elevati nella sua applicazione.
Di conseguenza, va escluso l’acquisto di prodotti biologici certificati se non
necessario, per una doppia ragione.
Il biologico certificato è un business che ha il solo scopo di far lievitare i prezzi a
partire dal produttore che ci specula con l’inganno che il bio certificato sia
completamente naturale ed esente, nella coltivazione dall’uso di pesticidi chimici.
In realtà il protocollo biologico, per legge, prevede l’impiego di un certo tipo di
prodotti chimici, vietandone altri, entro certi limiti nella quantità e nel tempo.
Tralasciando le truffe di un certificato che il produttore compra e che come tutto ciò
che si compra si può ottenere facilmente seppure senza requisiti ma con i denari;
possiamo arrivare alla conclusione che in certi circuiti di distribuzione e vendita è
più facile trovare prodotti naturali più biologici di quelli certificati sebbene senza
certificazione perché fuori da logiche speculative. Prezzo e qualità devono orientarci
verso l’acquisto diretto dai produttori dei circuiti delle autoproduzioni. Quando
anche questo diventa difficile, bisogna riuscire a sviluppare rapporti mutuali con gli
stessi produttori provando, per esempio, a scambiare un paio di giornate di lavoro in
campagna con del prodotto.
Senza contare che spesso nella grande distribuzione del biologico certificato viene
meno l’aspetto sociale in quanto trattasi nella maggior parte dei casi di grandi aziende
che attraverso la manodopera di operai alimentano le differenze tra chi si arricchisce
col lavoro di altri e chi è costretto a lavorare per altri, quelli che si arricchiscono, per
poter sopravvivere.
La questione del costo di preparazione dei piatti è, però, fondamentale.
Stabilite le linee fondamentali della Cucina Sovversiva possiamo cedere anche,
talvolta, a dei compromessi cercando di recuperare gli ingredienti principali di un
piatto dagli auto­produttori ed acquistando qualche altra cosa nella grande
distribuzione sia per questioni di reperibilità che per mantenere basso o non alzare
troppo il costo di un piatto.

Intenti ed applicabilità.

A partire da questo manifesto si vuole creare una comunità virtuale che sperimenta e
condivide esperienze, che diffonde questo approccio sovversivo alla cucina e che si
ritrova e si incontra attraverso l’organizzazione di aperitivi e cene sovversive e di
momenti di confronto e dibattito in cui approfondire questioni teoriche e pratiche
legate alla “possibilità di nutrirsi” attraverso un’idea etica, critica,“sovversiva” appunto,
se si pensa alle dinamiche attuale, di “fare cucina”.

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Appendice
La questione del potere di Murray Bookchin
(traduzione dall'inglese di Guido Lagomarsino)
Così, il municipalismo libertario non esclude il potere, un potere concreto, non semplicemente
quella forma alla moda di "potere di autocontrollo", che sovente altro non è che uno stato di
esaltazione emotiva più o meno simile a quello che danno certe droghe. Si tratta di una ripresa
e un'estensione della tesi aristotelica secondo la quale gli essere umani sono costituiti per
vivere come "animali politici". è una comunità strutturata, che possiede una sua costituzione e
una sua legislazione, fondate su basi razionali e democratiche. è formazione degli individui,
membri a pieno titolo del municipio, foggiati eticamente e intellettualmente attraverso un
processo di costruzione del carattere che definiamo paideia. Sono il municipio e la
confederazione di municipi che, grazie alle competenze, al potere armato, alle istituzioni
democratiche e al metodo che affronta problemi e questioni con il dialogo, non solo è in grado
di sostituire lo Stato, ma anche di svolgere le funzioni socialmente necessarie di cui lo Stato si è
appropriato a spese del potere popolare, con la scusa che i suoi appartenenti sarebbero
ragazzini incapaci. È questo il regno della politica, il suo universo reale, che rischia di essere
completamente cancellato da una società che sempre più assomiglia a una Disneyland e che ci
spinge a dar vita a un movimento per riappropriarcene e svilupparlo. Se si lascia che questo
regno della politica sia soffocato all'interno di istituzioni e di attività comunitarie, si perde del
tutto di vista la necessità di ripristinarlo, anzi si svolge un ruolo bambinesco, se non reazionario,
di disgregazione. Lo Stato si giustifica non solo per l'indifferenza dei suoi componenti rispetto
alle faccende pubbliche, ma anche, e soprattutto, per la loro incapacità di gestire queste
faccende. Chiunque si faccia complice di questa apologia ideologica dello statalismo, negando
l'esigenza di un regno della politica o confondendolo superficialmente con la creazione di
cooperative, di istituzioni, di gruppi d'incontro, di feste di strada, di dimostrazioni, di scontri tra
i giovani e "l'autorità", nei panni di patetici e normali lavoratori con addosso le uniformi di
polizia, si fa anche complice di quelle tesi ideologiche secondo le quali la formazione di
assemblee pubbliche dotate di pieni poteri sarebbe una forma di statismo e la "libertà" sarebbe
raggiungibile semplicemente tirando un mattone a un poliziotto o creando una "zona
temporaneamente autonoma".
Non voglio certo ignorare i giganteschi problemi che comporta questo insieme di concetti. è
importantissimo il tipo di movimento (anzi di "avanguardia", un termine abusato, che la Nuova
Sinistra ha guastato associandolo ai bolscevichi) che va creato, che deve svolgere un ruolo
educativo e, ebbene sì, di leadership, indispensabile per generare le trasformazioni richieste dal
municipalismo libertario. Consentitemi, intanto, di dissociarmi da I.S. Bleihkman, il massimo
esponente dei comunisti anarchici di Pietrogrado che, quando i marinai di Kronstadt, insieme
alla guarnigione di Pietrogrado e agli operai più coscienti decisero di "uscire allo scoperto" con
le armi in pugno, nel luglio del 1917, per costituire un governo sovietico, rispondeva all'appello
a organizzarsi con la stupida parola d'ordine: "Saranno le strade a organizzarvi!" Le strade,
manco a dirlo non organizzarono un bel niente e nessuno e, mancando una vera leadership,
l'insurrezione fallì nel giro di pochi giorni.

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Anarchismo e Federalismo
da “Federalismo Libertario” di Camillo Berneri a cura di Patrizio Mauti. ­ Ragusa : La Fiaccola, 1992.

Carlo Molaschi risponde a Gigi Damiani, che propone un avvicinamento, da parte nostra, agli elementi
sovversivi federalisti, dicendo che sarebbe d’accordo, se tali elementi esistessero. Egli dice che i
repubblicani hanno dimenticato il loro federalismo per l’influenza unitaria esercitata da Mazzini e che i
sindacalisti non possono dare garanzie perché non hanno un atteggiamento ben determinato. Quello che
dice Molaschi è vero, ma solo in parte. Che la generalità dei repubblicani abbia seguito, e segua tuttora,
Mazzini, invece di Ferrari e di Cattaneo, è vero, ma è anche vero che vi è un forte gruppo di repubblicani
che continuano la tradizione federalista, arricchendola ed elaborandola. Basta, per esempio, la lettura della
rivista La critica politica per convincersene. I repubblicani federalisti hanno, bisogna riconoscerlo, fatto
molto più di noi, nel campo teorico! Noi siamo ancora al federalismo di Bakunin, che a Molaschi pare, a
quanto sembra, non plus ultra. E questo è un grave segno. Dimostra che non abbiamo fatto che pochi passi
più in là dei maestri. Molaschi, opponendosi al revisionismo, dice: «Rimaniamo fedeli al buon anarchismo di
cinquant’anni or sono che è sempre giovane, gagliardo, pieno di promesse per il vicino domani».
Bisogna intenderci: l’anarchismo di cinquant’anni or sono è sempre giovane, e lo sarà anche fra
cinquant’anni e anche più, nel senso che contiene delle verità che sono ben lontane dall’essere smentite,
anzi rifulgono di nuova luce sullo sfondo dei fatti. Ma le ideologie di cinquant’anni fa sono sorpassate. Lo
dimostra uno dei più vecchi e più giovani compagni nostri, Malatesta, che sta esaminando i vari problemi
della rivoluzione con criteri che differiscono da quelli da lui adottati cinquant’anni fa e che contrastano
con la gretta e pigra mentalità di molti compagni che trovano piùcomodo ruminare il verbo dei maestri
che affrontare i problemi vasti e complessi della questione sociale quale si presenta oggi. Siamo immaturi.
Lo dimostra il fatto che s’è discussa l’Unione Anarchica sottilizzando sulle parole partito, movimento, senza
capire che la questione non era di forma, ma di sostanza, e che quello che ci manca non è l’esteriorità del
partito, ma la coscienza del partito? Che cosa intendo per coscienza di partito? Intendo qualche cosa di più
del lievito passionale di un’idea, della generica esaltazione di ideali. Intendo il contenuto specifico di un
programma di parte. Noi siamo sprovvisti di coscienza politica nel senso che non abbiamo consapevolezza
dei problemi attuali e continuiamo a diluire soluzioni acquisite dalla nostra letteratura di propaganda.
Siamo avveniristi, e basta. Il fatto che ci sono editori nostri che continuano a ristampare gli scritti dei
maestri senza mai aggiornarli con note critiche, dimostra che la nostra cultura e la nostra propaganda sono
in mano a gente che mira a tenere in piedi la propria azienda, invece che a spingere il movimento ad uscire
dal già pensato per sforzarsi nella critica, cioè nel pensabile. Il fatto che vi sono dei polemisti che cercano
di imbottigliare l’avversario invece di cercare la verità, dimostra che fra noi ci sono dei massoni, in senso
intellettuale.Aggiungiamo i grafomani pei quali l’articolo è uno sfogo o una vanità ed avremo un complesso
di elementi che intralciano il lavorio di rinnovamento iniziato da un pugno di indipendenti che danno a
sperar bene. L’anarchismo deve essere vasto nelle sue concezioni, audace, incontentabile. Se vuol vivere,
adempiendo la sua missione d’avanguardia, deve differenziarsi e conservare alta la sua bandiera anche se
questo può isolarlo nella ristretta cerchia dei suoi. Ma questa specificità del suo carattere e della sua
missione non esclude un migliore incuneamento della sua azione nelle fratture della società che muore e
non nelle costruzioni aprioristiche degli architetti del futuro. Come nelle ricerche scientifiche l’ipotesi può
illuminare la strada delle indagini, quando si sia capaci di spegnere questa luce se essa risulta falsa,
l’anarchismo deve conservare quel complesso di principi generici che costituiscono la base del suo

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pensiero e l’alimento passionale della sua azione, ma deve sapere affrontare il complicato meccanismo
della società odierna senza occhiali dottrinari e senza eccessivi attaccamenti all’integrità della sua fede. Il
nemico è là: è lo Stato. Ma lo Stato non è solo un organismo politico, strumento di conservazione delle
ineguaglianze sociali; è anche un organismo amministrativo.
Come impalcatura amministrativa lo Stato non si può abbattere. Si può cioè smontare e rimontare, ma non
negarlo, poiché ciò arresterebbe il ritmo della vita della nazione, che batte nelle arterie ferroviarie, nei
capillari telefonici, ecc. Federalismo! È una parola. È una formula senza contenuto positivo. Che cosa ci
danno i maestri? Il presupposto del federalismo: la concezione antistatale, concezione politica e non
impostazione tecnica, paura dell’accentramento e non progetti di decentramento. Ecco, invece, un tema di
studio: lo Stato nel suo funzionamento amministrativo. Ecco un tema di propaganda: la critica sistematica
allo Stato come organo amministrativo accentrato, quindi incompetente ed irresponsabile. Ogni giorno la
cronaca ci offre materia a tale critica: milioni sperperati in cattive speculazioni, in lungaggini burocratiche;
polveriere che saltano in aria per incuria di uffici «competenti»; ladrocini su larga e piccola scala, ecc. ecc.
Una sistematica campagna di questo genere potrebbe attirare su di noi l’attenzione di molti che non si
scomporrebbero affatto leggendo Dio e lo Stato. Dove trovare coloro che possono alimentare regolarmente
questa campagna? Gli uomini ci sono. Bisogna che si facciano vivi. Ci vuole una mobilitazione! Ingegneri,
impiegati, dottori, studenti, operai, tutti vivono a contatto dello Stato o per lo meno di grandi aziende. Quasi
tutti possono osservare i danni della cattiva amministrazione: gli sperperi degli incompetenti, i ladrocini dei
farabutti, gli intoppi degli organismi mastodontici. È l’ora di finirla coi farmacisti dalle formulette
complicate, che non vedono più in là dei loro barattoli pieni di fumo; è l’ora di finirla coi chiacchieroni che
ubriacano il pubblico di belle frasi risonanti; è l’ora di finirla con i semplicisti, che hanno tre o quattro idee
inchiodate nella testa e fanno da vestali al fuoco fatuo dell’Ideale distribuendo scomuniche. Bisogna
ritornare al federalismo! Non per adagiarsi sul divano della parola dei maestri, ma per creare il federalismo
rinnovato e irrobustito dallo sforzo di tutti i buoni, di tutti i capaci. Chi ha un grano di intelligenza e di
buona volontà sforzi il proprio pensiero, cerchi di leggere nella realtà qualche cosa di più di quel che si
legge nei libri e giornali. Studiare i problemi odierni vuol dire sradicare le idee non pensate, vuol dire
allargare la sfera del proprio influsso di propagandista, vuol dire far fare un passo avanti, anzi un bel salto in
lunghezza, al nostro movimento. Bisogna cercare le soluzioni affrontando i problemi. Bisogna che ci
formiamo un nuovo abito mentale. Come il naturalismo superò la scolastica medioevale leggendo nel gran
libro della natura invece che sui testi aristotelici, l’anarchismo supererà il pedante socialismo scientifico, il
comunismo dottrinario chiuso nelle sue caselle aprioristiche, e tutte le altre ideologie cristallizzate. Io
intendo per anarchismo critico un anarchismo che senza essere scettico, non s’accontenta delle verità
acquisite, delle formule sempliciste, un anarchismo idealista ed insieme realista, un anarchismo, insomma,
che innesta verità nuove al tronco delle sue verità fondamentali, sapendo potare i suoi vecchi rami. Non
opera di facile demolizione, di nullismo ipercritico, ma rinnovamento che arricchisce il patrimonio
originale e gli aggiunge forze e bellezze nuove. E quest’opera la dobbiamo fare ora, poiché domani
dovremo riprendere la lotta, che mal si concilia con pensiero, specie per noi che non possiamo mai ritirarci
sotto la tenda quando infuria la battaglia.

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Ringrazio Simona per aver seguito e incoraggiato la nascita e lo sviluppo di questo
testo, per aver curato la correzione dei testi e per i preziosi suggerimenti.

Collettivo libertario "Rivoltiamo La Terra" è:

sul web attraverso il sito di controinformazione magozine.it

su facebook "Rivoltiamo La Terra"

https://www.facebook.com/rivoltiamolaterra
"Il lavoro, il ruolo dei poteri politici ed economici, e piani più alti di
controllo.Qual è lo spazio della rivendicazione individuale e sociale in un
simile contesto attuale? Tale pubblicazione tenta di disegnare dei percorsi per
costruire un progetto di lavoro cooperativo, di auto­occupazione per
riappropriarsi del potere sottraendolo alla centralizzazione. Seguendo la via
dell’esperienza di lotta curda, e spagnola della “Rivoluzione Integrale” per
perseguire un obiettivo chiaro e di coinvolgere migliaia di persone. Non nella
piazza che manifesta, o non solo, ma direttamente: nella politica
autogestionaria e in processi economici comunitari.

“Mezza Rivoluzione” è un'espressione enfatica che allude simbolicamente e


provocatoriamente ad una “Rivoluzione a metà” perché certamente non ha la
pretesa di realizzare l’utopia socialista; ma punta su quel percorso
autogestionario che si avvia sia nella costruzione di un percorso economico
con tutte le realtà che decidono di allontanarsi dal sistema capitalista, sia nella
costruzione di un percorso politico locale/municipale di autogoverno con
tutte le individualità interessate"

Il municipalismo libertario vuole raggiungere il potere, non vuole


semplicemente sfruttare la rivendicazione del potere a scopi di
propaganda e di spettacolo, e non respinge l'uso del potere, ma
vuole darlo in mano alla gente nelle assemblee popolari.
M. Bookchin

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