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SUPPLEMENTI DI LEXIS

DIRETTI DA VITTORIO CITTI E PAOLO MASTANDREA

LX
______________________________________________________

NUOVI ARCHIVI E MEZZI D'ANALISI


PER I TESTI POETICI

I lavori del progetto Musisque Deoque


Venezia 21-23 giugno 2010

a cura di Paolo Mastandrea e Linda Spinazzè

ADOLF M. HAKKERT EDITORE


AMSTERDAM 2011
Pubblicato con il contributo di fondi PRIN 2007
Università Ca' Foscari Venezia - Dipartimento di Studi Umanistici

ISBN 978-90-256-1265-8
Sulla tradizione di Marziale

La nostra conoscenza della tradizione manoscritta di Marziale deve moltissimo agli


studi di Wallace M. Lindsay, il quale, nella fondamentale edizione del 1903 (ristam-
pata con poche modifiche nel 19291), accompagnata dall’altrettanto importante
studio The Ancient Editions of Martial2, ha gettato le basi su cui si sono fondate tutte
le successive edizioni. Sebbene infatti già Schneidewin avesse distinto le tre
famiglie nelle quali si ripartiscono i codici medievali di Marziale, in un’edizione3 i
cui meriti, notevoli per l’epoca, sono stati giustamente riconosciuti e messi in risalto
da Sebastiano Timpanaro4, si deve a Lindsay lo studio più rigoroso e approfondito
dei caratteri delle tre famiglie, risalenti a edizioni tardoantiche, e una conoscenza
nettamente migliore, rispetto ai precedenti editori, della seconda famiglia, la cosid-
detta ‘recensio gennadiana’, dal nome di Torquato Gennadio, che nel 401 curò a
Roma l’edizione di Marziale dalla quale derivano i manoscritti in nostro possesso,
come rivelano le sottoscrizioni che vi sono apposte5. Lindsay infatti ipotizzò per i
manoscritti di questa famiglia un archetipo in beneventana e ne riscoprì, collazionò e
per primo utilizzò il rappresentante più autorevole, L, un manoscritto di XII secolo6,
oltre a valorizzare un altro codice umanistico (f)7, a lungo ritenuto un testimone
interpolato di poco o nessun conto.
Persino Housman, spesso contrapposto proprio a Lindsay nell’eterna antitesi tra
filologi ‘conservatori’ e ‘innovatori’, riconobbe la grandezza del Marziale di
Lindsay formulandone un alto elogio nel recensire circa venti anni dopo l’edizione
di Wilhelm Heraeus8. Studi successivi, tra i quali meritano di essere menzionati
quelli di Michael Reeve9, pur precisando alcuni dettagli, non hanno modificato il
quadro generale tracciato da Lindsay, e anzi si può dire che, a parte qualche ec-
cezione – che non definisco ‘lodevole’, poiché come editore del terzo libro sono
parte in causa – gli editori di singoli libri o dell’intera opera di Marziale hanno com-
pletamente trascurato l’aspetto della recensio10, basandosi sull’apparato di Lindsay o

1
Lindsay 1929, da cui cito.
2
Lindsay 1903.
3
Schneidewin 1842.
4
Timpanaro 1985, 61 s.; vd. anche Citroni 1975, XXXVIII ss.
5
Su cui fondamentale Pecere 1986, 34 ss.
6
Berlin, Lat. 2° 612.
7
Firenze, Biblioteca Laurenziana, plut. 35, 39.
8
«Students of Martial now live in an age which was begun by Professor Lindsay’s edition of 1903,
one of those works which are such boons to mankind that their shortcomings must be forgiven
them. All that energy could do in the investigation or skill and industry in the collation of MSS
was done, and the fruits of this labour were condensed in an apparatus criticus of the most
admirable lucidity» (Housman 1925, 199 [= Housman 1972, 1099]).
9
Reeve 1980; 1983.
10
Dopo Citroni 1975 hanno costituito un testo basato su una nuova collazione dei testimoni princi-
pali soltanto Canobbio 2002 per gli epigrammi appartenenti al ciclo del libro V oggetto della sua
monografia, Coleman 2006 per il cosiddetto Liber de spectaculis e chi scrive per l’edizione com-
mentata del libro III (Fusi 2006). Per il commento al IV libro Moreno Soldevila 2006 ha fornito un
apparato basato su quello di Lindsay e su una nuova collazione dei soli codici Q, X e z (solo
Alessandro Fusi

tutt’al più su quello di Heraeus, costituito peraltro su quello di Lindsay e su


collazioni altrui e ancora più selettivo11. Emblematico sotto questo aspetto è
l’atteggiamento dell’ultimo editore teubneriano di Marziale, D.R. Shackleton Bailey,
il quale, notoriamente disinteressato alla recensio, ha addirittura liquidato l’opera di
collazione compiuta da Mario Citroni per il I libro come un inutile arare litus12!
Questo studio, che considero un primo specimen di un lavoro che certo va
condotto in modo più capillare, intende prendere in esame un aspetto specifico, che
mi sembra non abbia ricevuto la dovuta attenzione da parte degli editori di Marziale
(me compreso). E vorrei partire al riguardo da una giusta considerazione di Citroni,
il quale, al termine della sua approfondita disamina della tradizione di Marziale,
osserva: «Da quanto si è detto si intende che ai fini della costituzione del testo
l’accordo di due famiglie contro una non ha molta importanza»13. Infatti, in assenza
di un archetipo, inteso come capostipite comune di tutta la tradizione in nostro pos-
sesso, non è possibile utilizzare il criterio di maggioranza nella scelta delle varianti.
Eppure tutti gli editori, Citroni compreso, sono stati condizionati da una sorta di
‘lachmannismo inconsapevole’ e hanno finito, in molti casi incerti, per affidarsi
proprio al criterio di maggioranza, soprattutto laddove una variante potesse vantare
l’accordo tra la prima famiglia, giustamente considerata la migliore, e un’altra (poco
importa se seconda o terza14).
Partirò per questa piccola esemplificazione da due casi che considero piuttosto
certi per proporre poi un’ipotesi e un altro esempio.
Gli editori moderni di Marziale, a partire da Schneidewin nella seconda edizione
del 185315 fino a chi scrive16, considerano spurio l’epigramma 3, 3:
Formosam faciem nigro medicamine celas,
sed non formoso corpore laedis aquas.
Ipsam crede deam verbis tibi dicere nostris:
“Aut aperi faciem, aut tunicata lava”.
Si tratta, con ogni evidenza, di un epigramma di mediocre fattura, privo di una
pointe arguta e collocato in modo del tutto inadeguato all’interno di una coerente se-
zione incipitaria, costituita da ben quattro epigrammi dedicatori (1, 2, 4, 5). Diversi
elementi, sia linguistici che relativi all’assetto librario, conducono verso l’opera di
un falsario17. Ma una prova certa della sua non autenticità è data, credo, dalla
necessità di ammettere lo iato in cesura al v. 4 (faciem, aut) per evitare la sinalefe tra
i due emistichi del pentametro, una caratteristica metrica ancora ammessa da Ca-

quest’ultimo peraltro, Madrid, Bibl. Nat. 10.098, non utilizzato dai precedenti editori: cf. 24); su
questa scelta ‘ibrida’ vd. le giuste perplessità sollevate in sede di recensione da Canobbio 2008, 228 s.
11
Come notava Citroni 1975, XLII: «Dopo il Lindsay le ricerche sulla tradizione del testo di M. sono
quasi completamente cessate, se si eccettuano pochi contributi su questioni particolari».
12
Shackleton Bailey 1990, XI.
13
Citroni 1975, LXXIII.
14
Riflessioni pienamente condivisibili sul pregiudizio che sta a monte di alcune scelte degli editori
di Marziale ha espresso Mondin 2009, 91-97, riesaminando alcuni casi alla luce di un attento
vaglio intertestuale.
15
Schneidewin 1853.
16
Fusi 2006.
17
Si veda quanto ho scritto in Fusi 2006, 129 s.

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Sulla tradizione di Marziale

tullo18, ma sempre evitata da Marziale. Ora, questo epigramma è tramandato da


prima e terza famiglia, ma è omesso dalla seconda.
Un altro esempio è costituito da 9, 73, che riporto secondo l’edizione di Lindsay:
Dentibus antiquas solitus producere pelles
et mordere luto putre vetusque solum,
Praenestina tenes defuncti rura patroni,
in quibus indignor si tibi cella fuit;
rumpis et ardenti madidus crystalla Falerno 5
et pruris domini cum Ganymede tui.
At me litterulas stulti docuere parentes:
quid cum grammaticis rhetoribusque mihi?
Frange leves calamos et scinde, Thalia, libellos,
si dare sutori calceus ista potest. 10
L’epigramma prende di mira un ciabattino il quale, partito da una condizione misera,
posta in risalto nel distico incipitario attraverso l’insistenza sull’aspetto più sordido e
ripugnante della sua professione, è ora divenuto un ricco proprietario terriero e condu-
ce una vita dedita al lusso (vv. 3-6). Al v. 7 s. l’ego loquens se la prende con i propri
stulti parentes, colpevoli di avergli fatto studiare le litterulae, concludendo (9 s.) con
un invito alla propria Musa, Talia, a distruggere calami e libelli, gli strumenti della
poesia, visto che un calceus concede tali ricchezze a un ciabattino.
Il senso di questa chiusa è stato ben illustrato da Parroni19, che ha mostrato in modo
persuasivo come l’affermazione di Marziale relativa ai suoi stulti parentes non sia
certo uno sfogo meschino o un’invettiva ingenerosa, dettata da ingratitudine, come
pure era stato sostenuto da alcuni, ma vada intesa, come molte altre del poeta, in senso
paradossale: «Poveri illusi i miei genitori – vuol dire in definitiva il poeta –, gente
d’altri tempi, che hanno creduto nella cultura e nei valori dello spirito in un mondo in
cui trionfa solo il denaro e chi sa procurarselo a qualsiasi costo»20. Ho citato le parole
di Parroni perché mi sembrano esprimere in modo chiaro lo spirito di questi versi, uno
spirito forse non lontano da quello di chi si occupa di cultura e di poesia oggi.
E ancora allo studio di Parroni si deve la definitiva risoluzione di un problema
testuale presente al v. 3: qui defuncti rura, accolto da Lindsay e prima di lui da
Gilbert21, è la lezione di prima e terza famiglia, mentre la seconda reca la variante
decepti regna. Questa lezione è senz’altro superiore, come già intuito da Heraeus,
che la accolse nel testo22: infatti regna appare senz’altro più adeguato dello scialbo
rura a esprimere l’idea di lusso della tenuta del sutor23 – un lusso radicalmente
contrapposto alla precedente condizione di servitù e miseria, rappresentata dalla

18
Sullo iato in Catullo vd. ora l’esauriente e persuasivo Biondi 2003.
19
Parroni 1979.
20
Parroni 1979, 835 s.
21
Gilbert 1896.
22
Poco persuasiva, anche se non impossibile, la contaminazione tra le due varianti effettuata da Schnei-
dewin (1842 e 1853) e Friedlaender 1886 che stampavano decepti rura. Friedlaender peraltro
mostrava in apparato una certa propensione per defuncti rura chiosata con un «vielleicht richtig».
23
Che si trattasse di una zona pregiata mostra chiaramente la chiusa di 4, 64, in cui Preneste è
nominata in un elenco di località rinomate: Vos nunc omnia parva qui putatis, / centeno gelidum
ligone Tibur / vel Praeneste domate pendulamque / uni dedite Setiam colono (4, 64, 31-34).

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Alessandro Fusi

cella del v. 424 – ed è perfettamente coerente con l’usus di Marziale, come mostra il
confronto con 4, 40, 3 praetulimus tantis solum te, Postume, regnis, dove il
sostantivo designa i ricchi possedimenti dei Pisoni e di Seneca, con 12, 31, 8 has
Marcella domos parvaque regna dedit, riferito alla tenuta donata al poeta dalla con-
terranea Marcella al suo ritorno nella natia Bilbilis, e soprattutto con 12, 57, 19
Petilianis delicatus in regnis, dedicato alla ricca tenuta di Sparso, un autentico rus in
urbe (21). Meno pertinente invece riterrei il confronto con Verg. ecl. 1, 67-6925, che
pure è stato citato quale possibile antecedente per l’uso enfatico di regna26. Piuttosto
mi sembra opportuno osservare che il nesso composto da regna unito ad aggettivo
toponimico realizza un modulo di ascendenza epica, che mette in risalto con
efficacia la magnificenza della tenuta27. E ancora regna tenere è iunctura assai ben
attestata nella poesia latina dattilica28. Dunque Praenestina regna, come già
sostenuto da Parroni, «ha […] maggior risalto rispetto allo scolorito Praenestina
rura, in quanto introduce il concetto di una immeritata successione, aggiungendo un
nuovo tocco alla sinistra figura del ciabattino, che, dati i precedenti, appare piuttosto
un usurpatore che un erede»29. Il sutor insomma, lascia chiaramente intendere Mar-
ziale, è un servus indegno divenuto rex!
Anche decepti appare nettamente superiore a defuncti: mentre il secondo non è
altro che la constatazione di un fatto ed esplicita quanto emerge da sé dal testo
dell’epigramma – ovvero che il patronus è morto lasciando erede il ciabattino –,
decepti, come già osservato da Heraeus30, «crimen tecte notat». Il participio allude,

24
Per la contrapposizione cella / regnum, che corrisponde a quella servus / rex, appare istruttivo il
confronto con AL 472, 5 s. vilis servus habet regni bona, cellaque capti / deridet Vestam
Romuleamque casam.
25
En umquam patrios longo post tempore finis / pauperis et tuguri congestum caespite culmen, /
post aliquot, mea regna, videns mirabor aristas?
26
Per cui cf. anche Cic. de orat. 1, 41 nisi hic in tuo regno essemus, cit. da Henriksén 1999.
27
Cf., ad es., per limitarsi agli esempi virgiliani, Aen. 1, 338 Punica regna vides; 3, 115 placemus
ventos et Gnosia regna petamus; 3, 185 et saepe Hesperiam, saepe Itala regna vocare; 6, 14
Daedalus, ut fama est, fugiens Minoia regna; 6, 798 huius in adventum iam nunc et Caspia regna;
8, 507 succedam castris Tyrrhenaque regna capessam; vd. anche Cic. Att. 14, 16, 1 ipse autem eo
die in Paeti nostri tyrotarichum imminebam; perpaucis diebus in Pompeiano, post in haec
Puteolana et Cumana regna renavigare, citato da Henriksén 1999. In Marziale cf. 7, 64, 3
Sicanias urbes Aetneaque regna petisti; 10, 103, 10 mutavere meas Itala regna comas,
quest’ultimo allude esplicitamente al verso eneadico e richiama in modo evocativo il ‘sogno
italico’ (cf. anche Ov. epist. 4, 11 s. certus es, Aenea, cum foedere solvere naves / quaeque ubi
sint nescis, Itala regna sequi?).
28
Cf. specialmente Ov. Ibis 327 quaeque in Aphidantum Phylacesia regna tenentem; 345 utque
Dryantiadae Rhodopeia regna tenenti, nei quali regna è accompagnato da aggettivo toponimico;
ma anche Lucr. 5, 1130; Verg. Aen. 7, 735; Prop. 2, 16, 28; 32, 52; Ov. ars 3, 118; epist. 1, 106;
4, 132; met. 5, 277; 10, 15. 35; 11, 284; 13, 649; fast. 2, 384; 3, 271; 4, 92; 5, 84; trist. 2, 19;
Lucan. 5, 81; Val. Fl. 8, 211; Claud. 18, 212. Ringrazio Crescenzo Formicola per aver richiamato
la mia attenzione sul nesso, suggerendomi le occorrenze properziane. Di contro rura tenere non
può vantare altrettanti modelli e, soprattutto, l’espressione può assumere un significato piuttosto
differente: cf., ad es., Verg. Aen. 4, 525-7 cum tacet omnis ager, pecudes pictaeque volucres, /
quaeque lacus late liquidos quaeque aspera dumis / rura tenent; Ov. met. 3, 1 s. iamque deus,
posita fallacis imagine tauri, / se confessus erat Dictaeaque rura tenebat.
29
Parroni 1979, 838.
30
Heraeus 1976, XLI.

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Sulla tradizione di Marziale

in modo velato e con la brevitas caratteristica dell’epigramma, all’inganno che il


sutor ha perpetrato ai danni del suo patronus, conquistandone la fiducia, dobbiamo
dedurre, con mezzi non onesti per carpirne l’eredità31. Decepti perciò aggiunge una
notazione importante per lo sviluppo complessivo dell’epigramma, che con defuncti
andrebbe persa. Mentre decepti regna è impensabile come prodotto di un interpo-
latore, defuncti rura si può invece spiegare benissimo come interpolazione o glossa
penetrata nel testo, opera dunque, consapevole o meno, di un copista incapace di
cogliere le sfumature nascoste tra le pieghe del testo.
Decepti regna è dunque senz’altro la lezione corretta32 ed è infatti accolta, dopo
Heraeus, da Izaac33, Giarratano nella seconda edizione34, Shackleton Bailey, fino a
Henriksén nel commento al IX libro35, L. e P. Watson36 e Fernández Valverde,
autore della più recente edizione di Marziale37.
Ora, se decepti regna è, come credo sia stato dimostrato in modo abbastanza
persuasivo, la lezione originale, rimane da spiegare un fatto che è stato finora, a
quanto mi sembra, piuttosto trascurato, ovvero la presenza di defuncti rura nei codici
di prima e terza famiglia. Si tratta infatti di una variante che senza dubbio, in termini
maasiani, non potrebbe essere definita se non Bindefehler o error coniunctivus38. Mi
sembra evidente che qui l’ipotesi di errore poligenetico si può tranquillamente
escludere: due copisti avrebbero potuto forse corrompere in modo indipendente regna
in rura, con scarsa probabilità avrebbero potuto corrompere decepti in defuncti, ma
credo che si possa considerare pressoché impossibile che essi, in modo indipendente,
abbiano potuto corrompere decepti regna in defuncti rura. Lo stesso discorso vale per
3, 3: se l’epigramma è spurio, la sua presenza nello stessa posizione nei codici di
prima e di terza famiglia non può essere frutto di errore indipendente.
A questo punto si aprono due ipotesi: la prima è la presenza di un subarchetipo
comune alle due famiglie; la seconda è la contaminazione. Tertium non datur. Come

31
Per l’uso di decipere opportunamente Parroni 1979, 839, rinvia a 4, 56, 6 callida sic stultas
d ecip it esca feras, dove la similitudine riguarda proprio un captator; cf. anche 5, 18, 6-8 odi
dolosas munerum et malas artes: / imitantur hamos dona: namque quis nescit / avidum vorata
decipi scarum musca? All’obiezione formulata da Henriksén 1999, 88 s. che il sutor non possa
essere assimilato a un captator in quanto privo dei mezzi necessari per dare la caccia alle eredità,
Parroni ha risposto persuasivamente nella recensione al commento (Parroni 2002, 376 s.), citando
Petron. 75, 11-76, 2, dove Trimalchione racconta i mezzi non proprio commendevoli che ha usato
per entrare nelle grazie del suo dominus. Che il captator non facesse ricorso necessariamente alle
sole risorse economiche dimostrano anche i consigli che Tiresia fornisce a Ulisse in Hor. sat. 2, 5.
Non persuade affatto l’ipotesi di Shackleton Bailey 1989, 141, di intendere il participio
nell’accezione, attestata in ambito epigrafico, di immature mortuus (sc. morte deceptus: vd. ThLL
V 1, 178, 75 ss.): infatti i paralleli addotti sono inseriti in contesti ben diversi e contengono un
esplicito riferimento alla morte che qui mancherebbe, come già rilevato da Parroni 1993, 60 e
Watson – Watson 2003, 281.
32
Dello stesso avviso Schmid 1984, 430.
33
Izaac 1933.
34
Giarratano 1951.
35
Henriksén 1999.
36
Watson – Watson 2003.
37
Fernández Valverde 2004.
38
Reeve 1983, 243 cita quali errori significativi condivisi da prima e terza famiglia 3, 3; 7, 18, 9 s.;
9, 71, 6; 12, 40, 3-6. La lista può però essere accresciuta.

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Alessandro Fusi

stiano realmente le cose è difficile dire e solo un riesame capillare della tradizione
potrà fornire qualche elemento in più per illuminare una fase della trasmissione del
testo che con difficoltà sulla base dei testimoni attualmente in nostro possesso
possiamo ricostruire con una certa sicurezza. Quello che a me pare ora è che l’ipo-
tesi di contaminazione tra le due famiglie, entrambe originarie della Francia39, meriti
qualche considerazione in più dell’altra, anche perché tra le due famiglie sono ben
più numerosi i Trennfehler, gli errores separativi40. Comunque stiano le cose, è evi-
dente che, sulla scorta di quanto osservato, nella costituzione del testo di Marziale si
debba oggi valutare caso per caso senza ripiegare su comodi quanto malsicuri criteri
di maggioranza. I casi che meritano un riesame sono numerosi: di alcuni mi occupo
in altra sede e perciò tralascio di farlo qui; altri riguardano perturbazioni, senz’altro
meno significative, dell’ordo verborum e varianti, potremmo dire, adiafore (e in
questi casi, proprio perché di minor rilievo, mi sembra che il criterio di maggioranza
sia stato seguito in modo forse più meccanico). Vorrei però citare un altro esempio
in cui, nella scelta tra le varianti, il criterio di maggioranza ha pesato probabilmente
in modo eccessivo, prevalendo sulla corretta valutazione del contesto.
Si tratta di 9, 25, 6. Riporto di seguito l’intero epigramma secondo l’edizione di
Lindsay:
Dantem vina tuum quotiens aspeximus Hyllum,
lumine nos, Afer, turbidiore notas.
Quod, rogo, quod scelus est mollem spectare ministrum?
Aspicimus solem, sidera, templa, deos.
Avertam vultus, tamquam mihi pocula Gorgon 5
porrigat atque oculos oraque nostra petat?
Trux erat Alcides, et Hylan spectare licebat;
ludere Mercurio cum Ganymede licet.
Si non vis teneros spectet conviva ministros,
Phineas invites, Afer, et Oedipodas41. 10
L’epigramma, come altri di Marziale, è ambientato in una situazione conviviale42 ed
è completamente incentrato sullo sguardo (prova ne sia l’eccezionale concentrazione
dei verbi riferiti all’azione di vedere, che lo costellano quasi in ogni verso: cf. 1
aspeximus; 2 lumine … turbidiore notas; 3 spectare; 4 aspicimus; 7 spectare; 9

39
E in Francia, ma nel XII sec., si riteneva finora che la contaminazione tra la prima e la terza
famiglia avesse avuto inizio, per opera del compilatore del cosiddetto Florilegium Gallicum (vd.
Reeve 1983, 241 s.).
40
È giusto ricordare che lo stesso Lindsay nella praefatio della sua edizione (Lindsay 1929, [XVII])
aveva affacciato l’ipotesi di fonti comuni tra gli archetipi delle famiglie e di contaminazione:
«Illud etiam est monendum, consensum archetyporum nonnunquam speciosiorem quam veriorem
esse, siquidem fieri potest ut aut duo archetypa casu in eundem errorem delapsa sint aut archetypi
unius contaminatus ex altero contextus sit aut ex eodem vitioso fonte ambo archetypa sint deri-
vata, ut: IX, vi, 4 non vis, Afer, havere: vale] Afer non vis AACA. X, xxx, 1 O temperatae dulce
Formiae litus] temperante BACA». E tuttavia nella pratica ecdotica raramente lo studioso si è disco-
stato dall’accordo di due famiglie contro una e lo ha fatto per lo più nel caso di accordo di βγ
contro α.
41
L’epigramma mostra evidenti analogie con Stratone, AP 12, 175, ma presenta anche spiccate
peculiarità (rinvio al riguardo all’accurata analisi di Floridi 2007, 167-170).
42
Affinità con questo testo presenta 10, 98, di cui mi sono occupato in una nota recente (Fusi 2008).

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Sulla tradizione di Marziale

spectet). Afer, il padrone di casa, è infastidito dagli sguardi maliziosi che gli ospiti
rivolgono al suo coppiere Hyllus. Dopo aver formulato al v. 3 s. la difesa che guar-
dare un delicato coppiere non è uno scelus, così come non lo è ammirare bellezze
quali il sole, gli astri, i templi, le statue degli dèi, il poeta concentra nell’ultima se-
zione dell’epigramma (5-10) una sequenza eccezionale di lusus mitologici, propo-
nendone anche varianti sconosciute43: infatti al v. 5 s. l’ego loquens si domanda
scherzosamente se debba comportarsi come se a porgergli le coppe di vino fosse nien-
temeno che la Gorgone, il mitico mostro in grado di pietrificare con il suo sguardo
chiunque lo incrociasse; quindi al v. 7 s. propone quali modelli di ‘tolleranza’ due
celeberrimi exempla mitici di omoerotismo (Ercole e Ila; Giove e Ganimede): nono-
stante Ercole fosse feroce, era consentito guardare Ila, così come a Mercurio è con-
sentito ludere con Ganimede, coppiere nonché amasio di Giove; infine nell’ultimo
distico egli propone all’anfitrione l’unica soluzione per impedire ai commensali di
guardare i suoi delicati coppieri: invitare a cena soltanto ciechi come Fineo e Edipo.
Al v. 6 la tradizione presenta due varianti: petat è nella prima e terza famiglia
(Tγ), tegam nella seconda (β). La lezione di Tγ è preferita in sostanza da tutti gli
editori moderni di Marziale (Schneidewin, Friedlaender, Lindsay, Heraeus, Izaac)
fino a Shackleton Bailey, che ha stampato invece quella di β. Lindsay 1903, 26,
inserisce il verso tra quelli per i quali la scelta tra le varianti è «estremamente
incerta». Nei casi catalogati in tal modo e elencati alle pp. 23-29 però, è bene sottoli-
nearlo, soltanto due volte su trentacinque (corrispondenti al 5,71%) lo studioso
britannico si discosta dall’accordo della prima famiglia con un’altra (7, 18, 9; 9, 67,
2) e, in generale, accoglie lezioni tràdite da una sola famiglia per lo più solo quando
si tratta della prima. Shackleton Bailey, pur compiendo come in molti altri casi una
scelta originale rispetto al testo vulgato, si limita in apparato, con il consueto spirito
polemico, a bacchettare i precedenti editori che avevano accolto petat, «mirum quam
inconsulte». Una considerazione degna di interesse però egli la propone pochi anni
dopo in nota al suo Marziale pubblicato nella Loeb44, quando, dopo aver ribadito in
modo certo meno aggressivo che la variante petat preferita dagli editori «is wrong»,
osserva: «the Gorgon did not attack faces, she turned people who look upon her face
to stone». Su questa osservazione bisognerà ritornare.
Dopo Shackleton Bailey se Henriksén, fedele al testo di Heraeus, è ritornato a
petat nel suo commento al IX libro45, tegam è stato sostenuto da Parroni nella recen-
sione a Henriksén46 e accolto da Watson – Watson e da Fernández Valverde. Per
Henriksén: «both readings give acceptable meanings, petat seems nonetheless pre-
ferable, as it implies that is not only Martial who looks at the boy, but also that the
boy gives him inviting glances»47. Quest’ultima argomentazione non ha convinto
Parroni, il quale osserva giustamente che «un atteggiamento del genere da parte del
coppiere sembra estraneo allo spirito dell’epigramma, in cui si rivendica il diritto di
ammirare la bellezza del puer, così come aspicimus solem, sidera, templa, deos (v. 4)»

43
L’inclinazione erotica di Mercurio nei confronti di Ganimede, cui Marziale allude anche in 7, 74,
4 sive cupis Paphien seu Ganymede cales, non è attestata nelle fonti in nostro possesso.
44
Shackleton Bailey 1993.
45
Henriksén 1998.
46
Parroni 2002, 376.
47
Henriksén 1998, 137.

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Alessandro Fusi

e aggiunge opportunamente: «Tegam, che chiude il verso con un chiasmo, appare


decisamente preferibile (ed è giustamente accolto da Shackleton Bailey)». Anche
Watson – Watson ritengono tegam «preferable to the alternative reading petat» e
osservano, in modo analogo a Parroni, che esso: «balances avertam, and the
emphasis is placed, appropriately, on the reaction of the guest». In effetti la difesa di
Henriksén non sembra persuasiva anche per un altro motivo che non è stato posto in
risalto chiaramente: infatti, se si accoglie petat, quest’ultimo va riferito, in primo
luogo, al paragone con la Gorgone e solo indirettamente al coppiere e al suo pre-
sunto atteggiamento nei confronti dell’ego. Ancora Watson – Watson hanno addotto
un altro elemento utile in favore di tegam, richiamando il motivo iconografico di
Perseo che mostra la testa della Gorgone a un gruppo di Satiri, i quali non solo
distolgono il volto, ma anche lo coprono con le mani e le braccia48.
La questione merita senz’altro un riesame, anche perché, come vedremo, le due
varianti non sono state esaminate in relazione alla tradizione poetica.
Innanzitutto bisogna dire che a favore della lezione della seconda famiglia milita
senz’altro l’ordo verborum difficilior, per la disposizione in cornice del distico di
avertam e tegam49 e per il chiasmo (avertam vultus … oculos oraque nostra tegam).
E proprio questa elaborata disposizione del periodo può spiegare la genesi della
corruttela: infatti la presenza a inizio di v. 6 di porrigat seguito dalla congiunzione
atque facilmente avrebbe potuto indurre a ritenere anche il verbo in conclusione
coordinato a cornice con il verbo in apertura di pentametro. Una spia di questa filiera
(tegam > tegat > petat) si può scorgere in L, principale rappresentante della seconda
famiglia, che reca tegam come correzione di tegat: infatti, mentre Heraeus sembra
interpretare la lezione tegat della prima mano di L come fonte di quella che egli
considera la corruttela in β, tegam, ipotizzando dunque la filiera petat > tegat >
tegam, io credo che il ragionamento vada rovesciato. L’esame autoptico del
microfilm di L sembra mostrare infatti – pur con tutte le cautele che la collazione su
microfilm impone – che il copista di L ha scritto tegat, probabilmente influenzato da
porrigat in apertura di verso, e si è però corretto inter scribendum50. Appare perciò
piuttosto evidente che l’archetipo della famiglia, come correttamente ipotizzato da
Lindsay, recava tegam, lezione tràdita concordemente dagli altri testimoni della
famiglia51, oltre che da L post correctionem. D’altro canto la lezione di β, con buona
pace di Heraeus, appare più difficile da spiegare come corruttela.
Nella preferenza per petat, bisogna riconoscerlo con franchezza, sembra finora
aver soprattutto pesato il consenso di due famiglie, tra le quali la prima, contro una.
La scelta può però essere orientata con un’indagine del testo più approfondita di
quanto sia stato fatto fino ad oggi. Infatti entrambe le varianti vantano un sostegno
intertestuale, che a quello che mi consta non è stato utilizzato nella discussione.
Partiamo da petat: l’espressione oculos oraque nostra petat è modellata con ogni
probabilità su Ov. met. 10, 347-351:

48
LIMC VII, s.v. Perseus, nn. 32, 33, 67, 68.
49
Cf., ad es., 9, 92, 3 s. dat tibi securos vilis tegeticula somnos, / pervigil in pluma Gaius, ecce,
iacet.
50
In ogni caso, a fronte dell’accordo degli altri testimoni, tegat di L sarebbe senz’altro da consi-
derare errore singularis.
51
Pf (che non ho però rivisto personalmente). L’epigramma è omesso da Q.

- 130 -
Sulla tradizione di Marziale

Tune eris et matris paelex et adultera patris?


Tune soror nati genetrixque vocabere fratris?
Nec metues atro crinitas angue sorores,
quas facibus saevis oculos atque ora petentes 350
noxia corda vident?
Il passo appartiene al monologo pronunciato da Mirra in met. 10, 319-355. Al culmi-
ne delle proprie fantasticherie la figlia di Cinira tenta di autoconvincersi a rifuggire
lo scelus che pure tanto desidera attraverso una serie di interrogative retoriche che
rappresentano gli argomenti che la razionalità oppone all’istinto. Le sorores descritte
ai vv. 349-351 sono le Erinni, demoni identificati con le Furiae dai Romani, che
perseguitano i colpevoli di delitti, specialmente contro la famiglia, e assalgono,
armate di terribili fiaccole, i loro occhi e il loro volto52. La descrizione ovidiana in-
fluenza poi con ogni evidenza quella di Octavia, 118 s.:
facibus atris armat (sc. umbra Britannici) infirmas manus
53
oculosque et ora fratris infestus petit.
Il v. 350 di Ovidio, autore peraltro imitatissimo da Marziale, sembrerebbe una signi-
ficativa conferma per petat, in aggiunta al consenso di due famiglie: oculos atque
ora petentes appare indubitabilmente vicino a oculos oraque nostra petat. Eppure
c’è una differenza sostanziale tra i due passi: Ovidio (e sulla sua scorta l’autore
dell’Octavia) descrive le Erinni e il loro modo di perseguitare i colpevoli
assalendone il volto. Ma, come ha giustamente posto in risalto Shackleton Bailey, la
Gorgone non assaliva le sue vittime: era il suo sguardo a pietrificare i malcapitati
che lo avessero incrociato. In qualche modo era la vittima stessa, attraverso i suoi
occhi, a essere causa della propria rovina. Ed è proprio per questo che Marziale se ne
serve per il suo spiritoso paragone: è lo sguardo dell’ego e degli ospiti, come è stato
già posto in risalto, al centro dell’epigramma. Né sembra plausibile che un poeta
dotto come l’epigrammista abbia fatto confusione tra mostri mitici54. Del resto
petere oculos (o ora, vultus, vultum, e simili) non può significare altro che ‘assalire
occhi’, ‘volto,’ ecc., come mostrano chiaramente i seguenti loci desunti dal The-
saurus55: cf. Lucr. 5, 1318 s. irritata leae iaciebant corpora saltu / undique et
adversum venientibus ora petebant; Hor. epod. 5, 93 petamque vultus umbra curvis
unguibus; Oct. 615 flammisque vultus noxios coniunx petit; Auson. epigr. 76, 5 s.

52
Un tratto questo, secondo Bömer 1980, da attribuire alla fantasia poetica di Ovidio («ein Zug, der
m.W. von den Erinyen sonst nicht bekannt ist und der wahrscheinlich seine Existenz poetischer
Phantasie [s.o.] verdankt»). Lo studioso cita quali esempi dell’espressione oculos petere e sim.
anche Tib. 1, 6, 70; Liv. 7, 26, 5; Oct. 118 s.; Plin. nat. 8, 33 e rinvia a ThLL IX 2, 444, 8 ss.
53
La derivazione ovidiana di questi versi è posta in risalto da Bömer 1980 e da Ferri 2003.
54
È sufficiente a escludere questa eventualità la presenza di avertam vultus al v. 5, poiché questa è
la reazione caratteristica di quanti tentano di sottrarsi allo sguardo pietrificatore della Gorgone: cf.
Ov. met. 5, 178-180 ‘auxilium’ Perseus ‘quoniam sic cogitis ipsi,’ / dixit ‘ab hoste petam. vultus
avertite vestros, / siquis amicus adest.’ et Gorgonis extulit ora (vd. anche 4, 656 ipse retro versus
squalentia protulit ora; 5, 214 avertitur).
55
ThLL X 2, s.v. peto, 1951, 48-66; vd. anche ThLL IX 2, s.v. oculus, 444, 8 ss.

-131-
Alessandro Fusi

eminus ergo icto rediit lapis ultor ab osse / auctorisque sui frontem oculosque petit.
Insomma, petat presenta difficoltà di senso che sono state forse sottovalutate56.
A me sembra perciò che la lezione di prima e terza famiglia sia da considerare
una variante certamente antica, dovuta alla mano di un copista che, conoscendo il
passo ovidiano o altri esempi poetici, ha pensato che il verbo in conclusione del
verso fosse coordinato a porrigat e ha corretto di conseguenza.
Ma a favore di tegam non militano soltanto le ragioni stilistiche che sono state
addotte: infatti la lezione di β può vantare a proprio sostegno anche un altro
argomento positivo, finora non considerato. Bisogna ancora far ricorso all’inter-
testualità, ed è ancora Ovidio il modello. Già Lindsay e Patricia Watson avevano
osservato a proposito dell’immagine della Gorgone: «The best known event
involving the Gorgon took place at a banquet (Ov. met. 5); this may have suggested
M.’s analogy here»57.
Io credo che l’osservazione colga nel segno e che il brano delle Metamorfosi
relativo a Perseo e alla Gorgone possa essere utile a dirimere con una certa sicurezza
anche la questione testuale di un epigramma che, come notato in precedenza,
presenta nella seconda parte una voluta insistenza sul mito. In met. 4, 793-803 viene
descritta l’origine della Gorgone:
Hospes ait: “Quoniam scitaris digna relatu,
accipe quaesiti causam. clarissima forma
multorumque fuit spes invidiosa procorum 795
illa, neque in tota conspectior ulla capillis
pars fuit; inveni, qui se vidisse referret.
Hanc pelagi rector templo vitiasse Minervae
dicitur: aversa est et castos aegide vultus
nata Iovis texit, neve hoc inpune fuisset, 800
Gorgoneum crinem turpes mutavit in hydros.
Nunc quoque, ut attonitos formidine terreat hostes,
pectore in adverso, quos fecit, sustinet angues”.
L’hospes che prende la parola al v. 793 è Perseo e il suo racconto, che segue quello
dell’impresa della Medusa (765-789), rappresenta l’αἴτιον della metamorfosi della
Gorgone (790-2 ante exspectatum tacuit tamen; excipit unus / ex numero procerum
quaerens cur sola sororum / gesserit alternis immixtos crinibus angues). Al v. 799 s.
Ovidio descrive la reazione di Minerva alla vista dello stupro perpetrato nel suo
tempio da Nettuno ai danni della fanciulla: la dea si volge dall’altra parte per l’or-
rore e copre il volto con l’egida (aversa est et castos aegide vultus / nata Iovis texit).
Come sottolinea Rosati nel suo recente commento: «il gesto di Minerva, che si volta
e si copre gli occhi […] per non vedere Medusa, vittima dello stupro di Nettuno, è

56
Anche l’accezione di ‘minacciare’ (per cui vd. OLD, s.v. peto, nr. 2b), presente, ad es., nella tra-
duzione di Izaac 1933 (‘Faut-il détourner la face, comme si la Gorgone me présentait la coupe et
menaçait mes yeux et ma figure?’) e nella nota di Friedlaender 1886 (‘mit ihrem versteinernden
Blick auf mich zielt’), presuppone un’idea di aggressione ostile assente nelle rappresentazioni
della Gorgone.
57
Watson – Watson 2003, 211. Per Henriksén 1998, 137: «The introduction of the Gorgon may
perhaps be influenced by AP 6, 126 (Dioscorides), on the Cretan warrior Hyllus, who wore a
picture of a Gorgon on his shield». L’ipotesi sembra però un po’ troppo lambiccata.

- 132 -
Sulla tradizione di Marziale

innovazione di Ovidio e non sembra aver paralleli nelle altre fonti del mito»58. Ma
ancor più interessante e acuta è la successiva notazione dello studioso: «è evidente
che qui Ovidio rilegge il gesto di Minerva come un’anticipazione di quello che sarà
necessario per chiunque vorrà evitare la ‘morte di pietra’ prodotta dalla vista di
Medusa: cfr. vultus avertite e avertitur a V 179 e 214»59. Dunque il binomio averti e
vultus tegere rappresenta l’azione indispensabile per sottrarsi al fatale sguardo pietri-
ficatore della Gorgone e trova il suo antecedente e modello nella reazione di Mi-
nerva. Io credo dunque che senz’altro Marziale abbia scritto tegam, alludendo al
contesto ovidiano dove si narra dell’origine della Gorgone e della doppia reazione di
Minerva che distoglie il volto e lo copre per non vedere lo scelus perpetrato nel suo
tempio, innovazione a quanto sembra di Ovidio. In tal modo l’effetto umoristico
risulta senz’altro accresciuto poiché la doppia protezione di volgersi dall’altra parte
e coprirsi il volto garantisce la totale preclusione di quello sguardo che il dominus
vorrebbe vietare ai suoi ospiti (da qui discende il suggerimento conclusivo di
invitare commensali ciechi).
Se dunque è tegam la lezione originale, mi sembra che anche in questo caso
l’ipotesi di errore indipendente nella prima e terza famiglia, pur non da escludere
risolutamente come nel caso di 9, 73, 3, non sia certo delle più probabili.
In conclusione spero che questo studio, ancora, ripeto, in fase embrionale, mostri
quantomeno che, per la natura della tradizione di Marziale, le scelte nella
costituzione del testo dell’epigrammista debbano essere condotte contemperando
con equilibrio stemmatica e iudicium o, in altri termini, storia della tradizione e
critica del testo; e in particolare, mi auguro di aver dimostrato che l’accordo tra
prima e terza famiglia, da cui Lindsay si distaccava raramente e solo in casi
pressoché certi, non va considerato un elemento risolutivo a favore di una variante in
quanto su di esso grava fortemente il sospetto del ‘morbo’ contro il quale non è stato
trovato ancora alcun rimedio: la contaminazione.

Alessandro Fusi hvfus@tin.it

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58
Barchiesi – Rosati 2007, 351.
59
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Convegno internazionale, Perugia, 13-15 settembre 2007, a c. di L. Zurli, Roma 2009.

- 136 -
SOMMARIO

Paolo Mastandrea e Luigi Tessarolo Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1

Le edizioni di Musisque Deoque: metodo, prassi e tipologie testuali


Andrea Bacianini, ‘Musisque Deoque’ e la rappresentazione informatica
della poesia figurata . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15
Martina Venuti, L’apparato digitale di Virgilio. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 29
Isabella Canetta, Lauinia / Lauina (Aen. 1,2): variante testuale e testi-
monianze indirette. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 35
Elisabetta Saltelli, Poesia epigrafica: le nuove acquisizioni in ‘Musisque
Deoque’ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 43
Linda Spinazzè, Risalire alle fonti: dall’edizione ‘Musisque Deoque’ ai
testimoni manoscritti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 59

Letture del testo assistite dalla strumentazione elettronica


Tiziana Brolli, Polifemo e le metafore nautiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 75
Crescenzo Formicola, Oltre l’archetipo: ipotesti letterari e testimonianze
codicologiche (‘specimina’ da Lucrezio e Sidonio) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 89
Alessandra Romeo, Memorie ‘georgiche’ nell’epos ovidiano: in margine
al mito di Esaco nell’XI libro delle ‘Metamorfosi’ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 99
Alessandro Franzoi, Note di lettura al testo dei ‘Remedia’ di Ovidio . . . . . 109
Andrea Cozzolino, Echi medievali del I libro della ‘Pharsalia’ . . . . . . . . . 117
Alessandro Fusi, Sulla tradizione di Marziale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 123
Enrico Maria Ariemma, Da Marsiglia a Sagunto: prove di guerra civile da
Lucano a Silio Italico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 137
Emanuela Colombi, L’allusione e la variante: Giovenco e Silio Italico . . . 157
Amedeo Alessandro Raschieri, Lettori tardoantichi e medievali di Avieno 187
Angelo Luceri, Un ritratto ... d’altri tempi: Naucellio, ‘Epigr. Bob.’ 7 e una
possibile eco umanistica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 197
Luca Mondin, ‘Simplicitas ignava’: testo e intertesto di Alc. Avit.
‘carm.’ 2, 98-99 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 217
Maria Nicole Iulietto, Il ‘de apro mitissimo’ di Lussorio (c. 292 R =
Happ = 287 SB) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 227
Paola Paolucci, Dall’‘Alcesta’ centonaria ad alcune chiose di lettura nella
tradizione a monte del Salmasiano (Par. Lat. 10318) . . . . . . . . . . . . . . . . . 239

Note sugli autori e abstracts 251

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