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N.B.: Si dice sempre tubazioni, non tubature.

Obiettivo dell’ingegneria sanitaria ambientale è da un lato quello di depurare le


acque di scarico al fine di non inquinare le falde, dall’altro quello di potabilizzare l’acqua
prima dell’invio all’utenza.

Distribuzione dell’acqua sul pianeta

L’acqua è il composto maggiormente presente sul nostro pianeta. In particolare sulla


Terra vi sono circa 13.600.000.000 𝐾𝑚3 d’acqua, tuttavia non tutta è della stessa qualità.
- Il mare contiene il 97% del totale d’acqua, ma presenta un’eccessiva quantità di
sale e non è utilizzabile né per uso potabile né per l’irrigazione;
- I ghiacciai costituiscono il 2,2% dell’acqua, ma anch’essa non è utilizzabile. Tale
acqua è ferma perché i ghiacciai hanno un ricambio in un tempo dell’ordine di
migliaia di anni;
- L’aliquota restante, seppur in percentuale molto bassa, è l’acqua potabile.

Ciclo idrologico naturale

Il ciclo idrologico naturale è il processo compiuto dalle particelle d’acqua per effetto
di fenomeni naturali, all’interno dell’idrosfera terrestre.
Consideriamo le particelle d’acqua in sospensione costituenti una nuvola. In questa
circostanza l’𝐻2 𝑂 è pura. Quando le gocce d’acqua sospese unendosi tra loro diventano
sufficientemente pesanti, l’acqua precipita sulla superficie terrestre sotto forma di pioggia,
neve o grandine. Precipitando, l’acqua si arricchisce di sostanze costituenti l’atmosfera,
come 𝑂2 ed 𝑁2 . Scendendo verso gli strati più bassi si arricchisce anche di 𝐶𝑂2 , con il
quale l’acqua reagisce formando acido carbonico secondo la reazione di equilibrio
𝐻2 𝑂 𝐶𝑂2 𝐻2 𝐶𝑂3
+ ⇌
Acqua Anidride carbonica Acido carbonico
Quindi l’acqua piovana, cadendo, si arricchisce in 𝑂2, 𝑁2 , 𝐶𝑂2, acido carbonico e anche
microorganismi. A questo punto l’acqua può giungere in mare, su terreno montuoso o su
terreno pianeggiante. Se la pioggia cade su di un terreno montuoso calcareo, come ad
esempio quello degli appennini, l’acqua, che contiene 𝐶𝑂2, reagisce con il carbonato di
calcio secondo la reazione
𝐶𝑎𝐶𝑂3 𝐻𝑂 𝐶𝑂2 𝐶𝑎(𝐻𝐶𝑂3 )2
+ 2 + ⇌
Carbonato di calcio Acqua Anidride carbonica Bicarbonato di calcio
Il bicarbonato di calcio è molto solubile in acqua e si muove con essa. Dunque l’acqua si
arricchisce in 𝐶𝑎2+ ed 𝐻𝐶𝑂3− mentre la montagna si erode. Questo fenomeno è detto del
carsismo.
Se la pioggia cade sul suolo pianeggiante, in parte ruscella e in parte si infiltra
alimentando le falde acquifere. Queste piogge, già ricche delle sostanze atmosferiche,
tendono a reagire anche con le sostanze presenti nel suolo con le quali vengono a
contatto. In particolare in questa fase l’acqua delle nostre zone si arricchisce di 𝐹𝑒, 𝑀𝑛 e
𝐴𝑠 (ferro, magnesio e arsenio) in quanto il terreno è vulcanico.
In ogni caso, ruscellando o infiltrandosi, l’acqua giunge infine in mare. Il mare, i laghi e i
fiumi sono dei serbatoi d’acqua dai quali l’𝐻2 𝑂 può evaporare e ricondensare
nell’atmosfera, dando nuovamente vita al ciclo.

Ciclo dell’acqua sottoposta a trattamenti antropologici

Per poter utilizzare l’acqua per fini antropologici (ad esempio nei centri urbani, nelle
industrie, ecc.), questa va quasi sempre trattata, in quanto non idonea allo scopo. Quindi
si individua un corpo idrico da cui prelevarla e, prima di inviarla all’utenza, si interviene con
un impianto in cui se ne modificano le caratteristiche. Tali impianti sono detti impianti di
trattamento delle acque di approvvigionamento o, nel caso particolare in cui l’utenza sia
un sito urbano e quindi l’acqua deve essere resa potabile, si parla di impianti di
potabilizzazione (I.P.).
Dall’utenza l’acqua viene poi restituita all’ambiente in un corpo idrico ricettore. Tuttavia
non deve accadere che l’acqua, che si è contaminata, vada ad alterare gli equilibri che
sussistono in esso. Per questo motivo si utilizzano degli impianti detti impianti di
trattamento delle acque reflue o, più sinteticamente, impianti di depurazione (I.D.).
Schematicamente

Metodi di misura della qualità dell’acqua

Da un punto di vista tecnico è possibile misurare tutti i composti presenti nell’acqua,


eseguendo dunque un’analisi rigorosa. Questo metodo, tuttavia, presenta evidenti
controindicazioni di costi e di tempo necessari. Per risolvere il problema sono stati
introdotti una serie di parametri che permettono di classificare la qualità dell’acqua. Questi
conferiscono informazioni certamente meno precise rispetto all’analisi rigorosa, però sono
abbastanza esaustivi e sono i più utilizzati. I parametri di misura si suddividono in tre
categorie: parametri fisici, parametri chimici e parametri biologici/microbiologici.

Parametri fisici
ST
La prima misura che si effettua per valutare la qualità di un’acqua è quella dei solidi
totali in essa contenuti.
Per misurare tale parametro si raccoglie un campione e si lascia evaporare
completamente l’acqua, riscaldandola fino ad una temperatura di 105°. L’apparecchiatura
in cui si esegue il processo è la stufa e l’acqua vi rimane per circa 2h. Una volta evaporata
l’acqua si pesano i solidi residui per differenza tra il peso del contenitore e quello dello
stesso quando è vuoto. Poiché, chiaramente, la massa dei solidi residui è funzione del
volume del campione considerato, i ST si esprimono come una concentrazione, ossia
come rapporto tra la massa dei solidi e il volume del campione [mg/l].
Nel campo delle acque potabili il parametro viene definito residuo fisso a 180° e si esprime
sempre in [mg/l].
Poiché i solidi totali non danno alcuna informazione in merito alla natura dei solidi presenti
nell’acqua, esistono altri parametri più specifici.

STV e STNV
Tali parametri servono ad indicare il contenuto di solidi organici e inorganici
contenuti nell’acqua. Questa distinzione è fondamentale in quanto gran parte delle
sostanze organiche sono biodegradabili, ovvero danno luogo in maniera spontanea ad
una serie di processi di trasformazione.
Per effettuare la misura si sfrutta la differenza di volatilità tra le sostanze organiche e
inorganiche. Raccolti quindi i solidi totali dalla stufa, questi vengono trattati in un’altra
apparecchiatura, detta muffola, dove subiscono un riscaldamento fino alla temperatura di
600-700°C, alla quale la parte organica brucia e passa alla fase areiforme, ottenendo la
divisione desiderata. La parte inorganica, infatti, subirebbe la stessa trasformazione a
temperature più alte, circa 900-1000°C. Si effettua quindi la pesatura dei solidi inorganici
residui alla stregua di quanto visto per i solidi totali. Si ottiene in questo modo la
concentrazione dei STNV, che si esprime sempre in [mg/l]. Quella dei STV si ricava per
differenza dai ST.

SST e SD
Un solido sospeso è un solido che conserva la propria identità in acqua (ad
esempio la sabbia), mentre un solido disciolto vi si disperde a livello molecolare (ad
esempio il sale). Per misurare questo parametro si esegue il filtraggio. Si prende un
campione d’acqua e lo si versa in un contenitore con collo di dimensioni standard. Sul
collo è sistemato un filtro: nello scorrere dell’acqua all’interno del contenitore rimangono
intrappolati nel filtro i solidi con dimensioni superiori a quelle dei fori. La dimensione dei
fori del filtro è anch’essa standardizzata ed è pari a 0.45 𝜇𝑚. Per prassi, si ritiene che tutti i
solidi rimasti sul filtro sono sospesi, mentre quelli all’interno del contenitore sono disciolti.
In realtà si tratta semplicemente di una convenzione in quanto esistono solidi sospesi con
dimensioni inferiori ai 0.45 𝜇𝑚. Per effettuare la misura si raccolgono i solidi residui sul
filtro, li si sottopone a seccatura e quindi a pesatura. In questo modo si ottiene il peso dei
solidi sospesi totali, mentre i disciolti si ottengono per differenza dai solidi totali. Anche i
SST e i SD si esprimono in [mg/l].

SSS, SSF e SSC


Le forze che agiscono sui solidi sospesi sono forze di massa e forze di superficie
(elettriche). Questi solidi sono suddivisi in tre categorie in base alla forza che, su di essi,
prevale rispetto alle altre.
Nei solidi sospesi sedimentabili e nei solidi sospesi flottanti le forze di massa prevalgono
su quelle di superficie. In particolare i SSS hanno un peso specifico superiore a quello
dell’acqua, dunque la forza peso è maggiore di quella di Archimede e, dopo un certo
tempo in cui l’acqua è lasciata in quiete, questi solidi si depositano sul fondo, ossia
sedimentano. Viceversa accade per i SSF, che flottano e vengono a galla. I solidi sospesi
colloidali, invece, hanno dimensioni sufficientemente piccole da subire principalmente
forze di superficie e rimangono in sospensione: non flottano né sedimentano.
Per misurare questi parametri si utilizza un cono con capacità di 1l, detto cono di Imhoff
dal nome del medico che lo ha inventato. Tale cono viene riempito con il campione
d’acqua che si vuole analizzare, preventivamente sottoposto a filtrazione per rimuovere i
SD, e si aspettano convenzionalmente 2h. I solidi sospesi sedimentari occuperanno il
volume sul fondo del cono, e si esprimono come rapporto tra il volume da essi occupato e
quello dell’acqua iniziale [mg/l].
I solidi sospesi flottanti rimangono invece in superficie, e si misurano con lo stesso metodo
visto per i SSS [ml/l].
Per misurare i solidi sospesi colloidali si preleva l’acqua dalla zona centrale del cono, che
contiene quindi esclusivamente questo tipo di solidi, e viene messo in una stufa,
utilizzando lo stesso metodo visto per i ST. I SSC si esprimono quindi come una
concentrazione [mg/l].

Colore
L’acqua di approvvigionamento destinata alla potabilizzazione deve essere
incolore, ma principalmente per questioni psicologiche. Infatti, se ad esempio l’acqua
contiene del ferro, che è bene per l’uomo assumere, questa si colora di rosso e non viene
bevuta.
Per misurare il colore dell’acqua questa viene confrontata con una serie di soluzioni
acquose di platino e cobalto di composizione nota. Tali metalli, infatti, colorano l’acqua in
funzione della loro concentrazione.

Odore e sapore
Tali parametri hanno significato nel caso in cui l’acqua sia destinata ad impianti di
potabilizzazione. L’acqua potabile deve risultare infatti insapore e inodore.
Un campione d’acqua viene fatto valutare da persone esperte. Nel caso in cui l’acqua
abbia odore e sapore, questa viene miscelata con un volume equivalente di acqua
distillata, e quindi si esegue nuovamente la valutazione. Il procedimento viene iterato
fintantoché l’acqua può essere considerata inodore e insapore. Questi parametri si
esprimono mediante il tasso di diluizione, definito come
𝑉
𝑇. 𝐷. = 𝑉 𝑓𝑖𝑛𝑎𝑙𝑒 .
𝑖𝑛𝑖𝑧𝑖𝑎𝑙𝑒

Torbidezza
La torbidezza è un’ulteriore misura del contenuto dei solidi sospesi. Questa si
valuta facilmente e fornisce informazioni supplementari, ovvero è un indice non solo del
contenuto dei solidi sospesi, ma anche del loro grado di frazionamento.
Per misurare la torbidezza si utilizza il nefelometro, un’apparecchiatura costituita da tre
parti: una sorgente luminosa di lunghezza d’onda e intensità note, un vano trasparente per
accogliere il campione d’acqua da analizzare e un rilevatore d’intensità di raggi luminosi.
Mediante il nefelometro, quindi, è possibile misurare l’assorbimento della luce che passa
attraverso il campione; tanto più l’acqua è torbida, tanto maggiore è l’assorbimento.
L’unità di misura della torbidezza è l’unità equivalente di formazina, una soluzione
acquosa torbida. Si preparano vari campioni in diverse concentrazioni e se ne misura
l’assorbimento della luce. In questo modo si ottiene una scala di taratura con la quale
confrontare il valore di assorbimento del campione analizzato.

Conducibilità
La conducibilità di un’acqua, ossia la sua capacità di condurre corrente elettrica, è
tanto maggiore quanto più alta è la concentrazione di specie ioniche disciolte.
La conducibilità si misura tramite una sonda da inserire nel campione d’acqua e si esprime
𝜇𝑆
in ⁄𝑐𝑚 (𝑆 = Siemens). Il legame tra conducibilità e concentrazione di specie ioniche
disciolte è dato dal rapporto
𝜇𝑆
𝑐𝑜𝑛𝑑𝑢𝑐𝑖𝑏𝑖𝑙𝑖𝑡à [ ⁄𝑐𝑚]
~1 ÷ 2
𝑐𝑜𝑛𝑐𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑠𝑝𝑒𝑐𝑖𝑒 𝑖𝑜𝑛𝑖𝑐ℎ𝑒 [𝑚𝑔⁄ ]
𝑙

Parametri chimici

𝐁𝐎𝐃𝟓 (Biochemical Oxygen Demand)


La maggior parte delle sostanze organiche, in presenza di microorganismi, dà vita
spontaneamente a trasformazioni chimiche. Queste sostanze sono dette biodegradabili,
mentre le specie organiche che non si trasformano si dicono non biodegradabili.
Le reazioni cui danno luogo le sostanze biodegradabili sono catalizzate da
microorganismi, in quanto questi ultimi traggono nutrimento da tali sostanze
scomponendone gli elementi che le costituiscono, quindi si riproducono. I prodotti di
queste reazioni sono pertanto nuovi microorganismi e specie organiche più semplici.
Questi processi, di tipo biochimico, possono avvenire in due modalità: in condizioni
aerobiche o in condizioni anaerobiche. Nel primo caso le trasformazioni decorrono con
disponibilità illimitata di ossigeno e sono del tipo
𝑐𝑜𝑛𝑑𝑖𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑎𝑒𝑟𝑜𝑏𝑖𝑐ℎ𝑒
𝐶𝑎 𝐻𝑏 𝑂𝑐 𝑁𝑑 → 𝑛𝑢𝑜𝑣𝑖 𝑚𝑖𝑐𝑟𝑜𝑜𝑟𝑔𝑎𝑛𝑖𝑠𝑚𝑖 + 𝐶𝑂2 + 𝐻2 𝑂
𝑚𝑖𝑐𝑟𝑜𝑜𝑟𝑔𝑎𝑛𝑖𝑠𝑚𝑖
Nel secondo caso l’𝑂2 presente non è sufficiente ad ossidare tutti i prodotti e si ha la
formazione anche di 𝐶𝐻4
𝑐𝑜𝑛𝑑𝑖𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑎𝑛𝑎𝑒𝑟𝑜𝑏𝑖𝑐ℎ𝑒
𝐶𝑎 𝐻𝑏 𝑂𝑐 𝑁𝑑 → 𝑛𝑢𝑜𝑣𝑖 𝑚𝑖𝑐𝑟𝑜𝑜𝑟𝑔𝑎𝑛𝑖𝑠𝑚𝑖 + 𝐶𝑂2 + 𝐻2 𝑂 + 𝐶𝐻4
𝑚𝑖𝑐𝑟𝑜𝑜𝑟𝑔𝑎𝑛𝑖𝑠𝑚𝑖
Il BOD5 (Biochemical Oxygen Demand) è un parametro che rappresenta una misura
indiretta del contenuto di specie organiche biodegradabili in acqua, attraverso il consumo
di ossigeno dovuto alle stesse per via biochimica condotto in condizioni aerobiche.
La reazione aerobica non è istantanea, decorre con una certa velocità dipendente dalla
concentrazione dei reagenti e dalla temperatura. A T=20°C il tempo di esaurimento della
reazione è di circa 20 giorni. Attendere un tempo così lungo è sconveniente, anche perché
la quasi totalità dei reagenti viene consumata nei primi giorni, dopodiché la velocità del
processo si riduce drasticamente.

Va considerato poi che nelle acque reflue urbane vi sono, oltre a specie organiche
biodegradabili, anche sostanze inorganiche in grado di reagire con l’ossigeno, come ad
esempio i composti a base azotata contenuti nelle urine. Le reazioni di ossidazione di
queste specie, tuttavia, sono molto più lente e si innescano dopo circa 6-7 giorni.

Per questi motivi si è scelto convenzionalmente di indicare il contenuto di solidi organici


biodegradabili in riferimento al consumo di ossigeno nei primi 5 giorni dall’inizio del
processo reattivo, da cui il nome BOD5 . Quest’ultimo si esprime in [mg/l] di 𝑂2 consumato.
Esistono tre metodi di misura del BOD5 , e la scelta va effettuata in base al tipo di
acqua da analizzare, ossia all’ordine di grandezza che si prevede per il BOD5 :
- il metodo diretto è adatto ad acque di buona qualità, aventi presumibilmente BOD5
inferiore ai 10 mg/l;
- il metodo per diluizione è utilizzato per acque meno pure, con BOD5 di ordine 10;
- il metodo respirometrico è indicato per le acque reflue, e può misurare 102 ≤
BOD5 ≤ 105 .
Nel metodo diretto si riempie fino all’orlo un contenitore con l’acqua da analizzare,
portata a 20°C e in condizioni di saturazione di ossigeno. L’𝑂2 disciolto infatti, e non in
fase gas, è quello consumato dalla reazione aerobica. Il contenitore viene quindi sigillato e
disposto all’interno di un’apparecchiatura, detta frigotermostato, in grado di mantenere la
temperatura dell’acqua costante e pari a 20°C, e si attendono i 5 giorni necessari
all’esaurimento quasi completo della reazione. Il BOD5 si misura per differenza tra la
concentrazione di ossigeno disciolto all’istante iniziale e all’istante finale.
BOD5 = [𝑂2 ]𝑡=0 − [𝑂2 ]𝑡=5 𝑔𝑖𝑜𝑟𝑛𝑖
La concentrazione di 𝑂2 si misura tramite l’ossimetro, che consiste in una sonda in grado
di leggerne il valore.
Il motivo per il quale il contenitore deve essere riempito fino all’orlo, quindi, è che l’acqua
non deve essere a contatto con l’aria, in quanto ulteriore ossigeno passerebbe alla fase
acquosa nel corso del processo, falsificando il risultato.
Potrebbe accadere che [𝑂2 ]𝑡=5𝑔𝑖𝑜𝑟𝑛𝑖 = 0, ovvero l’ossigeno inizialmente disciolto in acqua,
seppur pari alla quantità di saturazione, non è stato sufficiente a condurre la reazione in
condizioni aerobiche per tutto l’arco di tempo necessario. Il motivo risiede evidentemente
nel fatto che la concentrazione di specie biodegradabili nell’acqua analizzata era superiore
a un certo valore, oltre il quale il metodo diretto risulta inadatto.
Il metodo per diluizione consiste nell’eseguire il metodo diretto ma preceduto dalla
miscelazione del campione con un certo volume di acqua distillata, volume tale da
garantire una riduzione della concentrazione delle specie biodegradabili sufficiente a
condurre il processo in condizioni aerobiche. Chiaramente, il valore di BOD5 ottenuto come
nel metodo descritto in precedenza va, in questo caso, moltiplicato per il tasso di diluizione
BOD5 = ([𝑂2 ]𝑡=0 − [𝑂2 ]𝑡=5 𝑔𝑖𝑜𝑟𝑛𝑖 ) ⋅ 𝑇. 𝐷.
Per 𝑇. 𝐷. > 10, ossia nel caso si rendesse necessario realizzare una miscela composta per
più del 90% di acqua distillata, ovvero solo per meno del 10% dal campione, il metodo per
diluizione si mostra inadeguato al tipo di acqua da analizzare.
Nel metodo respirometrico il campione è versato all’interno di una bottiglia, non
riempendola fino all’orlo, che viene sigillata ed inserita all’interno di un frigotermostato, il
quale la mantiene alla temperatura costante di 20°C. Si attendono quindi 5 giorni, nel
corso dei quali man mano che la reazione procede l’ossigeno nella fase acquosa viene
consumato e quindi riattinto dalla fase gas. Essendo la bottiglia sigillata, per effetto di
questo trasferimento continuo di 𝑂2 si verifica una riduzione della pressione nella fase
areiforme. Tale depressione risulta proporzionale all’ossigeno disciolto nel corso del
processo, ossia a quello consumato. L’𝑂2 già presente inizialmente in acqua è infatti
trascurabile, data la scarsa solubilità dello stesso e gli elevati valori di BOD5 delle acque
analizzate con il metodo respirometrico.
Per evitare che la 𝐶𝑂2 , prodotto di reazione, contribuisca alla variazione di pressione
falsificando la misura, sulla faccia del tappo interna alla bottiglia è presente una pastiglia di
potassa caustica KOH (idrossido di potassio), sostanza che reagisce con l’anidride
carbonica formando carbonato acido di potassio, specie altamente solubile in acqua
+ −
𝐾𝑂𝐻(𝑠) + 𝐶𝑂2(𝑔) → 𝐾(𝑎𝑞) + 𝐻𝐶𝑂3(𝑎𝑞) .
La depressione, dovuta quindi esclusivamente al consumo di ossigeno, si misura tramite
un manometro a pressione. Esistono anche dei tappi in grado di riportare direttamente il
valore di BOD5 .
E’ importante, nel metodo respirometrico, assicurarsi che il volume d’aria rispetto a quello
del campione d’acqua all’interno della bottiglia sia sufficiente a garantire la condizione
aerobica. Per far ciò va eseguita la misura del BOD5 in più bottiglie, ciascuna con un
differente rapporto tra i due volumi suddetti. Il valore del BOD5 risultante da più bottiglie
rappresenterà quello corretto, mentre da un certo volume d’aria a scendere risulteranno
valori sempre più piccoli, in quanto l’ossigeno consumato risulterà pari a quello disponibile,
inferiore al necessario.
Inoltre, talvolta può accadere che per un’acqua reflua si misuri un valore di BOD5 nullo. Ciò
non vuol dire che siano assenti sostanze biodegradabili, trattandosi di una circostanza
impossibile in uno scarico, ma piuttosto che nell’acqua siano presenti sostanze che
inibiscono l’attività biologica, poiché tossiche per i microorganismi, quali ad esempio
metalli pesanti, antibiotici, ecc. Se nelle fogne sono presenti tali sostanze, certamente non
scaricate dalle abitazioni, significa che una qualche industria le sta scaricando
illegalmente. Le industrie, infatti, possono scaricare nelle fogne, ma non senza aver
preventivamente eliminato tutte le specie tossiche inibenti i processi spontanei che
avvengono nell’acqua.

COD (Chemical Oxygen Demand)


Il COD è una misura indiretta di tutte le sostanze organiche, sia biodegradabili che
non, mediante il consumo di ossigeno per via chimica, secondo la reazione
𝐶𝑎 𝐻𝑏 𝑂𝑐 𝑁𝑑 + 𝑜𝑠𝑠𝑖𝑑𝑎𝑛𝑡𝑒 → 𝐶𝑂2 + 𝐻2 𝑂
L’ossidante generalmente utilizzato è il bicromato di potassio 𝐾2 𝐶𝑟2 𝑂7. Per effettuare la
misura si versa l’acqua da analizzare in un contenitore, che viene disposto su una fiamma
in modo tale da portare l’acqua alla temperatura di ebollizione, 100°C, e si aspettano
convenzionalmente 2h. Il contenitore è chiuso ed è dotato di un sistema di refrigerazione
che costantemente ricondensa il vapore appena formatosi. Per accelerare il processo si
utilizza un catalizzatore, in particolare solfato di argento, avendo cura che sia sempre in
eccesso.
Il bicromato consumato si misura per titolazione. Al termine del processo si aggiunge al
campione la ferroina, una sostanza che funge da indicatore in quanto colora l’acqua di
rosso se in essa è presente il bicromato, di verde scuro se è assente. Quindi si aggiunge
ferrammonio solfato che reagisce istantaneamente con il bicromato di potassio, fin quando
l’acqua non si colora di verde scuro. Dal ferrammonio solfato che è stato necessario si
ricava la concentrazione finale di bicromato, che sottratta a quella iniziale fornisce la
quantità di ossidante consumato, da cui il COD. Anche quest’ultimo parametro si esprime
come concentrazione, in particolare come [mg/l] di 𝑂2 consumato. In formule:
𝐶𝑂𝐷 = ([𝐾2 𝐶𝑟2 𝑂7 ]𝑡=0 − [𝐾2 𝐶𝑟2 𝑂7 ]𝑡=2ℎ ) ⋅ 7⁄2 =
= ([𝐾2 𝐶𝑟2 𝑂7 ]𝑡=0 − [𝑓𝑒𝑟𝑟𝑎𝑚𝑚𝑜𝑛𝑖𝑜 𝑠𝑜𝑙𝑓𝑎𝑡𝑜]𝑛𝑒𝑐𝑒𝑠𝑠𝑎𝑟𝑖𝑜 𝑝𝑒𝑟 𝑟𝑒𝑛𝑑𝑒𝑟𝑒 𝑙′𝑎𝑐𝑞𝑢𝑎 𝑣𝑒𝑟𝑑𝑒 ⋅
⋅ 𝑒𝑣𝑒𝑛𝑡𝑢𝑎𝑙𝑒 𝑐𝑜𝑒𝑓𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑠𝑡𝑒𝑐ℎ𝑖𝑜𝑚𝑒𝑡𝑟𝑖𝑐𝑜 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑟𝑒𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑡𝑟𝑎 𝑓𝑒𝑟𝑟𝑎𝑚𝑚𝑜𝑛𝑖𝑜 𝑒 𝑏𝑖𝑐𝑟𝑜𝑚𝑎𝑡𝑜)
⋅ 7⁄2
Nella misura del COD va tenuto presente che in acqua possono essere presenti anche
sostanze inorganiche in grado di reagire con l’ossigeno, come cloruri o 𝐹𝑒2 , e potrebbe
esserci una sovrastima.

COD e BOD
Dalla misura di COD e BOD è possibile determinare la concentrazione di:
- sostanze rapidamente biodegradabili 𝑅𝐵 𝐶𝑂𝐷~𝐵𝑂𝐷5 ;
- sostanze lentamente biodegradabili 𝑆𝐵 𝐶𝑂𝐷~𝐵𝑂𝐷20 − 𝐵𝑂𝐷5 ;
- sostanze non biodegradabili 𝑁𝐵 𝐶𝑂𝐷~𝐶𝑂𝐷 − 𝐵𝑂𝐷20 .

TOC (Total Organic Carbon)


Il TOC indica la quantità totale di carbonio presente in acqua con le specie
organiche. E’ più preciso di COD e BOD ma non è incluso nelle normative, in quanto più
recente, pertanto è meno utilizzato.
Poiché la presenza del carbonio in acqua è dovuto quasi esclusivamente alle sostanze
organiche, per effettuarne la misura si riscalda l’acqua fino ad una temperatura di circa
900°C, alla quale l’𝐻2 𝑂 è vapore e tutte le sostanze organiche volatilizzano, in particolare
tali sostanze passano alla fase gas sotto forma di 𝐻2 𝑂 e 𝐶𝑂2. Dalla misura della quantità di
𝐶𝑂2 si ricava quella di 𝐶 appartenente alle sostanze organiche sia biodegradabili che non.
Il TOC è dunque assimilabile al COD, e si esprime in [mg/l] di 𝐶.

Durezza
La durezza rappresenta la concentrazione di ioni con valenza 2+ provenienti dai sali
solubili in acqua, ed è un parametro che ha senso solo per le acque di
approvvigionamento. La durezza è dovuta sostanzialmente alla presenza degli ioni 𝐶𝑎2+
ed 𝑀𝑔2+ .
I sali di calcio e magnesio disciolti in acqua sono 8:
1) 𝐶𝑎𝐶𝑂3 carbonato di calcio;
2) 𝐶𝑎(𝐻𝐶𝑂3 )2 bicarbonato di calcio;
3) 𝐶𝑎𝐶𝑙2 cloruro di calcio;
4) 𝐶𝑎𝑆𝑂4 solfato di calcio;
5) 𝑀𝑔𝐶𝑂3 carbonato di magnesio;
6) 𝑀𝑔(𝐻𝐶𝑂3 )2 bicarbonato di magnesio;
7) 𝑀𝑔𝐶𝑙2 cloruro di magnesio;
8) 𝑀𝑔𝑆𝑂4 solfato di magnesio;
La gran parte della durezza è data dai bicarbonati, in quanto i carbonati, in particolare
𝐶𝑎𝐶𝑂3, sono molto poco solubili.
L’unità di misura della durezza è la concentrazione di 𝐶𝑎𝐶𝑂3 equivalente.
L’acqua può essere classificata in funzione della durezza:
- acqua molle, se ha una durezza 𝐷 < 50 𝑚𝑔⁄𝑙 di 𝐶𝑎𝐶𝑂3;
- acqua poco dura, se ha una durezza 50 𝑚𝑔⁄𝑙 < 𝐷 < 150 𝑚𝑔⁄𝑙 di 𝐶𝑎𝐶𝑂3;
- acqua dura, se ha una durezza 150 𝑚𝑔⁄𝑙 < 𝐷 < 350 𝑚𝑔⁄𝑙 di 𝐶𝑎𝐶𝑂3;
- acqua molto dura, se ha una durezza 𝐷 > 350 𝑚𝑔⁄𝑙 di 𝐶𝑎𝐶𝑂3.
Inoltre esistono diverse classificazioni della durezza:
- durezza calcica, dovuta alla presenza degli ioni calcio (dai sali 1, 2, 3, 4);
- durezza magnesiaca, dovuta alla presenza degli ioni magnesio (dai sali 5, 6, 7, 8).
Questa classificazione è importante, in quanto 𝐶𝑎2+ ed 𝑀𝑔2+ in acqua vengono trattati
differentemente.
- durezza carbonica (dai sali 1, 2, 5, 6);
- durezza non carbonica (dai sali 3, 4, 7, 8).
Anche in questo caso i trattamenti sono diversi per le due tipologie di sali.
- durezza temporanea (dai sali 1, 2, 5, 6);
- durezza permanente (dai sali 3, 4, 7, 8).
I sali che danno durezza temporanea precipitano al crescere della temperatura, e i sali
sospesi e non disciolti non contribuiscono alla durezza, che è legata alla presenza di
specie ioniche. In particolare, la durezza temporanea si annulla alla 𝑇 di ebollizione.
Alla durezza sono dovuti tutta una serie di problemi.
- La presenza del bicarbonato di calcio, infatti, è legata alla reazione di equilibrio
𝐶𝑎𝐶𝑂3(𝑠) + 𝐻2 𝑂(𝑙) + 𝐶𝑂2(𝑎𝑞) ⇋ 𝐶𝑎(𝐻𝐶𝑂3 )2. Al crescere della temperatura la reazione
si sposta verso sinistra, con formazione di 𝐶𝑎𝐶𝑂3 che, in quanto molto poco
solubile, precipita e sedimenta, formando incrostazioni di calcare. Queste possono
quindi, con il passare del tempo, otturare tutte le tubazioni nelle quali vi è il
passaggio di acqua dura soggetta a un aumento di temperatura, come ad esempio
le tubazioni domestiche, industriali o degli acquedotti. Il calcare offre resistenza allo
scambio termico, pertanto un tubo incrostato scambia peggio il calore, inoltre il tubo
ha una sezione di passaggio minore e quindi aumentano le perdite di carico.
- L’acqua con durezza, inoltre, ha un punto di ebollizione più alto rispetto all’acqua
molle, e ciò comporta un aumento del dispendio di energia.
-In acque dure è poi necessario utilizzare quantità maggiori di detergenti, poiché
questi ultimi reagiscono con i sali.
- In lavatrice, i precipitati potrebbero essere trattenuti dai tessuti, indurendoli.
- I sali che danno durezza hanno effetto lassativo, e possono provocare calcoli renali.
La durezza non va eliminata completamente nelle acque destinate all’uso potabile, le quali
devono contenere una certa quantità di sali in quanto utili all’organismo, mentre l’acqua di
processo destinata agli stabilimenti industriali non deve avere durezza, poiché è
continuamente soggetta a variazioni di temperatura, con conseguente formazione di
incrostazioni e incrementi di dispendi energetici per le ragioni suddette.

Diagramma di Tillmann (o degli equilibri carbonatici)

(1) 𝐶𝑎𝐶𝑂3(𝑠) + 𝐻2 𝑂(𝑙) + 𝐶𝑂2(𝑎𝑞) ⇌ 𝐶𝑎(𝐻𝐶𝑂3 )2(𝑎𝑝)

[𝐶𝑎(𝐻𝐶𝑂3 )2 ]𝑒𝑞
= 𝐾𝑒𝑞
[𝐶𝑂2 ]𝑒𝑞

[𝐶𝑎(𝐻𝐶𝑂3 )2 ]
1. < 𝐾𝑒𝑞
[𝐶𝑂2 ]
Accade se l’acqua piovana, ricca di 𝐶𝑂2, non è venuta a contatto con carbonato di
calcio. In tal caso l’acqua risulta acida ed ha un’azione corrosiva sulle tubazioni,
venendo pertanto detta acqua aggressiva. Un’acqua di questo tipo va
preventivamente sottoposta a strippaggio di 𝐶𝑂2, ossia un processo che consiste
nell’agitazione dell’acqua per permettere il rilascio dei gas.
[𝐶𝑎(𝐻𝐶𝑂3 )2 ]
2. > 𝐾𝑒𝑞
[𝐶𝑂 ] 2
In questa circostanza la (1) si sposta verso sinistra con conseguente formazione di
carbonato di calcio, il quale essendo insolubile in acqua provoca incrostazioni sulle
pareti delle tubazioni, con tutti i problemi che ne derivano. In tal caso l’acqua è
detta appunto incrostante, e va sottoposta preventivamente ad insufflazione di 𝐶𝑂2 .
L’insufflazione è un processo che consiste nell’immissione in acqua di una corrente
di anidride carbonica, ridotta in bolle di piccole dimensioni per mezzo di un
diffusore.
[𝐶𝑎(𝐻𝐶𝑂3 )2 ]
3. = 𝐾𝑒𝑞
[𝐶𝑂 ]
2
E’ la condizione ottimale, ma chiaramente anche la meno frequente, nella quale
non si verificano le problematiche di cui sopra. Mediante lo strippaggio o
l’insufflazione di 𝐶𝑂2 nel caso rispettivamente di acqua aggressiva o incrostante, ci
si pone quindi l’obiettivo di raggiungere le condizioni più prossime a quelle di
equilibrio.

pH
Il 𝑝𝐻 è una funzione matematica definita come
𝑝𝐻 = −𝑙𝑜𝑔10 [𝐻 + ], con [𝐻 + ] ∈ [10−14 ; 1] ⟹ 𝑝𝐻 ∈ [0; 14].
La reazione di dissociazione dell’acqua e la relativa costante di equilibrio sono, infatti,
+ −
𝐻2 𝑂(𝑙) ⇌ 𝐻(𝑎𝑞) + 𝑂𝐻(𝑎𝑞) , 𝐾𝑒𝑞 = [𝐻 + ][𝑂𝐻 − ] = 10−14 .
Poiché in acqua pura [𝐻 + ] = [𝑂𝐻 − ] si ha 𝐾𝑒𝑞 = [𝐻 + ]2 = 10−14 ⟹ [𝐻 + ] = 10−7 ⟹ 𝑝𝐻 = 7.
L’acqua con 𝑝𝐻 = 7 si dice neutra, con 𝑝𝐻 < 7 acida, con 𝑝𝐻 > 7 basica o alcalina.
Studiare il 𝑝𝐻 è importante perché:
- Regola l’equilibrio di molte reazioni chimiche.
Nelle acque reflue urbane si trova lo ione ammonio 𝑁𝐻4+
+ −
(2) 𝑁𝐻4(𝑎𝑞) + 𝑂𝐻(𝑎𝑞) ⇌ 𝑁𝐻3(𝑙) + 𝐻2 𝑂(𝑙)
L’ammoniaca è 10 volte più tossica dello ione ammonio, e nel passaggio del 𝑝𝐻 da
7 a 8 la reazione (2) si sposta verso destra;
- Regola la disinfezione.
Nella fase di disinfezione si aggiunge 𝐶𝑙2 all’acqua, dando luogo alla reazione
+ −
(3) 𝐶𝑙2(𝑔) + 𝐻2 𝑂(𝑙) ⇌ 𝐻𝐶𝑙𝑂 + 𝐻(𝑎𝑞) + 𝐶𝑙(𝑎𝑞)
(𝐻𝐶𝑙 è un acido forte e in acqua è sempre dissociato completamente).
L’acido cloridrico 𝐻𝐶𝑙 non ha potere disinfettante, mentre lo possiede l’acido
ipocloroso 𝐻𝐶𝑙𝑂. In acqua
+ −
(4) 𝐻𝐶𝑙𝑂 ⇌ 𝐻(𝑎𝑞) + 𝐶𝑙𝑂(𝑎𝑞)
Lo ione ipoclorito 𝐶𝑙𝑂− ha potere disinfettante nettamente inferiore.
Il pH regola gli equilibri (3) e (4), determinando l’efficienza della disinfezione.
𝑝𝐻 < 5 (3) a sinistra Prevalenza di 𝐶𝑙2, senza
(4) a sinistra potere disinfettante
𝑝𝐻 = 5 (3) a destra Prevalenza di HClO,
(4) a sinistra massimo potere
disinfettante
𝑝𝐻 > 5 (3) a destra Prevalenza di 𝐶𝑙𝑂− , basso
(4) a destra potere disinfettante

- L’acqua acida corrode le tubazioni.


- L’acqua acida danneggia flora e fauna dei corpi idrici. Il valore ottimale di 𝑝𝐻 per la
vita appartiene all’intervallo ]6.5; 8[.
- Il 𝑝𝐻 regola l’attività microbica nei processi biologici di depurazione dell’acqua. Il
controllo del 𝑝𝐻, quindi, se vengono utilizzati processi biologici anziché fisici o
chimici, è fondamentale perché potrebbe disturbare o addirittura inibire l’attività dei
microrganismi.

Alcalinità
Misura la capacità dell’acqua di neutralizzare l’acidità, ossia il suo potere tampone. Le
specie ioniche che conferiscono all’acqua tale potere sono:
- 𝑂𝐻 − ione idrossido
- 𝐻𝐶𝑂3− ione bicarbonato
- 𝐶𝑂32− ione carbonato
che reagiscono spontaneamente con 𝐻 + secondo le reazioni di equilibrio
− +
𝑂𝐻(𝑎𝑞) + 𝐻(𝑎𝑞) ⇌ 𝐻2 𝑂(𝑙)
− +
𝐻𝐶𝑂3(𝑎𝑞) + 𝐻(𝑎𝑞) ⇌ 𝐻2 𝐶𝑂3(𝑠)
2− + −
𝐶𝑂3(𝑎𝑞) + 𝐻(𝑎𝑞) ⇌ 𝐻𝐶𝑂3(𝑎𝑞)
L’alcalinità è data dalla somma delle concentrazioni di queste tre specie.

Nutrienti
Per nutrienti si intendono gli elementi e i composti che costituiscono le cellule,
pertanto sono responsabili della loro crescita e indispensabili per la vita.
I nutrienti sono:
𝑁𝑎+ , 𝐾 + , 𝐶𝑎2+ , 𝑀𝑔2+ detti oligoelementi, sono necessari in
piccole quantità. In acqua sono presenti in
misura sufficiente per la vita;
𝐶, 𝑂, 𝐻, 𝑁, 𝑃 Sono necessari in grandi quantità.
𝐶, 𝑂, 𝐻 sono disponibili in larga misura,
mentre 𝑁 e 𝑃 non sono sempre disponibili,
pertanto sono detti nutrienti essenziali.
Tuttavia, se questi ultimi sono in eccesso,
comportano l’eutrofizzazione dei corpi idrici.
Un eccesso di nutrienti essenziali, infatti, causa una eccessiva crescita di vegetali in
acqua. Le alghe hanno un effetto positivo in quanto producono 𝑂2 per mezzo della
fotosintesi clorofilliana ma, se presenti in eccesso, quando in inverno muoiono e fungono
da cibo per i batteri, questi ultimi consumano 𝑂2 per decomporle con velocità maggiore di
quella di solubilizzazione dell’ossigeno stesso in acqua. L’assenza di 𝑂2 in acqua è una
situazione detta di anossia: le specie animali muoiono, diventando a loro volta cibo per i
batteri, i quali in condizioni anaerobiche possono sopravvivere e producono sostanze
tossiche per le piante. Con questo processo, dunque, scompaiono le forme di vita.
Le forme in cui l’azoto 𝑁 si trova in acqua sono:
- 𝑁2(𝑎𝑞) , azoto gas solubilizzato, presente in piccole quantità, inerte;
+
- 𝑁𝐻4(𝑎𝑞) , ione ammonio disciolto, è indice di inquinamento, proviene da scarichi
civili non trattati adeguatamente;
- 𝑁𝑜𝑟𝑔𝑎𝑛𝑖𝑐𝑜 , proviene da scarichi civili non trattati, è contenuto nelle proteine;
- 𝑁𝑂2− , nitriti, e 𝑁𝑂3− , nitrati, possono essere di origine naturale e non. Nel secondo
caso provengono dai fertilizzanti.
+
𝑁𝐻4(𝑎𝑞) ed 𝑁𝑜𝑟𝑔𝑎𝑛𝑖𝑐𝑜 sono le specie azotate in forma ridotta e provengono dalle acque
reflue. 𝑁𝑂2− ed 𝑁𝑂3− sono in forma ossidata e sono assenti negli scarichi.
Per calcolare la concentrazione di 𝑁 dovuta allo ione ammonio basta osservare che
𝑀𝑁 14
= = 0.77 ⇒ [𝑁] = 0.77[𝑁𝐻4 ]
𝑀𝑁𝐻4 18
Per conoscere [𝑁] dovuto a tutti i suoi composti in forma ridotta si utilizza il TKN (Total
Kjeldhal Nitrogen). Tale parametro è importante in quanto le specie azotate in forma
ridotta riversate in un corpo idrico superficiale tendono a reagire con l’𝑂2 disciolto,
abbassandone la concentrazione e, di conseguenza, favorendo l’eutrofizzazione.
Per conoscere la quantità di 𝑁 in tutte le sue forme, eccetto quella gas, si usa il TN (Total
Nitrogen).
Il fosforo 𝑃 è presente in acqua sotto forma di fosfati 𝑃𝑂43− . Esso non è tossico in
acqua ma rappresenta, si può dire, il reagente limitante il processo di eutrofizzazione,
ovvero anche in eccesso di 𝑁 ma non di 𝑃 il fenomeno non si verifica. E’ sufficiente
dunque limitare la concentrazione di fosforo, esistono infatti delle normative che ne
regolano le quantità nei detersivi.

Parametri microbiologici

Danno indicazioni in merito all’esistenza di microorganismi patogeni nell’acqua, che


provocano malattie all’uomo.
I patogeni appartengono a tre gruppi:
- Batteri: sono organismi unicellulari in grado di autoriprodursi con scissioni binarie, e
rappresentano la forma di vita più abbondante sulla Terra. Possono avere forma di
bastoncini, sfere o spirali. Non sono tutti patogeni. I patogeni comportano disturbi
all’apparato gastrointestinale e i più diffusi nelle acque reflue sono: la salmonella
typhosa (porta il tifo) e il vibrione colerico (porta il colera).
- Virus: sono più piccoli dei batteri e per riprodursi necessitano di una cellula ospite.
Provocano disturbi al sistema nervoso come epatite, poliomielite (ormai poco
diffusa) e influenza stagionale.
- Protozoi: sono organismi unicellulari e rappresentano la più piccola forma di vita
sulla Terra. I protozoi patogeni sono: l’ameba dissenteria e il plasmodio della
malaria (entrambi diffusi nei paesi in via di sviluppo). I protozoi normalmente non
esistono nelle acque naturali, la loro presenza è infatti dovuta agli scarichi.
La misura dei patogeni è impossibile in quanto presenti in quantità trascurabili rispetto ai
non patogeni. La ricerca dei patogeni sarebbe teoricamente possibile mediante analisi
rigorose, ma ciò comporterebbe un dispendio eccessivo di denaro e di tempo, senza
considerare il fatto che esistono dei patogeni ancora sconosciuti. Per questi motivi si
ricercano nell’acqua i microorganismi banali, presenti in essa in grandi quantità, che non
provocano malattie ma sono patogeni-indicatori. La presenza di patogeni è dovuta infatti
agli scarichi domestici, essendo di origine fecale, pertanto se in un corpo idrico ricettore vi
sono i coliformi fecali, presenti nell’intestino umano, allora c’è la possibilità che vi siano
anche i patogeni. Esistono anche coliformi non fecali, ma chiaramente fungono da
indicatori solo i fecali, tra i quali in particolare il più ricercato è l’escherichia coli. Per
rintracciarli si possono effettuare due tipi di test:
- Test su membrana. Vengono sottoposti a filtrazione 100 cc d’acqua da analizzare, i
coliformi fecali hanno diametro di 1 𝜇𝑚 e rimangono intrappolati nel filtro, che ha fori
di 0.45 𝜇𝑚. I coliformi vengono poi disposti su terreni di coltura selettivi, selettivi nel
senso che inibiscono lo sviluppo dei non fecali. Dopo 24 h a 35°C sui terreni si
formano delle colonie di fecali che generano macchie circolari. La quantità di
coliformi fecali si misura come
𝑈𝐹𝐶 (𝑈𝑛𝑖𝑡à 𝐹𝑜𝑟𝑚𝑎𝑛𝑡𝑖 𝐶𝑜𝑙𝑜𝑛𝑖𝑒)
.
100 𝑐𝑐
- Fermentazione multitubo. Si utilizzano 15 provette, a 5 a 5 di volume diverso, quindi
di tre differenti dimensioni. In esse si immette il brodo di coltura selettivo (composto
di lattosio), quindi si versano nelle prime 5 0.1 ml d’acqua, nelle successive 5 1 ml
d’acqua e nelle ultime 5 10 ml d’acqua. Dopo 24-48 h a 35°C, poiché i
microorganismi si sono nutriti del brodo di coltura, si forma del gas. Sulla base del
volume di gas formatisi è possibile misurare la quantità di microorganismi tramite
una tabella di conversione. Si tratta di un metodo probabilistico, non deterministico
come il precedente, e il risultato si esprime come
𝑀𝑃𝑁 (𝑀𝑜𝑠𝑡 𝑃𝑟𝑜𝑏𝑎𝑏𝑙𝑒 𝑁𝑢𝑚𝑏𝑒𝑟)
100 𝑐𝑐

Normative per le acque provenienti da corpo


idrico

Da un punto di vista tecnico è possibile prelevare l’acqua da destinare agli impianti


di potabilizzazione da un qualsiasi corpo idrico, esistono infatti trattamenti in grado di
purificare acque di qualsiasi qualità. Negli Stati Uniti, ad esempio, viene potabilizzata
anche l’acqua proveniente dalle fogne, che a seguito del trattamento viene detta New
Water.
In Italia, per la sua ricchezza di fonti d’acqua vicine alla qualità desiderata, non tutti i corpi
idrici sono considerati idonei, almeno da un punto di vista legislativo.
La prima normativa regolante le acque di approvvigionamento fu il D.P.R. (Decreto del
Presidente della Repubblica) n. 515/1982, che non è più in vigore, i cui contenuti sono
stati travasati nel D.Lgs. (Decreto Legislativo) n. 152/2006, che comprende anche altre
normative legate a questioni ambientali.
La vecchia normativa stabilisce la tipologia di corpi idrici utilizzabili:
- tutte le falde sono potenziali fonti di approvvigionamento di acqua potabile;
- è vietato l’uso di acque marine ad eccezione dei casi in cui è possibile dimostrare
che non vi sono soluzioni alternative;
- i corpi idrici superficiali possono essere utilizzati se presentano in partenza
caratteristiche specifiche di qualità.
A tale scopo sono state effettuate delle classificazioni. In ordine di qualità decrescente vi
sono acque di categoria A1, di categoria A2, di categoria A3 e di categoria non definita.
All’ultima categoria citata appartengono tutte le acque che non rientrano in nessuna delle
tre precedenti.
Esistono delle tabelle che indicano il limite massimo ammissibile per 46 parametri affinché
un’acqua appartenga ad una determinata categoria. Se anche un solo parametro dovesse
superare il limite, l’acqua viene considerata appartenente alla categoria successiva. Le
caratteristiche specificate nelle tabelle sono relative ad acque di buona qualità, ossia la
normativa è molto cautelativa, anche perché i corpi idrici superficiali sono facilmente
soggetti ad alterazioni.
La normativa specifica anche, per ciascuna categoria, le tipologie di interventi da
effettuare per la loro potabilizzazione. In particolare, le acque di categoria A1 vanno
sottoposte a trattamenti di tipo fisico e disinfezione, quelle di categoria A2 a trattamenti di
tipo fisico, chimico normale e disinfezione, quelle invece di categoria A3 a trattamenti di
tipo fisico, chimico spinto, di affinamento e a disinfezione.
La disinfezione è obbligatoria in ogni caso, in quanto finalizzata ad eliminare i
microorganismi patogeni. E’ l’unico processo previsto anche per le acque di falda (seppur
prive di patogeni).
Negli impianti di depurazione, i trattamenti chimici sono poco usati, sono invece previsti
quelli biologici, più economici.
Le classificazioni dei corpi idrici vanno riconfermate ogni 5 anni, con controlli continui a
campione.
Una volta che un corpo idrico viene classificato come idoneo all’approvvigionamento
dell’acqua, scattano le norme per la sua salvaguardia, affinché non si declassi. Ad
esempio, bisogna costruire da una certa distanza in poi, sono vietate la pesca e il pascolo
nelle sue vicinanze, ecc.

Normative per le acque uscenti dagli impianti di


potabilizzazione

In Italia vi sono anche delle norme per le acque uscenti dagli I.P., ossia per stabilire
se siano potabili o meno.
Il D.Lgs. n. 31/2001 è entrato in vigore nel 2003, sostituendo la prima normativa, il D.P.R.
n. 236/1988, e il suo contenuto non è stato travasato nel D.Lgs. n. 152/2006. Il decreto del
2001 presenta una tabella in cui sono indicati i valori massimi di 54 parametri affinché
un’acqua possa essere considerata potabile. Se anche un solo valore dovesse superare
quelli indicati, l’acqua è classificata non potabile, ad eccezione della durezza, per la quale
è specificato un valore massimo consigliato.

Trattamenti cui è sottoposta l’acqua

Le acque da potabilizzare o depurare vengono sottoposte ad una serie di


trattamenti, ossia dei processi mediante i quali è possibile modificarne la qualità. I
trattamenti cui sottoporre un’acqua dipendono dalla qualità iniziale della stessa, in genere
se ne rendono necessari più di uno, ad eccezione del caso della potabilizzazione delle
acque profonde, che consiste nella sola disinfezione.
Per descrivere schematicamente i trattamenti da effettuare si traccia il cosiddetto ciclo di
trattamento, che consiste quindi in un disegno rappresentativo dell’idea progettuale. Le
varie fasi del processo vengono indicate con simboli specifici, collegati da segmenti
orientati rappresentativi del percorso delle correnti.
A monte si realizzano i processi più semplici, e via via si effettuano quelli più complessi.
Per legge la disinfezione deve consistere nell’ultima fase del processo, in quanto nel corso
delle altre fasi l’acqua potrebbe infettarsi nuovamente.

Trattamenti per acque A1


Presa dal corpo idrico

Presa dal fiume


Per prelevare l’acqua di un fiume si realizza un’opera di sbarramento, posta
trasversalmente al flusso, mediante la quale si effettua una deviazione verso l’impianto.
Le opere di sbarramento si classificano in base alle loro caratteristiche geometriche. Con
un’altezza ≥ 10 𝑚 l’opera prende il nome di diga, nel caso contrario è detta traversa, e le
rispettive funzioni sono differenti. La diga, oltre che sbarrare il fiume, raccoglie l’acqua
creando a monte un vero e proprio bacino. L’accumulo si realizza nei mesi dell’anno in cui
le portate sono più elevate, per poi restituire l’acqua nei mesi in cui questa scarseggia. La
diga effettua quindi un’opera di compenso. La traversa a monte crea anch’essa un bacino,
ma di volume insufficiente ad effettuare l’azione di compenso. La traversa serve
sostanzialmente a stabilizzare la quota del pelo libero al variare delle stagioni,
assicurandosi che si trovi sempre al di sopra delle tubazioni da cui si preleva l’acqua.
La diga viene sempre realizzata con strutture fisse, ad esempio in calcestruzzo, mentre la
traversa può essere fissa o, come spesso capita, realizzata in sistemi mobili, come le
paratoie, da alzare o abbassare a seconda delle circostanze.
Le prese dal fiume non si effettuano mai dal fondo, in quanto l’acqua contiene una
quantità eccessiva di detriti. Per questo motivo l’acqua va prelevata più verso la superficie,
generalmente al pelo libero, ragion per cui si rendono necessarie le opere di sbarramento.
Su una delle sponde del fiume, appunto a monte dell’opera di sbarramento dove il livello
idrico risulta innalzato, si realizza uno sfioratore, ossia vi è un punto in cui l’acqua
stramazza lateralmente al fiume (lo stramazzo è la fuoriuscita dell’acqua dalla soglia
sfiorante di un serbatoio). A valle della soglia stramazzante vi è un canale a sezione larga
in cui l’acqua defluisce a bassa velocità. Mediante un flusso lento, infatti, si sedimentano
tutte le sostanze più grossolane, depurandone quindi l’acqua. Tale canale è detto bacino
di calma. A valle del bacino vi è il canale derivatore collegato all’impianto.

Presa dal lago


Si realizza un torrino di presa verticale ad una certa distanza dalla sponda del lago,
compatibilmente con un’altezza non eccessiva dell’opera. Il motivo risiede nel fatto che
anche il livello del pelo libero dell’acqua dei laghi, come dei fiumi, è sottoposto ad
oscillazioni nel corso dell’anno. La posizione del torrino viene stabilita in seguito ad uno
studio idrologico, ossia un’analisi del comportamento del lago nel corso dell’anno.
L’acqua viene prelevata nel torrino a media profondità, poichè sul fondo sono presenti
residui inerti, mentre in superficie galleggiano foglie, tronchi, pesci senza vita, ecc. Poiché
la quota del pelo libero è variabile nel tempo, si prevedono più bocche di presa a diverse
quote sul torrino.

Fase di grigliatura

La fase di grigliatura ha l’obiettivo di rimuovere i solidi grossolani, con dimensioni


superiori a 0.5 cm. E’ la fase più semplice ed è prevista in tutti gli impianti nella stessa
posizione, ossia subito dopo la presa dal corpo idrico. Più che migliorare la qualità
dell’acqua, infatti, questa fase ha principalmente la funzione di preservare il resto
dell’impianto: a valle di esso vi sono apparecchiature che verrebbero danneggiate dai
solidi grossolani. Nel ciclo di trattamento completo la fase di grigliatura viene
rappresentata con il simbolo
La grigliatura consiste, come dice la parola stessa, nel costringere il passaggio dell’acqua
attraverso delle griglie, una serie di pale affiancate tra loro, installate nel canale e disposte
trasversalmente al flusso dell’acqua.
La grigliatura è una fase di separazione, caratterizzata da due correnti in uscita: l’acqua
priva di solidi grossolani ed il residuo trattenuto dalle pale, quest’ultimo detto grigliato. Il
grigliato viene smaltito alla stregua dei RSU (Rifiuti Solidi Urbani), in quanto per legge non
può essere rigettato nel corpo idrico.

Classificazione delle griglie


Le griglie sono classificate sulla base delle loro caratteristiche.
- Spaziatura tra le barre:
Griglie grosse, distanziate di 4 - 8 cm;
Griglie medie, distanziate di 2 - 4 cm;
Griglie fini, distanziate di 0,5 - 2 cm.
La scelta va effettuata in base alla granulometria dei solidi. Ad esempio, le griglie
fini sono più efficaci, ma si bloccano più facilmente, dunque sono adatte nel caso in
cui i solidi grossolani presenti nell’acqua da trattare non abbiano dimensioni
eccessive. Le griglie più diffuse tra gli impianti di potabilizzazione sono le medie,
mentre le grosse vengono istallate principalmente negli impianti di depurazione.
Nel caso si rendesse necessario è possibile anche effettuare più fasi di grigliatura in
serie, con spaziatura tra le barre decrescente.
- Tipo di barre:
Griglie dritte, con asse rettilineo;
Griglie curve, con asse curvilineo.
Le griglie a barre curve vengono utilizzate quando le portate sono dell’ordine di
qualche litro al secondo, ossia per impianti di piccole dimensioni. Il vantaggio
nell’utilizzo di questo tipo di barre risiede nella possibilità di effettuare una pulizia
automatica più efficiente. L’operazione di pulizia si realizza infatti mediante un
braccio in rotazione rispetto ad un asse orizzontale che ripulisce le griglie.
Anche in questo caso è possibile realizzare una soluzione combinata, ad esempio
griglie grosse dritte seguite da griglie fini curve.
- Orientamento delle barre:
Orizzontali, con asse orizzontale;
Verticali, con asse prevalentemente verticale (inclinate).
- Sistema di pulizia (rimozione del grigliato):
Manuale, vi è un operatore posizionato sopra le griglie che asporta il grigliato
manualmente, con l’ausilio di un rastrello, da barre necessariamente dritte e
verticali (ossia inclinate) per rendere possibile l’operazione. Questa soluzione
è ancora utilizzata solo negli impianti più datati.
Automatica, quasi tutti gli impianti moderni sono dotati di un sistema di
pulizia delle griglie automatizzato. Il principio è lo stesso della pulizia
manuale, ma il rastrellamento viene realizzato da un braccio meccanico.

Canale di by-pass
L’istallazione di una griglia comporta necessariamente la realizzazione di un canale
di by-pass, parallelo a quello principale. Nel caso in cui la griglia dovesse otturarsi, infatti,
è prevista una soglia stramazzante oltre la quale l’acqua può defluire nel canale di by-
pass.
Fase di Sedimentazione/Microstacciatura

A valle della fase di grigliatura si dispone quella di sedimentazione o di


microstacciatura a seconda che l’acqua sia stata prelevata, rispettivamente, da un fiume o
da un lago.
L’acqua di fiume, infatti, contiene solidi sospesi della dimensione di circa 0.5 cm, costituiti
dalla torbida del fiume eroso lungo le sponde. Sono solidi inerti ed hanno un peso
specifico maggiore di quello dell’acqua, si tratta pertanto di SSS. Per rimuoverli si effettua
la fase di sedimentazione.
L’acqua di lago, invece, essendo in quiete, è priva di SSS, i quali si trovano già
sedimentati sul fondo. Sono presenti tuttavia dei solidi sospesi di natura diversa, in
particolare si sviluppano e si disperdono spontaneamente sostanze algari. Trattandosi di
materiale organico queste sostanze hanno un peso specifico maggiore di quello
dell’acqua, ma hanno dimensioni troppo piccole per sedimentare. Questi solidi vanno
eliminati mediante la fase di microstacciatura.

Fase di Microstacciatura
E’ una fase di separazione con due uscite: l’acqua trattata e il microstacciato. Nel
ciclo di trattamento completo la fase di microstacciatura viene rappresentata con il simbolo

Viene realizzata grazie ad un’apparecchiatura, il microstaccio, che consiste in un cilindro


le cui pareti sono permeabili all’acqua, in quanto presentano una certa porosità. Le
dimensioni dei pori sono dell’ordine della decina di m, o al più del mm, ossia
sufficientemente piccole da non lasciar passare i solidi che si desidera rimuovere, i quali
rimangono quindi intrappolati tra le pareti del cilindro. Il microstaccio è inserito
orizzontalmente all’interno di una vasca, nella quale l’acqua giunge venendo alimentata
lungo l’asse del cilindro e attraversando le sue pareti nella parte inferiore. Il cilindro è
messo in rotazione attorno al suo asse per esporre all’acqua una superficie costantemente
ripulita, che altrimenti si otturerebbe. L’operazione di pulizia viene effettuata nella parte
superiore del cilindro: vi sono degli ugelli che dall’alto spruzzano aria e acqua ad alta
pressione. In questo modo i materiali di scarto ricadono verso l’interno e vengono raccolti
in una tubazione immediatamente sottostante, affinchè non ricadano in acqua.
Non si realizza mai un unico microstaccio in quanto potrebbe subire qualche disfunzione,
venendo quindi meno la garanzia di un esercizio continuo del processo. Le
apparecchiature vengono disposte sempre in parallelo, ripartendo cioè la portata d’acqua
da trattare tra i vari microstacci. A parità di superficie cilindrica a contatto con l’acqua,
infatti, quanto più è compatto il canale in questa fase del processo, tanto più efficiente
risulterà l’operazione di separazione. Se venisse realizzato un canale stretto e lungo,
invece, i primi microstacci rischierebbero di otturarsi mentre gli ultimi tratterebbero acqua
praticamente già pulita.

Fase di sedimentazione
La fase di sedimentazione ha l’obiettivo di eliminare i SSS già presenti nell’acqua
da trattare o formatisi nell’impianto per effetto di alcuni processi. Questa fase, infatti, si può
ritrovare anche in diverse posizioni nell’impianto. Quando prevista negli impianti di
potabilizzazione di un’acqua di fiume, subito a valle della grigliatura, questa fase è detta di
sgrossatura, in tutte le altre posizioni di sedimentazione.
La fase di sedimentazione o sgrossatura viene rappresentata schematicamente con il
simbolo

Il prodotto di scarto è rappresentato dal fango, ossia una miscela di acqua, per la maggior
parte, e SSS. Il fango è una vera e propria corrente idrica, tuttavia la sua portata 𝑄𝑓 è di
circa due ordini di grandezza più piccola di quella alimentata all‘impianto Q, pertanto in
uscita dalla fase di sedimentazione 𝑄 − 𝑄𝑓 ∽ 𝑄.
Il principio fisico si cui si basa la fase di sedimentazione è la maggiore densità dei
SSS rispetto all’acqua, nonché le loro dimensioni sufficientemente grandi da poter ritenere
trascurabili le forze di superficie rispetto alle forze di massa e di volume. La particella di
SSS è quindi soggetta alla forza peso 𝑃 = −𝜌𝑉 e alla forza di galleggiamento (o di
Archimede) 𝐺 = 𝜌𝑎 𝑉. La risultante 𝑅 = 𝑃 + 𝐺 = −(𝜌 − 𝜌𝑎 )𝑉 è rivolta verso il basso,
essendo 𝜌 > 𝜌𝑎 . La forza 𝑅 determina sulla particella di solido, che supponiamo
inizialmente in quiete, un’accelerazione 𝑎 = 𝑅⁄𝑚, con 𝑚 massa della particella. Nel corso
della caduta la forza di attrito viscoso 𝐴 si oppone al moto in misura crescente con
l’aumento di velocità della particella, fin quando non è raggiunto l’equilibrio 𝐴 = 𝑅 e il
solido scende verso il basso con velocità costante, che indicheremo con 𝑢. Tale velocità è
determinabile dal bilancio di forze di cui si è appena detto, pertanto 𝑢 =
𝑢(𝜌, 𝜌𝑎 , dimensioni della particella, forma della particella).
In realtà i calcoli non sono sempre così semplici, infatti nelle acque da trattare spesso
sono presenti concentrazioni di SSS tali da non poter trascurare i mutui effetti delle
particelle le une sulle altre. Un solido in moto in acqua, infatti, crea degli spostamenti di
fluido nelle zone immediatamente adiacenti ad esso, influenzando il percorso delle
particelle circostanti, se queste sono presenti in acqua in elevate concentrazioni. In questi
casi la determinazione della velocità 𝑢 può essere svolta tramite un’analisi complessa di
tipo statistico probabilistico o mediante un approccio di tipo empirico, conducendo una
serie di esperimenti. Generalmente si adotta la seconda strategia, per evitare calcoli
troppo complessi e onerosi.
La determinazione della velocità 𝑢 risulta fondamentale in quanto essa rappresenta
il parametro di progetto per il dimensionamento delle vasche.
Le vasche nelle quali si realizza la fase di sedimentazione si classificano in base alla
direzione preferenziale del flusso dell’acqua, e si hanno:
- Vasche a flusso verticale, con un flusso sostanzialmente verticale;
- Vasche a flusso orizzontale longitudinale, con flusso orizzontale in un’unica
direzione;
- Vasche a flusso orizzontale radiale, con flusso orizzontale in tutte le direzioni a
360°.

Vasche a flusso verticale


Le vasche a flusso verticale sono costituite da due cilindri verticali coassiali, dei
quali quello interno è realizzato con diametro molto più piccolo e prende il nome di
deflettore. La corrente idrica viene alimentata al deflettore tramite un tubo orizzontale. La
quota del deflettore è maggiore di quella delle pareti esterne della vasca, ed è chiuso alla
base superiore. L’acqua quindi scende lungo il deflettore e risale con flusso
sostanzialmente verticale all’esterno di esso, per poi uscire dalla vasca stramazzando.
Mentre l’acqua è in risalita i SSS sedimentano sul fondo della vasca, che ha forma conica.

Per far si che le particelle si muovano verso il fondo, nonostante il flusso d’acqua
sia diretto in verso opposto, deve verificarsi la condizione che la velocità di
sedimentazione dei solidi, 𝑢, diretta verso il basso, sia maggiore in modulo della velocità
𝑄
del flusso d’acqua, 𝑣, diretta verso l’alto e data da 𝑣 = ⁄𝐴, dove 𝑄 è la portata
volumetrica della corrente idrica ed 𝐴 la superficie di passaggio dell’acqua, ossia la corona
circolare individuata dai due cilindri coassiali in sezione. Poiché 𝑢 è fissata dalle
caratteristiche dell’acqua che si vuole trattare, l’unico grado di libertà del problema risulta
essere 𝑣, ovvero 𝐴, non essendo possibile modificare la portata. Poiché al limite deve
𝑄
risultare 𝑢 = 𝑣, si ha 𝐴𝑚𝑖𝑛 = ⁄𝑢. In genere si realizza una superficie di passaggio
maggiorata rispetto a quella minima del 10 o 15%, cioè si applica un coefficiente di
sicurezza.
Per quanto riguarda l’altezza 𝐻 della parete cilindrica esterna della vasca, per ottenere un
flusso sostanzialmente verticale deve risultare 𝐻⁄𝑟 = 1.2 − 1.3, dove 𝑟 è il raggio della
parete stessa.
La parte conica ha la funzione di accumulare i solidi sedimentati sul fondo. Per favorire lo
scivolamento delle particelle la parete del cono viene realizzata con pendenza di 45°. Per
smaltire poi i detriti accumulatisi vi è una tubazione di estrazione del fango. Il fango risale
lungo la tubazione per effetto di una differenza di pressione: all’imbocco, sul fondo della
vasca, la pressione è più alta a causa della colonna di fluido sovrastante, mentre lo
sbocco è a pressione atmosferica. Il fango viene quindi accumulato in un pozzetto di quota
sufficientemente alta da poter sfruttare la sua energia potenziale gravitazionale per farlo
defluire altrove.
Le vasche a flusso verticale sono dunque prive di organi meccanici, il che rappresenta un
enorme vantaggio in termini energetici, ma presentano delle limitazioni. Venendo
realizzata sotto terra, infatti, se dai calcoli sul dimensionamento dovesse risultare
necessaria un’altezza complessiva, ossia della parete cilindrica sommata a quella della
parete conica, maggiore di 10 m, si presenterebbero evidenti impedimenti di tipo
economico e di sicurezza per gli scavi. Una soluzione potrebbe essere quella di realizzare
più vasche in parallelo di dimensioni inferiori, ma in maniera tale da assicurare comunque
una superficie complessiva sufficiente per la sedimentazione. In genere si progettano
vasche di raggio 𝑟 = 3 𝑚, da cui 𝐻 = 1.2 ⋅ 3 𝑚 = 3.6 𝑚, da cui ancora l’altezza della parte
conica risulta ℎ = 3 𝑚, pertanto l’altezza complessiva vale 𝐻 + ℎ = 6.6 𝑚 < 10 𝑚.
Realizzare più di 5 o 6 vasche, tuttavia, non è proponibile per problematiche di tipo
gestionale: controllo, pulizia, manutenzione e riparazione di un numero elevato di
apparecchiature diventa sconveniente. Nel caso in cui si rendessero necessarie troppe
vasche in parallelo per ricoprire la superficie richiesta, conviene optare per vasche a flusso
orizzontale.

Vasche a flusso orizzontale longitudinale


Le vasche a flusso orizzontale longitudinale hanno una pianta e una sezione
verticale longitudinale di forma rettangolare. Il flusso d’acqua è orizzontale longitudinale
monodimensionale, mentre i SSS seguono una traiettoria obliqua, a causa della
composizione del moto di sedimentazione, di velocità 𝑢 rivolta verso il basso, e del moto di
trascinamento, di velocità 𝑣 pari a quella del flusso d’acqua e diretta orizzontalmente.
Indicando con 𝐿, 𝐵 ed 𝐻 rispettivamente la lunghezza, la larghezza e l’altezza della
𝑄
vasca, si ha 𝑣 = ⁄𝐵 ⋅ 𝐻 . La condizione che deve essere verificata affinché una particella
di solido sedimenti è che il tempo di sedimentazione, ossia il tempo necessario a
percorrere l’altezza 𝐻 con velocità 𝑢, sia inferiore o al più uguale al tempo di permanenza
nella vasca, ossia il tempo necessario a percorrere la distanza 𝐿 con velocità 𝑣. In altre
parole, la condizione limite per la sedimentazione si scrive
𝐻⁄ = 𝐿⁄ = 𝐿 ⋅ 𝐻 ⋅ 𝐵⁄
𝑢 𝑣 𝑄
da cui
1⁄ = 𝐿 ⋅ 𝐵⁄ = 𝐴𝑚𝑖𝑛⁄ ,
𝑢 𝑄 𝑄
da cui ancora
𝑄
𝐴𝑚𝑖𝑛 = ⁄𝑢,
dove 𝐴 = 𝐿 ⋅ 𝐵 rappresenta la superficie di base della vasca.
In realtà i valori di 𝐿 e 𝐵 sono soggetti a diversi vincoli, ad esempio in genere si fissa 𝐵 =
6 − 8 𝑚, in quanto gli organi meccanici atti al recupero dei fanghi sul fondo sono presenti
in commercio in dimensioni standardizzate, mentre 𝐿 è vincolata allo spazio a
disposizione, generalmente 𝐿 = 3 − 4 𝐵. Per poter rispettare le suddette restrizioni ed allo
stesso tempo assicurare una superficie di base sufficiente vengono spesso realizzate più
vasche in parallelo.
Per quanto riguarda 𝐻, una volta fissato il valore di 𝐵 ed il numero di vasche, l’altezza è
𝑄
legata alla velocità del flusso 𝑣, in particolare 𝐻 = ⁄𝑣 ⋅ 𝐵. Anche 𝑣 è soggetta infatti a dei
vincoli, in particolare deve essere sufficientemente bassa da non riportare in sospensione i
solidi sedimentati. Da valutazioni di tipo empirico è possibile determinare il massimo valore
ammissibile di 𝑣, dal quale consegue il minimo per 𝐻.
Mediante un dispositivo elettromeccanico i solidi sedimentati sul fondo vengono
accumulati in prossimità dell’ingresso, dove è realizzato un volume, molto piccolo rispetto
alle dimensioni della vasca, che si estende in profondità, detto tramoggia. Quest’ultima è
posta in prossimità dell’ingresso per limitare la possibilità che i SSS fuoriescano dalla
vasca con l’acqua trattata, che invece viene fatta stramazzare dallo spigolo
diametralmente opposto. Per la rimozione del fango dalla tramoggia si utilizza una
tubazione identica a quella prevista nelle vasche a flusso verticale.

Le apparecchiature elettromeccaniche utilizzate per l’accumulo dei solidi nella


tramoggia sono di due tipi:
- Carroponte a va e vieni;
- Sistema a catena.
Il carroponte è costituito da una trave metallica appoggiata sulle pareti lunghe della
vasca, trasversalmente ad esse. La trave viene fatta scorrere per tutta la lunghezza
tramite delle ruote gommate o dei binari, percorrendo il tragitto prima in un verso e poi
nell’altro, in un moto perpetuo. Al carroponte è solidale un braccio: quando il verso del
moto è dall’uscita verso l’ingresso, il braccio è completamente immerso per raschiare i
detriti sul fondo e far si che si accumulino nella tramoggia, mentre quando il verso è
opposto il braccio si alza fino al pelo libero dell’acqua, dove raccoglie eventuali solidi
sospesi flottanti.
La velocità del carroponte è molto bassa, dell’ordine dei mm/s, per evitare che influenzi il
moto dell’acqua.
Il sistema a catena consiste in quattro pulegge disposte su ciascuna delle due facce
laterali della vasca, attorno alle quali ruota una catena. Le due catene sono collegate da
elementi plastici, detti raschietti, che effettuano l’operazione di raschiamento. Quando
questi si trovano sul fondo spostano i SSS verso la tramoggia, quando si muovono in
superficie raccolgono i solidi flottanti.

Le due apparecchiature elettromeccaniche hanno prestazioni comparabili, ma la


scelta dell’una o dell’altra presenta diversi vantaggi e svantaggi.
- Robustezza.
Il carroponte, avendo un moto alternato e non continuo come quello del
sistema a catena, è più spesso soggetto a guasti.
- Manutenzione.
Per effettuare la manutenzione o la riparazione del sistema a catena, che è
completamente immersa, è necessario svuotare la vasca e bloccare il
processo, mentre il carroponte è già emerso, ed il braccio può essere
semplicemente sollevato.
- Possibilità di posizionare le vasche in zone di mare o montagna.
Il carroponte, essendo emerso, in prossimità del mare è più soggetto a
fenomeni di corrosione per effetto della salsedine, mentre in zone di
montagna neve o ghiaccio potrebbero ostacolarne il moto di scorrimento
lungo le pareti della vasca. Il sistema a catena, essendo completamente
immerso, non presenta tali inconvenienti.

Vasche a flusso orizzontale radiale


Le vasche a flusso orizzontale radiale hanno la stessa geometria di quelle a flusso
verticale, ma in questo caso la parte cilindrica ha un diametro molto più grande
dell’altezza. La corrente idrica in uscita dal deflettore avrà pertanto un flusso
prevalentemente orizzontale, in tutte le direzioni. Quando l’acqua si muove dal centro
verso la periferia della vasca, la sua velocità diminuisce, pertanto la traiettoria descritta dai
solidi che sedimentano è parabolica.
Tramite un’apparecchiatura elettromeccanica i solidi vengono raccolti nella tramoggia che
ha pianta circolare e si trova nei pressi dell’uscita dell’acqua dal deflettore.
𝑄
Anche in questo caso si può dimostrare che 𝐴𝑚𝑖𝑛 = ⁄𝑢, dove 𝐴 rappresenta la superficie
della corona circolare di base della vasca.
Il sistema di raschiamento consiste in un carroponte, incernierato nel centro della vasca e
mobile sulla parete perimetrale della stessa, in rotazione sempre nello stesso verso. In
base alle dimensioni della vasca vengono utilizzati uno o due bracci.
La rimozione del fango

Per la normativa italiana il fango non può essere rigettato nel corpo idrico, e prima
di abbandonare l’impianto ed essere smaltito deve rispettare due caratteristiche
qualitative:
- Palabilità:
Il fango deve avere consistenza sufficiente a poter essere movimentato
tramite pale;
- Stabilità:
Una sostanza si definisce stabile se non da luogo a trasformazioni
spontanee o, al più, queste ultime non devono comportare effetti apprezzabili
nel breve termine.
In genere le sostanze derivanti da un corpo idrico che sedimentano sono stabili. La
caratteristica che va invece addotta ai fanghi in uscita dall’impianto è la palabilità, infatti la
corrente è composta all’incirca dal 97% d’acqua e dal 3% di solidi.
Per poter definire palabile un fango l’umidità deve risultare inferiore all’80%. Per ottenere
tale risultato si separa dalla corrente idrica di scarto un primo 50% composto
esclusivamente d’acqua, ottenendo un fango composto del 94% d’acqua e del 6% di
solidi. Effettuando l’operazione una seconda volta si raggiunge un’umidità dell’88%, una
terza volta del 76%. La linea dei fanghi viene quindi rappresentata schematicamente al
modo seguente.

Cicli di trattamento completi per acque di categoria A1

Ciclo di trattamento completo per acque di categoria A1 con presa dal fiume
Ciclo di trattamento completo per acque di categoria A1 con presa dal lago

Trattamenti per acque A2

Gli impianti di potabilizzazione delle acque di categoria A2 prevedono le stesse fasi


di quelle per le acque di categoria A1, che sono di tipo fisico, con l’aggiunta di una o più
fasi chimico normali atte all’eliminazione dei colloidi.
La chiariflocculazione è la più comunemente utilizzata per rimuovere i SSC. E’ di tipo
chimico-fisico ed è adatta a concentrazioni dei suddetti solidi molto elevate.
La filtrazione rapida è una fase con lo stesso obiettivo della chiariflocculazione, ma di tipo
differente e non alternativa ad essa. Si applica per basse concentrazioni di SSC,
dell’ordine di qualche decina di mg/l. Questo processo è più efficiente e in genere è
utilizzato dopo la chiariflocculazione come raffinamento o completamento. Talvolta può
sostituirla, ma non senza un preventivo condizionamento chimico dell’acqua.
Fase di Chiariflocculazione

L’obiettivo della fase di chiariflocculazione è, come già detto, l’eliminazione


dall’acqua dei SSC, ossia di quei solidi di dimensioni sufficientemente piccole da essere
soggetti alle forze di massa e di volume in misura trascurabile rispetto alle forze di
superficie. Queste ultime sono sia di natura attrattiva che repulsiva, con prevalenza delle
seconde sulle prime. Nella fase di chiariflocculazione, mediante l’aggiunta di additivi
chimici, viene ridotta l’intensità delle forze repulsive creando una condizione favorevole
all’agglomeramento delle particelle, a seguito del quale i solidi iniziano quindi a risentire
dell’effetto della gravità e possono essere rimossi alla stregua dei SSS.
Le forze di superficie agenti sui colloidi sono di natura elettrostatica: attorno al
solido si genera una zona ad alta concentrazione di specie ioniche. Si distinguono due
diversi strati d’acqua intorno al colloide. Il primo strato, detto di acqua legata o strato
rigido, è particolarmente ricco di ioni, i quali seguono rigidamente il solido. Il secondo
strato, più periferico, è detto di acqua diffusa ed è caratterizzato da ioni più debolmente
legati e presenti in concentrazioni più basse. Proprio per effetto di questi strati, se due
colloidi si avvicinano l’un l’altro si respingono.
La riduzione delle forze repulsive si realizza con l’aggiunta in acqua di sali metallici,
generalmente di alluminio o ferro. Tali reagenti sono detti coagulanti. La capacità di
riduzione delle forze repulsive di queste specie è tanto maggiore quanto più alta è la
valenza del metallo, il quale una volta presente in acqua sotto forma di specie ionica è
quello che svolge effettivamente la funzione utile allo scopo. Più è efficiente il reattivo che
si sceglie di utilizzare, chiaramente maggiore è il risparmio sulla quantità da acquistarne.
Il coagulante più usato tra i sali di alluminio è il solfato di alluminio 𝐴𝑙2 (𝑆𝑂4 )3, dove
l’alluminio ha valenza 3+, 𝐴𝑙 3+ . Questo sale aggiunto in acqua in parte si dissocia con
formazione di cationi 𝐴𝑙 3+ e anioni (𝑆𝑂4 )2− . La dissociazione del sale dipende dal 𝑝𝐻, ed è
favorita nell’intervallo 5 < 𝑝𝐻 < 7.
L’aliquota di coagulante non dissociata reagisce con i composti presenti in acqua dando
luogo a nuove specie di per sé sedimentabili, che vanno a costituire un nucleo di
aggregazione per i SSC. In assenza di questi nuclei i colloidi impiegherebbero un tempo
eccessivamente lungo per diventare SSS, che hanno dimensioni maggiori di diversi ordini
di grandezza. Il solfato di alluminio in particolare reagisce con il bicarbonato di calcio con
formazione di idrossido di alluminio, che va a costituire il nucleo, ed altri prodotti, secondo
la reazione
𝐴𝑙2 (𝑆𝑂4 )3 + 𝐶𝑎(𝐻𝐶𝑂3 )2 ⟶ 𝐴𝑙(𝑂𝐻)3 + ⋯
L’idrossido di alluminio si trova in acqua in forma di SSS solo se il 𝑝𝐻 è compreso
nell’intervallo 5 < 𝑝𝐻 < 7. 𝐴𝑙(𝑂𝐻)3 si presenta come piccole particelle di colore bianco,
con struttura aperta (forma “fioccosa”). Per tale ragione questi solidi svolgono
efficientemente la funzione di nuclei di aggregazione, e sono detti fiocchi di idrossido di
alluminio.
Le considerazioni appena fatte sul sale di alluminio valgono tal quali per i sali di ferro.
In definitiva, un buon coagulante deve:
- Dissociare facilmente in acqua, con formazione di cationi metallici di valenza alta;
- Reagire con le sostanze presenti formando solidi in grado di costituire un nucleo di
aggregazione per i colloidi.
La chiariflocculazione nello schema di impianto è posta subito a valle della
sedimentazione ed è costituita di tre sotto fasi. La fase è rappresentata schematicamente
con i simboli
Fase di miscelazione rapida (fase di coagulazione)
In questa fase si aggiunge all’acqua il reagente coagulante, quindi si realizza una
miscelazione al fine di ottimizzare il consumo di reattivo, e quindi migliorare l’efficienza del
processo.
La forma ideale in cui effettuare una miscelazione è la sfera, tuttavia i reattori sferici
sono eccessivamente costosi, così si sceglie di utilizzare per questa fase reattori a pianta
quadrata o di forma cilindrica. Questi ultimi sono muniti di tre o quattro setti verticali per
evitare che il moto dell’acqua finisca per essere solidale a quello dell’elica e non si realizzi
la miscelazione desiderata.

La velocità di rotazione delle eliche nella miscelazione rapida è di circa 500-600 giri/min.
E’ necessario che in questa fase il tempo di permanenza dell’acqua nel reattore sia
inferiore al tempo della reazione di formazione degli idrossidi, infatti se i fiocchi si
formassero nel corso della miscelazione rapida, si romperebbero dando poi vita a SSS
con velocità di sedimentazione molto basse. La condizione da imporre per il
dimensionamento è, quindi, che il tempo di permanenza (o tempo di dimensionamento) 𝑡𝑑
sia inferiore a quello di formazione dei fiocchi. Generalmente si impone 𝑡𝑑 = 1 − 1.5 𝑚𝑖𝑛.
Essendo 𝑡𝑑 = 𝑉⁄𝑄, se ne deduce il volume del reattore necessario.

Fase di miscelazione lenta (fase di flocculazione)


In questa fase vi è la formazione degli idrossidi e, quindi, l’aggregazione. E’
necessario un movimento continuo dell’acqua al fine di inibire la sedimentazione dei
fiocchi. L’agitazione deve essere però blanda, in modo tale che i nuclei di aggregazione
non si frantumino. La velocità di rotazione delle eliche nella miscelazione lenta è di circa
40-50 giri/min.
Per accelerare il processo di sedimentazione che segue questa fase, spesso nella
miscelazione lenta si utilizzano dei coadiuvanti, ossia dei reagenti che mirano ad
appesantire i SSS che si formano nella flocculazione. I principi di base sono di due tipi.
- Aumento del peso specifico del fiocco: il bentone è un inerte naturale che si
sgretola in acqua e da luogo a colloidi. Nella fase di flocculazione questi
partecipano al processo di aggregazione, dando vita a solidi più pesanti avendo un
peso specifico maggiore del fiocco;
- Coagulazione di più fiocchi: i polielettroliti sono composti di sintesi, non naturali.
Sono molecole di grandi dimensioni e molto ramificate che, in acqua, svolgono
un’azione di briding, ovvero creano un ponte tra due o più fiocchi, dando vita ad
agglomerati di maggiori dimensioni e, quindi, più pesanti.
Per dimensionare il reattore si fissa 𝑡𝑑 = 25 − 30 𝑚𝑖𝑛, in quanto il tempo di
permanenza deve essere maggiore o, al più, uguale al tempo di aggregazione. Dal valore
fissato per 𝑡𝑑 si determina quindi il volume necessario, nota la portata volumetrica della
corrente idrica. Con l’intervallo di valori indicato si ottiene l’agglomeramento di circa il 95%
dei colloidi. Per ottenere percentuali maggiori si renderebbero necessari volumi
considerevoli, il che risulta sconveniente.
Le vasche utilizzate per questa fase sono a pianta rettangolare, mentre le eliche possono
essere ad asse orizzontale o verticale. Generalmente per la seconda tipologia si
realizzano tre bacini in sequenza, ciascuno con eliche proprie.

Fase di sedimentazione
La fase di sedimentazione nella chiariflocculazione ha la funzione di eliminare i SSS
formatisi nel corso della flocculazione. Si effettua alla stregua della sedimentazione a
monte, ossia la sgrossatura, con la differenza che in uscita si ha un fango chimico, quindi
con un’umidità maggiore di quello naturale, poiché ha una più alta capacità di ritenzione
dell’acqua. Le due correnti di fango, naturale e chimico, vengono unite e inviate alla linea
fanghi.

Bacini unici
Il fango in uscita dalla fase di sedimentazione nel processo di chiariflocculazione è
costituito da idrossidi e colloidi. Tale fango potrebbe essere in parte riciclato nella fase di
miscelazione lenta, chiaramente non in quella rapida altrimenti si avrebbe la rottura dei
fiocchi e il distacco dei colloidi, e questa soluzione comporterebbe un risparmio sul
consumo di coagulante nonché una minore quantità di fango prodotto. Per riciclare il fango
si renderebbe necessaria una pompa, in quanto le tre fasi si trovano a quote diverse per
permettere l’avanzamento dell’acqua.

Anche il passaggio all’interno di una pompa, tuttavia, provoca la frantumazione dei fiocchi.
In questi termini, quindi, l’operazione di riciclo è impraticabile.
Per poter riciclare il fango senza la necessità di una pompa si utilizzano delle
vasche che costituiscono dei bacini unici, ossia realizzano tutti le fasi della
chiariflocculazione. Il più diffuso è il bacino unico accelerator.

Si tratta di una vasca a pianta circolare, realizzata in calcestruzzo (talvolta anche acciaio),
munita di vari setti aventi la funzione di creare una divisione grossolana delle zone in cui si
realizzano le diverse fasi. La parte superiore ha forma cilindrica, quella inferiore
troncoconica.
La corrente idrica viene alimentata lateralmente, attraverso una tubazione orizzontale,
nella zona centrale della vasca. L’acqua fa ingresso quindi in una zona in cui è presente
un agitatore che genera turbolenza, zona che approssima la fase di miscelazione rapida.
La velocità di rotazione delle eliche è inferiore rispetto alla fase singola. L’alimentazione
dei reagenti chimici si effettua tramite una tubazione verticale.
L’acqua fuoriesce dal volume individuato dal setto per stramazzo, passando prima
attraverso una zona che risente in misura minore dell’agitazione: questa zona approssima
la fase di miscelazione lenta, dove avviene la flocculazione.
Una volta stramazzata, l’acqua riscende, costretta da un altro setto, e giunge quindi in un
volume di pianta a corona circolare dove avviene la sedimentazione: l’acqua risale ed i
solidi sedimentano. L’acqua decantata abbandona il bacino unico per stramazzo.
Il fondo della corona circolare, dove vi sono i solidi sedimentati, da un lato è chiuso e
dall’altro è in collegamento con la zona di miscelazione rapida, permettendo un riciclo del
fango. L’altezza della coltre di fanghi nella zona di sedimentazione è regolamentata da
uno scarico di fondo, che la rende tale da essere investita dall’acqua in arrivo in modo che
questa subisca un processo di filtrazione.
(Il fango andrebbe alimentato nella fase di miscelazione lenta, probabilmente è possibile
alimentarlo in quella rapida perché la velocità di rotazione delle eliche è inferiore rispetto
alla fase singola, oppure perché il fango resta comunque sul fondo e contribuisce alla
rimozione dei colloidi con un meccanismo di filtrazione, non ritornando in circolo con
l’acqua dove si avrebbe la rottura dei fiocchi).
I vantaggi nell’impiego di un bacino unico rispetto alle fasi separate sono molteplici.
Oltre alla possibilità di realizzare il riciclo del fango, che come già detto comporta un
risparmio di reattivo e una minore produzione di fango, si garantiscono volumi complessivi
dell’impianto più contenuti rispetto alla scelta delle fasi separate: un bacino unico è circa il
30-40% più piccolo delle tre fasi.

Filtrazione

La fase di filtrazione, come già detto, ha l’obiettivo di rimuovere i SSC, e viene


utilizzata laddove questi siano presenti in acqua a basse concentrazioni oppure come
processo di affinamento a valle della chiariflocculazione. Nel ciclo di trattamento completo
la filtrazione viene rappresentata con il simbolo

La filtrazione viene realizzata mediante il passaggio dell’acqua a basse velocità


attraverso un materiale filtrante. A seconda del materiale che funge da filtro e delle
modalità con le quali avviene il processo, si distinguono diverse tipologie di filtrazione.
- Filtrazione su materiale plastico, ovvero processi a membrana;
- Filtrazione su tela porosa, finalizzata alla formazione del “filter cake” (disidratazione
dei fanghi);
- Filtrazione su letto granulare, che può essere di due tipi: filtrazione lenta, nella
quale la velocità dell’acqua è dell’ordine dei cm/h; filtrazione rapida, con velocità del
flusso d’acqua dell’ordine dei m/h. In quest’ultima tipologia l’energia potenziale
spesa per il moto dell’acqua attraverso il mezzo filtrante può essere gravitazionale o
di pressione.
La più comunemente utilizzata è la filtrazione su letto granulare rapida.

Filtrazione su letto granulare rapida a gravità o a spessore


Nel processo di filtrazione su letto granulare rapida a gravità la corrente idrica
attraversa dall’alto verso il basso, quindi sfruttando la sua energia potenziale
gravitazionale, un ammasso di granuli, ai quali le particelle colloidali della corrente restano
legate.

Per granuli si intende le particelle costituenti il mezzo filtrante, le quali devono


presentare resistenza all’usura meccanica e non essere soggette alla frantumazione per
effetto del gelo. Generalmente si utilizza sabbia silicea.
I granuli hanno dimensioni di circa 0.2-0.5 mm, mentre le particelle di qualche decina di
m. Se fossero dello stesso ordine di grandezza il trattenimento delle particelle
avverrebbe in superficie, in quanto resterebbero intrappolate, realizzando piuttosto il
processo di microstacciatura. Per effettuare la filtrazione e far sì che questa abbia la
stessa efficacia lungo l’intero spessore del letto granulare, il rapporto tra le dimensioni di
particelle colloidali e granuli deve essere un valore abbastanza piccolo. Poiché tutto lo
spessore contribuisce al processo di filtrazione, quest’ultimo viene anche detto filtrazione a
spessore.
Per rimuovere le particelle colloidali queste devono essere trattenute dai granuli.
Affinché ciò avvenga è necessario che si verifichi il contatto tra di esse e che le particelle
non vengano trascinate dal moto dell’acqua, ovvero che le forze di trascinamento devono
essere inferiori a quelle di attrazione. Per realizzare tale circostanza le velocità del flusso
d’acqua devono essere molto basse. I meccanismi che garantiscono invece il contatto tra
granuli e particelle sono diversi:
- meccanismo inerziale;
- meccanismo di sedimentazione;
- meccanismo di intercettazione;
- meccanismo diffusivo;
- meccanismo dispersivo.
Questi meccanismi garantiscono esclusivamente il contatto, successivamente si
instaurano le forze di adesione che sono di natura elettrica o di natura chimica con legami
molto deboli.
La struttura nella quale si effettua la fase di filtrazione è realizzata in calcestruzzo,
con fondo permeabile. In passato il fondo permeabile veniva realizzato con della ghiaia,
che permetteva il passaggio dell’acqua ma non dei granuli. Oggi si utilizzano delle piastre
porose in calcestruzzo, con fori filettati in cui sono inseriti degli elementi plastici detti
codoli, che sono cavi con testa forata. La corrente idrica da trattare, di portata 𝑄, viene
alimentata nella vasca dall’alto, passa attraverso il filtro di sabbia che trattiene i SSC,
quindi l’acqua filtrata fuoriesce dal fondo passando attraverso i codoli.
Indicando con 𝐿 lo spessore del letto granulare e con 𝐻 la quota del pelo libero, la velocità
dell’acqua è regolata dalla legge di Darcy 𝑣 = 𝑘 ⋅ 𝑖, dove 𝑘 è la costante di permeabilità del
mezzo filtrante ed 𝑖 la cadente piezometrica, definita come il rapporto tra la quota
piezometrica e la lunghezza del percorso, quindi in questo caso 𝑖 = 𝐻⁄𝐿. Moltiplicando
ambo i membri per la superficie 𝐴 della sezione orizzontale della vasca nella legge di
Darcy si ottiene 𝑄 = 𝐴 ⋅ 𝑣 = 𝐴 ⋅ 𝑘 ⋅ 𝐻⁄𝐿.
Per dimensionare il filtro si usano parametri empirici, ricavati da studi precedenti.
Generalmente l’altezza del letto granulare viene realizzata di 𝐿 = 1 𝑚, mentre la velocità
della corrente idrica deve assumere valori compresi nell’intervallo 𝑣 = 7 − 10 𝑚⁄ℎ. La
𝑄
superficie filtrante si calcola come 𝐴𝑓 = ⁄𝑣.
Nel corso del processo i colloidi che progressivamente si legano al materiale
filtrante ne riducono la costante di permeabilità, tuttavia poiché la portata d’acqua da
elaborare deve essere costante, dalla legge di Darcy consegue un innalzamento continuo
della quota del pelo libero. Ovviamente non è pensabile realizzare una vasca di altezza
infinita, oltre al fatto che 𝐻, influenzando la 𝑣 che deve essere mantenuta bassa, presenta
un valore massimo oltre il quale la filtrazione non è più efficace. Laddove 𝐻 dovesse
superare tale valore si parla di filtro perforato. Il valore minimo assunto da 𝐻, detto carico
minimo, è quello corrispondente al valore massimo della costante di permeabilità del
𝑄⋅𝐿
mezzo, ovvero quello iniziale 𝑘𝑖 . Dalla legge di Darcy 𝐻𝑚𝑖𝑛 = ⁄𝑘 ⋅ 𝐴. Il filtro lavora
𝑖
bene per valori di 𝐻 compresi tra 𝐻𝑚𝑖𝑛 e 𝐻𝑚𝑖𝑛 + 1 𝑚, ovvero 𝐻𝑚𝑎𝑥 = 𝐻𝑚𝑖𝑛 + 1 𝑚.
Una volta raggiunto il carico massimo, il filtro deve essere fermato per essere rigenerato.
Per evitare il sovraccarico degli altri filtri quando uno di essi è fuori servizio, si prevede
sempre l’installazione di un filtro aggiuntivo rispetto a quelli necessari.
Il lavaggio è effettuato bloccando la corrente idrica e inviando un flusso d’acqua, o di
acqua e aria, in direzione opposta a quella del normale funzionamento, quindi dal basso
verso l’alto. Le fessure sulla testa dei codoli servono in questo processo per creare getti di
fluido con energia e velocità sufficiente a effettuare la pulizia.
Generalmente sono necessari circa 5 minuti per rigenerare un filtro, e la pulizia va
eseguita due volte al giorno.
Esistono due diverse modalità di pulizia di un filtro:
- Modalità americana, che prevede l’uso di acqua a 50 𝑚⁄ℎ;
- Modalità europea, che prevede l’uso di aria e acqua a 25 𝑚⁄ℎ.
L’efficienza dei due metodi è pressoché la stessa, infatti se da un lato il metodo americano
prevede un consumo maggiore d’acqua a maggiori velocità, quello europeo prevede una
doppia rete di alimentazione. La funzione dell’aria è quella di aumentare la porosità del
filtro nel corso della pulizia, ossia di aumentare la superficie di contatto tra sabbia e acqua,
mentre quest’ultima realizza la pulizia vera e propria trascinando con sé le particelle di
colloidi. Se il filtro appartiene ad un I.P., l’acqua di lavaggio viene prelevata a valle della
disinfezione, in quanto priva di colloidi e contenente disinfettante. Ciò è fondamentale in
quanto sulla sabbia possono formarsi delle alghe, che vanno necessariamente rimosse. Si
ha quindi una pulizia sia fisica che chimica del filtro. L’acqua di lavaggio viene poi riciclata
in testa alla fase di sedimentazione.

Si capisce a questo punto il motivo per il quale i filtri possono elaborare


esclusivamente correnti idriche con basse concentrazioni di SSC, infatti se così non fosse
il tempo che intercorrerebbe tra la necessità di una pulizia e l’altra sarebbe, anziché di 10
h, di pochi minuti, rendendo il processo inattuabile dal punto di vista economico.

Filtrazione su letto granulare rapida a pressione


Nei filtri a pressione l’acqua attraversa il materiale filtrante non per effetto della
gravità ma realizzando una differenza di pressione. In questo caso la struttura è chiusa,
poiché non opera a pressione atmosferica, ed è realizzata in metallo, mentre il materiale
filtrante deve essere resistente alle alte pressioni.
Rispetto ai filtri a gravità, quelli a pressione sono chiaramente più costosi,
principalmente in termini di dispendio energetico.

Filtrazione su letto granulare lenta


La filtrazione lenta differisce da quella rapida per le velocità della corrente idrica,
comprese in questo caso nell’intervallo 𝑣 = 2 − 3 𝑐𝑚⁄ℎ. Questi sono usati negli I.P. e
sostituiscono la chiariflocculazione e la filtrazione rapida. Così basse velocità dell’acqua,
inoltre, permettono la formazione di batteri, detto biofilm. Il biofilm comporta un duplice
vantaggio: occupando un certo spessore riduce la porosità del mezzo filtrante favorendo il
contatto dei granuli anche con le particelle di colloidi più piccole, inoltre i batteri sono in
grado di rimuovere le sostanze organiche contenute nell’acqua.
I filtri lenti, appena rimessi in funzione dopo il lavaggio, necessitano di un transitorio molto
lungo prima di tornare operativi, circa 15-20 giorni, tempo necessario alla formazione del
biofilm, tuttavia intercorrono 3-4 mesi tra un lavaggio e l’altro.
I filtri lenti rappresentano quindi una soluzione molto più economica, e apparentemente più
vantaggiosa sotto diversi aspetti. In realtà per realizzare velocità così basse si rendono
necessarie superfici filtranti molto maggiori del caso precedente, pertanto questa
soluzione prevede spazi eccessivi. I filtri lenti sono quindi usati solo nei paesi in via di
sviluppo, dove spazio e mano d’opera sono a basso costo.

Cicli di trattamento completi per acque di categoria A2

Ciclo di trattamento completo per acque di categoria A2 con presa dal fiume
Ciclo di trattamento completo per acque di categoria A2 con presa dal lago
Lo schema è identico al caso precedente con l’unica differenza che la fase di
sgrossatura è sostituita da una di microstacciatura.

Trattamenti per acque A3

Le acque di categoria A3 sono caratterizzate dalla presenza di solidi grossolani,


solidi sospesi e solidi disciolti.
Per la rimozione dei solidi disciolti si possono utilizzare vari metodi.

Precipitazione

La precipitazione è il processo più usato per la rimozione delle sostanze disciolte in


acqua. Il processo è di tipo chimico, e consiste nell’aggiunta di specie in grado di reagire
con le sostanze disciolte generando sali insolubili che precipitano sotto forma di SSS,
successivamente rimossi per sedimentazione.
I reagenti utilizzati nella precipitazione devono rispettare determinate caratteristiche:
devono essere economici, facilmente approvvigionabili, non devono dar luogo a reazioni
con i materiali dei componenti dell’impianto e non devono essere tossici.
A seconda delle specifiche sostanze disciolte che si desidera rimuovere esistono diversi
processi di precipitazione.

Addolcimento
Il processo di addolcimento ha l’obiettivo di rimuovere i sali che conferiscono
durezza all’acqua.
Il più diffuso e il metodo alla calce-soda, dove appunto i reagenti sono l’idrossido di calcio
𝐶𝑎(𝑂𝐻)2 (calce) e il carbonato di sodio 𝑁𝑎2 𝐶𝑂3 (soda), entrambi dotati delle caratteristiche
necessarie di cui si è detto.
Per rimuovere il bicarbonato di calcio 𝐶𝑎(𝐻𝐶𝑂3 )2 si aggiunge la calce, con la quale
reagisce secondo la reazione
𝐶𝑎(𝐻𝐶𝑂3 )2 + 𝐶𝑎(𝑂𝐻)2 ⟶ 2𝐶𝑎𝐶𝑂3 + 2𝐻2 𝑂
Bicarbonato di calcio Idrossido di calcio Carbonato di calcio Acqua
Il carbonato di calcio 𝐶𝑎𝐶𝑂3 è molto poco solubile in acqua, pertanto precipita.
Bicarbonato e calce, come si vede dalla stechiometria della reazione, sono in rapporto 1:1.
Per rimuovere il carbonato di magnesio 𝑀𝑔𝐶𝑂3 si usa la calce, sfruttando la
reazione
𝑀𝑔𝐶𝑂3 𝑀𝑔(𝑂𝐻)2 𝐶𝑎𝐶𝑂3
+ 𝐶𝑎(𝑂𝐻)2 ⟶ +
Carbonato di magnesio Idrossido di calcio Idrossido di magnesio Carbonato di calcio
Anche l’idrossido di magnesio, come il carbonato di calcio, è praticamente insolubile in
acqua, pertanto i prodotti precipitano sotto forma di SSS.
Il rapporto tra 𝑀𝑔𝐶𝑂3 e 𝐶𝑎(𝑂𝐻)2 è di 1:1.
Per la rimozione del bicarbonato di magnesio 𝑀𝑔(𝐻𝐶𝑂3 )2 si aggiunge calce
𝑀𝑔(𝐻𝐶𝑂3 )2 𝑀𝑔𝐶𝑂3 𝐶𝑎𝐶𝑂3 2𝐻 𝑂
+ 𝐶𝑎(𝑂𝐻)2 ⟶ + + 2
Bicarbonato di magnesio Idrossido di calcio Carbonato di magnesio Carbonato di calcio Acqua
Avendosi formazione di carbonato di magnesio, per precipitare una mole di 𝑀𝑔(𝐻𝐶𝑂3 )2
sono necessarie due moli di calce, una per rendere possibile il decorso della reazione di
cui sopra, e una per precipitare 𝑀𝑔𝐶𝑂3. Il rapporto tra bicarbonato di magnesio e calce,
cioè, è di 1:2.
Per la rimozione del solfato di calcio 𝐶𝑎𝑆𝑂4 si usa la soda
𝐶𝑎𝑆𝑂4 𝑁𝑎2 𝐶𝑂3 𝐶𝑎𝐶𝑂3 𝑁𝑎2 𝑆𝑂4
+ ⟶ +
Solfato di calcio Carbonato di sodio Carbonato di calcio Solfato di sodio
Il solfato di sodio è un sale che non conferisce durezza.
Il rapporto tra 𝐶𝑎𝑆𝑂4 e 𝑁𝑎2 𝐶𝑂3 è di 1:1.
Per la rimozione del cloruro di calcio 𝐶𝑎𝐶𝑙2 si usa la soda, con la quale reagisce
secondo la reazione
𝐶𝑎𝐶𝑙2 𝑁𝑎2 𝐶𝑂3 𝐶𝑎𝐶𝑂3 2𝑁𝑎𝐶𝑙
+ ⟶ +
Cloruro di calcio Carbonato di sodio Carbonato di calcio Cloruro di sodio
Il cloruro di sodio, meglio noto come sale da cucina, non conferisce durezza, tuttavia la
sua concentrazione in acqua deve rimanere bassa, in quanto una salinità eccessiva può
essere pericolosa.
Il rapporto tra cloruro di calcio e soda è di 1:1.
Per la rimozione del solfato di magnesio 𝑀𝑔𝑆𝑂4 e del cloruro di magnesio 𝑀𝑔𝐶𝑙2 si
usa la calce, con la quale reagiscono, rispettivamente, secondo le reazioni
𝑀𝑔𝑆𝑂4 𝑀𝑔(𝑂𝐻)2 𝐶𝑎𝑆𝑂4
+ 𝐶𝑎(𝑂𝐻)2 ⟶ +
Solfato di magnesio Idrossido di calcio Idrossido di magnesio Solfato di calcio
𝑀𝑔𝐶𝑙2 𝑀𝑔(𝑂𝐻)2 𝐶𝑎𝐶𝑙2
+ 𝐶𝑎(𝑂𝐻)2 ⟶ +
Cloruro di magnesio Idrossido di calcio Idrossido di magnesio Cloruro di calcio
Per effetto della prima reazione si ha la formazione di una mole di 𝐶𝑎𝑆𝑂4 per ogni mole di
𝑀𝑔𝑆𝑂4, della seconda di una mole di 𝐶𝑎𝐶𝑙2 per ogni mole di 𝑀𝑔𝐶𝑙2 . Ne viene che sia per
ogni mole di solfato di magnesio che di cloruro di magnesio si aggiunge una mole di calce
e una di soda.
Il processo di addolcimento necessita di una fase di miscelazione rapida, nella
quale si aggiungono i reagenti, una fase di miscelazione lenta, dove avvengono le reazioni
e la precipitazione, e una fase di sedimentazione, ossia lo schema è identico a quello della
chiariflocculazione. I due processi, quindi, di chiariflocculazione e addolcimento, vengono
realizzate simultaneamente negli stessi reattori.

Deferrizzazione
Nelle acque di falda spesso si trovano disciolti composti a base di ferro,
prevalentemente solfato ferroso 𝐹𝑒𝑆𝑂4 e bicarbonato ferroso 𝐹𝑒(𝐻𝐶𝑂3 )2 . Per precipitare
queste specie si realizza il processo di deferrizzazione.
Per rimuovere 𝐹𝑒𝑆𝑂4 si aggiunge la calce, con la quale reagisce secondo la
reazione
𝐹𝑒𝑆𝑂4 𝐶𝑎𝑆𝑂4
+ 𝐶𝑎(𝑂𝐻)2 ⟶ + 𝐹𝑒(𝑂𝐻)2
Solfato ferroso Idrossido di calcio Solfato di calcio Idrossido ferroso
Il solfato di calcio è uno dei sali che contribuiscono alla durezza, e può essere precipitato
con l’aggiunta di soda in rapporto molare 1:1. L’idrossido ferroso, come tutti i composti
dove il ferro ha valenza +2 (ferrosi), è altamente solubile in acqua, dunque va favorita la
reazione di ossidazione
4𝐹𝑒(𝑂𝐻)2 + 𝑂2 2𝐻 𝑂
+ 2 ⟶ 4𝐹𝑒(𝑂𝐻)3
Idrossido ferroso Ossigeno (atmosferico) Acqua Idrossido ferrico
Anche la deferrizzazione può essere realizzata contemporaneamente alla
chiariflocculazione e l’addolcimento, tuttavia lo schema d’impianto va leggermente
modificato con un insufflazione d’aria nella fase di miscelazione lenta, circostanza che
comporta un moto dell’acqua e che rende quindi superfluo l’impiego di eliche meccaniche
per la miscelazione.
La rimozione di 𝐹𝑒(𝐻𝐶𝑂3 )2 ne viene di conseguenza all’insufflazione d’aria, infatti
4𝐹𝑒(𝐻𝐶𝑂3 )2 + 𝑂2 2𝐻 𝑂 8𝐶𝑂2
+ 2 ⟶ 4𝐹𝑒(𝑂𝐻)3 +
Bicarbonato ferroso Ossigeno (atmosferico) Acqua Idrossido ferrico Anidride carbonica
Poiché 𝑂2 è un ossidante blando che può comportare reazioni lente e incomplete, si può
scegliere di utilizzare il cloro, con il quale l’idrossido ferroso e il bicarbonato ferroso
reagiscono, rispettivamente, secondo le reazioni
2𝐹𝑒(𝑂𝐻)2 + 𝐶𝑙2 + 𝐶𝑎(𝐻𝐶𝑂3 )2 ⟶ 2𝐹𝑒(𝑂𝐻)3 + 𝐶𝑎𝐶𝑙2 + 2𝐶𝑂2
Idrossido ferroso Cloro Bicarbonato di calcio Idrossido ferrico Cloruro di calcio Anidride carbonica
2𝐹𝑒(𝐻𝐶𝑂3 )2 + 𝐶𝑙2 + 𝐶𝑎(𝐻𝐶𝑂3)2 ⟶ 2𝐹𝑒(𝑂𝐻)3 + 𝐶𝑎𝐶𝑙2 6𝐶𝑂2
+
Bicarbonato ferroso Cloro Bicarbonato di calcio Idrossido ferrico Cloruro di calcio Anidride carbonica
Si rende pertanto necessario anche il bicarbonato di calcio, nonché una mole di soda per
ogni due moli di 𝐹𝑒(𝑂𝐻)2 e per ogni due moli di 𝐹𝑒(𝐻𝐶𝑂3 )2, per precipitare la 𝐶𝑎𝐶𝑙2. Il
cloruro impiegato è quello allo stato gassoso e viene alimentato anch’esso per
insufflazione.
Osserviamo che la possibilità di realizzare nelle stesse vasche sia la
chiariflocculazione, che la precipitazione, rappresenta un’ulteriore vantaggio della
chiariflocculazione rispetto alla filtrazione.

Processi di affinamento

Le reazioni chimiche finalizzate alla precipitazione delle specie disciolte sono


equilibri fortemente spostati verso i prodotti, ma non sono reazioni complete. Per le acque
destinate all’industria di processo si rendono necessarie però ulteriori fasi di affinamento,
con meccanismi differenti da quello della precipitazione e che sono in grado di garantire
una rimozione dei SD più efficiente. Esistono tre diversi processi di affinamento: il
processo di adsorbimento, il processo di scambio ionico e il processo a membrana. Questi
generalmente sono previsti a valle della filtrazione e a monte della disinfezione, talvolta
anche a valle della disinfezione, in quanto si tratta di processi molto dispendiosi e raffinati,
inoltre alcuni di essi permettono di eliminare anche i precursori di alcuni sottoprodotti della
disinfezione che possono essere dannosi.

Adsorbimento
Il processo di adsorbimento sfrutta la capacità di alcune sostanze di trattenere sulla
propria superficie i solidi con cui vengono a contatto, capacità detta potere adsorbente.
Si tratta di un processo di affinamento nella rimozione dei solidi disciolti, inoltre
l’adsorbimento è in grado di eliminare i precursori di alcuni sottoprodotti della disinfezione
che possono essere dannosi, nonché alcune sostanze chimiche derivanti da pesticidi,
concimi, antiparassitari, ecc., utilizzate in agricoltura.
L’adsorbimento si dice reversibile se le forze tra specie adsorbita e specie adsorbente
sono di natura elettrostatica, irreversibile se queste stesse forze sono di natura chimica.
Come sostanza con potere adsorbente si usa il carbone attivo, ottenuto a partire da
sostanze naturali con potere adsorbente e ricche di carbonio, come ad esempio legno,
ossa di animali, torba, gusci di noce di cocco, ecc.
Il processo di produzione del carbone attivo è caratterizzato da una resa molto
bassa, circa il 10%, il che giustifica il suo costo elevato. Per resa del processo di
produzione si intende, chiaramente, la massa di prodotto ottenuto per unità di massa di
materie prime.
Fino a qualche anno fa si utilizzavano dei sali metallici per aumentare la resa fino a circa il
40%, in particolare si usava un sale di zinco. Il suo utilizzo fu poi bloccato in quanto 𝑍𝑛
poteva entrare in soluzione nell’acqua con cui il carbone attivo veniva in contatto.
Il carbone attivo viene realizzato mediante processi termici. In una prima fase, detta di
carbonizzazione, le materie prime vengono mantenute a temperature di 400-450°C per un
periodo che va dalle 3 alle 5 ore. La durata del processo varia caso per caso al fine di
ottenere sempre il massimo della resa. Nel corso della carbonizzazione tutte le parti più
facilmente combustibili delle materie prime bruciano, trasformandosi in acqua o gas.
All’interno del materiale si formano quindi pori ricchi di gas combusti, mentre la superficie
diviene molto frastagliata. Ciò aumenta notevolmente la superficie specifica, quindi le
probabilità di contatto con i solidi disciolti. La superficie specifica di un carbone attivo può
2
variare, a seconda della sua qualità, dai 600 ai 1500 𝑚 ⁄𝑔.
Per liberare i pori dai gas combusti e renderli disponibili al contatto con i solidi disciolti, si
attua una seconda fase di trattamento, detta di attivazione, condotta in un alto forno a
temperature più elevate, di circa 700°C, per un tempo che può andare dalle 24 alle 48 ore,
sempre variabile di volta in volta.
Una sostanza per poter essere adsorbita deve avere la possibilità di penetrare tra i
pori del carbone attivo.
Il parametro che misura la capacità del carbone attivo di trattenere le sostanze è il potere
adsorbente 𝑃𝑎𝑑 , ed è legato alla particolare struttura che il carbone assume nella sintesi. Il
potere adsorbente è definito come il rapporto tra massa di sostanze rimosse 𝑋 e massa di
carbone attivo 𝑀, ossia 𝑃𝑎𝑑 = 𝑋⁄𝑀. Per come è definito il potere adsorbente, per il
medesimo carbone attivo, 𝑃𝑎𝑑 può variare a seconda delle sostanze presenti in acqua.
I carboni attivi si distinguono in base alle caratteristiche geometriche dei pori. Alcuni
hanno porosità omogenea, ossia le dimensioni dei pori non sono variabili. Questi carboni
hanno un’azione specifica su determinati solidi disciolti. Altri hanno pori di dimensioni
variabili, permettendo una più vasta gamma di SD adsorbibili.
Il carbone attivo può presentarsi sotto forma di granuli, granuli rotti o polvere.
Il carbone attivo in granuli, generalmente delle dimensioni di 0.6 − 0.8 𝑚𝑚, viene utilizzato
al posto del mezzo filtrante in un filtro. L’adsorbimento e la filtrazione, tuttavia, vanno
necessariamente realizzati in separata sede, in quanto la presenza di colloidi otturerebbe i
pori del carbone attivo. Man mano che vengono trattenuti solidi disciolti il potere
adsorbente del carbone attivo si riduce, fin quando il filtro non va necessariamente
rigenerato. A differenza dei filtri di sabbia, quelli di carbone attivo vanno puliti mediante
processi di natura chimica e non fisica, in quanto chimiche sono le forze di legame tra le
sostanze adsorbite e le sostanze adsorbenti.
La rigenerazione viene effettuata per via termica, ossia si immette il carbone da
rigenerare in un forno dove viene portato ad alte temperature. La rigenerazione impiega
molto tempo ed è dispendiosa dal punto di vista energetico, pertanto si ritiene che vada
effettuata all’incirca una volta all’anno.
Per dimensionare il filtro di adsorbimento, note la portata volumetrica della corrente
idrica e la concentrazione di inquinante in acqua in ingresso alla fase, si determina la
portata massica delle specie che si desidera eliminare, come 𝑄 ⋅ 𝑐𝑖 = 𝑄̇𝑖 .
Poiché il carbone attivo deve avere una durata di un anno circa, si calcola la massa di
inquinante da rimuovere in un anno come 𝑄̇𝑖 ⋅ 31536000 𝑠⁄𝑎𝑛𝑛𝑜 = 𝑋. Quindi si determina
la massa di carbone attivo necessaria dal valore del potere adsorbente, come 𝑀 = 𝑋⁄𝑃 .
𝑎𝑑
Il carbone attivo sotto forma di polvere non può essere utilizzato in un filtro, poiché
si avrebbero perdite di carico eccessive per permettere il passaggio dell’acqua. La polvere
viene alimentata in una fase di miscelazione rapida, cui segue una di miscelazione lenta
dove avviene l’adsorbimento, cui segue ancora una fase di sedimentazione in cui la
polvere con l’inquinante finiscono nel fango di scarto.
L’utilizzo del carbone attivo in polvere permette quindi di sfruttare reattori già in esercizio,
inoltre il costo della polvere è inferiore rispetto a quello dei granuli, in quanto nella sintesi
del carbone attivo questa costituisce il materiale di scarto. Per contro, però, la polvere
viene persa nel fango e non può essere rigenerata, inoltre ciò comporta un aumento della
produzione di fango, e quindi dei costi di smaltimento.

Scambio ionico
Lo scambio ionico sfrutta la capacità di alcune sostanze, dette appunto scambiatori
ionici, di trattenere le specie ioniche presenti in acqua, rilasciandone delle altre. Per
questa capacità si parla di potere di scambio ionico, definito come la massa delle specie
ioniche presenti in acqua che lo scambiatore è in grado di rimuovere per unità di massa
dello scambiatore stesso.
Molte sostanze naturali hanno potere di scambio, come le resine naturali, tuttavia
oggi vengono utilizzati prodotti di sintesi, in quanto hanno potere di scambio maggiore,
detti ancora resine scambiatrici. Le resine sono costituite da una parte inerte ed una
numerosa quantità di ioni ad essa legati. Per quanto elevato, il numero di ioni legati ad
una resina è finito, pertanto una volta che siano stati tutti sostituiti il materiale non è più in
grado di realizzare lo scambio, e la resina va rigenerata.
Lo scambio ionico viene realizzato in un filtro in cui il mezzo filtrante è sostituito da
resine scambiatrici. L’acqua in uscita contiene specie ioniche differenti.
I filtri per lo scambio ionico sono filtri a pressione realizzati in acciaio, in quanto spesso
l’acqua arriva in questa fase dotata di una certa energia di pressione, energia che viene
quindi sfruttata per il passaggio nel filtro.
La rigenerazione delle resine viene effettuata bloccando il passaggio della corrente idrica
nel filtro e alimentando un’acqua ad alta concentrazione delle specie ioniche inizialmente
appartenenti alla resina.
Esistono resine cationiche, con ioni positivi, e resine anioniche, con ioni negativi.
Le resine cationiche sono in grado di rimuovere la durezza, che ricordiamo essere data
dagli ioni 𝐶𝑎2+ ed 𝑀𝑔2+ , in una operazione di affinamento.
Le resine cationiche generalmente utilizzate sono le resine sodiche, ossia con ioni 𝑁𝑎2+ ,
in quanto nella rigenerazione può essere alimentata una soluzione di acqua e sale da
cucina, 𝑁𝑎𝐶𝑙, quest’ultimo facilmente reperibile e poco costoso.
Le resine anioniche sono principalmente utilizzate per rimuovere i nitrati, 𝑁𝑂32− . Essi sono
presenti in acqua poiché rappresentano il composto fondamentale di tutti i concimanti.
La rigenerazione è in genere effettuata con acqua ricca di solfati 𝑆𝑂42− .
Il dimensionamento del filtro si effettua sulla base del potere di scambio della resina
utilizzata, allo stesso modo visto nel caso dell’adsorbimento. Rispetto all’adsorbimento,
tuttavia, lo scambio ionico prevede un processo di rigenerazione molto più semplice ed
immediato, realizzabile anche quotidianamente.

Processi a membrana
Un processo a membrana è un processo di affinamento che consiste in una
filtrazione di tipo stacciante, ossia l’acqua viene fatta passare attraverso una barriera
selettiva molto sottile, la membrana, permeabile ad alcune sostanze e non ad altre. E’ una
filtrazione molto più spinta di quella a spessore, in grado di trattenere persino le specie
disciolte. La corrente idrica in uscita dal filtro a membrana è detta permeato, mentre il
materiale trattenuto viene allontanato dal filtro in un’altra corrente idrica, di portata
notevolmente inferiore, detta concentrato.
Le dimensioni dei pori della membrana dipendono dalle specie che si desidera eliminare.
Chiaramente più sono piccoli i pori, maggiori sono le perdite di carico in quanto si rende
necessario energizzare in misura maggiore l’acqua per promuoverne il passaggio. Questa
energia viene fornita all’acqua sotto forma di energia di pressione o di energia elettrica.
Nel primo caso si parla di processo a membrana scarica e si realizza applicando un certo
∆𝑝 tra ingresso e uscita del filtro, nel secondo caso si ha un processo a membrana carica.
Le membrane si sono diffuse solo verso gli anni ’80, prima infatti non esistevano
materiali in grado di resistere, con piccolo spessore, alle grandi differenze di pressione o al
campo elettrico, e venivano realizzate membrane più spesse che si ostruivano facilmente.
L’ostruzione dei pori è detta fenomeno di sporcamento o di fouling della membrana.
I processi a membrana si classificano in base alle dimensioni dei pori, come
mostrato dalla seguente tabella.

Processo a membrana Range di separazione Forza Motrice (∆𝒑) [𝒃𝒂𝒓]


[𝝁𝒎]
Microfiltrazione 0.02-2 0.1-1
Ultrafiltrazione 0.002-0.02 1-5
Nanofiltrazione 0.001-0.002 5-20
Osmosi Inversa 0.0001-0.001 20-100

Nei processi a membrana scarica le membrane sono montate su dei supporti, detti
moduli, di cui ne esistono quattro diverse tipologie: a spirale, a fibre cave, tubolare, a
lastre piane.
Tali moduli possono essere disposti tra loro in serie o parallelo a seconda delle diverse
esigenze.
Il modulo a spirale è costituito da una tubazione centrale, dotata di piccoli pori,
attorno alla quale vengono avvolti la membrana e un drenante, in modo da formare una
spirale a strati alterni. Il tutto è racchiuso in un tubo di plastica dura.
All’estremità in cui viene alimentata la corrente idrica il tubo centrale è chiuso, pertanto
l’acqua, che tende ad entrarvi per effetto della differenza di pressione, si trova costretta ad
attraversare la membrana. All’estremità opposta, dunque, si ritrova il permeato in uscita
dalla tubazione centrale, e il concentrato dalla corona circolare.
Il modulo a fibre cave è costituito da una serie di membrane di forma cilindrica con
diametro molto piccolo. L’acqua pressurizzata viene alimentata all’interno di questi tubi
lunghi e sottili: il permeato fuoriesce, il concentrato resta all’interno.
Il modulo a lastre piane consiste in una serie di piccoli tubi verticali in cui sono
poste delle membrane piane, una sopra l’altra. I tubi sono racchiusi all’interno di una
tubazione. L’acqua è alimentata dal basso e in parte continua lungo la tubazione, in parte
passa attraverso tali membrane nei piccoli tubi. Il sistema è congegnato in maniera tale da
avere un drenaggio centrale per consentire il passaggio dell’acqua filtrata.

I moduli tubolari sono un insieme di tubi porosi, di norma in materiale plastico, sulla
parete interna dei quali è appoggiata la membrana. Più elementi così costituiti
rappresentano un singolo modulo. I vari elementi costituenti un singolo modulo possono, o
meno, essere tutti contenuti all'interno di un supporto tubolare esterno. Nei moduli la
corrente da filtrare fluisce all'interno di ciascun tubo poroso, facendo fuoriuscire
lateralmente il permeato, che è raccolto dall'eventuale involucro esterno.
Per ogni elemento viene specificata la portata che è in grado di trattare. Nota la
portata complessiva, dividendola per la portata da inviare a ciascun elemento è possibile
conoscere il numero di elementi necessari.
L’elettrodialisi è l’unico processo a membrana carica di interesse ingegneristico per
i processi di trattamento delle acque.

Il sistema dell’elettrodialisi è costituito da un canale a pelo libero attraverso cui


scorre l’acqua. All’interno del canale sono poste delle membrane in verticale,
parallelamente al flusso, anioniche A, e cationiche C, alternate. La membrana anionica è
in grado di essere attraversata solo ed esclusivamente da anioni e non da cationi, la
membrana cationica permette invece solo il passaggio di ioni positivi. Nel canale, poi, si
inseriscono due elettrodi, uno positivo e uno negativo, che generano un campo elettrico
che spinge i cationi verso l’anodo e gli anioni verso il catodo. Sulle specie ioniche si
esercitano quindi forze in direzione trasversale, ma il loro moto viene ostacolato dalla
presenza delle membrane, che ne bloccano il passaggio. Nel canale si creano quindi delle
zone in cui l’acqua è priva di specie ioniche, e delle zone in cui tali specie si sono
concentrate. Le membrane, quindi, non si dispongono in maniera equidistanziata nel
canale, ma si fa in modo che la zona in cui si ritrovano le specie ioniche abbia volume
molto inferiore di quello in cui si ritrova il permeato. Così facendo il concentrato da
espellere sarà costituito da una piccola portata d’acqua ad alta concentrazione di ioni.
Disinfezione

L’obiettivo della disinfezione è quello di rimuovere la carica microbica patogena


eventualmente presente nella corrente idrica. Anche se non tutte le acque di
approvvigionamento ne contengono, la disinfezione va sempre attuata, in misura
preventiva. Nel processo non si eliminano tutti i microrganismi ma solo quelli di natura
patogena, che costituiscono la minor parte, mentre per la maggior parte vi sono
microrganismi banali che, però, non sono nocivi. Si tratta quindi di un processo diverso
dalla sterilizzazione, che prevede l’eliminazione di tutte le specie microbiche. Un processo
di sterilizzazione per le acque destinate ad uso potabile non avrebbe senso in quanto
l’acqua non è isolata, e non appena verrebbe costretta ad attraversare dei condotti, uscire
da un rubinetto, venire a contatto con l’atmosfera, ecc., essa sarebbe nuovamente
contaminata da microrganismi banali. E’ possibile eliminare i microrganismi patogeni e non
i banali in quanto i primi sono più sensibili dei secondi.
La disinfezione, nel ciclo di trattamento, è sempre prevista come ultima fase, a
meno della presenza di processi di affinamento molto raffinati. La fase viene
rappresentata schematicamente con il simbolo

La disinfezione può essere realizzata mediante una variazione di temperatura,


l’aggiunta di disinfettanti chimici o sottoponendo l’acqua a radiazioni elettromagnetiche.
Un buon disinfettante deve rispettare determinate caratteristiche, ossia deve essere
economico, facilmente reperibile, non dannoso per le strutture in cui l’acqua viene
stoccata, non tossico e persistente in rete, per garantire la protezione da eventuali
contaminazioni anche nel corso del trasporto dell’acqua all’utenza. Poiché non esiste un
disinfettante che presenti contemporaneamente tutte le suddette caratteristiche, se ne
utilizzano più di uno.
Esistono due categorie di disinfettanti, i disinfettanti chimici e i disinfettanti fisici. Tra i
disinfettanti chimici vi sono il cloro gas 𝐶𝑙2, l’ipoclorito di sodio 𝑁𝑎𝐶𝑙𝑂, l’ipoclorito di calcio
𝐶𝑎(𝐶𝑙𝑂)2, il biossido di cloro 𝐶𝑙𝑂2 e l’ozono 𝑂3. Tra i disinfettanti fisici vi sono i raggi UV,
gli ultrasuoni (anche se al momento hanno solo valenza sperimentale e non hanno
interesse ingegneristico) e l’aumento di temperatura (anch’esso non ha interesse
ingegneristico, se non su piccola scala, in quanto presenta costi eccessivi).
Disinfezione chimica
I disinfettanti chimici occupano la maggior parte delle applicazioni ingegneristiche.
Si usano prevalentemente composti a base di cloro, in particolare per disinfettanti al cloro
si intendono 𝐶𝑙2, 𝑁𝑎𝐶𝑙𝑂 e 𝐶𝑎(𝐶𝑙𝑂)2. Queste tre specie sono accomunate dal fatto che
nessuna di esse possiede di per sé potere disinfettante: l’azione di disinfezione deriva
dalle reazioni di idrolisi con l’acqua. 𝐶𝑙𝑂2 non rientra nella classificazione e vale per esso
un discorso a parte.
Le reazioni tra disinfettanti al cloro e acqua sono
𝐶𝑙2 𝐻2 𝑂 𝐻𝐶𝑙 𝐻𝐶𝑙𝑂
+ ⇌ +
Cloro Acqua Acido cloridrico Acido ipocloroso
𝑁𝑎𝐶𝑙𝑂 𝐻2 𝑂 𝑁𝑎𝑂𝐻 𝐻𝐶𝑙𝑂
+ ⇌ +
Ipoclorito di sodio Acqua Idrossido di sodio Acido ipocloroso
𝐶𝑎(𝐶𝑙𝑂)2 2𝐻2 𝑂 2𝐻𝐶𝑙𝑂
+ ⇌ 𝐶𝑎(𝑂𝐻)2 +
Ipoclorito di calcio Acqua Idrossido di calcio Acido ipocloroso
L’acido ipocloroso 𝐻𝐶𝑙𝑂 ha potere disinfettante, e la sua formazione dipende da reazioni
di equilibrio chimico, che vengono influenzate dal 𝑝𝐻. Per bassi valori di 𝑝𝐻 le reazioni
sono spostate verso sinistra, e ciò è sfavorevole, per 𝑝𝐻 ≈ 5.3 − 5.4 si ha la condizione
ottimale in quanto sono spostate verso destra, mentre per pH molto alti è spostata verso
destra anche la reazione
𝐻𝐶𝑙𝑂 𝐻 𝑂 + 𝐶𝑙𝑂−
+ 2 ⇌ 𝐻3 𝑂 +
Acido ipocloroso Acqua Ione idronio Ione ipoclorito
Quest’ultima reazione è indesiderata in quanto lo ione ipoclorito 𝐶𝑙𝑂− ha potere
disinfettante inferiore rispetto all’acido ipocloroso.
Questi due disinfettanti svolgono il loro compito con due azioni: azione ossidante e azione
di inibizione della secrezione enzimatica dei microrganismi. Le reazioni chimiche di cui i
microrganismi necessitano per sopravvivere, infatti, sono catalizzate da enzimi e portano
alla trasformazione delle sostanze organiche. In particolare si ha che 𝐻𝐶𝑙𝑂 ha più potere
inibente, mentre 𝐶𝑙𝑂− ha più potere ossidante. In definitiva, però, ossia confrontando
l’azione combinata di entrambi i poteri per queste specie, l’acido ipocloroso risulta essere
un disinfettante più potente.
L’azione disinfettante di una qualunque specie è legata soprattutto alla
concentrazione 𝑐 in cui tale sostanza è presente in acqua, nonché al tempo di contatto 𝑡𝑑
con i microrganismi. Si definisce pertanto la dose di disinfettante come 𝐷 = 𝑐 ⋅ 𝑡𝑑 .
Maggiore è la dose maggiore è l’azione disinfettante. Una sostanza ha potere disinfettante
maggiore rispetto ad un’altra se, a parità di dose, ha un effetto maggiore.
Poiché l’azione dei disinfettanti al cloro è legata esclusivamente alla formazione di
acido ipocloroso, la specie più conveniente da sfruttare sembrerebbe essere 𝐶𝑙2, tuttavia
al contrario essa è la più sconveniente e meno utilizzata in quanto, essendo pericolosa,
deve essere maneggiata da personale specializzato. L’𝑁𝑎𝐶𝑙𝑂 viene venduto in soluzioni al
13-15%, mentre il 𝐶𝑎(𝐶𝑙𝑂)2 al 23-25%.
I disinfettanti al cloro sono poco costosi, facilmente approvvigionabili, garantiscono
protezione nella rete (e sono anche gli unici a presentare tale caratteristica), tuttavia
possono essere tossici. In acqua infatti innescano numerose reazioni con possibile
formazione di alcuni sottoprodotti come i THM (trialometani, ad esempio cloroformio e
bromoformio), che sono sostanze potenzialmente cancerogene. Ciò è stato scoperto solo
negli anni ’80, in quanto prima non esistevano attrezzature abbastanza sofisticate da
rivelare le piccolissime concentrazioni in cui erano presenti queste pericolose specie.
Dopo questa scoperta non furono più disinfettate le acque, con un conseguente aumento
del tasso di mortalità dovuto non al cancro, bensì alla presenza dei patogeni non più
rimossi. Fu quindi reintegrata la disinfezione, parallelamente alla ricerca di disinfettanti che
non presentassero la problematica: si è così diffuso l’uso del 𝐶𝑙𝑂2. Inoltre sono stati
effettuati numerosi studi per cercare di chiudere tutti i bilanci delle reazioni tra disinfettanti
al cloro e l’acqua, scoprendo così che oltre ai THM vi era formazione di ancora altre
sostanze di cui tutt’oggi non è chiara la natura. Allo stato attuale i bilanci non sono stati
ancora chiusi.
Il biossido di cloro non esiste in natura ma viene prodotto nell’impianto di
trattamento dell’acqua stesso, in quanto non è stabile. E’ più costoso dei disinfettanti al
cloro e si forma a partire dal clorito di sodio 𝑁𝑎𝐶𝑙𝑂2 secondo le reazioni
𝑁𝑎𝐶𝑙𝑂2 + 𝐶𝑙2 ⟶ 𝐶𝑙𝑂2 + ⋯
𝑁𝑎𝐶𝑙𝑂2 + 𝐻𝐶𝑙 ⟶ 0.8𝐶𝑙𝑂2 + ⋯
Sembrerebbe più conveniente servirsi del primo processo, in quanto il rapporto tra
reagente e prodotto desiderato è di 1:1, tuttavia la reazione comporta la formazione di
sottoprodotti che creano diverse problematiche, per cui si sfrutta il secondo processo.
Il biossido di cloro a temperatura e pressione ambiente si trova allo stato gas, solubilizza
in acqua ma non da luogo a reazioni di idrolisi. Il potere disinfettante di 𝐶𝑙𝑂2 quindi non è
legato al valore del 𝑝𝐻, ma è un potere esclusivamente ossidante e non inibente. La
formazione di THM è molto inferiore rispetto ai disinfettanti al cloro, tuttavia anche in
questo caso non si è ancora riusciti a chiudere i bilanci.
Il biossido di cloro è molto usato negli impianti di potabilizzazione, meno in quelli di
depurazione che sono più piccoli e su piccola scala non sempre conviene tenere sotto
controllo reazioni pericolose come quelle cui da luogo questo disinfettante.
L’ozono in Italia è poco usato, in Francia di più. Esiste in natura ma in condizioni
ambientali sfavorevoli, quindi è necessario produrlo, e ciò va fatto all’interno dell’impianto
stesso in quanto la specie non è stabile.
L’𝑂3 si produce dall’ossigeno: si sottopone ad un trattamento energetico un flusso di
𝑂2, il quale si suddivide in due atomi di 𝑂, che reagiscono con l’ossigeno formando ozono
𝑂2 ⟶ 𝑂 + 𝑂
𝑂2 + 𝑂 ⟶ 𝑂3
Se non viene fornita energia si hanno le reazioni inverse, cioè 𝑂3 si riconverte in 𝑂2 e 𝑂.
Pertanto, appena formato l’ozono va immesso nell’acqua e non fornendo energia lo si
lascia reagire formando 𝑂2 e 𝑂.
L’ossigeno atomico è molto ossidante per le cellule microbiche, presenta il potere
ossidante maggiore rispetto agli altri disinfettanti. L’utilizzo di ozono tuttavia presenta
diverse problematiche infatti, a parte i costi di produzione, non garantisce la protezione in
rete. Accanto ad 𝑂3 quindi va immesso anche il cloro, si tratta cioè di una disinfezione
frazionata.
La scala di poteri disinfettanti è 𝑂3 > 𝐻𝐶𝑙𝑂 > 𝐶𝑙𝑂2 > 𝐶𝑙𝑂− .
Qualunque sia il disinfettante, le vasche sono le stesse e il dimensionamento è
simile. Per stimare il volume si fa riferimento al tempo di detenzione necessario, definito
come tempo medio di permanenza di ciascuna particella della corrente idrica, quindi
anche dei microrganismi. Il 𝑡𝑑 dipende dal disinfettante. Si può agire poi sulla
concentrazione per ottenere la stessa dose (𝐷 = 𝑐 ⋅ 𝑡𝑑 ). Il volume della vasca è calcolato
poi come 𝑉 = 𝑄 ⋅ 𝑡𝑑 .
Per consuetudine con i disinfettanti al cloro si fissa 𝑡𝑑 = 25 − 30 𝑚𝑖𝑛.
Per il biossido di cloro si usa un 𝑡𝑑 = 15 − 20 𝑚𝑖𝑛. Si ha un tempo più piccolo perché
complessivamente ha un potere disinfettante superiore a quello dei clorati.
Per l’ozono si usa un 𝑡𝑑 = 5 − 7 𝑚𝑖𝑛, le vasche sono ancora più piccole dato l’elevato
potere disinfettante.
In base al tempo di detenzione, ossia in base al volume, si determina la forma della vasca.
Per quanto riguarda l’altezza non vi sono vincoli, il processo è indipendente da essa.
Tipicamente le vasche sono alte 2 − 3 𝑚.
Per quanto riguarda invece le altre dimensioni, idealmente andrebbe realizzata una vasca
lunga e stretta in cui le molecole d’acqua e i microrganismi entrerebbero in successione
con un moto di pura traslazione, in maniera tale che tutte le particelle abbiano il medesimo
𝑡𝑑 , pari a quello di progetto.

Tale vasca permetterebbe un comportamento idrodinamico di flusso a pistone. Si tratta di


una configurazione chiaramente ideale, ma nella realtà si cerca di approssimare il più
possibile tale flusso inserendo dei setti all’interno della vasca.

Nel caso reale la curva di distribuzione dei tempi di detenzione delle particelle è una
gaussiana con media 𝑡𝑑 . L’obiettivo è quello di ridurre al minimo la varianza, ossia far sì
che la curva assuma forma stretta e alta. L’inserimento dei setti permette di stringere e
alzare la campana.
In definitiva non sono importanti lunghezza, larghezza e altezza ma sono fondamentali il
volume totale e la disposizione di setti all’interno della vasca.

Disinfezione fisica
L’unico metodo di disinfezione fisica con applicazioni ingegneristiche è
l’irraggiamento con raggi ultravioletti.
Il processo consiste nell’esposizione dell’acqua alla luce di lampade con involucro
trasparente che emettono raggi UV. Gli involucri sono riempiti con gas argon e gocce di
mercurio. Una volta azionata l’alimentazione elettrica si ha un incremento della
temperatura all’interno delle lampade: le gocce di mercurio iniziano a vibrare e tali
vibrazioni colpiscono l’argon che emana raggi ultravioletti non visibili. Hanno una
lunghezza d’onda 𝜆 compresa tra i 100 e i 400 𝜇𝑚.
I microrganismi, soprattutto i patogeni, soffrono l’esposizione a tali raggi, infatti le
radiazioni ultraviolette alterano le molecole necessarie per la loro riproduzione.
Anche in questo caso si può parlare di dose, che dipende dall’intensità 𝐼 del raggio
e dal tempo di esposizione 𝑡𝑒 dei microrganismi ad esso, in particolare 𝐷 = 𝐼 ⋅ 𝑡𝑒 . Maggiore
è la dose e maggiore sarà l’azione disinfettante. In genere bastano pochi secondi di
esposizione per disinfettare l’acqua, più precisamente 𝑡𝑒 = 5 − 10 𝑠.
L’azione di disinfezione è influenzata anche dalla specifica lunghezza d’onda del
raggio. L’andamento di 𝜆 è a campana con massimo intorno ai 250 − 255 𝜇𝑚. In
particolare per 𝜆 = 253.7 𝜇𝑚 il raggio, a parità di dose, presenta un’efficacia maggiore.

Esistono lampade di diverso tipo:


- bassa pressione: l’argon è a 𝑝 = 0.1 − 0.2 𝑎𝑡𝑚. I raggi hanno un’emissione
monocromatica con più o meno la stessa lunghezza d’onda 𝜆 = 250 − 255 𝜇𝑚 (a
cavallo sulla lunghezza più favorevole);
- media pressione: l’argon è a 𝑝 = 5 𝑎𝑡𝑚. I raggi hanno una distribuzione più ampia
di 𝜆, coprono tutto il range di UV e sforano anche nel visibile. I raggi hanno
un’intensità maggiore rispetto ai raggi a bassa pressione poiché 𝐼 dipende da 𝑝. Tra
i due effetti l’intensità prevale sulla lunghezza d’onda e quindi le lampade a media
pressione sono più efficienti, nel senso che, a parità di risultato finale, sono
necessarie meno lampade. Il problema è che queste sono più costose: la scelta va
valutata caso per caso.
Le lampade non hanno vita infinita. Subiscono il decadimento delle caratteristiche dei
fluidi all’interno. Quelle di miglior qualità durano di più ma sono più costose: in genere
possono arrivare anche a 11-12 mesi di vita. Le peggiori costano meno, ma durano
appena 3-4 mesi.
L’involucro gioca un ruolo molto importante poiché contiene il gas e quindi al suo
interno avviene la formazione dei raggi, mentre la disinfezione deve avvenire all’esterno.
L’involucro deve essere quindi permeabile al raggio e assorbirne il meno possibile
l’intensità. Si distinguono in:
- involucri in quarzo: è il materiale naturale più costoso, ma assorbe solo il 10% di 𝐼;
- involucri in teflon: è un materiale sintetizzato meno costoso, ma con assorbimento
del 30% di 𝐼. A parità di dose o si aumenta l’intensità, e quindi la potenza della
lampada o si aumenta il numero di lampade.
L’esposizione dell’acqua ai raggi UV può avvenire in due modi:
- lampade in tubazione a pressione: nei tubi in cui sono disposte le lampade l’acqua
viene alimentata in pressione;
- lampade in canale a pelo libero: con elementi di sostegno le lampade sono
collocate in un canale a pelo libero e possono essere poste verticalmente o
parallelamente al flusso.
L’ultima soluzione è più recente, prima si preferiva utilizzare le lampade nelle tubazioni in
quanto prevedono che tutto il tubo sia occupato dall’acqua, il che comporta una maggiore
efficienza dell’irraggiamento. Nel caso delle lampade in canale, invece, se varia la portata
volumetrica 𝑄 della corrente idrica cambia la quota del pelo libero. Se dovesse verificarsi
un abbassamento del pelo libero, le lampade scoperte dall’acqua si fulminerebbero. Al
contrario, l’acqua a quota maggiore non verrebbe disinfettata.

Sono stati poi introdotti dei sistemi basculanti, che consentono di mantenere costante il
livello del pelo libero nel canale al variare della portata.

La soluzione consiste in delle paratoie incernierate al canale che basculano, cioè ruotano
attorno alla cerniera. Il loro grado di apertura è variabile in funzione della portata, allo
scopo di stabilizzare il livello dell’acqua.
Il vantaggio delle lampade in canale risiede nella possibilità di sostituire le lampade
più facilmente perché basta estrarre il pezzo e cambiarlo. In tubazione invece è
necessario fermare l’alimentazione poiché con l’acqua in pressione c’è il rischio che
questa possa fuoriuscire.
Con i raggi UV non si hanno chiaramente problemi di chiusura del bilancio. Per
questo motivo il processo si è diffuso ed è in uso da circa 40 anni, soprattutto per gli
impianti di potabilizzazione. Tuttavia l’irraggiamento è più costoso della disinfezione
chimica di un ordine di grandezza, inoltre non garantisce la protezione in rete, pertanto è
necessario un altro disinfettante a base di cloro per l’azione secondaria.
In passato vi era un’ulteriore problematica legata a questo processo, che risiedeva nella
circostanza che l’acqua che vi giungeva in alimentazione poteva presentare, seppur in
piccolissima parte, una certa concentrazione di solidi sospesi residui. I microrganismi
dell’acqua tendevano ad aderire a tali sostanze, che schermavano così l’azione del raggio.
In questo modo una parte dei microrganismi non veniva raggiunta dai raggi UV.
Successivamente sono state introdotte delle superfici riflettenti che migliorano l’azione
delle lampade, per questo motivo oggi sono largamente più diffuse ed utilizzate.

Cicli di trattamento completi per acque di categoria A3

Ciclo di trattamento completo per acque di categoria A3 con presa dal fiume

Ciclo di trattamento completo per acque di categoria A3 con presa dal lago
Lo schema è identico al caso precedente con l’unica differenza che la fase di
sgrossatura è sostituita da una di microstacciatura.
Trattamenti cui sono sottoposte le acque di falda

Le acque di falda contengono solo SD, quindi queste acque devono essere
sottoposte a precipitazione, eventualmente a processi di affinamento, e a disinfezione. Il
loro ciclo di trattamento cioè è un sottoinsieme di quello cui vengono sottoposte le acqua
superficiali di categoria A3.

Cicli di trattamento completi per acque di falda

Ciclo di trattamento completo per acque di falda

Normative vigenti sulle acque in uscita da un


impianto di depurazione

Dopo l’utenza, prima di essere scaricata in un corpo idrico ricettore, l’acqua deve
essere trattata in un impianto di depurazione.
Le caratteristiche delle acque di scarico dipendono dall’uso che ne è stato fatto e la
casistica è molto ampia.
Le caratteristiche dell’acqua in uscita da un impianto di depurazione sono
regolamentate dalla legge, che ne definisce i requisiti di qualità.
La legge n. 319/1976, anche detta legge Merli, fu la prima in Italia che impose
l’obbligo della depurazione delle acque. Fino al 1976, infatti, non esisteva alcuna norma
che regolamentasse le caratteristiche delle acque scaricate in un corpo idrico ricettore.
Ancora oggi il 30% della popolazione italiana non è servita da ID (tra cui ad esempio il
comune di Benevento). L’esigenza di imporre una normativa sulle acque reflue in quel
periodo nacque perché alla fine degli anni ’60 inizio anni ’70 sorse un’attenzione
particolare per l’ambiente, con fondazione di diverse associazioni per l’ecologia, ma
soprattutto nel 1973 a Napoli ci fu un’epidemia di colera dovuta al consumo di frutti di
mare crudi.
La legge Merli fu emanata per provvedere all’emergenza e definiva i valori delle
concentrazioni massime di determinati parametri.
I parametri per le acque domestiche e delle attività produttive furono indicati all’interno di
varie tabelle.

Tabella A
𝐵𝑂𝐷5 𝑚𝑔
40 ⁄𝑙
𝐶𝑂𝐷 𝑚𝑔
160 ⁄𝑙
𝑆𝑆𝑇 𝑚𝑔
80 ⁄𝑙
𝑁𝐻4+ 𝑚𝑔
15 ⁄𝑙
𝑁𝑂2 𝑚𝑔
0.6 ⁄𝑙
𝑁𝑂3 𝑚𝑔
20 ⁄𝑙
𝑃 𝑚𝑔
2 ⁄𝑙
. .
. .
. .

Inoltre per le acque delle attività produttive la legge prevedeva una duplice possibilità.

La soluzione 1 è legata agli stessi vincoli della tabella A.


La soluzione 2 prevede una prima fase di depurazione di cui si deve occupare l’attività
produttiva, con valori massimi di alcuni parametri superiori a quelli della tabella A.
Dopodiché l’acqua può essere scaricata nella fogna cittadina, dove poi sarà depurata del
tutto nell’ID.
I valori limite dei parametri in uscita dal primo ID erano fissati dalla tabella C.

Tabella C
𝐵𝑂𝐷5 𝑚𝑔
250 ⁄𝑙
𝐶𝑂𝐷 𝑚𝑔
500 ⁄𝑙
𝑆𝑆𝑇 𝑚𝑔
200 ⁄𝑙
𝑁𝐻4+ 𝑚𝑔
30 ⁄𝑙
𝑁𝑂2 .
𝑁𝑂3 .
𝑃 .
𝐹𝑒 .
. .
. .
. .

In altre parole, con la ID primaria si riportano le acque di scarico industriale alle condizioni
delle acque reflue urbane.
La legge Merli comportava tutta una serie di problematiche, vi si lavorò infatti in
condizioni di emergenza e non prevedeva importanti differenziazioni da caso a caso.
Per tale legge, tutti i comuni dovevano rispettare i parametri della tabella A. I parametri,
però, sono espressi in termini di concentrazioni, mentre la portata massica di inquinante
scaricato dipende anche dalla portata d’acqua reflua, in particolare 𝑄̇𝑖 = 𝑄 ⋅ 𝑐𝑖 . Fissata la
concentrazione 𝑐𝑖 , la portata massica di inquinante è tanto maggiore quanto più
significative sono le portate d’acqua, ossia il numero di abitanti serviti. Era necessario,
pertanto, differenziare i valori limite dei parametri sulla base delle dimensioni del centro
urbano. A parità di numero di abitanti, inoltre, va tenuto in considerazione il tipo di corpo
idrico ricettore, infatti uno scarico in mare provoca certamente meno inquinamento che
uno scarico in lago, che non ha reflusso.
Alla luce di ciò furono emanati dei provvedimenti a livello regionale per risolvere tali
problemi.
Il D.Lgs. n. 152/1999 sostituì la legge Merli. Non è più in vigore ma il contenuto è
stato riportato nel nuovo decreto.
Nel D.Lgs. n. 152/2006 confluirono tutte le normative ambientali tra cui quelle del
D.Lgs. n. 152/1999. Dal ’76 al ’99 tutte le normative furono irrigidite e i valori dei parametri
vennero notevolmente ridotti.
Il decreto legislativo n. 152 del 2006 è costituito da 318 articoli, suddivisi in 6 parti. Nella
parte terza, sezione II, si trova la definizione di scarico. Tale definizione è stata aggiornata
nel D.Lgs. n. 4/2008.
“Si definisce scarico qualsiasi immissione effettuata esclusivamente tramite un sistema
stabile di collettamento che collega senza soluzione di continuità il ciclo di produzione del
refluo con il corpo ricettore in acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria,
indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche sottoposte a preventivo trattamento
di depurazione.”
Un’acqua, per poter essere considerata reflua, deve passare attraverso un collettore
fognario che collega le abitazioni o le attività produttive con l’impianto. Se non passano
per collettori non sono scarichi ma rifiuti e vincolati ad una diversa regolamentazione,
molto più complessa.
Nel D.Lgs. n. 152/2006, sempre nella parte terza, sezione II, si trova anche la
classificazione delle acque reflue.
- Acque reflue domestiche: provenienti da insediamenti di tipo residenziale e da
servizi, derivanti prevalentemente dal metabolismo umano e da attività domestiche;
- Acque reflue industriali: qualsiasi tipo di acque reflue scaricate da edifici o impianti
in cui si svolgono attività commerciali o di produzioni di beni, diverse dalle acque
reflue domestiche e dalle acque meteoriche di dilavamento;
- Acque reflue urbane: acque reflue domestiche o il miscuglio di acque reflue
domestiche con acque reflue industriali o meteoriche di dilavamento convogliate in
reti fognarie, anche separate, e provenienti da agglomeramento.
Come nella legge Merli, sono stati definiti dei valori massimi di concentrazioni tollerate, per
una serie di parametri, indicati per mezzo di alcune tabelle. Ve ne sono diverse a seconda
del tipo di corpo idrico ricettore, specificando inoltre la massima portata di inquinante
tollerata.
Per quanto riguarda le acque reflue urbane e domestiche, impianti di depurazione
che servono meno di 2000 abitanti non sono vincolati da limiti per le concentrazioni
massime. In questi casi è infatti sufficiente trattenere le acque di scarico all’interno di
alcune vasche, per diversi giorni, all’interno delle quali tramite sistemi naturali è possibile
ottenere delle riduzioni sufficienti delle concentrazioni di inquinanti.
Impianti di depurazione che servono più di 2000 abitanti devono rispettare invece i limiti
dei parametri 𝐵𝑂𝐷5 , COD e SST che sono riportati in tabella.

Tabella 1
𝐵𝑂𝐷5 𝑚𝑔
25 ⁄𝑙
𝐶𝑂𝐷 𝑚𝑔
125 ⁄𝑙
𝑆𝑆𝑇 𝑚𝑔
35 ⁄𝑙
. .
. .
. .

Si tratta di valori più restrittivi rispetto a quelli previsti dalla legge Merli. In particolare si è
passati da concentrazioni di SST di 80 a 35 e ciò ha comportato conseguenze
ingegneristiche evidenti.
Altri parametri come il fosforo e l’azoto sono indicati in tabella 2.

Tabella 2
Abitanti equivalenti serviti Abitanti equivalenti serviti
tra 10000 e 100000 abitanti superiori a 100000 abitanti
𝑃 𝑚𝑔 𝑚𝑔
2 ⁄𝑙 1 ⁄𝑙
𝑁 𝑚𝑔 𝑚𝑔
15 ⁄𝑙 10 ⁄𝑙
. . .
. . .
. . .

I limiti su 𝑁 e 𝑃 sono imposti solo per centri con più di 10000 abitanti che scaricano in
corpi idrici sensibili, ovvero a rischio eutrofizzazione.
La legge Merli presentava dei valori di concentrazioni massime ammissibili dei composti
dell’azoto, mentre nel D.Lgs. n. 152/2006 sono presenti direttamente i valori massimi
ammissibili di 𝑁. Nella legge Merli sommando le concentrazioni massime di tutti i composti
azotati si ottiene un massimo di 𝑁 pari a 35, mentre nella nuova normativa è di 15,
pertanto è stata prevista una drastica riduzione anche in questo caso.
Per quanto riguarda le acque industriali il D.Lgs. n. 152/2006 presenta le stesse
condizioni imposte dalla legge Merli.
In sostituzione delle tabelle A e C si hanno rispettivamente la colonna 1 e la colonna 2
della tabella 3. Tranne per qualche piccola variazione, i valori indicati sono rimasti
sostanzialmente gli stessi.
Rispetto alla legge Merli, però, nel D.Lgs. n. 152/2006 sono stati fissati anche altri vincoli
legati alla massa totale di inquinante scaricabili nel corpo idrico ricettore. Tali vincoli sono
indicati in tabella 3/A.
Prima del giugno 2003 lo scarico in corpo idrico rappresentava l’unica soluzione di
smaltimento delle acque reflue. Successivamente, il D.M. (decreto ministeriale, in questo
caso del ministero dell’ambiente) n. 185/2003 ha stabilito le condizioni per poter riciclare le
acque reflue depurate domestiche, urbane e industriali. Il decreto definisce le modalità di
realizzazione delle reti destinate alla ridistribuzione delle acque reflue depurate, nonché i
criteri di controllo e monitoraggio del riutilizzo e degli impianti destinati alla depurazione
delle stesse.
Il regolamento recante le norme tecniche per il riutilizzo delle acque reflue in attuazione
dell’art. 26 del D.Lgs. n. 152/1999, stabilisce come destinazioni d’uso ammissibile:
- irriguo: per irrigare colture destinate tanto alle produzioni di beni alimentari per il
consumo umano ed animale, quanto per scopi diversi, quali colture energetiche e
spazi verdi o destinati ad attività ricreative e sportive;
- civile: per il lavaggio delle strade, per alimentare la rete duale di adduzione, per i
circuiti di condizionamento degli ambienti, per riempire le cassette degli sciacquino
in edifici ad uso pubblico;
- industriale: per alimentare la rete antincendio, come acqua di processo o di
lavaggio, come fluido per i cicli termici, ad esclusione di tutti quegli usi mediante i
quali l’acqua recuperata possa venire a contatto con alimenti.
Per l’irrigazione è utilizzato il 70% dell’acqua approvvigionata nel mondo. Risulta chiaro
quindi quanto sia importante la possibilità di recuperare l’acqua.
Chiaramente, per l’acqua destinata al riciclo i parametri limite assumono valori ancora più
restrittivi. Il 𝐵𝑂𝐷5 per esempio deve essere di 20 mg/l e SST=10 mg/l.

VALORI LIMITE DELLE ACQUE REFLUE ALL’USCITA DELL’IMPIANTO DI RECUPERO

Parametro Unità di misura Valore limite


Parametri chimico 𝑝𝐻 6-9,5
fisici
SAR 10
Materiali grossolani Assenti
Solidi sospesi totali 𝑚𝑔 10
⁄𝑙
𝐵𝑂𝐷5 𝑚𝑔 𝑂2⁄ 20
𝑙
𝐶𝑂𝐷 𝑚𝑔 𝑂2⁄ 100
𝑙
Fosforo totale 𝑚𝑔 𝑃⁄ 2
𝑙
Azoto totale 𝑚𝑔 𝑁⁄ 15
𝑙
Azono ammoniacale 𝑚𝑔 𝑁𝐻4⁄ 2
𝑙
Conducibilità 𝜇𝑆⁄ 3000
𝑐𝑚
elettrica
Alluminio 𝑚𝑔 1
⁄𝑙
Arsenico 𝑚𝑔 0.02
⁄𝑙
Bario 𝑚𝑔 10
⁄𝑙
Berillio 𝑚𝑔 0,1
⁄𝑙
Boro 𝑚𝑔 1,0
⁄𝑙
Cadmio 𝑚𝑔 0,005
⁄𝑙
Cobalto 𝑚𝑔 0,05
⁄𝑙
Cromo totale 𝑚𝑔 0,1
⁄𝑙
Cromo VI 𝑚𝑔 0,005
⁄𝑙
Ferro 𝑚𝑔 2
⁄𝑙
Manganese 𝑚𝑔 0,2
⁄𝑙
Mercurio 𝑚𝑔 0,001
⁄𝑙
Nichel 𝑚𝑔 0,2
⁄𝑙
Piombo 𝑚𝑔 0,1
⁄𝑙
Rame 𝑚𝑔 1
⁄𝑙
Selenio 𝑚𝑔 0,01
⁄𝑙
Stagno 𝑚𝑔 3
⁄𝑙
Tallio 𝑚𝑔 0,001
⁄𝑙
Vanadio 𝑚𝑔 0,1
⁄𝑙
Zinco 𝑚𝑔 0,5
⁄𝑙
Cianuri totali 𝑚𝑔 0,05
⁄𝑙
Solfuri 𝑚𝑔 𝐻2 𝑆⁄ 0,5
𝑙
Solfiti 𝑚𝑔 𝑆𝑂3⁄ 0,5
𝑙
Solfati 𝑚𝑔 𝑆𝑂4⁄ 500
𝑙
Cloro attivo 𝑚𝑔 0,2
⁄𝑙
Cloruri 𝑚𝑔 𝐶𝑙⁄ 250
𝑙
Fluoruri 𝑚𝑔 𝐹⁄ 1,5
𝑙
Grassi e oli 𝑚𝑔 10
⁄𝑙
animali/vegetali
Oli minerali 𝑚𝑔 0,05
⁄𝑙
Nota 1
Fenoli totali 𝑚𝑔 0,1
⁄𝑙
Pentaclorofenolo 𝑚𝑔 0,003
⁄𝑙
Aldeidi totali 𝑚𝑔 0,5
⁄𝑙
Tetracloroetilene, 𝑚𝑔 0,01
⁄𝑙
tricloroetilene
(somma delle
concentrazioni dei
parametri specifici)
Solventi clorurati 𝑚𝑔 0,04
⁄𝑙
totali
Trialometani 𝑚𝑔 0,03
⁄𝑙
(somma delle
concentrazioni)
Solventi organici 𝑚𝑔 0,01
⁄𝑙
aromatici totali
Benzene 𝑚𝑔 0,001
⁄𝑙
Benzo(a)pirene 𝑚𝑔 0,00001
⁄𝑙
Solventi organici 𝑚𝑔 0,01
⁄𝑙
azotati totali
Tensioattivi totali 𝑚𝑔 0,5
⁄𝑙
Pesticidi clorurati 𝑚𝑔 0,0001
⁄𝑙
(ciascuno)
Nota 2
Pesticidi fosforati 𝑚𝑔 0,0001
⁄𝑙
(ciascuno)
Altri pesticidi totali 𝑚𝑔 0,05
⁄𝑙
10 (80% dei campio-
ni)
Parametri Escherichia coli 𝑈𝐹𝐶⁄ 100 valore puntuale
microbiologici 100 𝑚𝑙 max
Nota 3
Salmonella Assente
Nota 1. Tale sostanza deve essere assente dalle acque reflue recuperate destinate al riutilizzo, secondo quanto previsto al paragrafo 2.1 dell’allegato 5 del decreto
legislativo n. 152 del 1999 per gli scarichi sul suolo. Tale prescrizione si intende rispettata quando la sostanza e` presente in concentrazioni non superiori ai limiti di
rilevabilita` delle metodiche analitiche di riferimento, definite e aggior- nate con apposito decreto ministeriale, ai sensi del paragrafo 4 dell’allegato 5 del decreto
legislativo n. 152 del 1999. Nelle more di tale definizione, si applicano i limiti di rilevabilita` riportati in tabella.

Nota 2. Il valore di parametro si riferisce ad ogni singolo pesticida. Nel caso di Aldrina, Dieldrina, Eptacloro ed Eptacloro epossido, il valore parametrico e` pari a 0,030
mg/l.

Nota 3. Per le acque reflue recuperate provenienti da lagunaggio o fitodepurazione valgono i limiti di 50 (80% dei campioni) e 200 UFC/100 ml (valore puntuale
massimo).

Solo per N e P i valori sono più alti: 30 mg/l per N e 10 mg/l per P.

Trattamenti cui sono sottoposte le acque reflue

Reti fognarie e portate variabili

Negli impianti di potabilizzazione la portata evolvente è costante nell’arco di una


giornata, è variabile solo su tempi lunghi. Negli impianti di depurazione delle acque reflue
domestiche o urbane, invece, la portata è continuamente variabile.
Un plausibile andamento della portata di acqua di scarico in funzione del tempo, nell’arco
di un giorno, potrebbe essere ad esempio
In genere la curva è funzione del numero di abitanti serviti: maggiore è il numero di utenti
più la curva assume un profilo “schiacciato”.
Da queste considerazioni discende che non è possibile dimensionare un I.D. sulla base
del valore della portata.
Per schematizzare la situazione diamo una serie di definizioni.
La portata media nera 𝑄𝑚,𝑛 è il valore che avrebbe la portata se fosse costante ma
tale che il volume complessivamente trattato nell’I.D. nell’arco della giornata fosse pari a
quello effettivo. In altre parole la portata media nera rappresenta la media integrale della
portata istantanea in funzione del tempo su un intervallo di 24 h.
𝑄𝑚,𝑛 è il parametro più importante nel dimensionamento.
La portata di punta nera 𝑄𝑝,𝑛 è il valore massimo che la portata assume nell’arco di
una giornata.

𝑄𝑝,𝑛
Il rapporto 𝑐𝑝 = ⁄𝑄 è detto coefficiente di punta.
𝑚,𝑛
Il coefficiente di punta è maggiore o uguale a 1 e, in particolare, per quanto prima
osservato nei piccoli centri urbani talvolta arriva anche a valere 3, o al massimo 4, mentre
nei grandi centri è prossimo a 1.
I sistemi fognari possono essere misti o separati.
Le reti miste sono le più diffuse, e raccolgono sia le acque reflue delle abitazioni che
l’acqua piovana.
In alternativa esistono reti separate, in cui vengono canalizzate separatamente le acque
nere domestiche e le acque di origine meteorica.
Nei periodi di secca le 𝑄𝑚,𝑛 e le 𝑄𝑝,𝑛 sono uguali sia nelle reti miste che separate. Nei
periodi di pioggia le portate in ingresso all’impianto crescono significativamente, di ben
due ordini di grandezza. Nessun impianto ingegneristico riesce a elaborare una portata
100 volte maggiore rispetto a quella di progetto, tuttavia esiste una soluzione molto
semplice al problema.
Le acque meteoriche, infatti, comportando un notevole incremento di portata, e quindi di
velocità, effettuando un’operazione di pulizia delle fogne. L’acqua che precipita
inizialmente, venendo a contatto con il suolo sporco, trascina con sé i detriti del manto
stradale o dei terreni. Queste acque, inquinate, sono dette acque di prima pioggia e vanno
sottoposte a depurazione. L’acqua che precipita successivamente, però, è
sostanzialmente pulita e può essere scaricata nel corpo idrico tal quale. L’impianto di
depurazione viene quindi progettato per elaborare una portata variabile tra 0 e 𝑄𝑝 = 5𝑄𝑚,𝑛 ,
ossia la portata d’acqua che viene considerata di prima pioggia, mentre l’acqua che
eccede tale quantità, quando presente, viene scaricata direttamente in corpo idrico. La
separazione in due correnti viene realizzata mediante un’opera detta scaricatore di piena.
La struttura e la posizione dello scaricatore dipende dal centro abitato che serve e dalla
disponibilità di un corpo idrico ricettore nelle vicinanze.
In definitiva, quando si progetta un depuratore servito da fogne miste, vanno previste due
situazioni:
- periodo secco: la portata è variabile in un intervallo da 0 a 𝑄𝑝,𝑛 ;
- periodo piovoso: la portata è quasi sempre pari a 5𝑄𝑚,𝑛 .
Schematizzando

Qualità delle acque reflue


I parametri di qualità delle acque nere domestiche sono:
- sostanze organiche;
- solidi sospesi sedimentabili e non;
- composti azotati;
- composti fosfati.
In particolare:
- sostanze organiche scaricate al giorno dal singolo cittadino hanno un 𝐵𝑂𝐷5 di circa
60 e un 𝐶𝑂𝐷 di circa 120;
- l’apporto di solidi sospesi totali è 90 g al giorno per abitante, di cui 2/3 sono SSS e
1/3 SS non sedimentabili;
- l’apporto di azoto è (in forma ridotta) di 12-15 g di 𝑁 − 𝑁𝐻4+ (ione ammonio) al
giorno per abitante;
- l’apporto di fosforo è di 2-3 g di P al giorno per abitante.
E’ possibile passare dai grammi ai valori delle singole concentrazioni in acqua: la portata
d’acqua consumata al giorno per singolo abitante nel periodo secco si può conoscere
facendo riferimento alla dotazione idrica. La dotazione è il volume d’acqua che ogni giorno
ognuno di noi ha a disposizione, ed è di 250-300 l. Nelle fogne viene restituito l’80% della
dotazione idrica, mentre si perde il 20%: si scaricano circa 200-250 l al giorno per abitante.
Per passare alle concentrazioni basta dividere i dati precedenti per 225 l al giorno per
abitante. Pertanto:
- 0.4 g/l di SST, di cui 2/3 sono SSS e 1/3 SS non sedimentabili;
- 0.04-0.07 g/l di 𝑁 − 𝑁𝐻4+ (ione ammonio);
- 0.009-0.013 g/l di P.
Questi risultati sono validi nei periodi di secca.
Quando piove nelle fogne miste le concentrazioni si riducono drasticamente, tuttavia si ha
un incremento delle concentrazioni di metalli (soprattutto piombo), dovuto alle acque di
prima pioggia. Tali specie, tuttavia, arrivate nella fogna, tendono ad essere adsorbite sui
solidi sospesi, quindi è sufficiente eliminare i solidi sospesi.

Ciclo di trattamento per le acque reflue

Analizziamo il ciclo di trattamento delle acque reflue urbane, nell’ipotesi in cui il


sistema fognario sia separato.

In testa all’impianto si realizzano almeno due fasi di grigliatura. La prima è per i residui
grossi, la seconda per i più fini.
La fase successiva è la sedimentazione.
Se invece il sistema fognario è misto si prevede un’altra soluzione.

Nelle fogne miste vi sono anche le acque meteoriche con solidi sospesi sedimentabili che
hanno assorbito le particelle del manto stradale. Le acque sono quindi ricche di sostanze
organiche e inorganiche. Il destino di tali solidi sarebbe quello di alimentare la linea dei
fanghi, per garantire stabilità e palabilità. Le sostanze inorganiche sono però già stabili,
inoltre presentano una capacità di assorbimento dell’acqua inferiore rispetto alle sostanze
organiche. Le sostanze inorganiche sono quindi palabili e stabili e non necessitano di
essere inviate alla linea dei fanghi.
Si hanno dunque due fasi di sedimentazione. La prima è il dissabbiamento che ha lo
scopo di rimuovere le sostanze inorganiche (le particelle derivanti dal manto stradale sono
dette sabbia). Tali solidi vengono inviati insieme al grigliato direttamente allo smaltimento,
senza passare per la linea dei fanghi. Si ha poi la sedimentazione classica che serve a
rimuovere le sostanze organiche che vanno inviate invece alla linea dei fanghi.
Un’altra differenza fondamentale tra le acque reflue provenienti da un sistema separato e
da uno misto risiede chiaramente nella portata. Nella fogna separata, o nella mista
durante il periodo secco, la portata varia da 0 a 𝑄𝑝,𝑛 con 𝑐𝑝 che arriva a 3, massimo 4. La
portata derivante da una fogna mista nei periodi di pioggia invece può arrivare anche a
5𝑄𝑚,𝑛 : si opera una separazione della fase liquida.
Quando non piove, la corrente segue la linea base acqua. Quando piove, invece, l’acqua
che eccede la portata di progetto viene deviata alla linea della pioggia che elabora quindi
una portata pari a 5𝑄𝑚,𝑛 − 𝑄𝑝,𝑛 , mentre la portata 𝑄𝑝,𝑛 viene condotta nella linea base
acqua.
La ripartizione è effettuata per mezzo di pompe: poiché le fogne sono sotterrate mentre
l’impianto è realizzato in superficie, si tratta di una stazione di sollevamento e viene posta
a monte o a valle del dissabbiamento.
Quello a monte è il più usato. Nel caso della pompa a valle, infatti, il dissabbiatore va
realizzato nel sottosuolo e ciò comporta costi maggiori.
Osserviamo che anche lungo la linea della pioggia sono previste le fasi di dissabbiamento
e sedimentazione.

Fase di dissabbiamento

La fase di dissabbiamento nl ciclo di trattamento delle acque reflue è rappresentata


con il simbolo

Le vasche legate a tale fase sono dette dissabbiatori. L’obiettivo è quello di


eliminare la parte inorganica e non quella organica. Esistono tre tipologie di dissabbiatori:
- dissabbiatori a canale;
- dissabbiatori areati;
- dissabbiatori circolari (a vortice, tipo pista).
I dissabbiatori a canale fino a circa 30 anni fa erano i più utilizzati. Oggi sono molto meno
diffusi e si prediligono le altre due tipologie. La differenza è legata al livello tecnologico
della vasca. In quelli a canale l’obiettivo viene raggiunto sfruttando solo forze naturali,
come la gravità. Negli altri due casi si fornisce energia dall’esterno tramite
apparecchiature. Il dissabbiatore a canale è il meno costoso ma anche il meno efficiente.
Un ulteriore vantaggio delle vasche areate e circolari è dato dal fatto che queste sono più
compatte rispetto a quelle a canale.

Dissabbiatori a canale
I dissabbiatori a canale sono appunto dei tratti di canale le cui dimensioni si allargano
per poi restringersi nuovamente.

Analizziamo i fenomeni fisici grazie ai quali è resa possibile la sedimentazione delle


particelle solide inorganiche, e non quella delle organiche. I SSS sono soggetti
sostanzialmente a due forze: la forza di gravità e quella di trascinamento del flusso. Dato
che le sostanze inorganiche hanno pesi specifici maggiori di quelle organiche, va
realizzata una velocità del flusso della corrente idrica tale da sedimentare solo i solidi
inorganici, e non quelli organici, e tale valore della velocità deve essere mantenuto
costante. In genere si sceglie 𝑣 = 0.3 𝑚⁄𝑠, e la vasca va dimensionata sulla base di tale
parametro. Ciò non è banale in quanto la portata non è costante, quindi va regolata
continuamente la quota del pelo libero (tirante idrico). Per realizzare un tale meccanismo,
subito a valle del restringimento del canale si dispone un venturimetro (o tubo di venturi),
che è un sistema in grado di misurare o regolare la portata che defluisce all’interno di un
tubo.
Il venturimetro si compone di due rami: il primo convergente (effusore) e l'altro divergente
(diffusore). La geometria del tratto ristretto va realizzata in maniera tale che al suo interno
la corrente idrica si trovi nelle condizioni di minimo energetico, cui corrisponde un ben
preciso valore di tirante idrico, detto appunto tirante di stato critico. Dunque in un canale
siffatto la quota del pelo libero risulta costante, così come la portata d’acqua in uscita.
Resa costante la portata a valle del dissabbiatore, all’interno dello stesso si realizzerà un
accumulo d’acqua, positivo o negativo, con effetto la variazione della quota del pelo libero,
tale da mantenere costante la velocità del flusso all’interno del canale.
Si può dimostrare che, qualunque sia il valore della portata, imponendo il vincolo della
velocità costante la forma da assegnare al dissabbiatore è strettamente dipendente dalla
forma del venturimetro. Se per esempio il venturimetro è realizzato in canale rettangolare,
allora la forma da assegnare al dissabbiatore è quella parabolica. All’atto pratico la forma
di parabola si approssima con una spezzata. Per i piccoli dissabbiatori è sufficiente una
forma prossima a quella di un trapezio.

Dissabbiatori areati
Nei dissabbiatori areati si prevede l’immissione di una corrente gassosa,
generalmente aria. Hanno una forma molto simile a quella delle vasche di sedimentazione
a flusso orizzontale longitudinale: la pianta è rettangolare, l’ingresso della corrente idrica è
una delle due basi corte e l’uscita è dal lato corto opposto, quindi l’acqua attraversa la
vasca longitudinalmente. L’insufflazione d’aria viene effettuata sul fondo della vasca, in
uno dei due lati lunghi, in direzione parallela al fondo.
L’aria tende a risalire e trascina l’acqua, il che comporta un moto circolare. Il moto della
corrente idrica è invece quello risultante da questo moto circolare e da quello
longitudinale, quindi complessivamente è un moto elicoidale.

La sabbia e in generale i SSS tendono anch’essi a seguire una traiettoria elicoidale. Le


particelle che hanno più inerzia (sostanze inorganiche), però, tendono a staccarsi e
andare a sbattere contro il muro e quindi a sedimentare, mentre le particelle più leggere
(sostanze organiche) continuano a seguire questo moto. In questo modo si separano le
particelle inorganiche da quelle organiche, più leggere. Il processo è legato quindi
all’insufflazione d’aria, pertanto va regolata la sola portata d’aria. Per eliminare la sabbia
sul fondo si utilizza un carroponte a va e vieni, accumulando il fango sulla tramoggia.

La corrente viene in questo modo areata, cioè si arricchisce di ossigeno, e ciò risulterà
utile durante la fase biologica.

Dissabbiatori circolari
I dissabbiatori circolari sono usati solo nei piccoli impianti, cioè quando il numero di
abitanti da servire è di qualche migliaio (6000-7000 abitanti). Il dissabbiatore circolare ha
una geometria simile a quella delle vasche di sedimentazione a flusso verticale, e si
realizza tangenzialmente al canale che porta l’acqua; la corrente è costretta ad entrare nel
dissabbiatore, sedimenta la sabbia, poi l’acqua torna nel canale.

La corrente idrica segue un percorso circolare, in più c’è un’elica che rafforza tale
movimento. Regolando la velocità delle pale dell’elica si fa in modo che le particelle più
pesanti sbattano contro le pareti e sedimentino, mentre quelle più leggere rimangano nel
flusso. Quando il diametro della vasca supera un certo valore si perde questo effetto,
motivo per il quale il dissabbiatore circolare può essere istallato solo su piccoli impianti.

Sia per i dissabbiatori areati che per quelli circolari esistono diverse configurazioni
brevettate in funzione della portata nera, di cui sono tabellate tutte le caratteristiche
geometriche.

Fase di sedimentazione

Si utilizzano le stesse vasche viste per gli IP, cambiano solo i parametri di
dimensionamento. I solidi organici negli ID hanno un peso specifico inferiore rispetto agli
inerti che si ritrovano negli IP, quindi il carico idraulico (velocità di sedimentazione) è più
𝑄
basso, e si rendono necessarie superfici maggiori: 𝐴 = 𝑚,𝑛⁄𝑐𝑖 , con 𝑐𝑖 = 1.2 − 1.5 𝑚⁄ℎ. La
fase di sedimentazione nella linea acqua in tale posizione è la fase di sedimentazione
primaria, poiché se ne rendono necessarie altre nell’impianto.
Fase biologica

Dopo il dissabbiamento e la fase di sedimentazione in acqua sono presenti i colloidi


e i solidi disciolti. Si pone una fase biologica in quanto tutti i colloidi e disciolti sono
biodegradabili (cosa non vera per gli IP, dove si usa la chiariflocculazione), che siano essi
organici o inorganici. E’ il più conveniente metodo di eliminazione dei SSC e dei SD
biodegradabili.
Per le sostanze organiche il processo biologico consiste in una serie di reazioni
chimiche che avvengono grazie all’azione catalitica di microrganismi (reazioni
biochimiche). Queste reazioni, globalmente, sono del tipo
microorganismi
𝐶𝑎 𝐻𝑏 𝑂𝑐 𝑁𝑑 → 𝐶𝛼 𝐻𝛽 𝑂𝛾 𝑁𝛿 + 𝐶𝑂2 + 𝐻2 𝑂 + 𝐶𝐻4 .
In presenza di microrganismi, cioè, una sostanza organica biodegradabile si trasforma in
una nuova sostanza organica con formazione di anidride carbonica e acqua. La quantità di
ossigeno presente non sempre è sufficiente ad ossidare tutti i prodotti, pertanto in questi
casi si ha formazione di metano. Questo tipo di reazione è detta anaerobica.
L’ossigeno cui i microrganismi possono attingere non è quello in fase gas ma quello
disciolto in acqua, pertanto se si effettua una insufflazione di 𝑂2, in maniera da garantire
l’ossigeno necessario, tutte le specie vengono ossidate e non si ha formazione di 𝐶𝐻4 . La
reazione in questo caso si dice aerobica ed è del tipo
microorganismi
𝐶𝑎 𝐻𝑏 𝑂𝑐 𝑁𝑑 → 𝐶𝛼 𝐻𝛽 𝑂𝛾 𝑁𝛿 + 𝐶𝑂2 + 𝐻2 𝑂.
I processi biologici avvengono comunque in entrambi i casi.
Sembrerebbe che il processo aerobico sia più svantaggioso in quanto necessita
dell’insufflazione d’aria, inoltre non prevede la formazione di metano, il quale potrebbe
essere recuperato e sfruttato come combustibile per produrre energia. In realtà il processo
viene realizzato in condizioni aerobiche in quanto molto più veloce, quindi le vasche
richiedono dimensioni inferiori perché inferiori sono i tempi di detenzione. Se si
conducesse la reazione in condizioni anaerobiche, inoltre, rimarrebbero dei composti
organici non al massimo stato di ossidazione, che rappresenterebbero ancora un
inquinante. Il processo aerobico invece è più completo, con residui piccoli di BOD5 che
rientrano nei valori di norma.
Si prevede un processo anaerobico nel caso di scarichi industriali molto ricchi di sostanze
organiche (macelli, industrie agroalimentari, ecc.) con valori del BOD5 elevatissimi. Una
volta abbassato il 𝐵𝑂𝐷5 con un processo anaerobico a costo zero, ma non avendo
raggiunto ancora i valori a norma, si procede con una fase di affinamento aerobica. Negli
scarichi reflui urbani si usa sempre la fase aerobica.
Subito a valle della fase biologica, avendo introdotto microrganismi che si sono a loro volta
riprodotti, il 𝐵𝑂𝐷5 presenta valori addirittura superiori, molto più alti rispetto a quelli in
ingresso alla fase. Tuttavia, i microrganismi non vivono in maniera isolata ma tendono a
formare agglomerati di dimensioni dell’ordine dei mm, a volte dei cm. Il peso specifico di
questi agglomerati è superiore a quello dell’acqua, per cui tendono a sedimentare: sono
dei SSS. A valle della fase biologica pertanto è prevista una seconda sedimentazione,
detta sedimentazione secondaria, per rimuovere questi agglomerati. Il fango derivante da
questa seconda fase di sedimentazione, detto fango secondario, non è né stabile né
palabile.

Vasche per la fase biologica


Vi sono diverse tipologie di vasche per la fase biologica, che però si possono
suddividere in due categorie: sistemi a colture adese e sistemi a colture sospese (o
sistemi a fanghi attivi).
La prima tipologia di vasche adottata è stata quella delle colture adese, successivamente
soppiantate dalle seconde. Da circa una ventina d’anni, tuttavia, le prime sono state
rivalutate.
La distinzione riguarda la forma dell’agglomerato microbico che si realizza nel processo di
biodegradazione.
Nel caso del sistema a colture adese la vasca dove si sviluppano i processi biologici, oltre
ad essere piena d’acqua, viene riempita da tutta una serie di materiali inerti. I
microrganismi coinvolti nelle reazioni non seguono il percorso dell’acqua perché tendono a
rimanere adesi sulle superfici degli inerti. Con il decorso delle reazioni biologiche si
formano nuovi microrganismi che si aggregano ai precedenti, dunque pian piano la
pellicola biologica (biofilm) si inspessisce, fin quando non iniziano a staccarsi delle parti di
essa.
Nel caso dei sistemi a colture sospese non vi sono mezzi di supporto inerte e i
microrganismi seguono il percorso dell’acqua. Le reazioni biologiche danno vita a dei
fiocchi di fango attivo composti di agglomerati microbici.
A parità di volume della vasca un sistema a colture adese è in grado di ospitare un
numero maggiore di microorganismi, poiché in quelle sospese questi abbandonano
continuamente la vasca con l’acqua. La quantità di microrganismi è una grandezza
fondamentale per la velocità di reazione del processo e, quindi, per il dimensionamento.
Sembrerebbe che le colture adese siano più efficienti, in realtà nelle sospese si può
effettuare un’operazione di riciclo dei microrganismi dal fango della sedimentazione
secondaria mediante una pompa: contrariamente al caso della chiariflocculazione tali
riciclo è fattibile perché i microrganismi, anche se si rompono i fiocchi in cui si sono
agglomerati, essendo organismi viventi, tenderanno a riagglomerarsi dopo il passaggio
nella macchina. Ovviamente il fango secondario viene prodotto anche in presenza di
riciclo, perché deve essere presente uno spurgo, altrimenti si avrebbe un accumulo
infinito. Il riciclo totale si realizza solo nel transitorio iniziale, dove si dice che l’impianto
lavora a scartamento ridotto, ma dopo circa 2 o 3 mesi il processo va a regime.
A valle delle colture sospese e la sedimentazione secondaria è prevista la filtrazione,
mentre se si utilizzano le colture adese ciò è superfluo, in quanto i pezzi di biofilm
sedimentano meglio dei fiocchi di fango attivo.
In definitiva colture sospese e adese hanno prestazioni comparabili.

Sistemi per vasche a colture sospese


Tra i sistemi a colture sospese i più diffusi sono: i sistemi a insufflazione di 𝑂2 e i
sistemi ad areazione meccanica.
La geometria è legata al sistema di alimentazione dell’ossigeno.
I sistemi a insufflazione di 𝑂2 si usano nei piccoli impianti. Consistono in delle vasche
munite di un sistema di insufflazione di ossigeno, che consta di tre parti:
- una soffiante o compressore che energizza l’aria;
- una tubazione che trasporta l’aria compressa;
- un diffusore che consente la distribuzione omogenea dell’aria nell’acqua.
Con il migliore dei diffusori si solubilizza solo il 25% di ossigeno, senza diffusore però tale
valore precipita al 2-3%.
Nelle vasche biologiche non devono sedimentare i microrganismi, altrimenti non vengono
a contatto con le sostanze organiche da rimuovere. Con l’insufflazione si impedisce la
sedimentazione.
Se si dispongono i diffusori lateralmente, si è soggetti al vincolo delle dimensioni della
vasca. La sezione (quella corrispondente alla rappresentazione in figura) deve essere
quadrata (a=b), con lato di massimo 5-6 m. Però per la manutenzione è sufficiente far
emergere il braccio senza dover svuotare la vasca.

Se invece si dispongono i diffusori sul fondo non si hanno vincoli sulle dimensioni di
superficie e si ottiene una maggiore omogeneità di insufflazione, tuttavia la manutenzione
è più complessa: si rende necessario lo svuotamento della vasca.
Oltre che per la posizione, i diffusori si distinguono anche per la grandezza delle bolle che
producono. Si definiscono:
- bolle grosse: quelle con diametro 𝑑 > 8 𝑚𝑚;
- bolle medie: quelle con diametro 3 < 𝑑 < 8 𝑚𝑚;
- bolle fini: quelle con diametro 𝑑 < 3 𝑚𝑚.
Quanto più sono piccole le bolle tanto più sono elevate le perdite di carico, ma anche la
percentuale di ossigeno di cui si assicura la solubilizzazione, che varia dal 7-8% per le
bolle più grandi al 25% per le bolle più fini.
In genere si preferisce la soluzione delle bolle fini.
I sistemi ad areazione meccanica sono noti come turbine, e consistono in una successione
di pale che spostando l’acqua creano una bolla d’aria che, nella pala successiva, viene
distrutta con formazione di bollicine che vengono trasportate dall’acqua. Per evitare che il
moto dell’acqua diventi solidale con il moto della turbina, si realizzano delle vasche in
pianta quadrata anziché circolare, anche perché le vasche circolari sono difficili da
realizzare. Talvolta si progettano vasche con pianta rettangolare, con uno dei lati pari al
doppio dell’altro, ed installando due turbine.
E’ importante anche l’altezza della vasca, poiché se troppo alta il fondo non risente
dell’azione della turbina. Si impone che l’altezza sia 1.2-1.3 volte la lunghezza, quindi 𝐻 =
4 − 6 𝑚.
Fino a qualche anno fa esistevano dispositivi di areazione meccanica ad assi orizzontali,
chiamati sistemi mammut, ma oggi non sono più usati.

Tra i sistemi a insufflazione di ossigeno e ad areazione meccanica, i secondi risultano più


vantaggiosi in termini di manutenzione, infatti la turbina può essere emersa senza che si
renda necessario lo svuotamento della vasca.
I sistemi a insufflazione, tuttavia, presentano una maggiore elasticità di funzionamento, nel
senso che è possibile modificare maggiormente le condizioni operative regolando il
compressore.
Un ulteriore vantaggio legato ai sistemi ad insufflazione di 𝑂2 è legato al fatto che l’aria
compressa, e quindi calda, aumenta la temperatura dell’acqua nella vasca, il che favorisce
il decorso dei processi biologici. Questo effetto può risultare tanto più importante quanto
più è fredda la zona in cui l’impianto è collocato, mitigando la T esterna alla quale il
processo sarebbe potuto risultare eccessivamente lento.
Quando si dimensiona una vasca a fanghi attivi bisogna individuare quali sono i
parametri da cui dipende il problema.
In questo caso i dati da cui partire sono:
3
- portata massica di sostanze organiche biodegradabili 𝑄̇ = 𝑄𝑝,𝑛 ⋅ 𝑠0 [𝑚 ⁄𝑠 ⋅
𝐾𝑔𝐵𝑂𝐷5 𝐾𝑔𝐵𝑂𝐷5⁄
⁄ 3=
𝑚 𝑠]: prodotto tra la portata volumetrica dell’acqua e la
concentrazione di sostanze organiche;
Quindi bisogna fissare dei parametri di dimensionamento:
- velocità di azione dei microrganismi: viene considerata costante per semplicità, la si
indica con il simbolo 𝐹𝑐 ed è detta fattore di carico organico; tipicamente vale 0.3 𝑠 −1
𝐾𝑔
(a rigore l’unità di misura è [ 𝐵𝑂𝐷5⁄𝐾𝑔 ⋅ 𝑠]).
𝑆𝑆𝑇
Per dimensionare la vasca quindi va determinata la massa 𝑀 di microorganismi
necessaria a degradare 𝑄̇ , ossia la massa di sostanza organica che arriva nella vasca, e
𝑄̇ 𝐾𝑔 𝐾𝑔𝑆𝑆𝑇 ⋅ 𝑠
si determina come 𝑀 = ⁄𝐹 [ 𝐵𝑂𝐷5⁄𝑠 ⋅ ⁄𝐾𝑔 = 𝐾𝑔𝑆𝑆𝑇 ]. Per passare dalla
𝑐 𝐵𝑂𝐷5
massa di microorganismi al volume della vasca va fissata la concentrazione dei solidi da
biodegradare 𝑐𝑆𝑆𝑇 .
E’ possibile regolare la concentrazione poiché è presente il ricircolo. Stabilendo il rapporto
di riciclo si fissa la concentrazione che si vuole ottenere.
𝐾𝑔
In generale il valore di 𝑐𝑆𝑆𝑇 viene fissato nell’intervallo 3 − 5 𝑆𝑆𝑇⁄𝑚3, per cui fissata la
3
concentrazione si ottiene 𝑀⁄𝑐𝑆𝑆𝑇 = 𝑉 [𝐾𝑔𝑆𝑆𝑇 ⋅ 𝑚 ⁄𝐾𝑔 = 𝑚3 ].
𝑆𝑆𝑇
Se venisse scelto un valore di 𝑐𝑆𝑆𝑇 troppo grande, il volume della vasca della fase attiva
diminuirebbe, ma la velocità di sedimentazione dei solidi diminuirebbe anch’essa via via
che la concentrazione di solidi sale. Di conseguenza andrebbero realizzate vasche di
sedimentazione più grandi e ciò risulterebbe in definitiva sconventiente. Lo scopo è quello
di minimizzare il volume effettivo e si è dimostrato che i valori ottimali si ottengono per
valori della concentrazione di solidi suddetti.
E’ necessario conoscere, oltre a 𝑀 e 𝑉, anche l’ossigeno da fornire. La quantità da fornire
è quella stechiometrica alla reazione di biodegradazione (formula standard microrganismi
𝐶5 𝐻4 𝑂2 𝑁) e dipende da 𝑠0 : dovendo degradare 𝑠0 , maggiore è il valore di 𝑠0 maggiore
risulterà essere la concentrazione di 𝑂2 necessaria. Tipicamente il calcolo dell’ossigeno
𝐾𝑔
viene effettuato tramite un parametro empirico: 𝑂𝐶𝑙𝑜𝑎𝑑 = 1.6 − 1.7 𝑂2⁄𝐾𝑔 .
𝐵𝑂𝐷5
𝑂𝐶𝑙𝑜𝑎𝑑 è la massa di ossigeno da fornire per unità di massa organica da biodegradare.
Moltiplicando 1.6 per 𝑄̇ si ottiene quindi la portata massica di ossigeno da erogare. Va
tenuto presente però che non tutto l’𝑂2 va in soluzione: il rendimento di solubilizzazione
dipende dalle caratteristiche del diffusore, le dimensioni delle bolle, la profondità alla quale
vengono collocati i diffusori nella vasca, dalle dimensioni della vasca, ecc. Nel caso di
bolle fini la solubilizzazione è pari a 0.25, inoltre bisogna considerare che si eroga aria e
non ossigeno puro, quindi bisogna tener conto anche dell’azoto, e in definitiva il fattore
𝑂𝐶𝑙𝑜𝑎𝑑⁄
effettivo risulta essere 0.21 ⋅ 0.25.
Allo stesso modo si ragiona quando si vuole valutare la quantità di fango attivo prodotto. I
microrganismi presenti nella vasca consumano organico e ossigeno, dando vita ad altri
microrganismi che finiscono nel fango. Per 1 Kg di organico degradato si producono 0.9-1
Kg di fango, fissato il rapporto tra la massa in Kg di organico valutata in termini di 𝐵𝑂𝐷5 e
𝐾𝑔𝑆𝑆𝑇
la massa di fango prodotto valutata in termini di SST, si ha ⁄𝐾𝑔 = 0.9 − 1.
𝐵𝑂𝐷5

Sistemi per vasche a colture adese


I sistemi più importanti utilizzati per le vasche a colture adese sono
- letto percolatore;
- biodischi.
Il letto percolatore è il primo sistema ideato per le colture adese, e consiste in una una
vasca cilindrica in calcestruzzo che funge da contenitore al materiale inerte, ossia pietrisco
delle dimensioni di 6-8 cm. Al di sopra del letto vi è un sistema di tubi disposti a raggiera in
cui fluisce la corrente idrica, che viene cosparsa in maniera uniforme. Il sistema di
distribuzione del liquame ruota grazie non a un motore elettrico ma alla pressione
dell’acqua: i tubi, infatti, sono forati solo da un lato e si viene a creare una coppia che
mette in moto il sistema. L’acqua non filtra ma percola, ossia si muove lungo i pori del
pietrisco, in questo modo nel corso delle reazioni biologiche i microrganismi sviluppati
aderiscono al pietrisco e formano un biofilm.
Per assicurare l’ossigeno non si usano turbine, le quali romperebbero il pietrisco in un
diffusore, ma si fa in modo che il letto percolatore non sia completamente ricoperto (inibito)
d’acqua, cioè la sua porosità dev’essere colmata dall’aria. L’aria entra dalla superficie
superiore del letto a contatto con l’atmosfera, e da quella inferiore, poiché il fondo del letto
è dotato di un’apertura. Il verso del flusso d’aria sul fondo del letto dipende dalla differenza
di densità che si viene a creare e quindi dalla differenza di temperatura tra ingresso e
uscita del letto percolatore. Ad esempio in inverno 𝑇𝑙𝑒𝑡𝑡𝑜 > 𝑇𝑒𝑠𝑡𝑒𝑟𝑛𝑎 , poiché la temperatura
dell’acqua che arriva all’impianto è generalmente maggiore di quella esterna. Inoltre le
reazioni biologiche sono esotermiche e il letto tende ad assorbirne il calore. In queste
condizioni, poiché la densità è inversamente proporzionale alla temperatura, si ha 𝜌𝑙𝑒𝑡𝑡𝑜 <
𝜌𝑒𝑠𝑡𝑒𝑟𝑛𝑎 . Quindi vi è flusso d’aria dal basso verso l’alto, cioè dalla zona più densa a quella
meno densa. Ciò vale solo se negli interstizi c’è l’aria, il che limita la portata d’acqua che si
può immettere nella vasca, e rappresenta uno svantaggio. Altro svantaggio è che mentre
in un sistema a colture sospese si hanno perdite di imbocco e sbocco, quindi molto
piccole, in un sistema a colture adese le perdite energetiche sono proporzionali all’altezza
del letto, quindi va spesa più energia per garantire una certa quota dell’acqua. Il vantaggio
chiaramente è quello di avere ossigeno infinito a costo zero, senza che si renda
necessaria l’installazione di apparecchiature per la sua immissione forzata. E’
indispensabile però che l’acqua non ricopra tutti gli interstizi, impedendo la reazione
aerobica, cioè non deve avvenire la filtrazione con 𝑝𝑎𝑐𝑞𝑢𝑎 ≠ 𝑝𝑎𝑡𝑚 , ma la percolazione con
𝑝𝑎𝑐𝑞𝑢𝑎 = 𝑝𝑎𝑡𝑚 , in modo che i pori siano riempiti d’aria.
Mano a mano che le reazioni biologiche avanzano, la patina gelatinosa va inspessendosi
e la porosità si riduce, quindi la velocità dell’acqua aumenta, il biofilm risulta sottoposto a
sforzi di taglio (dovuti al passaggio dell’acqua) sempre maggiori, fin quando in parte si
stacca. Le sostanze organiche da degradare sono nell’acqua, mentre i microrganismi che
le devono consumare si trovano nel biofilm; inoltre i microrganismi più interni si alimentano
con più difficoltà perché dispongono di meno ossigeno di quelli più esterni, quindi
secernono gas che favoriscono il distacco dei pezzi di biofilm. Nel caso dei sistemi a
colture adese si raccolgono acqua e pezzetti di pellicola sul fondo della vasca. Dopo la
percolazione bisogna far avvenire la sedimentazione.
Nel caso delle colture adese non ha senso riciclare il fango, perché i pezzi di pellicola
riciclati così come rientrano nella vasca così ne escono.
Il dimensionamento dei letti percolati avviene fissando un parametro detto fattore di
carico volumetrico 𝐹𝑐𝑣 , definito come rapporto tra la portata massica delle sostanze
organiche biodegradabili e il volume del letto percolatore, proporzionale alla massa di
𝑄̇ 𝐾𝑔
microrganismi, quindi 𝐹𝑐𝑣 = ⁄𝑉 [ 𝐵𝑂𝐷5⁄𝑠 ⋅ 𝑚3 ]. Il fattore di carico volumetrico è
direttamente proporzionale alla temperatura ma in genere si considera costante e pari a
𝐾𝑔
𝐹𝑐𝑣 = 0.2 − 0.3 𝐵𝑂𝐷5⁄𝑠 ⋅ 𝑚3 . 𝐹𝑐𝑣 rappresenta quindi la massa di sostanza organica che
viene degradata per unità di volume e di tempo, ossia è una velocità di riduzione della
concentrazione di sostanze organiche. Si fissa 0.2 nei periodi più rigidi e 0.3 nei periodi
𝑄̇ 𝐾𝑔
più caldi. Noti 𝐹𝑐𝑣 e 𝑄̇ è possibile risalire al volume del letto, come 𝑉 = ⁄𝐹 [ 𝐵𝑂𝐷5⁄𝑠 ⋅
𝑐𝑣
𝑠 ⋅ 𝑚3⁄ 3
𝐾𝑔𝐵𝑂𝐷5 = 𝑚 ].
L’altezza 𝐻 è fissata a 3 − 4 𝑚, poiché se fosse minore di 3 si avrebbe una superficie di
base troppo grande, mentre se fosse maggiore di 4 il letto sarebbe troppo alto e l’aria
potrebbe non raggiungere le zone più lontane a quelle di ingresso.
Infine noti 𝑉 e 𝐻 è possibile ricavare il diametro 𝐷 della superficie di base del cilindro,
banalmente, come 𝐷 = √4𝑉⁄𝜋𝐻 = 15 − 20𝑚.
Oggi i letti percolati sono poco utilizzati e vengono realizzati con inerti plastici di
superficie specifica maggiore, che permettono di risparmiare volume della struttura.
I biodischi sono apparecchiature elettromeccaniche prefabbricate. Un biodisco è
una vasca a pianta rettangolare in cui si introduce un asse orizzontale messo in rotazione
da un motore elettrico, sul quale sono calettati più dischi (solitamente in polietilene)
parzialmente immersi in acqua. Su questi dischi, che ruotano solidalmente all’asse,
aderiscono i microrganismi che si sviluppano dalle reazioni biologiche. Anche in questo
caso si ha un’areazione naturale, dal momento che il disco è alternativamente immerso ed
emerso, e si ha il distacco continuo di una parte del biofilm. Successivamente c’è la
sedimentazione dei pezzi di pellicola.

Il vantaggio dei biodischi è che l’areazione è naturale. Lo svantaggio risiede invece nel
dispendio di una gran quantità di energia elettrica per la rotazione dei dischi, mentre se ne
richiede poca per fronteggiare le perdite di carico, che sono solo di imbocco e sbocco e
pertanto di piccola entità.
Per quanto riguarda il dimensionamento:
𝑔𝑖𝑟𝑖⁄
- la velocità a cui girano i dischi è di 1 − 2 𝑚𝑖𝑛;
- si introduce il fattore di carico superficiale 𝐹𝑐𝑠 , definito come il rapporto tra la portata
massica di sostanze organiche da degradare espresso in termini di 𝐵𝑂𝐷5 e la
𝑄̇ 𝐾𝑔
superficie del disco, pertanto 𝐹𝑐𝑠 = ⁄𝑆 [ 𝐵𝑂𝐷5⁄𝑠 ⋅ 𝑚2 ], il cui valore è fornito dalle
case produttrici dei biodischi. La suddetta superficie è in realtà la proiezione su un
piano della reale superficie del disco che risulta ondulata.
- Il diametro 𝐷 appartiene al range 50 𝑐𝑚 < 𝐷 < 3.5 𝑚.
- La distanza tra due dischi consecutivi è di 1 − 2 𝑐𝑚.
𝑄̇
- La superficie dei dischi si ottiene come 𝑆 = ⁄𝐹 .
𝑐𝑠
Il ciclo di trattamento di un ID con letti percolatori o biodischi non prevede quasi mai
una fase di filtrazione, in quanto il biofilm sedimenta meglio dei fiocchi di fango attivo.
La linea fanghi

La linea dei fanghi ha l’obiettivo di rendere stabile e palabile il fango prodotto nella
depurazione. Quest’ultimo è dato dalla somma del fango primario, ossia proveniente dalla
sedimentazione primaria, e del fango secondario, proveniente dalla sedimentazione
secondaria, pertanto 𝑄𝑓 = 𝑄𝑓𝐼 + 𝑄𝑓𝐼𝐼 e 𝑄̇𝑓 = 𝑄̇𝑓𝐼 + 𝑄̇𝑓𝐼𝐼 .
Nel fango primario vi sono una frazione solida (o secca) e una liquida: la frazione secca è
costituita dai SSS organici presenti nella corrente idrica di ingresso all’ID, la frazione
liquida è acqua. Ogni persona scarica 90 g al giorno per abitante di SST, di cui 2/3 sono
SSS, 1/3 sono colloidi. Quindi la portata massica secca giornaliera 𝑄̇𝑠𝑙 in ingresso si
ottiene moltiplicando la portata massica giornaliera di SSS per abitante pari a 60g al
giorno per abitante (cioè 2/3 dei 90) per il numero di abitanti.
L’umidità del fango primario 𝑈 𝐼 , definita come la percentuale (in volume) di acqua nel
fango, è circa pari al 97%.
La portata volumetrica di fango primario giornaliera si determina come 𝑄𝑓𝐼 =
𝑄̇𝑠𝐼 𝐾𝑔𝑆𝑆𝑆⁄ 𝑚3 𝐼
𝑚3⁄ ], dove 100−𝑈 è la frazione in massa di SSS nei
⁄ 100−𝑈 𝐼 [ 𝑠 ⋅ ⁄𝐾𝑔 = 𝑠 100
𝜌𝑓 ⋅ 100
fanghi e 𝜌𝑓 è la densità del fango, assunta pari a quella dell’acqua.
Il fango secondario ha come frazione liquida sempre l’acqua, mentre quella secca è
costituita dai microorganismi formatisi dalle sostanze organiche durante la fase biologica;
la frazione secca è direttamente proporzionale quindi alla quantità di sostanze organiche
𝐾𝑔
degradate. Bisogna considerare l’indice di produzione dei fango 𝐼𝑝 = 0.9 − 1 𝐵𝑂𝐷5⁄𝐾𝑔 ,
𝑆𝑆𝑆
definito come il rapporto tra la massa di organico valutata in termini di 𝐵𝑂𝐷5 e la massa di
microrganismi sviluppati in termini di SSS.
E’ possibile calcolare la portata massica secca giornaliera 𝑄̇𝑠𝐼𝐼 costruita dai microrganismi
sviluppati nella fase. Inoltre è nota l’umidità del fango secondario 𝑈 𝐼𝐼 che si assume pari al
99-99.2%. Quindi per avere la portata volumetrica 𝑄𝑓𝐼𝐼 si possono usare due metodi: 𝑄𝑓𝐼𝐼 =
𝑄̇𝑠𝐼𝐼 ̇ 𝐼𝐼
[
𝐾𝑔𝑆𝑆𝑆⁄ 𝑚3
⋅ = 𝑚3⁄ ] oppure 𝑄 𝐼𝐼 = 𝐼𝑝 ⋅ 𝑄𝑠 ⁄ [𝐾𝑔𝐵𝑂𝐷5⁄ 𝐾𝑔𝑆𝑆𝑆⁄
⁄ 100−𝑈 𝐼𝐼 𝑠 ⁄𝐾𝑔 𝑠 𝑓 𝑠0 𝐾𝑔𝑆𝑆𝑆 ⋅ 𝑠⋅
𝜌𝑓 ⋅ 100
𝑚3⁄ 𝑚3⁄ ]. Solitamente si ha 𝑄 𝐼 < 𝑄 𝐼𝐼 e 𝑄 𝐼 > 𝑄 𝐼𝐼 . L’umidità 𝑈 del fango totale in
𝐾𝑔𝐵𝑂𝐷5 = 𝑠 𝑓 𝑓 𝑠 𝑠

ingresso (somma del fango primario e del fango secondario) è assunta pari al 98%.

Inspessimento
Il primo problema di cui ci si occupa è quello della palabilità, poiché questa è
ottenibile tramite operazioni più semplici rispetto alla stabilità.
La prima fase è detta di inspessimento, con l’obiettivo di allontanare dal fango una parte
dell’acqua che lo compone, cioè di ridurre l’umidità. Questa fase viene effettuata a monte
della linea fanghi poiché, chiaramente, più acqua va trasportata e più le singole fasi
risultano costose, pertanto è conveniente ridurre la portata quanto prima. Si cerca di
eliminare una parte d’acqua senza intervenire nella fase secca. Il prodotto principale è la
frazione secca, meno umida, e come prodotto di scarto vi è l’acqua eliminata.
L’inspessimento consiste in un processo di sedimentazione. La portata di fango è di due
ordini di grandezza più piccola rispetto alla portata della linea acqua (portata media nera)
per cui è possibile prolungare i tempi di detenzione, che risultano di circa 24 − 48 ℎ.

Vi sono tre frazioni d’acqua che accompagnano la parte secca:


- acqua interparticellare, ossia l’acqua che occupa gli spazi compresi tra una
particella di solido e l’altra;
- acqua interstiziale, l’acqua immediatamente circostante le particelle, legata ad esse
da forze chimiche e fisiche (detta anche acqua legata);
- acqua particellare, l’acqua interna ai solidi, che prende parte alla struttura.
In ordine di difficoltà di eliminazione decrescente si ha chiaramente l’acqua particellare,
quindi l’interstiziale e infine l’interparticellare.
La interparticellare è la più abbondante, costituisce il 70% e si elimina rompendo gli
agglomerati di fango. Nell’inspessimento si elimina proprio questa frazione, pertanto in
questa fase viene rotto il fango.
L’ inspessimento si realizza in una piccola vasca di pianta circolare.

- 1. deflettore centrale dove arriva il fango;


- 2. carroponte che raccoglie il fango sedimentato e rompe i fiocchi per mezzo di aste
rotanti;
- 3. punto in cui l’acqua stramazza dopo aver sedimentato la parte secca tornando in
testa all’impianto nel pozzetto della stazione di sollevamento;
- 4. punto di raccolta fango che contiene la linea fanghi.
Per il dimensionamento si calcola il volume della vasca fissando il tempo di detenzione,
variabile tra le 24 − 32 ℎ. Nota la portata di fango totale 𝑄𝑓 otteniamo il volume.
𝑄
Una volta rimossa l’acqua e dimezzata la portata 𝑄𝑓 , lungo la linea fanghi la portata 𝑓⁄2 è
𝑈1𝐼⁄
passata da un’umidità del 98% al 96%, con frazione di secco del 4% (infatti 2⁄
100 =
𝐼
𝑄𝐻 2𝑂
−0.5⋅𝑄𝑓𝐼 𝐼
𝑄𝐻 𝑂 𝑈𝐼
𝐼 − 1 = 50 − 1 = 0.96). La palabilità viene raggiunta con un’umidità
2
= 0.5⋅𝑄
0.5⋅𝑄𝑓𝐼 𝑓
dell’80%, pertanto l’obiettivo non è stato raggiunto mediante questa prima fase.

Digestione
L’eliminazione della restante umidità in eccesso, dovuta all’acqua interstiziale e
particellare, viene realizzata perseguendo la stabilità, in quanto la capacità di ritenzione
idrica di una sostanza stabile è inferiore a quella di una sostanza non stabile. Nelle fasi
successive all’inspessimento si rendono necessari processi che richiedono energia per la
rottura dei legami. In particolare si possono realizzare:
- processi chimici, non utilizzati però nella pratica;
- processi biologici, i più diffusi.
Si realizzano processi biologici in condizioni anaerobiche, infatti la portata 𝑄𝑓1⁄ è molto
2
più piccola della portata della linea acqua e le volumetrie sono più realizzabili, ciò
nonostante le vasche sono le più grandi dell’impianto. Si scelgono le condizioni
anaerobiche in quanto in questo caso non vi sono limiti di 𝐵𝑂𝐷5 da rispettare. Il fango,
infatti, deve risultare solo stabile, ma non deve ossidare necessariamente tutta la sostanza
organica. E’ pertanto possibile risparmiare sull’areazione e recuperare metano, utile come
combustibile. La fase che realizza il processo è detta digestione (anaerobica), che viene
indicata con il simbolo

La forma della vasca per la digestione non è rilevante, tuttavia la più usuale è

Il processo di digestione è sensibile alla temperatura: le reazioni sono più veloci al


crescere di T. Si lavora ad una 45 < 𝑇 < 60°𝐶, all’esterno di tale range di valori i
microrganismi infatti non possono sopravvivere. La vasca va quindi riscaldata, e ciò è reso
possibile grazie alle portate più piccole e alla presenza del metano prodotto dalle reazioni
anaerobiche.
In base alla temperatura di esercizio si distinguono tre categorie di digestori:
- digestori psicrofili, 10 < 𝑇 < 15°𝐶;
- digestori mesofili, 30 < 𝑇 < 35°𝐶, i più diffusi;
- digestori termofili, 50 < 𝑇 < 55°𝐶, convenienti per la velocità di reazione, e quindi le
dimensioni delle vasche, sconvenienti dal punto di vista energetico, in quanto non si
produce metano a sufficienza per arrivare a tali temperature.
Quando gli impianti sono piccoli non è previsto il riscaldamento mediante il biogas
prodotto, in ogni caso è obbligatorio che questo venga bruciato in una torcia. La torcia è
prevista comunque in tutti gli impianti, utile in caso di guasti, per bruciare il metano che
continua a formarsi.
Per il dimensionamento si fissa il fattore di carico volumetrico 𝐹𝑐𝑣 , cioè la massa di
fango alimentato per unità di volume e di tempo. Le tre tipologie di digestori hanno tre
diversi valori di 𝐹𝑐𝑣 :
𝐾𝑔𝑆𝑆𝑇
- 𝐹𝑐𝑣 psicrofili, 0.5 − 1 ⁄𝑚3 ⋅ 𝑔𝑖𝑜𝑟𝑛𝑜;
𝐾𝑔𝑆𝑆𝑇
- 𝐹𝑐𝑣 mesofili, 2 ⁄𝑚3 ⋅ 𝑔𝑖𝑜𝑟𝑛𝑜;
𝐾𝑔𝑆𝑆𝑇
- 𝐹𝑐𝑣 termofili, 3 − 3.5 ⁄𝑚3 ⋅ 𝑔𝑖𝑜𝑟𝑛𝑜.
I valori di 𝐹𝑐𝑣 risultano più alti al crescere della temperatura di esercizio poiché,
chiaramente, si hanno reazioni più veloci e si possono alimentare portate maggiori di
fango.
𝑄𝑓1⁄ ⋅ 𝑠0
Il volume di un digestore si determina quindi come 𝑉 = 2 ⁄ .
𝐹𝑐𝑣
A valle della fase di digestione il fango è stabile, e risulta avere la stessa portata in uscita
dall’inspessimento, pari a 𝑄𝑓1⁄ , ma umidità maggiore, poiché una parte del secco è stata
2
trasformata in gas dalla reazione anaerobica, che ricordiamo essere, globalmente,
microorganismi
𝐶𝑎 𝐻𝑏 𝑂𝑐 𝑁𝑑 → 𝐶𝛼 𝐻𝛽 𝑂𝛾 𝑁𝛿 + 𝐶𝑂2 + 𝐻2 𝑂 + 𝐶𝐻4

Disidratazione
Ci si è allontanati dalla palabilità, ma si è ottenuto un fango più disposto a separarsi
dall’acqua, ossia con una percentuale maggiore di acqua interparticellare piuttosto che
interstiziale ed particellare. Un fango siffatto viene quindi sottoposto alla fase di
disidratazione per mezzo della quale si può raggiungere l’umidità di almeno l’80%.
Il prodotto principale della disidratazione è fango palabile e stabile, il prodotto di scarto è
l’acqua che, insieme a quella uscente dall’inspessitore, viene riciclata alla linea acqua.
Per realizzare la disidratazione esistono tre metodi:
- trattamento termico: consiste in un essiccamento o incenerimento.
Nell’essiccamento si riscalda il fango fino ad una temperatura di 100°C, l’acqua
evapora e l’umidità arriva al 10%. Nell’incenerimento si arriva a 600-800°C,
temperature alle quali l’acqua evapora completamente, bruciando anche una parte
del secco, in particolare la parte organica che brucia a 650-700°C. Il trattamento
termico è poco diffuso in quanto risulta eccessivamente costoso;
- disidratazione naturale: è il sistema più antico, ma oggi è in disuso. Il sistema
consiste nella realizzazione di piccole vasche, dette letti di essiccamento, con il
fondo ricoperto di ghiaia, sulla quale si fa scorrere il fango. L’acqua, passando
attraverso la ghiaia, evapora al sole.

Il tempo di detenzione dipende dalle condizioni climatiche. Nelle nostre zone in


media il fango va esposto al sole per circa due mesi. Il fango essiccando poi viene
palato da un operaio e portato via.
- disidratazione meccanica: è il sistema più diffuso ad oggi; esistono due tipologie di
disidratazione meccanica: la centrifugazione, realizzata per mezzo di centrifughe, e
la filtrazione, realizzabile con filtri a vuoto, filtri a nastro o filtri a pressa.
Quando si attua la disidratazione meccanica spesso si prevede una fase aggiuntiva tra la
digestione e la disidratazione, detta condizionamento del fango. In tale fase si favorisce
l’agglomerazione di più particelle di secco per ottenere una migliore prestazione della
disidratazione meccanica.
La centrifuga è un’apparecchiatura ad asse orizzontale che gira ad una velocità di
un migliaio di giri al minuto: dato che secco e acqua hanno peso specifico diverso,
subiscono diverso condizionamento dalla centrifugazione, quindi acqua e secco si
separano. Il secco si raccoglie sulle pareti della centrifuga, l’acqua resta nel centro.
Sono le apparecchiature più economiche per la disidratazione meccanica, quindi anche le
più inefficaci: l’umidità ottenuta è appena inferiore all’80%.
L’efficienza della disidratazione è importante poiché tanta più acqua è presente nel fango
tanto più costoso risulta il suo trasporto, da realizzare per lo smaltimento.
Il principio alla base della filtrazione è il pressaggio del fango su di una tela, in
modalità differenti in base al sistema scelto, così che l’acqua passi attraverso la tela
abbandonando la frazione secca.
La filtrazione a vuoto era maggiormente diffusa in passato, mentre oggi sta
cadendo in disuso poiché dispendiosa in termini energetici. Nella vasca, in cui è
alimentato il fango, ruota un tamburo con filtro permeabile all’acqua. All’interno del
tamburo viene aspirata l’aria e si crea un vuoto: la vasca è a pressione atmosferica,
all’interno del tamburo la pressione è notevolmente inferiore. Il fango, quindi, tende ad
entrare nel tamburo per effetto della differenza di pressione. Dato che la tela è molto fitta,
questa permette il passaggio dell’acqua ma non del secco, che viene raschiato via nel
punto * del tamburo rotante.

L’aspirazione dell’acqua viene realizzata tramite una pompa, il che necessita di un


notevole dispendio di energia. L’umidità residua è del 65-70%.
La filtrazione a nastro è la più frequentemente utilizzata. Consiste in due nastri che
ruotano attorno ad una serie di pulegge.
Il fango si applica sul nastro rosso, per poi passare nella zona di azione del nastro verde,
e viene quindi schiacciata tra i due nastri. In questo modo si perde l’acqua che passa per
la tela permeabile sottostante, mentre il fango continua a seguire il nastro rosso finché non
si stacca, per mezzo di un coltello o di una curva molto stretta.
Il filtro a nastro non è il più efficiente, con un’umidità residua di circa il 65-70%. E’ però il
più economico dal punto di vista energetico e del personale, dal momento che funziona in
continuo.
I filtri a pressa sono il metodo meccanico più efficace, con umidità residua del 55-
65%, necessitano però di molto personale al lavoro ed il macchinario è molto costoso. Su
di un asse centrale sono calettate delle piastre, configurate come in figura

Quando le piastre vengono schiacciate formano una camera isolata: nella camera, quando
il livello di pressatura è massimo, si introduce in pressione il fango. Le piastre sono dotate
di una tela permeabile all’acqua, quindi quando il fango è portato in pressione l’acqua
fuoriesce e il secco resta tra le piastre. Per eliminare il secco si riduce la pressione, si
allontanano le piastre ed si preleva il tortino di fango disidratato.
Un ciclo di carico dura qualche ora: in un turno lavorativo di 8 h, quindi al giorno, si
realizzano due pressate.
I filtri a pressa possono avere varie grandezze, a seconda delle dimensioni dell’impianto.

Cicli di trattamento completo nella linea fanghi di un ID


Figura: disegna i cicli di trattamento completo dei fanghi nei vari casi per gli ID.

Cicli di trattamento completo nella linea fanghi di un IP


Negli IP la linea fanghi è la stessa di quella di un ID, ad eccezione della fase
biologica, che è assente in quanto quello di un IP è un fango chimico già stabile, che va
quindi reso solo palabile con una fase di inspessimento e una fase di disidratazione.

Figura: disegna i cicli di trattamento completo dei fanghi nei vari casi per gli IP.

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