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L’APPARATO FONATORIO

La produzione dei suoni: I suoni vengono


formati attraverso la messa in moto
(solitamente attraverso i polmoni, più
raramente attraverso la laringe o la lingua e il
velo palatino) di un flusso d’aria, il cui
passaggio incontra vari ostacoli prodotti da
diverse posizioni in cui possono trovarsi gli
organi fonatori (figura 1). A seconda del tipo
di ostacoli e di organi fonatori coinvolti nel
processo si hanno diversi tipi di suono.

 Principali organi fonatori fissi: denti,


alveoli, palato (prepalato, palato, prevelo).
 Principali organi fonatori mobili: labbra,
lingua (divisibile in punta, corona, dorso e
radice), velo palatino, uvula
 Corde vocali: membrane saldate tra loro
anteriormente che si aprono e si chiudono, determinando con le loro vibrazioni le
seguenti caratteristiche delle varie articolazioni:

– sordità : le corde vocali sono separate tra loro, e permettono il passaggio dell’aria
(it. [p t k]);

– sonorità : le corde vocali sono leggermente accostate tra loro, e

vibrano al passaggio dell’aria (it. [b d g]).

Classificazione dei suoni:

 Luogo di articolazione: luogo di massima costrizione del tratto vocale nella


produzione del segmento fonetico (ad esempio labiale, dentale, alveolare, palatale,
velare, uvulare).
 Modo di articolazione: tipo di costrizione del tratto vocale messo in atto nella
produzione del segmento fonetico. In base al grado di costrizione i segmenti possono
essere classificati come occlusivi (il passaggio dell’aria attraverso il tratto vocale è
completamente bloccato nella fase di tenuta), fricativi (nella fase di tenuta gli organi
fonatori sono vicini, lasciando all’aria un passaggio cosi’ stretto da produrre frizione
udibile), sonanti (nella fase di tenuta, gli organi fonatori consentono il passaggio
dell’aria senza frizione udibile).

Modo di articolazione: tipo di ostruzione (totale, parziale) incontrato dall’aria:

a. occlusivo: la fuoriuscita dell’aria è completamente bloccata dall’ostruzione prodotta dal


contatto degli organi fonatori. Dopo un certo tempo di tenuta gli organi fonatori si separano,
provocando l’esplosione dell’aria che era stata bloccata (ad es. [p t k b d g]);
b. fricativo: gli organi fonatori, accostati, non bloccano la fuoriuscita dell’aria, ma le lasciano
un passaggio così stretto da causare frizione (ad es. [f s v z]);
c. approssimante: simili ai fricativi, ma con frizione molto ridotta.
d. affricato: nella fase di tenuta, gli organi fonatori producono un’occlusione completa del
tratto vocale, come per i suoni occlusivi; successivamente, il rilascio dell’occlusione viene
prolungato dando luogo a frizione (ad es. [ts dz]);
e. nasale: nella cavità orale si forma un’occlusione completa degli organi fonatori, che
consente all’aria di uscire solo dal naso attraverso l’abbassamento del velo palatino (ad es.
[n m]);
f. laterale: la fuoriuscita dell’aria è parzialmente bloccata dall’accostamento della lingua alla
volta palatina, ed avviene attraverso i lati della lingua (ad es. [l ń]);
g. (poli)vibrante: un organo mobile, vibrando leggermente, produce ripetutamente una
leggera e breve occlusione con un altro (ad es. [r])

Luogo di articolazione:

Organi fonatori che producono l’ostruzione: bilabiale ([p b m]); labiodentale ([f v M]); dentale ([t d
s z tz dz]); alveolare ([l n]); alveopalatale ([S Z Ù Ã ]); palatale ([ń ñ j]); velare ([k g N]); labiovelare
([w]).

Se due suoni possono essere utilizzati all’interno di coppie di parole altrimenti identiche senza
mutarne il significato, si dice che questi suoni appartengono alla stessa classe, ovvero costituiscono
realizzazioni concrete di una stessa entità, il fonema. I vari suoni che possono realizzare
concretamente un fonema prendono il nome di allofoni di quel fonema. Se invece due suoni, inseriti
all’interno di parole altrimenti identiche, ne cambiano il significato, si dice che tali suoni realizzano
fonemi distinti. Le coppie di parole in questione (ovvero, coppie di parole che hanno significato
diverso e si distinguono per un unico suono) prendono il nome di coppie minime.

 Ad esempio, in italiano,

p /[b] realizzano fonemi distinti, perché̀ identificano delle coppie minime di parole, e altrettanto
[k]/[t].

n , [ñ ], [N] non identificano coppie minime di parole, e sono quindi allofoni di uno stesso fonema,
che si può indicare come /n/.

Talvolta, nella trascrizione fonetica, si indicano solo i fonemi, senza specificare le caratteristiche
articolatorie degli allofoni. Questa trascrizione prende il nome di trascrizione fonetica larga, e
utilizza la notazione /.../: ad esempio, /santo/, /anfora/, /fango/ (è indicato un fonema /n/, ma non
sono specificati gli allofoni [n], [M], [N]).
TRASCRIZIONE FONETICA

: I due punti indicano che l’elemento precedente


sia vocalico che consonantico va inteso come
lungo
ɛ-ɔ vocali palatale e rispettivamente velare medio-
aperte ( t[ɛ]sta – f[ɔ]rte)
I–U vocali palatale e rispettivamente velare alte e
rilassate (ship – pull)
y vocale palatale arrotondata alta (lune – fr)
ə schwah è una vocale indistinta (häuser)
j–w legamento. Indicano le semivocali palatali (ieri
– uomo)
h fricativa laringale
ʔ indica l’occlusiva laringale
ɸ fricativa bilabiale sorda (capo, sapere)
θ fricativa interdentale sorda (Atene)
ß fricativa bilabiale sonora (b/v spagnola)
ð fricativa interdentale sonora (that)
x fricativa velare sorda (buch)
y fricativa velare sonora (fuego)
s sibilante dentale sorda
z sibilante dentale sonora
ts affricata dentale sorda (avanzo)
dz affricata dentale sonora (zoo)
š sibilante palatale sorda (scivolare)
ʒ sibilante palatale sonora (garage)
ć–č affricata palatale sorda (c’era)
g (^) affricata palatale sonora (giro)
ɫ/ ʎ laterale palatale (sbaglio)
ñ nasale palatale (gnocco)
l laterale velare (clay)
c: occlusiva mediopalatale sorda (china)
ç fricativa mediopalatale sonora (ich)
ʝ fricativa mediopalatale sonora (iena)
k occlusiva velare sorda (casa)
g occlusiva velare sonora (mago)
kw occlusiva labiovelare sorda
gw occlusiva labiovelare sonora
ŋ nasale velare (banca, vincolo)
q occlusiva uvulare sorda (faquir – povero; suq –
mercato)
G occlusiva uvulare sonora
R vibrante uvulare sonora (river)
ħ fricativa faringale sorda (rih – vento)
SEGNI DIACRITICI

Il tilde sovrammesso a qualunque vocale indica che la vocale è nasalizzata (sans – senza). Nelle
trascrizioni fonetiche, tra parentesi quadre, e fonologiche, tra barre oblique, l’accento è indicato da
un trattino verticale in alto (‘), normalmente posto all’inizio della sillaba che contiene la vocale
accentata. In alternativa è possibile indicare l’accento con il segno tipico (à) soprammesso alla
vocale accentata. Nella traslitterazione dall’arabo è tradizionale che le vocali lunghe vengano
indicate con accento circonflesso (bâb – porta).

PARENTELA LINGUISTICA

Le lingue possono essere raggruppate come i membri di un albero genealogico di una famiglia:
lingue figlie e lingue madri, fino a risalire a una lingua capostipite. Nel caso delle lingue indoeuropee
parlate oggi in Europa, le lingue figlie d’ultima generazione sono ad esempio le lingue derivate dal
latino e perciò dette neolatine o romanze: il portoghese, lo spagnolo, il catalano, il francese, il
provenzale, il rumeno ecc., ma ci sono anche le lingue germaniche come l’inglese, il tedesco,
l’olandese, il danese, svedese e norvegese, o quelle slave come il polacco, il ceco, lo slovacco, il
russo, l’ucraino e il bulgaro, o quelle baltiche come il lituano, il lettone o l’antico prussiano. Nel caso
delle lingue romanze la lingua madre è il latino, nel caso delle altre lingue abbiamo il germanico
comune, lo slavo comune e il baltico comune. Dagli studiosi è comunemente accettato che
l’inattestato slavo comune e l’inattestato baltico comune rappresentino il ramificarsi successivo
d’una precedente lingua madre: il balto-slavo.

Tra il francese e l’italiano c’è una certa somiglianza a livello impressionistico più che scientifico (ciel
– cielo / fenêtre – finestra/ pied- piede). C’è una somiglianza a livello grafico più che a livello fonico
(pronuncia). L’attuale grafia del francese è attardata di alcuni secoli rispetto alla molto più evoluta
pronuncia effettiva. La somiglianza è data da quello che si può chiamare lessico condiviso o lessico
in comune ossia quella percentuale più o meno elevata di voci che danno realmente l’idea di
corrispondersi, in qualche modo, nelle due lingue.

Occlusiva velare sorda (K)


IT FR
Cantare, cortesia, campo, colla chanter, courtoisie, champ, colle

In grafia francese standard <ch> è digramma, ovvero composto da due segni. La <k> in italiano
ricorre davanti alla a, sia davanti alla o. in francese <ch> va davanti alla o e anche davanti a [u](ou),
ma abbiamo š (ch) davanti alla a. Potrebbe esserci dunque:

a. Uno scarto fra l’italiano e il francese del tutto casuale e dunque non consente
ulteriori argomentazioni (è così e basta)
b. Uno scarto sistematico tra le due lingue ovvero tutte le volte che in italiano
abbiamo [k] + [a], in francese abbiamo una sequenza [š] + [a], se invece la
sequenza è del tipo [k] + [o] oppure [k] + [u] allora abbiamo [k] tanto in una
lingua quanto nell’altra

Considerando più esempi possiamo definire che lo scarto è sistematico. Entrambe le lingue hanno
avuto un medesimo punto di partenza, rispetto al quale, da un certo momento in poi hanno
cominciato a divergere. Il nostro punto di partenza è [k+a], [k+o], [k+u] in tutte e due le lingue. Una
volta stabilito che [š] nasce da [k] seguita da [a] possiamo supporre che quando abbiamo la [e] come
ad es. in cheval, questo sia solamente un espediente grafico della schwah (ə) e che in realtà una
volta la parola fosse chaval o che chemise fosse chamise. Questo significa che in italiano non c’è
stata un’evoluzione, mentre in francese sì e, la [a] si è affievolita in schwah (ə) graficamente [e] se:

1. Non porta l’accento


2. Si trova in sillaba terminante per vocale (sillaba aperta)

Perché in francese la a tonica è divenuta e in francese (marché)?

In francese abbiamo [a] se nei corrispettivi italiani la a accentata è in sillaba chiusa (champ –
cam.po), abbiamo viceversa [e]/[ɛ] se nei corrispettivi italiani la a accentata è in sillaba aperta (mer
– ma.re). La risposta a questa somiglianza è che il francese deve aver conosciuto una struttura
sillabica assai simile se non uguale a quella che, ancora oggi, si riscontra in italiano. Un forte
indebolimento delle vocali in fine di parola, seguito da una loro caduta pressocché generalizzata e
unito ad altri vistosi processi fonetici (es. semplificazione delle consonanti geminati – consonanti
che durano di più rispetto alle normali – che oggi sopravvivono solo a livello grafico) ha
completamente sovvertito la struttura sillabica che il francese condivideva con l’italiano e ne ha
instaurata una nuova e diversa, in cui le alternanze non hanno più possibilità di spiegazione.

E come mai a [t] intervocalica dell’italiano (mercato) corrisponde zero in francese?

C’è una certa somiglianza tra il segmento -è (marché) e l’italiano -ato (mercato) che se si guarda il
latino sembra derivare da – atu, in sostanza uguale a quella del participio passato.

Altre somiglianze sono la [y] del francese che in italiano è una [u] (lune – luna) , cosìccome alla [u]
francese corrisponde il participio passato [uto]. Es. sono: voulu/ voluto, battu/ battuto, lu/ letto,
obtenut/ottenuto. Sempre per il participio passato, il francese [i] può essere intuito come [ito]
italiano. Es. sono: dormi/dormito, fini/finito, réussi/ riuscito. Questo per dire che a corrispondenze
fonetiche la francese [i] e l’italiano [ito] sono la stessa cosa.

Quindi, date due o più lingue legate da un certo numero di corrispondenze sistematiche; poiché la
probabilità che tali corrispondenze siano dovute solo al caso è tanto più bassa quanto più è alto il
numero delle medesime. Le due o più lingue in tanto si presentano così innervate in quanto
costituiscono il divergere ancora parziale, ma reciproco e progressivo, da una più antica fase
linguistica comune (lingua0). Un’altra conferma deriva dalla morfologia. Lungo l’arco diacronico
delle lingue i morfemi (-), quanto meno quelli flessivi (quelli strettamente grammaticali – genere,
numero, caso, persona…) sono fra gli elementi più stabili in assoluto.

Il lessico di qualunque lingua può mutare con estrema facilità: caso esemplare è la marea di
francesismi, che a partire dalla conquista dell’Inghilterra nel 1066 ad opera dei normanni francofoni
ha modificato la facies germanica dell’inglese, infatti se [push] in tedesco è [stoßen], notiamo come
non si assomiglino, ma assomigli più al francese [pousser] di matrice latina. Gli elementi morfologici
non rinviano a realtà extralinguistiche, ma servono a esprimere relazioni (desinenza e grammaticali)
che restano tendenzialmente stabili nel lungo periodo (vedi lingua italiana). Quei morfemi
esprimono precisamente quelle relazioni, possono sottrarsi ai cambiamenti, alle tendenze, alle
mode, caratterizzandosi invece per una spiccata propensione alla conservatività. Altro aspetto è che
i morfemi flessivi o non si trasmettono affatto o lo fanno solo in casi eccezionali. Il ruolo della
morfologia nella classificazione delle lingue su base genealogica emerge in tutta la sua importanza.
Se la gran parte del lessico va soggetta a rinnovamento continuo, la stabilità dei morfemi flessivi fa
sì che le concordanze morfologiche bastino a indiziare la comune origine di due o più lingue anche
quando queste non presentino quasi più lessico in comune. Le corrispondenze sincroniche esistono
in italiano e in francese perché partono da un’eredità comune, della quale o conservano
sistematicamente le caratteristiche oppure le modificano con altrettanta sistematicità.

Il lessico condiviso, morfologia condivisa e sistematicità di corrispondenze fonetico-fonologiche


sono ovviamente condizioni necessarie per stabilire la parentela linguistica non solo in senso
orizzontale (ossia lingue sorelle es. it/fr), ma anche in senso verticale, ossia fra lingue che derivano
da altre come italiano dal latino.

Es. terra/terra, mare/mare, patre

In latino, come per il francese e l’italiano ci sono delle analogie. Ad esempio PL in latino corrisponde
sempre a PI in italiano: platea/piazza, planta/pianta, plicare/piegare. Al contrario l’it. Pioggia
presuppone un non attestato latino ploja, una forma che sarà stata popolare, ossia dell’uso
quotidiano, mentre pluvia che è la forma latina realmente attestata, doveva appartenere al registro
elevato.

Se all’interno dei morfemi a lat. -T corrispondente invariabilmente l’italiano [-t-], la cosa più
verosimile è che la prosecuzione italiana delle occlusive sorde intervocaliche del latino sia
precisamente l’esito sordo.

Quanto alla morfologia condivisa, l’italiano si basa rispettivamente sulla 1°, 2° e sulla 3° declinazione
latina per i nomi tipicamente femminili (casa, case), di quelli tipicamente maschili (libro, libri) e di
quelli tipicamente ambigeneri (giovane, giovani).

LA STRATIFICAZIONE DEL LESSICO

A costituire il lessico – di ogni lingua – ci sono 4 strati:

a. lo strato ereditario: percentuale di lessico che ogni lingua riceve dal suo immediato
antecedente (lingua-madre): l’italiano, il francese, spagnolo ecc. derivano dal latino. Il lessico
si rinnova e quindi è impossibile stabilire in anticipo quante parole dalla lingua madre
continueranno a rimanre nella lingua figlia. Ci sono però settori lessicali tendenzialmente
stabili come ad es. i numerali o la terminologia parentale o i nomi delle parti del corpo.
Nonostante il rumeno provenga dal latino però, il numerale 100 deriva dallo slavo. Lo strato
ereditario svolge il ruolo fondamentale di fornire la morfologia flessiva (marche
grammaticali) a tutto il resto del lessico (prestiti, onomatopee, neoformazioni) es. zigzagare
formato dal fonosimbolico zigzag.
b. lo strato dei prestiti: voci che una data lingua assume dalle lingue con le quali è a più contatto
ovvero strato la cui consistenza numerica può variare enormemente così come possono
variare le condizioni entro cui il prestito avviene. Es. iglù che per il tramite dell’inglese ci
arriva dall’eschimese igdlo, o si pensi a tutta la terminologia relativa a piante, prodotti
alimentari, manufatti ecc. che dopo la scoperta dell’America, dalle lingue indigene, oggi in
parte estinte, è rifluita nello spagnolo, il quale, a sua volta, l’ha irradiata in tante altre lingue
di cultura (tomate/pomodoro, chocolate/cioccolato, maiz/mais, hamaca/amaca) ecc. il
maggior numero di prestiti si ha quando due lingue vengano a trovati in contatto (una volta
solo geografico, oggi con i mezzi di comunicazione anche a distanza) e una delle due, per vari
motivi, sia dotata d’un prestigio nettamente superiore a quello dell’altra. È il caso dei
tecnicismi angloamericani relativi all’informatica, ma c’è anche un intento mimetico, ossia
dettato dal desiderio di partecipare usandone il lessico, del prestigio latamente sociale di cui
quello linguistico è evidentemente emanazione (day-hospital, turn-over,[garante della]
privacy). I prestiti possono avere vari livelli. A livello fonologico è riconducibile ad essi la
possibilità in italiano di avere voci uscenti in consonante (stop, baobab, film, alt, bar, week-
end) che sono entrare in italiano fra 1800-1900. Se il contatto fortemente squilibrato a
favore d’una sola delle due lingue e il flusso di prestiti a senso unico (da B verso A e non
viceversa) si prolungano nel tempo, ecco che si creano le condizioni in cui lo strato lessicale
ereditario non riesce più a imporre la sua morfologia alle voci di prestito. Il risultato finale è
una lingua A che a poco a poco diventa una varietà della lingua B. Il cambio di lingua però
può avvenire anche in base alla decisione dei genitori di non trasmettere ai figli una data
lingua perché considerata inutile o addirittura dannosa. Es. è il maltese (dal 1964 lingua
ufficiale di Malta), che ha subito l’influsso pesantissimo del siciliano per secoli. Il greco e il
latino inoltre hanno svolto per secoli la funzione di serbatoio lessicale nei confronti delle
lingue europee occidentali (es. televisione che ha un prefisso – tele – dal neogreco – tile –
che vuol dire – da lontano- e il latino – visio/onis – in senso concreto e stratto). Il latino svolge
un duplice ruolo, avendole fornite dello strato lessicale ereditario, ma anche fornendo loro
una percentuale tutt’altro che trascurabile di cultismi (utilizzo di una forma linguistica non
per forza arcaica ma dotata di un prestigio che la distingue dal linguaggio corrente e la mette
in risalto contrastivamente).
c. lo strato delle formazioni onomatopeiche e fonosimboliche: comprende tutte quelle
formazioni che, nella loro successione fonica, tentano di riprodurre più o meno fedelmente
suoni e rumori animali, naturali o d’altro tipo (onomatopee chicchirichì o coccodè) che
suggeriscono in qualche modo l’idea di quello che si vuole indicare (i fonosimbolismi come
zigzag per indicare una linea spezzata, composta da una serie di angoli orientati in senso
alternativamente contrario). Sono riunite in questo srato tutte le formazioni in cui
l’arbitrarietà del rapporto fra significante (struttura fonica veicolante una nozione,
rappresenta il suono dunque) e il significato (nozione veicolata da una struttura fonica,
rappresentazione concettuale e psichica, dunque quello che io associo quando sento il
nome, non è l’oggetto in sé) è ridotta al minimo, infatti sbam ha un rapporto stretto fra il
significato e il significante. Comunque bisogna sottolineare che anche per i versi degli animali
c’è una certa arbitrarietà, infatti un italofono sente il verso del cane come bau bau, un
anglofono lo sente come bow-wow. Inoltre l’evoluzione fonetica può tanto oscurare
precedenti formazioni onomatopeiche (es. pipio – uccellino che pigola – in latino è una
formazione onomatopeica, ma piccione in italiano o pigeon in inglese non hanno certamente
la stessa carica simbolica.
d. lo strato delle neoformazioni, derivate, per mezzo di regole sincronicamente produttive, da
forme comprese in uno degli strati precedenti: le regole sincronicamente produttive sono
quelle che in un momento isolabile a piacere lungo l’arco diacronico d’una lingua , il parlante
riconosce per l’appunto come regole e usa normalmente. Es. nell’italiano del III millennio
sono la formazione del femminile con il suffisso – essa (principe  principessa), la
formazione del femminile a mezzo dell’uso ambigenere del maschile (presidente –
presidente), ma non la formazione del femminile a mezzo del suffisso -ina (gallo – gallina),
infatti è una regola derivata che non è mai stata dell’italiano e che si usava già in latino.
IL MUTAMENTO

Teoricamente in assenza di sollecitazioni esterne, dunque, le lingue tenderebbero a perpetuarsi


immutate attraverso generazioni e generazioni. Noi non disponiamo di nessun esempio di lingua
che sia rimasta isolata totalmente e per un tempo lungo abbastanza da confermare o smentire
l’affermazione. Il cambiamento che una lingua percepisce di primo acchito è quello a livello fonetico-
fonologico.

Il livello fonetico riguarda la produzione concreta dei suoni o con un termine più tecnico, dei foni.
Ovvero in che modo i suoni vengono articolati, in quale punto dell’apparato fonatorio (bocca), con
l’intervento di quali organi articolari (labbra, denti, lingua, palato, cavità nasale…). Il livello
fonologico o fonematico riguarda invece quei particolari foni che ciascuna lingua si sceglie per farne
i mattoni con cui costruire le sequenze dei significanti (sequenze foniche in grado di veicolare i
significati) es. mare è una sequenza fonica composta dagli elementi /m/+/a/+/r/+/e/ e veicolante il
significato di “distesa di acqua salata che ricopre la maggior parte del pianeta e circonda le terre
emerse”. Questi mattoni si chiamano fonemi. I foni vengono segnati convenzionalmente tra
parentesi quadre e si collocano a livello della concretezza articolatoria. Es [f] è fricativa (modo di
articolazione), labiodentale (luogo di articolazione, sorda (non intervengono le corde vocali); [n] è
una nasale (modo di articolazione), dentale (luogo di articolazione), normalmente sonora perché
intervengono le corde vocali. I fonemi invece tra barre oblique si collocano invece a un livello
mentale: sono gli elementi che il parlante di una data lingua sa di dover utilizzare in quella lingua
per costruire un certo significante. I fonemi sono un’unità distintiva minima, l’unità fonica più
piccola che pur non avendo di per sé, un suo significato, tuttavia permette di distinguere tra
significati diversi: la m in mare è se modificata in c, dà care e quindi forma già un altro significato.
Le coppie di parole che si distinguono per un solo punto della sequenza si chiamano coppie minime.
(es. mare, care – pasta, casta). Visto che i fonemi si susseguono l’un l’altro nella catena fonica, può
succedere che la loro realizzazione concreta venga condizionata dal contesto e che dunque in certe
situazioni si pronuncino in modo diverso rispetto alla realizzazione standard (es. principi – princìpi).
Questi diversi modi determinati dal contesto, di realizzare uno stesso fonema si dicono varianti
contestuali (o combinatorie; o anche allofoni contestuali ovvero combinatori) di quel fonema
(manco – mango). Quando le varianti di fonema sono determinate dal contesto si dice che
presentano distribuzione complementare. Se un fonema es /k/ presenta due varianti /k/ e /c/ e
queste varianti sono determinate dal contesto ([c] va davanti a e, i, [k] in tutte le altre posizioni) è
ovvio che nella posizione in cui compare la realizzazione [c] non possiamo trovare la realizzazione
[k] e viceversa. Il fatto che in una Lingua due foni siano varianti contestuali d’un medesimo fonema
non esclude che in un’altra lingua quei due foni possano invece funzionare come fonemi ( ad es. il
parlato di Firenze fa una distinzione tra -casa – e [x]asa). Se gli allofoni che si riscontrano più
frequentemente sono quelli contestuali non mancano neppure i cosiddetti allofoni liberi (in
alternativa varianti libere), ossia indipendenti dal contesto (es. Roma con la r dentale oppure Roma
con la r moscia): il significato sarà in ogni caso sempre Roma.

Una conseguenza della distinzione tra foni e fonemi è anche a livello di mutamento ovvero
mutamenti a livello fonetico: cosa diventa cosa, indipendentemente dalle conseguenze fonologiche
che possono derivarne; e mutamenti che riguardano il piano fonologico o fonematico: in che modo
cambiano gli inventari fonologici delle lingue. Entrambi i mutamenti comunque sono strettamente
interrelati, nel senso che se i mutamenti fonetici non è detto debbano necessariamente avere
conseguenze fonologiche, però i mutamenti fonologici sono di solito innescati da mutamenti
fonetici. A livello fonetico, nella casistica dei mutamenti possiamo comprendere:
1. l’assimilazione: prevede che due elementi fonici continui o comunque vicini nella catena
fonica e fra loro diversi o in tutto o in parte si avvicinino in parte (assimilazione parziale) o in
tutto (assimilazione totale). Es. dal latino FA[kt]U > it. Fa[tt]o è un caso di assimilazione
regressiva perché è il secondo fonema che influenza il primo. Dal latino MU[nd]U> nap.
MU[nn]U è un caso di assimilazione progressiva perché è il primo elemento che influenza il
secondo. Dal latino AM[i:ku] > esp. Ami[y]o – grafia standard amigo – è un caso di
assimilazione bidirezionale perché a condizionare la [k], prima sonorizzandola in [g] e poi
mutandola in continua [y] è l’azione congiunta delle due vocali, quella prima e quella dopo
l’elemento modificato). Un fenomeno che accade in turco con l’assimilazione è l’armonia
vocalica. Infatti certi suffissi assimilano in tutto o in parte la loro vocale all’ultima, o nel caso,
all’unica vocale della parola alla quale vengono uniti. Es. il plurale viene formato con -ler o -
lar a seconda che l’ultima vocale della parola cui il suffisso si attacca sia, una vocale palatale
oppure una vocale non palatale (evler – case; yollar – strade). Un altro fenomeno
assimilatorio è la metafonia o anche metafonesi. È pienamente operativo in certi dialetti e
solo resiudale in altri, riguarda un po’ tutte le varietà dialettali, dal nord al centro e al sud,
ma non il toscano (né di conseguenza l’italiano). Nei dialetti italiani la metafonia riguarda le
sole vocali accentate
2. la dissimilazione: prevede che due elementi contigui o vicini articolatoriamente uguali o
simili si diversifichino in misura maggiore o minore.
3. l’inserzione: significa aggiunta di materiale fonico etimologicamente ingiustificato. Es. sono
“caule” che in italiano è cavolo o “schola” che in spagnolo è escuela.
4. la cancellazione: sottrazione di materiale fonico che invece dovrebbe essere presente. Es. è
“calidu” che in italiano è “caldo” (non c’è la i), oppure “saeculu” che in spagnolo è “siglo”.
5. la metatesi: consiste invece nello spostamento di materiale fonico in un punto della catena
diverso da quello in cui dovrebbe trovarsi in base all’etimologia. Es. nel Boccaccio è
“ghiottornìa” mentre in italiano è “ghiottoneria”.
6. la coalescenza: si intende la fusione di due elementi fonici contigui in un terzo elemento,
diverso dai primi, ma che, di solito anche se non necessariamente, presenta caratteristiche
di ciascuno degli elementi di partenza: nell’it. Vinna “vigna” ad es. il fono nasale palatale [nn]
risulta dalla fusione della nasale dentale col legamento palatale [j] presente nel lat. Parlato.
7. la scissione: è il fenomeno opposto alla coalescenza per cui un elemento fonico si scinde in
due elementi distinti. Un esempio classico è la dittongazione italiana, la quale fa sì che la “è”
e la “o” in latino, se in sillaba aperta, passano rispettivamente a “ie” a “uo”. Come scissione
può classificarsi anche il passaggio da [-n] a [-nt] come in Vajont. Piuttosto frequente è poi
la scissione come mezzo col quale la lingua ricevente adatta suoni, che le sono estranei di
un’altra lingua. Es. in francese “menu” si legge con la ü, mentre in italiano e russo no.

Il tipo più notevole di mutamento indipendente dal contesto è la cosiddetta analogia. Mentre non
spiegabile in termini di fonetica combinatoria è quello che va sotto il nome di paretimologia o anche
etimologia popolare. Essa consiste nella modificazione fonica d’un certo significante per effetto di
un altro significante al quale, a torto o ragione, il parlante associa il significante. Es. è “vedetta” che
normalmente si associa a vedere, mentre in realtà deriva da “veletta” come vela. In tedesco si usa
“Sündflut” dove i parlanti vedono un’inondazione a causa del peccato. L’interpretazione è plausibile,
ma sbagliata a livello storico perché in passato si usava “sin-vluot” ovvero inondazione, poi a un
certo punto si è associato sin a peccato. Un esempio della paretimologia sono significanti coi quali
il parlante ha medio o scarsa, se non nulla dimistichezza o perché si tratta di prestiti da altre lingue
o perché sono voci uscite dall’uso normale. Es. “vene vanitose” per “vene varicose”, “carbonizzare”
per “carburare”. Ciò significa che il parlante medio ha familiarità in genere, con un numero piuttosto
limitato di significanti, ha dunque un lessico ridotto.

Opposto alla paraetimologia, c’è il processo per cui i significanti ben noti al parlante vengono distorti
o alterati consapevolmente perché magari non vuole articolarli in maniera corretta. Questo
fenomeno si chiama interdizione o tabù linguistico, che nelle società moderne viene spesso
banalizzato in convenzioni di buona educazione. Es. accidempoli, accidempolina, acciderba, sono
tutte esclamazioni possibili in situazioni anche d’una certa formalità, mentre non lo è il più crudo
accidenti.

Più radicalmente quando non si vuole pronunciare qualcosa direttamente, si usa un eufemismo, es.
“orso” in russo viene parafrasato con “mangiatore di miele”.

TIPOLOGIA DI MUTAMENTI FONICI

I mutamenti sono 3:

1. la fonologizzazione: realizzazioni diverse del medesimo fonema, condizionate dal contesto,


si svincolano dal condizionamento contestuale e diventano fonemi distinti. Un buon esempio
si trova nel sanscrito dove la labiovelare sorda kw si sviluppava in una velare semplice, che
restava tale davanti a vocale non palatale ma si palatalizzava secondariamente davanti a
vocale palatale. La contrapposizione tra k e c dipendeva dal contesto.
2. La defonologizzazione: opposto al primo, due o più fonemi diversi, non dipendenti dal
contesto finiscono col disporsi in un rapporto di complementarietà contestuale, ovvero è il
contesto fonico a stabilire quando compare un elemento e quando invece l’altro e divengono
così varianti combinatorie d’uno stesso fonema. In latino ad es. la vocale breve e la
corrispettiva lunga funzionavano come fonemi: altrimenti detto, l’opposizione di lunghezza
vocalica aveva valore fonologico e, avendo tale valore si riscontrava tanto in sillaba aperta
quanto in sillaba chiusa così come in posizione tonica. In italiano, al contrario, la vocale si
presenta lunga se, e solo se, la detta vocale: è accentata, è in sillaba aperta, è in penultima
sillaba. Es. “inciso” ha la [i] lunga, mentre in miracolo la ha breve. È chiaro che in italiano
a. L’opposizione di lunghezza vocalica dipende strettamente dal contesto
b. In quanto dipendente dal contesto, tale opposizione non può avere valore fonologico.
3. La rifonologizzazione (o transfonologizzazione): non c’è incremento né riduzione del numero
dei fonemi, ma cambia la sostanza fonica con cui i fonemi sono realizzati. Es. in francese tra
Otto e Novecento si diceva /a/ normale, velarizzata o solo lievemente palatalizzata (pat –
zampa) divenne tra /a/ breve a /a/ lunga. È cambiato il modo di articolare i fonemi, ma il loro
numero è rimasto invariato. Un esempio di rifonologizzazione è la legge di Grimm che
descrive i mutamenti subiti dalle occlusive nel passaggio germanico comune e, di
conseguenza alle lingue germaniche (b,d,g  p,t,k)

Per molto tempo si è pensato che il mutamento fonetico è tendenzialmente ineccepibile, che è a
quanto dire senza eccezioni, nonché tendenzialmente istantaneo. Sappiamo che il mutamento non
è ineccepibile e neppure istantaneo, ma che può sorgere in un punto qualunque della lingua e, di
qui, diffondersi progressivamente nel resto del sistema, di solito generalizzandosi, vale a dire
arrivando a coinvolgere tendenzialmente ogni punto suscettibile d’essere coinvolto. Un esempio di
mutamento bloccatosi, per così dire, a mezzo è la sonorizzazione toscana e italiana delle occlusive
sorde poste fra vocali, innescata dall’imitazione dei più prestigiosi (un tempo quanto meno) modelli
fonetici italiani settentrionali, provenzali, francesi. Da simili coppie che il toscano/italiano ha
estrapolato una regola di sonorizzazione, la quale, poco per volta, è stata estesa anche a voci
contenenti, è vero, che un’occlusiva sorda in posizione intervocalica, ma prive di modelli ispriatori
settentrionali. Il prestigio dei modelli fonetici d’oltralpe e d’oltre Appennino ha cominciato a venir
meno prima che la generalizzazione della regola sonorizzante potesse concludere il suo ciclo, con la
conseguenza che, oggi come oggi, nel toscano/italiano troviamo da lat. -P- a volte (capo-caput) e a
volte la -v- (cavezza- capitium). Un confronto fra la situazione italiana tre-quattrocentesca e quella
moderna mostra come non siano rari i casi di voci che, modernamente hanno articolazione sorda
mentre qualche secolo fa avevano articolazione sonora. Le strategie che il mutamento mette in atto
per generalizzarsi si colgono ovviamente meglio nelle lingue vive che nelle lingue morte: nel caso
delle prime, assieme ai dati strettamente linguistici abbiamo anche la possibilità di osservare e,
entro certi limiti, valutare i parlanti nel corso delle loro scelte, nel caso delle lingue morte, abbiamo
in genere, quando si hanno, i nudi dati linguistici e solo di rado la cornice storico-socioculturale entro
cui quei dati hanno preso corpo e si sono sviluppati fino ad assestarsi nella forma con cui sono
arrivati a noi.

Mentre nelle lingue vive, e dunque direttamente controllabili, la possibilità del controllo diretto
agevola notevolmente la ricerca delle spiegazioni, in tutt’altro modo stanno le cose con le lingue
morte, quale appunto il greco antico è per quanto ricca ne sia la documentazione in nostro possesso,
quel che ci manca è la possibilità di osservare le lingue morte nel loro interagire con le lingue con le
quali si siano trovate in contatto.

Per concludere:

a. Il mutamento può ben essere graduale, cominciando da un settore specifico e poi


estendendosi al resto del lessico
b. Per la comprensione dei fenomeni, il dato linguistico va integrato, almeno nei limiti del
possibile, coi riscontri latamente storico-culturali.

Con le lingue morte e coi loro corpora di testi, noi ci troviamo precisamente nella situazione
dell’ipotetico linguista del 20.000 che si occupasse di salentino avendo a disposizione un corpus, sì,
di testi salentini, ma nessuna conoscenza dell’ambiente storico-linguistico in cui il salentino si è
trovato calato.

OCCLUSIVE SORDE, SONORE E SONORE ASPIRATE

Le aspirate sono occlusive fra la cui articolazione e quella delle vocali immediatamente seguenti si
frappone un intervallo di tempo minimo e tuttavia sufficiente perché, fuoriuscendo dal canale
fonatorio, l’aria immagazzinata nei polmoni produca come un soffio che poi altro non è che una
minima fricativa laringale – fricativa, cioè, prodotta nella zona della laringe – simile a quella che si
ha ad es. nell’inglese (have – haben).

Il sanscrito presenta tutte e tre le serie occlusive (sorda, sonora, sonora aspirata, per quest’ultima
cfr. ad es. bharati, dadhati, gharma) e anche la serie sorda aspirata.

ESITO: risultato di un processo storico di trasformazione fonetica, morfologica o lessicale

Sulla base del primato che, nell’Ottocento veniva attribuito al sanscrito fra tutte le lingue, si è
pensato per lungo tempo che il quadro offerto da questa lingua, non facesse che perpetuare la
situazione propria delle indoeuropee, il quale, insomma, avrebbe presentato la quadripartizione fra
occlusive sorde semplici, occlusive sonore semplici, occlusive sorde aspirate, occlusive sonore
aspirate. In effetti, se l’esistenza, in indoeuropeo delle tre serie sorda, sonora e sonora aspirata è
sufficientemente garantita dagli esiti che, delle dette serie, riscontriamo nelle diverse lingue
indoeuropee, non altrettanto si può dire delle sorde aspirate: articolazioni, dunque, che potrebbero
ben essere una innovazione indiana, parallela ma di segno opposto all’innovazione che riscontriamo
nelle altre lingue indoeuropee, le quali hanno eliminato in vari modi le occlusive sonore aspirate.

i.e.(26°) sscr i.e. (26b) sscr. (A) sscr. (B)


k š k = kw č k
g g g = gw g g
gh h gh =gwh h gh

a. Gli esiti in 26a delle velari palatalizzate sono indipendenti dal contesto mentre in 26b delle
velari pure coincidono con quelle delle labiovelari.
b. Gli esiti coincidenti di velari pure e labiovelari in 26b dipendono viceversa dal contesto:
davanti a vocali palatali abbiamo esiti palatalizzati secondariamente, in tutti gli altri casi,
abbiamo esiti di tipo chiaramente velare (B)
c. L’esito incondizionato della velare sorda palatalizzata e l’esito della velare sorda
pura/labiovelare sorda in trascrizione standard, foneticamente, restano in ogni caso distinti.
d. Gli esiti delle velari sonora e sonora aspirata latalizzate nonché ma solo davanti a vocale
palatale della velare pura sonora/labiovelare sonora e della velare pura sonora
aspirata/labiovelare sonora aspirata vengono a coincidere in g e, rispettivamente, in un
suono che, di norma è traslitterato come H ed era una fricativa sonora di tipo forse velare, o
piuttosto medio palatale?
e. Gli esiti delle velari pure (sorda, sonora, sonora aspirata) e delle labiovelari (sorda, sonora,
sonora aspirata), coincidenti, restano nettamente velari quando non sono seguiti da vocali
originariamente palatali.

GLI ESITI DELLE OCCLUSIVE SONORE ASPIRATE

Uno dei modi con cui le lingue si sbarazzano delle sonore aspirate è il sistema di deaspirarle e farle
così confluire con le corrispettive sonore non aspirate. Degli esempi si trovano nel gruppo
indoiranico, nelle lingue baltiche, in quelle slave, celtiche. Ad. Es. nel russo:

Брат (sscr. Bbratar)

Деть (sscr. Da-dha-ti) mettere

Diverso, ma ugualmente lineare è il sistema seguito dal greco, in cui le sonore aspirate si sono
dapprima assordite in sorde aspirate, quindi trasformate in fricative sorde:

bh > ph > f

dh > th > θ

in greco il passaggio da ph, th, kh rispettivamente f, θ, x, si è verificato relativamente tardi, in un


periodo posteriore all’età classica e collocabile intorno al II e I secolo a.C. Gli indizi in merito sono
interlinguistici. Se la pronuncia greca è cambiata (occlusive sorde aspirate a fricative sorde), non ne
è cambiata invece la grafia standard: e dunque, come, in un primo momento, i simboli di cui sopra
hanno indicato le occlusive sorde aspirate, poi, in prosieguo di tempo, gli stessi simboli hanno
indicato i succedanei di queste, cioè le fricative sorde. Meno lineare invece è il sistema del latino,
che modifica le sonore aspirate, ma secondo modalità dipendenti, oltre che dalla natura delle
occlusive, anche dalla loro posizione nella parola.

In posizione iniziale sia bh- che dh- danno f; ma gh- dà f- solo in vicinanza di [u], altrimenti da h-
(fricativa velare o più probabilmente laringale) o addirittura zero:

a. Frater (fratello) dal sscr. Bhratar id. russo brat)

In posizione interna, bh si semplifica in b, ma dh si semplifica in d solo se non si trova in prossimità


di [r], nel qual caso dà invece b, quanto a gh, se l’esito prevalente è h- (fricativa di tipo velare o
piuttosto laringale, per altro ben presto ammutolita) ne abbiamo anche g non aspirato dopo
consonante liquida o nasale.

a. Albus (bianco) (alfos dal greco)

Poiché d’altra parte, in osco e in umbro bh e dh in posizione interna passano entrambi a -f- è
appunto -f- l’esito che riscontraimo nelle voci che il latino ha preso in prestito dalle lingue italiche:
ad esempio, rufus (rossiccio) che contrasta col latino autentico ruber ma va d’accordo con umbro
rofa.

LA LEGGE DI GRASSMANN

In sanscrito e in greco le occlusive sonore aspirate vanno soggette alla legge di Grassmann, in base
alla quale se due aspirate ricorrono in sillabe contigue, per dissimilazione la prima delle due si
deaspira (perde cioè l’aspirazione). Il fenomeno si coglie soprattutto nelle forme verbali dette a
raddoppiamento ossia composte da un prefisso formato da una copia della consonante inziiale della
radice, seguita da una vocale specifica. In effetti, se la consonante iniziale della radice è una non
aspirata, il raddoppiamento non pone problemi:

a. Gr: di-do-mi (io do)


b. Sscr. Da-da-mi

Il grassetto evidenzia il raddoppiamento e la consonante iniziale della radic e a partire dalla quale il
raddoppiamento è formato. Se invece la consonante iniziale della radice è un’aspirata, allora, nel
raddoppiamento, la sua copia si manifesta come non aspirata.

In assenza di forme a raddoppiamento, gli effetti della legge di Grassmann sono meno evidenti in
quanto, per essere apprezzati, abbisognano del confronto interlinguistico.

Con deaspirazione di dh e di gh ed esito satem, anch’esso regolare, digh a sscr. Dehi (muro) e agr.
Teixos, id. l’avestico fa corrispondere pairi-daeza muro intorno – recinto.

In ultima analisi omoradicale di sscr. Dehi è anche il toponimo salentino moderno Diso, nome d’un
comune in provincia di Lecce.

Ad applicazione – mancata applicazione della legge di Grassmann sono altresì riconducibili esiti
oscillanti quali gr. Friks. Il caso offertoci dal greco, della semplificazione di kh in k e di ph in p se in
unione con una [s] seguente rientra in una fenomenologia ampia e ben conosciuta, per cui i suoni
articolatoriamente complessi (o marcati) tendono a restare tali nelle condizioni più favorevoli (di
solito, in posizione antevocalica), mentre tendono a semplificarsi nei corrispettivi suoni meno
complessi (o non marcati) nelle condizioni meno favorevoli, cioè di solito, in posizione
anteconsonantica o anche in fine di parola.

Rispetto ai suoni non marcati, I suoni marcati sono contraddistinti da una caratteristica (o marca) in
più cos’, fra [k] e [kh] e fra [p] e [ph] sono articolatoriamente più complessi (marcati) i foni [kh] e [ph]
in quanto hanno tutte le caratteristiche articolatorie esibite da, rispettivamente [k] (occlusiva velare
sorda) e [p] (occlusiva bilabiale sorda), ma in più hanno anche l’aspirazione (allo stesso modo fra [k]
e [g] o fra [p] e [b], articolatoriamente marcati sono i foni [g] e [b] perché presentano tutte le
caratteristiche di [k] e [p] e in più hanno anche la sonorità.

In sanscrito la legge di Grassmann si è applicata prima del semplificarsi di gh in h. in quanto al greco,


la legge di Grassmann:

a. Si è applicata dopo il passaggio delle occlusive sonore aspirate a sorde aspirate


b. Si è applicata anche alla h, in quanto esito specificatamente greco

LA MUTAZIONE (ROTAZIONE) CONSONANTICA DELLE LINGUE GERMANICHE (O LEGGE DI GRIMM)

Notevolmente più semplici sono gli esiti delle occlusive sonore non aspirate i.e. e delle occlusive
sorde i.e. che, nelle varie lingue, restano per lo più intatte.

Nelle lingue germaniche le occlusive rispettivamente sorde, sonore e sonore aspirate dell’i.e. sono
andate rispettivamente sorde, sonore e sonore aspirate dell’i.e. sono andate incontro a una
riorganizzazione tanto geometrica quanto radicale, che sotto questo aspetto specifico, oppone
drasticamente le lingue per l’appunto germaniche a tutte le altre lingue:

a. Occlusive sorde delle altre lingue i.e. nelle lingue germaniche corrispondono, prodotte nello
stesso luogo delle occlusive, articolazioni fricative sorde (o succedanei)
b. Occlusive sonore delle altre lingue i.e. nelle lingue germaniche corrispondono occlusive
sorde (o succedanei)
c. Occlusive sonore aspirate (o succedanei) delle altre lingue i.e. nelle lingue germaniche
corrispondono, semplificando alquanto i dati occlusive sonore (o succedanei).

indoeuropeo germanico
*p, *t, *k f, þ, h
*b, *d, *g p, t, k
*bh, *dh, *gh b, d, g

Per indoeuropeo p: dal gotico fulls, ingl. Ant. E mod. full, ted. Voll derivano da un germanico
*fullaz
Per indoeuropeo t: got: þu, ingl. Ant. Thou, ted. Du tutti da un indoeuropeo *tu/ lat. Tū
Per indoeuropeo k: got. Liuhtjan (splendere) a ingl. Līehtan (ingl. Light e ted. Licht) derivano da un
germanico leuh-tjana.
per indoeuropeo b: got. Diupō (profondo) a ingl. Deep, ted. Tief. Derivano dal germanico deup-az
Per indoeuropeo d: got. Fōtus, ingl. Foot, ted. Fuß. Derivano dal latino ped-em.
Per indoeuropeo g: a.a.t kamb a ted. Kamm, ingl. Comb derivano da un indoeuropeo gombh-os.
Per indoeuropeo bh: a.a.t liob, ted. Lieb, ingl. Lēof deriva da un indoeuropeo lewbh
Per indoeuropeo dh: got. Daur, ingl. Door, ted. Tür derivano da dall’indoeuropeo dhwer
Per indoeuropeo gh: got. Ga-wig-an a ted. Be-we-gen sono riconducibili all’indoeuropeo wegh.

ECCEZIONI ALLA LEGGE DI GRIMM: LA LEGGE DI VERNER

Questa riorganizzazione di tutte le occlusive operata dal germanico nella sua gase predocumentaria
va sotto il nome di legge di Grimm (dal nome dello studioso tedesco, che nei primi decenni
dell’Ottocento, la formalizzò per primo); altre definizioni utilizzate sono: prima Lautverschiebung
(in tedesco, spostamento di suono) o anche prima mutazione (oggi preferito dai filologi germanici,
secondo la terminologia tradizionale, rotazione consonantica). La Legge di Grimm comunque è
disattesa in un numero non trascurabile di casi. Abbastanza semplice nella sua natura di processo
tutto sommato dissimilatorio (l’intento è infatti quello di evitare l’immediato susseguirsi di due
articolazioni fricative) è il caso in cui l’occlusiva sorda, se preceduta da un’altra fricativa, non diviene
fricativa (sorda) ma resta occlusiva: es. nel got. E ted. Ist, da indoeuropeo *esti, l’occlusiva sorda [t]
non passa a fricativa, ma resta per l’appunto occlusiva in quanto preceduta da [s], che è una fricativa.
D’altra parte, la fricativa in grado di bloccare l’applicazione della legge di Grimm può a sua volta
essere un prodotto della mutazione consonantica.

La spiegazione di questa anomalia fu offerta, nella seconda metà dell’Ottocento, da K. Verner, il


quale, nella determinazione degli esiti (sordi-sonori), evidenziò, da una parte ,l’importanza del
contesto in cui, in origine, le antiche occlusive sorde si trovavano e, dall’altra, il ruolo discriminante
dell’accento ma non l’accento protosillabico (posizionato sulla prima sillaba) che è concordemente
attribuito alla tarda fase germanica comune, sì, ancora, il cosiddetto accento mobile
dell’indoeuropeo, quale, di solito, ci è conservato da sanscrito e greco.

L’accento mobile va inteso non nel senso che il parlante è libero di collocare l’accento dove più gli
aggrada ma nel senso che l’accento non è legato a un posto fisso nella parola e solo a quello. Mobile
è ad esempio l’accento italiano, che, a seconda delle parole, può ricorrere sull’ultima sillaba (città),
sulla penultima (amore), sulla terzultima (brindisi) o sulla quartultima (complicano). Non è invece
mobile l’accento ad es. del francese, lingua in cui possiamo trovarlo solo sull’ultima vocale della
parola (tableau). A livello operativo, la sede dell’accento indoeuropeo è suggerita dalla
testimonianza congiunta di greco e sanscrito: quando, in voci chiaramente omoradicali, queste due
lingue concordano nel presentare l’accento nella medesima posizione.

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