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Essere donne e “diventare persone”

costruzione di genere e identità

Maria Grazia Ricci

Già prima di nascere siamo pensati come maschi o femmine. Sia-


mo accolti in calchi sociali fatti di gesti e di parole, di comporta-
menti e di attese, di pratiche e di discorsi, di simboli e di signifi-
cati che ci plasmano lentamente come tali, inculcandoci l’idea di
ciò che è giusto e ciò che è sbagliato per l’uno o l’altro genere.
L’appartenenza viene continuamente sollecitata e rinforzata at-
traverso una fitta rete di segnali subliminali, semafori numerosi
e nascosti che passano velocemente e in continuazione dal verde
al rosso. Apprendiamo e interiorizziamo simboli e conoscenze
comuni che ci orientano nella nostra attribuzione di senso a ciò
che ci circonda, alla complessità del “mondo umano”1; essi gui-
dano il nostro percorso di individui e di gruppi, che, seguendo,
riproduciamo (Berger e Luckmann 1969).
Occorrono tempo e risorse – che variano sia localmente che
storicamente – per farci diventare uomo o donna, costruiti come
tali in tutte le culture, sebbene in ognuna con gradienti diver-
si di aggressività e di sottomissione, di distanza e di vicinanza,
di eguaglianza e di differenza. E all’interno di ogni cultura gli
elementi profondamente interiorizzati e condivisi sono percepi-
ti come “naturali”, non sono tematizzati, non giungono alla co-
scienza. E anche quando elementi critici giungono alla coscienza
di singoli, o di gruppi2, il riconoscimento e la loro accettazione

1
Così viene definito da Hanna Arendt in Vita Activa. La condizione
umana, Milano, Bompiani, 2004.
2
Come ci fa notare Susan M. Okin (1979), sul problema della ‘diffe-
renza’ fra uomini e donne i filosofi hanno riflettuto fin dall’antichità e lo
hanno riproposto nel corso del tempo, ma solo a cavallo degli ultimi due
secoli il movimento delle suffragette riuscì a valorizzare la mobilitazione
delle donne e ad ottenere il riconoscimento di una prima forma di ugua-
glianza politica col diritto al voto.

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come elementi di cambiamento dipendono dalle condizioni ge-


nerali del più ampio gruppo di appartenenza3.
Il movimento femminista, che è esploso come soggetto poli-
tico nei passati anni sessanta, ha potuto raccogliere e rappresen-
tare la sofferenza, il disagio ma anche la nuova consapevolezza
di una moltitudine di donne e porli al centro del dibattito cultu-
rale, sociale e politico in una società opulenta in profondo e radi-
cale mutamento. In quel momento storico di radicale innovazio-
ne, in cui le routine sono entrate in crisi, è diminuita l’efficacia
delle pratiche e i modelli consueti non vengono più riconosciuti
e passivamente riprodotti (Giddens 1991), la percezione della
distanza fra il presente e il passato ha consentito la messa in dub-
bio radicale delle definizioni di maschile e di femminile, dei loro
attributi, dei loro ruoli e corsi di vita.
Il movimento femminista si è costruito intorno a posizioni te-
oriche e punti di vista diversi il cui perno centrale è rappresentato
dal pensiero della differenza4. Una differenza che viene pensata
innata, quando rivendica la capacità delle donne di generare la
vita ed ispira un processo di valorizzazione di una cultura fem-
minile radicalmente altra; o costruita, prodotta socialmente seb-
bene appaia come elemento inscritto nella fisicità dei corpi, e in
questo caso pone il riconoscimento dell’uguaglianza dei generi
attraverso la decostruzione della loro “naturalità”; o altra, quan-
do il genere – situato nel complesso intreccio con diversità altre:
‘locali’, etniche, generazionali, culturali –, è visto come uno dei
molteplici aspetti dell’alterità.
In questo saggio si fa propria l’ipotesi di un pensiero maschi-
le che ha costruito il mondo a partire da sé e così facendo si è
imposto come universale e neutro sottraendo a quello femminile,
denotato come altro, la possibilità di riconoscersi in categorie

3
Assumiamo dalla sociologia della memoria di Halbwachs che in
condizioni non favorevoli gli elementi dissonanti vengono collocati fuori
dal mainstream culturale, in latenza, finché non si creeranno le condizioni
sociali per una nuova e diversa conoscenza e assunzione.
4
I lavori della filosofa belga Luce Irigaray si collocano all’origine di
questa scuola di pensiero. Citiamo fra i molti: Speculum; L’altra donna,
Milano, Feltrinelli, 1975; l’Etica della differenza sessuale, Milano, Feltri-
nelli, 1985; J. Piaget, Io tu noi. Per una cultura della differenza, Torino,
Bollati Boringhieri, 1992.

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generali che, quando non lo stigmatizzano, lo escludono, e alle


donne una autentica capacità di “autosignificarsi”5. Rifacendo-
si al pensiero di studiose e studiosi che assumono la differenza
innanzitutto a partire dalla sua denotazione, come problema del
dominio, della parola, delle istituzioni non segue l’ipotesi del
riconoscimento di una ‘diversità’ assoluta e irriducibile e di un
pensiero ‘altro’ di pari dignità, ma propone l’assunzione di un
paradigma critico volto all’acquisizione di una differenza, fra
donne e uomini e fra singoli individui, che, non essendo ‘natu-
rale’ e dunque data una volta per tutte, pone il problema della
negoziazione continua dei significati e della loro necessaria ri-
composizione.

Dalla produzione alla cura. Verso la nuova invisibilità


del lavoro

Arendt sostiene che l’età moderna ha comportato la trasforma-


zione dell’intera società in una società del lavoro, ne ha registrato
il passaggio da attività necessaria alla sopravvivenza fisica degli
individui a quella di indispensabile stampella della loro identità,
la sola in grado di giustificare, di dare un senso alla presenza
umana nel mondo. La studiosa ne coglie acutamente l’aspetto
di “mitologia sociale” del mondo occidentale contemporaneo.
Nell’apoteosi del lavoro industriale e nel suo recente declino6, è
possibile individuare pratiche di emancipazione e nuove forme
di individuazione7 e intravedere le condizioni per lo sviluppo di
nuove categorie con cui pensare la società e i generi.
In Vita Activa (1958; trad. it. 2004), che possiamo considera-
re una riflessione sulla condizione umana al culmine della mo-
dernità organizzata (Wagner 1994), la filosofa tedesca ripropo-
ne la tripartizione aristotelica delle attività propriamente umane

5
Cfr. E. Ruspini, Le identità di genere, Roma, Carocci, 2009, p. 60.
6
Quella del lavoro è una fra le molte metanarrazioni della modernità
il cui declino è registrato da Lyotard nel suo La condizione postmoderna
(2004).
7
Cfr A. Melucci (1991), Il gioco dell’io. Il cambiamento del sé in una
società globale, Milano, Feltrinelli, e, dello stesso autore, Culture in gioco.
Differenze per convivere, Milano, Il Saggiatore, 2000.

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indispensabili alla sopravvivenza della specie nel tempo e alla


costruzione della condizione umana, così come la conosciamo
e la agiamo oggi. Le due principali, l’operare, che producendo
‘cose’ dà al mondo il suo carattere durevole, la sua “cosalità”,
e cioè quell’elemento di permanenza e di continuità che fa da
contrappeso alla labilità della vita dei singoli e alla limitatezza
del loro tempo, e il lavoro, che nel suo incessante riproporsi as-
sicura con la sopravvivenza degli individui quella della specie,
ricalcano, anche se in modo impreciso, la distinzione marxiana
tra produzione e riproduzione, così come anche la distinzione tra
lavoro produttivo e improduttivo centrale nel discorso filosofico
del XIX secolo. A queste si aggiunge una terza attività, l’agire in
comune, centrale in una condizione umana che i greci chiama-
vano polis, ovvero uno spazio pubblico in cui è possibile entrare
in una relazione paritaria gli uni con gli altri e, conservando at-
traverso il discorso la memoria degli atti compiuti, riprodurre la
comunità nelle sue condizioni di eguaglianza e giustizia.
Come segnala Dal Lago (p. xxiv) nella sua bella introduzione
all’edizione italiana, Arendt parte dal presupposto che alle ori-
gini della nostra cultura, nella Grecia pre-platonica, di fatto le
modalità della vita activa collocassero al primo posto, come mo-
dello di compiuta umanità, l’agire in comune o politeia, seguito
dall’operare e, in ultimo, dal lavoro, la cui similitudine con il
processo di ricostituzione della natura lo ha di fatto connotato
come agire incompiuto, non pienamente umano.
L’interesse per le tesi arendtiane, registrato negli ultimi anni
nel dibattito delle scienze sociali, deriva indubbiamente dall’esi-
genza di superare le difficoltà di comprensione dei mutamenti in
atto attingendo a modelli interpretativi alternativi8. La non comu-

8
Come scrive André Gorz (1997; trad. it. 1998, pp. 12-13), una donna
ha un lavoro quando insegna in una scuola materna e non ne ha quando
alleva i propri figli; è pagata nel primo caso e non nel secondo, ma non è la
remunerazione dell’attività l’elemento essenziale. Ciò che è realmente im-
portante è che al lavoro viene riconosciuta una funzione “socialmente iden-
tificata e normalizzata nella produzione e riproduzione di tutto il sociale” e
a questo fine esso deve essere identificabile attraverso “competenze social-
mente definite” che si dispiegano secondo “procedure socialmente determi-
nate”. Nessuna di queste condizioni è soddisfatta dalla madre casalinga: il
suo lavoro non è istituzionalmente controllato o conforme a norme profes-

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ne distinzione tra lavoro ed opera è basata, oltre che su una palese


evidenza fenomenica, sulla diffusione tra le lingue indoeuropee
di una doppia etimologia del termine lavoro, ben registrata nella
distinzione di Locke fra le mani che operano e il corpo che lavo-
ra. Nelle coppie linguistiche sono i termini equivalenti a lavoro
(ponein e laborare, travailler e arbeiten) che denotano attività
che hanno a che fare con la fatica e la pena9. Il disprezzo per il
lavoro, attribuito ad un primigenio impulso verso la libertà dal-
la necessità ma anche all’insofferenza per ogni sforzo che non
lasciasse alcuna traccia di sé in un’opera, o in un gesto degno
di essere ricordato, sembra acquisito nell’idea, che Marx con-
divideva con Smith, che i “servi domestici” siano “ospiti oziosi
[che] non lasciano nulla dietro di sé in cambio del loro consumo”
(Smith, trad. it. 1987, pp. 325-326). L’attività ‘improduttiva’ di
questi “servi” ha da sempre garantito non solo la mera sussisten-
za, ma “ciò che gli schiavi lasciavano dietro di sé, in cambio del
loro consumo, non erano ‘cose’ bensì la libertà dei loro padroni o,
come si è poi detto in epoca moderna, la loro capacità produttiva.
Il loro lavoro – come quello della quasi totalità delle donne, po-
tremmo aggiungere – non ha prodotto mai altro che vita” (Arendt
1958; trad. it. 2004, pp. 62-63). La vita degli altri10.
La principale caratteristica del lavoro, nel senso attribuitogli
da Arendt, è il suo provvedere ai bisogni relativi alla conserva-
zione della vita. Questa attività, continuamente reiterata, richiede

sionali né è assoggettato a orari predefiniti o a criteri pubblici di efficienza;


in breve, non si colloca nella sfera pubblica né nel suo discorso. Attraverso
l’omologazione delle competenze e delle procedure il lavoro è un potente
mezzo di socializzazione e di standardizzazione, e la posta che mette in
gioco non è solo economica bensì essenzialmente sociale e politica, perché
essere esclusi dal lavoro vuol dire essere privati di una dimensione identi-
taria forte che si costruisce nella “condivisione di parole e atti” così come
di spazi fisici. Si veda anche di U. Beck (1999), Schöne neue Arbeitswelt.
Vision: Weltbürgergesellshaft, Frankfurt am Main, Campus verlag GmbH
[trad. it. Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro. Tramonto delle sicurezze
e nuovo impegno civile, Torino, Einaudi, 2000].
9
Cfr. Vita Activa (cit.), nota 3, p. 253.
10
In Una stanza tutta per gli altri, parafrasando il notissimo Una stanza
tutta per sé di Virginia Woolf, Gímenz-Bartlett immagina la vita di due don-
ne, le domestiche della scrittrice inglese, illustrandone la irremovibile con-
dizione di ‘servitù’ o al servizio di un ‘padrone’ o al servizio di un ‘marito’.

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un enorme dispendio di energie, e nonostante la sua radicale in-


dispensabilità, non ha mai ottenuto un chiaro riconoscimento so-
ciale, conseguenza questa del suo evidente carattere dissipativo:
non lascia nulla di concreto dietro di sé poiché il prodotto dello
sforzo, pur creando la vita o le sue condizioni, viene consumato
con la stessa rapidità con cui questo ultimo è speso. Sostenuta
dagli schiavi nell’antichità, tramandata in tutte le forme di servi-
tù, esplicata nell’attività di “riproduzione sociale”, cui soprattut-
to le donne continuano a provvedere dall’inizio dei tempi, essa si
è moltiplicata, trasformata e mimetizzata nelle molteplici attività
di mantenimento e di cura previste dalle società contemporanee.
Così come, nonostante la crisi profonda del modello occi-
dentale, continuano ad essere ritenuti validi i principi socio-eco-
nomici che gli hanno dato forma, il declino dei principi cardine
della società industriale non impedisce che continuino ad essere
utilizzati i frames cognitivi in essa costituiti (Goffman 2001).
L’attività che ancora viene ritenuta fondamentale nelle nostre
società è infatti quella che, assumendo la forma dell’operare,
garantisce la fisicità del mondo in cui viviamo. Nella solidità in-
trinseca delle cose, anche di quelle più fragili, nella loro eviden-
za di artefatto, riconosciamo lo sforzo compiuto; attraverso la
tangibilità del mondo che ci circonda sperimentiamo un senso di
radicamento che diventa una fonte di fiducia in noi stessi, l’op-
posto dello sforzo sfibrante e invisibile sperimentato nel mero
lavoro della riproduzione. La funzione principale degli artefatti
umani, materiali o simbolici che siano, sta nel loro uso e nella
loro persistenza mentre la finalità del lavoro di cura (o di ripro-
duzione) è invece il consumo. La fine del processo lavorativo
non è in questo caso segnata da un prodotto finale socialmente
riconosciuto ma solo dalla dissipazione della forza lavoro (ibid.,
pp. 100-102).
Quando Marx (1979, pp. 186-187) sostiene che ogni lavoro è
libero e produttivo, e dunque che ogni tipo di attività lavorativa
merita in quanto tale di essere considerata come un operare, non
intuisce – scrive acutamente Arendt (Arendt 2004, p. 92) – che
l’espansione del lavorare, reso palese nella enorme produzione
di oggetti d’uso, la cui velocità d’utilizzo è però così accelerata
che la differenza tra uso e consumo diminuisce fino ad essere
insignificante, porta con sé la scomparsa dell’operare in quanto

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produzione di permanenza, stabilità e durevolezza. L’accelera-


zione imposta al ritmo naturale e il carattere ripetitivo di ogni
processo, così visibili nel lavoro alla catena di montaggio che ha
caratterizzato la prima fase della società industriale, ma così dif-
fusi anche nelle società odierne, recano il contrassegno inequi-
vocabile del lavoro, nel senso arendtiano, così come la tendenza
ad abbassare e livellare tutte le attività alla soglia del “guada-
gnarsi la vita”.
Appare dunque evidente che il prodotto del lavoro di homo fa-
ber (il costruttore), il mondo umano così come l’abbiamo eredita-
to e lo conosciamo, viene difeso e preservato attraverso quello di
animal laborans (il riproduttore e/o il manutentore), che affronta
la sfida continua rappresentata dal naturale processo di decadi-
mento. Attività, quest’ultima, che ha poco in comune con l’eroi-
smo della conquista o l’evidenza della costruzione, e molto, inve-
ce, con la monotonia di una quotidiana lotta per la sopravvivenza:
“ciò che rende penoso questo sforzo non è il pericolo della sfida
– scrive infatti Arendt – ma la fatica insita nella sua inflessibile
ripetizione” (ibid., p. 85) e assimila questo compito estenuante,
ma ineludibile per il genere umano, ad una delle fatiche di Ercole,
quella che consiste nel tenere pulite le stalle di Augia.
Le categorie di homo faber e animal laborans appaiono par-
ticolarmente interessanti e adeguate per lo scopo che ci si pro-
pone in questo saggio, ci consentono infatti di individuare chia-
ramente lo scarto primigenio, l’origine del genere, non come
prodotto della natura ma della società. La familiarità del “mon-
do umano”, la possibilità di conoscerlo ed esservi riconosciuti
in quanto esseri umani viene attribuita alla sua cosalità e non
alla sua intrinseca generatività (ibid., p. 67). Il porre l’essen-
za dell’umanità del mondo che abitiamo, nella chiara evidenza
delle cose “fabbricate” invece che nell’opaca indefinitezza del
processo di riproduzione dei singoli e della specie, ha fissato un
percorso di cui oggi si vedono non solo le contraddizioni ma
anche i limiti radicali.
Come in una sorta di nemesi, la consistenza del mondo delle
cose si dissolve nella centralità che oggi ha assunto il loro consu-
mo come anche nella proliferazione infinita dei tecnicismi da cui
dipendono sia la nostra riproduzione che la nostra sopravvivenza
(Giddens 1989). Una dinamica questa, che spinge gli individui

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in un processo vitale enormemente intensificato, sempre più lon-


tano dal ciclo naturale della vita. La questione va ormai oltre
l’interrogativo se siamo i padroni o gli schiavi delle nostre cose,
i creatori o i succubi delle nostre procedure, ma se e quando
l’automatismo dei processi in atto ha cominciato a distruggere il
nostro mondo, tradendo quello che Arendt (2004, p. 108) defini-
sce “il compito più importante dell’artificio umano, che consiste
nell’offrire ai mortali una dimora più permanente e più stabile di
quanto essi non siano”.
La persistenza delle cose, che dà loro la relativa indipendenza
dagli uomini che le producono e le usano, cosicché “alla sog-
gettività dell’uomo si contrappone l’oggettività del mondo che
l’uomo ha costruito piuttosto che la sublime indifferenza dell’in-
tatta natura” perde il carattere positivo di proiezione dell’atti-
vità umana nel tempo, di intercapedine fra la nostra fragilità e
la forza bruta della natura, nonché il suo carattere di nido per
assumere quello di una gabbia globale fatta di troppe cose, in
parte inutili, velocemente obsolete e non facilmente rinnovabili
(Bauman 2005).
L’interpretazione dell’attività umana proposta da Arendt, ap-
pare, soprattutto oggi, un’interessante chiave di lettura dell’am-
bigua situazione contemporanea perché ne focalizza un aspetto
implicito ma, a mio avviso, centrale. All’invisibilità del lavoro di
riproduzione, attività che ha accompagnato l’umanità fin dalle ori-
gini, spesso in forma schiavile o servile, e principalmente affidata
alle donne, a un immenso bacino di attività speso nel consumo
necessario alla riproduzione degli esseri umani e del loro mondo,
si è da sempre contrapposta la visibilità del lavoro inteso come
costruzione. Questa – essenzialmente maschile – era l’attività che
garantiva l’emancipazione dell’uomo dalla naturalità, la produ-
zione dell’esistenza umana attraverso l’attività di ‘demiurgo’, di
fabbricatore di cose, nonché la familiarità con questo mondo at-
traverso l’uso reiterato dei prodotti della propria azione. L’attività
di costruzione degli elementi del mondo materiale è sempre stata
alla base delle varie forme che ha assunto nel tempo la società,
ma l’enorme accelerazione del processo – derivata dall’invenzio-
ne e utilizzo su larga scala delle ‘protesi’ umane che sono le mac-
chine – ne ha provocato una radicale trasformazione. La metafora
della complessità, che richiama un mondo in cui la componente

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artificiale ha sussunto quella biologica e la sostituisce in spazi


sempre più ampi, rende esplicita la sofisticazione raggiunta dal
mondo sociale. Il termine autopoiesi, coniato da Maturana e Va-
rela (1985) ne evidenzia l’aspetto autoriproduttivo basato sulla
circolarità delle sue stesse azioni. La riproduzione appare dunque
l’elemento centrale delle società contemporanee, e non più la pro-
duzione che ne ha invece segnato l’aspetto fondativo.
La convivenza con l’enorme quantità di merci prodotte ha
spostato la nostra attenzione dalla fatica della produzione alla
necessità del consumo, e così facendo ha reso invisibile l’attività
umana necessaria per produrle; il flusso continuo, che esige una
assimilazione altrettanto continua e immediata, altera il nostro
rapporto con le cose (Bodei 2009), non più chiaro rimando ad
uno stabile ambiente umano ma aleatoria presenza in una ‘socie-
tà dello spreco’ (Bauman 2005).
La situazione di estrema labilità, di liquidità per usare la
metafora utilizzata con successo da Bauman (2006), modifica,
almeno in parte, le rappresentazioni tipiche dei macro ruoli di
genere. E alcune delle caratteristiche del lavoro di cura, e cioè
la penosità legata alla continua reiterazione, la estrema volatilità
connessa al rapido consumo, la mancanza di un prodotto concre-
to in cui viene a fissarsi il processo, e dunque la complessiva in-
visibilità che è alla radice del deficit di identità e cittadinanza per
quel tipo di lavoratore, si stanno trasferendo alla maggior parte
delle attività delle società avanzate. La definizione delle società
contemporanee come società del “terziario” o meglio, del “ter-
ziario avanzato”, indica che la maggior parte dei lavoratori è im-
pegnata in attività di mantenimento dei meccanismi economici,
istituzionali e sociali di tali società, in un “metalavoro di cura” –
che dalle persone si è allargato agli elementi fisici e simbolici del
nostro mondo – la cui finalità altro non è che la ‘riproduzione’
dell’esistente in quanto tale, il mantenimento dell’artificialità del
mondo umano, il costante impegno contro la sua dissoluzione.
È il suo essere diventato pratica continuamente reiterata ma non
più fissata in routine definite e riconosciute, sganciato dalla pro-
duzione immediata di elementi compiuti, caratterizzato da atti-
vità frammentarie in rapida obsolescenza, praticato da individui
assolutamente interscambiabili, sradicato non solo da un luogo
fisico ma anche dalla percezione di un’immediata utilità sociale

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che sta portando l’operare, nella sua forma contemporanea di


lavoro “produttivo”, nell’invisibilità nella quale il lavoro pro-
priamente di cura si mantiene da sempre.
L’allentamento dei confini del lavoro e la crisi dei suoi mo-
delli si rispecchiano nella mutevolezza delle identità contempo-
ranee e rimettono in gioco le definizioni dei generi e le connota-
zioni dei loro attributi.

Voci multiple e voci diverse. Identità in transizione

Se il fulcro delle identità moderne evolveva attorno a scelte fon-


damentali, come quelle dell’occupazione lavorativa, della posi-
zione che si ricopriva nella famiglia, della posizione nella sfera
pubblica, l’identità postmoderna sembra invece definirsi in uno
spazio privo di vincoli forti e di “luoghi” predefiniti in cui sedi-
mentare le esperienze, e soprattutto nella continua negoziazione
del riconoscimento sociale. Se nel primo caso l’investimento nel
sistema educativo, l’esaltazione di una vita familiare stabile11, un
sistema di ruoli lavorativi fissi e riconosciuti socialmente (Par-
sons e Bales 1974) aveva prodotto identità chiare, la cui prevedi-
bilità dei percorsi di vita rientrava nell’orizzonte delle aspettative
dell’epoca, nel secondo caso gli individui esistono in uno stato di
continua costruzione e ricostruzione (Gergen 1991, pp. 6-7). Il
venir meno di un universo simbolico integrato proietta gli indivi-
dui in ‘mondi’ di significato che assumono definizioni della realtà
non solo molto diverse, ma spesso profondamente discrepanti. Se
l’identità individuale e il senso soggettivo non possono più essere
‘iscritti’ in un unico sistema, e utilizzare una condivisa definizio-
ne della realtà, essi cessano di essere percepiti come destino per
diventare invece scelta e costruzione del soggetto. L’orizzonte di
scelta dell’individuo diventa dunque sempre più aperto e fluido
e questi si può immaginare ‘protagonista di diverse biografie’,
indipendentemente dalla sua stessa capacità di realizzarle.

11
Per le donne questo ha significato essenzialmente la conferma delle
funzioni di cura all’interno della famiglia, e da questa assunzione si è con-
tinuato a farne dipendere le aspirazioni, i progetti e le possibilità Si veda in
Okin (1992), p. 283.

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Essere donne e “diventare persone”

Il discorso sulle mutevoli relazioni tra le identità individuali,


quelle sociali e le configurazioni della società è interno a quel-
lo sulla storia della modernità organizzata: accompagna la sua
nascita, il suo consolidamento temporaneo, la sua crisi (Lash e
Friedman 1992). Ed è proprio l’esperienza delle certezze e rou-
tine della complessiva vita sociale nel welfare state che ha per-
messo agli individui, e in particolar modo alle donne, di gestire
con maggiore flessibilità i propri ruoli, di ‘giocare’ con questi, di
interpretarli, di usarli a proprio vantaggio: di stare un po’ dentro
e un po’ fuori dal mondo del lavoro con la scelta del part-time;
di inseguire il proprio talento in un sistema di istruzione e di for-
mazione maggiormente accessibile, di occuparsi dei propri figli
o anziani senza esserne assorbiti completamente, in sintesi, per
la prima volta e in massa, la possibilità di portare avanti un pro-
prio progetto di vita. Il declino della modernità organizzata, che
peraltro ha coinciso con l’assunzione dell’adeguatezza del para-
digma imprenditoriale nella gestione delle istituzioni sociali, ha,
almeno in parte, interrotto questo processo e tende a favorire lo
sviluppo di un “sé imprenditore” in grado di cogliere o creare le
opportunità della propria valorizzazione.
Abbandonato il posto occupato in uno stabile ordine sociale,
agli individui viene chiesto di impegnarsi in una attiva definizione
delle proprie posizioni e delle proprie vite in un contesto di peren-
ne mutamento che incrementa incertezze e ansietà. Senza la rete di
protezione costituita dalla prevedibilità dei percorsi, immerse nella
ormai cronica incongruenza dei riferimenti e dei modelli, schiac-
ciate nella necessità di scegliere ma private della possibilità di ‘in-
vestire’, le vite di oggi diventano radicalmente precarie12. Il pieno
dispiegamento della nuova cultura beneficia senz’altro qualcuno,
forse anche molti, ma lo fa a spese di una consistente minoranza,
di questa consistente minoranza le donne detengono il pacchetto
maggioritario. Nota Wagner (ibid., p. 166) che nella configurazio-

12
Il mercato delle expertises per fronteggiare ogni immaginabile situa-
zione è visibilmente aumentato in questi ultimi anni. Uno sviluppo che, dal
lato della domanda può essere interpretato come un nuovo modo di orien-
tarsi e da quello dell’offerta come un modo per guidare gli individui verso
un comportamento socialmente compatibile senza il ricorso all’autorità o
alla forza (cfr. Giddens 1991).

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Maria Grazia Ricci

ne sociale che sta prendendo il posto della modernità organizzata


l’abbandono della rigidità dei modelli di azione ed espressione so-
ciale in questa vigenti, dal maschio breadwinner alla madre di fa-
miglia, va di pari passo con il declino delle sicurezze economiche
e sociali garantite dal welfare state. Se la rappresentazione sociale
dominante invita a ‘to be yourself!’ ma contemporaneamente non
ne crea le condizioni materiali generalizzate, si costituiscono allo-
ra le premesse di un’incertezza sociale diffusa, di un crepuscolo
nel quale non ci si può più identificare nelle vecchie forme, ma
mancano le opportunità per crearne di nuove.
Per godere dell’offerta delle possibili forme di autorealizza-
zione, e cioè dei nuovi e molteplici modelli di espressione e di
azione, occorrono mezzi materiali, culturali, intellettuali che ne
sono i requisiti socialmente necessari; ma la ragione per la quale
qualcuno possiede o non possiede, o può acquisire o meno tali
mezzi, tende ora ad essere imputata agli individui stessi e non
ai potenti meccanismi sociali in azione (Bourdieu 1979). Tut-
to questo ci dice che gli spazi per la formazione delle identità
si stanno allargando, ma anche che a questo non fa seguito la
concreta possibilità degli individui di accedere a questa libertà
ampliata, nonostante la loro motivazione o interesse a farlo (Wa-
gner 1994, p. 167). Questo processo, che è stato letto soprattutto
in chiave di potenziamento del soggetto attraverso lo sviluppo di
molteplici percorsi d’azione in virtù di una libertà di scelta mai
apparsa così ampia sulla scena sociale, quando osservato nei
concreti sviluppi delle dinamiche sociali in atto, lascia spazio a
un diverso modello di interpretazione che privilegia gli elementi
di destrutturazione e crisi13. Assumendo una condizione di alie-
nazione della soggettività moderna (Marcuse 1964) si evidenzia
come – non essendo più collocati in uno spazio sociale fisso,
occupanti ‘privilegiati’ di un ruolo, chiaramente definiti da un
genere, ma sempre più spesso sottoposti alle pressioni contra-
stanti di ruoli che possiedono distinte aspettative, ricompense e

13
Correnti del dibattito postmoderno interpretano la pluralizzazione
non come una condizione dell’autorealizzazione dell’individuo ma come
l’espressione della frammentazione dell’identità che vede una radicale
scomparsa del soggetto. Tra questi H. Garfinkel, Studies in Ethnometholol-
ogy, Cambridge, Polity Press, 19951967.

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Essere donne e “diventare persone”

obblighi – uomini e donne di oggi si trovano di fronte a scelte che


implicano una maggiore responsabilità individuale a fronte di
una minore capacità di decidere14.
Siamo dunque passati da un concetto di identità quale attributo
‘fisso e immodificabile’ di una persona a quello di definizione che
l’individuo dà di sé, cioè ipotesi o rappresentazione che il soggetto
formula e in base alla quale agisce, ma che viene verificata, con-
solidata o modificata nel corso del processo di interazione sociale,
un’identità dunque con un chiaro carattere processuale. Persone,
gruppi, generi continuano però a comportarsi come se esistesse
una qualche unità e continuità di azione, ad agire come un ‘io’ o un
‘noi’; e anche nella ‘molteplicità’ del presente, una qualche unità e
continuità del soggetto dunque si forma e si mantiene15.
Interessanti – nonché utili per lo sviluppo di questo percorso
interpretativo – le osservazioni di Sennett (2001) sull’impatto che
hanno avuto sul character (sulla personalità dei singoli individui)
il radicale mutamento avvenuto nel mondo del lavoro e il sotteso
elogio dell’individualizzazione. Nel “carattere” confluiscono i trat-
ti permanenti di un’esperienza emotiva che si esprime attraverso la
sincerità, la lealtà, la fedeltà e l’impegno reciproco nel tentativo di
raggiungere obiettivi a lungo termine. La conferma di questi sen-
timenti – che plasmano i tratti personali cui attribuiamo valore di
fronte a noi stessi e in base ai quali ci sforziamo di essere valutati
da parte degli altri – consente il perdurare della fiducia e la continua
ricostruzione della socialità. La ristretta cornice temporale nella
quale si muove l’economia contemporanea, con i suoi protagonisti
individuali e collettivi, purtroppo, non ne permette più lo sviluppo.
Le società, e i gruppi moderni, si baserebbero dunque sulla “for-

14
La fenomenologia sottolinea come l’identità muti nella sua stessa
struttura perdendo la capacità di rappresentare un sistema di rilevanza stabi-
le e coerente per l’individuo. L’identità cambia nei suoi tratti fondamentali
e la soggettività subisce un profondo processo di riorganizzazione che è
stato definito come “pluralizzazione dei mondi di vita sociali”. Cfr. Berger,
Berger, Kellner 1983.
15
Melucci (2000, pp. 108-109) propone di usare il termine “identiz-
zazione” per sottolineare il processo di costruzione dell’identità piuttosto
che la sua esistenza e sottolinea anche i problemi che da questa definizione
derivano: quello dei confini, e cioè dove comincia e dove finisce il soggetto
agente, e quello della continuità, e cioè della sua permanenza nel tempo.

133
Maria Grazia Ricci

za dei legami deboli”. Con questo Granovetter (1973) intende che


nelle società contemporanee i rapporti occasionali di associazione
appaiono più utili dei legami a lungo termine e che i legami sociali
forti, che derivano da lunghe consuetudini, hanno perso molto del-
la loro potenza. Il saggio di Granovetter ispirerà una molteplicità
di studi e di studiosi nonché un settore della disciplina denominata
sociologia delle reti. Con un diverso significato, la metafora della
rete sarà un elemento centrale del lavoro di Carol Gilligan.
Nel suo seminale lavoro In a Different Voice, tradotto in ita-
liano col suggestivo Con voce di donna, la psicologa americana
postulando l’esistenza di una prospettiva differente attraverso cui
le donne guardano il mondo, mette in evidenza che le categorie
da queste usate per descrivere ciò che vedono sono elaborate da
menti maschili (ibid., p. 13). Quindi, non essendo la loro, la voce
con cui le donne parlano non può narrare con la giusta intonazio-
ne il modo in cui esse pensano, le strategie che adottano, il mondo
in cui vivono, né descrivere compiutamente tutto ciò.
Attraverso un’accurata disamina di teorie e ricerche sullo svi-
luppo morale, la studiosa americana ricostruisce le ragioni profonde
della costruzione di genere e i motivi della sua invisibilità. Ricondu-
ce al successo della teoria freudiana sullo sviluppo psico-sessuale,
fondata sul complesso edipico, l’origine e la diffusione del modello
maschile come modello universale di sviluppo dell’identità (ibid.,
p. 14). Infatti, nel processo di repressione della sfera istintuale, di
controllo delle emozioni e di interiorizzazione delle norme che è
funzionale alla produzione di tratti della personalità individuale co-
erenti con il tipo di società in cui viviamo, viene riconosciuto, e im-
plicitamente assunto come normale, il percorso di un genere della
specie umana, quello maschile16. A lungo, la successiva riflessione
pedagogica e sui processi di socializzazione interpreterà alla luce di
quel modello anche le forme dell’esperienza femminile.
Sarà Nancy Chodorow (1974)17 a proporre un modello inter-
pretativo alternativo sostenendo che è la predominanza della fi-

16
Questa posizione è evidente anche nei lavori più direttamente ‘socia-
li’ di Freud: Totem e tabù, Mosè e il monoteismo, Il disagio della civiltà.
17
N. Chodorow (1974), Family Structure and Feminine Personality, in
M.Z. Rosaldo, L. Lamphere, eds., Woman, Culture and Society, Stanford,
Stanford University Press, pp. 43-66.

134
Essere donne e “diventare persone”

gura materna nei primi anni di vita che produce nello sviluppo
della personalità di bambini e bambine differenze basilari, che
avranno come risultato il fatto che “in qualunque società, la per-
sonalità femminile si definisce in rapporto agli altri più di quanto
accada a quella maschile” (ibid., pp. 43-44). La somiglianza fra
madre e figlia fa sì che l’esperienza dell’attaccamento affettivo si
fonda con il processo di formazione dell’identità; la diversità del
figlio maschio, invece, consente a questi di distinguere la madre
da se stesso, e di conseguenza il suo sviluppo “comporta un’indi-
viduazione più accentuata e un’affermazione più difensiva nella
sperimentazione dei confini dell’io”18. La mascolinità si definisce
quindi attraverso la percezione della differenza e della separazio-
ne, mentre la femminilità attraverso l’identificazione e l’attacca-
mento. Somiglianza e diversità, continuità e distacco costituisco-
no dunque l’humus primigenio della differenza di genere.
Ma dal momento che nella letteratura psicologica, da Pia-
get a Kohlberg, l’individuazione per separazione viene assunta
come pietra miliare dello sviluppo dell’individuo, argomenta la
Gilligan, ecco che l’essere calata nell’interazione sociale e nei
rapporti personali – che costituisce la caratteristica qualità dello
sviluppo identitario e poi della vita femminile – non rappresenta
una differenza descrittiva ma diventa uno svantaggio evolutivo:
la mancata, o diversa, separazione diventa mancato sviluppo.
L’analisi dei giochi infantili – che sia G.H. Mead (1966) che
J. Piaget (1932) considerano esperienze cruciali per lo sviluppo
sociale – permette di dare consistenza scientifica a questa argo-
mentazione, la cui premessa implicita è che il modello maschile

18
Questo “non significa che la donna abbia confini dell’Io più deboli
dell’uomo… [ma che] la bambina emerge da questa fase della vita con una
riserva di ‘empatia’ incorporata nella sua definizione di sé come non accade
invece al maschietto”. Alla descrizione in negativo di Freud, Nancy Chodo-
row contrappone una rappresentazione positiva e autonoma: “La bambina
emerge con una più solida capacità di esperire come propri i bisogni e i
sentimenti dell’altro (o comunque di crederlo)… Per il fatto di essere ac-
cudita da una persona del suo stesso sesso è portata a viversi come meno
differenziata del maschietto, più in continuità e in relazione con il mondo
esterno, e a orientarsi in modo diverso anche rispetto a quello interno”. Cfr.
The Reproduction of Mothering, Berkeley, University of California Press,
1978, pp. 166-167.

135
Maria Grazia Ricci

risponde meglio ai requisiti richiesti per una buona riuscita nel


mondo esterno alla famiglia. Partecipando a situazioni competi-
tive regolarmente e socialmente approvate, i maschi imparano a
far fronte in maniera diretta alla competitività, l’uso delle regole
stabilite consente loro di giocare con i nemici o competere con
gli amici. Le bambine, invece, riproducendo nel gioco il modello
sociale dei rapporti primari che si basa sulla collaborazione, rie-
scono in misura minore ad assumere il ruolo di “altro generaliz-
zato” e dunque a orientarsi verso l’astrazione nei rapporti umani.
L’idea sottesa è che la sensibilità e l’attenzione per i sentimenti
altrui, che le bambine sviluppano attraverso i loro giochi, han-
no scarso valore sociale e, anzi, ostacolano la riuscita nell’arena
pubblica e nel mondo del lavoro19.
Alle due tipizzazioni: la “speranza di successo” e la “paura
del fallimento” proposte da McClelland20 e derivate dallo stu-
dio del comportamento maschile, Horner (1972)21 ne aggiunge
una terza, dedotta analizzando quello femminile, e cioè la “paura
del successo”, un blocco emotivo che depotenzia l’azione del-
le donne. Questa difficoltà, tutta femminile di far fronte al suc-
cesso, viene interpretata in una luce diversa da Georgia Sassen
(1980)22, la quale acutamente nota che, nella ricerca della col-
lega, l’ansia di fronte al successo si manifesta solo in situazioni
di competizione diretta, cioè quando il successo di una persona
viene pagato dal fallimento di un’altra.
Questo elemento aggiuntivo sembrerebbe dunque rivelare la
consapevolezza dell’altra faccia del successo ottenuto nel gioco

19
Cfr. L. Kohlberg, Stage and Sequence: The Cognitivie-Development
Approach to Socialization, in D.A. Goslin, ed., Handbook of Socialization
Theory and Research, Chicago, Rand McNally.
20
D. McClelland, 1975, Power: the inner experience, New York, Ir-
vington Publishers [trad. it. Il potere. Processi e strutture: un’analisi
dall’interno, Roma, Armando, 1983].
21
Per Martina Horner (in Toward an Understanding of Achievement-
related Conflicts in Women, in “Journal of Social Issues”, 28, 1972, pp.
157-175) l’ansia che le donne manifestano di fronte alle situazioni competi-
tive rappresenta un vero vulnus, che pregiudica la loro riuscita nelle attività
intraprese, e il loro il successo.
22
G. Sassen, Success Anxiety in Women: A Constructivist Interpreta-
tion of Its Sources and Its Significance, in “Harvard Educational Review”,
50, 1980, pp. 13-25.

136
Essere donne e “diventare persone”

diretto “uno a uno”, vale a dire il “mors tua vita mea” nascosto
dietro a ogni competizione e con questo la diversa percezione fem-
minile del contesto. Non tanto la difficoltà nel mettersi in gioco o
la percezione di un’inadeguatezza nei confronti del ruolo, ma la
capacità delle donne di darne una definizione più concreta e sofisti-
cata che si spinge fino a includervi la vita degli altri. A questo pun-
to – suggerisce perspicacemente Gilligan (pp. 22-23) – dovremmo
chiederci non già il perché della difficoltà delle donne di fronte al
successo in situazioni competitive, ma perché sia giudicata accet-
tabile, e per quanto sia ancora sostenibile, una visione del successo
così angusta come quella dettata dalla logica ‘maschile’.
D’altra parte, se l’individuazione e la capacità di competere
e di aspirare al successo rappresentano elementi centrali della
vita adulta e la maturità viene fatta coincidere soprattutto con
l’autonomia personale, è evidente che l’atteggiamento di cura e
l’attenzione alla relazione appaiono inevitabilmente una debo-
lezza delle donne, piuttosto che un loro punto di forza23.

Regole e metafore della costruzione del genere

La critica che Freud rivolge allo spirito di giustizia delle donne,


giudicato carente per il rifiuto dell’imparzialità, viene fatta pro-
pria da Kohlberg (1981)24 oltre che da Piaget25, ma il parados-

23
J. Baker Miller, Toward a New Psychology of Women, Boston, Bea-
con Press, 1976.
24
L. Kohlberg, in The Philosophy of Moral Development, San Francis-
co, Harper and Row, 1981, suddivide lo sviluppo del giudizio morale in sei
fasi. In primo piano tra coloro che risultano carenti nello sviluppo morale –
se misurati con la scala da lui ideata – sono le donne, che si fermano al terzo
stadio. A questo stadio la moralità viene concepita in senso interpersonale
e la bontà viene definita come dedizione agli altri. Questa idea di bontà è
considerata funzionale alla vita delle donne adulte finché si svolge fra le
mura domestiche. Vi è implicita l’idea che entrando nell’arena pubblica,
riservata al lavoro maschile, la donna debba riconoscere l’inadeguatezza
della propria ottica morale e progredire verso gli sviluppi più avanzati dove
i rapporti sono subordinati alle regole (quarto stadio) e le regole ai principi
universali di giustizia (quinto e sesto).
25
Nei suoi studi sull’età evolutiva Piaget sviluppa una distinzione degli
stadi dello sviluppo cognitivo individuando 4 periodi fondamentali, comuni

137
Maria Grazia Ricci

so sta nel fatto che quei tratti che ufficialmente hanno sempre
definito la ‘bontà’ delle donne, l’attenzione e la sensibilità per i
bisogni degli altri, diventano in queste analisi il contrassegno del
loro deficit morale.
I costrutti ricavati dallo studio delle esperienze delle donne
fanno però apparire un diverso quadro di questo sviluppo. I risul-
tati delle molte indagini citate dalla Gilligan mostrano che, se os-
serviamo le donne, il problema morale sorge quando il conflitto
è tra le persone e non quando confliggono i loro diritti come nel
caso degli uomini. Si evidenzia allora l’esistenza di una moralità
intesa come cura degli altri, che si fonda sulla responsabilità e
su un’attenzione ai rapporti diversa dalla moralità definita come
equità che lega lo sviluppo morale al rispetto dei diritti e delle
norme26. La morale dei diritti si differenzia da quella della re-
sponsabilità soprattutto per l’accento che pone sulla separazione
piuttosto che sulla connessione, nonché per la priorità che attri-
buisce all’individuo piuttosto che al rapporto. La studiosa ame-
ricana basa queste affermazioni su una lettura diversa degli stessi
dati sui quali il suo maestro Kohlberg ha fondato la sua teoria
dello sviluppo morale27. Essa intuisce che i bambini e le bambine
(ai quali viene chiesto di risolvere lo stesso dilemma28) organiz-

a tutti gli individui e che si susseguono sempre nello stesso ordine. Cfr. J.
Piaget La psicologia del bambino, Torino, Einaudi, 1970; Il giudizio morale
nel fanciullo, Firenze, Giunti e Barbera, 1993.
26
Ricordando l’osservazione di Piaget, corroborata dalla Lever, che ai
maschi nei loro giochi interessano più le regole mentre alle bambine i rap-
porti, a volte anche a scapito del gioco stesso, e tenuto conto della conclu-
sione della Chodorow secondo la quale l’orientamento sociale dell’uomo
è posizionale mentre quello della donna è personale si capisce come un
bambino che ha giocato secondo le regole del gioco e ha vinto, abbia tutto
il diritto di sentirsi a posto. La sua identità di individuo separato da coloro
che, paragonati a lui, sono meno competenti, è confermata, così come è
confermata la sua percezione posizionale di sé.
27
Cfr. il già citato L. Kohlberg, in The Philosophy of Moral Develop-
ment.
28
Il dilemma che Kohlberg propose ai bambini può essere così sintetiz-
zato: Che cosa è giusto faccia un marito che ha una moglie malata grave-
mente e non ha i soldi per comprare il farmaco che può salvarle la vita visto
che il farmacista si rifiuta di darglielo gratuitamente?.

138
Essere donne e “diventare persone”

zano le proprie risposte sulla base di differenti posizioni etiche29,


arrivando così a risposte fondamentalmente divergenti; ma, e qui
è l’elemento centrale dell’analisi, poiché la logica riconosciuta e
come tale accettata è quella interna alle risposte del maschietto,
la diversa verità espressa nel giudizio della bambina si perde.
Attraverso l’undicenne Amy, che si accinge a costruire un le-
game là dove Kohlberg dà per scontato che ciò non sia possibi-
le, o attraverso le studentesse di psicologia, che nelle interviste
inventano reti di protezione là dove i loro compagni descrivono
l’annientamento, le voci delle donne rivelano un diverso atteg-
giamento di fronte alle scelte e ai conflitti, al freudiano proble-
ma dell’aggressività. Localizzando il problema nell’isolamento
dell’io e nell’ordinamento gerarchico dei rapporti umani, Cho-
dorow, Gilligan e le loro colleghe mettono in luce un’esperienza
dell’io diversa da quella narrata da Freud e comunemente ac-
cettata come normale. È uno sviluppo dell’identità che, anziché
condurre alla separazione attraverso l’aggressività, porta all’in-
terdipendenza attraverso la differenziazione. Le narrazioni delle
donne descrivono dunque la vita come una rete anziché come una
successione di rapporti, e, nelle loro rappresentazioni, fallace e
pericolosa è la ricerca dell’autonomia invece dell’attaccamento.
Le immagini contrastanti della gerarchia e della rete, rilevate
nel pensiero dei giovani intervistati e delle giovani intervistate,
mostrano due modi di vedere la moralità (la differenza tra un io
definito attraverso la separazione e un io descritto attraverso il
contatto) che, in contrasto con la tendenza delle teorie evolutive

29
Nelle risposte al test somministrato da Kohlberg appare chiaro a Gil-
ligan (cit., p. 50) che la bambina, dando per presupposta la connessione,
inizia ad analizzare i parametri della separazione, mentre il bambino, dando
per presupposta la separazione, inizia ad analizzare i parametri della con-
nessione. Se l’aggressività è collegata ad una lacerazione dei legami tra
gli esseri umani, allora sono le attività di cura responsabile – così come
sembrano suggerire le percezioni delle donne – quelle che rendono sicuro
il mondo sociale poiché evitano l’isolamento e prevengono l’aggressività,
più che cercare di limitarne la portata per mezzo di regole. Nei giudizi di
Amy, che sono stati considerati immaturi nel contesto del test effettuato
da Kohlberg, Gilligan riscontra le intuizioni fondamentali di un’etica della
responsabilità, mentre in quelli di Jake viene colto il riflesso di un’etica
giusnaturalistica.

139
Maria Grazia Ricci

a disporre le differenze in ordine gerarchico, sono complementa-


ri più che progressivi o polari (cit., pp. 40-41).
Il porre come apriori la separazione oppure la connessione dà
luogo a metafore completamente diverse dell’io e dei rapporti,
porta ad una diversa concezione dell’identità e della moralità,
permette alle donne di immettere nel ciclo della vita un punto
di vista diverso e, in base a quello, consente loro di ordinare
l’esperienza umana su priorità diverse da quelle dell’uomo. Le
descrizioni dei loro legami affettivi mostrano l’esigenza di una
continuità nel mutamento piuttosto che quella di separazione e
sostituzione, ma, come sottolinea Jean Baker Miller30, la psico-
logia non ha un linguaggio atto a descrivere positivamente una
struttura di senso che si organizza attorno alla capacità di creare
e poi mantenere in vita affiliazioni e rapporti. Denunciando l’esi-
genza di un diverso linguaggio psicologico in grado di descrivere
la cura e la connessione senza ricorrere al vocabolario “maschi-
le” della disuguaglianza e dell’oppressione, la Miller indica che
la strada basilare per l’uguaglianza passa anche attraverso nuove
rappresentazioni del mondo e un nuovo linguaggio per descri-
verle. La loro assenza è il motivo primario per cui l’esperienza
femminile è sempre stata così difficile da decifrare e soprattutto
da riconoscere.
Le immagini della gerarchia e della rete, che Gilligan indivi-
dua nelle fantasie e nei pensieri dei ragazzi e delle ragazze, co-
municano due modi radicalmente diversi di strutturare i rapporti
con gli altri e di percepire se stessi: il desiderio di essere solo
al vertice della scala e la paura che gli altri si avvicinino troppo
esplicitato dagli uomini e il desiderio di trovarsi al centro della
rete e la conseguente paura di essere respinte troppo ai margini
che è tipicamente femminile. Le opposte paure, di essere rag-
giunti e dunque uniti ad altri e quella di smarrirsi e così separati
che innervano il pensiero maschile e quello femminile, portano a
modalità di azione differenti e a diversi modi di valutare le con-
seguenze delle scelte, esse facilitano così l’accesso e la perma-
nenza in “luoghi” diversi: l’arena pubblica, luogo del successo, o
delle gratificazioni socialmente riconosciute, o il mondo privato,
luogo della cura e della non rappresentanza.

30
J. Baker Miller, cit., p. 83.

140
Essere donne e “diventare persone”

Poiché il complesso intreccio che forma il tessuto dei rap-


porti viene descritto come una organizzata gerarchia di ruoli e
norme, e la rete, percepita come elemento protettivo del singolo,
viene riconosciuta come struttura che impedisce il volo anziché
come elemento di protezione dalla caduta, le donne dubitano del
senso della propria esperienza. Ed è nella continua necessità di
riaggiustare le proprie percezioni alla luce delle rappresentazioni
sociali che sovrintendono al senso condiviso, nella difficoltà che
le donne hanno a rappresentare le proprie esperienze e se stesse
che Gilligan (cit., p. 56) registra le profonde radici della debo-
lezza femminile.
Se Gilligan coglie l’elemento centrale della differenza di
genere nella dissonanza cognitiva che caratterizza l’esperienza
delle donne, Bourdieu (1998), registrerà tale differenza come
paradosso della doxa: “Ho sempre visto nel dominio maschile
– scrive – nel modo in cui viene imposto e subito, l’esempio per
eccellenza di questa sottomissione paradossale, effetto di quella
che chiamo violenza simbolica … invisibile per le stesse vittime,
che si esercita essenzialmente attraverso le vie puramente simbo-
liche della comunicazione e della conoscenza…”. Nel dominio
esercitato sulla base di un principio simbolico riconosciuto sia
dal dominante che dal dominato, e nella logica di un rapporto so-
ciale “straordinariamente ordinario” anche il sociologo francese
individua le radici di uno scarto conoscitivo prima ancora che
politico o sociale.
Attraverso una serrata disamina dei processi responsabili
della trasformazione “dell’arbitrio culturale nell’ovvio” e “della
storia in natura”, ed evidenziando gli effetti assolutamente reali
che il lungo lavoro collettivo di “socializzazione del biologico” e
di “biologizzazione del sociale” produce nei corpi e nelle menti,
il sociologo francese svela la natura di “costruzione sociale natu-
ralizzata” che viene posta quale fondamento “naturale” della ar-
bitraria divisione sociale del lavoro situata alla radice della realtà
e della sua rappresentazione (ibid., pp. 7-8). Non sono dunque le
necessità della riproduzione biologica a determinare l’organizza-
zione simbolica di tutto l’ordine naturale e sociale, ma piuttosto
– scrive Bourdieu – è la costruzione arbitraria del biologico e in
particolare del corpo, maschile e femminile, dei suoi usi e delle
sue funzioni ad offrire un fondamento in apparenza naturale ad

141
Maria Grazia Ricci

una visione androcentrica della società, delle sue pratiche e delle


sue gerarchie31. L’istituzione dei due generi come naturalmente
dati è l’esito di un formidabile lavoro collettivo di socializzazio-
ne diffusa e continua in cui vengono assunte identità distintive
che si incarnano in habitus differenti, opposti e complementari,
chiaramente differenziati secondo il principio di divisione do-
minante e capaci di percepire il mondo secondo tale principio
(Bourdieu 2003).
In questa “divisione sociale del lavoro” spetta agli uomini, si-
tuati dalla parte dell’esterno, dell’ufficiale, del pubblico compiere
gli atti brevi, pericolosi e spettacolari che segnano una rottura
nel corso ordinario della vita, azioni paragonabili all’operare di
Arendt; le donne, situate invece dalla parte dell’interno, del basso
e del continuo, si vedono assegnare i lavori domestici, o quelli più
monotoni e umili, ed ogni attività invisibile e privata, espletando
così la loro funzione sociale soprattutto nel lavorare. Poiché an-
che il mondo finito nel quale sono state e continuano ad essere
relegate contiene gli stessi silenziosi richiami all’ordine di quel-
lo più ampio che lo racchiude, le donne “possono solo divenire
ciò che sono”, confermando, innanzitutto di fronte a se stesse, di
esservi naturalmente votate. “La rappresentazione androcentrica
della riproduzione biologica e della riproduzione sociale viene
in questo modo ad essere investita dell’oggettività di un senso
comune, inteso come consenso pratico, evidente, sul senso del-
le pratiche. E le stesse donne sono portate ad applicare ad ogni
realtà, e in particolare ai rapporti di potere in cui sono coinvolte,
schemi di pensiero che sono il prodotto dell’incorporazione di
questi stessi rapporti di potere e si esprimono nelle opposizioni
fondatrici dell’ordine simbolico” (Bourdieu 2009, p. 40).

31
L’ordine sociale è una potente macchina simbolica che rinforza il
potere maschile su cui si fonda – attraverso la distribuzione dei ruoli nel-
la divisione del lavoro, la strutturazione degli spazi pubblici e privati, la
definizione dei tempi – facendolo apparire neutro, senza bisogno di legitti-
mazione. La divisione tra i sessi appare naturale perché è oggettivata nelle
cose, incorporata nelle pratiche e assunta nelle nostre definizioni del mon-
do. È la husserliana “attitudine naturale”, la stretta concordanza tra strut-
ture ‘oggettive’ e strutture cognitive, tra la forma dell’essere e quella del
conoscere, tra il corso del mondo e le attese a questo relative. P. Bourdieu,
Il dominio maschile, Bologna, Feltrinelli, 2009, p. 32.

142
Essere donne e “diventare persone”

Nella loro opera di “riproduzione” dell’ordine sociale esisten-


te, le donne riproducano le condizioni della propria sottomissione.
Esse subiscono gli effetti di una forza simbolica32 che trova le sue
condizioni di possibilità nell’immenso lavoro preliminare neces-
sario per operare una trasformazione durevole dei corpi e produrre
disposizioni permanenti, e che è tanto più potente quanto più si
esercita, al di là della percezione cosciente, attraverso la familia-
rizzazione con un mondo fisico simbolicamente strutturato (fuori e
dentro, pubblico e privato, ecc.) e un’esperienza precoce e prolun-
gata di interazioni costruite sulla base di strutture di dominio (fem-
minile e maschile, affettività e neutralità, parzialità e universalità
ecc.). Proprio in virtù della complessa stratificazione di simboli e
pratiche, la pressione esercitata sull’habitus dominato (dal punto
di vista del genere, o dell’etnia, della cultura, della lingua…) non
può essere sospesa con un semplice sforzo della volontà o con
una liberatoria presa di coscienza33. Infatti, anche quando alcuni
vincoli esterni vengono meno e le libertà formali – diritto di voto,
diritto all’educazione, accesso a tutte le professioni, anche a quelle
politiche – sono acquisite, l’autoesclusione e la ‘vocazione’ (che
funziona sia in senso positivo che negativo) possono sostituirsi
efficacemente all’esclusione dichiarata e portare le donne a esclu-
dersi spontaneamente dall’agorà.

32
P. Bourdieu, Le pouvoir symbolique, in “Annales. Économies, So-
ciétés Civilizations”, 3, 1977, pp. 405-411. Definito molto chiaramente in
questo articolo: “Il potere simbolico è quel potere invisibile che non può
esercitarsi che con la complicità di coloro che non vogliono sapere, che lo
subiscono o anche che lo esercitano” (p. 5). È il potere di far vedere e di far
credere, di definire il mondo come scontato (taken for granted) e legittimo.
33
Le armi a disposizione sono, “in quanto armi del debole”, deboli, e
soprattutto, essendo insufficienti a sovvertire realmente il rapporto di domi-
nio, spesso ottengono il risultato di confermare il pregiudizio sfavorevole.
Si cita come esempio, la forma di violenza morbida, e spesso invisibile, che
le donne oppongono alla violenza fisica o simbolica esercitata su di loro
non solo dagli uomini, ma in genere da una società organizzata sul princi-
pio androcentrico, che ricorre alla passività, all’astuzia, alla manipolazione,
fino all’amore possessivo dei posseduti, tipico della madre mediterranea
o della sposa materna che vittimizza e colpevolizza vittimizzandosi. Cfr.
P. Bourdieu, Per una teoria della pratica. Con tre studi di etnologia cabi-
la, Milano, Cortina, 2003 [ed. orig. Esquisse d’une théorie de la pratique,
Genève, Droz, 1972].

143
Maria Grazia Ricci

Il potere simbolico non può esercitarsi senza una continua


costruzione, che passa anche attraverso il riconoscimento impli-
cito e la ratifica della vittima, ma non per questo essa può es-
serne considerata la responsabile34. Il principio dell’inferiorità e
dell’esclusione della donna riproduce infatti l’asimmetria fonda-
mentale del soggetto e dell’oggetto, dell’agente e dello strumen-
to, dell’azione e della passiva ricezione. Nella costruzione socia-
le dei rapporti di parentela e del matrimonio, che ha assegnato
alle donne lo statuto sociale di oggetti di scambio votati alla ri-
produzione del capitale simbolico degli uomini, prima ancora
che alla riproduzione biologica della specie, viene individuata
la spiegazione del primato attribuito alla mascolinità nelle tas-
sonomie culturali. La divisione sessuale è inscritta nella divisio-
ne delle attività produttive cui noi associamo l’idea di lavoro, e
ancora più ampiamente nel lavoro di mantenimento del capitale
sociale e del capitale simbolico che continua ad assegnare agli
uomini il monopolio delle attività ufficiali e pubbliche, e impone
a loro, e solo a loro, di acquisire l’attitudine e la propensione a
giocare una presenza attiva e direttiva.
Il lavoro di trasformazione dei corpi, osserva Bourdieu (2009,
p. 70), li rende insieme disposti ed atti a entrare nei giochi sociali
più favorevoli al dispiegamento della virilità o della femminilità.
Il mondo si presenta disseminato di indizi e segni che indicano le
cose da fare o da non fare e delineano un tracciato di traiettorie
possibili, probabili o impossibili per l’una o l’altra categoria35:

34
La costruzione della pratica non è un atto soggettivo cosciente e
deliberato, bensì l’effetto di un potere inscritto nel corpo sotto forma di
schemi di percezione e di disposizioni (ad amare, ammirare, rispettare, te-
mere) che rende recettivi rispetto a determinate manifestazioni simboliche
del potere. Applicando a ciò che li domina schemi che sono il prodotto del
dominio, o in altri termini, quando i loro pensieri e le loro percezioni sono
strutturati conformemente alle strutture stesse del dominio che subiscono,
gli atti di conoscenza dei dominati sono inevitabilmente atti di ricono-
scenza, o, in altri termini, di sottomissione. Cfr. P. Bourdieu, Il dominio
maschile, cit., p. 50.
35
“La logica, essenzialmente sociale, di quella che definiamo ‘voca-
zione’ ha l’effetto di produrre questi incontri armoniosi tra le disposizioni
e le posizioni, grazie alle quali le vittime del dominio simbolico possono
portare a termine felicemente (nel doppio senso del termine – fortunatamen-
te?) i compiti subalterni o subordinati che vengono conferiti alle loro virtù:

144
Essere donne e “diventare persone”

“È probabilmente nell’incontro con le “attese oggettive” inscrit-


te, soprattutto allo stato implicito, nelle posizioni offerte alle
donne dalla struttura, ancora fortemente sessuata della divisione
del lavoro che le disposizioni dette “femminili”, inculcate dalla
famiglia e da tutto l’ordine sociale, possono compiersi, o perfino
espandersi, e trovarsi nello stesso tempo ricompensate, contri-
buendo così a rafforzare la dicotomia sessuale fondamentale, sia
nei posti che sembrano richiamare la sottomissione e il bisogno
di sicurezza, sia in quanti li occupano… identificati in posizioni
nelle quali, incantati o alienati, essi si ritrovano e si perdono nel-
lo stesso tempo”.
Le diverse opportunità si mostrano non solo nella divisione e
gerarchia del lavoro, ma anche in molte manifestazioni visibili:
maniere, abbigliamento e in particolari, apparentemente innocui,
dei comportamenti quotidiani che racchiudono numerosi e im-
percettibili, spesso inconsci per chi li mette in pratica, richia-
mi all’ordine delle cose. Il rimarcare la posizione di autorità,
e dunque la discriminazione, può spesso passare attraverso un
atteggiamento benevolente: familiarità e intimità in situazioni
“formali”, declassamento di rivendicazioni a capricci, sposta-
mento dell’attenzione ad un particolare fisico, tutte scelte che
costruiscono una situazione “debole” delle donne i cui effetti
cumulati vengono “oggettivamente” registrati nelle statistiche
ufficiali che registrano il permanere del gap di genere, la scarsa
rappresentanza delle donne nel posizioni di potere economico e
politico36.

sottomissione, gentilezza, docilità, devozione e abnegazione” (P. Bourdieu,


Il dominio, cit. p. 71). Nel mondo del lavoro continuano a riprodursi oltre
a gerarchie tipo capo/subordinata anche dinamiche para-familiari in cui il
primo, ancora troppo spesso un uomo, offre protezione generalizzata alle
seconde che vengono incoraggiate ad un investimento di tipo affettivo
nell’istituzione e in colui che la incarna.
36
A questo si aggiunga che l’aumento del numero delle donne in un
ambito di lavoro ne riduce la desiderabilità e il prestigio sociale. Questo ef-
fetto, definito statisticamente come “tasso di femminilizzazione”, si registra
ormai da tempo: cfr. J.C. Tonhey, Effects of Additional women Professio-
nals on Rating of occupational Prestige and Desiderability, in “Journal of
Personality and Social Psychology”, 29, 1, 1974, pp. 86-89.

145
Maria Grazia Ricci

A tutto ciò si affianca la logica del doppio standard, una radi-


cale asimmetria nella valutazione delle attività maschili e fem-
minili. Le stesse attività possono essere nobili e creative quando
esercitate dagli uomini e insignificanti e impercettibili quando
svolte dalle donne. Il modello è quello di lavori femminili che,
“senza qualità” nella sfera privata in cui sono normalmente re-
legati, una volta esportati dagli uomini nella sfera pubblica as-
sumono e danno prestigio: il sarto, il cuoco, il maggiordomo,
mentre all’inverso, l’arrivo delle donne in un mestiere maschile
suscita una forte resistenza quando il non riconoscimento della
professionalità. Il saggio di Maruani e Nicole mette in evidenza
come lo stesso lavoro di composizione, se esercitato da una don-
na può essere definito lavoro di dattilografia ed è ritenuto poco
qualificante, se invece è esercitato da un uomo diventa un la-
voro altamente professionalizzante e qualificato37. Che il lavoro
delle donne continui a restare in buona parte nell’invisibilità, lo
testimonia il fatto che quello di cura sia ancora essenzialmente
femminile; e che appartenga ancora ad un ordine diverso, ci vie-
ne ricordato ogni volta che una donna docente viene chiamata
signora mentre un docente maschio viene sempre chiamato pro-
fessore38.

Permanenze e possibilità di cambiamento

La più importante prerogativa dei dominanti è indubbiamente


quella di essere in grado di far riconoscere ed accettare come
universale il loro particolare modo d’essere, ma, sebbene la cor-
rispondenza tra la realtà o i processi del mondo naturale e i prin-
cipi di visione e divisione ad essi applicati sia molto stretta, nello
scarto originario tra ciò che viene imposto e ciò che è voluto

37
M. Maruani, C. Nicole, Au labeur des dames. Métiers masculins, em-
plois féminins, Paris, Syros/Alternative, 1989.
38
Ogni richiamo all’ordine inscritto nella struttura delle cose, ogni si-
lenzioso comando o celato divieto inerenti il normale funzionamento del
mondo sociale si adatta allo specifico campo e la differenza tra i sessi si
presenta con una connotazione particolare in ciascuno di essi, data dalla
definizione dominante della pratica che in tali campi ha corso, e che, non
venendo percepita come sessuata, non viene messa in discussione.

146
Essere donne e “diventare persone”

c’è lo spazio vitale per una lotta cognitiva sul senso delle cose
del mondo e la contestuale possibilità del cambiamento39. è dun-
que possibile ribaltare gli schemi di percezione dominanti che
ingabbiano le donne in rappresentazioni negative40, secondo la
logica del pregiudizio sfavorevole41, ma, nell’interpretazione di
Bourdieu, la rivoluzione simbolica femminista non è riducibile
ad una conversione delle coscienze, proprio perché il fondamen-
to del dominio non sta in coscienze mistificate che è possibile
illuminare, ma in disposizioni che sono il prodotto delle strutture
di dominio. La rottura del rapporto di complicità istituito fra do-
minati e dominanti può avvenire solo attraverso il cambiamento
radicale delle condizioni sociali di produzione delle (pre)dispo-
sizioni (habitus) che portano i dominati ad assumere il punto di
vista dei dominanti42.
Osservando i meccanismi di costruzione della realtà sociale,
Bourdieu descrive un mondo sociale che costruisce gli indivi-
dui come realtà sessuate e ne usa poi le differenze biologiche ed
anatomiche per giustificare una differenza di genere socialmen-
te costruita. Il risultato è ottenuto attraverso un paziente lavorio
attraverso il quale i corpi e le loro pratiche non sono né com-
pletamente determinati nel loro significato né completamente
indeterminati, cosicché il simbolismo ad essi connesso è insieme

39
L’indeterminazione parziale della costruzione autorizza interpre-
tazioni contrapposte che offrono ai dominati una possibilità di resistenza
contro l’effetto dell’imposizione simbolica. Come ogni modello culturale,
anche la costruzione di genere reca in sé la possibilità del suo superamento.
Cfr. J. Bruner, La mente a più dimensioni, Roma-Bari, Laterza, 1993.
40
Anche la definizione sociale degli organi sessuali, lungi dall’essere
una semplice registrazione delle proprietà naturali, direttamente offerte alla
percezione, è il prodotto di una costruzione operata a costo di una serie di
scelte orientate o attraverso l’accentuazione di certe differenze o l’occulta-
mento di talune similitudini.
41
La rappresentazione maschile condanna le capacità o incapacità fem-
minili che richiede o contribuisce a produrre: valga per tutti lo stereotipo delle
donne in carriera che sono ‘peggio’ (più grintose? più determinate? più resi-
stenti?) degli uomini. E non possono non esserlo, dato che devono investire
molto di più degli uomini per stare, e legittimarsi, in quella posizione ‘fuori
posto’, quel salire la scala – come direbbe la Gilligan – invece che stare al
centro della rete che va giustificato a se stesse prima ancora che agli altri.
42
Cfr. Bourdieu (2009), cit., pp. 52-53.

147
Maria Grazia Ricci

convenzionale, e cioè dato, e ‘motivato’, cioè riprodotto, ed è in


questa ambivalenza che viene costruita la loro naturalità43.
In altre parole, per Bourdieu44, esattamente come per Gilli-
gan, le norme in base alle quali si misurano le donne non hanno
nulla di universale, e, a suo giudizio, il femminismo universali-
sta, ignorando l’effetto del dominio, inscrive nella definizione
universale di essere umano proprietà storiche dell’uomo virile,
costruito in opposizione al femminile. Anche la visione differen-
zialista, però, dimenticando che la differenza esiste solo quando
accettiamo di vederla con gli occhi del dominante, con lo sguar-
do di colui da cui ci si vuole differenziare, non si sottrae a una
forma di essenzialismo.
Per Bourdieu dunque, una storia delle donne deve partire
dall’analisi del meccanismo di ri-costruzione delle strutture og-
gettive e soggettive del dominio maschile e considerare la storia
degli agenti e delle istituzioni che continuamente concorrono ad
assicurare tali permanenze. Per spiegare l’esclusione delle donne
dalle carriere e dalle discipline, occorre prendere atto e decodi-
ficare la riproduzione delle gerarchie (professionali, disciplina-
ri…) nonché delle disposizioni che queste favoriscono, spingen-
do le donne a contribuire alla loro esclusione dai luoghi che le
escludono (2009, p. 99).
Azioni e strategie delle singole donne non possono prescin-
dere dai potenti meccanismi strutturali che ne hanno perpetuato
la subordinazione: la famiglia gioca il ruolo principale nella ri-
produzione del dominio maschile; essa rappresenta il luogo in
cui si impone precocemente l’esperienza della divisione sessuale
del lavoro e della rappresentazione legittima di tale divisione. La
scuola trasmette i presupposti della rappresentazione androcentri-

43
“Poiché il principio di visione sociale costruisce la differenza ana-
tomica e poiché tale differenza socialmente costruita diviene il fonda-
mento e l’avallo in apparenza naturale della visione sociale che la fonda,
si instaura un rapporto di causalità circolare che rinchiude il pensiero
nell’evidenza di rapporti di dominio inscritti ad un tempo nell’oggettivi-
tà, sotto forma di divisioni ‘oggettive’, evidenti, di senso comune, e nella
soggettività, sotto forma di schemi cognitivi che – organizzati secondo
tali divisioni – organizzano la percezione di quelle divisioni oggettive”
(Bourdieu 2009, cit., p. 20).
44
Ibid., pp. 76.

148
Essere donne e “diventare persone”

ca del mondo, la stessa divisione delle discipline in “morbide” o


“dure” ne è un indicatore, ma nello stesso tempo essa è anche uno
dei luoghi principali del cambiamento per le contraddizioni che
introduce. Lo stato ha un ruolo centrale nella riproduzione della
divisione dei generi, ratificando e rafforzando tutte le prescrizioni
e proscrizioni del patriarcato privato con quello pubblico inscritto
in tutte le istituzioni incaricate di regolare la quotidianità dell’uni-
tà domestica, il cui ordine sociale è anche ordine morale.
Ma, nonostante la capillare diffusione del modello e la co-
stanza nella sua reiterazione, il dominio maschile non si impone
più con l’evidenza dell’ovvio. Un profondo lavoro critico delle
donne su se stesse e sulla propria condizione, in parte sollecitato
dall’affermazione dei movimenti femministi, ha seguito di pari
passo le trasformazioni delle società occidentali: negli ultimi de-
cenni l’accesso massiccio delle donne all’istruzione, al lavoro
salariato, alla sfera pubblica, la presa di distanza dai lavori do-
mestici e di riproduzione hanno, almeno parzialmente, alterato
uno scenario di genere che si era riprodotto inalterato nei secoli.
Così benché l’inerzia degli habitus, e del diritto, tenda a perpe-
tuare, al di là delle concrete trasformazioni della famiglia, il mo-
dello dominante di struttura familiare, la visibilità pubblica dei
nuovi modelli di famiglia e di sessualità contribuisce a spezzare
il senso comune e ad allargare il modello del possibile45.
Sebbene le donne abbiano avuto accesso in massa al mondo
del lavoro46, esse continuano palesemente a restare escluse da po-
sizioni di responsabilità e di prestigio47. Le ineguaglianze che già

45
Già dagli anni ’70 è stato osservato, ad esempio, che le figlie della
madri lavoratrici avevano aspirazioni di carriera più elevate ed hanno as-
sunto modelli femminili meno tradizionali. Cfr. L.W. Hoffman, Changes in
Family Roles. Socialization and sex differences, in “American Psycholo-
gist”, 1977, 32, pp. 644-657.
46
Anche se in Italia, in realtà, i termini della questione sono più pro-
blematici e la “parità” è meno visibile all’orizzonte: tra i maggiori paesi
industrializzati, infatti, il nostro è quello in cui il divario tra occupazione
maschile e femminile è più ampio. Cfr. M.L. Pruna, Donne al lavoro, Bo-
logna, Il Mulino, 2006; L. Benadusi, S. Piccone Stella, A. Viteritti, Dispari
parità, Milano, Guerini, 2009.
47
Di Rita Biancheri, studiosa da tempo impegnata in studi di genere e
che negli ultimi anni ha condotto una serie di ricerche su diversi aspetti del
problematico rapporto fra donne e mondo del lavoro, si vedano: Mercato

149
Maria Grazia Ricci

si originano a livello di curricula scolastici, vengono poi proiet-


tate e ampliate nelle potenziali carriere. Lo stesso principio vige
anche all’interno delle facoltà o delle discipline in cui gli uomini
si appropriano della parte simbolicamente più apprezzata per la-
sciare alle donne quella meno prestigiosa48. Questa dimensione
dello scarto si mantiene e si esalta nel fatto che le professioni
che si femminilizzano troppo, o sono già squalificate (e cioè ab-
bandonate dagli uomini, per la poca appetibilità, remunerazione,
ecc.) o sono in declino, cosicché “il tasso di femminilizzazione
attuale e potenziale costituisce il miglior indice della posizione e
del valore relativi delle diverse professioni… l’uguaglianza for-
male tra gli uomini e le donne tende a dissimulare che, a parità
di condizioni, le donne continuano a occupare sempre posizioni
meno favorite” (Bourdieu 2009, p. 108).
All’origine di questa situazione vi sono – secondo il sociolo-
go francese – due proprietà, in apparenza contraddittorie. Da un
lato, al di là della concreta posizione sociale, le donne continua-
no ad essere separate dagli uomini da un coefficiente simbolico
negativo che – come uno stigma – connota negativamente tutto
ciò che sono o fanno; e dall’altro, malgrado le esperienze specifi-
che che le avvicinano – i tratti spesso impercettibili del dominio,

del lavoro, famiglia e politiche sociali: un’analisi sociologica delle carrie-


re femminili, in “Lavoro e Diritto”, 4, 2007, pp. 581-609; La dimensione di
genere nel lavoro. Scelte o vincoli nel quotidiano femminile, Pisa, Edizioni
Plus, 2008 e Tempi di vita e welfare. Verso un sistema territoriale della
conciliazione, Pisa, Edizioni Plus, 2009.
48
R.M. Lagrave, Une émancipation sous-tutelle. Éducation et travail
de femmes au XXe siècle, in G. Duby, M. Perrot (a cura di), Histoire de
femmes. Le XXe siècle, vol. 5, Paris, Plon, 1992 [trad. it. Un’emancipazione
sotto tutela. Educazione e lavoro delle donne nel XX secolo, in Storia delle
donne. Il Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 484-525]. Anche in
Italia sono ormai molto numerosi gli studi di settore. Rossella Palomba col
“rapporto Minerva” sfata i vecchi stereotipi di un ‘duro’ mondo scientifico
poco adatto alla situazione di doppia presenza spesso vissuta dalle donne.
Ma, dati alla mano, le scienziate fanno pochi figli e tardi, si fermano in
laboratorio fino a tardi e producono lo stesso numero di pubblicazioni dei
colleghi. Ma fanno precariati più lunghi, hanno paghe più misere e ricevo-
no giudizi più severi sul loro lavoro. Cfr. R. Palomba (a cura di), Figlie di
Minerva. Primo rapporto sulle carriere femminili negli Enti Pubblici di
Ricerca italiani, Milano, Franco Angeli, 2000.

150
Essere donne e “diventare persone”

le numerose ferite, spesso subliminali, inferte da un ordine che


si mantiene saldamente maschile – esse sono divise tra loro da
differenze economiche e culturali che implicano un modo diver-
so di subire il dominio maschile. I cambiamenti della condizione
femminile continuano peraltro a obbedire alla logica del modello
tradizionale della divisione tra i generi: gli uomini mantengono il
dominio dello spazio pubblico e il campo del potere (soprattutto
economico) mentre le donne rimangono centrali nello spazio pri-
vato (domestico) o nelle estensioni pubbliche di tale spazio che
sono i servizi sociali ed educativi.
Cosicché “le ragazze incorporano, sotto forma di schemi di
percezione e di valutazione, difficilmente accessibili alla co-
scienza, i principi della visione dominante che le porta a trova-
re normale, o persino naturale, l’ordine sociale così com’è e ad
anticipare in qualche modo il loro destino, rifiutando le carriere
o i curricula da cui esse sono in ogni caso escluse, orientandosi
verso quelli cui sono in ogni caso destinate. La costanza degli
habitus che ne risulta è così uno dei fattori più importanti della
costanza relativa della struttura della divisione sessuale del la-
voro: nella misura in cui si trasmettono essenzialmente da corpo
a corpo, al di qua della coscienza e del discorso, questi principi
sfuggono in larga misura al controllo cosciente ed insieme re-
sistono alle trasformazioni o alle correzioni (come attestano gli
scarti spesso osservati tra le dichiarazioni e le pratiche). In più
essendo oggettivamente orchestrati, essi si confermano e si raf-
forzano a vicenda” (ibid., p. 112).
Essendo escluse in massa dall’universo delle cose serie, dalle
posizioni di responsabilità degli affari pubblici, soprattutto eco-
nomici e politici, le donne continuano a rimanere confinate nello
spazio domestico e nelle attività associate alla riproduzione bio-
logica e sociale – attività, quelle materne in particolare, che, pur
essendo apparentemente valorizzate o addirittura celebrate, lo
sono solo nella misura in cui rimangono subordinate alle attività
di produzione, le uniche realmente suscettibili di un vero ricono-
scimento economico e sociale. Tutto il lavoro, socialmente indi-
spensabile, che le donne investono nel costruire e rinforzare la
solidarietà e l’integrazione all’interno della famiglia, e di questa
con i gruppi allargati al fine di assicurarne con il mantenimento
dei rapporti anche il prestigio sociale, passa invece per lo più

151
Maria Grazia Ricci

inosservato quando non ufficialmente frainteso: possiamo legge-


re in questa ottica la denuncia del gusto femminile per la chiac-
chiera o per le cose futili e inutili; e quando questa attività si
impone all’osservazione, viene interpretata sul piano dell’affetto
o della morale, dato il carattere non immediatamente monetizza-
bile e ufficialmente “disinteressato”49.
I numerosi cambiamenti che hanno investito la “condizione
femminile” continuano a mascherare una permanenza di struttu-
re invisibili che assumono consistenza e spessore quando mettia-
mo in relazione l’economia domestica, cioè il lavoro di cura, e la
divisione del lavoro e del potere che lo caratterizza, con i diversi
settori del mercato del lavoro in cui sono impegnati uomini e
donne. Così possiamo osservare come le poche donne salite a
posizioni di grande responsabilità spesso paghino le posizioni di
prestigio raggiunte con “difficoltà” nella vita familiare (nubilato,
matrimoni tardivi, divorzi, assenza o difficoltà o insuccessi con
i figli, ecc.), o, come un successo nella vita familiare, spesso sia
controbilanciato dalla rinuncia parziale o totale alla realizzazio-
ne professionale. I vincoli che la struttura dello spazio domestico
e della riproduzione sociale impone a quella dello spazio profes-
sionale e della produzione spiegano infatti lo scarto continua-
mente riprodotto tra la posizione lavorativa degli uomini e quella
delle donne, quest’ultime impegnate in un inseguimento in cui
non riescono mai a colmare l’handicap di partenza.
Ed è nella relazione tra il polo della cura e quello del lavo-
ro che passa la riproduzione del rapporto di dominio, in forme
diverse nelle diverse condizioni femminili: dalla dedizione alla
famiglia e alle opere pie delle donne dell’alta borghesia, a quella

49
La mancanza di un equivalente monetario per il lavoro domestico
svolto dalla donna all’interno della propria casa contribuisce a svalutarlo
anche agli occhi della donna stessa, come se questo tempo privo di un valo-
re mercantile non avesse importanza e potesse essere dato senza contropar-
tita, e senza limiti, innanzitutto ai membri della famiglia, soprattutto ai figli,
ma anche all’esterno. Non portate a pensare il lavoro in termini di equiva-
lenza monetaria, le donne, più degli uomini sono inclini al lavoro gratuito,
al volontariato. Preposte alla gestione, e possibilmente all’accrescimento,
del capitale simbolico delle famiglie, le donne assumono spesso quel ruolo
anche all’interno delle aziende, facendosi carico di attività di ricevimento
ed accoglienza, di presentazione e rappresentanza.

152
Essere donne e “diventare persone”

ancillare e ‘mercenaria’ delle domestiche50, passando per l’as-


sunzione di un lavoro salariato complementare a quello del ma-
rito e ad esso compatibile delle donne della piccola borghesia.
Nella dicotomia tra cura e lavoro, tra affetto e interesse, tra in-
terno ed esterno, tra concreto ed astratto si rinnova ancor oggi
quella ‘linea di demarcazione mistica’ tra donne e uomini di cui
parlava Virginia Woolf51.

Fuori dall’invisibilità: tra rappresentanza e nuove


rappresentazioni

La filosofa Martha Nussbaum pone le origini del problema


dell’invisibilità delle donne nello sviluppo di una tradizione di
pensiero che, non affrontando il problema della differenza, ignora
i fallimenti nella percezione dell’altro e nel suo riconoscimento
in cui gli individui normalmente incorrono. Molto difficilmente
vediamo la realtà delle persone che abbiamo di fronte perché de-
gli ‘altri’, scrive, si riesce a vedere solo quello che la nostra mente
ha creato. L’invisibilità dipende dalla struttura dei nostri occhi
interni, quelli cioè coi quali, attraverso gli occhi corporei, noi
guardiamo la realtà52 (Nussbaum 1999, pp. 101-102). Nuove ge-
nerazioni di intellettuali, e non esclusivamente donne, stanno po-
nendo rimedio a questa forma di cecità: psicologhe, sociologhe,

50
Cfr. A. Gimenez-Bartlett, Una stanza tutta per gli altri, Palermo, Sel-
lerio, 2003.
51
Cfr. Virginia Woolf, Le tre ghinee, Milano, Feltrinelli, 1992.
52
L’esclusione di alcune persone e del loro modo di vivere dal dominio
del sapere è sempre andata di pari passo, scrive la Nussbaum. L’elemento
degno di nota è che queste esclusioni continuano ad apparire naturali e non
‘politiche’; solo la richiesta di inclusione sembra motivata da una ‘finalità
politica’. Ma, se da giovane donna al suo primo incarico ebbe l’impressione
che ai suoi colleghi fosse preclusa la vista di molte persone e di molte vite,
oggi, in quella stessa università vede la crescita di una scuola in cui le don-
ne, i membri di minoranze etniche e religiose, gay e lesbiche, e le persone
che appartengono a culture non occidentali possano essere visti e ascoltati
con rispetto in veste di portatori di una conoscenza specifica, una scuola in
cui si consideri che il mondo è formato da tipi diversi di cittadini, e nella
quale si possa tutti imparare a diventare cittadini del mondo (Nussbaum
1999, pp. 21-22).

153
Maria Grazia Ricci

filosofe, politologhe, antropologhe hanno favorito interpretazioni


nuove di dati vecchi, hanno ricercato nuovi dati con nuovi meto-
di, e, in qualche caso, giudicato inadeguati i vecchi, hanno chiesto
agli studiosi di non arrendersi alla tirannia dell’abitudine e alle
convenzionali relative a ciò che è naturale. Affrontando nuove
tematiche e soggetti tradizionali attraverso il prisma dell’appar-
tenenza sessuale hanno modificato i canoni tradizionali delle di-
scipline influenzandone la direzione e il carattere delle ricerche53.
In Women in Western Political Thought (1979), Susan Mol-
ler Okin argomenta che la questione del genere è centrale e non
marginale anche e soprattutto per una disciplina come la filosofia
politica54. Prendendo in considerazione i modi in cui le supposi-
zioni relative alla differenza sessuale hanno strutturato alcuni dei
concetti chiave di questa tradizione, quelli di natura e di ragione,
di politica e di giustizia, ma anche la nozione di separazione tra
vita pubblica e vita privata, ha cercato di individuare le radici ide-
ologiche delle disuguaglianze di genere rileggendo autori ed ope-
re fondamentali della tradizione del pensiero politico occidentale.

53
L’attenzione per fenomeni umani di grande importanza – ma pensati
tipicamente femminili e in quanto tali non giudicati meritevoli di attenzio-
ni ‘scientifiche’ – quali le emozioni, l’amore, l’immaginazione e al ruolo
che questi rivestono in un giudizio veramente razionale hanno permesso
di modificare alcuni paradigmi di razionalità, comunemente accettati e di
stampo chiaramente maschile. Questi tendevano ad anteporre, in modo as-
solutamente semplicistico, l’emozione alla ragione e a non riconoscere che
anche la prima può essere una fonte di conoscenza assolutamente autentica.
Catherine Lutz (1988) e Michelle Rosaldo (1980) notarono nei loro studi
come le norme culturali che definiscono i limiti di un’espressione appropria-
ta dell’ira, della vergogna, del dolore, dell’amore esprimano in realtà valuta-
zioni, e non semplici reazioni fisiologiche del tutto prive di discernimento.
54
Anche Justice, Gender, and the Family (1989) rappresenta una critica
serrata delle moderne teorie della giustizia. Okin asserisce che sia pensatori
liberali come John Rawls e Robert Nozick, sia communitarians come Ala-
sdair MacIntyre e Michael Walzer, scrivendo da una prospettiva maschile,
assumono erroneamente che l’istituzione familiare sia giusta. L’ipotesi di
fondo della studiosa è che le famiglie perpetuano le ineguaglianze di genere
attraverso la crescita e l’educazione di bambini in una situazione di genere
sbilanciata, e facendo loro acquisire le idee e i valori considerati universali
(anche se profondamente sessuati) crescono giovani adulti che li ripropor-
ranno. Solo includendo il punto di vista delle donne e l’attenzione alla situa-
zione di genere, una teoria della giustizia può considerarsi attendibile.

154
Essere donne e “diventare persone”

Analizzando le argomentazioni pro e contro l’uguaglianza del-


le donne, espresse da filosofi quali Platone e Aristotele, Rousseau
e Mill, Okin mostra come fin dagli albori, nel pensiero politico
occidentale siano esistite interpretazioni diverse della condizione
femminile. Quella riconducibile a Platone, e poi a Mill, è una po-
sizione scettica sulla differenza naturale e, facendo dipendere lo
sviluppo umano dall’educazione, assume la legittimità della pie-
na uguaglianza di opportunità per le donne. Come Mill55 dobbia-
mo chiederci – ricorda Okin – se abbiamo delle vere prove della
differenza innata tra uomini e donne, per giungere con lui alla
conclusione che non ne esistono dal momento che noi possiamo
osservare uomini e donne solo in condizioni di disuguaglianza.
Mill riteneva che anche le preferenze degli uomini non fossero
autentiche perché a costoro veniva (viene ancora, purtroppo) tra-
smessa un’idea della propria superiorità, anche rispetto alle don-
ne più dotate, semplicemente per il fatto di essere uomini. Questo
elemento ha ingenerato nei maschi una concezione distorta della
propria identità e della propria condotta ed ha strutturato attorno
al principio di gerarchia sociale e di disuguaglianza la democrazia
liberale, condizionandone finalità e scelte.

55
“I deny that any one knows or can know, the nature of the two sexes,
as long as they have only been seen in their present relation to one another.
Until conditions of equality exist, no one can possibly assess the natural
differences between women and men, distorted as they have been. What is
natural to the two sexes can only be found out by allowing both to develop
and use their faculties freely”, in The Subjection of Woman, 1869, cap. I.
Mill, forse il maggiore tra i filosofi politici liberali, riteneva che le prefe-
renze espresse dalla donne fossero distorte non solo perché non avevano
la possibilità di votare, ma anche per un serie di fattori a monte del voto:
l’assenza di un’educazione paritaria la mancanza di informazioni precise
sulle potenzialità e sulle capacità delle donne; l’atteggiamento di superiori-
tà degli uomini, portati a trattare le donne con condiscendenza e a svalutare
le loro conquiste; la concezione diffusa secondo la quale le donne erano
adatte a svolgere solo o principalmente lavori domestici e non implicanti
l’uso della ragione; il timore, giustificato, da parte delle donne stesse nel
mettere in discussione l’autorità, una paura che le ha portate a rinunciare a
ruoli e occasioni; la loro ritrosia, ugualmente giustificata, ad abbandonare
uno stato di disuguaglianza, comunque interiorizzato e socialmente regola-
to, per ricercare una posizione che le avrebbe lasciate senza protezione e in
ogni caso discriminate.

155
Maria Grazia Ricci

La posizione assunta dal pensiero liberale si fonda sull’idea


che, dipendendo da differenze innate e immutabili fra i due ses-
si, i ruoli maschili e femminili siano naturalmente asimmetrici, e
tratta la questione delle potenzialità e del ruolo delle donne come
un elemento già risolto in una famiglia retta su una base patriar-
cale, ma percepita e accettata come un dato di fatto. Ne consegue
che la struttura patriarcale e autoritaria dei rapporti interni alla
famiglia, che è la cellula fondamentale della società, diventa la
principale fonte di corruzione della democrazia liberale56. La sua
figura centrale, l’angelo del focolare, è una donna che è stata edu-
cata non come una libera cittadina, ma come una schiava dome-
stica, asservita ai doveri della riproduzione e ai diritti della stirpe.
Sebbene John Stuart Mill, da autentico liberale rivendichi pari di-
ritti civili e politici per le donne, assumendo la famiglia nucleare
borghese e l’istinto materno come naturali non è in grado di do-
tarsi degli strumenti per affrontare sia il problema della divisione
sessuale del lavoro entro la famiglia, che quello della assunzione
acritica di questa divisione entro la società. Okin ha rielaborato
questa tesi in Justice, Gender and the Family (1989) sostenendo
che alla base della mancanza di giustizia nella sfera ‘pubblica’ –
segnalata dai dislivelli nel reddito, nelle gerarchie professionali,
nella capacità di trovare rappresentanza politica – vi è la mancan-
za di giustizia nella sfera ‘privata’, quella della famiglia. La sva-
lutazione del lavoro riproduttivo e la persistenza della tradiziona-
le divisione del lavoro continuano a rendere le donne vulnerabili
e i loro progetti di vita perennemente inadeguati.
In Woman and Human Devolopment. The Capabilities Appro-
ach, tradotto in italiano col suggestivo Diventare persone. Donne
e universalità dei diritti (2001), anche Martha Nussbaum, pren-
dendo spunto dalla sua esperienza in India e dalla collaborazione
con l’economista Amartya Sen, riflette sulla concreta possibilità
di esistenza dell’universalismo legato al concetto di “persona”.
L’ipotesi interpretativa è che essendo lo statuto di “persona” ap-
pannaggio fondamentalmente maschile occorre rinegoziare il con-
tenuto di questo universalismo a partire dalle situazioni contin-
genti, dal locale. Queste situazioni, diverse a seconda del periodo
storico, della generazione, del gruppo di appartenenza, del singolo

56
Cfr. M.C. Pievatolo, www.swif.uniba.it/lei/filpol/schedaok.htm.

156
Essere donne e “diventare persone”

individuo, influenzano profondamente la vita delle persone e con


essa le loro scelte, sia ciò che sperano che ciò che sono in grado di
fare. Le diverse opportunità di scelta diventano così diverse oppor-
tunità di pensiero e di azione, ma non per questo sono costitutive
di un’essenza peculiare, inaccessibile all’altrui percezione. “Al di
là delle differenze di classe e di contesto, scrive Nussbaum (ibid.,
p. 45), si riconoscono alcune aspirazioni fondamentali alla crescita
umana, per quanto difficile sia il capire l’influenza del contesto
sulle scelte e sulle aspirazioni”. Con il capabilities approach, la
studiosa introduce un punto di vista pragmatico attraverso il quale
è possibile determinare i principi di base e le misure adeguate per
ottenere una vita dignitosa e, con questa, la qualità di persona.
Questi principi generali sono inquadrati in termini di capaci-
tà, potenzialità basate su circostanze personali e sociali, definite
interne se riferite a stadi di sviluppo del soggetto e rappresentano
condizioni sufficienti per l’esercizio delle funzioni richieste, e
combinate quando le capacità interne sono adattate alle condi-
zioni esterne utili per esercitare quella funzione. Per la filosofa
americana le capabilities possono diventare oggetto di consenso
condiviso tra individui che altrimenti hanno diverse concezioni
di “ciò che è bene”. Esse rappresentano uno strumento concet-
tuale che consente di superare le difficoltà legate al relativismo
culturale derivante dall’accettazione di criteri normativi che
sono il prodotto della società che li applica. A giudizio di Nus-
sbaum il capabilities approach tratta ogni individuo come un
fine57, ma non è incompatibile con un’appropriata valutazione
dell’importanza dell’affetto e delle cure familiari e dei bisogni di
appartenenza di ognuno. La libertà, la dignità e l’integrità della
persona, di ciascuna persona, sono mete sociali irrinunciabili;
esse sono in gioco in primo luogo nella famiglia, e la forma che
tale istituto assume le influenza profondamente.

57
“Il principio di ogni persona come fine, scrive (p. 198), implica che la
persona individualmente deve essere l’unità fondamentale della distribuzio-
ne politica. I principi politici fondamentali richiedono che ogni società assi-
curi a ciascuno un livello di soglia di beni vitali fondamentali, considerando
la vita di ciascuno degna di sostegno vitale fondamentale e di fondamentali
libertà e opportunità; e richiedono anche che non ci accontentiamo di un
totale o di una media splendidi, quando alcuni individui vengono privati o
della libertà o del benessere materiale” (Diventare persone, cit., p. 198).

157
Maria Grazia Ricci

Gli economisti definiscono un certo tipo di distorsione delle


preferenze come adattamento. In questo caso un individuo orga-
nizza le proprie preferenze affinché si accordino con l’insieme
(spesso ristretto) di opportunità che ha a disposizione. Le donne,
in molte parti del mondo, manifestano preferenze distorte anche
quando sono in gioco questioni fondamentali come la salute, la
nutrizione, la sicurezza (Sen 1995). Infatti, se non si è mai speri-
mentato cosa voglia dire sazietà è più semplice accontentarsi di
uno stato di malnutrizione, se non si è imparato a leggere e si è
sempre sentito dire che l’istruzione non è cosa per donne, è facile
convincersi che si è soggetti di serie B e che non ci si deve im-
pegnare a raggiungere, ma neppure a desiderare, ciò che la tra-
dizione ha reso non praticabile (Nussbaum 1999, pp. 240-241).
La questione cruciale, e troppo spesso sottorappresentata, è che
la presenza di questi problemi, di queste asimmetrie di potere,
impedisce alla democrazia di esplicarsi completamente.
Citando Elizabeth Cady Stanton, Carol Gilligan (p. 133) so-
stiene che sviluppare se stesse è un dovere più alto che sacrifica-
re se stesse e che ciò che più frena e si oppone allo sviluppo di
sé da parte delle donne è l’abnegazione di sé. All’affermazione
dei propri diritti, esse devono imparare a collegare l’assunzione
della responsabilità di se stesse esattamente come si fanno carico
della responsabilità degli altri e dei rapporti sociali in genera-
le. La tensione, individuata dalla psicologa statunitense, tra una
morale dei diritti che annulla i legami sociali a sostegno delle
pretese individuali, e una morale della responsabilità, che intesse
tali pretese in una trama di rapporti, rendendo più labile la distin-
zione tra sé e l’altro attraverso la rappresentazione della loro in-
terdipendenza, rimane un nodo centrale. I conflitti descritti nelle
ricerche effettuate mostrano che al centro della preoccupazione
morale della donna continua ad albergare un’etica della respon-
sabilità, che ancorando l’io ad un mondo di rapporti, promuove e
rinforza le attività di cura.
Gilligan intravede però, nelle riflessioni delle giovani donne
intervistate, i segni di una trasformazione. Un cambiamento che
passa attraverso il riconoscimento della validità del principio dei
diritti individuali, della consapevolezza dell’interdipendenza, e
alla convinzione che “tutti, in qualche misura, hanno la respon-
sabilità di badare gli uni agli altri”. In un mondo sociale che

158
Essere donne e “diventare persone”

continua ad essere percepito come una fitta rete di rapporti, la


sofferenza di uno riguarda anche tutti gli altri, ed è questo aspetto
rende più complessa qualsiasi decisione, eliminando la possibili-
tà di soluzioni chiare ma astratte. La scelta non appare più “come
una strada diritta”, bensì come “un reticolo in cui ad ogni istante
si può scegliere tra percorsi diversi” come le donne ben sanno.
Occorre accettare la presenza dei conflitti e ad essere consapevo-
li che niente è assoluto. L’elemento costante è il carattere proces-
suale della decisione che comporta cura e un’attenta valutazione
di tutti gli elementi presenti nonché l’assunzione della responsa-
bilità della scelta compiuta e il riconoscimento della legittimità
di altre soluzioni possibili. È attraverso questo percorso che la
cura diventa “cura responsabile” (ibid., pp. 150-151).
La percezione di essere titolari legittimi di diritti individuali,
assieme a quella della co-responsabilità della cura, si sta facendo
lentamente strada tra le donne e contrasta con maggiore o minare
efficacia, a seconda dei luoghi e delle situazioni, l’antica morale
del sacrificio e dell’abnegazione. “Mettendo in dubbio lo stoi-
cismo della negazione di sé e sostituendo all’illusione dell’in-
nocenza la consapevolezza della scelta, quella generazione di
donne – facendo proprio il concetto di diritto individuale – ha
acquisito l’idea che l’interesse del proprio io possa considerarsi
legittimo. In questo senso l’idea di diritto modifica la concezione
che le donne hanno di sé consentendo loro di vedere la propria
forza e di prendere direttamente in considerazione i propri bi-
sogni. E quando l’autoaffermazione non appare più pericolosa,
anche l’idea di rapporto si modifica e da vincolo che protrae la
dipendenza diviene spazio dinamico di interdipendenza. Allora
l’idea di cura responsabile si amplia. Non più paralizzante di-
vieto di fare del male agli altri bensì ingiunzione a rispondere
responsabilmente a sé e all’altro e a mantenere in vita la connes-
sione. I cambiamenti avvenuti in relazione ai diritti delle donne
cambiano così i giudizi morali delle donne e consentono loro
di considerare morale prendersi cura di se stesse oltre che degli
altri” (ibid., p. 152).

“Sebbene oggi le donne godano dei diritti di cittadinanza –


scrive Susan Moller Okin – è innegabile che esse siano rimaste
cittadine di serie B. Misurate nei termini di caratteristiche quali

159
Maria Grazia Ricci

l’educazione, l’indipendenza economica o lo status occupazio-


nale, esse si trovano ancora molto distanti dalle posizioni degli
uomini”. E continua: “Certamente, il fatto che le donne stiano
facendo più lavoro pagato non implica che esse siano più uguali.
Viene spesso sostenuto che viviamo in un’era di post femmini-
smo. Questa rivendicazione, in parte dovuta alla distorta enfasi
sulle donne che ‘ce l’hanno fatta’, è falsa, al di là del che cosa
esattamente voglia dire. Certamente non è vero che il femmini-
smo è scomparso, ed è ugualmente non vero che non ce n’è più
bisogno perché i suoi scopi sono stati raggiunti. Finché non ci
sarà giustizia all’interno della famiglia, le donne non saranno in
grado di ottenere uguaglianza in politica, al lavoro e in ogni altra
sfera” (Okin,1979, pp. 1-4).
Anche Bourdieu, che definendo il rapporto di dominio in ter-
mini relazionali impone l’abbandono di un femminile ontologi-
camente dato, evidenzia la persistenza strutturale del rapporto di
squilibrio fra uomini e donne, squilibrio che si mantiene al di là
delle diverse condizioni storiche e geografiche e delle posizioni
occupate nello spazio sociale. Una “costanza trans-storica del
rapporto di dominio maschile” che non deve essere scambiata
per naturalità ma deve indurci a diffidare del superamento del
dualismo. Un dualismo che, profondamente radicato negli og-
getti, nelle strutture e nei corpi non può essere eliminato con
qualche magia performativa, essendo i generi, in quanto inscritti
nei corpi e in un universo di cui sono elemento imprescindibile,
diversamente dai ruoli, non assumibili con un atto di volontà58.
La difficoltà delle donne a trovare e a fare sentire la propria
voce continua ancora a manifestarsi in molti modi; le precisazio-
ni che aggiungono nel discorso o le formule dubitative che usano
sono il chiaro indizio di un giudizio diviso, della coesistenza di
un pensiero pubblico e di un pensiero privato fondamentalmente
incompatibili. La condizione di subordinazione sociale rimane
strettamente correlata all’attenzione ai bisogni altrui: la disponi-

58
Judith Butler radicalizza la questione ponendo al centro della discus-
sione la preminenza sociale della relazione eterosessuale vista come veico-
lo del dominio maschile; cfr. Bodies that Matter: On the Discursive Limits
of “Sex”, New York, Routledge, 1993, p. 94 [trad. it. Corpi che contano,
Milano, Feltrinelli, 1996, p. 79].

160
Essere donne e “diventare persone”

bilità a farsene carico induce le donne a prestare ascolto a voci


diverse dalla propria e a comprendere nel loro giudizio punti di
vista diversi dal proprio. Assumendo i rapporti come esperien-
za primaria, anziché derivata dalla separazione, e tenendo con-
to dell’interdipendenza della vita di tutti gli individui, le donne
mantengono “la tensione costante tra qualcosa di più ampio di
cui sono parte e l’entità autonoma che è il sé”59. La capacità di
convivere con questa tensione è contemporaneamente la loro de-
bolezza e la loro forza.
Halbwachs ci dice che in ogni momento della sua evoluzione
una famiglia, un gruppo, una classe, e possiamo aggiungere, un
“genere”, parte dalla concezione di sé che ha acquisito per com-
prendere, interpretare, rifondere e, nello stesso tempo, ritrovare
il proprio passato, e attraverso la sua rappresentazione proiettare
la propria identità nel futuro. La possibilità che il contenuto delle
coscienze collettive, l’immagine del passato di un gruppo, ven-
ga di volta in volta ricomposta, sebbene in accordo con quella
socialmente ‘dominante’, apre alla possibilità di considerare an-
che gli assetti esistenti in una società determinata, come poste in
gioco, esposte agli esiti di uno scontro permanente fra interessi e
gruppi contrapposti (Halbwachs 1950, pp. 20-21). Il fatto che il
passato, e con esso le identità e gli assetti del presente, si conser-
vi solo al prezzo di una costante negoziazione e riformulazione,
apre però alla possibilità per le donne di un riequilibrio sociale e
simbolico nel tempo.
Arendt ci indica un percorso, precisando che è solo nell’azio-
ne, intesa come cominciamento, come nuovo inizio, come mes-
sa in discussione dell’esistente che si fonda il politico, e nel di-
scorso che lo conserva si creano le condizioni per il ricordo e la
storia, su cui si costruisce la vera stabilità e riproducibilità del
mondo umano. Come la polis – nel suo assetto fisico su un terri-
torio ma anche in quanto dimensione organizzativa degli indivi-
dui – ha garantito agli antichi cittadini identità e continuità delle
loro storie individuali nel radicamento e nel riconoscimento in
un storia più ampia e condivisa, così non solo l’agorà, ma la ‘fab-
brica’ o l’‘ufficio’ o qualsiasi luogo pubblico condiviso, con le sue
pratiche, la sua organizzazione, la sua dimensione simbolica e la

59
Gilligan, cit., p. 65.

161
Maria Grazia Ricci

sua collocazione nell’immaginario sociale ha rappresentato per


i soggetti moderni lo ‘spazio dell’apparire’ nel più vasto senso
della parola: lo spazio del riconoscimento pubblico all’origine
della cittadinanza.
Il movimento femminista aveva intuito una terza dimensio-
ne, o meglio la necessità – o la possibilità – di espansione della
cittadinanza in “nuovi luoghi”, e l’aveva indicata in un famoso
slogan “il privato è pubblico”. Il problema dell’inizio, legato ad
ogni nuova nascita, della cura, del mantenimento, della riprodu-
zione del mondo umano in ogni sua dimensione, anche quella
più strettamente legata alla corporeità degli esseri umani e del-
la valorizzazione di questa attività non è un “problema” delle
donne, ma la sfida, ineludibile, su cui la società contemporanea
gioca la sua sopravvivenza. Alain Touraine intravede nel nuovo
modo di porsi della soggettività femminile60 l’espressione princi-
pale di un rovesciamento culturale di cui le donne sono e saranno
sempre più protagoniste, e, nella costruzione di nuovi modelli
culturali – che, abbandonata l’idea di un progresso unico e line-
are, appaiono orientati verso l’accettazione del molteplice, del
locale, dell’ambivalente e al rifiuto di frames cognitivi basati su
opposizioni binarie –, la piena manifestazione di un pensiero e
un’azione postfemminista61.
Il lavoro di Hannah Arendt, e soprattutto Vita Activa. La
condizione umana, ha profondamente influenzato la riflessione
esposta in questo saggio. Arendt non pone in quel libro, né in al-
tri, una specifica questione femminile né teorizza direttamente la
posizione della donna, ma è indubbiamente la marginalità della
sua posizione di donna, di sradicata e di ebrea che le ha consen-
tito di gettare uno sguardo, al contempo lucido e accorato, fem-
minile, sulla condizione umana contemporanea. La “banalità del
male” non è solo quella di Eichmann che tanto lucidamente ha

60
Prese le distanze da forme di azione politica diretta ed anche di azio-
ne collettiva, e avendo cominciato a investire nella riflessione sui propri
percorsi esistenziali e sulle proprie identità, le donne sono in grado ormai
di affermarsi positivamente in quanto persone e non più in rapporto ad altri
individui, o come membri di un gruppo.
61
Cfr. A. Touraine, Il mondo è delle donne, Milano, Il Saggiatore, 2009,
pp. 191-193.

162
Essere donne e “diventare persone”

descritto62, ma si annida nella nostra mancanza di responsabilità


collettiva, nella incapacità di farci carico degli altri, nell’indiffe-
renza verso le conseguenze di azioni individuali e collettive che
hanno la concreta possibilità di distruggere il mondo, o pezzi di
esso, non solo come esito di un’azione volutamente distruttiva
ma anche, per così dire, incidentalmente, come ‘effetto perverso’
(Boudon 1981) dell’azione umana.
Arendt ha il coraggio di cercare un’alternativa nella rivaluta-
zione dell’agire. Agire in comune la cui premessa è la pluralità,
della condizione umana e del mondo abitato e agito dagli esse-
ri umani: “Non l’Uomo ma gli uomini [esseri umani, maschi e
femmine] abitano questo pianeta. La pluralità è la legge della
terra” (1993, p. 99) e il cui primato fra le altre attività umane (la-
voro e operare) è dato dal fatto che la presuppone. L’azione poli-
tica è impensabile senza altri uomini che partecipano, assistono,
rispondono o si oppongono. L’agire, scrive Dal Lago (2004, p.
xv), consente il rivelarsi del chi, perché questi, per definizione,
appare agli altri, e si rende manifesto nella sua identità e nella
sua differenza, è impensabile senza che altri confermino diret-
tamente o indirettamente, esplicitamente o implicitamente colui
che agisce. Per questo è così importante, in tempi così difficili e
incerti, l’azione “politica” delle donne, una loro attiva presenza
anche sulla scena pubblica.
Perché “anche nei tempi più bui abbiamo il diritto ad un po’
di illuminazione. Essa non scaturisce tanto da teorie e concetti
quanto dalla luce incerta, tremolante, spesso debole che taluni
uomini e donne, nella loro vita come nel loro lavoro, accendono
in qualsiasi circostanza e promanano per tutto il tempo concesso
loro sulla terra” (Arendt 1970, p. ix). E “il buio – scrive Elisabeth
Young-Bruhel ricordando la formula in finsteren Zeiten di Brecht
– è ciò che viene quando gli spazi aperti e chiari tra la gente, gli
spazi pubblici in cui gli individui possono rivelarsi l’un l’altro e
riconoscersi sono sfuggiti o evitati, il buio è il rifiuto della sfe-
ra pubblica e della politica. Ma coloro che hanno rinunciato al
mondo, e dunque ad apparire nella sfera pubblica, pensando di
potersene stare fuori, trovando rifugio nella sfera privata e nei

62
Cfr. H. Arendt, Eichmann in Jerusalem: a report on the banality of
the evil, New York, Viking, 1963.

163
Maria Grazia Ricci

rapporti personali mettono a rischio i loro interessi vitali e la loro


libertà personale perché questi, se perseguiti senza la consapevo-
lezza del resto dell’umanità e in armonia con essa, saranno privi
di senso se non controproducenti” (p. 8).
Per “il suo impegno a identificare l’inaudito” con la men-
te aperta, di chi prende in considerazione altri punti di vista,
fa attenzione a più aspetti delle questioni affrontate, ne vede le
molteplici prospettive di osservazione (ibid., pp. 13-15), per il
suo pensare, al di là della specificità del genere, alla ‘condizione
umana’ e alla politica come ‘azione’ per eccellenza, ma con un
peculiare, ellittico sguardo, che è tale perché è quello di una don-
na, il pensiero di Hannah Arendt “ci riguarda”. Le sue riflessioni
assumono oggi il carattere di preveggenza e illuminano il nostro
percorso di donne, di individui, di cittadini e cittadine.

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