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LIBERO
TOM NICHOLS
Prefazione
Introduzione
La fine della competenza
Cosa ci aspetta
Capitolo 1
Esperti e cittadini
Una nazione di “spiegatori”
È una cosa nuova?
Quindi non è una novità. Ma è davvero un problema?
L’ascesa dell’elettore a basso tasso di informazione
Esperti e cittadini
Capitolo 2
Perché la conversazione è diventata estenuante
Un dibattito, per favore
Forse siamo soltanto ottusi
Bias di conferma: perché lo sapevi già
Leggende popolari, superstizioni e teorie del complotto
Stereotipi e generalizzazioni
Io sto bene, tu stai bene – cioè, quasi
Capitolo 3
Istruzione superiore. Il cliente ha sempre ragione
Quei magici sette anni
Benvenuti, clienti!
Posso mandarti un’email?
L’università generica
Giudicami con dolcezza
Il college non è uno spazio sicuro
Capitolo 4
Ora lo cerco su Google. Come l'informazione illimitata ci rende più
stupidi
Il ritorno della legge di Sturgeon
Cos’è falso su internet: tutto
Certo che è sicuro, l’ho trovato su Google
La saggezza delle mega-folle
Ti tolgo l’amicizia
Capitolo 5
Il nuovo New Journalism, a vagonate
L’ho letto sul giornale
Il troppo stroppia, anche di una cosa buona
Radio killed the video star
L'America in ostaggio: giorno 15.000
Non fidarti di nessuno
I telespettatori sono più intelligenti degli esperti?
Cosa fare
Capitolo 6
Quando gli esperti si sbagliano
Gli esperti sono pregati di non presentarsi
I tanti volti dell’insuccesso
Quando gli esperti diventano cattivi
Credevo studiassi medicina
Io prevedo!
Ricucire il rapporto
Conclusione
Esperti e democrazia
“Gli esperti sono terribili”
Competenza e democrazia: la spirale della morte
Quelli che sanno e quelli che decidono
Una repubblica, se sapete che cos’è
Io valgo quanto te
La ribellione degli esperti
Per Lynn Marie Nichols
e Hope Virginia Nichols,
moglie esperta e figlia senza pari
Prefazione
“La fine della competenza” è una di quelle frasi che annunciano in modo
pomposo la propria presunzione. È un titolo che rischia di respingere molti
lettori ancor prima che aprano il libro, quasi sfidandoli a trovare un errore da
qualche parte, solo per poter tacciare l’autore di arroganza. Comprendo questo
tipo di reazioni, perché anch’io la penso allo stesso modo nei confronti di
dichiarazioni tanto assolute. La nostra vita culturale e letteraria è piena di
funerali prematuri: la vergogna, il buonsenso, la mascolinità, la femminilità,
l’infanzia, il buongusto, l’alfabetizzazione, la punteggiatura, ecc. L’ultima cosa
di cui abbiamo bisogno è l’ennesimo panegirico per una cosa che, lo
sappiamo, non è affatto morta.
Se le competenze di settore non sono morte, sono però nei guai. Qualcosa è
andato terribilmente storto. Oggi l’America è un Paese ossessionato dal culto
della propria ignoranza. Il punto non è soltanto che la popolazione non ne sa
molto di scienze, di politica o di geografia (di fatto è così, ma è un vecchio
problema). E, in verità, non è neanche un problema, poiché viviamo in una
società che funziona grazie alla divisione del lavoro, sistema ideato per
liberare ciascuno di noi dalla necessità di sapere tutto. I piloti fanno volare gli
aeroplani, gli avvocati dibattono le cause legali, i medici prescrivono farmaci.
Nessuno di noi è Leonardo da Vinci, che dipingeva la Gioconda al mattino e
progettava elicotteri di notte. E così dev’essere.
No, il problema più grande è che siamo orgogliosi di non sapere le cose. Gli
americani sono arrivati a considerare l’ignoranza, soprattutto su ciò che
riguarda la politica pubblica, una vera e propria virtù. Per gli americani
rifiutare l’opinione degli esperti significa affermare la propria autonomia, un
modo per isolare il proprio ego sempre più fragile e non sentirsi dire che
stanno sbagliando qualcosa. È una nuova Dichiarazione di indipendenza: non
riteniamo più ovvie queste verità, le consideriamo tutte ovvie, anche quelle che
vere non sono. Tutte le cose sono conoscibili e ogni opinione su un qualsiasi
argomento vale quanto quella di chiunque altro.
Non siamo di fronte alla tradizionale avversione americana per gli
intellettuali e i sapientoni. Sono un professore e lo capisco bene: alla maggior
parte delle persone i professori non piacciono. A inizio carriera, quando
cominciai a insegnare, circa trent’anni fa, lavoravo in un college non distante
dalla mia città di origine e spesso facevo un salto alla piccola tavola calda di
proprietà di mio fratello per salutarlo. Una sera, dopo che me ne fui andato,
uno dei clienti abituali si rivolse a mio fratello e disse: “E quindi è un
professore, eh? Sembra un tipo a posto, però”. Se fai il mio lavoro, ci fai
l’abitudine.
Ma non è questo il motivo per cui ho scritto il libro che tenete in mano. Gli
intellettuali che si arrabbiano per le battute taglienti sulla loro inutilità
dovrebbero cambiare lavoro. Ho fatto l’insegnante, il consulente politico,
l’esperto di temi specifici sia per il governo sia per l’industria privata e il
commentatore su diversi media. Sono abituato al fatto che la gente non si trovi
d’accordo con me; anzi, è un atteggiamento che incoraggio. I dibattiti
informati su questioni di principio sono un segno di salute e di vitalità
intellettuale in una democrazia.
Piuttosto, ho scritto questo libro perché sono preoccupato. Non ci sono più
dibattiti informati su questioni di principio. Il sapere di base dell’americano
medio è ormai talmente basso da essere crollato prima al livello di
“disinformazione”, superando nello slancio la “cattiva informazione”, e ora sta
sprofondando nella categoria “errore aggressivo”. La gente non solo crede alle
sciocchezze, si oppone anche attivamente a imparare di più, pur di non
abbandonare le proprie errate convinzioni. Non sono vissuto al tempo del
Medioevo, per cui non posso dire che assistiamo a qualcosa di mai visto
prima, ma finora, che io ricordi, non ho mai visto nulla del genere.
E non è la prima volta che mi sono ritrovato a pensare a questo argomento.
Verso la fine degli anni Ottanta, quando lavoravo a Washington, mi resi conto
che la gente ci metteva poco, anche in una conversazione superficiale, a
istruirmi su cosa andava fatto in tutta una serie di settori, soprattutto in quelli
di cui mi occupavo, ovvero il controllo degli armamenti e la politica estera
(come al solito, si trattava di ciò che “gli altri” avrebbero potuto fare: “loro
dovrebbero…”). Ero giovane e ancora non potevo considerarmi un esperto
navigato, ma mi stupì il modo in cui persone che non sapevano nulla di questi
argomenti mi tenessero con grande disinvoltura lezioni su come ottenere la
pace tra Mosca e Washington.
Fino a un certo punto era comprensibile. La politica sollecita la discussione.
E soprattutto durante il periodo della Guerra Fredda, quando la posta in gioco
era l’annientamento globale, la gente voleva essere ascoltata. Ho accettato
questo fatto, convinto che facesse parte del prezzo da pagare per chi lavora nel
mondo della politica pubblica. Con il passare del tempo, ho scoperto che altri
specialisti di diverse aree di intervento politico avevano avuto la mia stessa
esperienza ed erano stati sottoposti a disquisizioni infondate, da parte di
profani, su tasse, bilanci, immigrazione, ambiente e mille altri argomenti. Se
sei un esperto di politica, questo fa parte del tuo lavoro.
In anni più recenti, tuttavia, ho iniziato a sentire lo stesso tipo di storie dai
medici. E dagli avvocati. E dagli insegnanti. E infine da molti altri
professionisti, il cui parere in genere non è facile da contraddire. Questi
racconti mi hanno stupito: non riguardavano pazienti o clienti che ponevano
domande ragionevoli, bensì pazienti e clienti che dicevano energicamente a
dei professionisti perché la loro opinione era sbagliata. In ogni caso, l’idea che
l’esperto sapesse cosa stava facendo veniva scartata quasi senza pensarci.
Quel che è peggio, oggi a colpirmi non è tanto il fatto che la gente rifiuti la
competenza, ma che lo faccia con tanta frequenza e su così tante questioni, e
con una tale rabbia. Di nuovo, forse gli attacchi alla competenza sono più
evidenti per via dell’onnipresenza di internet, dell’indisciplina che governa le
conversazioni sui social media o delle sollecitazioni poste dal ciclo di notizie
ventiquattr’ore su ventiquattro. Ma l’arroganza e la ferocia di questo nuovo
rifiuto della competenza indicano, almeno per me, che il punto non è più non
fidarsi di qualcosa, metterla in discussione o cercare alternative: è una miscela
di narcisismo e disprezzo per il sapere specialistico, come se quest’ultimo
fosse una specie di esercizio di autorealizzazione.
Ciò rende molto più difficile per gli esperti ribattere e convincere la gente a
ragionare. A prescindere dall’argomento, la discussione viene sempre rovinata
da un rabbioso egocentrismo e termina senza che nessuno abbia cambiato
posizione, a volte con la compromissione di relazioni professionali o perfino
di amicizie. Invece di dibattere, oggi ci si aspetta che gli esperti accettino
queste espressioni di dissenso, come se fossero, nel peggiore dei casi,
un’onesta divergenza di opinioni. Dovremmo “accettare di non essere
d’accordo” (agree to disagree), espressione che ormai è usata in modo
indiscriminato come una specie di estintore quando una conversazione tende a
infiammarsi. E se insistiamo nel dire che alcune cose non sono questioni di
opinione, che ci sono cose giuste e altre sbagliate… be’, a quanto pare ci
stiamo solo comportando da rompiscatole.
È possibile, credo, che io sia solamente un sintomo di ricambio
generazionale. Sono cresciuto negli anni Sessanta e Settanta, un’epoca in cui
forse c’era troppa deferenza nei confronti degli esperti. Erano i giorni
inebrianti in cui l’America era in prima linea, non solo in ambito scientifico,
ma anche nella leadership internazionale. I miei genitori erano persone
informate ma non istruite che, come molti americani, davano per scontato che
gli stessi individui che erano riusciti a portare l’uomo sulla Luna
probabilmente avevano ragione su gran parte delle altre cose importanti. Non
sono cresciuto in un ambiente di totale obbedienza all’autorità, ma in generale
la mia famiglia era piuttosto ordinaria nella convinzione che chi lavorava in
ambiti specialistici, dalla podologia alla politica, sapesse il fatto suo.
Come giustamente sottolineano i detrattori della competenza, in quei giorni
ci fidavamo delle persone che avevano fatto atterrare Neil Armstrong nel mare
Tranquillitatis, ma anche di chi aveva spedito molti americani meno famosi in
posti come Khe Sanh e la valle di Ia Drang in Vietnam. La fiducia della
popolazione, nei confronti tanto degli esperti quanto dei leader politici, non
solo era mal riposta, ma era vittima di un vero e proprio abuso.
Ora, comunque, siamo andati nella direzione opposta. Non con un sano
scetticismo nei confronti degli esperti, ma con il deciso risentimento di molti,
convinti che gli esperti si sbaglino per il semplice fatto di essere tali.
Fischiamo i “cervelloni” – un termine che adoperiamo con una rinnovata
accezione dispregiativa – mentre spieghiamo ai nostri medici quali farmaci ci
occorrono o insistiamo nel dire agli insegnanti che le risposte dei nostri figli a
una prova d’esame sono giuste anche se sono sbagliate. Non solo tutti sono più
bravi di chiunque altro, ma tutti pensiamo di essere le persone più intelligenti
mai vissute sulla terra.
E non potremmo avere più torto di così.
Devo ringraziare molte persone che mi hanno assistito nella realizzazione di
questo libro e liberarne molte altre da qualsiasi legame con le opinioni che il
volume esprime e le conclusioni che trae.
Nel 2013 ho scritto un post dal titolo “La fine della competenza” per il mio
blog personale, The War Room. Quel post è stato notato da Sean Davis di The
Federalist che mi ha contattato per chiedermi di trarne un articolo. Sono grato
a Sean e a The Federalist per aver ospitato quel pezzo, che è stato letto da oltre
un milione di persone in tutto il mondo. Poi l’ha visto anche David McBride
della Oxford University Press, che mi ha scritto invitandomi a trasformarne la
tesi principale in un libro. La sua guida e i suoi consigli editoriali sono stati
fondamentali per arricchire e approfondire l’argomento, e sono grato a lui e
alla Oxford, oltre che ai lettori anonimi che hanno esaminato la mia proposta,
per aver reso possibile la pubblicazione del libro.
Mi ritengo molto fortunato di lavorare allo US Naval War College, e molti
miei colleghi, tra cui David Burbach, David Cooper, Steve Knott, Derek
Reveron e Paul Smith, hanno offerto commenti e materiali. Ma le opinioni e
le conclusioni contenute in questo libro sono mie e non rappresentano in alcun
modo il pensiero di altre istituzioni o agenzie del governo statunitense.
Vari amici e corrispondenti che esercitano diverse professioni sono stati così
gentili da fare commenti, leggere capitoli o dare risposte a una gran varietà di
domande che ricadevano al di fuori della mia area di competenza: tra questi
Andrew Facini, Ron Granieri, Tom Hengeveld, Dan Kaszeta, Kevin Kruse,
Rob Mickey, Linda Nichols, Brendan Nyhan, Will Saletan, Larry Sanger,
John Schindler, Josh Sheehan, Robert Trobich, Michael Weiss, Salena Zito e
soprattutto Dan Murphy e Joel Engel. Devo un ringraziamento speciale a
David Becker, Nick Gvosdev e Paul Midura per i loro commenti a diverse
stesure del manoscritto.
Sono estremamente grato alla Harvard Extension School, non solo per
l’opportunità che mi ha offerto di insegnare nel suo corso, ma anche per i
numerosi ed eccellenti assistenti di ricerca che l’Extension mette a
disposizione della facoltà. Kate Arline è stata un’assistente preziosissima per
questo progetto: ha risposto anche alle mie richieste più strambe con rapidità e
aplomb (volete sapere quanti fast food hanno aperto in America a partire dal
1959? Kate riesce a scoprirlo). Qualsiasi errore nei dati o nella loro
interpretazione presente in questo libro, tuttavia, è mio e solo mio.
Scrivere un libro può essere un’esperienza magnifica e avvincente per
l’autore, ma molto meno per le persone che gli sono accanto. Mia moglie
Lynn e mia figlia Hope sono state come sempre molto pazienti durante la
stesura del libro e vanto nei loro confronti un grosso debito di gratitudine per
avermi sopportato. Il libro è dedicato a entrambe, con amore.
Infine, devo ringraziare le persone che mi hanno aiutato ma che, per ovvie
ragioni, desiderano restare anonime. Sono grato a molti professionisti, medici,
giornalisti, avvocati, educatori, analisti politici, scienziati, accademici, esperti
militari e altri che hanno condiviso le proprie esperienze e hanno raccontato le
loro storie perché le raccogliessi in questo libro. Non avrei potuto scriverlo
senza di loro.
Spero che in qualche modo questo testo aiuti loro e altri esperti a svolgere il
proprio lavoro. Ma alla fine i clienti di un professionista sono persone
appartenenti alla società in cui vive e quindi spero in particolar modo che
questo volume aiuti i miei concittadini ad avvalersi in modo migliore degli
esperti ai quali tutti noi ci affidiamo e a comprenderli maggiormente. Più di
qualsiasi altra cosa, spero che il libro contribuisca a risanare la frattura tra
esperti e profani che sulla lunga distanza minaccia non solo il benessere di
milioni di americani, ma anche la sopravvivenza del nostro esperimento
democratico.
INTRODUZIONE
La fine della competenza
COSA CI ASPETTA
Tutti noi li abbiamo incontrati. Sono nostri colleghi, nostri amici, membri
della nostra famiglia. Sono giovani e vecchi, ricchi e poveri, alcuni con
un’istruzione, altri armati solo di un computer portatile o della tessera di una
biblioteca. Ma tutti hanno una cosa in comune: sono persone mediocri che
credono di essere dei pozzi di scienza. Convinti di essere più informati degli
esperti, di avere conoscenze più ampie dei professori e maggiore acume
rispetto alle masse credulone, sono gli “spiegatori”, sempre felicissimi di
illuminare noi e gli altri su qualsiasi argomento, dalla storia dell’imperialismo
ai pericoli dei vaccini.
Accettiamo le persone di questo tipo e ci rassegniamo alla loro presenza, se
non altro perché sappiamo che in fondo sono animate da buone intenzioni.
Proviamo anche un certo affetto nei loro confronti. Una sitcom televisiva degli
anni Ottanta, Cin cin, per esempio, ha immortalato il personaggio del
tuttologo Cliff Clavin, postino di Boston e assiduo frequentatore di bar. Cliff,
come le sue controparti della vita reale, iniziava ogni frase dicendo “alcuni
studi hanno dimostrato che…” oppure “è risaputo che…”. Gli spettatori
amavano Cliff perché tutti conoscevano qualcuno come lui: lo zio stravagante
in una cena durante le feste, il giovane studente tornato a casa dopo il primo
cruciale anno di college.
Potevamo trovare addirittura tenere queste persone, perché erano bizzarre
eccezioni in un Paese che rispettava i pareri degli esperti e si affidava a essi.
Ma negli ultimi decenni qualcosa è cambiato. Lo spazio pubblico è sempre più
dominato da un variegato assortimento di individui poco informati, molti dei
quali sono autodidatti sprezzanti dell’educazione formale che tendono a
minimizzare il valore dell’esperienza. “Se per essere presidente è necessario
avere esperienza,” ha dichiarato il disegnatore e scrittore Scott Adams durante
le elezioni del 2016 “ditemi un argomento politico che non riuscirei a
padroneggiare in un’ora sotto la tutela dei migliori esperti”, come se una
discussione con un esperto equivalesse a copiare informazioni dal disco di un
computer a un altro. Si va affermando una specie di legge di Gresham
intellettuale: laddove in passato la regola era “la moneta cattiva scaccia quella
buona”, ora viviamo in un’epoca in cui la disinformazione scaccia il sapere.
E questo non è affatto un buon segno. Una società moderna non può
funzionare senza una divisione sociale del lavoro e senza fare affidamento su
esperti, professionisti e intellettuali (per il momento utilizzerò queste tre
parole in modo intercambiabile). Nessuno è esperto di tutto. A prescindere da
quali siano le nostre aspirazioni, siamo vincolati dalla realtà del tempo e dai
limiti innegabili del nostro talento. Prosperiamo perché ci specializziamo e
perché sviluppiamo meccanismi formali e informali che ci permettono di
fidarci reciprocamente per le rispettive specializzazioni.
All’inizio degli anni Settanta, lo scrittore di fantascienza Robert Heinlein
coniò la massima, da allora molto citata, secondo cui “la specializzazione va
bene per gli insetti”. Gli esseri umani veramente capaci, scriveva, dovrebbero
saper fare quasi tutto, da cambiare un pannolino a comandare una nave da
guerra. È un nobile sentimento che celebra l’adattabilità e la resilienza umana,
ma è sbagliato. Anche se c’è stato un tempo in cui ogni colono abbatteva gli
alberi necessari a costruirsi da solo la propria casa, questa pratica non soltanto
era inefficiente, ma produceva alloggi rudimentali.
C’è un motivo se non facciamo più le cose a quel modo. Quando costruiamo
grattacieli, non ci aspettiamo che il metallurgista in grado di realizzare una
trave, l’architetto che progetta l’edificio e il vetraio che installa le finestre
siano la stessa persona. È per questo che possiamo goderci la vista della città
dal centesimo piano: ogni esperto, pur possedendo conoscenze che in parte si
sovrappongono, rispetta le capacità professionali di molti altri specialisti e si
concentra su ciò che sa fare meglio. La fiducia e la collaborazione tra gli
esperti portano a un risultato finale superiore a quello di qualsiasi prodotto che
avrebbero potuto realizzare da soli.
La verità è che non possiamo funzionare se non ammettiamo i limiti del
nostro sapere e non ci fidiamo delle competenze altrui. A volte ci opponiamo
a questa conclusione perché sconvolge il nostro senso di indipendenza e di
autonomia. Vogliamo credere di essere in grado di prendere tutte le decisioni
e ci irritiamo se qualcuno ci corregge, ci dice che stiamo sbagliando o ci dà
spiegazioni su argomenti che non capiamo. Questa naturale reazione umana in
un individuo è pericolosa quando diventa una caratteristica condivisa da intere
società.
Così, nella vita intellettuale, che per la sua stessa essenza richiede e presuppone la qualità, si avverte
il progressivo trionfo degli pseudo-intellettuali senza qualifica, inqualificabili o squalificati per la
loro stessa struttura. […]
Forse sono in errore; però lo scrittore, nel prendere la penna per scrivere intorno a un tema che ha
studiato a lungo, deve pensare che il lettore medio, il quale non si è occupato mai dell’argomento, se
lo legge, non lo fa col proposito d’apprendere qualcosa da lui, ma al contrario, per sentenziare su di
lui quando il pensiero non coincide con le volgarità che questo lettore ospita nella mente.4
In termini che non sembrerebbero fuori luogo nella nostra epoca, Ortega y
Gasset attribuiva l’ascesa di un pubblico sempre più potente ma sempre più
ignorante a molti fattori, tra cui la ricchezza materiale, la prosperità e le
scoperte scientifiche.
L’attaccamento americano all’autonomia intellettuale descritto da
Tocqueville è sopravvissuto per quasi un secolo prima di cadere, colpito da
una serie di assalti interni ed esterni. La tecnologia, l’istruzione secondaria
universale, la proliferazione di competenze specialistiche e l’ascesa degli Stati
Uniti come potenza globale alla metà del Ventesimo secolo sono tutti fattori
che hanno indebolito l’idea – o, più precisamente, il mito – che l’americano
medio fosse adeguatamente attrezzato per affrontare le sfide della vita
quotidiana o per gestire l’andamento di un grande Paese.
Più di mezzo secolo fa, il politologo Richard Hofstadter scrisse che “la
complessità della vita moderna ha ridotto continuamente le funzioni che il
cittadino comune, con l’intuito e con l’intelligenza, può assolvere da sé”.
Nell’originario sogno populistico americano, l’“onnicompetenza” dell’uomo comune era
fondamentale e assolutamente necessaria. Si pensava che senza bisogno di una grande preparazione
egli potesse esercitare qualsiasi professione e dirigere il governo. Oggi l’uomo comune sa che non
potrebbe fare neppure colazione se non ci fossero le valute, più o meno misteriose per lui, che gli
esperti hanno messo a sua disposizione; e quando si siede per fare colazione e dà un’occhiata al
giornale del mattino, si trova sotto gli occhi tutta una sfilza di questioni vitali e intricate, e se è
sincero con sé stesso, riconosce di non avere nella maggioranza dei casi la competenza per
giudicare.5
Gli specialisti di ambiti particolari sono inclini a pensare che tutti gli altri
dovrebbero nutrire lo stesso interesse per il loro settore. Ma chi ha davvero
bisogno di sapere tutte queste cose? La maggior parte degli esperti di affari
internazionali avrebbe difficoltà a superare un test basato su mappe di territori
al di fuori della propria area di specializzazione, quindi che male c’è se l’uomo
medio non ha idea della posizione esatta del Kazakistan? Dopotutto, quando
nel 1994 iniziò il genocidio ruandese, dovettero mostrare al futuro segretario
di Stato Warren Christopher la posizione del Ruanda. Quindi, perché noialtri
dovremmo avere questo tipo di nozioni?
Nessuno può padroneggiare tutte queste informazioni. Facciamo del nostro
meglio e quando abbiamo bisogno di sapere qualcosa consultiamo le migliori
fonti che riusciamo a scovare. Ricordo di aver chiesto al mio insegnante di
chimica della scuola superiore (un uomo che ero certo sapesse tutto) il
numero atomico di un certo elemento, in parte per sfidarlo ma soprattutto
perché ero troppo pigro per cercarlo da solo. Sollevò un sopracciglio e disse
che non lo conosceva. Poi indicò la tavola periodica degli elementi appesa al
muro dietro di sé e disse: “Questo è il motivo per cui gli scienziati utilizzano
le tabelle, Tom”.
Senza dubbio, alcune delle lamentele degli esperti riguardo ai profani sono
ingiuste. Neanche il genitore più attento, il cliente più informato o l’elettore
dotato di maggior senso civico può tenere il passo con il fiume di
informazioni che ci inonda su qualsiasi argomento, dalla nutrizione infantile
alla sicurezza dei prodotti alla politica commerciale. Se i cittadini comuni
potessero assorbire tutte queste informazioni, non avrebbero certo bisogno di
esperti.
La fine della competenza, tuttavia, è un problema diverso rispetto al dato
storico dei bassi livelli di informazione tra i profani. La questione non è
l’indifferenza di fronte ai saperi consolidati; è l’emergere di un’ostilità assoluta
nei confronti di tali saperi. Questo è un fenomeno nuovo nella cultura
americana: si tratta di un processo di aggressiva sostituzione delle opinioni
degli esperti o dei saperi consolidati con la convinzione che, qualsiasi sia la
materia, tutte le opinioni siano altrettanto valide. È un cambiamento notevole
nel nostro dibattito pubblico.
Questo cambiamento non solo è del tutto nuovo, ma è anche pericoloso. La
diffidenza nei confronti degli esperti e gli atteggiamenti più anti-intellettuali
che la accompagnano sono problemi che dovrebbero essere in via di
miglioramento e che invece stanno peggiorando. Quando il professor Somin e
altri osservano che l’ignoranza della popolazione non è peggiore rispetto a un
secolo fa, questo in sé dovrebbe essere causa di allarme, se non di panico.
Mantenere la posizione non è un risultato sufficiente. Infatti la posizione
potrebbe non reggere affatto: la fine della competenza in realtà minaccia di
ribaltare il sapere acquisito nel corso di anni per opera di quelle persone che
credono di saperne di più di quanto sia effettivamente vero. È una minaccia
per il benessere materiale e civico dei cittadini di una democrazia.
Sarebbe facile liquidare la diffidenza nei confronti del sapere costituito
attribuendola allo stereotipo del cafone sospettoso e ignorante che rifiuta i
modi misteriosi dei cervelloni metropolitani. Ma ancora una volta la realtà è
molto più inquietante: le campagne contro il sapere costituito sono guidate da
persone da cui sarebbe lecito aspettarsi di meglio.
Nel caso dei vaccini, per esempio, la scarsa partecipazione ai programmi di
vaccinazione infantile in realtà non è un problema che riguarda le madri di
provincia poco scolarizzate. Quelle madri devono accettare di vaccinare i loro
figli, perché è un requisito obbligatorio delle scuole pubbliche. I genitori più
propensi a opporre resistenza ai vaccini, si è scoperto, si trovano tra gli istruiti
residenti delle ricche aree periferiche di San Francisco, nella contea di Marin.
Pur non essendo medici, queste madri e questi padri sono abbastanza istruiti
da credere di possedere una formazione di base sufficiente a sfidare la scienza
medica consolidata. Quindi, per un paradosso controintuitivo, i genitori istruiti
stanno effettivamente prendendo decisioni peggiori rispetto a quelli di gran
lunga meno istruiti, e stanno mettendo a rischio i figli di tutti.
L’ignoranza, anzi, fa tendenza e alcuni americani ora sfoggiano il loro
rifiuto dei pareri degli esperti come un segno distintivo di sofisticazione
culturale. Prendiamo in esame, per esempio, il movimento del latte crudo, una
moda tra i gourmand che rivendicano il diritto di ingerire latticini non trattati.
Nel 2012 il New Yorker aveva segnalato questa tendenza, osservando che “il
latte crudo risveglia l’edonismo degli amanti del cibo in modo speciale”:
Poiché non viene riscaldato né omogeneizzato e spesso proviene da animali allevati al pascolo, tende
a essere più ricco e dolce e, talvolta, mantiene un sentore della fattoria: il sapore un po’ fastidioso
noto agli intenditori come “culo di mucca”. “La pastorizzazione elimina strati di complessità, strati
di aromi” ha dichiarato Daniel Patterson, uno chef che usa il latte crudo per preparare crema e
gelato senza uova al Coi, il suo ristorante di San Francisco premiato con due stelle Michelin.7
Lo chef Patterson è un esperto nella preparazione del cibo, e sul suo palato o
quello di chiunque altro non si discute. Ma va detto che se da un lato la
pastorizzazione può influire sul gusto del latte, di contro distrugge anche
agenti patogeni potenzialmente letali per gli esseri umani.
Il movimento del latte crudo non è un’esperienza all’avanguardia pompata
da un manipolo di chef esotici. I suoi sostenitori ritengono non solo che i
prodotti lattiero-caseari non trattati abbiano un buon gusto, ma anche che
siano più sani e migliori per gli esseri umani. Dopotutto, se le verdure crude
ci fanno più bene, perché non consumare tutto crudo? Perché non mangiare
come la natura ha voluto e tornare a un’epoca più pura e più semplice?
Forse era un’epoca più semplice, ma era anche un’epoca in cui la gente
moriva abitualmente a causa di malattie di origine alimentare. Tuttavia,
l’America è un Paese libero e se gastronomi adulti pienamente consapevoli
vogliono correre il rischio di finire all’ospedale per godere del profumo delle
regioni inferiori della mucca nel loro caffè, è una loro scelta. Non sta a me
giudicare questa tendenza troppo duramente: tra i miei piatti preferiti ci sono
molluschi crudi e steak tartare, che compaiono sui menù accompagnati da
avvertenze che mi fanno sempre sentire come se stessi ordinando merce di
contrabbando. Tuttavia, sebbene carne e molluschi crudi comportino dei
rischi, non sono alimenti della dieta di base e soprattutto non di quella dei
bambini, per i quali il latte non pastorizzato è certamente pericoloso.
Subito i medici dei Centri per il Controllo delle Malattie (Centers for
Disease Control – CDC) hanno cercato di intervenire, senza alcun risultato.
Nel 2012 i CDC hanno pubblicato un rapporto in cui si evidenziava che i
latticini non pastorizzati presentano una probabilità di causare malattie
alimentari 150 volte maggiore rispetto ai prodotti pastorizzati. Un esperto
della Agenzia per gli Alimenti e i Medicinali (Food and Drug Administration
– FDA), senza mezzi termini, ha definito il consumo di latte crudo
l’equivalente alimentare della roulette russa. Nulla di tutto questo ha avuto
effetto sulla popolazione, che non solo continua a ingerire prodotti non trattati
ma insiste anche nel somministrarli a consumatori che non hanno né la scelta
né la capacità di comprendere il dibattito: i propri figli.
Perché ascoltare cosa dicono i medici riguardo al latte crudo? Dopotutto,
hanno sbagliato altre volte. Per restare al cibo, per esempio, gli americani si
sono sentiti dire per decenni che dovevano limitare il consumo di uova e di
alcuni tipi di grassi. Gli esperti del governo hanno detto ai cittadini di limitare
l’assunzione di carni rosse, aumentare l’apporto dei cereali nella loro dieta e,
in generale, di tenersi alla larga da qualsiasi cosa abbia un buon sapore
(questa, lo ammetto, è la mia personale interpretazione di quelle
raccomandazioni). Anni dopo, si è scoperto che le uova non solo sono
innocue, ma forse fanno anche bene. La margarina si è rivelata peggiore del
burro. E bere qualche bicchiere di vino al giorno potrebbe essere più salutare
che astenersi totalmente dal consumo di alcolici.
Per cui, sì, i medici si erano sbagliati. È ora di divorare i cheeseburger al
bacon e versarci un altro martini?
Non esattamente. Il dibattito sulle uova non è finito, ma concentrarsi su un
unico aspetto della dieta degli americani significa non cogliere il senso del
discorso. È possibile che i medici si siano sbagliati sull’effetto specifico delle
uova, ma non sbagliano nel dire che una dieta basata sul consumo costante di
prodotti di fast food, ingurgitati insieme a una bevanda zuccherata o a una
confezione da sei birre, non ci fa bene. Alcuni hanno approfittato delle notizie
sulle uova (come pure di una storia falsa circolata in precedenza secondo cui
la cioccolata sarebbe uno spuntino sano) per dare una giustificazione razionale
alla loro decisione di non dare mai ascolto ai medici, i quali quando si tratta di
allungare la vita alle persone attraverso una dieta più sana hanno un’esperienza
e un curriculum chiaramente migliori dell’americano medio in sovrappeso.
Alla base di tutto questo c’è l’incapacità da parte dei profani di capire che
un errore commesso ogni tanto dagli esperti su questioni specifiche non
implica affatto che gli esperti si sbaglino sistematicamente su tutto. Il punto è
che gli esperti hanno ragione più spesso di quanto si sbaglino, soprattutto sulle
questioni essenziali. Eppure l’opinione pubblica cerca costantemente
scappatoie e falle nel sapere degli esperti per poter ignorare tutti i consigli
specialistici sgraditi.
In parte, la ragione è che la natura umana, come vedremo, tende a cercare
scappatoie dappertutto. Ma un fattore altrettanto importante, se non di più, è
che quando gli esperti e i professionisti sbagliano le conseguenze possono
essere catastrofiche. Se si solleva, per esempio, la questione del parere
medico, certamente qualcuno tirerà fuori la parola “talidomide” a mo’ di
replica che non necessita spiegazioni. Sono passati decenni dall’introduzione
del talidomide, un farmaco che in passato era ritenuto sicuro e veniva
prescritto alle donne incinte come sedativo. Nessuno si rese conto all’epoca
che il talidomide provocava anche orrende malformazioni congenite, e
immagini di bambini con arti mancanti o deformi hanno tormentato
l’immaginazione pubblica per molti anni. Il nome del farmaco è diventato
sinonimo di fallimento degli esperti, ancora oggi.
Nessuno sostiene, infatti, che gli esperti non possano sbagliare (un
argomento di cui parleremo più avanti). Il punto è che hanno meno probabilità
di sbagliarsi rispetto ai non esperti. Le stesse persone che ripercorrono
ansiosamente la storia del disastro del talidomide ingollano regolarmente
decine di medicine, dall’aspirina agli antistaminici, che fanno parte delle
migliaia e migliaia di farmaci la cui sicurezza è stata dimostrata grazie a
decenni di prove e test condotti da esperti. Raramente gli scettici si fermano a
pensare al fatto che per ogni terribile errore ci sono innumerevoli successi che
allungano la loro vita.
A volte, dubitare dei professionisti può trasformarsi in un’ossessione, con
risultati tragici. Nel 2015, Stephen Pasceri, un ragioniere del Massachusetts,
ha perso sua madre all’età di settantotto anni per una malattia cardiovascolare.
La signora Pasceri aveva una lunga storia di problemi di salute, tra cui un
enfisema, ed è morta dopo un intervento per riparare una valvola cardiaca.
Pasceri, però, era convinto che uno dei medici di sua madre, Michael
Davidson, direttore del reparto di chirurgia cardiaca endovascolare in uno dei
migliori ospedali di Boston e professore alla Harvard Medical School, avesse
ignorato le avvertenze di un particolare farmaco somministrato alla paziente.
La vicenda è diventata un caso letterale di fine della competenza: il contabile
si è presentato in ospedale e ha sparato al medico uccidendolo. Poi si è tolto la
vita, lasciando una chiavetta USB con la sua “ricerca” sul farmaco.
Ovviamente, Stephen Pasceri era un uomo disturbato, sconvolto dalla morte
della madre. Ma basta una conversazione di pochi minuti con un
professionista di qualsiasi campo per ascoltare storie simili, seppur meno
drammatiche. I medici si scontrano abitualmente con i pazienti riguardo ai
farmaci; gli avvocati descrivono clienti che perdono soldi e, talvolta, la libertà
a causa di pareri non attendibili; gli insegnanti raccontano storie di genitori
che insistono nel sostenere che i figli hanno risposto correttamente alle
domande d’esame anche quando si può dimostrare il contrario; gli agenti
immobiliari raccontano di clienti che hanno acquistato case malgrado il loro
parere professionale negativo e si sono ritrovati a dover spendere soldi su
soldi.
Nessun’area della vita americana è al riparo dalla fine della competenza. La
capacità sempre più ridotta della popolazione americana di capire la scienza e
la matematica è alla base di diverse emergenze pubbliche in ambito sanitario,
dall’obesità alle malattie infantili. Nel frattempo, nei mondi della politica e
dell’amministrazione pubblica – dove almeno una minima familiarità con la
storia, l’educazione civica e la geografia è fondamentale per un dibattito
informato –, gli attacchi al sapere costituito hanno raggiunto proporzioni
spaventose.
ESPERTI E CITTADINI
Sei uno studente di primo anno; hai appena finito di leggere qualche storico marxista, Pete Garrison
magari. Ne sarai convinto fino al mese prossimo, quando arriverai a James Lemon. Poi parlerai di
quanto l’economia della Virginia e della Pennsylvania fosse imprenditoriale e capitalistica nel 1740.
Ti durerà fino all’anno prossimo. Ti ritroverai qui a rigurgitare Gordon Wood, parlando della…, sai,
dell’utopia pre-rivoluzionaria e degli effetti formativi sul capitale della mobilitazione militare. […]
L’hai preso da Vickers, Lavoro nella Contea di Essex, pagina 98, eh? Sì, l’ho letto anch’io. Volevi
attribuirti tutta la cosa o hai un pensiero tutto tuo sulla faccenda? […] Hai sborsato
centocinquantamila dollari per un’istruzione che potevi avere per un dollaro e cinquanta in
sovrattasse alla biblioteca pubblica.
Più tardi, il giovane elude le domande del suo psicoterapeuta sulle opere di
Howard Zinn e Noam Chomsky. All’epoca questi momenti del film, innaturali
e un po’ sciocchi, trovarono invece il consenso del pubblico. Damon e Affleck
tornarono a casa con i loro begli Oscar per la sceneggiatura e senza dubbio
hanno incoraggiato almeno qualche spettatore a credere che leggere
abbastanza libri sia quasi come andare a scuola.
Alla fine, la competenza è difficile da definire e talvolta è arduo distinguere
gli esperti dai dilettanti. Tuttavia, dovremmo essere in grado di discernere tra
chi ha una conoscenza effimera di una materia e chi ne ha una definitiva.
Nessuno può vantare una conoscenza completa, e gli esperti se ne rendono
conto meglio di chiunque altro. Ma l’istruzione, la formazione, la pratica,
l’esperienza e il riconoscimento da parte di altri che operano nello stesso
campo dovrebbero fornirci almeno una guida rudimentale per separare gli
esperti dal resto della società.
Uno dei motivi fondamentali per cui gli esperti e i profani hanno sempre
scatenato la reciproca irritazione è che sono tutti esseri umani. Ovvero hanno
tutti problemi analoghi nell’assorbimento e nell’interpretazione delle
informazioni. Anche le persone più istruite possono commettere errori di
ragionamento elementari, mentre quelle meno intelligenti sono inclini a
ignorare i limiti delle proprie capacità. Esperti o profani, i nostri cervelli
funzionano (o talvolta non funzionano) in modo simile: sentiamo le cose nel
modo in cui vogliamo ascoltarle e rifiutiamo i fatti che non ci piacciono.
Questi problemi costituiscono l’argomento del prossimo capitolo.
3. A. de Tocqueville, La democrazia in America, Rizzoli, Milano, 1995.
4. J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, il Mulino, Bologna, 1984, pp. 35, 37.
5. R. Hofstadter, Società e intellettuali in America, Torino, Einaudi, 1968, p. 44.
6. I. Somin, “Political Ignorance in America”, in M. Bauerlein e A. Bellows (a cura di), The State of the
American Mind, Templeton, West Conshohocken, PA, 2015, pp. 163-164.
7. D. Goodyear, “Raw Deal: California Cracks Down on an Underground Gourmet Club”, The New
Yorker, 30 aprile 2012.
8. La legge sull’assistenza sanitaria accessibile voluta da Obama, nota anche in Italia come “Obamacare”
[N.d.T.].
9. O. Khazan, “27% of Surgeons Still Think Obamacare Has Death Panels”, The Atlantic online, 19
dicembre 2013.
10. Kaiser Family Foundation, 2013 Survey of Americans on the US Role in Global Health.
11. H. Blodget, “Here’s What Day Traders Don’t Understand”, Business Insider, 29 marzo 2010.
CAPITOLO 2
Perché la conversazione è diventata estenuante
Affrontiamo per prima la possibilità più dolorosa. Forse gli esperti e i profani
hanno problemi a parlare tra loro semplicemente perché il cittadino comune è
poco intelligente. Forse il divario intellettuale tra le élite istruite e le masse è
ormai così ampio che non riescono a parlare tra di loro se non per scambiarsi
espressioni di mutuo disprezzo. Forse le conversazioni e le discussioni
falliscono perché una delle parti, o entrambe, è formata solo da stupidi.
Queste sono parole di scontro. A nessuno piace essere chiamato stupido: è
una parola dura che implica un giudizio e non soltanto una mancanza di
intelligenza, ma anche un’ignoranza intenzionale che sfiora il fallimento
morale (l’ho usata più di quanto avrei dovuto; e anche voi, probabilmente).
Potete dire alle persone con le quali siete in disaccordo che sono disinformate,
che sono in errore, che si sbagliano o pressoché qualsiasi altra cosa. Ma non
chiamatele stupide.
Fortunatamente, l’uso della parola “stupido” non solo è maleducato, è
perlopiù inesatto. Oggi, sotto ogni aspetto, gli americani sono più intelligenti,
o comunque non meno intelligenti, rispetto a diversi decenni fa. E il primo
Novecento non è stata un’età di Pericle, di cultura e di apprendimento. Nel
1943, i nuovi studenti del primo anno di college – dei quali solo il 6 per cento
era in grado di elencare le tredici colonie originarie – pensavano che Abraham
Lincoln fosse stato il primo presidente, nonché colui che “emaciò [sic] gli
schiavi”. Quando il New York Times vide quei dati, interruppe la cronaca della
Seconda guerra mondiale per lamentarsi della “spaventosa ignoranza” dei
giovani.12
Se i cittadini del Ventunesimo secolo riusciranno o meno a non accrescere il
divario tra la propria istruzione e la velocità con cui si verificano i
cambiamenti nel mondo, è tutt’altra questione. Sia gli allievi delle scuole
primarie del 1910 sia quelli del 2010 dovevano imparare a calcolare i lati di
un triangolo, ma gli studenti di oggi devono utilizzare questa conoscenza per
comprendere l’esistenza di una stazione spaziale internazionale permanente,
mentre i loro bisnonni probabilmente non avevano mai visto un’automobile,
tantomeno un aereo. E nulla può impedire il distacco volontario
dall’apprendimento, in qualsiasi epoca. Nessuna forma d’istruzione può
insegnarti il nome del tuo rappresentante al Congresso se non ti importa
saperlo.
Detto questo, c’è ancora il problema delle persone che pensano di essere
brillanti quando in realtà non lo sono. Tutti siamo rimasti intrappolati a una
festa o a una cena in cui la persona meno informata tra i presenti ha tenuto
banco, senza mai dubitare della propria intelligenza, e producendosi in un
monologo zeppo di errori e informazioni sbagliate. Non è la vostra
immaginazione: le persone che strabordano su argomenti di cui sanno
pochissimo, con una sicurezza del tutto infondata, esistono davvero e
finalmente la scienza l’ha capito.
Questo fenomeno è chiamato “effetto Dunning-Kruger”, dai nomi di David
Dunning e Justin Kruger, ricercatori di psicologia della Cornell University che
lo hanno identificato in un fondamentale studio del 1999. L’effetto Dunning-
Kruger, in sintesi, è il fenomeno per cui più si è ottusi, più si è convinti di non
esserlo. Dunning e Kruger più gentilmente definiscono persone di questo tipo
“non specializzate” o “incompetenti”. Ma ciò non cambia la loro scoperta più
importante: “Non solo giungono a conclusioni erronee e compiono scelte
infelici, ma la loro incompetenza li priva della capacità di rendersene
conto”.13
A voler essere giusti nei confronti dei “non specializzati”, tutti tendiamo a
sopravvalutarci. Chiedete alle persone quale posizione pensano di occupare in
un’ipotetica classifica di talenti, e incontrerete “l’effetto sopra la media”, in
base al quale tutti pensano di essere… be’, al di sopra della media. Questo,
come Dunning e Kruger osservano ironicamente, è “un risultato che sfida la
logica della statistica descrittiva”. È comunque un errore umano tanto
riconoscibile che nella sua trasmissione radiofonica A Prairie Home
Companion l’umorista Garrison Keillor ha creato un’intera città dedicata a
questo principio, sulle sponde del mitico Lago Woebegone (Addolorato), dove
“tutti i bambini sono al di sopra della media”.
Come ha spiegato in seguito Dunning, tutti ci sopravvalutiamo, ma i meno
competenti lo fanno più degli altri:
Tutta una serie di studi condotti da me e da altri ha confermato che le persone che non sanno molto
di un dato insieme di competenze cognitive, tecniche o sociali tendono a sovrastimare
grossolanamente il proprio valore e le proprie prestazioni, che si tratti di grammatica, intelligenza
emotiva, ragionamento logico, manutenzione e sicurezza delle armi da fuoco, dibattiti o conoscenze
finanziarie. Gli studenti universitari, in prove d’esame al termine delle quali ottengono delle D e
delle F, tendono a pensare che i loro sforzi meritino voti molto più alti; anche i giocatori di scacchi o
di bridge e gli studenti di medicina che ottengono scarsi risultati, e gli anziani che devono rinnovare
la patente di guida, sopravvalutano di gran lunga le proprie capacità.14
Gli studenti che preparano un esame, gli anziani che cercano di mantenere la
propria autosufficienza e gli studenti di medicina che non vedono l’ora di
iniziare la propria carriera preferiscono essere ottimisti e non sminuirsi. A
differenza di campi come lo sport agonistico, in cui l’incompetenza è
manifesta e innegabile, è normale che le persone evitino di dire che non sono
brave a fare qualcosa.
A quanto pare, però, la ragione più specifica per cui individui non
qualificati o incompetenti sopravvalutano le proprie abilità molto più degli
altri è che non possiedono una competenza chiave chiamata
“metacognizione”. Si tratta della capacità di sapere quando non si è bravi in
qualcosa, di arretrare di un passo, osservare ciò che si sta facendo e così
rendersi conto che lo si sta facendo male. I bravi cantanti si accorgono quando
stonano; i bravi registi sanno quando una scena in una rappresentazione
teatrale non funziona; i buoni addetti marketing sanno quando una campagna
pubblicitaria sarà un flop. Le loro controparti meno competenti, di contro,
non possiedono questa capacità. Pensano di star facendo un ottimo lavoro.
Mettete insieme queste persone e degli esperti e, prevedibilmente, le
conseguenze saranno tremende. La mancanza di metacognizione instaura un
circolo vizioso, in cui le persone che non sanno molto di una determinata
materia non capiscono quando hanno a che fare con un esperto di
quell’argomento. Ne nasce una disputa, ma chi non ha idea di come impostare
un ragionamento logico non si rende conto di quando non riesce a fare un
ragionamento logico. In poche parole, l’esperto si sente frustrato e il profano
insultato. Tutti se ne vanno arrabbiati.
Un fatto ancora più esasperante è che non esiste un modo di educare o
informare le persone che nel dubbio inventano le cose. Dunning ha descritto la
ricerca condotta alla Cornell come qualcosa di simile a “una versione meno
teatrale dello sketch di Jimmy Kimmel” e ha dimostrato l’intuizione del
comico secondo cui anche quando le persone non hanno idea di cosa stanno
parlando comunque non smettono di parlarne:
Nel nostro lavoro, chiediamo agli intervistati se conoscono alcuni concetti tecnici della fisica, della
biologia, della politica e della geografia. Un buon numero sostiene di avere familiarità con termini
esistenti quali forza centripeta e fotone. Ma stranamente afferma di avere anche una certa familiarità
con concetti interamente inventati, come lastre di parallasse, ultra-lipidi e colarina. In una ricerca,
circa il 90 per cento degli intervistati ha dichiarato di conoscere almeno uno dei nove concetti fittizi
che abbiamo sottoposto loro.
Cerco di spiegare il rischio. Perché ultimamente mi sono reso conto che pochi capiscono veramente
i rischi che si trovano ad affrontare. Vedo gente che tiene pistole in casa, guida senza cinture di
sicurezza, mangia cibo francese che intasa le arterie e fuma sigarette, ma non si preoccupa mai di
queste cose. Invece si preoccupa dell’Aids. È pazzesco.
“Ellen. Temi di poter morire in un incidente automobilistico?”
“No, mai.”
“Temi di essere assassinata?”
“No.”
“Be’, hai molte più probabilità di morire in un incidente d’auto, o di essere assassinata da un
estraneo, che di prendere l’Aids.”
“Grazie molte” dice Ellen. Sembra infastidita. “Sono contenta di averti chiamato. Sei davvero
rassicurante, Michael.”16
Un decennio più tardi si sapeva di più sull’Aids e l’isteria era passata. Negli
anni seguenti, tuttavia, nuovi rischi per la salute come Ebola, la SARS e altre
malattie rare hanno provocato reazioni altrettanto irrazionali e sono diventate
motivo di preoccupazione per gli americani snumerati, più angosciati da una
malattia esotica che del fatto di parlare al cellulare mentre guidano verso casa
dopo avere bevuto qualche drink al pub.
Si noti anche che questo bias non funziona quasi mai nel senso opposto.
Pochi di noi sono certi di essere l’eccezione in senso positivo. Compriamo un
biglietto della lotteria, ci facciamo qualche fantasia per un attimo e poi ce lo
infiliamo in tasca e lo dimentichiamo. Nessuno va da una concessionaria di
auto o da un agente immobiliare con i numeri del Superenalotto di domani.
La paura irrazionale fa più presa dell’ottimismo irrazionale, perché il bias di
conferma è, in un certo senso, un meccanismo di sopravvivenza. Le cose belle
vanno e vengono, ma la morte è per sempre. Al vostro cervello non importa
molto di tutte le altre persone che sono sopravvissute a un volo aereo o a una
storia di una notte: non sono voi. Il vostro intelletto, che opera in base a
informazioni limitate o erronee, fa il suo lavoro, cerca di minimizzare
qualsiasi rischio per la vostra vita, non importa quanto ridotto. Quando
combattiamo il bias di conferma, stiamo cercando di correggere una funzione
di base – una caratteristica, non un difetto – della mente umana.
Che si tratti di un pericolo mortale o di uno dei dilemmi quotidiani della
vita, il bias di conferma entra in gioco perché le persone devono fare
affidamento su ciò che già conoscono. Non possono affrontare tutti i problemi
come se le loro menti fossero una tabula rasa. Non è così che funziona la
memoria e, ciò che ci interessa di più, non sarebbe certo una strategia efficace
iniziare ogni giornata cercando di capire tutto da zero.
Gli scienziati e i ricercatori si scontrano di continuo con il bias di conferma,
che per loro costituisce un vero e proprio rischio professionale. Anche loro
devono formulare ipotesi per fare esperimenti o spiegare misteri, quindi
portano comunque un bagaglio personale nei loro progetti. Devono fare delle
ipotesi e utilizzare l’intuizione, proprio come tutti gli altri, perché si
sprecherebbe moltissimo tempo se ogni programma di ricerca partisse dal
presupposto che nessuno sa nulla e che non è mai successo nulla prima di
oggi.17 Quello di “fare prima di sapere” è un problema comune quando si
tratta di impostare un’indagine accurata: dopotutto, come facciamo a sapere
cosa stiamo cercando se non l’abbiamo ancora trovato?18
I ricercatori imparano a riconoscere questo dilemma all’inizio della loro
formazione e non sempre riescono a sconfiggerlo. Il bias di conferma può
portare fuori strada anche gli esperti più navigati. I medici, per esempio,
possono convincersi di una diagnosi e cercare le prove di sintomi che
sospettano esistano già in un paziente, ignorando gli indicatori di altre malattie
o lesioni (il Dr. House, esperto di diagnosi immaginario, protagonista della
famosa serie tv, diceva ai suoi studenti di medicina: “Non è mai lupus”, il che,
naturalmente, ha ispirato un episodio in cui il medico più arrogante del mondo
si trova ad affrontare un problema per la mancata individuazione di un caso,
per l’appunto, di lupus). Anche se ai ricercatori viene detto che “un risultato
negativo è comunque un risultato”, nessuno vuole davvero scoprire che le sue
supposizioni iniziali sono andate in fumo.
Ecco come, per esempio, una ricerca del 2014 sulla percezione pubblica dei
matrimoni omosessuali ha avuto un esito disastroso. Uno studente
specializzando ha affermato di aver trovato una prova statistica inattaccabile
secondo cui se gli oppositori dei matrimoni gay parlavano dell’argomento con
qualcuno che era effettivamente gay, erano maggiormente disposti a cambiare
posizione. Le sue conclusioni sono state approvate da un membro anziano
della facoltà presso la Columbia University, che aveva firmato lo studio come
coautore. Era una scoperta notevole: in buona sostanza dimostrava che è
possibile convincere persone ragionevoli ad abbandonare posizioni
omofobiche.
L’unico problema era che il giovane e ambizioso ricercatore aveva falsificato
i dati. Le discussioni che affermava di aver analizzato non avevano mai avuto
luogo. Quando altri studiosi che non avevano partecipato alla ricerca la
esaminarono e diedero l’allarme, il professore della Columbia ritrattò
l’articolo. Lo studente, che stava per diventare membro di facoltà a Princeton
e per il quale si prefigurava un futuro radioso, si ritrovò senza lavoro.
Perché la facoltà e gli esaminatori che avrebbero dovuto tenere sotto lo
controllo lo studente non si sono accorti subito dell’imbroglio? A causa del
bias di conferma. Come ha riferito la giornalista Maria Konnikova sul New
Yorker, il supervisore dello studente ha ammesso di aver voluto credere a quei
risultati. Lui e altri studiosi volevano che i risultati fossero veri e quindi erano
meno propensi a mettere in discussione i metodi che avevano prodotto la loro
risposta preferita. “In poche parole, il bias di conferma – che è
particolarmente potente nel caso dei problemi sociali – potrebbe aver reso più
facile trascurare i difetti della ricerca” ha scritto Konnikova in una
ricostruzione del caso.19 Infatti, è stato “l’entusiasmo sollevato dallo studio a
portare al suo smascheramento”, perché altri studiosi, sperando di poter
partire da quei risultati, hanno scoperto l’imbroglio solo quando hanno
approfondito i dettagli della ricerca che, ne erano convinti, aveva già raggiunto
la conclusione che preferivano.
Questo è il motivo per cui gli scienziati, quando possibile, eseguono gli
esperimenti più e più volte e poi presentano i loro risultati ad altre persone in
un processo chiamato peer review, ovvero “revisione paritaria”. Questo
processo, quando funziona, invita i colleghi di un esperto (i suoi pari) a
svolgere il ruolo di avvocati del diavolo, ben intenzionati ma rigorosi. Ciò
avviene solitamente in un processo a “doppio cieco”, double-blind, ovvero il
ricercatore e gli arbitri non sono noti l’uno agli altri, per impedire che
pregiudizi personali o istituzionali influenzino la revisione.
Si tratta di un procedimento dal valore indiscusso. Anche lo studioso o il
ricercatore più onesto e responsabile ha bisogno di fare i conti con la realtà e
di ricevere riscontri da parte di qualcuno meno coinvolto personalmente
nell’esito di un progetto (la proposta per il libro che state leggendo in questo
momento è stata sottoposta a una peer review: ciò non significa che gli
studiosi che l’hanno letta siano d’accordo con le sue tesi, ma sono stati invitati
a considerarne le argomentazioni e a esprimere eventuali obiezioni o pareri).
La capacità di rivestire il ruolo di arbitro è spesso appannaggio di un esperto
più anziano, poiché occorre molto tempo per maturare l’abilità di trovare e
riconoscere prove che mettano in dubbio o addirittura confutino un’ipotesi.
Studiosi e ricercatori trascorrono buona parte delle loro carriere a cercare di
ottenere questa padronanza e a farne una delle loro competenze fondamentali.
Questi esami e revisioni sono invisibili ai profani perché avvengono tutti
prima che il prodotto finale venga distribuito. Il pubblico diviene consapevole
di questi processi solo quando non vanno a buon fine, e quando una peer
review non funziona le conseguenze possono essere terribili. L’intero sistema,
invece di fornire garanzie di qualità, può degenerare in falsificazioni, scambi
di favori, vendette, parzialità e tutti gli altri comportamenti meschini a cui gli
esseri umani sono inclini. Nel caso dello studio sui matrimoni omosessuali, la
frode è stata scoperta e il sistema ha funzionato, anche se non in tempo utile
per fermare la pubblicazione dell’articolo.
Nella vita moderna al di fuori dell’accademia, tuttavia, le discussioni e i
dibattiti non hanno alcuna revisione esterna. I fatti vanno e vengono, a seconda
di quello che le persone trovano conveniente sul momento. Così, il bias di
conferma rende estenuanti i tentativi di argomentazione razionale perché
produce discussioni e teorie non falsificabili. Rigettare tutte le prove
contraddittorie considerandole non pertinenti è nella natura stessa del bias di
conferma, infatti la mia prova è sempre la regola, la tua è sempre un errore o
un’eccezione. È impossibile sfidare questo tipo di spiegazioni, perché per
definizione non sono mai sbagliate.
Un altro problema è che la maggior parte dei profani non ha mai imparato,
o forse ha dimenticato, le basi del “metodo scientifico”. Si tratta della
sequenza di passi che conduce da una domanda generale a un’ipotesi, a una
sperimentazione e a un’analisi. Anche se la gente usa comunemente la parola
“prova”, lo fa in modo troppo generico; la tendenza nella conversazione è
quella di usare “prova” con il significato di “cosa che percepisco essere vera”
piuttosto che “cosa che è stata sottoposta a un controllo della sua natura
oggettiva secondo regole concordate”.
A questo punto, i profani potrebbero obiettare che tutto ciò non è altro che
un mucchio di fesserie intellettuali. Perché l’individuo comune avrebbe
bisogno di tutta questa erudizione? C’è sempre il buonsenso. Non è forse
abbastanza buono?
Nella maggior parte dei casi, i profani in effetti non hanno bisogno di simili
apparati accademici. Nelle questioni quotidiane, il buonsenso ci rende un
buon servizio e in genere è meglio di spiegazioni inutilmente complicate. Non
abbiamo bisogno, per esempio, di conoscere la velocità a cui può viaggiare
un’automobile durante un temporale prima che gli pneumatici inizino a
perdere il contatto con la strada. Da qualche parte c’è una formula matematica
che ci permetterebbe di conoscere la risposta con grande precisione, ma il
buonsenso non ha bisogno di formule per dirci di rallentare quando c’è
maltempo, e questo ci basta.
Quando si tratta di districare problemi più complicati, tuttavia, il buonsenso
non è sufficiente. La causa e l’effetto, la natura delle prove e la frequenza
statistica sono molto più intricati di quanto il senso comune riesca a gestire.
Spesso i problemi più spinosi nel campo della ricerca hanno risposte
controintuitive, che per loro stessa natura sfidano il nostro buonsenso (in
passato, dopotutto, la semplice osservazione aveva detto agli uomini che il
sole girava intorno alla terra, e non viceversa). I semplici strumenti del
buonsenso possono tradirci ed esporci a errori grandi e piccoli: per questo i
profani e gli esperti spesso parlano ma non riescono a capirsi anche su
questioni relativamente banali come le superstizioni e la saggezza popolare.
Occorre ricordare che il tipo di persona che crede alle teorie del complotto già teme che ci siano
vaste e potenti forze maligne alleate contro i settori dell’esistenza a cui tiene di più. Ogni negazione
della minaccia ne aumenta il potere in virtù della sua possibilità di operare inosservata.23
STEREOTIPI E GENERALIZZAZIONI
Ormai tutti avvertiamo una costante pressione a sapere abbastanza, in ogni momento, per paura di
essere additati come analfabeti culturali. Per poter sopravvivere a un elevator pitch, a una riunione
d’affari, a un’incursione nel cucinino dell’ufficio, a un cocktail party; per poter postare, twittare,
chattare, commentare, mandare messaggi come se avessimo visto, letto, guardato, ascoltato. Ciò che
conta per noi, immersi in petabyte di dati, non è necessariamente aver davvero consumato questi
contenuti in prima persona ma semplicemente sapere che esistono, e avere una posizione in
proposito, essere in grado di intervenire nel chiacchiericcio che li riguarda. Ci avviciniamo
pericolosamente a inscenare una parodia di preparazione che in realtà è un nuovo modello di
ignoranza.27
La gente scorre i titoli o gli articoli e li condivide sui social media, ma non li
legge. Tuttavia, poiché le persone vogliono che gli altri le percepiscano come
intelligenti e ben informate, fingono come meglio possono.
Come se tutto questo non costituisse una sfida sufficiente, l’aggiunta della
politica rende le cose ancora più complicate. Le convinzioni politiche di
profani ed esperti agiscono in modo molto simile al bias di conferma. La
differenza è che le convinzioni sulla politica e su altre questioni soggettive
sono più difficili da mettere in discussione, perché le nostre opinioni politiche
sono profondamente radicate nell’immagine che abbiamo di noi stessi e nelle
idee che ci sono più care su che tipo di persone siamo.
Come ha sottolineato Konnikova esaminando il caso dello studio
fraudolento sui matrimoni tra omosessuali, è più probabile che il bias di
conferma produca “convinzioni persistentemente false” quando deriva “da
problemi strettamente legati alla concezione che abbiamo di noi stessi”. Questi
sono i punti di vista che non ammettono repliche e che spesso difendiamo
oltre ogni ragione, come ha osservato Dunning:
Alcune delle convinzioni errate a cui ci aggrappiamo più ostinatamente non derivano da intuizioni
infantili e primitive o da incauti errori categoriali, ma dai valori e dalle filosofie stesse che
definiscono chi siamo in quanto individui. Ciascuno di noi possiede alcune convinzioni
fondamentali: narrazioni di sé, idee sull’ordine sociale, ecc. Essenzialmente sono idee che non
possono essere trasgredite: contraddirle metterebbe in discussione la nostra autostima. Perciò, queste
opinioni richiedono che le altre opinioni giurino loro lealtà.
BENVENUTI, CLIENTI!
In molte università, i nuovi studenti sono già stati presentati ai loro compagni di stanza attraverso i
social media e vivono in lussuosi appartamenti-dormitorio. Questo garantisce che praticamente non
debbano mai condividere una stanza o un bagno, o addirittura mangiare nelle sale da pranzo comuni,
se non lo desiderano. Questi erano gli spazi in cui le generazioni precedenti imparavano ad andare
d’accordo con persone diverse e a gestire i conflitti quando venivano scelti a caso per vivere con
sconosciuti in ambienti ristretti e condivisi.38
Se uno studente sceglie di andare alla Arizona State perché ama l’idea di non
mangiare mai alla mensa, c’è già qualcosa di sbagliato nell’intero processo.
Molti giovani, ovviamente, hanno compiuto scelte peggiori per ragioni ancora
più sciocche.
Gli studenti sono giovani e i genitori amano i propri ragazzi. È giusto che
sia così. Ma quando tutto il circo delle domande e delle ammissioni è
terminato, il corpo docenti si trova a insegnare a studenti che sono entrati in
aula con aspettative completamente slegate dalle reali esigenze di ottenere una
formazione universitaria. Oggi i professori non istruiscono gli studenti; invece,
gli studenti istruiscono i professori, con un’autorità che si arrogano fin troppo
naturalmente. Un gruppo di studenti di Yale nel 2016, per esempio, ha chiesto
che il Dipartimento di inglese abolisse il corso sui poeti inglesi perché era
troppo incentrato su maschi bianchi europei: “Abbiamo parlato” hanno
dichiarato nella petizione. “Stiamo parlando. Prestate attenzione.”39 Come mi
ha confidato una volta un professore di una scuola esclusiva: “Certi giorni, mi
sento più un commesso che lavora in una costosa boutique che un professore”.
E perché dovrebbe essere diversamente? Questi sono ragazzi a cui è stato
insegnato a dare del “tu” agli adulti fin da quando erano piccoli. Hanno
ricevuto “voti” destinati a far crescere la loro autostima, piuttosto che a
stimolare il conseguimento di risultati. E si sono immatricolati dopo aver
potuto esaminare accuratamente i college, come se stessero ispezionando un
condominio vicino a un campo da golf. Questo flusso di piccole ma
significative concessioni ai ragazzi da parte degli adulti, unito alla loro
autostima, va a corrodere la capacità di apprendimento, inculca la falsa
sensazione di aver ottenuto dei risultati e provoca un eccesso di fiducia nelle
proprie conoscenze che perdura anche in età adulta.
Quando arrivai al Dartmouth College alla fine degli anni Ottanta, mi
raccontarono una storia su un noto (e al tempo ancora vivo) membro della
facoltà che in un certo senso illustra questo problema e la sfida che comporta
per gli esperti e gli educatori. Il rinomato astrofisico Robert Jastrow stava
tenendo una conferenza sul programma del presidente Ronald Reagan per lo
sviluppo di difese missilistiche nello spazio, che lui stesso sosteneva con
decisione. Uno studente sfidò Jastrow durante la sessione di domande e
risposte, e a detta di tutti lo scienziato si mostrò paziente, pur restando
convinto che il programma fosse realizzabile e necessario. Lo studente,
rendendosi conto che uno scienziato di una grande università non avrebbe
cambiato idea dopo pochi minuti di discussione con un allievo dei primi anni,
alla fine alzò le spalle e rinunciò.
“Be’,” disse lo studente “la sua ipotesi è buona quanto la mia”.
Jastrow interruppe il giovane. “No, no, no” disse enfaticamente. “Le mie
ipotesi sono molto, molto migliori delle sue.”
Il professor Jastrow nel frattempo è scomparso, e mentre ero a Hanover non
ho mai avuto la possibilità di chiedergli cosa fosse successo quel giorno. Ma
sospetto che stesse cercando di impartire alcune lezioni di vita alle quali gli
studenti universitari e i cittadini oppongono sempre più resistenza: ovvero che
l’ammissione all’università è l’inizio e non la fine dell’istruzione, e che il
rispetto dell’opinione di una persona non significa accordare pari rispetto alla
conoscenza che quella persona possiede. Si può ancora discutere nel merito se
un sistema nazionale di difese missilistiche sia una scelta politica saggia o
meno. Ciò che non è cambiato, tuttavia, è che le ipotesi di un esperto
astrofisico e di uno studente del secondo anno di università non hanno lo
stesso valore.
Non stiamo parlando di qualche saccentone dell’Ivy League che fa il
sarcastico con i suoi professori. Per fare un esempio meno raffinato, nel 2013
una giovane donna ha usato i social media per chiedere aiuto su una ricerca
assegnata in classe (dove vivesse o dove studiasse non è chiaro, ma lei stessa si
descriveva come un futuro medico). A quanto pare le avevano dato il compito
di trovare informazioni sul Sarin, una sostanza chimica mortale, e, come ha
spiegato a migliaia di persone su Twitter, aveva bisogno di aiuto perché
mentre la svolgeva doveva occuparsi anche di suo figlio. In pochi minuti, ha
ricevuto una risposta da parte di Dan Kaszeta, direttore di una società di
consulenza di sicurezza a Londra, nonché uno dei massimi esperti nel settore
delle armi chimiche, che si è offerto di aiutarla.
Quello che è accaduto in seguito ha lasciato di stucco molti lettori (Jeffrey
Lewis, esperto di armi in California, ha salvato lo scambio sul suo pc e lo ha
ripubblicato online). “Non riesco a trovare le proprietà chimiche e fisiche del
gas sarin [sic], qualcuno mi aiuta?” era stato il tweet della studentessa. Kaszeta
si è offerto di aiutarla e l’ha corretta, facendole notare che il Sarin non è un
gas e che la parola andava scritta con l’iniziale maiuscola. Come ha osservato
sarcastico Lewis in seguito, “l’aiuto di Dan [è stato accolto] con un bel sospiro
di sollievo dalla nostra oberata studentessa”.
In realtà, Kaszeta è stato assalito da una serie di insulti. La studentessa ha
rovesciato sull’esperto tutto il suo ego indignato, come una furia: “Sì [insulto]
è un gas, brutto [insulto] ignorante. Il sarin è liquido e quindi può evaporare…
chiudi quella [insulto] di bocca”. Kaszeta, chiaramente attonito, ha provato
ancora una volta: “Cercami su Google. Sono un esperto di Sarin. Mi dispiace
di essermi offerto di aiutarti”. Le cose non sono migliorate e poi finalmente lo
scambio è giunto al termine.
Un allievo spavaldo del Dartmouth e un’utente rabbiosa di Twitter
potrebbero essere eccezioni e sono sicuramente esempi estremi del tentativo
di rapportarsi agli studenti. Ma le facoltà segnalano che sia in aula sia sui
social media sempre più di frequente si verificano incidenti in cui gli studenti
prendono le correzioni come insulti. Lodi immeritate e successi di poco conto
costruiscono negli studenti una fragile arroganza che può portarli ad attaccare
verbalmente il primo insegnante o datore di lavoro che mandi in frantumi
quell’illusione, un’abitudine che si dimostra difficile da dismettere in età
adulta.
POSSO MANDARTI UN’EMAIL?
Se in passato i professori potevano aspettarsi deferenza, sembra che ormai la loro competenza sia
diventata solo un ulteriore servizio che gli studenti, in quanto consumatori, stanno acquistando.
Quindi i ragazzi non hanno paura di offendere, di approfittare del tempo del professore o perfino di
porre domande che potrebbero avere ripercussioni negative sul giudizio.
Kathleen E. Jenkins, professoressa di sociologia al College of William and Mary in Virginia, ha
detto di aver ricevuto via email perfino richieste da parte di studenti che avevano perso la lezione e
volevano una copia degli appunti usati dall’insegnante in classe.
In risposta alle lamentele del corpo docenti per episodi di questo tipo relativi
all’uso della posta elettronica, uno studente dei primi anni della Amherst ha
dichiarato: “Se l’unico modo per comunicare con i miei professori fosse
andare nel loro ufficio o chiamarli, ci sarebbe una graduatoria o una priorità
di qualche tipo. Vale la pena andare al ricevimento per questa domanda?”.
Al che il docente potrebbe rispondere: è esattamente questo il punto. I
professori non sono valletti intellettuali o amici di penna sempre reperibili;
non esistono per rispondere istantaneamente a ogni quesito posto dagli
studenti, tra cui, come ha riferito un professore della UC Davis, pareri se sia
meglio utilizzare un raccoglitore o un quaderno ad anelli. Gli studenti di
livello universitario devono imparare ad avere fiducia in sé stessi, ma perché
darsi pena di cercare qualcosa quando per raggiungere un professore della
facoltà basta pigiare qualche tasto?
Lo scopo dell’istruzione è curare gli studenti da questi comportamenti, non
incoraggiarli. Per molti motivi, compreso il rischio di perdere il proprio posto
di lavoro, i professori talvolta esitano ad assumersi delle responsabilità,
specialmente se non sono di ruolo o se sono docenti a contratto. Alcuni di
loro, naturalmente, trattano i ragazzi come loro pari perché hanno assorbito
l’idea che gli studenti siano veramente al loro stesso livello, errore che
danneggia sia l’insegnamento sia l’apprendimento. Alcuni educatori
ribadiscono perfino la vecchia idea per cui “imparo dai miei studenti tanto
quanto loro imparano da me!” (con il dovuto rispetto per i miei colleghi che
esercitano la professione di insegnante, mi corre l’obbligo di dire: se è vero,
allora non siete buoni insegnanti).
La soluzione per questo rovesciamento di ruoli in aula è che gli insegnanti
riaffermino la propria autorità. Per farlo, però, occorrerebbe innanzitutto
ribaltare la nozione di istruzione come servizio al cliente. Gli amministratori
attenti alle rette non vedrebbero di buon occhio una simile controrivoluzione
in aula e con tutta probabilità sarebbe profondamente impopolare tra i clienti.
Per molti anni, padre James Schall della Georgetown University ha sorpreso
i suoi studenti di filosofia politica durante la prima lezione distribuendo un
saggio scritto da lui stesso e intitolato: “Quello che uno studente deve al suo
insegnante”. Eccone un passaggio:
Gli studenti hanno obblighi nei confronti degli insegnanti. So che sembra una strana dottrina, ma
fidatevi.
Il primo obbligo, particolarmente valido nelle prime settimane di un nuovo semestre, è una moderata
buona volontà nei confronti dell’insegnante, fiducia, la disponibilità ad ammettere con sé stessi che
l’insegnante probabilmente ha studiato la materia e, a differenza dello studente, sa dove andare a
parare. Non voglio qui trascurare i pericoli che può comportare un professore ideologizzato,
ovviamente, che impone la sua opinione sulla realtà. Ma essere uno studente richiede un pizzico di
umiltà.
Quindi, l’allievo deve agli insegnanti fiducia, docilità, impegno, riflessione.41
Schall assegnò il suo saggio come lettura obbligatoria per molti anni prima di
andare in pensione. Possiamo solo immaginare le urla di indignazione che
provocherebbe ora nella maggior parte dei campus dire agli studenti che
devono lavorare di più, ridimensionare l’opinione che hanno delle proprie
capacità e fidarsi degli insegnanti. Oggi molti docenti, se anche fossero
d’accordo con Schall, non si arrischierebbero a far indispettire gli studenti,
perché, come tutti sanno, in qualsiasi settore che fornisca servizi, il cliente ha
sempre ragione.
Gli allievi, armati o meno di buone intenzioni, sono poco tutelati dall’idea
che studenti e insegnanti abbiano lo stesso livello intellettuale e sociale, e che
l’opinione di uno studente valga quanto la conoscenza di un professore.
Piuttosto che disilludere i giovani riguardo a questi miti, il college spesso li
incoraggia, con il risultato che le persone finiscono per convincersi di essere
davvero più intelligenti di quanto non siano. Come ha rilevato David Dunning:
“Il modo in cui tradizionalmente concepiamo l’ignoranza, come assenza di
conoscenza, ci porta a pensare all’istruzione come suo antidoto naturale. Ma
l’istruzione, anche se impartita sapientemente, può produrre una fiducia
illusoria”.42
Basta immaginare come si complicano le cose quando l’istruzione non è
impartita in modo adeguato.
L’UNIVERSITÀ GENERICA
I risultati sono tanto più visibili nei pigri fiumiciattoli dei giardini, nelle palestre attrezzate con pareti
da arrampicata e nei dormitori sempre più lussuosi con cui i college competono per accaparrarsi
studenti, ma il cambiamento non si limita all’offerta di servizi non pertinenti all’istruzione. I
professori restano stupiti per il modo in cui gli studenti chiedono spudoratamente di ricevere buoni
voti, indipendentemente dalla loro dedizione allo studio, ma questo è esattamente ciò che ci si
aspetta da uno studente che si considera un consumatore e vede il prodotto come una credenziale
anziché un’istruzione.
Il 45 per cento degli studenti ha riferito di non aver seguito nel semestre precedente neanche una
materia per cui fosse richiesto di scrivere più di venti pagine di elaborato per la durata dell’intero
corso; il 32 per cento non ha seguito materie per le quali fossero assegnate più di quaranta pagine da
leggere alla settimana. Non sorprende che oggi molti studenti universitari decidano di investire
tempo in altre attività all’interno del college.45
Un altro modo in cui college e università rafforzano l’idea che gli studenti
siano clienti e quindi svalutano il rispetto per le competenze è incoraggiandoli
a valutare gli educatori che si trovano di fronte come se fossero dei loro pari.
Le valutazioni degli studenti sono nate dopo gli anni Sessanta con il
movimento che chiedeva un ruolo di maggiore “rilevanza” e coinvolgimento
degli allievi. Quelle valutazioni ci sono ancora e in un’epoca in cui le aziende,
compresa quella dell’istruzione, sono ossessionate dalle “misurazioni”,
vengono usate e abusate più che mai.
Io in realtà sostengo un uso limitato delle valutazioni degli studenti. Vorrei
dire, senza modestia, che quelle che ho ricevuto sono state abbastanza buone
fin dal giorno in cui ho iniziato a insegnare – ho vinto premi per
l’insegnamento sia al Naval War College sia alla Harvard Extension School – e
quindi non ho personali motivi di risentimento. Sono anche un ex
amministratore accademico, e tra le mie mansioni in qualità di supervisore di
dipartimento ho dovuto anche rivedere le valutazioni di altri docenti. Ho letto
migliaia di queste valutazioni nel corso degli anni, scritte da studenti di tutti i
livelli, e sono un esercizio valido se vengono gestite correttamente. Tuttavia,
l’idea in sé è ormai sfuggita al controllo e gli studenti giudicano professionisti
e professioniste come se stessero recensendo un film o commentando un paio
di scarpe.
Le valutazioni di solito rientrano in una zona grigia, in cui la maggior parte
degli insegnanti è competente e la maggior parte degli studenti generalmente
gradisce i corsi. Tuttavia sono estremamente utili quando si tratta di
individuare delle tendenze: uno sguardo ai giudizi espressi nel corso degli anni
permette di identificare sia i migliori sia i peggiori insegnanti, specialmente se
chi li legge è in grado di decodificare il modo in cui gli studenti scrivono
queste relazioni (“è noioso”, per esempio, significa spesso “si aspettava
veramente che io leggessi il libro che ha assegnato invece di farmi divertire”).
Nelle mie classi, li uso per individuare quello che funziona o qualche bersaglio
mancato, come per esempio quali libri o lezioni abbandonare o tenere, o per
capire se la mia sensazione positiva o negativa riguardo a un corso svolto sia
stata condivisa dagli studenti.
Tuttavia, c’è qualcosa di sbagliato in un sistema che chiede a uno studente
quanto abbia apprezzato l’istruzione ricevuta. Il college non è un ristorante (a
volte sento una vocina che mi declama una recensione di Yelp mentre leggo
queste valutazioni: “Il corso di statistica di base è stato servito un po’ freddo,
ma era sostanzioso, mentre il mio compagno ha scelto una leggera
introduzione alle religioni del mondo che era appena appena speziata”).
Valutare gli insegnanti crea una consuetudine mentale in cui il profano si
abitua a giudicare l’esperto, pur trovandosi ovviamente in una posizione in cui
ne sa di meno della materia in questione.
Le valutazioni degli studenti sono anche un indicatore ipersensibile,
influenzato dai fattori più piccoli e irrilevanti, dalla comodità dei posti a
sedere all’ora del giorno in cui si tiene il corso. Un certo numero di queste
relazioni va ignorato. E alcune sono solo strane, al punto che i professori si
scambiano aneddoti sulle valutazioni peggiori o più bizzarre che hanno
ricevuto. Uno dei miei colleghi, per esempio, una volta ha tenuto una
dettagliata lezione sulla storia navale britannica e l’unico commento di uno
studente militare è stato che la camicia dell’insegnante non era stirata. Un
illustre storico che conoscevo veniva regolarmente messo in ridicolo nelle
valutazioni per il fatto di essere basso di statura. Una volta uno studente mi ha
detto che ero un ottimo professore ma che dovevo dimagrire un po’ (ed era
vero). A un altro studente non piacevo proprio, al punto che lui o lei,
valutandomi, disse che avrebbe pregato per me.
Per quanto divertenti possano essere, queste relazioni incoraggiano gli
studenti a considerarsi arbitri del talento degli insegnanti. E quando il punto
dell’istruzione è rendere i clienti felici, la dipendenza del college dalle
valutazioni obbliga gli insegnanti più deboli o meno sicuri a diventare orsi
ballerini che si sforzano di essere amati o almeno di piacere, in modo che più
studenti leggano le valutazioni e tengano in vita il corso (e il contratto del
professore) anche per il trimestre successivo. Questo crea e alimenta un
circolo vizioso di compiacimento e inflazione dei voti.
Gli studenti dovrebbero essere coinvolti nella loro istruzione in un ruolo più
attivo di quello di osservatori o recettori di informazioni. L’impegno e il
dibattito rappresentano la linfa vitale di un’università e i professori non sono al
di sopra delle critiche né per le loro idee né per le loro capacità di
insegnamento. Ma il modello di istruzione industriale ha ridotto il college a
una transazione commerciale, in cui agli studenti viene insegnato come essere
consumatori schizzinosi anziché pensatori critici. L’effetto a catena sul ruolo
della competenza e il modo in cui questa situazione alimenta gli attacchi
contro il sapere costituito ostacolano lo scopo stesso di un’università.
“Allora perché [imprecazione] ha accettato questo lavoro?! Chi [imprecazione] l’ha assunta?!
Dovrebbe dimettersi! Se questo è ciò che pensa del suo ruolo di educatore dovrebbe dimettersi! Non
si tratta di creare uno spazio intellettuale! Non è così! Lo capisce? Si tratta di creare una casa. E lei
non lo sta facendo!”47 [corsivo mio]
Anziché disciplinare gli studenti che avevano violato l’etichetta del dibattito
accademico, Yale si è scusata con quegli isterici. Il direttore alla fine si è
dimesso dalla sua carica, pur rimanendo membro della facoltà. Sua moglie,
tuttavia, si è dimessa dal suo ruolo nel corpo docenti e ha lasciato del tutto
l’insegnamento universitario.
Per i professori di qualsiasi istituto, la lezione è stata chiara: il campus di
una prestigiosa università non è un luogo deputato all’esplorazione
intellettuale. È una casa di lusso, affittata da quattro a sei anni, nove mesi alla
volta, da bambini dell’élite che possono urlare contro il corpo docenti come se
stessero rimproverando delle goffe domestiche in una villa coloniale.
Un mese dopo il frastuono di Yale, sono divampate proteste all’Università
del Missouri in seguito a una ragazzata durante la quale è stata disegnata una
svastica con delle feci sulla parete di un bagno. Cosa avrebbe dovuto fare
l’ammiraglia delle università pubbliche del Missouri, oltre a lavare il muro,
non era del tutto chiaro, ma a ogni modo il campus è esploso. “Lo sa che cos’è
una repressione sistematica?!” urlò uno studente al rettore confuso. “Lo vada a
cercare su Google!” Gli studenti di giornalismo sono stati molestati e
minacciati, in un caso da un docente della facoltà con un incarico di cortesia,
colmo dei colmi, alla scuola di giornalismo. Dopo qualche altro giorno di
questo teatrino, il rettore dell’università ha rassegnato le dimissioni (il
direttore del campus e un professore che si erano rifiutati di annullare le
lezioni dopo le proteste hanno seguito entrambi il suo esempio).
La Missouri, tuttavia, non è Yale. Non ha una domanda rigida per i suoi
servizi. Le richieste e le donazioni hanno subito un brutto colpo in seguito alle
proteste e alle dimissioni.48 Alcuni mesi dopo, il professore associato di
giornalismo che aveva affrontato lo studente è stato licenziato. Quando il fumo
si è diradato, l’università si è ritrovata con un corpo docenti ridotto, meno
amministratori, candidati e donazioni, tutto perché un gruppo di studenti,
abilitati da un gruppo ancora più ristretto di docenti, aveva invertito i ruoli di
insegnanti e allievi in una grande università pubblica.
È interessante notare che questo è un argomento che spesso accomuna
intellettuali liberal e conservatori. Lo studioso britannico Richard Dawkins,
una specie di flagello per i conservatori a causa delle sue opinioni sulla
religione, si è detto perplesso all’idea degli “spazi sicuri”, aree libere da ogni
forma di espressione politica che potrebbe fungere da “innesco”, richiesti
dagli studenti americani. Dawkins non ha girato intorno al problema:
“Un’università non è uno ‘spazio sicuro’” ha affermato su Twitter. “Se hai
bisogno di uno spazio sicuro, vattene, torna a casa, abbraccia il tuo
orsacchiotto e succhiati il pollice finché non sei pronto per l’università.”
Allo stesso modo, dopo gli eventi di Yale e della Missouri, un giornalista
dell’Atlantic, Conor Friedersdorf, ha osservato che “quello che succede a Yale
non resta lì” e che le élite di domani stanno interiorizzando valori non di libera
espressione, ma di pura intolleranza. “Fanno tenerezza, questi studenti” ha
scritto in seguito Friedersdorf (a me no, ma Friedersdorf è più comprensivo di
me). “Ma se una mail sui costumi di Halloween li spinge a saltare le lezioni e
provoca loro un esaurimento, o hanno bisogno dell’aiuto di professionisti della
salute mentale oppure le snervanti nozioni ideologiche che hanno acquisito su
ciò che dovrebbe causare dolore hanno reso loro davvero un pessimo
servizio.”49
Nel frattempo, un editorialista libertario nonché professore di diritto
dell’Università del Tennessee, Glenn Reynolds, ha proposto una soluzione più
enfatica:
Per essere un elettore, bisogna essere in grado di partecipare alle discussioni politiche degli adulti. È
necessario essere in grado di ascoltare le argomentazioni contrarie e perfino – come sto facendo
proprio qui in questa rubrica – di cambiare idea di fronte a nuove prove.
Quindi forse dovremmo innalzare l’età per votare a venticinque anni, un’età in cui, lo speriamo
ardentemente, dovrebbe essersi instaurato un certo grado di maturità. È già abbastanza grave dover
trattare gli studenti universitari come bambini. Ma è intollerabile essere governati da bambini viziati.
Le persone che non sono in grado di discutere razionalmente dei costumi di Halloween non meritano
di avere un ruolo nella gestione di una grande nazione.50
Ora, grazie a internet […], una voce che riguarda l’Anticristo può rimbalzare in pochi secondi dai
dark svedesi fino a una setta di estremisti cattolici tradizionali che vivono in Australia. I gruppi
minoritari stanno diventando sempre più tolleranti nei riguardi delle dottrine eccentriche dei loro
analoghi. I contatti tra razzisti neri e bianchi, iniziati in modo esitante decenni fa, ora fioriscono e i
due gruppi si scambiano aneddoti complottisti.55
In un mondo più lento e meno connesso, questo tipo di gruppi non potrebbe
rafforzare le proprie convinzioni con affermazioni istantanee da parte di altri
estremisti online. La libera circolazione di idee è un potente elemento di
spinta della democrazia, ma porta sempre con sé il rischio che gente ignorante
o malvagia possa piegare gli strumenti della comunicazione di massa ai propri
fini e diffondere bugie e miti che nessun esperto riesce a dissipare.
Quel che è peggio, le cattive informazioni possono rimanere online per
anni. A differenza del quotidiano del passato, l’informazione online è
persistente e si ripresenta in ricerche successive dopo essere comparsa una
volta. Anche quando falsità ed errori vengono cancellati alla fonte, compaiono
in un archivio da qualche altra parte. Se le storie che contengono diventano
“virali” e viaggiano per il mondo elettronico nel giro di qualche giorno, di
qualche ora o addirittura di qualche minuto, sono di fatto impossibili da
correggere.
Per esempio, nel 2015 il polemico conservatore Allen West annunciò uno
scoop inventato secondo cui il presidente Obama costringeva i membri
dell’esercito americano a pregare come i musulmani per il Ramadan.56 Il sito
web di West accostò un titolo squillante – “Guardate cosa sono COSTRETTE
a fare le nostre truppe” – a una foto di soldati statunitensi inginocchiati e con
la testa poggiata sul tappeto da preghiera. Era un’immagine sconvolgente e la
notizia si diffuse rapidamente sui social media.
Non era successo nulla del genere: West aveva riciclato una fotografia,
scattata diversi anni prima, di veri musulmani dell’esercito statunitense mentre
pregavano. Anche quando furono sollevate obiezioni nei confronti della
fotografia fuorviante (tra gli altri, anche da parte mia), West non ritrattò la
storia. Non avrebbe avuto importanza, dato che era già stata archiviata su blog
e altri siti. La gente che naviga su internet e non ha né la preparazione né il
tempo per accertare la provenienza delle informazioni, da questo momento in
poi si imbatterà non soltanto nell’articolo originario ma anche in migliaia di
sue ripetizioni, e non saprà mai che si tratta di una fesseria.
Oggi nessuno ha bisogno di sentirsi frustrato per colpa di fact-checker
minuziosi o direttori risoluti. Così come in passato un bel libro rilegato poteva
fuorviare le persone e indurle a pensare che il suo contenuto fosse autorevole,
anche i siti web più curati offrono indicatori visivi di affidabilità e autenticità
che aiutano i lettori sprovveduti a diffondere cattive informazioni più
rapidamente di qualsiasi titolo della casa editrice William Randolph Hearst
potesse immaginare. Gli esperti e altri professionisti che insistono sul noioso
rigore della logica e dell’accuratezza fattuale non possono competere con una
macchina che dà sempre ai lettori la risposta che preferiscono in sedici milioni
di colori.
Il vapore non entra nell’utero dalla vagina a meno che non usiate un accessorio a pressione e
DECISAMENTE NON FATELO MAI. Artemisia o assenzio o qualsiasi altra sostanza, se
vaporizzate, sia a livello della vagina sia sulla vulva, non possono equilibrare gli ormoni della
riproduzione, regolarizzare il ciclo mestruale, curare la depressione o l’infertilità. Neanche gli
estrogeni vaporizzati possono farlo.
Se volete rilassarvi andate a fare un bel massaggio. Se volete rilassare la vagina, procuratevi un
orgasmo.57
Praticamente, se un medico mi dice di farlo, non se ne parla proprio. Ma se una bionda secca con
una brutta parrucca mi dice che soffiare aria bollente nella mia vagina curerà tutto quello di cui ho
mai sofferto, compreso il cattivo rapporto con mia madre, be’, allora ascolto Gwyneth Paltrow,
perché la ragazza ne sa, di scienza.58
Gli agitatori antivaccinisti sanno sempre trovare un ricercatore eretico o uno “studio” a caso che
confermi le loro idee. Questa è l’erudizione nell’èra del ciberspazio: navighi finché non giungi alla
conclusione che stai cercando. Vai avanti da un clic all’altro in cerca di conferme, confondendo la
presenza di un sito web con la plausibilità di una tesi.
Tra i problemi più importanti che non vengono risolti c’è la copertura asimmetrica del sito: le voci
sui Pokémon e sulle pornostar femminili sono esaurienti, ma le pagine sulle scrittrici o sulle località
dell’Africa subsahariana sono discutibili. Le voci autorevoli continuano a essere poche. Dei mille
articoli che i volontari del sito hanno taggato individuandoli come il fulcro di una buona
enciclopedia, la maggior parte non raggiunge neppure i quality score mediani della stessa
Wikipedia.67
Wikipedia ospita “articoli di primo piano”, che devono essere “ben scritti”,
“esaurienti” e “documentati”, tra cui “una rassegna approfondita e
rappresentativa della letteratura pertinente”, i cui contenuti vengono verificati
confrontandoli con “fonti affidabili e di alta qualità”.
In altre parole, Wikipedia vuole che i suoi pezzi migliori siano né più né
meno che articoli accademici sottoposti a una peer review, solo senza usare
veri esperti. La peer review è un processo difficile da controllare anche in
condizioni ottimali, quelle in cui gli editor cercano di assegnare la
supervisione ai migliori di ciascun campo evitando rivalità professionali e altri
conflitti d’interesse. Tradurre questo procedimento in un progetto destinato a
milioni di persone con una supervisione minima era un obiettivo assurdo.
Affinché una cosa come Wikipedia funzioni, praticamente tutti gli esperti di
qualsiasi argomento al mondo dovrebbero essere disposti a controllare ogni
voce.
Naturalmente, se lo misuriamo dalla prospettiva dei lettori, Wikipedia
funziona benissimo. E su alcuni argomenti è una fonte di informazioni
utilissima. Come osservava l’articolo del MIT, le voci sono sbilanciate “verso
argomenti tecnici, occidentali e dominati dalla prospettiva maschile”, così
quando si tratta di informazioni tangibili – e, aspetto più importante,
incontestabili – Wikipedia è riuscita a fondere moltissimi dati in un formato
affidabile e stabile (personalmente, mi piace che Wikipedia sia una ottima
fonte per le trame di quasi tutti i film, a prescindere dalle dimensioni della
produzione e da quanto siano conosciuti). Se volete sapere chi ha scoperto lo
stronzio, chi ha partecipato alla Conferenza navale di Washington del 1925 o
passare rapidamente in rassegna i Premi Nobel assegnati l’anno scorso,
Wikipedia è molto meglio di un motore di ricerca a caso.
Quando entra in scena un’agenda politica di qualche tipo, però, le cose
diventano molto più aleatorie. La voce di Wikipedia sull’arma chimica Sarin,
per esempio, è diventata un campo di battaglia tra persone animate da
motivazioni contrastanti riguardo all’idea che il governo siriano avesse usato
quella sostanza sui suoi cittadini. Anche la scienza di base ha subito degli
attacchi. Un analista di stanza a Londra, Dan Kaszeta – l’esperto di Sarin che
ho citato nel precedente capitolo e che ha ricevuto una dura lezione tentando
di aiutare una studentessa –, mi ha detto alla fine del 2015 che
se qualcuno dovesse affidarsi all’attuale pagina di Wikipedia per ottenere informazioni accurate
sull’agente per la guerra chimica Sarin, sarebbe fuorviato da mezze verità e numerose affermazioni
vaghe non supportate dalle fonti a corredo. Alcune informazioni sulla pagina di Wiki, seppur
tecnicamente corrette per certi aspetti, sono formulate in modi fuorvianti. Altre sono false.
Kaszeta ha aggiunto di aver “trascorso molte ore, dopo l’utilizzo del Sarin in
Siria nel 2013, a correggere una serie di luoghi comuni sulla sostanza, molti
indubbiamente attribuibili a errori e mezze verità sulle relative pagine di
Wikipedia”.
Quello che la gente fraintende riguardo a Wikipedia e ad altre risorse
online, oltre alla saggezza della folla in generale, è che il sapere non consiste
soltanto nel mettere insieme un pacchetto di fatti non verificati o nel fare
predizioni lanciando una monetina. I fatti non parlano da sé. Fonti come
Wikipedia sono preziose per ottenere dati elementari, come una specie di
almanacco in continua evoluzione, ma non sono di grande aiuto in questioni
più complesse.
La folla può essere saggia. Non tutto, però, è soggetto al voto di una folla.
Internet crea una falsa sensazione per cui le opinioni di tante persone
equivalgono a un “fatto”. Il modo in cui un virus si trasmette da un individuo a
un altro non è la stessa cosa che indovinare quante gelatine contiene un
recipiente di vetro. Il comico John Oliver ha dichiarato che non occorre
raccogliere opinioni su un fatto: “Tanto vale indire un sondaggio e chiedere:
‘Quale numero è più alto, 15 o 5?’ oppure: ‘I gufi esistono?’ o ancora: ‘Ci sono
cappelli?’”.
Analogamente, le politiche pubbliche non sono un gioco da tavolo basato
sulle predizioni: si tratta di compiere scelte a lungo termine basate su una
riflessione ponderata dei costi e delle alternative. Chiedere alla folla di tirare a
indovinare riguardo a eventi specifici in partite di freccette mentali a breve
termine non è d’aiuto quando si tenta di navigare in acque politiche
complicate. “Il siriano Bashar al-Assad userà le armi chimiche a un certo
punto del 2013” è una scommessa alla pari, come puntare una fiche su un
colore nella roulette. È una domanda che prevede sì o no come risposta, e a un
certo punto avremo vinto o perso la scommessa. Non è come chiedersi:
“Perché Bashar al-Assad dovrebbe usare le armi chimiche?”, ed è lontana anni
luce dal dilemma: “Cosa dovrebbe fare l’America se Bashar al-Assad usasse
le armi chimiche?”. Internet, tuttavia, fonde tutte e tre le domande e trasforma
ogni questione complicata in un sondaggio con un pulsante di opzione che
offre una soluzione rapida.
La facilità con cui le persone possono dire la propria su questi argomenti, e
a volte addirittura centrare una predizione a riguardo quando gli esperti
magari si sbagliano, è l’ennesimo strato di armatura anti-intellettuale che si
salda alla resistenza mostrata dai profani nei confronti di idee più consapevoli
delle proprie.
TI TOLGO L’AMICIZIA
In Rete, tutti sono dei critici: un artista dell’umiliazione su Yelp, uno studioso di Amazon, una
cheerleader che grazie ai social media può mettere a suo piacimento like e condividere. La pomposa
autorevolezza, sempre sospetta, di disgraziati macchiati d’inchiostro come me è stata azzerata
dall’anarchia digitale. Chi ha bisogno di un lamentoso eccentrico quando un amichevole algoritmo,
sulla base dei tuoi acquisti precedenti, ti dice che forse potrebbe piacerti anche qualcos’altro, e frotte
di amici su Facebook confermano la saggezza delle tue scelte?70
Per gli utenti l’anonimato dei social media è una tentazione a discutere come
se tutti i partecipanti fossero uguali, un gruppo di pari che parte dallo stesso
livello di formazione e istruzione. È un ruolo che pochissimi rivestirebbero
nella vita reale, ma su internet il narcisismo intellettuale del commentatore
random soppianta le norme che solitamente governano le interazioni faccia a
faccia.
Questa strana combinazione di distanza e intimità avvelena le conversazioni.
Le discussioni ragionevoli richiedono che i partecipanti siano onesti e bene
intenzionati. La vicinanza reale contribuisce a costruire fiducia e
comprensione. Non siamo soltanto cervelli in una vasca intenti a elaborare
brandelli disparati di dati; ascoltiamo un’altra persona affidandoci anche a una
serie di indizi visivi e uditivi, non soltanto osservando le sue parole che ci
scorrono davanti agli occhi. Gli insegnanti, soprattutto, sanno che lo stesso
materiale, presentato a distanza o su uno schermo, ha un impatto diverso
dall’interazione personale con uno studente che può rivolgere domande,
aggrottare la fronte perplesso o avere un’espressione di improvvisa
illuminazione.
La distanza e l’anonimato eliminano la pazienza e le presunzioni di
benevolenza. L’accesso rapido alle informazioni e la capacità di parlare senza
dover ascoltare, insieme al “coraggio da tastiera” che permette alle persone di
dirsi delle cose nell’ambiente elettronico che non si direbbero mai di persona,
stronca la conversazione. Il giornalista Andrew Sullivan ha osservato che in
parte la causa è che nulla su internet è definitivo, e quindi ciascun
partecipante a un dibattito esige di essere preso sul serio quanto gli altri:
E ciò che alimenta più di ogni altra cosa questo processo è proprio quello che i padri fondatori
temevano nella cultura democratica: il sentimento, l’emozione e il narcisismo, anziché la ragione,
l’empirismo e il senso civico. I dibattiti online diventano personali, emotivi e irrisolvibili
praticamente fin dall’inizio. Sì, ogni tanto si aggira qua e là qualche affermazione razionale, ma sono
diminuiti sensibilmente gli arbitri appartenenti all’élite che decretano quale di queste affermazioni
sia vera o valida o pertinente.71
Twitter, Facebook, Reddit e altri siti web possono essere sbocchi per
discussioni intelligenti, ma fin troppo spesso questi e altri luoghi di incontro
diventano nulla più che una raffica di asserzioni, certezze, informazioni
scadenti e insulti, e non di veri e propri scambi.
Certo, internet agevola anche le conversazioni tra persone che altrimenti
non si sarebbero mai incontrate. Gli introversi potrebbero dire che un’arena
come Reddit o la sezione dei commenti di una rivista online aprono la porta a
un’interazione maggiore per persone che forse prima erano riluttanti a
partecipare a una pubblica discussione. Purtroppo consentire a chiunque di
esprimere un’opinione significa che quasi tutti esprimono un’opinione, ed è
per questo che molte pubblicazioni, dal Toronto Sun al Daily Beast, stanno
chiudendo le sezioni dedicate ai commenti online.
Tutte queste interazioni non riescono ad allentare l’attaccamento dei profani
alla disinformazione. In realtà, il problema potrebbe essere più grave di come
pensiamo. Di fronte alla prova incontrovertibile che si sbagliano, alcune
persone raddoppiano semplicemente la puntata sulla loro affermazione
originaria anziché accettare il proprio errore. Si tratta dell’“effetto
boomerang” per cui le persone raddoppiano i loro sforzi per mantenere la
coerenza della loro narrazione interiore, a prescindere da quanto siano chiari i
segnali che hanno torto.72
Internet, come sottolinea David Dunning, acuisce il problema in molti
modi, per esempio perché per confutare un’idea sciocca occorre ripeterla
almeno una volta durante la discussione. Ciò crea un campo minato per gli
insegnanti e altri esperti, che rischiano di confermare un errore
semplicemente ammettendone l’esistenza:
Poi, ovviamente, c’è il problema della disinformazione rampante in luoghi che, a differenza delle
aule, sono difficili da controllare, come internet e i mezzi d’informazione. In questi contesti da
Selvaggio West, è meglio non ripetere affatto le comuni opinioni errate. Dire alla gente che Barack
Obama non è musulmano non può far cambiare idea a molti, perché spesso la gente ricorda tutto
quello che si è detto tranne la parola fondamentale: “non”.73
Lo sapevate che il cioccolato può aiutarvi a perdere peso? Certo che sì. Lo
avete letto sul giornale. Anzi, potreste averlo letto su tanti giornali, e guai agli
esperti, tra cui un medico, che magari vi hanno detto il contrario. Dopotutto,
nascondere le miracolose qualità dimagranti del cibo più gustoso del mondo è
proprio il tipo di cosa che farebbero gli esperti. Fortunatamente uno scienziato
tedesco, Johannes Bohannon dell’Institute of Diet and Health, ha scritto un
articolo che è stato pubblicato su una rivista e poi allegramente riportato sulla
stampa di tutto il mondo, e ha verificato quello che tutti noi sospettavamo fin
dall’inizio: il cioccolato fa davvero bene.
Soltanto che Johannes Bohannon non esiste. E neppure l’Institute of Diet
and Health. La rivista che ha pubblicato l’articolo è vera, ma a quanto pare
non è tanto scrupolosa in aspetti come peer review e editing. “Johannes”
Bohannon era in realtà un giornalista di nome John Bohannon, che faceva
(nelle sue stesse parole) “parte di una squadra formata da gonzo journalists e
un medico” che volevano “dimostrare quanto è facile trasformare la cattiva
scienza nei titoloni dei giornali da cui nascono le mode dietetiche”.75
Quindi la cioccolata non fa dimagrire. Ma lo sapevate che la Cisgiordania e
Gaza, i territori palestinesi occupati ai due lati di Israele, sono collegate da un
ponte su cui a volte gli israeliani limitano crudelmente il traffico palestinese?
Potreste aver letto anche questa storia nelle “notizie”. Nel 2014 la rivista
online Vox – che si definisce una fonte che spiega questioni complicate a tutti
– ha elencato “11 fatti cruciali per comprendere la crisi tra Israele e Gaza”.
Nel fatto numero 1 compariva il ponte tra Gaza e la Cisgiordania. Che non
esiste.
Vox ha corretto il suo errore – l’autore ha sostenuto di aver visto un articolo
sulla proposta di costruzione di un ponte ma di non essersi accorto che non
era mai stato realizzato – ma non prima che i critici si facessero una bella
risata ai danni della rivista. La giornalista Mollie Hemingway ha osservato che
nessuno dei suoi colleghi può evitare di commettere un errore ogni tanto, e
pochi possono essere esperti di ogni argomento, ma “il ponte di Gaza” non
riguardava “sbagliare un nome o non conoscere qualche dettaglio oscuro”,
significava “non avere affatto familiarità con quell’area geografica”.76 Come
accade con tutte le errata corrige, possiamo soltanto chiederci quante persone
ricordino la storia ma non la correzione.
Vox è un bersaglio regolare di simili critiche, e per buone ragioni. All’inizio
del 2016 ha pubblicato un titolo che recitava: “La cosa più radicale che le
Black Panthers abbiano mai fatto è stata dare ai bambini la colazione gratis”.
Le Pantere Nere, un gruppo radicale formatosi alla fine degli anni Sessanta
che fondeva il nazionalismo nero e il marxismo-leninismo, furono coinvolte in
numerosi casi di violenza, omicidio, sparatorie con la polizia. Non erano
proprio gli impiegati amichevoli di un centro diurno. Il pezzo di Vox ha spinto
l’editorialista di Daily Beast Michael Moynihan a scrivere questo tweet:
“Ricordate quando i giornalisti ‘che spiegano’ dovevano saperne qualcosa di
quello che stavano spiegando? No, nemmeno io”.
Quindi il cioccolato non è un miracolo dimagrante e non esiste un ponte tra
Gaza e la Cisgiordania. Forse le Pantere Nere erano un po’ più toste di quello
che ricordiamo. Ma magari non eravate a conoscenza del vero significato della
Pasqua cristiana, che celebra la resurrezione di Gesù Cristo in paradiso. È
quello che ha scritto il New York Times nel 2013. Ora, i Vangeli contengono
qualche riferimento a Gesù che prima se ne va in giro per un po’, ed è
probabilmente la versione che i parroci e i preti delle chiese locali raccontano
ogni primavera. I membri del clero potranno essere intelligenti, e tra loro
qualcuno avrà anche una laurea in teologia, ma chi sono per discutere con il
New York Times?
Nel mondo ci sono più di un miliardo di cristiani e, fatto straordinario,
alcuni si sono accorti dell’errore. Il Times ha pubblicato in sordina quella che
forse è l’errata corrige più eufemistica nella storia dei quotidiani: “Una
versione precedente di questo articolo conteneva una descrizione fuorviante
della festività cristiana della Pasqua. Si tratta della celebrazione della
resurrezione di Gesù dalla morte, non della sua resurrezione in paradiso”.77 È
un’affermazione più accurata della versione ufficiale, ma il fatto che sia stata
sbagliata all’inizio significa che qualcuno al Times non aveva idea di cosa
fossero “l’incredulità di San Tommaso” o altri riferimenti culturali condivisi
che derivano da momenti del Nuovo Testamento in cui Gesù compare di
persona anziché prendere l’ascensore diretto all’ultimo piano nella domenica
di Pasqua.
Se tenere il passo con tutta questa disinformazione vi stanca, potete sempre
rifugiarvi nella letteratura di qualità e magari leggere uno dei grandi romanzi
di Evelyn Waugh. Dopotutto, nel 2016 Waugh risultò nell’elenco delle “100
scrittrici più grandi di tutti i tempi” pubblicata dalla rivista Time, quindi
magari vale la pena scoprire le sue opere.
Solo che ovviamente Evelyn Waugh (che morì nel 1966) era un uomo.
Castronerie di questo tipo non sono soltanto un prodotto dell’età di internet.
Un articolo sulla prima pagina del Washington Post di oltre trent’anni fa, per
esempio, sosteneva che l’Irlanda facesse parte della Nato, cosa che sarebbe
stata uno shock non solo per il popolo irlandese, notoriamente neutrale, ma
anche per l’Unione Sovietica e per gli Stati Uniti. Tutti commettono degli
errori, compresi esperti, giornalisti, direttori di giornale e fact-checker. Sono
cose che succedono.
Purtroppo, però, questo tipo di errori si verifica molto più di frequente nel
nuovo mondo del giornalismo del Ventunesimo secolo. Quel che è peggio, a
causa di internet la disinformazione si diffonde molto più rapidamente e resta
in circolazione molto più a lungo. In un mondo di informazione costante,
consegnata ad alta velocità e disponibile ventiquattr’ore al giorno, ormai il
giornalismo a volte contribuisce alla fine della competenza tanto quanto
rappresenta una difesa contro di essa.
Mi rendo conto che sembra rozzo lamentarsi del banchetto di notizie e
informazioni che ci ha portato l’èra dell’informazione, ma voglio lamentarmi
lo stesso. I cambiamenti nel giornalismo, come l’aumento dell’accesso a
internet e all’istruzione universitaria, hanno avuto effetti inaspettatamente
corrosivi sul rapporto tra profani ed esperti. Anziché informare meglio la
gente, molto di quello che passa per notizie nel Ventunesimo secolo spesso
rende i profani – e a volte anche gli esperti – ancora più confusi e irascibili.
Gli esperti si trovano davanti a una sfida: ci sono più notizie a disposizione,
eppure le persone sembrano meno informate, e questa tendenza risale almeno
a venticinque anni fa. Paradossalmente, è un problema che peggiora anziché
scomparire. Non solo le persone ne sanno di meno del mondo che le circonda,
ma nutrono anche meno interesse nei suoi confronti, malgrado la maggiore
disponibilità di informazioni rispetto al passato.
Già nel 1990, per esempio, uno studio condotto dalla Pew Trust segnalava
che il disimpegno da importanti questioni pubbliche era in realtà più grave tra
le persone al di sotto dei trent’anni, il gruppo che avrebbe dovuto essere più
ricettivo nei confronti delle fonti di informazione all’epoca emergenti, come la
televisione via cavo e i media elettronici. Si trattava di un cambiamento
importante nella cultura civica americana, notava lo studio della Pew:
Nel corso della maggior parte degli ultimi cinque decenni i cittadini più giovani sono stati informati
almeno quanto i più anziani. Nel 1990 non è più così. […] Quelli al di sotto dei 30 anni sanno meno
di quanto i giovani sapevano in passato. E sono meno interessati a quello che succede nel mondo che
li circonda. Gli scienziati sociali e i sondaggisti hanno da tempo ammesso che i giovani sono di
solito meno in sintonia con la politica e le questioni più serie. Ma la differenza si è acuita
profondamente.78
Quegli intervistati adesso sono a loro volta persone di mezza età, e i loro figli
non vanno molto meglio. Uno studio condotto nel 2011 dalla University of
Chicago ha rilevato che i laureati americani “non sono riusciti a fare progressi
significativi nel pensiero critico e nel ragionamento complesso durante i
quattro anni trascorsi al college”, ma, dato più preoccupante, “non sono
riusciti neanche a sviluppare una propensione all’impegno civile”.79 Come i
loro genitori, questi giovani non solo erano meno informati di quanto
potevamo aspettarci, ma anche meno interessati ad applicare quel po’ che
avevano imparato alle loro responsabilità di cittadini.
Così, quando la risposta di un profano a un esperto consiste in “l’ho letto sul
giornale” o “l’ho visto al telegiornale”, potrebbe non significare granché. Anzi,
forse l’informazione non proviene affatto “dal telegiornale” o “dal giornale”,
ma da qualcosa che sembra soltanto una fonte di notizie.
Più probabilmente, una risposta simile significa “ho visto qualcosa in una
fonte che casualmente mi piace e mi ha detto qualcosa che volevo sentire”. A
quel punto, la discussione non va da nessuna parte: la questione originaria
viene sommersa o si perde nel tentativo di sbrogliare il pezzo di
disinformazione che ha dato il via alla conversazione.
Com’è accaduto tutto questo? Com’è possibile che le persone siano più
immuni ai fatti e al sapere in un mondo in cui sono costantemente bersagliate
da fatti e sapere? Una risposta sintetica, per quel che riguarda il giornalismo –
ed è una spiegazione che potrebbe applicarsi a molte innovazioni moderne –, è
che la tecnologia è entrata in collisione con il capitalismo e ha dato alla gente
quello che voleva, anche quando non le faceva bene.
Mi rendo conto che criticare il giornalismo e i moderni mezzi di
informazione mi mette a rischio di violazione della Prima Direttiva degli
esperti: non dire mai agli altri esperti come fare il loro lavoro. Anche se non
sono un esperto di giornalismo, comunque, sono un consumatore dei suoi
prodotti. Mi affido ai notiziari in quanto parte della mia professione, sia di
insegnante sia di analista politico. Devo farmi strada tra gli ostacoli che ogni
esperto si ritrova di fronte nel comunicare ogni giorno eventi e idee complessi
ai profani. Per alcuni versi, i media moderni hanno reso il mio lavoro – aiutare
le persone a capire un mondo complicato – più difficile rispetto a vent’anni fa.
IL TROPPO STROPPIA, ANCHE DI UNA COSA BUONA
Dobbiamo essere più ricettivi nei confronti di quello che vuole il pubblico. Credo che la tradizione
nei quotidiani sia che noi abbiamo fatto il bello e il cattivo tempo e abbiamo detto ai lettori cosa
pensiamo vogliano sapere. Sono convinto che dobbiamo scendere da quella montagna e chiedere alla
gente, coinvolgerla un po’ di più nella conversazione.82
I quotidiani più grandi concordano. “Come fai a dire che non ti importa quello
che pensano i tuoi clienti?” ha dichiarato nel 2015 Alan Murray, responsabile
delle notizie online al Wall Street Journal. “Ci importa moltissimo di quello
che pensano i nostri lettori. Ma anche ai nostri lettori importa moltissimo il
nostro giudizio editoriale. E allora cerchiamo sempre di mantenere un
equilibrio tra le due cose.”83
I giornalisti e i loro direttori giurano e spergiurano che non permettono al
pubblico di guidare la selezione e la copertura delle notizie, ma è difficile
crederci. Un’inchiesta pubblicata nel 2010 dal New York Times ha cercato di
fare buon viso a cattivo gioco dopo aver descritto l’accuratezza con cui il
Washington Post e altri giornali monitorano il loro traffico web: “Anziché
danneggiare la capacità di giudizio giornalistico spingendo i direttori ad
assecondare i più bassi interessi dei lettori, finora la disponibilità di questa
tecnologia sembra condurre a decisioni più chirurgiche su come seguire un
argomento in modo da renderlo più appetibile per un pubblico online”.84 I
lettori del Post, osserva con orgoglio l’articolo, erano meno interessati alle
elezioni in Gran Bretagna del 2010 che alle Crocs (brutte scarpe che hanno
fatto tendenza per un periodo), ma ciò non ha spinto il giornale ad alterare la
sua copertura. Forse è un sollievo saperlo, ma è inquietante che si sia arrivati a
dover fornire questa rassicurazione.
A giudicare dalla consapevolezza che il pubblico ha delle questioni
importanti, il bisogno dei lettori non è tanto quello di contribuire di più agli
articoli quanto di ricevere informazioni elementari, tra cui ogni tanto una
mappa con un cursore VOI SIETE QUI. È difficile immaginare un organo di
stampa in un mercato meno competitivo e affollato che chieda allo stesso
modo ai lettori cosa vogliono, ma in un mercato saturo di informazioni era
solo questione di tempo prima che la situazione si ribaltasse e i giornalisti
cominciassero a domandare ai lettori cosa piacerebbe loro leggere anziché
informarli delle cose che devono sapere.
Questa fusione di intrattenimento, notizie, saccenteria e partecipazione dei
cittadini è un garbuglio caotico che non informa la gente, ma crea bensì
l’illusione di essere informati. Così come cliccare all’infinito da una pagina
internet all’altra induce la gente a pensare di imparare nuove cose, guardare
per ore e ore la televisione e scorrere centinaia di titoli sta producendo profani
convinti – erroneamente – di capire le notizie. Quel che è peggio, la loro
interazione quotidiana con così tanti media li rende resistenti ad apprendere
qualsiasi altra cosa che richieda troppo tempo o non sia sufficientemente
divertente.
E questo sovraccarico di informazioni non sta travolgendo soltanto i profani.
Il fatto è che tutti stiamo annegando nei dati, compresi i professionisti che
prestano molta attenzione alle notizie e che cercano di essere consumatori
selettivi. Nel 2015 il National Journal ha condotto un sondaggio tra un gruppo
di persone definite “insider di Washington”, composto perlopiù da funzionari
del Congresso, dirigenti del governo federale e professionisti dell’attualità nel
settore privato, chiedendo loro in che modo si informavano. Secondo la
ricerca per questi “insider” era più facile che mai ottenere informazioni, “ma
più difficile che mai venirne a capo”. I professionisti di Washington, come
tutti gli altri, erano “in un certo senso paralizzati” da un “eccesso” di notizie
che li induceva a “perdere fiducia nelle singole fonti e nelle singole
informazioni”.85
Se i legislatori di professione e il personale amministrativo di Washington
non riescono a venire a capo delle notizie, come potrebbero farlo gli altri? Chi
ha tempo a sufficienza per esaminare tutto? Lo studio del National Journal
accenna addirittura a questa mancanza di tempo in una nota in cui si dice che
per leggerlo tutto occorrono quarantacinque minuti, ma soltanto venticinque
per sfogliarlo. È un paradosso ovvio e inquietante allo stesso tempo.
Questo flusso infinito di notizie e di trasmissioni interattive su misura in
realtà precede internet e la tv via cavo. Precede perfino la televisione. Tutto è
cominciato con la radio; più precisamente, la radio è il medium grazie al quale
la gente si è immersa per la prima volta in notizie e discussioni infinite, e che
in teoria è stato ucciso dalla televisione negli anni Sessanta ma ha trovato una
nuova vita alla fine del Ventesimo secolo.
RADIO KILLED THE VIDEO STAR
La competenza guadagnata a fatica non era necessaria se c’erano ore di spazio televisivo e
radiofonico o bacheche di discussione online da riempire. […] Ormai da decenni il rispetto per
l’autorità si è eroso in tutto il panorama politico. La profusione di informazioni e di tecnologie di
comunicazione ha dato voce e sicurezza a persone che in precedenza si sarebbero rimesse
all’autorità.86
Non c’è soltanto la Fox. La Msnbc e altri network hanno sviluppato i loro programmi politici urlati,
versioni verbali degli incontri di wrestling. I mezzibusti fanno gli arroganti, interrompono e si
mettono in bella mostra con modi sgarbati. I telespettatori si godono lo spettacolo. Si vende
pubblicità. Si fanno soldi.89
Per quasi trent’anni ho aperto pressoché ogni corso che tengo, al college o di
specializzazione post laurea, dicendo ai miei studenti che non importa
cos’altro facciano, ma dovrebbero consumare ogni giorno una dieta equilibrata
di notizie. Dico loro di seguire i principali quotidiani, di guardare almeno due
network, di abbonarsi almeno a una rivista (online o cartacea) con cui sono
costantemente in disaccordo.
Dubito di essere riuscito a ottenere molto in tal senso. Se i miei studenti
assomigliano agli altri americani, tendono a seguire fonti con cui sono già
d’accordo. Nel 2014, per esempio, un sondaggio della Pew ha chiesto agli
americani di quali fonti di notizie televisive “si fidavano di più per avere
informazioni accurate sulla politica e l’attualità”. I risultati sono esattamente
quello che ci potremmo aspettare in un mercato dei media frammentato: la
gente gravita verso fonti di cui condivide già le idee.
Tra tutti gli americani, l’emittente apertamente conservatrice Fox News si è
avvicinata ai telegiornali tradizionali (ovvero i notiziari della sera, in onda da
tempo, trasmessi da Abc, Cbs e Nbc) come “la più degna di fiducia”, ma
soltanto per pochi punti. La Cnn è arrivata terza con un piccolo distacco.
Insieme, la Fox e la Cnn erano “le più degne di fiducia” per più di 4
intervistati su 10, ma tra coloro che si autodefinivano conservatori la Fox,
come prevedibile, era la fonte maggiormente degna di fiducia per il 48 per
cento. Coloro che si autodefinivano moderati si dividevano equamente tra i
telegiornali e la Cnn (rispettivamente il 25 e il 23 per cento), mentre la Fox e
la televisione pubblica erano al secondo e terzo posto. Tra coloro che si
identificavano come liberal, i telegiornali in onda sui network erano in testa
come “più degni di fiducia” con il 24 per cento, mentre la Cnn e la televisione
pubblica erano praticamente ex aequo rispettivamente al 16 e 17 per cento.
L’aspetto più sorprendente dello studio, tuttavia, è la presenza del Daily
Show, programma satirico d’attualità presentato per diversi anni dal comico
Jon Stewart, tra le fonti di notizie “più degne di fiducia”. Il 17 per cento degli
intervistati liberal ha indicato il Daily Show come “fonte più degna di fiducia”,
piazzando in tal modo Stewart alla pari con la Cnn e la televisione pubblica, e
superando la progressista Msnbc di 7 punti percentuali. La Msnbc (il cui
motto per un periodo è stato: “Ci muoviamo in avanti”, qualsiasi cosa
significhi) era la fonte meno degna di fiducia nel 2014: ogni gruppo oggetto
del sondaggio l’ha collocata all’ultimo posto, e i conservatori hanno preferito
Stewart al network progressista di un punto percentuale.
In questi dati è in azione una differenza generazionale, dato che il pubblico
più giovane ha più probabilità rispetto a quello maturo di sintonizzarsi con una
fonte d’informazione non tradizionale. Ma questa trasformazione delle notizie
in intrattenimento si allarga a tutte le fasce demografiche. Tutta l’attività di
tenersi informati è diventata una specie di esercizio postmoderno di ironia e
cinismo, in cui parole come “verità” e “informazione” significano quello che la
gente vuole che significhino. Come ha scritto Eliot Cohen, professore della
Johns Hopkins, nel 2016 la differenza tra una generazione che veniva a
conoscenza delle notizie da Walter Cronkite e David Brinkley e una che si
informa tramite Jon Stewart e il suo collega comico Stephen Colbert “è la
stessa che corre tra ascoltare degli adulti seri e ridacchiare in compagnia di
giovani hipster irriverenti”.90
Lamentele di questo genere, naturalmente, sembrano proprio il tipo di
osservazioni che potrebbe fare un brontolone di mezza età. Altri critici,
tuttavia, controbattono che la natura generica delle notizie in tv è proprio il
motivo per cui i telespettatori più giovani si sono rivolti a delle alternative. Ha
dichiarato James Poulos, un giornalista di stanza a Los Angeles (e membro
molto più giovane della Generazione X), nel 2016: “È sconvolgente il modo in
cui i baby boomers sono passati dal non fidarsi di nessuno al di sotto dei trent’
anni al fidarsi di qualsiasi idiota con una faccia simmetrica e un abbigliamento
business casual”. Stewart sarà anche un comico, ma i suoi telespettatori più
giovani probabilmente erano più informati dei loro coetanei che non
guardavano affatto i notiziari.
Il problema non è l’esistenza di tutti questi network e queste celebrità, ma
che gli spettatori effettuano una selezione al loro interno e poi si convincono
di essere informati. I media moderni, con così tante opzioni personalizzate per
specifiche opinioni, rappresentano un esercizio enorme di bias di conferma.
Ciò significa che gli americani non sono soltanto poco informati, ma anche
disinformati.
C’è una differenza immensa tra questi due mali. Nel 2000 uno studio sul
sapere pubblico condotto dalla University of Illinois, come ha osservato in
seguito la politologa Anne Pluta, ha scoperto che “i cittadini ignoranti non
hanno alcuna informazione, mentre quelli disinformati possiedono
informazioni in conflitto con le prove migliori di cui disponiamo e con il
parere degli esperti”. Non soltanto queste persone “colmano i vuoti nella loro
conoscenza di base usando il proprio sistema di valori”, ma con il passare del
tempo questi valori diventano “indistinguibili dai dati concreti”. E ovviamente
i cittadini più disinformati “tendono a essere i più sicuri delle proprie opinioni
e anche i faziosi più decisi”.91
Questo è uno dei motivi per cui una sparuta fetta di americani si fida dei
pochi notiziari o programmi di attualità che guarda. Troppe persone si
avvicinano alle notizie con l’assunto di base di essere già esperti delle
questioni di cui si tratta. Non cercano tanto informazioni quanto conferme, e
quando ricevono informazioni sgradite gravitano verso fonti che apprezzano di
più perché credono che gli altri si sbaglino o addirittura che mentano. In
passato, quelle altre fonti erano più difficili da trovare: quando la gente doveva
accontentarsi di un numero di canali più esiguo, aveva a che fare con notizie
che non erano specificamente ritagliate su misura sui propri pregiudizi. Oggi,
centinaia di emittenti soddisfano anche le agende politiche e i pregiudizi più
meschini.
Questa mentalità, e il mercato che la sostiene, crea nei profani una miscela
di sicurezza infondata e di profondo cinismo, abitudini mentali che
sconfiggono anche i migliori sforzi degli esperti per educare i loro
concittadini. Gli esperti non possono rispondere alle domande di cui la
maggior parte delle persone pensa di conoscere già le risposte, né possono
portare avanti un messaggio quando così tanta gente è già pronta a sparare al
messaggero (o, nel migliore dei casi, a ignorarlo). È già un male che le
persone non seguano le notizie; è peggio quando non si fidano di quelle poche
che leggono e si mettono a guardare in giro finché non trovano quello che
stanno cercando.
In parte, la sfiducia degli americani nei media è soltanto un sintomo di una
malattia più grande: gli americani, in numero sempre maggiore, non si fidano
più di nessuno. Guardano tutte le istituzioni, media compresi, con disprezzo.
Tutti odiano i media, o almeno tutti sostengono di odiare i media. Secondo i
sondaggisti, gli organi di informazione sono tra le istituzioni che godono di
minor fiducia negli Stati Uniti; un sondaggio Gallup del 2014 ha rilevato che
soltanto 4 americani su 10 contano sul fatto che i media riportino le notizie
“integralmente, in modo accurato e imparziale”, il livello più basso mai
registrato.92
Ovviamente la gente non odia davvero i media, ma soltanto quelli che
annunciano notizie sgradite o mandano in onda opinioni con cui sono in
disaccordo. Uno studio Pew del 2012 ha osservato che due terzi degli
americani ritiene che gli organi di informazione in generale siano “spesso
inaccurati”, ma quel numero si riduce a meno di un terzo quando la domanda
posta riguarda gli organi di stampa “che lei usa maggiormente”.93 Si tratta
grossomodo della stessa situazione, come hanno sottolineato nel corso degli
anni molti osservatori, in cui tutti dicono di odiare il Congresso, quando
quello che intendono davvero è che odiano tutti i membri del Congresso
tranne i propri. Analogamente, le persone che odiano “i media” guardano
ancora “le notizie” o leggono “il giornale”, basta che siano quelli di cui già si
fidano.
In una democrazia, questo livello di cinismo nei confronti dei media è
tossico. Tutti i cittadini, esperti compresi, hanno bisogno di notizie. I
giornalisti riferiscono eventi e sviluppi del mondo che ci circonda, e
forniscono una riserva di fatti che usiamo come materiali grezzi per formare
molte delle nostre opinioni, idee e convinzioni. Dobbiamo affidarci al loro
giudizio e alla loro obiettività, perché di solito le loro inchieste sono il nostro
primo incontro con eventi o fatti sconosciuti. In tutto il mondo, i giornalisti
fanno il loro lavoro egregiamente, spesso rischiando la vita. Eppure la
maggioranza degli americani non si fida delle informazioni che forniscono.
Il fatto che il mercato sia incentrato sulla forma anziché sul contenuto,
l’esigenza di velocità e i “pregiudizi alla moda” dell’università moderna si
uniscono creando una triplice disinformazione. Non sorprende che giornalisti
esperti come Joel Engel, scrittore ed ex collaboratore del New York Times e
del Los Angeles Times, si siano lamentati del fatto che per l’America era
meglio “quando i ‘giornalisti’ erano cronisti che a malapena avevano il
diploma di scuola superiore”.
Questi giornalisti inesperti possono avere un effetto importante sulle
informazioni a disposizione delle tante persone che ottengono le notizie grazie
ai social media. Facebook, per esempio, usa dei “curatori” delle notizie per
decidere cosa compare nel news feed di un utente. Secondo una denuncia di
Gizmodo risalente al 2016, Facebook trattava questi reporter come freelance
di bassa lega pur concedendo loro un potere immenso sulle notizie:
La sezione delle notizie di tendenza [di Facebook] è diretta da persone che hanno dai venti a poco
più di trent’anni, in gran parte laureati all’Ivy League e in istituti privati della East Coast come la
Columbia University e la NYU. In precedenza hanno lavorato in testate come il New York Daily
News, Bloomberg, Msnbc e il Guardian. Alcuni ex “curatori” hanno lasciato Facebook per lavori in
aziende come il New Yorker, Mashable e Sky Sports.
Secondo gli ex membri del team intervistati da Gizmodo, questo gruppetto ha il potere di scegliere
quali notizie compaiono nella barra dei trend e, cosa più importante, a quali siti d’informazione
conducono i link di ciascun argomento. “Scegliamo i trend” ha detto uno di loro. “Non esisteva un
vero standard per misurare cosa può passare per notizia e cosa no. Spettava ai ‘curatori’ di notizie
decidere.”95
Troppi corrispondenti non sanno niente dei posti che vanno a seguire: che sia la Georgia o
l’Afghanistan, la conoscenza di base è significativamente assente dai resoconti dei media (un
cronista freelance in Georgia mi ha detto che i corrispondenti permanenti chiedevano agli ufficiali:
“Dov’è l’Abcasia?”). L’esperienza personale indica che la situazione è grossomodo analoga in
Afghanistan: “È solo una settimana di embedding”, sembra sia il pensiero più frequente, “quindi non
devo lavorare troppo, posso imparare sul campo”.98
Senza alcuna conoscenza di base, i giovani reporter non hanno nulla su cui
fare affidamento se non una laurea in giornalismo, che nelle parole di Joel
Engel è “un processo di omogeneizzazione” che “garantisce conformità” e
produce giovani professionisti che escono dal college “vedendo quello che
credono”.
Questa assoluta ignoranza o perfino negligenza professionale può provocare
danni seri a persone in carne e ossa e alle loro comunità. Nel 2014, per
esempio, Rolling Stone è incappato in un grosso errore giornalistico
pubblicando un articolo ormai famigerato su uno stupro di gruppo alla
University of Virginia. Una cronista, determinata a scovare una storia di
aggressione sessuale in un campus americano d’élite, l’ha trovata. I suoi
direttori l’hanno pubblicata con dettagli grotteschi. La vicenda però si è
sgonfiata rapidamente e si è poi rivelata una bufala. Il risultato è stato un
disastro costellato di cause giudiziarie e riputazioni distrutte.
Alla fine Rolling Stone ha dovuto ritrattare la notizia e chiedere alla
Columbia School of Journalism di condurre un’indagine. Gli investigatori
della Columbia sono giunti alla conclusione che la reporter Sabrina Erdeley e i
suoi superiori avevano violato anche le più elementari regole del giornalismo,
tutto in nome di una storia che a quanto pareva era troppo bella per essere
controllata.99 Il caso ha continuato a trascinarsi per anni, e uno dei presidi di
facoltà dell’università citati nel pezzo – una donna che non avrebbe agito
inizialmente dopo l’accusa di stupro – ha vinto una causa per diffamazione
contro Rolling Stone.
L’articolo si basava in parte su alcuni studi che sostengono che una donna su
quattro (a volte si parla di una su cinque) nei college e nelle università
americane subisce una violenza sessuale. Affermazioni simili hanno
contribuito a rendere possibile la bufala di Rolling Stone, quando le statistiche
e gli studi su cui queste si basano avrebbero dovuto sollevare qualche dubbio.
Nel 2014 Emily Yoffe di Slate ha scritto che “la statistica di una su quattro
significherebbe che le giovani donne nei college americani vengono stuprate
con una frequenza analoga alle donne in Congo, dove lo stupro viene usato
come arma di guerra”.100 Si è poi scoperto che un’altra ricerca fondamentale
su cui si era basata questa squallida narrazione comprendeva “uomini in età da
college” che avevano addirittura settantun anni, la cui età media superava i
ventisei anni, e nessuno dei quali viveva in realtà nel campus di un college. Ma
non aveva importanza: le statistiche ora esistono più come slogan che come
fatto, e chiunque parli di questa storia dice comprensibilmente di “averle viste
al telegiornale”.
Simile alla statistica di “una donna su quattro” è l’affermazione ormai
diffusa e ripetuta regolarmente dai media americani che i veterani
dell’esercito americano si suicidano a un ritmo allarmante a causa dello stress
di aver combattuto in due guerre importanti. “Ventidue al giorno” – cioè
ventidue veterani suicidi ogni ventiquattr’ore – è diventato il mantra sia delle
associazioni di veterani sia dei gruppi pacifisti. Nei media elettronici e sulla
stampa sono comparsi molti articoli sull’“epidemia” di veterani suicidi nel
2013 e in seguito, con titoli a effetto e foto di giovani uomini e donne in
uniforme che si erano tolti la vita. Il sottinteso di questi pezzi era evidente:
combattimenti prolungati spingono i guerrieri d’America al suicidio, e al
governo senza cuore non importa nulla.
Quando ho visto per la prima volta queste statistiche, avevo un motivo
personale per dedicarmi agli studi su cui si basavano. Lavoro ogni giorno con i
militari, e molti di loro hanno esperienza di combattimento. Inoltre sono un ex
counselor nell’ambito della prevenzione al suicidio con tanto di certificazione,
a causa del volontariato che ho brevemente fatto da giovane. Avendo almeno
un po’ di esperienza nella prevenzione del suicidio, ero preoccupato per le
persone che si toglievano la vita; poiché lavoro con i militari, temevo per i
miei studenti e i miei amici; come sociologo, mi inquietava una statistica che
non mi sembrava plausibile.
Purtroppo i media non sono stati d’aiuto. Anzi, sono stati una parte
fondamentale del problema. È vero, infatti, che nel Ventunesimo secolo i
veterani si uccidono a un ritmo più alto che in passato. Ma in parte il motivo è
che tutti si uccidono a un ritmo più alto – per ragioni che gli epidemiologi
stanno ancora discutendo – e i veterani fanno parte di quei “tutti”. Per
aumentare la confusione, negli studi che hanno esaminato i suicidi dei
“veterani” sono stati inclusi anche tutti coloro che hanno fatto il servizio
militare, a prescindere dall’età o dal grado, dalla riserva al combattimento
prolungato. In altre parole, un ragazzo appena tornato a casa da una zona di
guerra e un uomo di mezza età che trent’anni prima ha servito per qualche
anno nell’unità locale della Guardia Nazionale venivano entrambi conteggiati
come parte di questa nuova “epidemia” se a un certo punto si suicidavano. Il
Dipartimento degli affari dei veterani, sotto assedio – non è esattamente
l’ufficio più popolare d’America –, ha tentato invano di far notare che secondo
un grosso studio del 2012 i suicidi tra i veterani in realtà non erano cambiati
di molto dal 1999. Il New York Times ha pubblicato puntualmente un articolo
su questo studio con il titolo “Mentre aumentano i suicidi negli Usa, i veterani
abbassano la percentuale”. Il titolo del Washington Post sottintendeva una
conclusione opposta: “Secondo uno studio del Dipartimento veterani
aumentano i suicidi tra gli ex soldati”. Tutti e due i titoli, sorprendentemente,
riguardavano lo stesso studio, e tutti e due, in senso strettamente fattuale,
erano veri.
I media, o almeno alcune testate, hanno intervistato l’autore dello studio, ma
le sue risposte non hanno inciso minimamente sulla narrazione. “C’è la
percezione di avere tra le mani un’epidemia di veterani suicidi. Non penso sia
vero” ha dichiarato Robert Bossarte, l’epidemiologo che ha condotto la
ricerca. “La percentuale sta aumentando nel Paese, e i veterani ne fanno
parte.”101 La maggior parte degli articoli non si è curata di questa
affermazione, né ha incluso dati importanti come il tasso complessivo di
suicidi in America o quello tra gli uomini della stessa fascia d’età dei giovani
soldati. Non ci sono nemmeno stati confronti tra i militari e altre professioni,
forse perché i tassi relativamente alti negli altri gruppi – come i medici, tra gli
altri – avrebbero tolto un po’ di urgenza alla notizia.
La cattiva copertura è proseguita con un sacco di articoli di
accompagnamento su come i suicidi tra i militari nel 2012 avevano superato le
morti in combattimento. Il messaggio ovviamente era che i soldati americani
erano ormai un pericolo più per sé stessi che per il nemico. È un quadro
preoccupante, all’infuori di un piccolo problema: è statisticamente irrilevante.
L’affermazione che ci fossero “più suicidi che morti in combattimento” è
sempre vera per definizione in qualsiasi anno in cui le forze armate non sono
impegnate in conflitti sul campo.
Si può usare questo trucco statistico con qualsiasi anno in cui non ci siano
stati troppi combattimenti sul campo: si confrontino i suicidi tra militari e le
morti in combattimento, per esempio, alla fine degli anni Cinquanta. A suo
credito, Time ha pubblicato un pezzo corretto, intitolato addirittura: “I suicidi
tra militari superano le morti in combattimento, ma solo perché le guerre
stanno finendo”.102 Ma ancora una volta questo avrebbe dovuto essere ovvio
per chiunque ci avesse riflettuto anche solo un istante, ed è straordinario che
Time o altre testate abbiano dovuto pubblicare una simile notizia.
Il punto di tutto questo è che la gente davvero preoccupata per i veterani e i
suicidi non ne sa molto di più di quel che accade ai veterani oggi rispetto a
quello che sapeva prima di leggere questi articoli. Ma pensa di saperlo, e
poveri gli esperti in qualsiasi campo che hanno messo in discussione questa
pubblica indignazione o che hanno tentato di spiegare l’argomento
aggiungendovi qualche sfumatura in più. I veterani stanno impazzendo e si
tolgono la vita, e questo è quanto. Dopotutto, l’ho letto sul giornale.
COSA FARE
Bertrand Russell
Nel 2002, un illustre storico ha scritto che i popolari racconti di cartelli che
recitavano NO IRISH NEED APPLY (“Gli irlandesi sono pregati di non
presentarsi”) nell’America di fine Ottocento erano dei miti. Il professore della
University of Illinois Richard Jensen ha affermato che simili avvisi erano
invenzioni, “miti di vittimizzazione”, tramandati dagli immigrati irlandesi ai
loro figli fino a raggiungere la condizione incontestabile di leggende
metropolitane. Per oltre un decennio, la maggior parte degli storici ha
accettato l’erudizione di Jensen in materia. Gli oppositori della tesi di Jensen
sono stati liquidati – a volte dal professore in persona – come lealisti irlandesi-
americani.
In un articolo del 2015 che sembrava l’incarnazione stessa della fine della
competenza, una studentessa di terza media di nome Rebecca Fried ha
sostenuto che Jensen si sbagliava, anche in forza delle ricerche che lei aveva
condotto su Google. La ragazza era rispettosa ma determinata. “Lui lavora in
ambito accademico da decenni, prima che io nascessi, e l’ultima cosa che
voglio fare è mostrare mancanza di rispetto a lui e al suo lavoro” ha dichiarato
in seguito. Sembrava soltanto l’ennesimo caso di una bambina precoce che
diceva a un insegnante navigato – nientemeno un emerito professore di storia
– che non aveva fatto i compiti.
Alla fine si è scoperto che lei aveva ragione e lui torto. Quei cartelli
esistevano, e non era difficile scovarli.
Per anni, altri studiosi si erano opposti alle affermazioni di Jensen, ma lo
avevano fatto dall’interno della storiografia professionista. Nel frattempo, fuori
dal mondo accademico, le dichiarazioni di Jensen erano state rapidamente
accettate e strombazzate, trasformate in un caso di lamentele immaginarie da
parte degli irlandesi americani (a Vox ovviamente è piaciuto molto l’articolo
originario di Jensen).
La giovane Rebecca, però, ha fatto quello che avrebbe fatto una persona
razionale: ha cominciato a esaminare i database dei vecchi quotidiani e ha
trovato i cartelli, come ha riferito in seguito il Daily Beast, “raccogliendone
una manciata di esempi, poi dozzine e poi altri ancora. Ha cercato in quanti
più database di quotidiani possibile. Poi ha pensato: qualcuno doveva averlo
già fatto prima, no?”. Alla fine si è scoperto che né Jensen né nessun altro si
era preoccupato di effettuare questo elementare fact-checking.
Jensen ha poi risposto cercando di confutare il lavoro di una scolara
sostenendo di aver ragione, ma che avrebbe potuto essere più accurato nelle
sue affermazioni. Il dibattito sulla sua tesi, come poi lo ha definito la rivista
Smithsonian, “forse infuria ancora nella sezione dei commenti” di qualche
mailing list su internet, ma la ricerca di Fried dimostra “che chiunque abbia
una mente curiosa e fiuto per la ricerca può mettere in discussione lo status
quo storico”.103 La signorina Fried, da parte sua, si è iscritta al liceo avendo
già pubblicato un articolo sul Journal of Social History.
Negli anni Settanta del Novecento, i nutrizionisti più illustri d’America
comunicarono al governo degli Stati Uniti che le uova, tra altri alimenti,
potevano essere letali. Non poteva esserci un’applicazione più semplice del
rasoio di Occam, con una scia che portava dal cortile all’obitorio. Le uova
contengono molto colesterolo, il colesterolo ostruisce le arterie, le arterie
ostruite provocano attacchi di cuore, e gli attacchi di cuore uccidono le
persone. La conclusione era ovvia: gli americani devono eliminare dalla dieta
tutto quel colesterolo.
E così fecero. Poi accadde qualcosa di inaspettato: gli americani
cominciarono a prendere molto peso e a morire per altre cause. Si scoprì che
le uova non facevano poi così male, o che almeno non facevano male come
altri cibi. Nel 2015 il governo ha decretato che le uova erano accettabili, forse
addirittura salutari. Come ha scritto all’epoca l’editorialista Geoffrey Norman
(tra l’altro residente nello Stato del Vermont, pieno di uova):
Un sacco di persone [obese] che lo sono diventate pensavano di seguire una dieta approvata dal
governo. Il consumo di uova è crollato di oltre il 30 per cento quando il governo le ha inserite nella
lista nera degli alimenti. La gente deve mangiare, quindi ha sostituito le uova con altre cose. Cose
che l’hanno fatta ingrassare. Le uova che non mangiava, si è scoperto, non le avrebbero ostruito le
arterie né l’avrebbero uccisa. Le cose con cui ha sostituito le uova, tuttavia, potrebbero aver causato
diabete di tipo 2 e malattie anche peggiori.104
L’allarme uova si basava su una cascata di ricerche errate, alcune delle quali
risalivano quasi a mezzo secolo prima. Chi volesse eliminare le uova dalla
propria dieta, naturalmente, può farlo ancora. In realtà, oggi ci sono degli
studi che indicano che nemmeno saltare completamente la colazione – un’altra
cosa che gli scienziati da tempo dicono di non fare – fa così male come tutti
pensavano.105
Nel 1982, uno dei principali esperti di Unione Sovietica, Seweryn Bialer,
diede un serio avvertimento ai lettori della prestigiosa rivista Foreign Affairs:
l’Urss era molto più forte di quanto non apparisse all’epoca.
L’Unione Sovietica non si trova, né si troverà nel prossimo decennio, nella morsa di una vera crisi
sistemica, poiché vanta enormi risorse inutilizzate di stabilità politica e sociale, sufficienti a
sopportare le difficoltà più profonde. L’economia sovietica, come qualsiasi economia gigantesca
amministrata da professionisti intelligenti e addestrati, non andrà in bancarotta. Potrebbe forse
perdere in efficacia, potrebbe entrare in stagnazione, potrebbe perfino subire un declino totale per
un anno o due; ma, come il sistema politico, non crollerà.106
Un anno più tardi, Bialer vinse un genius grant della MacArthur Foundation.
Due anni dopo, il Partito comunista sovietico – chiaramente nella morsa di
una vera e propria crisi di sistema – scelse Mikhail Gorbaciov come nuovo
leader. Meno di otto anni dopo la dichiarazione con il dito puntato di Bialer,
l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche cessò di esistere.
Nei mesi finali del crollo sovietico, un professore del MIT, Stephen Meyer,
testimoniò di fronte alla commissione Affari Esteri del Senato Usa. I leader
politici americani che osservavano gli eventi in Urss temevano per la sicurezza
di migliaia di armi nucleari sovietiche puntate verso gli Stati Uniti. Meyer,
uno dei principali esperti della sua generazione in affari militari sovietici,
disse a tutti di darsi una calmata: Gorbaciov aveva tutto sotto controllo.
“Indizi di golpe militari” in Unione Sovietica, rassicurò i senatori riuniti,
erano “puri voli pindarici”.107
Meyer rilasciò la sua testimonianza il 6 giugno del 1991. Nove settimane
più tardi Gorbaciov fu deposto in un colpo di stato guidato da un gruppo di
cui facevano parte il ministro della Difesa sovietico e il capo della temuta
agenzia di sicurezza, il Kgb. Quando i carri armati fecero irruzione nelle
strade di Mosca scoppiò il caos, ma non aveva importanza: un anno dopo il
crollo dell’Unione Sovietica, Meyer abbandonò completamente lo studio della
Russia e delle armi nucleari, e iniziò a lavorare su questioni di biodiversità,
facendo parte di varie commissioni per il Dipartimento di pesca e fauna
selvatica del Massachusetts fino alla morte prematura, sopraggiunta nel 2006.
Bialer e Meyer non erano certo una minoranza. Come ha osservato qualche
anno dopo lo storico Nick Gvosdev, molti esperti dell’Unione Sovietica hanno
sostituito a un’“analisi critica dei fatti sul campo” quello che credevano, o
volevano credere, dell’Urss. Due studiosi di relazioni internazionali si sono
accorti che anche tutti gli altri si erano sbagliati. “Se valutata in base ai suoi
standard, la performance della professione [accademica] è stata imbarazzante”
scrissero nel 1995 i professori Richard Ned Lebow e Thomas Risse Kappen.
“Nessuna delle teorie esistenti nel campo delle relazioni internazionali ha
ammesso la possibilità che potesse accadere il tipo di cambiamento che è
avvenuto.”108
Gli esperti si sbagliano continuamente. Gli effetti di simili errori vanno da
un lieve imbarazzo a una perdita di tempo e denaro; in casi più rari possono
portare alla morte e addirittura a catastrofi internazionali. Tuttavia gli esperti
chiedono regolarmente ai cittadini di fidarsi del loro giudizio e di confidare
nel fatto che non soltanto gli errori sono rari, ma che gli esperti sono in grado
di identificarli e imparare da essi.
Giorno dopo giorno, i profani non hanno scelta se non fidarsi degli esperti.
Conduciamo le nostre vite incastrati in una rete di istituzioni sociali e
governative pensate per garantire che i professionisti siano in realtà chi dicono
di essere e sappiano fare quello che dicono di saper fare. Le università, le
organizzazioni accreditate, gli enti che concedono licenze, le autorità di
certificazione, gli ispettori del governo e altre istituzioni esistono per
mantenere questi standard. In generale queste tutele funzionano bene. Siamo
sconvolti, per esempio, quando leggiamo di un medico incompetente che
uccide un paziente, proprio perché queste storie, in un Paese in cui quasi un
milione di dottori pratica la medicina in modo sicuro giorno dopo giorno,
sono insolite.
Questa quotidiana fiducia nei professionisti, tuttavia, è una prosaica
questione di necessità. È più o meno il modo in cui ci fidiamo di tutti gli altri
nelle nostre vite quotidiane, come l’autista dell’autobus che presumiamo non
sia ubriaco o la cameriera del ristorante che presumiamo si sia lavata le mani.
Non è lo stesso che fidarsi dei professionisti quando si tratta di questioni di
politiche pubbliche: dire che ci fidiamo del fatto che i nostri medici ci
prescriveranno il farmaco giusto non equivale a dire che ci fidiamo di quello
che dicono tutti i medici sull’esigenza che ci sia o meno in America un sistema
sanitario nazionale. Dire che confidiamo che un professore di college insegni
ai nostri figli e alle nostre figlie la storia della Seconda guerra mondiale non
equivale a dire che, di conseguenza, ci fidiamo di tutti gli storici accademici
che devono offrire la loro consulenza al presidente degli Stati Uniti su
questioni di guerra e di pace.
Per queste decisioni più importanti non esistono licenze o certificati. Non
sono previste multe o sospensioni se le cose vanno male. Anzi, ci sono
pochissime responsabilità dirette, ed è per questo che i profani,
comprensibilmente, temono l’influsso degli esperti. In una democrazia, i
funzionari eletti che magari hanno accettato – o respinto – i pareri degli
esperti garantiscono l’assunzione di responsabilità, tema su cui torneremo nel
prossimo e ultimo capitolo. Ma l’assunzione di responsabilità è qualcosa che
accade dopo i fatti. Può anche essere moralmente gratificante ritenere
qualcuno responsabile, ma dare la colpa non guarisce i feriti né restaura la
pace. In generale, come fanno a sbagliarsi gli esperti? “È straordinario” ha
detto la giornalista Salena Zito “vedere gli esperti che non capiscono il campo
di cui sono esperti”, e per i profani è più che inquietante. Cosa possono fare i
cittadini quando si trovano davanti all’insuccesso degli esperti, e in che modo
possono mantenere intatta la loro fiducia nelle loro comunità? Analogamente,
quali responsabilità hanno gli esperti quando commettono errori, e in che
modo possono riparare il rapporto con i loro clienti, la società?
L’inizio del Ventunesimo secolo ha coinciso con un periodo difficile per gli
scienziati. Le ritrattazioni da parte delle riviste scientifiche hanno raggiunto
proporzioni da record. I casi di truffa o di abuso sembrano ormai quasi di
routine.
L’inganno da parte degli esperti non è difficile da definire, ma può essere
arduo da identificare. Casi evidenti di negligenza si verificano quando gli
esperti o gli studiosi falsificano i risultati o quando aspiranti esperti mentono
affermando di possedere le credenziali o le licenze per praticare nel loro
campo (gli scienziati descrivono questa evenienza usando l’acronimo FFP,
“Fabrication, Falsification, or Plagiarism”, ovvero “invenzione, falsificazione o
plagio”). Questa cattiva condotta può essere difficile da individuare, in
particolare perché richiede che altri esperti la scoprano; i profani non sono
attrezzati per smontare gli studi scientifici, né è probabile che osservino con
attenzione le qualifiche appese a una parete per vedere se sono vere.
A volte gli esperti non sono esperti. Le persone mentono, e lo fanno senza
pudore, sulle proprie qualifiche. Si tratta del grande inganno che il vero “Great
Pretender”, Frank Abagnale, ha messo in atto negli anni Sessanta (diventato
poi popolare grazie al film Prova a prendermi), rubando l’identità a un pilota
di linea e a un medico. Una tipologia d’inganno più comune ma più sottile
avviene quando dei veri esperti gonfiano le loro credenziali con finte lauree o
esagerazioni. Magari sostengono di essere membri di associazioni
professionali, o di aver partecipato a giurie o convegni, o di aver ricevuto
onorificenze o premi, o altri titoli che in realtà sono fraudolenti. Di solito
queste persone vengono smascherate solo quando succede qualcosa che induce
altri a verificare la loro storia.
Quando gli esperti veri e propri mentono, mettono in pericolo non soltanto
la loro professione ma anche il benessere del loro cliente: la società. La loro
minaccia alla competenza si manifesta sia nell’esito immediato delle loro
menzogne sia nell’erosione della fiducia sociale che questo illecito crea
quando viene scoperto. Ecco perché (a parte le eventuali sanzioni legali che
possono esistere per la menzogna e la truffa) le organizzazioni professionali, le
fondazioni accademiche, i think tank e le università riservano le punizioni più
severe alla cattiva condotta professionale volontaria.
Queste punizioni, contrariamente a quanto si crede nell’immaginario
popolare, esistono. Circola un mito tra molti americani secondo cui è
impossibile licenziare ricercatori e professori universitari. Non è una
convinzione del tutto priva di fondamento, perché licenziare un professore di
ruolo in effetti è piuttosto difficile. Anche se nei contratti di molti professori
sono previste clausole sulla “condotta immorale”, le norme sociali del
Ventunesimo secolo hanno abbassato l’asticella al punto che quasi nulla che un
professore fa, in aula o nella vita personale, può indurre una scuola a togliergli
l’incarico. Violazioni chiaramente da licenziamento, come minacce fisiche a
uno studente o il rifiuto di presentarsi al lavoro, possono portare a un
allontanamento, ma di solito quasi tutto ciò che rientra nella categoria della
condotta personale viene ignorato.
La cattiva condotta accademica, tuttavia, è ancora una linea rossa per molte
scuole. La libertà accademica garantisce il diritto a esprimere idee impopolari
o non convenzionali, ma non è una licenza per produrre ricerche scadenti o
intenzionalmente fuorvianti. Quando la University of Colorado, per esempio,
ha licenziato Ward Churchill – un docente che aveva paragonato le vittime
degli attacchi dell’11 settembre a New York ai nazisti –, lo ha fatto non perché
era un idiota insensibile, ma perché i suoi commenti avevano generato
un’inedita attenzione nei confronti della sua “formazione accademica”, che in
alcune sezioni era stata plagiata. Churchill, ovviamente, ha dichiarato di essere
vittima di pregiudizi politici. Si è opposto al suo licenziamento appellandosi al
fatto di essere un impiegato dello Stato del Colorado fino alla Corte suprema
del Colorado e ha perso.
Non ci sono dubbi che il passato di Churchill sia stato oggetto di una
disamina accurata solo a causa delle sue idee politiche. Ma è una posizione
inquietante: bisogna arrivare al punto di chiamare le persone che hanno perso
la vita nelle Torri Gemelle “piccoli [Adolf] Eichmann”, come ha fatto
Churchill, prima che qualcuno osservi da vicino le pubblicazioni accademiche
di un professore? Sostenere che il plagio è stato scoperto soltanto perché il
professore è riuscito ad attirare sufficiente attenzione su di sé con i suoi
commenti odiosi non è una difesa efficace.
Il caso di Churchill è stato in un certo senso unico, anche a causa della
pubblicità che ha attirato. La maggior parte dei casi di cattiva condotta
professionale in ambito accademico passano inosservati per i cittadini. Lo
studio sui matrimoni gay del 2014 che presentava una falsificazione totale di
dati è stato un’eccezione, e ha ottenuto molta enfasi a causa perlopiù del
potenziale impatto politico delle conclusioni. La maggior parte degli studi
accademici non è neppure lontanamente interessante come quello in cui si
sostiene che è possibile far cambiare opinione alle persone omofobiche
parlando, e quindi non generano lo stesso livello di interesse.
I casi meno pubblicizzati, tuttavia, non sono meno gravi. Nel 2011 si scoprì
che un ricercatore post-dottorato che lavorava grazie a una borsa di studio del
governo americano alla Columbia University aveva falsificato una ricerca di
biologia cellulare legata al morbo di Alzheimer. Il ricercatore ha deciso di non
accettare finanziamenti federali per tre anni, ma quando l’illecito è stato
scoperto il suo articolo era stato citato almeno 150 volte da altri scienziati.
Nel 2016 anche una ricercatrice spagnola è stata allontanata dal suo istituto
per un’accusa di truffa legata al suo lavoro sulle malattie cardiovascolari.
In un caso più spettacolare, nel 2010 il medico britannico Andrew
Wakefield, che aveva pubblicato uno studio controverso in cui collegava i
vaccini e l’autismo, si è visto revocare la licenza. Le autorità mediche
britanniche hanno dichiarato di averlo fatto non perché sosteneva una tesi
controversa, ma perché nel corso della sua ricerca aveva infranto una serie di
regole elementari di condotta scientifica. Il General Medical Council
britannico ha affermato che Wakefield “aveva condotto ricerche invasive su
bambini senza l’approvazione di un comitato etico, aveva agito contro gli
interessi clinici di ciascun bambino, non aveva rivelato conflitti d’interesse
economici e aveva distratto dei fondi”.110
Come per Ward Churchill, i sostenitori di Wakefield hanno dichiarato che
era vittima di una caccia alle streghe. Ma la ricerca screditata non è la stessa
cosa della cattiva condotta professionale. Per esempio, Peter Duesberg, uno
dei principali negazionisti dell’Aids, resta a Berkeley malgrado le accuse di
cattiva condotta professionale, accuse su cui la sua università ha indagato e che
ha respinto nel 2010.
Tuttavia non c’è modo di aggirare il problema: un numero non trascurabile
di pubblicazioni scientifiche si basa nel migliore dei casi su dati deboli, e nel
peggiore falsificati. Sarà forse una piccola consolazione per i profani, ma
sappiamo che questi casi di cattiva condotta si sono verificati perché gli
scienziati di tutti i campi ne ammettono l’esistenza. Nel 2005, quando uno
studio ha chiesto agli scienziati se avessero mai messo in atto pratiche
professionali scorrette, all’incirca il 2 per cento ha dichiarato di avere almeno
una volta pubblicato invenzioni, falsificazioni o “modifiche” di dati; il 14 per
cento ha detto di aver osservato un simile comportamento nei colleghi.
Riguardo agli illeciti non considerabili crimini da impiccagione, come la pura
e semplice falsificazione, un terzo dei partecipanti ha ammesso di aver usato
pratiche meno evidenti ma comunque ambigue, come ignorare ricerche che
contraddicevano la propria. Più del 70 per cento ha affermato di aver visto lo
stesso comportamento nei propri colleghi.111
La maggior parte di questa cattiva condotta è invisibile per i profani perché
è noiosa. A differenza delle storie drammatiche di truffe enormi che i cittadini
vedono in celebri film come Erin Brockovich o Insider – Dietro la verità, la
maggior parte delle ritrattazioni nelle riviste scientifiche riguarda errori triviali
o rappresentazioni fuorvianti in studi su argomenti ristretti. Le scienze naturali
sembrano più inclini ai problemi, ma probabilmente è perché le loro ricerche
sono più facili da verificare.
Anzi, gli studiosi di scienze naturali potrebbero ribattere che le ritrattazioni
in sé sono un indice di responsabilità e di controllo professionali. Le riviste
scientifiche e mediche che esercitano l’influsso maggiore nel proprio campo –
per esempio il New England Journal of Medicine – tendono ad avere
percentuali più alte di ritrattazioni. Nessuno, però, è sicuro del perché.112
Il motivo potrebbe essere che più persone controllano i risultati, e si
tratterebbe di una tendenza confortante. Potrebbe accadere anche perché più
persone trovano scorciatoie per arrivare alle riviste più illustri, e si tratterebbe
di una realtà deprimente.
Potrebbe trattarsi anche di un effetto della pubblicazione su una rivista
prestigiosa: con un numero più alto di lettori, è più probabile che qualcuno
cerchi di usare la ricerca nel proprio lavoro e quindi smascheri l’inganno più
avanti.
L’eccellenza di qualsiasi studio scientifico si misura in base alla possibilità
di replicarlo o quantomeno ricostruirlo. Ecco perché scienziati e studiosi
usano le note a piè di pagina: non come garanzia dalla possibilità di plagio –
sebbene sia presente anche questo aspetto – ma affinché i colleghi possano
seguire le loro orme per verificare se giungono alle stesse conclusioni. Se gli
scienziati alterano i dati, allora diventa difficile replicare le conclusioni a cui
sono giunti, e ciò significherebbe che i loro studi sono deboli o addirittura
falsificati.
Questo tipo di verifica presume, tuttavia, che qualcuno si scomodi a
replicare la ricerca. Le peer review ordinarie non prevedono di rifare gli
esperimenti; piuttosto, i referee leggono l’articolo presumendo che siano stati
rispettati gli standard elementari della ricerca e della procedura. Decidono
perlopiù se l’argomento è importante, se i dati sono di qualità sufficiente e se
le prove presentate sostengono le conclusioni.
Ovviamente il requisito della replicabilità sembra indicare una fiducia
maggiore nelle scienze pure come la chimica o la fisica. Le scienze sociali,
come la sociologia e la psicologia, si affidano a studi che spesso dipendono da
un elemento umano e quindi sono più difficili da riprodurre. Almeno gli
studiosi di scienze naturali possono dire di avere standard più netti: se
qualcuno afferma che una determinata plastica fonde a cento gradi, allora
chiunque disponga di un campione del materiale e di un becco di Bunsen può
verificare quella scoperta. Quando cento studenti volontari vengono invitati a
partecipare a un sondaggio o a un’esercitazione, le cose diventano molto più
difficili. I risultati potrebbero essere uno spaccato nel tempo, o di una
particolare regione, o presentare qualche altra particolarità. Il progetto di
ricerca dovrebbe tenere in conto questi problemi, ma l’unico modo di saperlo
è tentare di replicare gli esperimenti.
È proprio quello che una squadra di ricercatori si è proposta di fare nel
campo della psicologia. I risultati sono stati a dir poco sorprendenti. Come ha
raccontato il New York Times nel 2015, un tentativo “scrupoloso” di
riprodurre cento studi pubblicati su tre illustri riviste di psicologia ha portato
alla scoperta che oltre metà delle conclusioni non reggevano più quando
venivano verificate di nuovo.
L’analisi è stata condotta da ricercatori di psicologia, e molti si sono offerti volontari per verificare
quello che consideravano un lavoro importante. […] Gli studi esaminati sono stati considerati parte
del sapere fondamentale con cui gli scienziati interpretano le dinamiche della personalità, delle
relazioni, dell’apprendimento e della memoria. Terapisti e educatori si basano su queste conclusioni
per prendere delle decisioni, e il fatto che così tanti di quegli studi siano stati messi in discussione
potrebbe seminare il dubbio sulle basi scientifiche del loro lavoro.113
Esistono altre cause di insuccesso degli esperti oltre alla truffa volontaria o
alla sconcertante incompetenza. Uno degli errori più comuni commessi dagli
esperti è dare per scontato che, essendo più brillanti in alcune cose della
maggior parte delle persone, lo sono in ogni cosa. Considerano la loro
conoscenza da esperti una licenza per tenere banco riguardo a qualsiasi
argomento (ancora una volta, non posso scagliare la prima pietra). La loro
istruzione avanzata e la loro esperienza diventano una specie di garanzia totale
di sapere quello che fanno pressoché in tutti i campi.
Questi esperti sono come Eric Stratton nella commedia, diventata un
classico, Animal House. Quando si mette a difendere la sua indisciplinata
fratellanza del college nel tribunale degli studenti, i suoi amici gli chiedono se
sa cosa sta facendo. “Sta buono, studio legge, no?” rassicura uno dei suoi
fratelli. “Credevo medicina” gli risponde questi. “Ma che differenza fa?”
risponde Stratton.
Questo eccesso di sicurezza induce gli esperti non soltanto a uscire dal
seminato e a pronunciarsi su questioni molto lontane dal loro campo di
competenze, ma anche a vantarsi esageratamente di possedere una
preparazione più ampia all’interno della loro generale area di interesse. Esperti
e professionisti, così come le persone occupate in altre imprese, danno per
scontato che i loro successi precedenti e i risultati che hanno ottenuti siano
prova della loro conoscenza superiore, e spingono sempre più in avanti i loro
limiti anziché pronunciare le tre parole che tutti gli esperti odiano dire: “Non
lo so”. Nessuno vuole apparire poco informato o far trasparire le lacune della
propria conoscenza personale. Profani ed esperti rilasciano dichiarazioni
molto sicure su cose di cui non sanno niente, ma gli esperti dovrebbero essere
più giudiziosi.
Le incursioni in campi di competenza estranei accadono per diverse ragioni,
dall’errore innocente alla vanità intellettuale. A volte, tuttavia, la motivazione
è semplice: l’opportunità offerta dalla fama. In questo gli intrattenitori sono i
più colpevoli (e sì, nel loro campo sono esperti: le scuole di recitazione non
sono dirette da ingegneri chimici). La celebrità dà loro facile accesso alle
questioni e controversie più disparate, e a veri esperti o politici disposti a
collaborare grazie alla loro naturale tendenza a rispondere al telefono se a
chiamare è un personaggio famoso.
Parlare con le celebrità, però, non è la stessa cosa che istruirle. Si vengono
così a creare situazioni bizzarre in cui gli esperti di un campo –
l’intrattenimento – finiscono per fare disquisizioni su questioni importanti di
altre aree. Questo strano fenomeno ha una storia relativamente recente negli
Stati Uniti, ma è iniziato ben prima che le celebrità potessero sproloquiare in
libertà su Twitter o sui propri siti web.
Nel 1985, per esempio, Tony Coelho, un membro del Congresso
californiano, invitò le attrici Jane Fonda, Sissy Spacek e Jessica Lange a
testimoniare davanti alla Commissione agricoltura riguardo ad alcune
problematiche agricole, per il semplice fatto di aver interpretato il ruolo di
moglie di un agricoltore in tre popolari pellicole uscite in quel decennio. Tutta
la faccenda, ovviamente, era un espediente, e quando gli chiesero perché
l’avesse fatto, il democratico Coelho sparò contro il presidente repubblicano
Ronald Reagan: “Probabilmente capiscono meglio i problemi dell’agricoltura
di quanto non faccia l’attore che è alla Casa Bianca” disse all’epoca.117
Non si è trattato, comunque, di un incidente isolato. Nel corso degli anni le
celebrità si sono immerse in dispute di cui hanno pochissima conoscenza.
Promuovono mode, creano falsi allarmi e modificano le abitudini quotidiane
di milioni di fan creduloni.
Timothy Caulfield, esperto canadese di politiche sanitarie, è uno dei tanti
che non ne può più. Ha scritto un libro in cui critica gli attacchi al sapere
costituito da parte delle celebrità, e da una in particolare: Is Gwyneth Paltrow
Wrong About Everything? When Celebrity Culture and Science Clash (ho
esaminato – a malincuore – alcune delle raccomandazioni di Paltrow sulla
salute femminile nel capitolo 4). Come ha dichiarato Caulfield in un’intervista
del 2016:
Se chiedete a qualcuno: Gwyneth Paltrow è una fonte credibile di informazioni sul rischio di cancro
al seno?, la maggior parte delle persone risponde di no. Di scienza della nutrizione? La maggior
parte delle persone è scettica. Ma poiché ha un’immensa influenza culturale, e si è costruita questo
brand, la gente si identifica con questo.
C’è anche il bias di disponibilità: le celebrità sono ovunque. E il semplice fatto che siano dappertutto
influisce sull’impatto che hanno. È facile ricordarsi di una foto [di Paltrow] sulla rivista People che
parla di cibi senza glutine, non tanto di quello che dicono davvero i dati. E questo consente alle
celebrità di avere un’influenza enorme sulle nostre vite.118
IO PREVEDO!
Anche se Bueno de Mesquita ha pubblicato molte previsioni sulle riviste accademiche, la stragrande
maggioranza di esse è stata condotta in segreto per aziende o per il governo, e nessun accademico
indipendente può verificarle. “Non abbiamo idea se abbia ragione 9 volte su 10 o 9 su 100 o 9 su
mille” ha dichiarato [il professore di Harvard Stephen] Walt.
Walt non è convinto neanche dello studio della Cia secondo il quale le percentuali di successo di
Bueno de Mesquita si attestano al 90 per cento. “È un burocrate di livello medio della Cia che dice:
‘È stato uno strumento utile’” ha aggiunto. “Non è come se fosse Brent Scowcroft a dire: ‘Ai tempi
dell’amministrazione Bush non prendevamo una decisione senza consultare Bueno de Mesquita’”.124
Eppure noi agiamo come se fossimo in grado di prevedere gli eventi storici o, peggio, come se
potessimo cambiare il corso della storia. Produciamo stime sul deficit della previdenza sociale o sul
prezzo del petrolio nei prossimi trent’anni senza renderci conto che non siamo in grado di fare
previsioni neanche per la prossima estate. I nostri errori cumulativi nella previsione di eventi politici
ed economici sono talmente giganteschi che ogni volta che osservo le previsioni formulate in passato
devo darmi un pizzicotto per accertarmi che non sto sognando.125
Sia gli esperti sia i profani hanno delle responsabilità negli insuccessi dei
primi. I professionisti devono ammettere i propri errori, spiegarli
pubblicamente e mostrare i passi che stanno compiendo per correggerli; i
profani, da parte loro, devono esercitare una maggiore cautela nel chiedere
agli esperti di fare pronostici e informarsi sulla differenza tra insuccesso e
truffa.
In generale gli esperti esaminano i propri errori, ma non in luoghi in cui è
probabile che il pubblico vada a guardare. Il cittadino comune non legge una
rivista medica o un’analisi statistica di un articolo di sociologia. A essere
sinceri, sospetto che la maggior parte degli esperti e degli studiosi
probabilmente preferirebbe che i profani non lo facessero, perché non
capirebbero molto di quello che c’è scritto e il loro tentativo di seguire il
dibattito tra professionisti potrebbe produrre più confusione che
illuminazione.
È qui che gli intellettuali pubblici, le persone in grado di colmare la distanza
tra esperti e profani, potrebbero farsi carico di maggiori responsabilità. I
cittadini non ricevono un buon servizio se gli unici a parlare di una nuova cura
medica sono dottori che faticano a tradurre la loro conoscenza in un
linguaggio elementare (e che potrebbero ricoprire una posizione di primo
piano) o giornalisti privi di formazione scientifica incapaci di valutare
affermazioni scientifiche complicate. Ciò lascia uno spazio aperto – di solito
su internet – per dilettanti, imbonitori, ciarlatani e teorici del complotto.
Gli intellettuali pubblici vengono spesso derisi all’interno del loro campo in
quanto meri “popolarizzatori”, e quest’accusa contiene un granello di verità.
Probabilmente il mondo non ha bisogno di un altro Bill Nye (“The Science
Guy”) che dice la sua sui cambiamenti climatici. Né la foreign policy
community ha bisogno di un altro ex burocrate o ufficiale militare in pensione
di grado relativamente minore che affolla le onde radio con i suoi pensieri
profondi soltanto perché ci sono troppo tempo e troppa banda da riempire.
Ma se la distanza tra cittadini ed esperti si allarga troppo gli esperti finiscono
per parlare soltanto tra loro e i cittadini per essere esclusi da decisioni che poi
influiranno sulle loro vite.
In questa situazione, però, sono i cittadini a rivestire il ruolo più importante.
Devono informarsi non soltanto sulle questioni per loro rilevanti ma anche
sulle persone che ascoltano. Tetlock, per esempio, ha raccomandato di
esaminare con attenzione il passato di critici ed esperti per costringerli a
migliorarsi nei loro pareri, in modo che abbiano degli “incentivi a competere
aumentando il valore epistemico (di verità) dei loro prodotti, non soltanto
assecondando le comunità dei loro sostenitori”.133
Rendere pubblici i precedenti dei cattivi critici, tuttavia, ha importanza
soltanto se la gente vi presta attenzione. Se rimane un destinatario passivo di
informazioni su uno schermo televisivo o se cerca attivamente soltanto le
informazioni a cui vuole credere, nient’altro ha molta importanza. Invece i
profani devono porsi alcune domande importanti, come quanto vogliono
imparare su un argomento e se sono davvero disposti a imbattersi in fatti che
minano le loro convinzioni. Devono porsi domande migliori sulle fonti da cui
ottengono informazioni e prendere in considerazione la formazione degli
esperti a cui prestano ascolto.
Se un profano vuole davvero credere che la vitamina C può curare il cancro,
gli esperti con eccellenti precedenti di ricerca e previsioni hanno un effetto più
debole rispetto a un sito web che mostra l’immagine di una pillola. Se un
cittadino non informato crede davvero che invadere un Paese straniero (o
costruire un muro al confine con esso) risolverà i problemi dell’America,
risme di testi di esperti non avranno alcuna importanza per lui. I profani
devono assumersi maggiori responsabilità riguardo alle proprie conoscenze o
alla mancanza di esse: sostenere che il mondo è troppo complicato e ci sono
troppe fonti di informazione, e poi lamentarsi del fatto che la politica è nelle
mani di esperti senza volto che disprezzano le opinioni dei cittadini non è una
scusa.
I cittadini, inoltre, dovrebbero accostarsi ai pareri degli esperti con una
miscela di scetticismo e umiltà. Come scrisse il filosofo Bertrand Russell in
un saggio del 1928, i profani devono valutare le affermazioni degli esperti
esercitando con cura, allo stesso tempo, il proprio pensiero logico:
Lo scetticismo che io auspico si riduce soltanto a questo: 1) che quando gli esperti concordano
nell’affermare una cosa, l’opinione opposta non può più essere ritenuta certa; 2) che quando essi non
sono d’accordo, nessuna opinione può essere considerata certa dai non esperti; 3) che quando
concordemente gli esperti affermano che non esiste alcun motivo sufficiente per un’opinione
positiva, l’uomo comune farebbe bene a sospendere il suo giudizio. 134
Nel 2016, durante il dibattito sulla Brexit, ovvero sull’uscita del Regno Unito
dall’Unione Europea, i sostenitori del “leave” hanno specificamente
identificato gli esperti – la maggior parte dei quali sosteneva che la Brexit
fosse una pessima idea – come nemici dell’elettore comune. Uno dei loro
leader, Michael Gove, ha dichiarato che i fatti non erano altrettanto importanti
dei sentimenti dell’elettore britannico. “Penso che i cittadini di questo Paese”
ha detto sprezzante “ne abbiano abbastanza degli esperti”.
Ma come ha poi osservato James Traub, giornalista americano ed esperto di
politica estera, a proposito della sparata di Gove:
La parola “esperto”, ovviamente, è un termine peggiorativo che indica qualcuno che sa quello di cui
sta parlando, come Gove, immagino, che si è laureato a Oxford ed è stato per anni ministro nei
governi guidati dai conservatori. In realtà Gove stava dicendo che la gente dovrebbe essere libera di
costruirsi fantasie gratificanti scevre da fatti spiacevoli.135
Molti commentatori hanno ipotizzato che i baldi passi falsi [di Trump] fossero dovuti a narcisismo
ed egocentrismo. Io penso che sia vero il contrario. Non vedere gli errori per quello che sono
permette al potenziale narcisismo o egocentrismo di espandersi in modo incontrollato.
Negli elettori, l’assenza di competenza sarebbe deplorevole ma forse non così preoccupante se la
gente avesse la percezione di quanto è imperfetta la propria conoscenza civica. Se lo facesse,
potrebbe aggiustare le cose. Ma l’effetto Dunning-Kruger indica qualcosa di diverso. Indica che ad
alcuni elettori, soprattutto quelli che affrontano importanti problemi nelle loro vite personali,
potrebbe forse piacere quello che dice Trump, ma non ne sanno abbastanza per ritenerlo
responsabile delle sue gravi gaffe.140
“Abbiamo creato una camera di riverberazione” ha ammesso quando gli ho chiesto di spiegare il
violento attacco agli esperti appena nominati che tifavano per l’accordo. “Dicevano cose a conferma
di quello che avevamo detto loro di dire.”
Quando gli ho domandato se la prospettiva di un’altra amministrazione alla guida di una simile
campagna di propaganda su vasta scala lo spaventasse, ha ammesso che era così. “Voglio dire,
preferirei un dibattito pubblico sobrio e ragionato, dopo il quale i membri del Congresso riflettono e
votano” ha detto alzando le spalle. “Ma è impossibile.”143
Non è insolito che alti funzionari di governo ammettano che alcune questioni,
soprattutto in materia di sicurezza nazionale, sono troppo importanti e
complicate per affidarle a un dibattito pubblico poco informato. La
diplomazia segreta e le campagne per conquistare l’opinione pubblica sono
parte integrante di tutti i governi democratici, Stati Uniti compresi.
Le parole di Rhodes, però, sono diverse e molto più pericolose per il
rapporto tra esperti e politiche pubbliche. In effetti, si è vantato del fatto che
l’accordo con l’Iran sia stato raggiunto distorcendo il dibattito tra gli esperti
stessi e approfittando dell’ingenuità dei new media e soprattutto dei giornalisti
più giovani, che ormai stanno conquistando la stampa nazionale. “L’età media
dei cronisti di cui parliamo è ventisette anni, e le uniche esperienze sul campo
che hanno consistono nell’aggirarsi intorno alle campagne elettorali dei
politici” ha affermato Rhodes. “È un cambiamento enorme. Non sanno
letteralmente niente.”
Il sottinteso delle parole di Rhodes era chiaro. Non solo pensava che i
cittadini fossero troppo stupidi per capire l’accordo – e qui non si sbagliava,
anche se lui stesso non aveva fatto nulla per renderli più intelligenti – ma che
lo fossero anche tutti gli altri, Congresso compreso. Per Rhodes, contaminare
il dibattito con un po’ di sana disinformazione era soltanto un mezzo
giustificato dal fine.
Trump e Rhodes, in modi diversi, hanno usato l’ignoranza dei cittadini per i
propri interessi. La differenza tra i due è soltanto nella tattica adoperata:
Trump ha cercato di ottenere il potere durante le elezioni del 2016
mobilitando gli elettori più arrabbiati e ignoranti, mentre Rhodes ha
orchestrato l’accordo con l’Iran confezionando per il pubblico una narrazione
inventata, mentre lui e altri facevano in segreto ciò che ritenevano fosse
meglio.
Questi atteggiamenti sono entrambi intollerabili. Le colpe della grave
situazione in cui versa il ruolo della competenza nella vita americana sono
diffuse, e questo libro ne ha ripartite gran parte. Gli stessi esperti, oltre a
educatori, giornalisti, media di intrattenimento e altri, hanno la loro parte di
responsabilità. Tuttavia, solo un gruppo di persone dovrebbe assumersela in
toto: i cittadini degli Stati Uniti d’America. Gli unici, al tempo stesso, in
grado di cambiare la situazione in cui versiamo.
COMPETENZA E DEMOCRAZIA: LA SPIRALE DELLA MORTE
Il problema è rappresentato non solo dalle cose che non sappiamo (pensiamo all’adulto americano su
cinque che secondo la National Science Foundation è convinto che il sole giri intorno alla terra), ma
anche dal numero allarmante di americani giunti con compiacimento alla conclusione che non hanno
bisogno di sapere queste cose. […] La miscela tossica di antirazionalismo e ignoranza danneggia il
dibattito sulle politiche pubbliche statunitensi a proposito di temi che vanno dalla sanità alle
tasse.146
Probabilmente gli americani comuni non hanno mai amato le classi istruite o i
professionisti, ma fino a poco tempo fa non ne disprezzavano il sapere come
elemento negativo in sé. Forse è addirittura un eufemismo limitarsi a definire
questo atteggiamento “antirazionale”; più che altro siamo davanti a
un’evoluzione al rovescio, che si allontana dalle conoscenze verificate e
regredisce verso la saggezza popolare e i miti tramandati oralmente, ma alla
velocità degli elettroni.
Il crollo dell’alfabetizzazione e l’aumento di questa ignoranza deliberata
fanno parte di un circolo vizioso di disimpegno tra cittadini e politiche
pubbliche. La gente sa poco e si interessa ancor meno di come viene
governata o di come funzionano davvero le strutture economiche, scientifiche
o politiche. Tuttavia, a mano a mano che tutti questi processi diventano più
incomprensibili, i cittadini si sentono più alienati. Sopraffatti, si allontanano
dallo studio e dall’impegno civile e si rifugiano in altre attività. Ciò li rende a
loro volta cittadini meno capaci, e il circolo vizioso si rafforza, soprattutto
quando la fame pubblica di fuga viene alimentata dall’industria del tempo
libero.
Inondati di gadget e comodità in passato inimmaginabili, gli americani (e
molti altri occidentali, a essere onesti) oppongono un rifiuto quasi infantile a
un apprendimento sufficiente a governarsi da sé o a guidare le politiche che
influiscono sulle loro esistenze. È un crollo della cittadinanza funzionale, che
determina una cascata di altre conseguenze funeste.
In assenza di cittadini informati, per esempio, le élite amministrative e
intellettuali più colte si appropriano della direzione quotidiana dello Stato e
della società. In un passaggio citato spesso dai conservatori occidentali e
amato in special modo dagli ultraliberali americani, l’economista austriaco
F.A. Hayek scriveva nel 1960: “[O]ggi il maggiore pericolo per la libertà
proviene da questi uomini necessarissimi e potentissimi, ossia dagli esperti ed
efficienti amministratori, preoccupati esclusivamente di quello che secondo
loro è il bene pubblico”.147
Perfino i pensatori più intellettuali di tutta l’America sarebbero d’accordo
con Hayek. I burocrati non eletti e gli specialisti di politica appartenenti a una
molteplicità di sfere diverse esercitano un’influenza enorme sulla vita
quotidiana degli americani. Oggi, tuttavia, questa situazione è automatica più
che programmata. Il populismo rafforza questo elitarismo, perché la
celebrazione dell’ignoranza non può lanciare satelliti in orbita, negoziare i
diritti dei cittadini statunitensi all’estero o fornire cure efficaci, tutti compiti
molto difficili che ormai perfino i cittadini più ottusi esigono e danno per
scontati. Di fronte a una popolazione che non ha idea di come funzioni la
maggior parte delle cose, anche gli esperti si disimpegnano e decidono di
parlare perlopiù tra loro anziché rivolgersi ai profani.
Nel frattempo, gli americani nutrono aspettative sempre meno realistiche di
ciò che il loro sistema politico ed economico è in grado di offrire. Questa
sensazione che tutto sia dovuto è una delle ragioni per cui sono sempre
infuriati con gli esperti e soprattutto con gli “elitaristi”, una parola che nell’uso
moderno può indicare quasi chiunque abbia un’istruzione e si rifiuti di
assecondare le opinioni errate della popolazione. Quando qualcuno dice loro
che porre fine alla povertà o prevenire il terrorismo è molto più difficile di
quanto sembri, gli americani alzano gli occhi al cielo. Incapaci di
comprendere tutta la complessità che li circonda, decidono di non
comprenderla affatto e poi incolpano accigliati gli esperti, i politici e i
burocrati che hanno preso il controllo delle loro vite.
Ciò evidenzia un altro problema alle radici della spirale della morte in cui
sono intrappolate la democrazia e la competenza: i cittadini non capiscono, o
scelgono di non capire, la differenza tra esperti e politici eletti. Per molti
americani tutte le élite sono ormai una massa indifferenziata di persone
istruite, ricche e potenti. È una palese sciocchezza. Non tutti i ricchi sono
potenti e non tutti i potenti sono ricchi. Intellettuali ed esperti di politica sono
raramente ricchi o potenti (fidatevi di me, lo so).
Al netto di tutti gli errori combinati da George W. Bush durante la sua
presidenza, aveva ragione quando ha ricordato agli americani che in merito
alle azioni della sua amministrazione era lui “quello che decide”. Gli esperti
possono solo proporre, ma a decidere sono i leader eletti. In realtà gli esperti
di politica e i leader eletti non appartengono quasi mai allo stesso gruppo, e
non potrebbe essere altrimenti: semplicemente, non ci sono abbastanza ore in
una giornata perché un legislatore, anche in un’amministrazione comunale o in
uno Stato americano (e ancora meno per un presidente) padroneggi tutte le
questioni che la politica moderna richiede di conoscere. Ecco perché i politici
ingaggiano gli esperti – quelli che sanno – affinché li aiutino.
A volte questa partnership tra consulenti e politici fallisce. Gli esperti si
sbagliano e consigliano ai leader politici di intraprendere azioni che possono
sfociare in disastri. Quelli che criticano il ruolo della competenza puntano il
dito contro traumi nazionali come la guerra del Vietnam. Con il senno del poi,
spesso queste critiche vengono lanciate come se simili scelte dolorose si
sarebbero potute evitare consultando la saggezza del cittadino comune.
Questo invito a fare affidamento sul sapere e sulla virtù dei profani, tuttavia,
è una sciocchezza romanticizzata. Evan Thomas, giornalista e biografo di
Richard Nixon, ha ammesso che i “migliori e più brillanti”, tra cui accademici
come Henry Kissinger e “titani delle aziende” come il segretario della Difesa
Robert S. McNamara, “erano tutt’altro che perfetti” e che “hanno la
responsabilità del Vietnam e dei 58.000 soldati americani, per non parlare dei
milioni di vietnamiti, che vi hanno perso la vita”.148 Tuttavia, sottolinea
Thomas, quegli stessi esperti e quelle stesse élite “hanno rafforzato un ordine
mondiale in equilibrio precario sul baratro della guerra mondiale. Hanno
espanso il commercio, approfondito alleanze e assicurato miliardi di aiuti ai
Paesi esteri”.
Nessuna di queste politiche poteva essere popolare in sé, ma hanno aiutato
gli Stati Uniti e l’Occidente a sopravvivere alla Guerra Fredda e ad arrivare
alla pace. Cosa più importante, quali politiche avrebbero scelto i non esperti o
i populisti? Thomas ha sfidato i lettori a “confrontare gli errori degli anni
Sessanta con epoche in cui Washington ha consentito che la politica estera
fosse guidata dal consenso pubblico”:
Negli anni Trenta, il Congresso bloccò il libero commercio per proteggere l’industria americana e
diede ascolto agli elettori che volevano forze armate più ridotte, meno costose e prive di alleanze
invischianti. I risultati? La legge Smoot-Hawley contribuì alla Grande Depressione e il crollo della
Lega delle Nazioni permise l’ascesa del fascismo e lo scoppio della guerra mondiale.
Gli intellettuali della politica – scienziati che presumono di istruire i poveri mortali che si candidano
in carne e ossa a rivestire delle cariche – sono una piaga della repubblica. Come una specie invasiva,
infestano la Washington di oggi, dove la loro presenza soffoca il senso comune e ha portato sull’orlo
dell’estinzione la semplice capacità di percepire la realtà.
Un aspetto benevolo – tipi ben vestiti che testimoniano davanti al Congresso, pontificano in tv o
addirittura occupano posizioni chiave nel ramo esecutivo – tradisce un impatto negativo. Sono come
carpe asiatiche liberate nei Grandi Laghi.149
La sfida all’operato degli esperti sul terreno della trasparenza è aggravata dal
fatto che la maggior parte degli americani sembra non capire il proprio
sistema di governo. Gli Stati Uniti sono una repubblica, non una democrazia.
Ormai è raro anche solo udire la parola “repubblica”, cosa che già di per sé
rivela quanto gli americani moderni confondano il concetto di “democrazia”,
che è una filosofia politica generale, con quello di “repubblica”, che è la sua
espressione in una forma di governo. A quanto pare, nel 1787 qualcuno chiese
a Benjamin Franklin cosa sarebbe emerso dalla Convenzione di Filadelfia.
“Una repubblica,” rispose Franklin, “se riuscite a tenervela”. Oggi la sfida
maggiore è trovare qualcuno che sappia cos’è davvero una repubblica.
È un punto cruciale, perché i profani dimenticano fin troppo facilmente che
la forma repubblicana di governo sotto cui vivono non è stata pensata perché
fossero le masse a prendere decisioni su problemi complicati. Ovviamente non
è stata pensata neppure perché a governare fosse un minuscolo gruppo di
tecnocrati o di esperti, ma per essere il veicolo attraverso cui un elettorato
informato – e “informato” è la parola chiave – poteva scegliere altre persone
che lo rappresentassero e prendessero decisioni in sua vece.
Il pensiero americano classico può forse essere radicato nella “gloria che fu
la Grecia”, ma gli Stati Uniti non sono, né sono mai stati pensati per essere il
mercato ateniese. E gli americani dovrebbero esserne felici. Come ha
osservato il giornalista Malcolm Gladwell nel 2010, le grandi organizzazioni
non prendono decisioni effettuando sondaggi al loro interno, a prescindere da
quanto ciò possa sembrare “democratico”:
Le aziende automobilistiche giustamente usano una rete per organizzare le loro centinaia di fornitori,
ma non progettano le loro macchine. Nessuno crede che l’articolazione di una filosofia coerente di
design venga gestita al meglio da un sistema organizzativo diffuso e privo di leader. Poiché le reti
non hanno una struttura di leadership centralizzata e chiare linee di autorità, incontrano molte
difficoltà nel raggiungere un consenso e stabilire degli obiettivi. Non possono pensare
strategicamente: sono cronicamente inclini al conflitto e all’errore. Come si fa a prendere difficili
decisioni di tattica o di strategia o di direzione filosofica quando tutti hanno voce in capitolo?151
Questa è una delle tante sfide che il governo repubblicano avrebbe dovuto
superare. Anche quando la maggior parte delle persone sa quello che sta
facendo nella propria area di competenza, non può aggregare le decisioni in
una politica pubblica coesa allo stesso modo in cui indovina il peso di un toro
o cerca di individuare il prezzo indicativo di un pacchetto di azioni. La
soluzione repubblicana permette a un gruppo di persone più ristretto di
aggregare le richieste spesso irrisolvibili dei cittadini.
Determinare quello che la popolazione vuole davvero, tuttavia, è
esponenzialmente più difficile quando l’elettorato non è competente in
nessuna delle questioni di cui si parla. I profani si lamentano del dominio degli
esperti e chiedono un coinvolgimento maggiore in merito a complicate
questioni nazionali; molti di essi, però, si limitano a esprimere la loro rabbia e
a fare queste rivendicazioni dopo aver abdicato al loro compito di mantenersi
sufficientemente informati e politicamente avvertiti, così da scegliere
rappresentanti che possano agire in loro vece. Nelle parole di Ilya Somin:
“Quando eleggiamo dei funzionari di governo partendo da una base di
ignoranza dovremmo sempre ricordarci che questi governano non solo su chi
li ha votati, ma su tutta la società. Quando esercitiamo un potere su altre
persone abbiamo l’obbligo morale di farlo in modo quanto meno
sufficientemente informato”.152
Non è questa la sede per riflettere sulla forma americana di democrazia
rappresentativa, soprattutto perché ci sono già molte copie del Federalista
(The Federalist Papers) ancora disponibili. Ma la fine della competenza e gli
attacchi al sapere a essa collegati minano alle fondamenta il sistema di
governo repubblicano; e quel che è peggio è che queste campagne sono
condotte dalle persone meno capaci di soppiantare quel sistema. La gente
meno informata è quella che dimostra più disprezzo nei confronti degli esperti
e pretende di dire la sua in questioni su cui non ha compiuto alcuno sforzo di
informarsi.
Pensiamo a come le persone cambiano idea in base a chi pensano sostenga
una determinata posizione. In tal senso il comico Jimmy Kimmel ha fatto di
nuovo centro: ha fermato i passanti per strada e ha chiesto loro quale riforma
delle tasse preferissero tra quelle proposte da Hillary Clinton e Donald
Trump. Gli intervistati, tuttavia, non sapevano che Kimmel aveva invertito i
dettagli delle due riforme. Come ha riferito poi il quotidiano The Hill, le
risposte dipendevano dal candidato preferito dagli intervistati: “Di fatto, a uno
a uno, i sostenitori di Clinton sono rimasti sconvolti scoprendo che stavano
sostenendo la proposta del suo acerrimo rivale”. Un uomo, alla notizia che
stava dando il suo sostegno alla riforma di Trump e non a quella di Clinton, ha
deciso di rischiare: “Be’, allora voterò Trump”.153
Alla fine le interviste di Kimmel hanno portato a galla una verità da tempo
nota a sondaggisti ed esperti di campagne elettorali: spesso gli elettori sono
più interessati ai candidati e alle loro personalità che alle loro idee o politiche.
La responsabile dei sondaggi dell’Huffington Post, Ariel Edwards-Levy, ha
così descritto questo processo:
Gli americani, a prescindere da quali siano le loro opinioni politiche, non hanno un punto di vista
solido sulle questioni all’ordine del giorno, soprattutto quando riguardano un tema oscuro o
complicato. La gente tende giustamente ad affidarsi a segnali di faziosità: se un politico che
sostengono è a favore di una legge, probabilmente penseranno che quella legge è buona, o
viceversa.154
Quando Levy e i suoi colleghi hanno inscenato una versione più formale
dell’imboscata di Kimmel, hanno scoperto la stessa cosa: repubblicani in forte
disaccordo con le posizioni del Partito democratico su temi quali la sanità, i
rapporti con l’Iran e l’azione positiva obiettavano con molto meno vigore se
pensavano che a portare avanti quelle stesse politiche fosse Donald Trump. I
democratici, da parte loro, andavano nell’altra direzione: sostenevano con
minor forza le politiche del loro partito se pensavano che fossero posizioni di
Trump.
Almeno la riforma delle tasse e la sanità sono questioni reali che si
accompagnano a reali prese di posizione. Nel 2015 il Public Policy Polling,
una società di sondaggi liberal, ha chiesto a elettori repubblicani e democratici
se avrebbero approvato il bombardamento del Paese di Agrabah. Quasi un
terzo degli intervistati repubblicani ha dichiarato che avrebbe sostenuto una
simile azione, si è opposto soltanto il 13 per cento e il resto si è detto incerto.
I democratici erano meno inclini all’azione militare: soltanto il 19 per cento
sosteneva il bombardamento mentre il 36 per cento esprimeva con decisione
la propria opposizione.
Agrabah, però, non esiste. È il Paese fantastico in cui è ambientato Aladdin,
il film di animazione della Disney del 1992. I liberal si sono vantati che questo
sondaggio era una prova dell’ignoranza e dell’aggressività dei repubblicani, i
quali hanno risposto che dimostrava invece quanto i democratici si
opponessero all’azione militare per principio, a prescindere da quanto
sapessero della situazione. Per gli esperti, tuttavia, non c’era modo di aggirare
la realtà complessiva catturata nel sondaggio, neppure per caso: ossia che il 43
per cento dei repubblicani e il 55 per cento dei democratici avevano un punto
di vista concreto e definito sull’opportunità di bombardare un luogo che non
esiste.155
Alcuni di questi giochi sono scorretti nei confronti della cittadinanza. La
gente comune è occupata a vivere la propria vita, non a cercare di capire se
viene manipolata da sondaggisti o presa in giro da comici come Kimmel (o da
Jesse Watters, celebrità di Fox News che conduce analoghi test a sorpresa per
strada). Ciò è vero soprattutto quando agli elettori vengono mostrati sui media
“tutti i lati” di un problema, senza alcuna indicazione tra opinioni più o meno
autorevoli. Come ha dichiarato lo psicologo Derek Kohler:
L’azione del governo è in parte guidata dall’opinione pubblica. L’opinione pubblica è in parte guidata
dall’analisi di cosa pensano gli esperti. Ma l’opinione pubblica potrebbe – e spesso lo fa – deviare
dall’opinione degli esperti, non soltanto, a quanto pare, perché la popolazione si rifiuta di
riconoscerne la legittimità, ma anche perché potrebbe non essere in grado di capire qual è l’opinione
della maggior parte di essi.156
Un talk show, per esempio, in cui uno scienziato afferma che gli organismi
geneticamente modificati (OGM) sono sicuri e un attivista sostiene che sono
pericolosi sembra “equilibrato”, ma in realtà è estremamente distorto, perché
quasi nove scienziati su dieci ritengono che gli OGM siano sicuri per i
consumatori. Ad un certo punto, in mezzo a tutti i battibecchi, il pubblico si
arrende e torna ad affidarsi a fonti di informazione più semplici, anche se si
tratta di un meme su Facebook.
Questa tuttavia non è una giustificazione per l’ignoranza e il disimpegno dei
cittadini, e soprattutto per forme di campanilismo iperfaziose che inducono le
persone a cambiare idea sulle politiche soltanto in virtù di chi le sostiene. Se
la popolazione non ha idea di quale sia la sostanza di una questione e vota
basandosi sui personaggi che le piacciono piuttosto che su ciò che vuole, è
difficile attribuire la colpa della sua confusione ai politici e ai loro consulenti.
In che modo può funzionare una repubblica se le persone che hanno mandato
i loro rappresentanti a decidere questioni di guerra e pace non sanno la
differenza tra Agrabah, Ucraina o Siria?
In altre parole, quando la popolazione sostiene di essere stata fuorviata o
tenuta all’oscuro, esperti e politici non possono fare a meno di chiedere: “E
come fate a saperlo?”.
Quando i profani ignorano la competenza e si dichiarano stufi di tutto e
tutti, dimenticano che le persone che hanno eletto devono comunque prendere
decisioni, giorno dopo giorno, su una continua raffica di questioni. Questi
funzionari non possono concedersi il lusso di mandare al diavolo gli esperti e i
sondaggi, e di rifugiarsi negli schermi dei loro televisori e dei loro computer e
nei loro game controller. Devono prendere impegni, a volte di vita e sempre di
denaro, su qualsiasi cosa, dai diritti di navigazione agli asili nido. Queste
decisioni e il modo in cui sono implementate influiscono sulla vita di tutti i
cittadini, quelli informati e quelli ignoranti, quelli coinvolti e quelli distaccati.
Il crollo di fiducia tra popolazione, esperti e funzionari eletti in una
repubblica va in tutte le direzioni. La popolazione, soprattutto, ha bisogno di
potersi fidare dei leader e dei loro consulenti esperti. Questo rapporto diventa
però impossibile quando i profani non hanno idea di quello di cui stanno
parlando o di quello che vogliono.
Quando la fiducia crolla, l’ignoranza dei cittadini può trasformarsi
attraverso una cinica manipolazione in un’arma politica. L’anti-
intellettualismo è in sé un mezzo per mandare in cortocircuito la democrazia,
perché in qualsiasi cultura una democrazia stabile si basa sul fatto che i
cittadini capiscono le implicazioni delle proprie scelte. La maggior parte dei
profani, già sospettosi nei confronti delle classi istruite, ha bisogno di pochi
incoraggiamenti per ribellarsi agli esperti, anche quando queste ribellioni sono
cinicamente guidate da altri intellettuali.
Nel 1942 il presidente Franklin D. Roosevelt chiese agli ascoltatori
radiofonici di andare a comprare delle mappe in modo da poter seguire il suo
racconto del progresso della Seconda guerra mondiale. Ben presto le mappe
andarono esaurite in tutto il Paese. Nel 2006, meno di sessantacinque anni
dopo, una ricerca nazionale ha evidenziato che quasi metà degli americani di
età compresa tra i diciotto e i ventiquattro anni – cioè quelli che avevano più
probabilità di dover combattere in guerra – non riteneva necessario conoscere
la collocazione geografica dei Paesi in cui stavano accadendo eventi
importanti.157 Un decennio più tardi, durante le elezioni del 2016, Donald
Trump è stato applaudito quando ha riassunto il suo approccio nei confronti
dei terroristi in Medio Oriente: “Li seppellirei di bombe. Farei saltare in aria
le condutture, farei saltare in aria le raffinerie, farei saltare in aria ogni
centimetro, non rimarrebbe niente”.
Una repubblica, se riuscite a tenervela. O se sapete trovarla su una mappa.
IO VALGO QUANTO TE
Lo stato d’animo a cui mi riferisco è quello, naturalmente, che spinge ogni uomo a pensare io valgo
quanto te. […]
Nessun uomo che affermi io valgo quanto te ne è convinto. Non direbbe così se lo fosse. Il San
Bernardo non lo dice mai al cagnolino di pezza, né il colto all’ignorante, né chi ha un lavoro al
mendicante, né la bella donna alla brutta. La pretesa di uguaglianza, al di fuori del campo
strettamente politico, è avanzata solo da quelli che in qualche modo si sentono inferiori. E non
esprime niente altro che il cocente, pungente, risentito senso di inferiorità che [un essere umano] si
rifiuta di accettare.
E così se ne risente. E così si risente di ogni tipo di superiorità altrui, la si denigra, ne si desidera
l’annientamento.158
Non hanno importanza perché sono il nemico della democrazia, ma perché forniscono l’ingrediente
cruciale per salvarla da sé stessa. L’establishment politico può essere malconcio e demoralizzato,
rispettoso degli algoritmi del web e dei monosillabi di un demagogo di talento, ma questo non è il
momento di rinunciare alla miscela americana di democrazia e responsabilità delle élite, pressoché
unica e dotata di un potere stabilizzatore.
Sembra sconvolgente sostenere che in quest’èra democratica abbiamo ancora bisogno delle élite,
soprattutto con le enormi disparità di ricchezza e i loro fallimenti che ci circondano da tutte le parti.
Ma ne abbiamo bisogno proprio per proteggere questa preziosa democrazia dai suoi stessi
eccessi.162