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1
Così viene definito da Hanna Arendt in Vita Activa. La condizione
umana, Milano, Bompiani, 2004.
2
Come ci fa notare Susan M. Okin (1979), sul problema della ‘diffe-
renza’ fra uomini e donne i filosofi hanno riflettuto fin dall’antichità e lo
hanno riproposto nel corso del tempo, ma solo a cavallo degli ultimi due
secoli il movimento delle suffragette riuscì a valorizzare la mobilitazione
delle donne e ad ottenere il riconoscimento di una prima forma di ugua-
glianza politica col diritto al voto.
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Assumiamo dalla sociologia della memoria di Halbwachs che in
condizioni non favorevoli gli elementi dissonanti vengono collocati fuori
dal mainstream culturale, in latenza, finché non si creeranno le condizioni
sociali per una nuova e diversa conoscenza e assunzione.
4
I lavori della filosofa belga Luce Irigaray si collocano all’origine di
questa scuola di pensiero. Citiamo fra i molti: Speculum; L’altra donna,
Milano, Feltrinelli, 1975; l’Etica della differenza sessuale, Milano, Feltri-
nelli, 1985; J. Piaget, Io tu noi. Per una cultura della differenza, Torino,
Bollati Boringhieri, 1992.
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Cfr. E. Ruspini, Le identità di genere, Roma, Carocci, 2009, p. 60.
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Quella del lavoro è una fra le molte metanarrazioni della modernità
il cui declino è registrato da Lyotard nel suo La condizione postmoderna
(2004).
7
Cfr A. Melucci (1991), Il gioco dell’io. Il cambiamento del sé in una
società globale, Milano, Feltrinelli, e, dello stesso autore, Culture in gioco.
Differenze per convivere, Milano, Il Saggiatore, 2000.
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Come scrive André Gorz (1997; trad. it. 1998, pp. 12-13), una donna
ha un lavoro quando insegna in una scuola materna e non ne ha quando
alleva i propri figli; è pagata nel primo caso e non nel secondo, ma non è la
remunerazione dell’attività l’elemento essenziale. Ciò che è realmente im-
portante è che al lavoro viene riconosciuta una funzione “socialmente iden-
tificata e normalizzata nella produzione e riproduzione di tutto il sociale” e
a questo fine esso deve essere identificabile attraverso “competenze social-
mente definite” che si dispiegano secondo “procedure socialmente determi-
nate”. Nessuna di queste condizioni è soddisfatta dalla madre casalinga: il
suo lavoro non è istituzionalmente controllato o conforme a norme profes-
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Per le donne questo ha significato essenzialmente la conferma delle
funzioni di cura all’interno della famiglia, e da questa assunzione si è con-
tinuato a farne dipendere le aspirazioni, i progetti e le possibilità Si veda in
Okin (1992), p. 283.
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Il mercato delle expertises per fronteggiare ogni immaginabile situa-
zione è visibilmente aumentato in questi ultimi anni. Uno sviluppo che, dal
lato della domanda può essere interpretato come un nuovo modo di orien-
tarsi e da quello dell’offerta come un modo per guidare gli individui verso
un comportamento socialmente compatibile senza il ricorso all’autorità o
alla forza (cfr. Giddens 1991).
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Correnti del dibattito postmoderno interpretano la pluralizzazione
non come una condizione dell’autorealizzazione dell’individuo ma come
l’espressione della frammentazione dell’identità che vede una radicale
scomparsa del soggetto. Tra questi H. Garfinkel, Studies in Ethnometholol-
ogy, Cambridge, Polity Press, 19951967.
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La fenomenologia sottolinea come l’identità muti nella sua stessa
struttura perdendo la capacità di rappresentare un sistema di rilevanza stabi-
le e coerente per l’individuo. L’identità cambia nei suoi tratti fondamentali
e la soggettività subisce un profondo processo di riorganizzazione che è
stato definito come “pluralizzazione dei mondi di vita sociali”. Cfr. Berger,
Berger, Kellner 1983.
15
Melucci (2000, pp. 108-109) propone di usare il termine “identiz-
zazione” per sottolineare il processo di costruzione dell’identità piuttosto
che la sua esistenza e sottolinea anche i problemi che da questa definizione
derivano: quello dei confini, e cioè dove comincia e dove finisce il soggetto
agente, e quello della continuità, e cioè della sua permanenza nel tempo.
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Questa posizione è evidente anche nei lavori più direttamente ‘socia-
li’ di Freud: Totem e tabù, Mosè e il monoteismo, Il disagio della civiltà.
17
N. Chodorow (1974), Family Structure and Feminine Personality, in
M.Z. Rosaldo, L. Lamphere, eds., Woman, Culture and Society, Stanford,
Stanford University Press, pp. 43-66.
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gura materna nei primi anni di vita che produce nello sviluppo
della personalità di bambini e bambine differenze basilari, che
avranno come risultato il fatto che “in qualunque società, la per-
sonalità femminile si definisce in rapporto agli altri più di quanto
accada a quella maschile” (ibid., pp. 43-44). La somiglianza fra
madre e figlia fa sì che l’esperienza dell’attaccamento affettivo si
fonda con il processo di formazione dell’identità; la diversità del
figlio maschio, invece, consente a questi di distinguere la madre
da se stesso, e di conseguenza il suo sviluppo “comporta un’indi-
viduazione più accentuata e un’affermazione più difensiva nella
sperimentazione dei confini dell’io”18. La mascolinità si definisce
quindi attraverso la percezione della differenza e della separazio-
ne, mentre la femminilità attraverso l’identificazione e l’attacca-
mento. Somiglianza e diversità, continuità e distacco costituisco-
no dunque l’humus primigenio della differenza di genere.
Ma dal momento che nella letteratura psicologica, da Pia-
get a Kohlberg, l’individuazione per separazione viene assunta
come pietra miliare dello sviluppo dell’individuo, argomenta la
Gilligan, ecco che l’essere calata nell’interazione sociale e nei
rapporti personali – che costituisce la caratteristica qualità dello
sviluppo identitario e poi della vita femminile – non rappresenta
una differenza descrittiva ma diventa uno svantaggio evolutivo:
la mancata, o diversa, separazione diventa mancato sviluppo.
L’analisi dei giochi infantili – che sia G.H. Mead (1966) che
J. Piaget (1932) considerano esperienze cruciali per lo sviluppo
sociale – permette di dare consistenza scientifica a questa argo-
mentazione, la cui premessa implicita è che il modello maschile
18
Questo “non significa che la donna abbia confini dell’Io più deboli
dell’uomo… [ma che] la bambina emerge da questa fase della vita con una
riserva di ‘empatia’ incorporata nella sua definizione di sé come non accade
invece al maschietto”. Alla descrizione in negativo di Freud, Nancy Chodo-
row contrappone una rappresentazione positiva e autonoma: “La bambina
emerge con una più solida capacità di esperire come propri i bisogni e i
sentimenti dell’altro (o comunque di crederlo)… Per il fatto di essere ac-
cudita da una persona del suo stesso sesso è portata a viversi come meno
differenziata del maschietto, più in continuità e in relazione con il mondo
esterno, e a orientarsi in modo diverso anche rispetto a quello interno”. Cfr.
The Reproduction of Mothering, Berkeley, University of California Press,
1978, pp. 166-167.
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Cfr. L. Kohlberg, Stage and Sequence: The Cognitivie-Development
Approach to Socialization, in D.A. Goslin, ed., Handbook of Socialization
Theory and Research, Chicago, Rand McNally.
20
D. McClelland, 1975, Power: the inner experience, New York, Ir-
vington Publishers [trad. it. Il potere. Processi e strutture: un’analisi
dall’interno, Roma, Armando, 1983].
21
Per Martina Horner (in Toward an Understanding of Achievement-
related Conflicts in Women, in “Journal of Social Issues”, 28, 1972, pp.
157-175) l’ansia che le donne manifestano di fronte alle situazioni competi-
tive rappresenta un vero vulnus, che pregiudica la loro riuscita nelle attività
intraprese, e il loro il successo.
22
G. Sassen, Success Anxiety in Women: A Constructivist Interpreta-
tion of Its Sources and Its Significance, in “Harvard Educational Review”,
50, 1980, pp. 13-25.
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diretto “uno a uno”, vale a dire il “mors tua vita mea” nascosto
dietro a ogni competizione e con questo la diversa percezione fem-
minile del contesto. Non tanto la difficoltà nel mettersi in gioco o
la percezione di un’inadeguatezza nei confronti del ruolo, ma la
capacità delle donne di darne una definizione più concreta e sofisti-
cata che si spinge fino a includervi la vita degli altri. A questo pun-
to – suggerisce perspicacemente Gilligan (pp. 22-23) – dovremmo
chiederci non già il perché della difficoltà delle donne di fronte al
successo in situazioni competitive, ma perché sia giudicata accet-
tabile, e per quanto sia ancora sostenibile, una visione del successo
così angusta come quella dettata dalla logica ‘maschile’.
D’altra parte, se l’individuazione e la capacità di competere
e di aspirare al successo rappresentano elementi centrali della
vita adulta e la maturità viene fatta coincidere soprattutto con
l’autonomia personale, è evidente che l’atteggiamento di cura e
l’attenzione alla relazione appaiono inevitabilmente una debo-
lezza delle donne, piuttosto che un loro punto di forza23.
23
J. Baker Miller, Toward a New Psychology of Women, Boston, Bea-
con Press, 1976.
24
L. Kohlberg, in The Philosophy of Moral Development, San Francis-
co, Harper and Row, 1981, suddivide lo sviluppo del giudizio morale in sei
fasi. In primo piano tra coloro che risultano carenti nello sviluppo morale –
se misurati con la scala da lui ideata – sono le donne, che si fermano al terzo
stadio. A questo stadio la moralità viene concepita in senso interpersonale
e la bontà viene definita come dedizione agli altri. Questa idea di bontà è
considerata funzionale alla vita delle donne adulte finché si svolge fra le
mura domestiche. Vi è implicita l’idea che entrando nell’arena pubblica,
riservata al lavoro maschile, la donna debba riconoscere l’inadeguatezza
della propria ottica morale e progredire verso gli sviluppi più avanzati dove
i rapporti sono subordinati alle regole (quarto stadio) e le regole ai principi
universali di giustizia (quinto e sesto).
25
Nei suoi studi sull’età evolutiva Piaget sviluppa una distinzione degli
stadi dello sviluppo cognitivo individuando 4 periodi fondamentali, comuni
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so sta nel fatto che quei tratti che ufficialmente hanno sempre
definito la ‘bontà’ delle donne, l’attenzione e la sensibilità per i
bisogni degli altri, diventano in queste analisi il contrassegno del
loro deficit morale.
I costrutti ricavati dallo studio delle esperienze delle donne
fanno però apparire un diverso quadro di questo sviluppo. I risul-
tati delle molte indagini citate dalla Gilligan mostrano che, se os-
serviamo le donne, il problema morale sorge quando il conflitto
è tra le persone e non quando confliggono i loro diritti come nel
caso degli uomini. Si evidenzia allora l’esistenza di una moralità
intesa come cura degli altri, che si fonda sulla responsabilità e
su un’attenzione ai rapporti diversa dalla moralità definita come
equità che lega lo sviluppo morale al rispetto dei diritti e delle
norme26. La morale dei diritti si differenzia da quella della re-
sponsabilità soprattutto per l’accento che pone sulla separazione
piuttosto che sulla connessione, nonché per la priorità che attri-
buisce all’individuo piuttosto che al rapporto. La studiosa ame-
ricana basa queste affermazioni su una lettura diversa degli stessi
dati sui quali il suo maestro Kohlberg ha fondato la sua teoria
dello sviluppo morale27. Essa intuisce che i bambini e le bambine
(ai quali viene chiesto di risolvere lo stesso dilemma28) organiz-
a tutti gli individui e che si susseguono sempre nello stesso ordine. Cfr. J.
Piaget La psicologia del bambino, Torino, Einaudi, 1970; Il giudizio morale
nel fanciullo, Firenze, Giunti e Barbera, 1993.
26
Ricordando l’osservazione di Piaget, corroborata dalla Lever, che ai
maschi nei loro giochi interessano più le regole mentre alle bambine i rap-
porti, a volte anche a scapito del gioco stesso, e tenuto conto della conclu-
sione della Chodorow secondo la quale l’orientamento sociale dell’uomo
è posizionale mentre quello della donna è personale si capisce come un
bambino che ha giocato secondo le regole del gioco e ha vinto, abbia tutto
il diritto di sentirsi a posto. La sua identità di individuo separato da coloro
che, paragonati a lui, sono meno competenti, è confermata, così come è
confermata la sua percezione posizionale di sé.
27
Cfr. il già citato L. Kohlberg, in The Philosophy of Moral Develop-
ment.
28
Il dilemma che Kohlberg propose ai bambini può essere così sintetiz-
zato: Che cosa è giusto faccia un marito che ha una moglie malata grave-
mente e non ha i soldi per comprare il farmaco che può salvarle la vita visto
che il farmacista si rifiuta di darglielo gratuitamente?.
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Nelle risposte al test somministrato da Kohlberg appare chiaro a Gil-
ligan (cit., p. 50) che la bambina, dando per presupposta la connessione,
inizia ad analizzare i parametri della separazione, mentre il bambino, dando
per presupposta la separazione, inizia ad analizzare i parametri della con-
nessione. Se l’aggressività è collegata ad una lacerazione dei legami tra
gli esseri umani, allora sono le attività di cura responsabile – così come
sembrano suggerire le percezioni delle donne – quelle che rendono sicuro
il mondo sociale poiché evitano l’isolamento e prevengono l’aggressività,
più che cercare di limitarne la portata per mezzo di regole. Nei giudizi di
Amy, che sono stati considerati immaturi nel contesto del test effettuato
da Kohlberg, Gilligan riscontra le intuizioni fondamentali di un’etica della
responsabilità, mentre in quelli di Jake viene colto il riflesso di un’etica
giusnaturalistica.
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J. Baker Miller, cit., p. 83.
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L’ordine sociale è una potente macchina simbolica che rinforza il
potere maschile su cui si fonda – attraverso la distribuzione dei ruoli nel-
la divisione del lavoro, la strutturazione degli spazi pubblici e privati, la
definizione dei tempi – facendolo apparire neutro, senza bisogno di legitti-
mazione. La divisione tra i sessi appare naturale perché è oggettivata nelle
cose, incorporata nelle pratiche e assunta nelle nostre definizioni del mon-
do. È la husserliana “attitudine naturale”, la stretta concordanza tra strut-
ture ‘oggettive’ e strutture cognitive, tra la forma dell’essere e quella del
conoscere, tra il corso del mondo e le attese a questo relative. P. Bourdieu,
Il dominio maschile, Bologna, Feltrinelli, 2009, p. 32.
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P. Bourdieu, Le pouvoir symbolique, in “Annales. Économies, So-
ciétés Civilizations”, 3, 1977, pp. 405-411. Definito molto chiaramente in
questo articolo: “Il potere simbolico è quel potere invisibile che non può
esercitarsi che con la complicità di coloro che non vogliono sapere, che lo
subiscono o anche che lo esercitano” (p. 5). È il potere di far vedere e di far
credere, di definire il mondo come scontato (taken for granted) e legittimo.
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Le armi a disposizione sono, “in quanto armi del debole”, deboli, e
soprattutto, essendo insufficienti a sovvertire realmente il rapporto di domi-
nio, spesso ottengono il risultato di confermare il pregiudizio sfavorevole.
Si cita come esempio, la forma di violenza morbida, e spesso invisibile, che
le donne oppongono alla violenza fisica o simbolica esercitata su di loro
non solo dagli uomini, ma in genere da una società organizzata sul princi-
pio androcentrico, che ricorre alla passività, all’astuzia, alla manipolazione,
fino all’amore possessivo dei posseduti, tipico della madre mediterranea
o della sposa materna che vittimizza e colpevolizza vittimizzandosi. Cfr.
P. Bourdieu, Per una teoria della pratica. Con tre studi di etnologia cabi-
la, Milano, Cortina, 2003 [ed. orig. Esquisse d’une théorie de la pratique,
Genève, Droz, 1972].
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La costruzione della pratica non è un atto soggettivo cosciente e
deliberato, bensì l’effetto di un potere inscritto nel corpo sotto forma di
schemi di percezione e di disposizioni (ad amare, ammirare, rispettare, te-
mere) che rende recettivi rispetto a determinate manifestazioni simboliche
del potere. Applicando a ciò che li domina schemi che sono il prodotto del
dominio, o in altri termini, quando i loro pensieri e le loro percezioni sono
strutturati conformemente alle strutture stesse del dominio che subiscono,
gli atti di conoscenza dei dominati sono inevitabilmente atti di ricono-
scenza, o, in altri termini, di sottomissione. Cfr. P. Bourdieu, Il dominio
maschile, cit., p. 50.
35
“La logica, essenzialmente sociale, di quella che definiamo ‘voca-
zione’ ha l’effetto di produrre questi incontri armoniosi tra le disposizioni
e le posizioni, grazie alle quali le vittime del dominio simbolico possono
portare a termine felicemente (nel doppio senso del termine – fortunatamen-
te?) i compiti subalterni o subordinati che vengono conferiti alle loro virtù:
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M. Maruani, C. Nicole, Au labeur des dames. Métiers masculins, em-
plois féminins, Paris, Syros/Alternative, 1989.
38
Ogni richiamo all’ordine inscritto nella struttura delle cose, ogni si-
lenzioso comando o celato divieto inerenti il normale funzionamento del
mondo sociale si adatta allo specifico campo e la differenza tra i sessi si
presenta con una connotazione particolare in ciascuno di essi, data dalla
definizione dominante della pratica che in tali campi ha corso, e che, non
venendo percepita come sessuata, non viene messa in discussione.
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c’è lo spazio vitale per una lotta cognitiva sul senso delle cose
del mondo e la contestuale possibilità del cambiamento39. è dun-
que possibile ribaltare gli schemi di percezione dominanti che
ingabbiano le donne in rappresentazioni negative40, secondo la
logica del pregiudizio sfavorevole41, ma, nell’interpretazione di
Bourdieu, la rivoluzione simbolica femminista non è riducibile
ad una conversione delle coscienze, proprio perché il fondamen-
to del dominio non sta in coscienze mistificate che è possibile
illuminare, ma in disposizioni che sono il prodotto delle strutture
di dominio. La rottura del rapporto di complicità istituito fra do-
minati e dominanti può avvenire solo attraverso il cambiamento
radicale delle condizioni sociali di produzione delle (pre)dispo-
sizioni (habitus) che portano i dominati ad assumere il punto di
vista dei dominanti42.
Osservando i meccanismi di costruzione della realtà sociale,
Bourdieu descrive un mondo sociale che costruisce gli indivi-
dui come realtà sessuate e ne usa poi le differenze biologiche ed
anatomiche per giustificare una differenza di genere socialmen-
te costruita. Il risultato è ottenuto attraverso un paziente lavorio
attraverso il quale i corpi e le loro pratiche non sono né com-
pletamente determinati nel loro significato né completamente
indeterminati, cosicché il simbolismo ad essi connesso è insieme
39
L’indeterminazione parziale della costruzione autorizza interpre-
tazioni contrapposte che offrono ai dominati una possibilità di resistenza
contro l’effetto dell’imposizione simbolica. Come ogni modello culturale,
anche la costruzione di genere reca in sé la possibilità del suo superamento.
Cfr. J. Bruner, La mente a più dimensioni, Roma-Bari, Laterza, 1993.
40
Anche la definizione sociale degli organi sessuali, lungi dall’essere
una semplice registrazione delle proprietà naturali, direttamente offerte alla
percezione, è il prodotto di una costruzione operata a costo di una serie di
scelte orientate o attraverso l’accentuazione di certe differenze o l’occulta-
mento di talune similitudini.
41
La rappresentazione maschile condanna le capacità o incapacità fem-
minili che richiede o contribuisce a produrre: valga per tutti lo stereotipo delle
donne in carriera che sono ‘peggio’ (più grintose? più determinate? più resi-
stenti?) degli uomini. E non possono non esserlo, dato che devono investire
molto di più degli uomini per stare, e legittimarsi, in quella posizione ‘fuori
posto’, quel salire la scala – come direbbe la Gilligan – invece che stare al
centro della rete che va giustificato a se stesse prima ancora che agli altri.
42
Cfr. Bourdieu (2009), cit., pp. 52-53.
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43
“Poiché il principio di visione sociale costruisce la differenza ana-
tomica e poiché tale differenza socialmente costruita diviene il fonda-
mento e l’avallo in apparenza naturale della visione sociale che la fonda,
si instaura un rapporto di causalità circolare che rinchiude il pensiero
nell’evidenza di rapporti di dominio inscritti ad un tempo nell’oggettivi-
tà, sotto forma di divisioni ‘oggettive’, evidenti, di senso comune, e nella
soggettività, sotto forma di schemi cognitivi che – organizzati secondo
tali divisioni – organizzano la percezione di quelle divisioni oggettive”
(Bourdieu 2009, cit., p. 20).
44
Ibid., pp. 76.
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45
Già dagli anni ’70 è stato osservato, ad esempio, che le figlie della
madri lavoratrici avevano aspirazioni di carriera più elevate ed hanno as-
sunto modelli femminili meno tradizionali. Cfr. L.W. Hoffman, Changes in
Family Roles. Socialization and sex differences, in “American Psycholo-
gist”, 1977, 32, pp. 644-657.
46
Anche se in Italia, in realtà, i termini della questione sono più pro-
blematici e la “parità” è meno visibile all’orizzonte: tra i maggiori paesi
industrializzati, infatti, il nostro è quello in cui il divario tra occupazione
maschile e femminile è più ampio. Cfr. M.L. Pruna, Donne al lavoro, Bo-
logna, Il Mulino, 2006; L. Benadusi, S. Piccone Stella, A. Viteritti, Dispari
parità, Milano, Guerini, 2009.
47
Di Rita Biancheri, studiosa da tempo impegnata in studi di genere e
che negli ultimi anni ha condotto una serie di ricerche su diversi aspetti del
problematico rapporto fra donne e mondo del lavoro, si vedano: Mercato
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La mancanza di un equivalente monetario per il lavoro domestico
svolto dalla donna all’interno della propria casa contribuisce a svalutarlo
anche agli occhi della donna stessa, come se questo tempo privo di un valo-
re mercantile non avesse importanza e potesse essere dato senza contropar-
tita, e senza limiti, innanzitutto ai membri della famiglia, soprattutto ai figli,
ma anche all’esterno. Non portate a pensare il lavoro in termini di equiva-
lenza monetaria, le donne, più degli uomini sono inclini al lavoro gratuito,
al volontariato. Preposte alla gestione, e possibilmente all’accrescimento,
del capitale simbolico delle famiglie, le donne assumono spesso quel ruolo
anche all’interno delle aziende, facendosi carico di attività di ricevimento
ed accoglienza, di presentazione e rappresentanza.
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Cfr. A. Gimenez-Bartlett, Una stanza tutta per gli altri, Palermo, Sel-
lerio, 2003.
51
Cfr. Virginia Woolf, Le tre ghinee, Milano, Feltrinelli, 1992.
52
L’esclusione di alcune persone e del loro modo di vivere dal dominio
del sapere è sempre andata di pari passo, scrive la Nussbaum. L’elemento
degno di nota è che queste esclusioni continuano ad apparire naturali e non
‘politiche’; solo la richiesta di inclusione sembra motivata da una ‘finalità
politica’. Ma, se da giovane donna al suo primo incarico ebbe l’impressione
che ai suoi colleghi fosse preclusa la vista di molte persone e di molte vite,
oggi, in quella stessa università vede la crescita di una scuola in cui le don-
ne, i membri di minoranze etniche e religiose, gay e lesbiche, e le persone
che appartengono a culture non occidentali possano essere visti e ascoltati
con rispetto in veste di portatori di una conoscenza specifica, una scuola in
cui si consideri che il mondo è formato da tipi diversi di cittadini, e nella
quale si possa tutti imparare a diventare cittadini del mondo (Nussbaum
1999, pp. 21-22).
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L’attenzione per fenomeni umani di grande importanza – ma pensati
tipicamente femminili e in quanto tali non giudicati meritevoli di attenzio-
ni ‘scientifiche’ – quali le emozioni, l’amore, l’immaginazione e al ruolo
che questi rivestono in un giudizio veramente razionale hanno permesso
di modificare alcuni paradigmi di razionalità, comunemente accettati e di
stampo chiaramente maschile. Questi tendevano ad anteporre, in modo as-
solutamente semplicistico, l’emozione alla ragione e a non riconoscere che
anche la prima può essere una fonte di conoscenza assolutamente autentica.
Catherine Lutz (1988) e Michelle Rosaldo (1980) notarono nei loro studi
come le norme culturali che definiscono i limiti di un’espressione appropria-
ta dell’ira, della vergogna, del dolore, dell’amore esprimano in realtà valuta-
zioni, e non semplici reazioni fisiologiche del tutto prive di discernimento.
54
Anche Justice, Gender, and the Family (1989) rappresenta una critica
serrata delle moderne teorie della giustizia. Okin asserisce che sia pensatori
liberali come John Rawls e Robert Nozick, sia communitarians come Ala-
sdair MacIntyre e Michael Walzer, scrivendo da una prospettiva maschile,
assumono erroneamente che l’istituzione familiare sia giusta. L’ipotesi di
fondo della studiosa è che le famiglie perpetuano le ineguaglianze di genere
attraverso la crescita e l’educazione di bambini in una situazione di genere
sbilanciata, e facendo loro acquisire le idee e i valori considerati universali
(anche se profondamente sessuati) crescono giovani adulti che li ripropor-
ranno. Solo includendo il punto di vista delle donne e l’attenzione alla situa-
zione di genere, una teoria della giustizia può considerarsi attendibile.
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“I deny that any one knows or can know, the nature of the two sexes,
as long as they have only been seen in their present relation to one another.
Until conditions of equality exist, no one can possibly assess the natural
differences between women and men, distorted as they have been. What is
natural to the two sexes can only be found out by allowing both to develop
and use their faculties freely”, in The Subjection of Woman, 1869, cap. I.
Mill, forse il maggiore tra i filosofi politici liberali, riteneva che le prefe-
renze espresse dalla donne fossero distorte non solo perché non avevano
la possibilità di votare, ma anche per un serie di fattori a monte del voto:
l’assenza di un’educazione paritaria la mancanza di informazioni precise
sulle potenzialità e sulle capacità delle donne; l’atteggiamento di superiori-
tà degli uomini, portati a trattare le donne con condiscendenza e a svalutare
le loro conquiste; la concezione diffusa secondo la quale le donne erano
adatte a svolgere solo o principalmente lavori domestici e non implicanti
l’uso della ragione; il timore, giustificato, da parte delle donne stesse nel
mettere in discussione l’autorità, una paura che le ha portate a rinunciare a
ruoli e occasioni; la loro ritrosia, ugualmente giustificata, ad abbandonare
uno stato di disuguaglianza, comunque interiorizzato e socialmente regola-
to, per ricercare una posizione che le avrebbe lasciate senza protezione e in
ogni caso discriminate.
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Cfr. M.C. Pievatolo, www.swif.uniba.it/lei/filpol/schedaok.htm.
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“Il principio di ogni persona come fine, scrive (p. 198), implica che la
persona individualmente deve essere l’unità fondamentale della distribuzio-
ne politica. I principi politici fondamentali richiedono che ogni società assi-
curi a ciascuno un livello di soglia di beni vitali fondamentali, considerando
la vita di ciascuno degna di sostegno vitale fondamentale e di fondamentali
libertà e opportunità; e richiedono anche che non ci accontentiamo di un
totale o di una media splendidi, quando alcuni individui vengono privati o
della libertà o del benessere materiale” (Diventare persone, cit., p. 198).
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Judith Butler radicalizza la questione ponendo al centro della discus-
sione la preminenza sociale della relazione eterosessuale vista come veico-
lo del dominio maschile; cfr. Bodies that Matter: On the Discursive Limits
of “Sex”, New York, Routledge, 1993, p. 94 [trad. it. Corpi che contano,
Milano, Feltrinelli, 1996, p. 79].
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Gilligan, cit., p. 65.
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Prese le distanze da forme di azione politica diretta ed anche di azio-
ne collettiva, e avendo cominciato a investire nella riflessione sui propri
percorsi esistenziali e sulle proprie identità, le donne sono in grado ormai
di affermarsi positivamente in quanto persone e non più in rapporto ad altri
individui, o come membri di un gruppo.
61
Cfr. A. Touraine, Il mondo è delle donne, Milano, Il Saggiatore, 2009,
pp. 191-193.
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Cfr. H. Arendt, Eichmann in Jerusalem: a report on the banality of
the evil, New York, Viking, 1963.
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