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Immanenza e trascendenza in ambito scientifico ed etico

Trattare argomenti come immanenza e trascendenza rappresenta già una sfida nella sola loro definizione, tuttavia diventa
veramente arduo se non addirittura provocatorio trattare o anche solo delimitare il campo quando queste categorie
vengono applicate a concetti come la scienza e l'etica che almeno apparentemente appaiono diametralmente opposte e
inconciliabili.
Infatti cosa vi può essere di più apparentemente contraddittorio tra trascendenza e scienza che almeno ad una
definizione superficiale rappresentano lo studio della realtà e delle sue misure contrapposto a un mondo impalpabile,
sovrumano o forse solo inventato dalla necessità dell'uomo di proiettarsi al di là della sua materialità.
Non a caso ho detto e sottolineato apparentemente.
In realtà ad un'analisi più approfondita, soprattutto con gli strumenti della Massoneria, i confini di tali entità cominciano a
sfumare fino a diventare indistinguibili.
Quante volte si è detto che la realtà non esiste e che quella che noi chiamiamo "realtà" è derivata dalla condensazione di
un pensiero quindi di una trascendenza.
Come vedremo di seguito è perfino difficile definire il concetto di fatto, inteso come evento concreto ed incontestabile.
Si potrebbe dire che soltanto la scienza esoterica può aiutare, grazie alla sua attitudine ad attingere a piani diversi, ad
orientarsi in un territorio così difficile ed infido.
Si potrebbe dire con Enrico IV che "vi sono più misteri in cielo in terra e nella tua filosofia" ed infatti è in gioco lo stesso
concetto di verità in tutto questo.
La vera posta in gioco quando si affrontano problematiche del genere è tutt'altro che teorica e filosofica o di pertinenza
degli addetti ai lavori; sono gli stessi oggetti della sopravvivenza, della verità, del potere e dell'uso della conoscenza ad
essere messi in discussione.
In effetti il solo accostarsi a problematiche così complesse spaventa tanto che la tradizionale difesa è rappresentata dal
dogmatismo.
Infatti la ripetizione di gesti e concetti consolidati rappresenta indubbiamente un vantaggio evolutivo e pratico innegabile.
Ecco allora la vera motivazione che ha fatto sorgere le Fedi della più varia natura: un essenziale espediente pratico e
tranquillizzante che delimita il campo e disinnesca l'ansietà dell'indagine e il terrore delle verosimili scoperte.
Il nostro ambito tuttavia dovrebbe essere vaccinato e relativamente preparato alle potenziali pericolosità che la ricerca a
tutto campo rappresenta.
A volte il caso aiuta a trovare un indirizzo e per quanto mi riguarda casualmente ho incontrato una frase che recita:
"La vita è come un mare dove la nascita ci immerge come pesci".

A noi non può sfuggire l'analogia e il significato profondo del pesce e come lui dobbiamo essere immersi in una
dimensione globalizzata dove non esiste più il sopra e il sotto, avanti e indietro ma solo una scelta della profondità di
queste dimensioni.
Che la materia sia fluida lo dimostra il periodico ritornare anche da parte di istituzioni monolitiche come la Chiesa
cattolica su argomentazioni che sembravano scontatamente attribuite per competenza; è di questi giorni l'affermazione
del Papa Benedetto XVI sul fatto che " la scienza non è in grado di elaborare pensieri etici".
Questo per ribadire la competenza di entità che ritengono loro diritto-dovere tracciare i confini dell'etica e della
trascendenza.
In realtà lo stesso dogma ha in sé elementi di travaglio perché si confonde la verità divina incontestabile con la prassi e
l'abitudine; basta citare per esempio le differenze dottrinali circa il sacerdozio delle donne che è categoricamente
escluso dalla gerarchia vaticana ma dagli studiosi contestato in quanto non solo non esiste negli scritti una proibizione
ma anzi una prassi consolidata al femminile nella vita di Cristo.
Occorre allora liberarsi dalle sovrastrutture mentali e considerare la materia ultima della mente, della trascendenza, degli
oggetti mentali che noi chiamiamo scienza e dei fatti in realtà come anch'essi creati, diremmo con l'attribuzione di un
nome, dallo stesso pensiero trascendente dell'uomo.

“FATTI” O ARTEFATTI?
E’ necessario conoscere i presupposti epistemologici e morali della
evidenza scientifica per evitare che i fatti e le conoscenze che
essa veicola perdano strada facendo la loro correlazione con le
“teorie” di cui sono impregnati. I fatti sono sempre carichi di teoria,
come ci hanno spiegato i protagonisti della New Philosophy of Science, e la scienza, per usare una bella
immagine di Popper, è costruita su “palafitte”. vedremo di seguito che cosa questo significhi.

Un campo particolarmente sensibile dove queste cose vengono dibattute è quello della scienza medica, dei suoi
stessi presupposti morali ed etici da una parte e interessi commerciali dall'altra; sul fatto che le revisioni
sistematiche che la riguardano dovrebbero venir prodotte e diffuse in modo "indipendente"; e, ancora sul fatto
che a differenza delle ricerche che offrono risultati favorevoli, quelle che danno risultati negativi sulla efficacia
di un prodotto o di una tecnica diagnostica hanno non di rado scarsa probabilità di essere rese note, dimentichi
della grande lezione per cui "non ogni verità ci indica una
via da seguire, mentre ogni errore ci indica una via da evitare" (G. Vailati).

Siamo qui in effetti in piena discussione etica e direi di trascendenza, ovvero nella definizione di quei concetti
che originano l'effetto pratico ma allo stesso tempo lo trascendono.
Per rendere più esplicito il pensiero direi che sta avvenendo nelle scienze pratiche un fenomeno simile a quello
della meccanica quantistica dove le regole della fisica classica vengono sovvertite, dove il concetto di energia e
di materia si confonde e diventa sempre più difficile capire qual’è la parte impalpabile e quella solida, l'idea e
l'essere.
Si sta verificando in sintesi l'affermarsi di una "modernissima" teoria che in realtà ricalca quasi esattamente il
concetto antico del trascendente e dell'immanente come parti di un unico fatto cosmico.

La discutibilità dei fatti.


Vi sono pensatori teorici che affermano:
" L'assenza di evidenza non significa che un trattamento non sia efficace, ma soltanto che non la conosciamo".
Dunque critici bisogna essere sul concetto di evidenza, per la ragione che l'idea di evidenza trascina con sé
quella di fatto indiscutibile, con la conseguenza di indurci nella tentazione positivistica stando alla quale "i fatti
sono sacri".
Senonché quella di "evidenza" non è affatto un'idea evidente, e i
"fatti" restano pur sempre discutibili.
Fu Jevons a notare che fatto è participio passato del verbo fare: i fatti della scienza sono tali perché sono stati
fatti; sono stati fatti dagli scienziati attraverso costruzioni e demolizioni teoriche.
Le teorie le appendiamo a quei chiodi che sono i fatti; ma anche quei chiodi li fanno gli scienziati.
Non appena noi parliamo della realtà, di qualche aspetto o pezzo di realtà, vi gettiamo sopra concetti e teorie.
Ogni nostra osservazione è imbrattata di teoria: una
maschera di teoria copre l'intero volto della natura.
Dopo Kant, e molti altri , ci è possibile ripetere che " non esiste occhio innocente: quando si mette al lavoro,
l'occhio è sempre antico,
ossessionato dal proprio passato e dalle suggestioni, vecchie e nuove, che gli vengono dall'orecchio, dal naso,
dalla lingua, dalle dita, dal cuore e dal cervello.
Esso funziona non come uno strumento isolato e dotato di potere autonomo, ma come membro obbediente di
un organismo complesso e capriccioso.
Non solo come, ma ciò che vede è regolato da bisogni e presunzioni. Esso seleziona, respinge, organizza,
discrimina, associa, classifica, analizza, costruisce.
Non tanto rispecchia, quanto raccoglie ed elabora; ciò che raccoglie ed elabora esso non lo vede spoglio, come
una serie di elementi senza attributi,ma come cose, cibo, gente, nemici, stelle, armi".

Un fatto, nella scienza, è una proposizione che, per quanto ne sappiamo, descrive qualche pezzo di realtà. E
questa descrizione può essere errata.
I fatti nascono: dov'erano l'inconscio prima di Freud o la cellula prima di Virchow?
E se fatti nascono, fatti muoiono anche:
Lavoisier fa scomparire il flogisto, Einstein ha eliminato l'etere dal mondo dei fatti.
La vita di un fatto è la storia delle teorie che ne parlano.
L'atomo è un fatto, ma l'atomo è, precisamente, quel fatto via via raccontato - descritto e spiegato - dai concetti
e dalle teorie che intessono la storia dell'atomismo da Democrito a Rubbia.
Avevano ragione i medioevali a sentenziare che "talia sunt obiecta qualia determinantur a praedicatis suis".
Ed ecco come un medico del secolo scorso, Maurizio Bufalini, precisa la natura di quel fatto che è l'oro.
"La fisica scriveva Bufalini si occupa dei corpi fisici, delle loro qualità sensibili, delle loro relazioni, attraverso
l'osservazione dei fatti.
Ma la natura non ci offre fatti così semplici da produrre in noi idee semplici, le nostre prime idee sono
necessariamente composte così da essere poi scomposte una per una".
Se uno di noi vede l'oro, si fa un'idea composta dell'oro, ma qualora se ne considerano l'estensione, la figura, il
peso, il colore, la lucentezza
riacquistano le idee semplici che formano quella composta di oro. "
Ma queste sono le qualità sensibili dell'oro, non le modificazioni cui può andare incontro, cioè i fenomeni che
appartengono all'oro.
Perciò occorrono altre osservazioni: la duttilità dedotta dal fatto che l'oro battuto si distende; la fusibilità
perché, riscaldato, si liquefa; la lega con altri metalli perché si scioglie con l'acido muriatico.
Questi fenomeni si possono costruire solo con l'esperienza. I fenomeni così osservabili non si esauriscono mai
e la scienza fisica ne scopre continuamente di nuovi".
E qui Bufalini si chiede se mai avremo una perfetta conoscenza dell'oro.
"Esso è l'insieme delle qualità sensibili e dei fenomeni che può racchiudere, ma la sua essenza ci sfuggirà
sempre".
Ho voluto riportare queste osservazioni fatte da mente scientifica per avvalorare quello che ha un ragionamento
esoterico appare evidente:
non esistono fatti, non esiste regola, non esiste dogma ma esiste la decisione trascendente, direi la fede, del
pensiero di farsi fatto e di scendere nell'immanente, nel reale, nel concreto in quello che nella nostra limitatezza
crediamo immutabile ma il realtà solo parte di una dinamicità molto più ampia e assolutamente imprevedibile.

E' stato Ludwik Fleck, un medico polacco, a mostrare, in un libro pubblicato nel 1935 e intitolato Genesi e
sviluppo di un fatto scientifico, come la storia di quel fatto che noi chiamiamo sifilide si risolva nella storia
deiconcetti e delle teorie che lo presero (e lo prenderanno) in
considerazione.
Scrive Fleck: "Lo sviluppo del concetto di sifilide come malattia specifica non è dunque concluso e non può
esserlo, poiché questo concetto partecipa di tutte le scoperte e di tutte le innovazioni della patologia, della
microbiologia e dello studio delle epidemie e delle infezioni.
Il suo carattere da mistico è divenuto empirico e quindi patogenetico, per poi diventare essenzialmente
etiologico: nel corso di questo processo non solo ci si è arricchiti di un gran numero di singoli fatti, ma sono
andati anche perduti molti aspetti particolari delle antiche teorie.
Sappiamo e possiamo sapere infatti dire poco o nulla, al giorno d'oggi, circa la dipendenza della sifilide dal
clima, dalle stagioni e dalla costituzione generale del malato, quando invece negli antichi scritti è possibile
trovare molte osservazioni a tal riguardo.
Ma con la trasformazione del concetto di sifilide sono nati anche nuovi problemi e nuovi settori del sapere, sì
che, in effetti, non vi è niente di stabilito in maniera definitiva".
I fatti, cioè le asserzioni che, per quel che ci è possibile saperne, descrivono fatti - le basi empiriche della
scienza, insomma, sono artefatti che vengono continuamente rifatti attraverso costruzioni e demolizioni
teoriche.
Essi non sono dati immutabili, ma "costrutti" che hanno una storia: una genesi, uno sviluppo, mutazioni, e
talvolta anche una morte.
Ciò che oggi chiamiamo un fatto, ieri era una teoria.
Ed è gran parte dell'epistemologia del nostro secolo che ha frantumato il mito della sacralità dei fatti.
Certo, le teorie scientifiche poggiano sui fatti, ma questi non sono una roccia indistruttibile.
In altri termini, la scienza ha sì una base, ma questa base non è un fondamento certo.
Per dirla con Popper: " La base empirica delle scienze oggettive non ha in sé nulla di "assoluto".
La scienza non poggia su un solido strato di roccia.
L'ardita struttura delle sue teorie si eleva, per così dire, sopra una palude. E' come un edificio costruito su
palafitte.
Le palafitte vengono conficcate dall'alto, giù nella palude: ma non in una base naturale "data"; e il fatto che
desistiamo dai nostri tentativi di conficcare più a fondo le palafitte non significa che abbiamo trovato un terreno
solido.
Semplicemente, ci fermiamo quando siamo soddisfatti e riteniamo che almeno per il momento i sostegni siano
abbastanza stabili da sorreggere la struttura".
In breve: "la nostra conoscenza ha fonti d'ogni genere, ma nessuna ha autorità".
E le evidenze sono forse risultati di esperimenti condotti in atteggiamento verificazionista o falsificazionista?
Le "evidenze" vadano adottate, tramite forza critica e argomentativa e attenzione continua alle conseguenze
prevedibili e ai fatti collaterali.
Insomma, delle "evidenze" per dirla con Popper: ci affidiamo ad essi, ma di essi non ci fidiamo.

Nella scienza nulla vi è di certo: né le asserzioni universali né le proposizioni particolari. E se è vero che la
tensione al controllo di ogni asserto che entri in una teoria è lo spirito della scienza, è altrettanto vero che
questa tensione è frutto di una scelta etica.
In realtà, noi non siamo obbligati a guardare il mondo con gli occhi di Galileo per capirlo e dominarlo;
dopotutto, potremmo anche guardarlo con gli occhi di san Francesco o di Lao-Tsé, per contemplarlo.
La scienza presuppone, dunque, una scelta etica.
Presuppone, come ha argomentato Popper, la scelta irrazionale della ragione scientifica.
"L'etica non è una scienza. Ma, benché non esista una "base scientifica razionale" dell'etica, c'è una base etica
della scienza e del razionalismo".
Questo ha scritto Popper nel capitolo 24 de
La società aperta e i suoi nemici, intitolato Filosofia oracolare e rivolta contro la ragione.
"L'atteggiamento razionalistico è caratterizzato dall'importanza che si attribuisce all'argomentazione e
all'esperienza.
Ma né l'argomentazione logica né l'esperienza possono di per sé dar vita all'atteggiamento razionalistico;
infatti, saranno sensibili ad esso soltanto coloro che sono disposti a prendere in considerazione
l'argomentazione o l'esperienza e che quindi hanno già adottato questo atteggiamento.
In altri termini, un atteggiamento razionalistico dev'essere già preventivamente adottato se si vuole che
l'argomentazione e l'esperienza risultino efficaci, e quindi non può esso stesso essere fondato
sull'argomentazione o sull'esperienza".
Tutto ciò sta a dire che il razionalista, colui che cioè è disposto a dar peso all'argomentazione e all'esperienza,
ha fatto già una scelta irrazionale della ragione: la scelta della fede nella ragione.
Dietro alla scienza, dunque, c'è la scelta irrazionale della ragione.
E questa scelta "non è semplicemente un atto intellettuale o una questione di gusto. E' una decisione morale".
E ciò nel senso, specifica Popper, che "la questione se adottare una forma più o meno radicale di irrazionalismo
o se adottare quella concezione minima dell'irrazionalismo che ho chiamato "razionalismo critico", avrà
profonda ripercussione su tutto il nostro atteggiamento nei confronti degli altri uomini o nei confronti dei
problemi della vita sociale".
Dunque: tra i presupposti che rendono possibile la scienza ce n'è anche uno di natura etica: la scienza
presuppone l'etica.
Se l'immagine che il ricercatore ha della scienza non è indifferente sulla sua ricerca, è pur vero che differenti
immagini della scienza esercitano anche un diverso influsso sull'immagine dell'uomo (antropologia), sull'idea
dei rapporti tra gli uomini (etica) e sull'idea di comportamento corretto nel lavoro scientifico (etica professionale
dello scienziato).
Se all'ideale di sapere come possesso di verità certa corrisponde l'intolleranza sul piano etico e l'imperativo, per
l'intellettuale, di essere un'autorità, all'ideale di sapere come sapere sempre e comunque congetturale e fallibile
corrisponde un uomo fallibile, un'etica della tolleranza, un mondo di ricercatori in cui non esistono autorità, ma
dove ognuno – in uno sforzo necessariamente collaborativo - può imparare dall'altro.
Considerazioni del genere hanno portato Karl Popper a sostenere
che "i principi, che sono alla base di ogni discussione razionale, vale a dire di ogni discussione al servizio della
ricerca della verità, sono veri e propri principi etici".
Egli ne indica tre:
"1. Il principio della fallibilità: forse io sbaglio e tu forse hai ragione. Ma possiamo essere in errore tutti e due.
2. Il principio della discussione razionale: cerchiamo di soppesare, nella maniera più impersonale possibile, le
nostre ragioni pro e contro una specifica teoria criticabile.
3. Il principio dell'approssimazione alla verità.
Attraverso una discussione oggettiva noi ci avviciniamo quasi sempre di più alla verità; e perveniamo ad una
migliore comprensione delle cose; anche quando non arriviamo ad un accordo".
E' cosa degna di attenzione, sottolinea Popper, che "tutti e tre questi principi sono principi epistemologici e ad
un tempo etici.
Essi, infatti, implicano, tra l'altro, accettazione dell'altro, la tolleranza: se io posso imparare da te e nell'interesse
della ricerca della verità voglio imparare, allora io debbo non solo tollerarti, ma anche riconoscerti come
sostanzialmente uguale a me; la sostanziale unità e parità dei diritti di tutti gli uomini sono un presupposto della
nostra disponibilità a discutere in modo razionale".
L'idea di verità come ideale regolativo, l'idea della ricerca
della verità e dell'avvicinamento alla verità sono, dice Popper, principi etici. Ed etici sono anche "le idee di
onestà intellettuale e di fallibilità, la quale ci porta all'atteggiamento autocritico e alla tolleranza".

Un altro punto fondamentale è la capacità di fare previsioni. La psicanalisi, per esempio, a differenza della
scienza, non è capace di fare previsioni, anch’esse necessarie a verificare la teoria.
nell’ambito delle spiegazioni che fornisce la psicoanalisi, per esempio, un conto è spiegare che ci si è
innamorati di una donna perché somiglia alla propria madre, un altro conto è prevedere che questo accadrà.
La medicina, in particolare, non è mai stata una scienza, non lo è oggi né forse lo sarà mai. Il medico possiede
piuttosto dei rudimenti di conoscenza, perché la scienza della medicina è recente e si chiama biologia. Mentre
gli ingegneri da circa 150 anni utilizzano la fisica e la chimica, sono solo pochi anni che la biologia produce
cose degne di essere definite come scienza.
La parte scientifica della medicina è quindi ancora piccola, immatura, impegnata sul fronte della comprensione
di organismi molto complessi.
Anche nel caso del medico più informato ci sarà sempre una differenza tra le sue acquisizioni e la sua capacità
di trattare i casi concreti.
Ciò che ci preme soprattutto è capire non solo in che cosa gli uomini siano biologicamente uguali, ma anche in
che cosa sono diversi. Ciò significa passare dalla considerazione degli uomini come una classe omogenea e
parlare di organi e patologie in maniera astratta, alla considerazione, invece, dei singoli individui e delle loro
singole malattie.
Questo passaggio implica un gigantesco sforzo sia da un punto di vista scientifico in termini di intersoggettività
sia economico.
Per questo motivo il medico parteciperà contemporaneamente della scienza e dell’arte.
Quindi, la medicina nel suo aspetto di analisi e di intervento sulla realtà individuale e sociale, si costituisce
come scienza soltanto a condizione di rispondere a questo requisito.
È a questo punto chiaro come le idee che gli individui hanno sulla realtà della propria salute e malattia, e le idee
che hanno a proposito delle proprie idee sulla salute e la malattia, non sono esse stesse dei “dati medici”, ma
dei dati psicologici, antropologici e sociologici.
In ultimo, è l’elemento culturale che determina il clivage tra salute e malattia, concetto ora apparentemente
rivoluzionario ma in realtà scontato per lo scienziato e il medico antico, ben lontano dal presunto “paziente
medio” per ragioni ineludibili di ordine clinico, psicologico, e biografico.
La pretesa di standardizzare l’espressione e la reazione al dolore è dunque scientificamente e umanamente
arbitraria, inefficace e crudele.
Si è parlato in modo specifico della medicina in quanto essa costituisce il crocevia sostanzialmente di tutte le
scienze sperimentali e riveste peraltro un particolare carattere in quanto la sua materia di intervento e la nostra
materia sensibile, la vita stessa e la morte.
In realtà la metodologia esposta può essere applicata a tutto il campo dello scibile umano ma soprattutto
rappresenta un metodo che a noi è ben noto consistente essenzialmente nell'arte del dubbio sistematico,
rafforzato dalla tradizione che tuttavia non rappresenta una gabbia ineludibile ma un cielo stellato con cui
orientarsi nel mare dell'esistenza.
In questa navigazione perde consistenza la divisione artificiosa tra ciò che è trascendente e ciò che reale-
immanente scoprendo che i principi filosofici, etici e quindi intrinsecamente massonici sono validi sotto ogni
latitudine.

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