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DE BIZZARRo

So che richiedevi critiche taglienti, ma del resto, come tu stesso mi


hai più volte confermato, non è per niente facile da sviluppare come
tema con le scarse basi che ci sono e posso solo approvare la modalità
"teologia negativa" confidando nel fatto che a chiarire cosa non è, per
esclusione, si materializzi di più il concetto. Mi sembra tutto
piuttosto chiaro, comunque, quello che dici e non ho particolari cose
da commentare - lo farei fidati, non per niente mi chiamano Abbagnano -
però ti allego un pò di miei vagheggiamenti filosofici che è la cosa
che so far meglio. Innanzitutto una bella furbata e utile espediente
retorico è dichiarare da subito l'impossibilità di definire il concetto
(si sa da sempre che anche la sincerità è una figura retorica). Se
riesci a risultare convincente nel dimostrare l'inutilità di una
definizione del bizzarro, non solo ti libererai di un gran difficoltà,
ma comincierai già a definirlo. Tipo: "Compito arduo scovare o
formulare una sua qualche teorizzazione, forse proprio perchè se c'è un
ambito di elementi che in qualche modo oppone resistenza alla
classificazione è, indubbiamente, quello estetico". Ora faccio un passo
indietro. Provando a digitare bizzarro su google - come tu stesso avrai
già fatto innumerevoli volte - mi è apparso il solito simpatico
riassunto di wikipedia (wikpedia che, puntodivistamente parlando, un
giorno salverà la memoria collettiva mondiale e con questa il senso
stesso dell'umanità) che recava questa bella citazione di Emerson (te
la taglio un pò, solo le cose significative):

Dice Emerson: "L'essenza di ogni barzelletta, di ogni commedia...una


non-esecuzione di ciò che si pretendeva di eseguire. L'ostacolo posto
all'intelletto, l'aspettativa frustrata, la rottura della continuità
nell'intelletto, è commedia; e si annuncia fisicamente nei piacevoli
spasmi che chiamiamo risata." Ricordando vagamente il dadaismo di
Duchamp, Emerson disse inoltre: "Separate qualunque oggetto, come un
particolare uomo, un cavallo, una rapa, un barile di farina, un
ombrello, dalla connessione delle cose, e contemplateli da soli, stando
lì nell'assoluta natura, e tutt'a un tratto divengono comici; nessuna
qualità utile, rispettabile, possono salvarli dal ridicolo." L'essenza
del comico sta nella "falsità" dell'uomo che "si arrende alla sua
apparenza; come se un uomo si dimenticasse completamente di sé per
trattare la sua ombra sul muro con segni di infinito rispetto."

Perciò, riassumendo, l'essenza del comico (umoristico, assurdo, buffo,


surreale..) e la ragione per la quale, alla fin fine, ci mettiamo a
ridere, è la sorpresa, l'evento inaspettato che rompe la linearità del
nostro pensiero, qualcosa di totalmente improvviso che scardina il
normale consueto procedere di situazioni ed eventi, insomma uno
slittamento del piano logico. Ora, anche il bizzarro, si può presentare
nelle stesse modalità del surreale o dell'assurdo, per la sua
peculiarità di insensatezza inaspettata, di ribaltamento, ma non sarà
mai propriamente assimilabile a questi, trattandosi il suo, piuttosto ,
di "slittamento del piano estetico", non di quello logico. Che
l'estetica - intesa originariamente come "studio del sensibile" - abbia
subito dal '700 (quando riceve formulazione) in poi una sua propria
categorizzazione filosofica, assumendo tutta una serie di accezioni
diverse, è un fatto. Ma un altro fatto è che l'estetica, in realtà, per
sua stessa natura, sfugge a qualunque tipo di categoria. Quello che
intendo dire è che estetica non è il campo di giustificazione teorica
della frammentarietà della cultura o della molteplicità delle poetiche,
degli stili o delle forme, ma uno strumento per cogliere il senso
fondativo dell'esperienza, degli atteggiamenti sensibili. E se penso
alle situazioni a cui applicherei l'aggettivo bizzarro sono tutte di
natura sensibile (modo di vestire, parlare, muoversi, atteggiamenti,
immagini, situazioni...niente di "ideale"insomma). Quanto tu ti
riferivi al bizzarro come fine a se stesso, come la vita in Nietzsche
che "non vuole altro che essere vissuta", perpetrata per inerzia
biologica, stai proprio chiarendo una costante dei concetti estetici
che cercano di "portar chiarezza nella confusione"(come recita il
programma introduttivo di Baumgarten, fondatore dell'estetica nel 700),
nella stravaganza si potrebbe dire meglio. Ora, viene da chiedersi: se
bizzarro è un grande serbatoio di stravaganza nel sensibile, da cui
attinge l'arte e la vita, senza fine razionale o scopo premeditato,
senza una definita categoria di classificazione (si posson giusto
enumerare fenomenologicamente i casi in cui si presenta) che senso ha?
perchè esserlo, perchè indossarlo?nell'incapacità di darmi una risposta
dignitosa, mi sono allora chiesta: ma perchè, piuttosto, invece,
chiedersi se ha un senso? perchè lo deve avere? so darmi una sola
risposta, forse un pò paraculo, forse un pò retorica, ma infondo,
perchè no, sincera. Il presupposto per il quale il bizzarro sia anche
solo, banalmente, percepito è che si colga uno scarto tra questo e una
norma precostituita, ovvero: per essere infranta una logica
dell'estetico, deve cioè perlomeno presistere una logica dell'estetico
no?e non è questa un'assurdità ben più bizzarra del bizzarro stesso?
Non siamo infinitamente più patetici e degni di compassioni noi umani
che, nel terrore dell'istabile, dell'amorfo, dello sfuggente ci
costringiamo a folli pratiche definitorie di una cosiddetta normalità,
di una sana conformità a ragione? il bizzarro raramente lascia
indifferenti, a volte fa ridere, e spesso pare invece più che altro
ridicolo, ma non è forse mille volte più ridicolo il non bizzarro?
questa patetica paura del nonsenso trasfigurata in codici infondati...

L’umorismo è la capacità o la condizione di persone, oggetti o situazioni di evocare sentimenti di


divertimento e suscitare la risata. A differenza del tragico che è universale, cioè le sue opere sono
apprezzabili in qualunque cultura, il comico è “locale”, cioè l’apprezzamento è legato al tempo, alla
società, all’antropologia culturale.

La parola deriva da “humor” latino (umidità, liquido) e sembra quindi derivare il suo significato
dalle teorie della medicina ippocratica, che attribuiva a quattro fluidi (umori appunto) l’influenza
sulla salute e l’indole degli uomini. L’essenza dell’umorismo, così come è stata delineata, seppur
nell’originalità e differenziazione delle rispettive interpretazioni, dai diversi studiosi (filosofi,
medici, scrittori) risiede proprio in questo legame con l’emotività, con l’interiorità più atavica ed
istintuale dell’uomo; un carattere distintivo di ciò che è umano dunque, una ‘porta’ sulla sua unicità.
Benché l’umorismo sia una componente da sempre presente nella letteratura e nelle società umane,
uno studio sistematico sulle sue caratteristiche storiche, strutturali e psicologiche ha preso avvio
solo all’inizio del ventesimo secolo.

“Il comico” di Emerson

Ralph Waldo Emerson espresse la sua teoria del comico nel saggio The Comic, dove cercò di
perfezionare la teoria di Aristotele, per cui il ridicolo sarebbe “ciò che è fuori tempo e fuori luogo,
senza pericolo” (con pericolo ci sarebbe il tragico). Dice Emerson: “L’essenza di ogni barzelletta,
di ogni commedia, sembra essere un onesto o benintenzionato esser mezzi e mezzi [halfness]; una
non-esecuzione di ciò che si pretendeva di eseguire, mentre uno a gran voce dà a vedere che farà
una notevole performance. L’ostacolo posto all’intelletto, l’aspettativa frustrata, la rottura della
continuità nell’intelletto, è commedia; e si annuncia fisicamente nei piacevoli spasmi che
chiamiamo risata.” Ricordando vagamente il dadaismo di Duchamp, Emerson disse inoltre:
“Separate qualunque oggetto, come un particolare uomo, un cavallo, una rapa, un barile di farina,
un ombrello, dalla connessione delle cose, e contemplateli da soli, stando lì nell’assoluta natura, e
tutt’a un tratto divengono comici; nessuna qualità utile, rispettabile, possono salvarli dal ridicolo.”
L’essenza del comico sta nella “falsità” dell’uomo che “si arrende alla sua apparenza; come se un
uomo si dimenticasse completamente di sé per trattare la sua ombra sul muro con segni di infinito
rispetto.” Il comico è quindi nella percezione (specie se improvvisa e inaspettata) del “mezzo
uomo”, dell’uomo incompleto che fino a un momento prima si credeva uomo e maturo, e
rispettabile. E con la finezza delle sue ampie visioni, Emerson offre un’occhiata sull’intrinseca
comicità dell’intera nostra condizione: “Non facciamo nulla che non sia risibile ogni volta che
lasciamo il nostro sentimento spontaneo. Tutti i nostri piani, le nostre amministrazioni, le nostre
case, i nostri poemi, se paragonati alla saggezza e all’amore che l’uomo rappresenta, sono
egualmente imperfetti e ridicoli”.

“Il riso” di Bergson

Fondamentale è stato il contributo di Henri Bergson con il suo saggio “Il riso. Saggio sul
significato del comico” (1900). Il filosofo francese apre la sua riflessione con una serie di
considerazioni generali sul comico: innanzitutto nota che “Non vi è nulla di comico al di fuori di
ciò che è propriamente umano“; anche quando l’oggetto del comico non è una persona, tuttavia ciò
che suscita il riso è un aspetto di quell’oggetto o animale che richiama alla mente atteggiamenti e
situazioni umane (pensiamo ad un burattino). In secondo luogo, l’apprezzamento della situazione
comica prevede “qualcosa come un’anestesia momentanea del cuore“: l’empatia, l’identificazione
con la persona oggetto del riso è bandita. Infine, è facile constatare che “Il riso cela sempre un
pensiero nascosto di intesa, direi quasi di complicità, con altre persone che ridono, reali o
immaginarie che siano“. Da queste tre considerazioni risulta un’idea chiara della funzione della
comicità: essa risponde a determinate esigenze sociali. In particolare, Bergson vede il comico come
una sorta di “castigo sociale” con cui la comunità (intesa come specie) individua, respinge e
corregge una serie di comportamenti percepiti come contrari allo ’slancio vitale’ con cui si
identifica la vita stessa (e qui risiede il legame profondo tra la definizione di comico ed il resto della
riflessione filosofica di Bergson). Questi comportamenti sono quelli meccanici (”Ridiamo tutte le
volte che una persona ci dà l’impressione di una cosa“), monotoni che, nell’aderire cieco alla
regola, non sanno cogliere - ed anzi soffocano - la fluidità, l’intrinseca libertà autocreatrice della
vita. È questo impulso spontaneo, stimolo ad una continua evoluzione creatrice, a permettere il
superamento, in forme sempre nuove ed originali, degli ostacoli che ci si trova davanti; in questo
senso, il riso corregge quei comportamenti che metterebbero in pericolo la sopravvivenza della
specie. Ad esempio, la storiella in cui un deputato, interpellando il ministro su di un assassinio
famoso, rammenta che il colpevole, dopo aver ucciso la vittima, è sceso dal treno in senso contrario
alla sua direzione ed ha così violato il regolamento, è comica perché nel deputato l’adesione alla
regola ha soffocato la comprensione della vita.

“L’umorismo” di Pirandello

Il saggio pirandelliano è del 1908, posteriore dunque a quello di Bergson da cui risulta parzialmente
influenzato. Pirandello vi ha lavorato dal 1904, anno di pubblicazione di “Il fu Mattia Pascal“; le
due opere (il romanzo ed il saggio) sono espressione di un’unica maturazione artistica ed
esistenziale che ha coinvolto lo scrittore siciliano all’inizio del ‘900 e che vede come centrale
proprio la poetica dell’umorismo. L’originalità di questa concezione sta nella distinzione tra
“comico” ed “umoristico” in senso stretto; se il primo viene inteso come “avvertimento del
contrario“, quindi come pura intuizione di una contraddizione (e qui sta l’eco di Bergson),
l’umorismo è inteso come “sentimento del contrario“, l’elaborazione razionale e successiva del
comico, una riflessione che porta ad un sentimento di identificazione e compassione nei confronti
della persona di cui ci si prende gioco. Tale sentimento ha le sue radici nella natura del ‘contrario’
analizzato dall’umorista: anche qui si tratta del conflitto tra la forza profonda della vita e le
cristallizzazioni della forma; tuttavia qui la vita appare irrimediabilmente soffocata dalla forma,
incarnata dall’ideologia, dalle convenzioni, dalle leggi civili e dal meccanismo stesso della vita
associata. Anche Bergson aveva notato che “proprio come la vita dello spirito può essere
ostacolata nel suo realizzarsi dalle esigenze della macchina corporea, così la forma della vita
sociale può soffocarne il senso“, ma per Pirandello questo soffocamento è intrinseco e strutturale
nella vita associata. D’altronde lo stesso ’slancio’ che permea la vita ha perso le connotazioni
positive dello spiritualismo francese, per assomigliare più ad un caos cieco ed oscuro, più vicino
alle concezioni irrazionaliste di fine ‘800 ed alla caratterizzazione dell’inconscio. La
“meccanizzazione” dunque non è più l’anomalia sociale da correggere, ma l’autoinganno con cui
l’uomo cerca di dare un senso all’ informità della vita; in particolare, nel rapporto con gli altri
l’autoinganno prende la forma della ‘maschera’, dell’(auto)imposizione del soggetto di un’identità
fissa e predefinita dai valori morali e culturali, un’identità necessariamente percepita come estranea
ed inautentica. Ecco allora che sottolineare questi autoinganni, descrivere l’erompere saltuario della
vita dalla forma significa partecipare del dramma dell’uomo, combattuto tra bisogno di certezze e il
bisogno di aderire alla realtà autentica della vita : il “sentimento del contrario” è paragonato al dio
Giano bifronte, in quanto è riso e pianto insieme.

“Il motto di spirito” di Freud

La riflessione di Freud si distingue dalle precedenti perché, più che definire l’approccio alla realtà
che è espresso nell’umorismo, mira a descrivere i meccanismi psichici che ne sono alla base -
meccanismi che Freud allaccia alla teoria psicoanalitica; lo studio si limita inoltre alle
manifestazioni verbali del comico. Quest’ultimo è visto come meccanismo comunicativo che
permette al soggetto di esprimere i contenuti dell’inconscio, solitamente repressi, in modo non
traumatico o aggressivo per l’interlocutore. La capacità di “far passare” questi contenuti
(riconducibili all’istinto sessuale ed all’aggressività) eludendo la censura del Super-Io è resa
possibile da un lavoro che il soggetto inconsapevolmente attua al fine di mascherare questa carica
psichica all’interno del motto di spirito; l’insieme di queste regole di codificazione, detto processo
primario, include il doppio senso, la condensazione, lo spostamento: processo rintracciabile anche
in quell’appagamento di un desiderio frustrato che è il sogno, e non a caso per Freud l’umorista
“sogna ad occhi aperti”. Il piacere associato al riso è riconducibile proprio a questo risparmio di
energia psichica: non solo il soggetto è riuscito a comunicare al suo interlocutore la propria carica
psichica, ma è riuscito a farlo evitando gli affetti penosi che avrebbero turbato la comunicazione
qualora la censura del Super-Io fosse stata violata apertamente

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