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CAP2: GOVERNANCE E PARTECIPAZIONE

DEFINIZIONI E PROBLEMI:
La partecipazione e la governance si presentano spesso come fenomeni concomitanti.
La governance è una nozione vaga, di notevole plasticità.
La partecipazione è un concetto sfuggente e interessato da un corpo poderoso di teoria normativa
nel quale confluiscono due filoni distinti:
<• teorie della democrazia partecipativa
• teorie della democrazia deliberativa
GOVERNANCE
Concetto di governance genericamente posto in opposizione a quello di government: il primo indica
una trama reticolare di interazioni in cui differenti soggetti stringono intese e collaborano fra loro
sulla base di specifici interessi.
Il secondo fa riferimento a una struttura gerarchica nel cui ambito l’attore pubblico esercita la sua
autorità.
“Governance si riferisce al governare con e attraverso i networks”: indipendenza fra le
organizzazioni, interazioni continue fra i membri del network, grado significativo di autonomia dei
partecipanti rispetto allo stato.
• sul piano finanziario la necessità di razionalizzare la spesa pubblica è diventata un
imperativo nell’agenda di tutti i paesi industriali avanzati;
• l’applicazione di tecniche gestionali mutuate dalle imprese ha ridisegnato gli assetti
istituzionali e organizzativi dei settori pubblici strategici;
• per quanto riguarda le politiche, è aumentato il carico decisionale in capo ai soggetti
pubblici e hanno assunto un peso particolare le questioni a elevato impatto ambientale e
sociale;
• le dinamiche di riorganizzazione del potere pubblico hanno implicato sia l’assunzione di un
ruolo centrale da parte degli organismi sovranazionali sia l’accelerazione del processo di
decentramento;
• è diventata manifesta la crisi della democrazia rappresentativa e dei canali tradizionali di
costruzione del consenso, in primis dei partiti politici tradizionali;
• le ristrutturazioni economiche hanno avuto ripercussioni particolarmente severe sul tessuto
sociale delle città e hanno acuito problemi quali la marginalità e l’insicurezza, mettendo in
luce l’inadeguatezza degli approcci tradizionali di intervento;
• le pressioni collegate alla globalizzazione hanno spinto i governi locali a sviluppare diversi
tipi di partnership con gli attori economici per rilanciare lo sviluppo locale e negoziare
strategie per la competitività;
• l’erosione dei modelli tradizionali di welfare state è andata di pari passo con l’ascesa della
prospettiva neoliberista e con la diffusione delle strategie di commercializzazione che hanno
riorganizzato l’amministrazione pubblica secondo logiche di mercato.
Realizzazione di condizioni per la creazione di consenso e la condivisione delle decisioni.
L’autorità pubblica ridimensiona il proprio ruolo tradizionale di comando e controllo per assumere
funzioni di facilitazione volte a incentivare i potenziali sociali di autorganizzazione.
La riorganizzazione territoriale è un aspetto chiave della governance, collegato alla globalizzazione
e alle nuove possibilità della geografia politica a livello sovra e subnazionale che ne derivano – due
processi collegati:
1. intensificarsi dei processi di internazionalizzazione
2. riemergere di dinamiche di differenziazione territoriale
L’Unione Europea (Governance multilivello) non determina il modo in cui le città cambiano ma
modifica il contesto istituzionale ed economico nel quale le città sono inserite, in particolare in
termini di formazione di uno spazio politico nel quale i diversi livelli di governo si incastrano più
strettamente, verticalmente e orizzontalemente. La forza con cui la governance si è installata nel discorso
pubblico è pari alla distanza che
normalmente intercorre tra le sue retoriche e le sue pratiche.
La realtà empirica della governance solleva di frequente un problema di deficit democratico.
La versione della teoria della governance prevalente nell’Europa continentale accorda maggiore
attenzione alla dimensione sociale e tende a enfatizzare le interazioni fra stato e società.
Due forme di governance:
1. quella “neoliberale” che si colloca in una prospettiva strategica promercato dominata dalla
competitività e dalla crescita economica
2. la “contestatory governance” che, anche quando concerne obiettivi economici, è orientata
innanzitutto ad ampliare la democrazia locale, l’inclusione sociale e la partecipazione.
PARTECIPAZIONE
La partecipazione sottolinea l’inclusione dei cittadini e delle comunità locali, dunque di interessi in
teoria deboli e poco concentrati, nei reticoli della governance.
Due differenti cicli di partecipazione in Europa:
1. le pratiche partecipative sono associate a mobilitazioni sociali intense e diffuse.
Caratteristiche principali: centralità di identità collettive; connotazione conflittuale; basso
grado di strutturazione; riferimento a ideologie egualitarie.
2. Contraddistinto da dinamiche top-down e dal ruolo determinante delle amministrazioni
pubbliche come soggetti promotori di opportunità partecipative. Forme di partecipazione
poco connotate ideologicamente, presentano un basso livello di conflittualità e tendono a
concentrarsi su questioni di rilevanza molto delimitata.
L’associazione tra governance e partecipazione prende forma nella seconda fase, in cui aumenta
l’offerta istituzionale di opportunità di inclusione.
Le politiche per lo sviluppo locale, anziché concentrarsi esclusivamente su obiettivi e interessi
economici, si aprono a dimensioni e finalità di natura sociale assumendo esplicitamente la necessità
di coniugare crescita e coesione sociale.
L’Unione Europea è un vettore molto efficace di corredo di stili e modelli di azione incentrato sulla
mobilitazione di cittadini e società civile.
Nel contesto italiano, più disorganico e frammentato, spiccano per i loro potenziali inclusivi i
Contratti di quartiere e i progetti realizzati nell’ambito dell’edizione italiana del programma Urban.
Il framework incentrato su governance e partecipazione e gli strumenti relativi diventano una vera
e propria convenzione nello sviluppo urbano.
I vincoli derivanti dalla globalizzazione spingono le istituzioni del governo locale a intraprendere
strategie di partnerariato con gli attori economici per accrescere la capacità attrattiva a competitiva
della città.
Nelle città si istituzionalizzano strumenti di azione e di decisione collettiva che mirano a
ricomporre interessi diversi.
Ad esempio, la pianificazione strategica ha innescato processi di apprendimento collettivo e
dinamiche di innovazione della governance urbana.
È nella scala urbana che emergono differenti opportunità di azione all’incrocio fra locale, nazionale
e globale.
La partecipazione, però, non è automaticamente una soluzione al deficit democratico di cui soffre di
frequente la governance.
Una maggiore apertura alla partecipazione degli abitanti non porta necessariamente al
protagonismo dei soggetti più svantaggiati.
Il problema di fondo è lo scenario in cui si inscrive la partecipazione.
LA RICERCA EMPIRICA: DIMENSIONI, QUESITI FATTORI
Dinamiche e conseguenze effettive della partecipazione:
1. L’inclusività: chi partecipa? La capacità di partecipare non è distribuita in modo omogeneo
e il rischio è che siano avvantaggiati i soggetti con un livello più elevato di agency e di
voice, un migliore accesso alle informazioni, maggiori conoscenze esperte. Non tutti i soggetti godono di
credibilità sufficiente perché i propri interessi siano considerati legittimi
dai policy-makers.
2. La qualità dell’interazione: come si partecipa? Notevole eterogeneità: le interazioni possono
dare spazio alla cooperazione o al conflitto; possono essere orientate ad aggregare interessi
o a trasformarli. Importanza della discussione rispetto alla trasformazione delle preferenze
e alla costruzione di interessi. Decisioni più efficaci e consensuali, processi di
apprendimento, riconoscimento reciproco, più solido spirito di comunità.
3. L’istituzionalizzazione della partecipazione: dove si partecipa? Questa dimensione riguarda
gli spazi della partecipazione e il loro grado di riconoscimento e formalizzazione ed è
associata alla stabilità delle procedure e alla possibilità che esse sedimentino in processi di
apprendimento.
4. L’incisività: a cosa o per cosa si partecipa? Mettere a fuoco quali sono le poste in gioco
nella partecipazione e qual è la loro portata.
Sette dimensioni principali:
• TEMPO: accordare attenzione al peso della storia, delle pratiche tradizionali e degli assetti
istituzionali consolidati. Le vicende storiche consentono di capire qual è il passato che le
pratiche si portano alle spalle.
• LE ARCHITETTURE POLITICO-ISTITUZIONALI: fattori quali i sistemi di governo
locale, le coalizioni politiche e i cicli del cambiamento politico. In Italia concorso di tre
processi: il decentramento; la riforma del sistema elettorale locale; le riorganizzazioni
intraprese in alcuni settori dell’intervento pubblico.
• L’ORGANIZZAZIONE SOCIALE: la partecipazione è sensibile ai potenziali di
cooperazione e ai livelli di organizzazione e di aggregazione delle società locali.
L’implementazione del bilancio ha funzionato come un’arena di apprendimento della
cooperazione. Il contesto italiano è molto interessante da questo punto di vista. Numerose
ricerche evidenziano che le opportunità offerte da politiche partecipate accrescono capitali
sociali in origine compromessi o molto ridotti. La partecipazione è solo parzialmente
collegata a una società locale mobilizzata e organizzata.
• LE REGOLE DELLA PARTECIPAZIONE: le regole che strutturano la partecipazione sono
importanti in quanto risorse come il capitale sociale o potenziali di cooperazione. Regole in
uso: la combinazione specifica di istituzioni formali e informali che influenzano la
partecipazione in una località e che plasmano il comportamento dei politici, dei manager
pubblici, dei leader delle comunità e dei cittadini.
• IL PROBLEM SETTING E I MECCANISMI DI CATEGORIZZAZIONE: l’importanza
assunta dalla partecipazione nelle agende delle politiche riflette non solo l’influenza del
livello europeo, ma anche i meccanismi attraverso i quali nei contesti nazionali e locali i
problemi sono categorizzati e abbinati a specifiche soluzioni. È molto diverso se la
partecipazione viene intesa come una strategia per conseguire determinati obiettivi oppure
come obiettivo in sé.
• LE LEADERSHIP POLITICA: molte ricerche hanno messo a fuoco l’importanza di questa
variabile soprattutto a livello locale. Ricerca del consenso attraverso canali meno
tradizionali, tra cui quello partecipativo.
• LE BASI SOCIALI DELLA PARTECIPAZIONE: perché la partecipazione si sviluppi
occorre che vengano alimentati interessi e motivi per partecipare che rafforzino a loro volta
competenze e intelligenze sociali.
CASI MANCHESTER E LONDRA
Due aspetti significativi:
1. rapporto fra le città e il livello nazionale, tendenzialmente sbilanciato a favore del secondo,
ha favorito l’ingresso degli interessi economici nella politica locale e il riavvicinamento fra
amministrazioni e attori privati.
2. Programmi nazionali per lo sviluppo urbano lanciati dal New Labour che portano a un
incremento delle disuguaglianze
Manchester: città imprenditoriale, il cui sviluppo negli ultimi trent’anni è stato scandito dalla
creazione di una schiera nutrita di partnership pubblico-private a fronte di un sistema di governo
nazionale tenacemente centralizzato.
Tentativo di realizzare una politica inclusiva organica ed estesa a tutta la città.
Nel 2000: istituito un sistema di comitati di distretto in cui gli abitanti prendono voce e formulano
proposte sulle questioni locali.
Il New Deal Communities ha dato vita a una moltitudine di gruppi di lavoro su questioni come la
criminalità, l’alloggio, l’istruzione, la formazione, la gioventù, l’ambiente, applicando metodologie
innovative quali la pianificazione di quartiere e le consultazioni porta a porta.
Londra: la partecipazione dei cittadini ha un ruolo secondario rispetto al coinvolgimento degli
interessi economici, individuali e organizzati, privilegiati sia dai politici conservatori sia dai
laburisti.
Limitata autonomia nei confronti del governo nazionale che ha spinto a cercare il sostegno di
partner privati.
La centralità di queste ultime non esclude che le organizzazioni non economiche della società siano
spesso presenti nelle strutture della governance urbana. Nei quartieri e nei distretti sono state
istituite alcune forme di partecipazione degli abitanti, per lo più a scopo consultivo.
A Londra il coinvolgimento dei cittadini ha luogo attraverso esperienze disorganiche che incidono
debolmente sui gangli del potere locale.
BARCELLONA
Il contesto di democratizzazione portfranchista ha facilitato il decentramento e la partecipazione.
La debolezza finanziaria dei governi locali è stata un fattore decisivo per aprire i processi
decisionali agli attori economici e alla cittadinanza.
Oltre al governo locale e agli attori economici, le partnership coinvolgono normalmente le
organizzazioni della società civile.
Il decentramento politico e amministrativo ha favorito decisamente lo sviluppo di pratiche
inclusive. Una complessa architettura di consigli permette ad abitanti e ad associazioni di far pesare
la loro voce sulle decisioni prese dal consiglio comunale cittadino.
La città ha accresciuto i suoi potenziali di mobilitazione e aggregazione che hanno avuto occasione
di entrare in azione contro le dinamiche di gentrificazione innescate da alcuni interventi di
riqualificazione nella città.
PARIGI
Il ruolo della partecipazione è stato riconosciuto a livello nazionale con l’approvazione nel 2002
della legge sulla democrazia di prossimità che ha incoraggiato la partecipazione dei cittadini
all’elaborazione dei progetti a elevato impatto territoriale.
121 consigli di quartiere dei quali possono far parte i politici locali, le associazioni, gli abitanti.
Dal 2004, Parigi organizza un’iniziativa che mobilita le associazioni e i cittadini in un fitto
calendario di dibattiti pubblici e laboratori progettuali.
I consigli di quartiere, tuttavia, non pesano granchè sulle decisioni cittadine, non hanno autonomia
finanziaria e decisionale.
Il rapporto tra gli amministratori municipali e i livelli sovraordinati di livello rimane decisamente
asimmetrico.
ROMA E TORINO
In Italia sia il processo di decentramento sia la riforma elettorale locale che nel 1993 ha accresciuto
i poteri dei sindaci, offrono uno spazio considerevole alla sperimentazione di procedure inclusive
da parte dei livelli subnazionali.
Nel contesto nazionale, lo sviluppo e la rigenerazione urbana sono i contesti più rilevanti da questo
punto di vista, insieme alle politiche socioassistenziali. Roma: i municipi hanno assunto la titolarità della
maggior parte dei servizi per la cittadinanza, e
hanno aperto spazi di partecipazione.
In ogni caso non c’è una politica organica ed esplicita all’inclusione.
Gli interessi economici hanno un peso decisivo sul governo della città.
Doppio binario dell’inclusione: nei municipi e negli altri ambiti di partecipazione che coinvolgono
principalmente abitanti e organizzazioni no profit, la portata delle poste in gioco è modesta; gli
attori economici sono invece prepotentemente presenti dove e quando le poste in gioco sono
rilevanti.
Torino: approccio più organico.
Il progetto “Torino internazionale” ha coinvolto i sindaci dell’area metropolitana, istituzioni
pubbliche, imprese, sindacati, associazioni, università.
Un’altra esperienza ha avuto luogo nell’ambito del recupero urbano.
Il progetto “Speciale periferie” si è concretizzato nell’istituzione nel comune di Torino di una
struttura trasversale a diversi settori, con l’obiettivo di intervenire sulle periferie della città per
promuovere lo sviluppo locale e la partecipazione degli abitanti.
Due punti centrali:
1. la governance urbana implica un governo (locale) in grado di gestire processi complessi e
tendenzialmente a bassa integrazione
2. la partecipazione non si traduce necessariamente in un maggior potere dei cittadini nel
governo dei quartieri e delle città. In molti casi equivale solo a una trasformazione del
potere, più raramente traduce un trasferimento di potere.
La partecipazione in tutte le città è riconosciuta e formalizzata in spazi specifici, grazie ad
arrangiamenti di governance che manifestano in una qualche misura un orientamento inclusivo.
Ma a Roma e a Londra la partecipazione ha un ruolo marginale nell’agenda urbana.
Una portata modesta della partecipazione è rilevabile a Parigi.
Barcellona e, in misura minore Manchester e Torino, accordano uno spazio maggiore a obiettivi di
inclusione sociale e di democrazia locale.
CAPITOLO 3: SOSTENIBILITA’ URBANA
La città si può definire come un sistema ossia un’area dotata di confini stabiliti da distinte attività
che si svolgono al suo interno.
Vi sono più confini che dipendono dal raggio di estensione di ciascuna attività.
Per confini di attività come il commercio o i servizi culturali si parla di città mondiali.
Un altro modo di definire la città consiste nel contrapporla ad altri spazi organizzati: distinzione
rispetto alla campagna e rispetto al mondo naturale.
Essa poi si distingue per essere un ambiente quasi completamente trasformato dall’uomo in modo
da alterare in via definitiva alcuni processi spontanei che avvengono in natura.
Gli ecosistemi urbani risultano: meno estesi, meno vari, più condizionati dall’azione umana.
Negli ultimi decenni: distacco con l’ambiente rurale in un’accezione decisamente negativa.
La città risulta delinearsi come un sistema che nega gli elementi base della riproduzione della
specie umana.
Rappresentazione per centri concentrici: quello più esterno l’ambiente, quello intermedio la società
e il più interno l’economia.
Questo ci porta a dire che la sostenibilità è innanzitutto quella ambientale.
Sostenibilità significa essenzialmente durata.
Durare fino a quando? Senza limiti di tempo.
In quale forma i sistemi ambientali devono stabilmente riprodursi nel tempo?
Distinzione fra una concezione forte e una debole di sostenibilità. Sostenibilità forte: prevede che l’attuale
assetto venga riprodotto tale e quale, con la stessa
identica composizione di elementi naturali e artificiali.
- Sostenibilità debole: prevede che specie e habitat naturali possano subire delle variazioni
compensate da specie/habitat manipolati dall’uomo. Possono cioè cambiare sia le specie sia la loro
composizione e interazione purchè il volume o capitale finale sia grosso modo identico.
1. praticamente tutti gli ecosistemi naturali sono stati intaccati e manipolati dall’uomo; l’assetto
attuale è il frutto di una variegata azione umana nel corso di millenni.
2. difficile dire in linea teorica se quello attuale sia il migliore degli assetti, quindi da perpetuarsi, o
il peggiore, quindi da modificare radicalmente;
3. l’assetto da perpetuare dipende in buona misura dalle valutazioni che in ogni momento storico gli
uomini fanno rispetto ai singoli beni ambientali.
Integrare criteri di valutazione tipici dell’ecologia con quelli socioculturali.
La sostenibilità, quindi, non può essere che il collage di molti criteri, frutto della composizione di
diverse esigenze, le quali avranno a loro volta differenti possibilità di essere rilevate, capite e
codificate dall’ecosociologo.
IL PROBLEMA DELLA SOSTENIBILITA’ URBANA
Le città quando raggiungono un’elevata densità di persone, animali e attività trasformative, si
trovano di fronte a una altrettanto elevata presenza di inquinanti.
Il problema non è il materiale di scarto in sé, quanto la sua concentrazione.
La città ha un bisogno di risorse ambientali molto elevato a fronte di spazi di smaltimento limitati;
la campagna può agevolmente provvedere agli approvvigionamenti di base e ha una disponibilità di
spazio che permette di diluire gli scarti.
Fenomeno nuovo: inquinamento dell’aria, tipico dell’era urbano-industriale.
Nelle città il nuovo problema si chiama polveri sottili ed è più insidioso del classico inquinamento
atmosferico perché derivante da una pluralità di fonti (riscaldamento, usura dei pneumatici, lo
stesso pulviscolo atmosferico…) da particolari condizioni ambientali (debole ventilazione, poca
pioggia) e da carenti misure di igiene pubblica (mancata pulizia delle strade).
I suoi effetti sulla salute umana non sono facili da monitorare.
Ciò vale meno per l’inquinamento dell’acqua e dei terreni perché in tali casi la localizzazione delle
fonti e dei danni è più agevole.
L’inquinamento è stato il primo modo in cui si è manifestata l’insostenibilità urbana, intesa come
rischio di malattia per i residenti e i fruitori della città a causa del deterioramento di beni essenziali
e diffusi come l’aria e l’acqua.
Problema dei rifiuti: la suburbanizzazione e il decentramento produttivo hanno allontanato dalla
città una notevole mole di rifiuti, ma non tanto da permettere una “chiusura del cerchio” in sede
locale. Così gli agglomerati urbani continuano a produrre enormi quantità di materiali di scarto che
in gran parte escono dal loro perimetro e vanno ad alimentare discariche, inceneritori e centri per il
riciclaggio, tutti impianti che trovano in genere collocazione extraurbana.
Si crea così un’ingiustizia ambientale tra territori.
Emerge a questo punto un duplice criterio di sostenibilità:
• da un lato, la capacità della città di raggiungere un certo grado di autosufficienza nel ciclo di
fruizione di alcuni beni ambientali
• dall’altro, la capacità di stabilire uno scambio equo fra consumi e scarti propri e quelli di
altre aree.
Ciò in genere avviene o per via amministrativa o per via monetaria (i due modi non sono
mutuamente esclusivi).
Gli elementi di sostenibilità entrano in tre modi nelle differenze socioeconomiche e istituzionali
della città:
1. diversa esposizione a pericoli e rischi
2. diversi livelli di consumo e quindi di scarto
3. diversa distribuzione spaziale di servizi ambientali</p></div></div><div><div><p>garbology=ispezione
sistematica dei rifiuti urbani, che fornisce preziose informazioni sulle pratiche
di consumo e smaltimento degli abitanti di diverse aree residenziali
GLI APPROCCI E LE RICERCHE
APPROCCI ECOLOGICI
Possono essere in larga misura rappresentati da quello che viene chiamato metabolismo urbano.
La città viene considerata come un supersistema che scambia materia, energia e informazioni con il
proprio ambiente.
La città viene dunque intesa come un’organizzazione sociale che con l’ambiente scambia continue
risorse.
Tre elementi analitici importanti:
1. i veri confini della città non sono tanto quelli amministrativi, quanto quelli definiti dai
bacini di approvvigionamento, trasformazione e smaltimento
2. è possibile fare un conteggio dei flussi in entrata e uscita in modo da cogliere il grado di
dipendenza o di controllo di ogni unità metabolica
3. viene messo in evidenza lo specifico modo in cui si attua la trasformazione all’interno della
città.
La successione ecologica è il cambiamento che deriva nell’occupazione del suolo da parte di specie
che per vicende varie risultano più efficienti.
Scuola Ecologica di Chicago: i quartieri delle città venivano via via occupati da quei gruppi etnico-
economici che meglio si dimostravano capaci di sfruttare la composizione di risorse del luogo.
Total Material Requirement=innovativa statistica che permette di valutare il peso ecologico
complessivo di una comunità residenziale e, quindi, la sua responsabilità verso l’ambiente e altre
comunità.
REGIMI URBANI E SOSTENIBILITA’
I regimi sono accordi formali e informali fra attori pubblici e privati che possiamo immaginare
influenzino le scelte in tema di sostenibilità.
Vi sono vari tipi di regime urbano e sono distinguibili a seconda dei rapporti di forza fra attori
politici e attori economici.
La domanda di fondo resta chiara: vi sono coalizioni di potere cittadino che favoriscono o meno
percorsi di sostenibilità urbana?
La ricerca della sostenibilità urbana appare come il frutto di intrecci fra convenienze elettorali,
incentivi pubblici, questioni sociali, che si protraggono nel tempo e su diversi livelli di governo.
La sostenibilità ambientale diventa una sorta di principio guida di politiche urbane che sono in
stallo per mancanza di finanziamenti, confusione sulle mete finali, complessità delle procedure.
Tre aspetti analitici sul nesso tra coalizione di potere e sostenibilità:
1. la natura delle coalizioni di potere che si formano a livello cittadino
2. la varietà dei provvedimenti che ricadono sotto l’etichetta di misure di sostenibilità
3. la valutazione delle criticità ambientali, delle scelte di quali aspetti privilegiare e
dell’efficacia delle misure adottate.
Le tre misurazioni delle criticità potrebbero essere ricondotte a un ordine temporale,
rispettivamente, valutazione ex ante, in itinere, ex post.
A causa della natura multidimensionale della sostenibilità i prodotti delle ricerche sono classifiche
di città in base a indici composti o studi di caso su singole politiche o interventi.
Le città medio-piccole in genere hanno migliori performance ambientali e le situazioni peggiori
sono di solito al sud.
CORNICI CONCETTUALI DELLA SOSTENIBILITA’ URBANA
Difficoltà a reperire una definizione ampia e condivisa di “sostenibilità”.
Approccio basato sui frame può aiutare.
1. Un primo apporto riguarda la speculazione filosofica: se la città è vista come un nucleo fondante
della convivenza umana, evidentemente saranno tollerate alcune sue insostenibilità. In caso
contrario l’insostenibilità urbana si impone come richiesta di autosufficienza.
2. Altre volte “sostenibilità urbana” diventa l’occasione per un rimescolamento delle gerarchie fra
discipline che si occupano di pianificazione urbana. La sua forte componente fisico-ambientale può
far prevalere saperi di tipo ingegneristico; l’enfasi sul fabbisogno finanziario degli interventi
accentua il ruolo dell’expertise economica; su tutte le discipline dovrebbe prevalere una sorta di
meta-sapere ecologico.
3. confronto fra saperi esperti e saperi profani: alone di indeterminatezza che circonda il termine
“sostenibilità urbana”.
Polemica contro lo sprawl urbano: la dispersione di abitazioni e unità di servizio che produce
consumo di prezioso suolo verde e induce alti costi di gestione ai servizi materiali come trasporti,
erogazione del gas e dell’acqua, raccolta dei rifiuti.
La densificazione urbana è diventata così una sorta di mito.
Tre casi che esemplificano l’utilità di un approccio critico a quegli ideali della pianificazione
urbana che vengono dati per scontati:
1. bisogna precisare il quadro entro il quale si inserisce l’auspicata densificazione: più la città
è dispersa, maggiore è il consumo di carburante.
2. Vantaggi della rarefazione degli edifici: insediamenti a casa sparsa o con villette unifamiliari
diventano convenienti in presenza di alcune tecnologie di risparmio energetico e materiale.
Maggiore superficie per installare pannelli solari e fotovoltaici, i può raccogliere più acqua
piovana e fare fitodepurazione, è possibile coltivare per l’autoconsumo e più facile riciclare
i rifiuti organici.
3. Progetto di rigenerazione urbana a Reggio Emilia tramite una rarefazione degli edifici di
edilizia pubblica: con meno edifici si hanno una migliore insolazione e ventilazione.
4. Più cornici si intersecano giungendo raramente a una visione comune.
RELAZIONI E PRATICHE DI SOSTENIBILITA’ URBANA
L’approccio basato sui frame rischia di trascurare i comportamenti effettivi delle persone.
Gli approcci relazionali cercano di sopperire a questo limite introducendo una doppia contingenza:
quella derivante dalla relazione stessa e quella derivante dal contesto specifico dell’azione.
L’approccio relazionale o pratico recupera ampiamente gli elementi derivanti dai frame cognitivi
dei soggetti, integrandoli con la percezione ambientale.
Analisi di due importanti fenomeni urbani: i conflitti e la rigenerazione.
La città manifesta così tutta la sua forza politica decentrando gli oggetti di conflitto, ma creando le
condizioni per ingiustizie ambientali più o meno grandi.
L’approccio relazionale aiuta a sviscerare il conflitto ambientale su almeno due aspetti:
Mette in luce come sia i criteri per valutare la salubrità di un impianto industriale sia l’emergere
della questione del dibattito politico dipendano da una dialettica fra parti più o meno organizzate.
Il conflitto presuppone almeno due soggetti, ciascuno dei quali ricorre a risorse e pratiche
specifiche.
La sostenibilità urbana diventa un “teatro di guerra”, un fattore su cui si giocano interessi
economici, definizioni della questione ambientale, prassi ereditate da movimenti precedenti, ricorsi
e controricorsi alla magistratura.
Il tema della mobilità sostenibile si presenta come il più classico dei conflitti urbani.
Altro fenomeno di sostenibilità urbana: la rigenerazione.
La città si legittima se e solo se coniuga gli interventi per la sostenibilità ambientale con azioni di
tipo sociale in tre ambiti: la lotta alla povertà, la creazione di posti di lavoro, il potenziamento della
socialità.
Nella rigenerazione sostenibile troviamo tre tipici ambiti relazionali: le strutture implementative, i
gruppi di vicinato, la famiglia.
Il contributo dei networks si evidenzia nell’housing sociale, laddove amministrazioni locali, società
finanziarie pubbliche e private, organizzazioni non profit e imprese costruttrici si mettono insieme per fornire
abitazioni a prezzi leggermente più bassi di quelli di mercato (sempre inclusa la
sostenibilità ambientale degli edifici).
Una questione molto citata riguarda l’energia, ovvero se si debba privilegiare il funzionamento con
fonti rinnovabili o se si debba puntare maggiormente sul risparmio energetico e dei materiali.
Il vicinato e il quartiere sono altre unità d’azione di progetti di riqualificazione sostenibile.
Tutta la filosofia del vicinato elettivo, detto anche co-housing, è improntata al duplice fine della
sostenibilità ambientale e sociale.
Ciclo familiare e dialettica fra i membri della famiglia come fattori fondamentali per capire la
sostenibilità sul lungo periodo degli edifici a uso residenziale.
La tendenza al coinvolgimento delle unità domestiche è tanto più palese se si pensa che ormai
anche gli specialisti di bioedilizia considerano l’educazione, i costumi, i rapporti intergenerazionali
come fattori cruciali dell’abitare sostenibile.
Gli elementi sociotecnici sono considerati di crescente importanza.
L’approccio relazionale dà dinamicità agli altri approcci, mostrando come i vincoli ecologici, gli
interessi materiali e i vari livelli di conoscenza entrano in rapporti di forza fra una pluralità di
soggetti, producendo non solo conflitti, ma anche nuove aggregazioni sociali e repertori di azione.
CAPITOLO 4: CASA E DISUGUAGLIANZE
L’interesse sociologico per la casa ha una lunga tradizione, che è strettamente legata alla nascita e
allo sviluppo degli studi sulla città.
La questione abitativa è infatti una questione essenzialmente urbana.
Il processo di industrializzazione e la conseguente concentrazione di attività produttive nelle città
portano a un imponente sviluppo urbano: presenza di un’enorme domanda abitativa.
Nascita degli insediamenti urbani, slums, localizzati prevalentemente nelle vicinanze degli
stabilimenti produttivi e caratterizzati da una qualità abitativa al di sotto di qualunque standard oggi
immaginabile.
LO SVILUPPO DEGLI “HOUSING STUDIES”
Campo di studi estremamente eterogeneo.
Si possono scorgere due elementi comuni alla maggior parte degli approcci agli studi abitativi:
1. negli housing studies la casa è tematizzata essenzialmente come un problema per le fasce
più povere della popolazione. Problema quantitativo, ma anche qualitativo. È anche un
problema economico quando vengono studiate le dinamiche dei valori immobiliari (casa
come bene eccessivamente costoso per molte famiglie).
2. L’interesse primario viene di solito posto sulla dimensione materiale della casa. Di tale
oggetto sono osservati gli aspetti immediatamente misurabili: la grandezza, la collocazione,
le caratteristiche tecniche, il costo, il titolo di godimento. Molto meno studiata è invece la
dimensione immateriale: l’insieme di quelle caratteristiche culturali, simboliche, identitarie,
relazionali ed emotiva che la casa incorpora.
Gli housing studies si occupano della casa soprattutto dal punto di vista materiale attraverso tre
approcci:
1. con più larga tradizione. Assumono un interesse primario le caratteristiche architettoniche,
strutturali e tecniche che determinano il livello qualitativo di una casa e la sua adeguatezza
rispetto ai bisogni dei suoi abitanti. La qualità abitativa viene affrontata attraverso la
presenza o assenza di determinati servizi o di particolari problemi nell’alloggio, la
superficie disponibile e i relativi indici di affollamento. Tali indicatori vengono poi
confrontati con standard abitativi convenzionali.
2. Analisi della casa dal punto di vista economico, indagando i consumi abitativi delle
famiglie, la sua incidenza sui bilanci familiari e più in generale il suo impatto sul sistema
della disuguaglianze sociali. La casa è un bene reperibile attraverso lo scambio di mercato;
è una forma di investimento del capitale; rappresenta un settore economico di primaria
importanza.
3. Analisi delle politiche abitative e dei loro effetti sulla struttura sociale e sulla morfologia
urbana. L’attore pubblico spesso utilizza il settore edilizio incentivando nuove costruzioni
per sostenere l’economia nel suo complesso. Le politiche abitative possono essere utilizzate
per finalità legate alla redistribuzione della popolazione dul territorio. La casa nei moderni
stati sociali è considerata come una fondamentale area di welfare, ovvero uno dei settori nei
quali lo stato si fa carico di intervenire per garantire un livello minimo di benessere a tutti i
cittadini.
Sono tre i filoni di intervento pubblico nel campo abitativo:
il più tradizionale è quello dell’edilizia residenziale pubblica, il secondo è la regolazione del
mercato immobiliare privato attraverso norme finalizzate a calmierare i pressi, il terzo è la
concessione di benefici economici sotto forma di incentivi fiscali o di sussidi in denaro, che
possono finanziare sia il lato della domanda che quello dell’offerta.
L’Italia è uno dei paesi con il più alto tasso di proprietà abitativa.
VECCHIE E NUOVE DISUGUAGLIANZE ABITATIVE
Oggi i problemi di disagio abitativo di tipo fisico e strutturale tendono ad essere concentrati
soprattutto tra i gruppi più svantaggiati, mentre per la maggior parte della popolazione le difficoltà
abitative sono oggi di tipo differente.
LA QUALITA’ FISICA DEGLI ALLOGGI
La deprivazione abitativa è riconducibile essenzialmente a due tipi di fenomeni: l’idoneità e il
sovraffollamento.
Idoneità=presenza all’interno dell’abitazione di determinati problemi fisici o alla carenza nella
stessa di alcuni servizi, in misura tale da rendere l’ambiente non adatto all’abitare. Il giudizio
sull’idoneità non è assoluto, ma dipende dal contesto di riferimento.
Sovraffollamento=condizione abitativa nella quale lo spazio a disposizione di ciascun membro della
famiglia è inferiore a uno standard considerato accetabile. Eccessiva densità abitativa, mancanza di
privacy, interazioni non volute, sofferenza psicologica. Concetto relativo: il grado di densità
abitativa ritenuto accettabile varia nel tempo e nello spazio e tra differenti gruppi della stessa
società. Standard più diffuso: sovraffollamento quando c’è più di un abitante per stanza.
Dallo fine della seconda guerra mondiale in poi le condizioni abitative sono mediamente migliorate,
sia per l’incremento generale del benessere economico, sia grazie all’azione di politiche abitative di
tipo espansivo.
Italia: costante miglioramento degli standard abitativi dal dopoguerra in poi.
Le persone a rischio povertà risultano le più svantaggiate.
Disuguaglianze particolarmente critiche nei contesti ricchi.
Nelle zone a elevata urbanizzazione lo spazio disponibile per ogni famiglia è mediamente inferiore
e sono maggiori i problemi di sovraffollamento.
L’ONEROSITA’ DELLE SPESE PER L’ABITAZIONE
Questo fenomeno si sta diffondendo su amplissima scala.
Le spese per l’abitare rappresentano un peso eccessivo per quote crescenti della popolazione, non
solo per le fasce sociali più marginali.
Affordability=possibilità di ottenere un certo standard abitativo a prezzo o a un canone che non
costituisce, a giudizio di terzi, un peso irragionevole rispetto al reddito familiare.
Due problemi da affrontare: come quantificare il peso dei costi abitativi e quale soglia definire
come irragionevole per le famiglie.
Il fenomeno è più comune tra le famiglie che risiedono in aree a elevata urbanizzazione.
Un’altra importante componente delle disuguaglianze abitative è il titolo di godimento
dell’alloggio, che penalizza in particolar modo coloro che abitano in affitto, soprattutto se pagano
un canone di mercato.
Residual Income Approach=non si basa sul rapporto tra le spese per la casa e il reddito, ma sulla
loro differenza, cioè sul reddito residuo familiare dopo i costi abitativi. Povertà – due componenti: povertà
indipendente dalla casa e quella dipendente dalla casa.
Quella dipendente dalla casa è una forma di povertà pericolosa perché tende a rimanere nascosta e
difficilmente può essere contrastata con politiche mirate.
IL CONTESTO DI QUARTIERE
L’abitare implica una relazione tra gli abitanti e i luoghi in cui essi vivono e non si esaurisce
all’interno delle mura domestiche.
Una delle questioni che hanno assunto una crescente importanza all’interno degli housing studies è
quella che mette al centro dell’attenzione non la casa in sé, quanto il quartiere nel quale è inserita.
Un buon quartiere non è soltanto un luogo dove è piacevole vivere, ma anche un luogo che proietta
verso l’esterno un’immagine positiva dei suoi abitanti.
L’immagine di un quartiere non agisce soltanto verso l’esterno, ma può essere interiorizzata dai
suoi stessi residenti.
La collocazione geografica della casa può facilitare o ostacolare l’accesso a determinate opportunità
economiche, relazionali e culturali, le quali sono distribuite in modo disuguale sul territorio urbano
(neighbourhood effects).
Tra i networks sociali e le opportunità economiche esiste un rapporto biunivoco: la posizione
occupazionale e il luogo di lavoro incidono sulla varietà e sull’intensità dei legami sociali di un
individuo, e viceversa a una maggiore ricchezza e apertura dei network sociali corrisponde un
migliore accesso a differenti opportunità economiche.
L’interazione sociale su base locale e la presenza di punti di riferimento all’interno del quartiere di
residenza possono rappresentare significative fonti di sicurezza individuale.
Ruolo del quartiere di residenza nella formazione di capitale sociale individuale.
Due diverse forme di capitale sociale:
1. Social leverage: aiuta a migliorare le proprie condizioni sociali o ad ampliare la gamma
delle proprie opportunità.
2. Social support: fornisce risorse relazionali che gli attori utilizzano per far fronte ai propri
bisogni quotidiani.
Importanza della prossimità con i propri parenti nel contesto italiano.
I legami che forniscono una maggiore possibilità di miglioramento delle condizioni di vita e della
mobilità sociale sono i cosiddetti legami deboli, basati su una conoscenza superficiale e una
frequentazione sporadica.
In quartieri socialmente omogenei è piuttosto difficile creare questo tipo di legami, che invece sono
più frequenti nei quartieri più eterogenei.
Nelle aree più densamente popolate la qualità del quartiere tende ad essere più bassa e la
popolazione riporta con maggiore frequenza diverse problematiche ambientali.
È indubbio che i quartieri con un’elevata concentrazione di edilizia sociale presentino una serie di
criticità specifiche: collocazione fisica spesso marginale e scarsamento integrata nel tessuto urbano;
tendenza alla desertificazione dei servizi di prossimità; processi di stigmatizzazione sociale che in
molti casi vanno al di là delle reali condizioni di disagio; lunghe stagioni di disinteresse da parte
delle politiche.
L’ACCESSO ALLA CASA PER GIOVANI E MIGRANTI
Difficoltà di accesso al mercato abitativo per giovani e migranti: newcomers
I giovani: si affacciano per la prima volta sul mercato abitativo con insufficiente disponibilità di
risorse economiche per poter accedere ad un alloggio in mercati immobiliari caratterizzati da prezzi
elevati. Ritardano questo passaggio nell’attesa del raggiungimento di una maggiore stabilità
economica. Problema aggravato dalla situazione del mercato del lavoro (crescente instabilità e
disoccupazione giovanile).
I paesi, come l’Italia, nei quali è più diffusa la proprietà dell’alloggio sono quelli nei quali i giovani
escono più tardi di casa; la tendenza è inversa nei paesi in cui è maggiore l’offerta di case in affitto.
I migranti: la casa rappresenta probabilmente la più importante condizione di inserimento degli
immigrati nella società di accoglienza, ma allo stesso tempo, anche la più critica.
Le risorse che gli immigrati possono reperire all’interno delle proprie reti parentali sono inferiori a
quelle degli autoctoni.
Presenza di fenomeni di discriminazione: steering=indirizzamento; pratica attuata dagli agenti
immobiliari che consiste nel deviare verso determinati quartieri i propri potenziali clienti in base
alla loro origine etnica.
Questo fenomeno tende a riprodurre e rafforzare la segregazione delle minoranze etniche nelle città.
Maggiore difficoltà per gli stranieri di accedere al mercato del credito.
Redlining=istituzioni finanziarie quali banche e assicurazioni negano l’accesso o applicano un
sovrapprezzo ai propri servizi sulla base della localizzazione residenziale del cliente o delle sue
origini etniche.
Il bene casa tende a distribuirsi in modo disuguale tra i cittadini, creando una situazione di
vantaggio per chi dispone di buone risorse patrimoniali e familiari, a sfavore degli altri.
L’ESCLUSIONE ABITATIVA
Esistono casi più gravi di deprivazione che danno luogo a vere e proprie forme di esclusione
abitativa, il cui problema è l’assenza stessa di una casa.
Homelessness=fenomeno complesso e sfaccettato
Homeless: quattro diverse categorie:
1. le persone roofless (senza tetto): coloro che dormono per strada o in una sistemazioni di
fortuna.
2. Houseless (senza casa): trovano alloggio in dormitori o in altre soluzioni di accoglienza
temporanea.
3. Persone che vivono in strutture che non sono destinate all’abitazione (roulotte, camper,
container, baracche, capanne, grotte, cantine…)
4. Homeless: abitano in una casa ma non hanno la sicurezza di potervi rimanere in futuro
Homelessness: fenomeno per sua natura difficile da quantificare.
Alcune delle circostanze più comuni in seguito alle quali, nei paesi ad economia avanzata, le
persone possono incorrere in episodi di homelessness sono:
1. esecuzione di uno sfratto o aver perso la casa in seguito a un pignoramento.
2. Condizione di disoccupazione di lungo periodo
3. Rottura di una relazione familiare che porta alla perdita dell’abitazione
In acuni paesi, tra cui l’Italia, questo fenomeno è ricondotto a fattori di debolezza individuali, quali
tossicodipendenza, problemi di salute mentale, rottura delle reti sociali, povertà estrema.
CAPITOLO 5: SEGREGAZIONE RESIDENZIALE
CHE COS’E’ LA SEGREGAZIONE RESIDENZIALE?
Divisione dei gruppi sociali nello spazio urbano.
Ogni città comprende non una, ma molte città, se ne individuano almeno due: quella dei ricchi e
quella dei poveri.
I primi studiosi ad analizzare questo fenomeno sono stati, negli anni Venti del Novecento, quelli
della scuola di Chicago. Essi erano convinti che le concentrazioni residenziali dei gruppi sociali in
una data città fossero un’importante spia delle relazioni esistenti fra coloro che vi abitavano, o che
le distanze fisiche fossero un eloquente indicatore delle distanze sociali.
Chicago poteva essere divisa in 5 zone concentriche: zona più interna attività commerciali e
industriali; zona di transito dove vivevano gli immigrati; terza zona, residenza di operai
specializzati; quarta zona, famiglie della classe media; quinta zona i pendolari.
</p><p>IL CONCETTO DI SEGREGAZIONE RESIDENZIALE
Segregare significa trasferire uno o più individui in un luogo isolato, al fine di escluderli dai
rapporti con la comunità di cui fanno parte, per lo più come misura preventiva o punitiva.
La segregazione nasce da un atto volontario. Per gli studiosi di scienze sociali: segregazione residenziale come
separazione fisica, spaziale, fra
gruppi nei quali si articola una data popolazione.
La segregazione residenziale può nascere non solo da atti di discriminazione verso qualcuno, ma
anche quando i membri di un gruppo decidono di abitare vicini fra loro perché condividono
interessi, valori o uno stile di vita.
Due diverse dimensioni di segregazione:
1. bisogna sapere se la concentrazione di un gruppo sociale nello spazio è volontaria o
involontaria, scelta o subita.
2. È necessario conosce se e in quale misura le relazioni esistenti fra questo gruppo e gli altri
gruppi sono gerarchiche e asimmetriche.
3 diversi tipi di concentrazione residenziale:
1. per ghetto si intende la concentrazioni involontaria, non scelta ma subita, di un gruppo
sociale definito in base alla religione o all’etnia.
2. L’enclave è la concentrazione volontaria nello spazio urbano di un gruppo sociale costituito
da persone che desiderano vivere vicine le une alle altre perché hanno dei legami
significativi tra loro e perché desiderano conservare alcuni tratti culturali, rafforzare la
posizione politica, sociale o economica del proprio gruppo o distinguersi dagli altri.
3. A cittadella indica la concentrazione volontaria nello spazio urbano dei membri di un
gruppo sociale privilegiato che vivono separati per distinguersi o preoteggersi. Un esempio
attuale di cittadella è costituito dalle gated communities, dove famiglie di persone molto
agiate risiedono protette da mura, reti, cancelli e guardie armate che controllano le entrate.
Gli studiosi della Scuola di Chicago erano convinti sostenitori della teoria dell’assimilazione,
secondo la quale gli immigrati si integrano lentamente nel paese di arrivo imparando il linguaggio
e la cultura degli autoctoni, disperdendosi poi nello spazio urbano una volta raggiunto un livello
sufficiente di assorbimento nella società ospite.
Il grado di segregazione degli immigrati europei è diminuito nel corso del tempo, a mano a mano
che essi si integravano nella società.
Oggi le concentrazioni residenziali come quella afroamericana di Chicago vengono detti ghetti,
mentre quelle osservate per gli immigrati europei sono chiamate enclaves.
COME SI MISURA LA SEGREGAZIONE RESIDENZIALE
L’indice quantitativo di segregazione residenziale più diffuso è noto come indice di dissimilarità ed
esprime la misura in cui la distribuzione dei diversi gruppi sociali all’interno di una data città si
discosta dalla condizione ideale di equa distribuzione delle opportunità residenziali fra i gruppi.
LA SEGREGAZIONE RESIDENZIALE NEL MONDO
Forme assai diverse di segregazione residenziale per il tratto rilevante in base al quale vengono
definiti i gruppi sociali che si trovano nello spazio urbano, per le dimensioni di questi gruppi, per i
rapporti di potere che vi sono tra di loro, per il tipo e il livello di separazione esistente, per le cause
che li hanno prodotti.
LA GHETTIZZAZIONE DEGLI EBREI IN EUROPA
Sia in Europa, che nei paesi islamici gli Ebrei sono vissuti a lungo in enclaves.
Essi stavano vicini per i più diversi motivi: per legame di solidarietà, per ragioni economiche o
religiose.
In Europa le aree in cui risiedevano venivano chiamate “giudecca”, “giudaica” o “contrada degli
ebrei”.
A poco a poco queste forme di insediamento sono cambiate e da enclaves sono state trasformate in
ghetti.
I governi delle città europee li hanno costretti, con decreti ed editti, a vivere in concentrazioni
permanenti, isolate con mura e cancelli, impedendone l’uscita durante la notte.
Il numero di persone rinchiuse in questi ghetti è stato diverso a seconda della città ed è variato nel
corso del tempo, ma esse sono vissute sempre in condizioni di sovraffollamento. I ghetti per gli ebrei sono
state concentrazioni non solo coatte, ma permanenti; nelle città italiane
essi sono rimasti in vita per secoli.
I GHETTI AFROAMERICANI
Ghetti diversi, privi cioè di mura, sono stati creati negli Stati Uniti, un paese che ha conosciuto
varie forme di segregazione residenziale.
In quasi tutte le grandi città vi sono stati ghetti di afroamericani.
Con il termine ghetti si intendono il confinamento di individui in zone particolari e la limitazione
della loro libertà di scelta, motivati unicamente dal colore della pelle.
La popolazione nera americana, però, non è sempre vissuta separata dai bianchi.
</p><p>In alcune città meridionali degli Stati Uniti i braccianti e i servitori afroamericani abitavano nei
vicoli vicini alle case padronali. Nel nord, dove più tardi sarebbero nati i grandi ghetti, i neri hanno
risieduto a lungo, durante l’Ottocento, in piccolo enclaves o distribuiti nello spazio urbano.
La situazione cambiò dopo il 1900 quando iniziò il processo di industrializzazione.
Iniziò allora una crescita del livello di segregazione residenziale fra bianchi e neri che è durata ben
60 anni.
Il crescente isolamento residenziale degli afroamericani fu certamente causato dalle reazioni dei
bianchi al loro arrivo.
A poco a poco i genitori bianchi smisero di mandare i loro figli nelle scuole frequentate da neri, i
proprietari di casa cessarono di affittare loro un appartamento, le associazioni divennero sempre più
selettive e chiuse.
Toccato il picco nel 1970, il livello di segregazione fra bianchi e neri è continuamente diminuito e
oggi è molto simile a quello osservato nei primi decenni del Novecento.
Questa inversione di tendenza è riconducibile agli sforzi fatti da più parti per ridurre le
discriminazioni contro gli afroamericani nel mercato del lavoro e in quello delle abitazioni, nonché
nell’accesso alle scuole di ogni origine e grado.
LA SEGREGAZIONE RESIDENZIALE IN UNA CITTA’ COLONIALE: MADRAS
In altri paesi e in altri periodi storici, nei ghetti ha vissuto non un’esigua minoranza, ma la grande
maggioranza della popolazione.
È accaduto nel 700 e nell’800 nelle città dei paesi coloniali: la distribuzione dello spazio urbano dei
gruppi sociali è stata determinata dai rapporti fra dominanti e dominati.
Un caso interessante è rappresentato dalla città indiana di Madras, contesa e dominata da
portoghesi, inglesi e francesi.
In quello orientale, chiamata “città nera”, di gran lunga la più estesa, viveva la popolazione
autoctona; in quella occidentale, “città bianca”, decisamente più piccola, risiedevano invece gli
europei, i dominatori.
La città nera era un ghetto, la città bianca una cittadella.
LA SEGREGAZIONE RESIDENZIALE SU BASI POLITICO-RELIGIOSE: BELFAST
Da molti anni in questa città vi è una forte segregazione residenziale, ma non vi sono ghetti.
La separazione è fra due grandi enclaves: nell’area di nordest vivono i protestanti, in quella di
sudovest invece i cattolici.
All’inizio dell’800 Belfast era abitata quasi solamente da protestanti, mentre i cattolici vivevano
nelle campagne. Il processo di industrializzazione che ebbe luogo nei decenni seguenti fu
accompagnato dall’emigrazione verso le città della popolazione rurale e in gran parte cattolica.
I nuovi arrivati crearono delle enclaves e il livello di segregazione iniziò a crescere.
Con il passare del tempo questo livello aumentò ancora.
Questa crescita non è stata provocata dalla confessione religiosa né dall’immigrazione, ma da un
terzo fattore di divisione. Nella seconda metà dell’800 nell’isola irlandese, che faceva allora parte del Regno
Unito di Gran
Bretagna e Irlanda, fra i cattolici si sviluppò un movimento nazionalista e indipendentista che si
batteva per la separazione dal resto del Regno.
I conflitti fra queste due fazioni divennero sempre più aspri, provocando una crescita della
segregazione residenziale a Belfast.
Nel 1921 l’Irlanda fu divisa in due: quella del sud divenne uno stato autonomo, mentre quella del
nord continuò a far parte del Regno Unito.
A Belfast gli scontri fra cattolici e protestanti continuarono e la separazione residenziale si
accentuò.
È diminuita dopo il 1940 e nuovamente aumentata dopo il 1969.
LA SEGREGAZIONE RESIDENZIALE IN ITALIA
Anche in Italia la segregazione residenziale è cambiata più volte nel corso del tempo.
Si prendono in considerazione le 11 principali città del nostro paese: Milano, Torino, Genova,
Venezia, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Bari, Palermo e Catania.
LA SEGREGAZIONE RESIDENZIALE SECONDO LA CLASSE SOCIALE
Anche nel Medioevo vi erano delle forme di segregazione residenziale basate sull’appartenenza di
ceto e di classe sociale.
In tutte le città gli artigiani di alcuni mestieri vivevano spesso in enclave, vicini il più possibile alle
risorse produttive delle quali avevano bisogno.
Nel corso del 400 iniziò un periodo di crescita della segregazione residenziale per ceto e classe
sociale per avvicinare il luogo della residenza a quello del lavoro.
In parte la segregazione crebbe per il desiderio delle famiglie aristocratiche di prendere le distanze
da quelle degli altri ceti: nacquero così le vie dei palazzi.
Per molto tempo la borghesia cercò di abitare il più vicino possibile all’aristocrazia, ma nel corso
dell’800 se ne allontanò, per andare a vivere in nuovi quartieri, in palazzi lussuosi, ma
architettonicamente diversi da quelli dell’aristocrazia.
Il processo di industrializzazione provocò rilevanti trasformazioni nelle grandi città, soprattutto in
quelle dell’Italia centrosettentrionale.
La flessione della piccola borghesia e la crescita degli operai di fabbrica cambiò la distribuzione
delle classi sociali nello spazio: concentrazione del proletariato industriale in alcune aree esterne al
nucleo storico.
È in questi spazi che si formarono grandi concentrazioni di famiglie di classe operaia, separate in
vari modi dal resto della popolazione urbana.
Il processo di industrializzazione fece crescere la segregazione.
Ma esso non è stato l’unico, né il più importante fattore di separazione spaziale fra le varie classi.
La città con il livello più basso di segregazione era Firenze, seguita immediatamente da Bologna.
Per quanto diverse per livello di segregazione, le 11 città italiane avevano nel 1971, e hanno
conservato fino a oggi, un tratto in comune: una stretta relazione fra la distanza sociale e quella
spaziale degli appartenenti alle varie classi.
Quanto maggiori sono le differenze tra due classi sociali, tanto più coloro che ne fanno parte si
trovano separati nello spazio urbano.
Il processo di deindustrializzazione e di terziarizzazione che ha investito l’Italia nell’ultimo
trentennio del 900 non ha provocato un ulteriore aumento del grado di separazione residenziale fra
le classi sociali.
Verso il 1970 è iniziata un’inversione di tendenza e il livello di segregazione residenziale ha
cominciato a diminuire.
Questa flessione è avvenuta il tutte e 11 le grandi città ed è stata costante nel tempo.
LA SEGREGAZIONE RESIDENZIALE DEGLI IMMIGRATI
A partire dagli anni 90 del secolo scorso, l’Italia ha assistito a una rapida crescita dei cittadini
stranieri nel proprio territorio. L’immigrazione straniera si è riversata in misura più che proporzionale nelle
grandi città e ha
seguito modelli di insediamento urbano che hanno generato forme di segregazione residenziale
basate sulla nazionalità di appartenenza.
Fino a oggi questa segregazione non ha mai raggiunto livelli molto alti, né ha dato luogo alla
formazione di veri e propri ghetti di immigrati.
Analisi delle popolazioni immigrate che rappresentano almeno l’uno per mille della popolazione
delle città di Torino, Milano, Bologna e Roma.
Le nazionalità in questione sono 9: Albania, Romania, Moldavia, Bangladesh, Cina, Filippine,
Egitto, Marocco e Perù.
La nazionalità mediamente più segregata è quella bangladese che conferma così la sua spiccata
propensione a formare enclave residenziali già osservata in altri paesi.
Subito dopo troviamo i cinesi, le due nazionalità nordafricane (egiziani e marocchini) e l’altra
nazionalità asiatica: i filippini.
Nelle posizioni di coda si collocano i tre gruppi europei: albanesi, moldavi e rumeni e i peruviani.
Tra le 4 città quella in cui i nove gruppi sono mediamente più segregati è Roma; quella che presenta
il livello medio di segregazione più basso è Milano.
I membri di ciascun gruppo nazionale tendono ad essere meno segregati nelle città in cui sono
relativamente più numerosi.
Potremmo ipotizzare che la crescita del peso demografico degli immigrati si accompagni a una
diminuzione dei loro livelli di segregazione residenziale.
Ci sono buone ragioni per ritenere che in Italia la massiccia immigrazione dall’estero non abbia
prodotto fenomeni preoccupanti di segregazione e isolamento residenziale dei cittadini stranieri.
In tutte e 4 le città considerate, meno di un immigrato su due vive in aree in cui i propri
connazionali sono relativamente concentrati.
Anche in questo caso i gruppi più addensati risultano quelli asiatici, mentre quelli più dispersi sono
i moldavi, gli albanesi e i peruviani.
In tutte le città considerate anche gli immigrati che vivono nelle proprie aree di concentrazione
residenziale hanno come vicini di casa soprattutto cittadini italiani.
Attualmente nelle grandi città italiane il grado effettivo di separazione residenziale fra cittadini
italiani e stranieri è mediamente contenuto e, nel complesso, testimonia l’esistenza di un buon
livello di integrazione degli immigrati nel tessuto urbano delle nostre metropoli.
CAPITOLO 6: WELFARE LOCALE
IL CARATTERE CENTRALIZZATO DEL WELFARE NAZIONALE
Lo sviluppo del welfare e della protezione sociale nei paesi industrializzati è stato un processo
storico caratterizzato da una forte centralizzazione nazionale almeno fino alle crisi degli anni 70.
Il processo di centralizzazione nazionale inizia già nel XIX secolo, per intensificarsi nei trent’anni
gloriosi successivi alla seconda guerra mondiale con il consolidamento dei mondi di “welfare
capitalism”.
Nel progetto do Beveridge si prefigura una protezione capillare, distribuita in modalità universale a
tutti i soggetti in diverse condizioni di rischio, secondo l’entità del bisogno.
La protezione è finanziata da prelievi equi operati centralmente dal governo nazionale nei confronti
di tutti i cittadini a partire da un reddito sufficiente.
Tre programmi principali che riguardano l’educazione, la sanità e le pensioni e una varietà di altri
interventi di minor peso.
In questo periodo i sistemi locali di welfare hanno svolto un ruolo importante di implementazione
delle politiche pubbliche e soprattutto di organizzazione dei servizi sociali e assistenziali ma sempre
con un’autonomia finanziaria e regolativa relativamente ridotta.
La costruzione del welfare nazionale è stata anche un processo di forte professionalizzazione dei
servizi e della protezione sociale che ha accompagnato la riduzione delle forme della protezione
familiare e particolaristica attivata dalle comunità locali e da gruppi sociali specifici. Il processo di
professionalizzazione del welfare continua nel tempo e si è oggi arricchito di nuove
articolazioni e figure professionali.
A partire dalle crisi petrolifere degli anni 70 i tre pilastri del welfare capitalism cominciano a
indebolirsi.
L’espansione e la centralizzazione nazionale dei programmi di welfare non si arrestano, ma si
registrano nuove tendenze che evidenziano la crescente importanza del welfare locale.
L’importanza che assume il welfare locale è parte di una trasformazione complessa e controversa
che è in corso nei paesi industriali avanzati con alterne vicende da almeno 40 anni.
LA TRANSIZIONE VERSO IL WELFARE LOCALE
Il processo di cambiamento delle società industriali a partire dagli anni 70 ha trasformato dovunque
in profondità le esigenze di protezione e la struttura dei rischi a cui facevano fronte i programmi di
welfare nazionali.
Sul fronte dell’occupazione la ristrutturazione industriale e la terziarizzazione rendono le carriere
lavorative più eterogenee e instabili di quanto non fossero durante la fase dell’espansione
manifatturiera.
I lavoratori sono sempre meno rappresentati da sindacati e associazioni professionali.
Nelle famiglie – eterogeneità e instabilità delle convivenze.
Diminuzione dei matrimoni e delle nascite, diffusione dei divorzi.
La massiccia entrata delle donne nel mercato del lavoro apre una tensione sull’impegno domestico
e sul lavoro di cura e promuove la necessità di sviluppare modalità per conciliare l’occupazione con
le attività a favore della famiglia.
Massiccia ondata di immigrazione.
Crescente instabilità e eterogeneità occupazionale, diffusione di lavori poco pagati nel terziario che
non sono più appetibili per i lavoratori locali, difficoltà sui fronti dell’inserimento lavorativo,
sociale e abitativo dei nuovi immigrati.
La crescita della spesa pubblica nazionale ora pare incompatibile con l’esigenza di mantenere alti
livelli di competitività e di efficienza economica.
L’espansione del welfare nazionale diventa meno legittimata politicamente perché è percepita come
un intervento costoso mirato al sostegno di pochi contro gli interessi della maggioranza della
popolazione.
Risulta sempre più difficile rispondere con modalità efficaci a una domanda sociale che è in misura
crescente eterogenea e individualizzata, avendo a disposizione strumenti istituzionali tradizionali,
rigidi e standardizzati.
Nasce un welfare più locale, orientato a responsabilizzare i soggetti che hanno bisogno di sostegno,
che mobilita il terzo settore e il volontariato, che è orientato a investimenti e innovazioni e che
tende a privatizzare pezzi della protezione sociale.
In Europa: crescente importanza degli indirizzi di coordinamento delle politiche pubbliche e sociali
da parte delle istituzioni dell’Unione Europea.
Da un lato, necessità di trovare risposte efficaci a bisogni di sostegno sociale che sono più
individualizzati, frammentati ed eterogenei e di espandere servizi sociali e politiche attive e,
dall’altro, l’esigenza di far fronte all’insufficienza delle risorse a disposizione degli stati nazionali e
alla crescente difficoltà di legittimazione della spesa pubblica.
Strategia di riforma del welfare che non sono sempre conciliabili: da un lato, promuovere una
copertura più articolata ed efficace ai nuovi rischi che spesso comporta costi elevati, dall’altro lato,
si tende a risparmi e tagli di spesa pubblica.
Le nuove forme di welfare locale in molti contesti sono fondate su una matrice ideologica
comunitaristica, cioè sulla solidarietà all’interno di gruppi particolari più o meno radicati sul
territorio.
La possibile matrice comunitaristica di alcune esperienze di nuovo welfare non configura un ritorno
al passato perché si coniuga con società che sono comunque mobili, individualizzate e poco stabili,
ma certamente contribuisce a indebolire il carattere universalistico del welfare e dei diritti di
cittadinanza sociale. IL WELFARE LOCALE COME INNOVAZIONE SOCIALE
Crescente importanza del welfare locale all’interno della logica che ipotizza la necessità di risposte
più articolate e personalizzate a rischi più frammentati e individualizzati.
Principio di sussidiarietà verticale: l’intervento pubblico deve essere realizzato al livello
relativamente più basso che possa mettere in atto pratiche di protezione efficaci.
La questione pone problemi controversi.
Che cosa si intende per livello locale?
Il livello locale di base è costituito dal comune/municipio che è poi spesso l’istituzione pubblica
che eroga i servizi sociali e che implementa molte politiche di sostegno.
Nelle grandi città è possibile che vi sia un livello di decentramento più basso.
In realtà però quando si discute di welfare locale si pensa quasi sempre al livello amministrativo dei
comuni.
In quasi tutti i sistemi amministrativi tra il livello nazionale e le città, ci sono uno e più spesso due
livelli intermedi.
Il livello intermedio più elevato (regione) ha un’importanza notevole nella strutturazione delle
politiche di welfare perché condivide la responsabilità di coordinamento e di regolazione
istituzionale con il sistema nazionale, ma raramente costituisce un concorrente del livello urbano/
municipale nell’erogazione e implementazione del welfare locale.
Anche nel caso italiano in cui negli ultimi decenni le responsabilità intermedie delle regioni sono
enormemente cresciute, livello regionale e urbano non sono in competizione.
Come e a quali condizioni il livello locale può erogare misure e servizi efficaci di welfare?
Non è sufficiente essere a contatto con i soggetti beneficiari e capire le loro esigenze, ma bisogna
disporre di risorse finanziarie e professionali per realizzare gli interventi di sostegno e protezione.
Dimensione dell’ente locale.
Gli enti locali piccoli incontrano notevoli problemi nello sviluppo di un efficace intervento di
welfare.
Per questo alcuni paesi europei hanno riformato in profondità gli ordinamenti municipali mettendo
assieme i piccoli municipi e dotando di risorse straordinarie di trasporto, finanziate dallo stato
centrale, quei nuovi enti locali che si trovavano in località geografiche remote.
Elevato costo politico, ma anche costo economico che è più facile da sostenere nelle fasi di crescita
e più difficile da affrontare nei periodi di crisi.
I piccoli comuni tradizionalmente non hanno risorse sufficienti per promuovere il nuovo welfare
che ha costi elevati e richiede lo sviluppo di nuove professionalità.
Un problema spesso dimenticato quando si magnificano i successi dei programmi di flexicurity nei
paesi scandinavi è che la protezione che dà sicurezza è costosa sia nella parte più standardizzata e
nazionale di sostegno al reddito dei soggetti in difficoltà occupazionali, sia nelle attività di
aggiornamento formativo e di accompagnamento e sperimentazione nel lavoro che sono una
componente del welfare locale.
In entrambi i casi si aprono le tensioni sull’entità e sul controllo della spesa pubblica che tendono
ad aggravarsi nei periodi di crisi.
Il welfare locale può efficacemente valorizzare l’apporto delle attività di volontariato e di non profit
e anche le sinergie con le imprese private che producono servizi per il mercato.
Ricchi mix di accordi con imprese di vario tipo che consentono attività di formazione, inserimento
lavorativo o abitativo, mediazione familiare o culturale.
La sinergia con il welfare privato non risolve le difficoltà sul fronte delle limitate risorse
finanziarie.
Quasi sempre l’intervento del secondo welfare non è a costo zero per lo stato e per gli enti locali
perché le imprese hanno bisogno di sovvenzioni pubbliche per operare e nei settori di produzione
dei servizi di welfare la concorrenza di mercato può non abbassare i costi, ma diminuire la qualità
dei servizi stessi.
WELFARE LOCALE E DISUGUAGLIANZE
Il declino delle forme di sostegno standardizzato e universalistico a fronte di una società più
diversificata e instabile altera il sistema delle disuguaglianze ma in modo differente nei diversi
contesti locali e nazionali.
Le città hanno sempre risorse locali differenti.
La frattura fra nord e sud nel caso italiano è emblematica.
A fronte di questa situazione il bisogno di sostegno per disoccupati, poveri, famiglie numerose è
molto elevato.
A queste condizioni lo spostamento delle responsabilità verso il livello locale rischia di amplificare
enormemente le disuguaglianze territoriali.
Le tradizioni locali consolidate e le risorse locali del privato sociale sono spesso orientate verso
alcuni gruppi particolari: in questo senso il secondo welfare non ha una connotazione
universalistica.
Condizioni che possono rendere la trasformazione in direzione della maturazione di un più diffuso
intervento di welfare locale meno problematica rispetto alla crescita della disuguaglianze sociali e
all’erosione dei diritti sociali di cittadinanza.
Tali condizioni sono:
1. un quadro regolativo nazionale e sovranazionale orientato a stabilire livelli minimi di
sostegno e a compensare la diversità di risorse a disposizione;
2. enti locali abbastanza grandi e dotati di risorse finanziarie e professionali per realizzare
servizi e interventi;
3. capacità di valorizzare e organizzare in mobilità sinergiche gli apporti del privato sociale e
delle imprese di mercato;
4. capacità di identificare, raggiungere e coinvolgere i soggetti che hanno maggior bisogno di
protezione e di servizi di welfare;
5. sviluppo di potenzialità operative orientate a intervenire rapidamente per proteggere e
compensare le popolazioni più svantaggiate;
6. forza e volontà politica a tutti i livelli locali sufficienti a contrastare le discriminazioni nei
confronti di alcune minoranze e di alcune situazioni ritenute poco meritorie di sostegno
della maggioranza della popolazione.
Mobilitazione e partecipazione dei diversi attori, delle associazione e dei movimenti sociali presenti
sul territorio.
LA REGOLAZIONE EUROPEA E NAZIONALE DEL NUOVO WELFARE
La Commissione Europea è coinvolta nella messa a punto del quadro regolativo che accompagno lo
sviluppo del welfare locale.
Approccio fondato sul metodo della governance multilivello dove gli stati membri e gli enti locali
coinvolgono partner privati e del volontariato nell’attivazione di nuove esperienze di welfare, e
dove i partner sono coinvolti pienamente e responsabilmente nella messa a punto delle politiche
sociali, così come viene raccomandata una chiara divisione delle responsabilità tra i diversi livelli
territoriali degli enti pubblici.
Il ruolo dell’Europa rischia di non avere un impatto efficace e omogeneo sul quadro regolativo dei
paesi membri e delle pratiche di welfare locale.
Spetta agli stati nazionali la responsabilità di coadiuvare o meno i livelli locali nella realizzazione
delle direttive europee al fine di costruire esperienze innovative nel campo dei servizi sociali e degli
interventi per contrastare l’esclusione sociale e i nuovi rischi di deficit di protezione e di violazione
dei diritti sociali di cittadinanza, ma tale responsabilità si trova a essere esercitata in situazioni di
crescenti vincoli finanziari.
Nei paesi scandinavi il processo di riforma del welfare è iniziato da almeno due decenni ed è stato
accompagnato da un quadro di regolazione centrale forte.
I paesi dell’Europa meridionale e orientale si trovano invece in grandi difficoltà perché dovrebbero
realizzare riforme profonde del welfare in condizioni di persistenti ristrettezza economiche.
L’attivazione del livello locale si sta realizzando con dotazioni di risorse finanziarie e professionali
carenti e quindi con risultati modesti ed effetti disuguali.</p></div></div><div><div><p>Conseguenze
controverse in termini di disuguaglianze, scarsa mobilità territoriale e frustrazione
dell’autonomia e della realizzazione personale, soffocando i potenziali di competizione e di
crescita.
QUALE CONCETTUALIZZAZIONE DEL WELFARE LOCALE
Il concetto di welfare locale si è andato progressivamente complessificando e si possono
individuare almeno tre definizioni, via via più complesse, di welfare locale, che hanno anche un
diverso approccio al territorio.
1. fa riferimento alle politiche pubbliche e ai servizi locali che forniscono prestazioni connesse
al benessere dei cittadini. Vengono utilizzate le modalità di funzionamento formale e
informale delle prestazioni/servizi locali, quindi il ruolo degli operatori sociali
nell’implementazione delle politiche tra normativa, discrezionalità e bisogni dell’utente. Il
territorio è lo sfondo entro al quale operano gli attori, che però influenza profondamente
l’implementazione delle politiche e la discrezionalità degli stessi operatori. Al contrario in
un contesto scarsamente dinamico gli operatori saranno probabilmente meno selettivi verso
i lavoratori da proporre agli utenti da inserire nei programmi.
2. Il concetto di welfare locale si riferisce all’insieme dei servizi pubblici e privati locali che
erogano prestazioni relative al benessere della popolazione e alle relazioni tra questi attori.
Il concetto di welfare locale di sovrappone a quello di welfare mix e alla combinazione
variabile di attori che sul territorio forniscono servizi/prestazioni di welfare. Il ritiro della
sfera pubblica nel fornire prestazioni di welfare e l’affiancamento del terzo settore nel ruolo
di fornitore. Sussidiarietà orizzontale e moltiplicazione degli attori locali. Ampio utilizzo del
concetto di governance, ma anche di partecipazione e democrazia. Partecipazione attiva
delle organizzazioni non pubbliche nei processi deliberativi del welfare locale,
partecipazione che è intesa quale forma di attivazione che incentiva la coesione sociale. Il
territorio in questi studi ha un ruolo più importante perché viene considerato come una fonte
per le risorse che è capace di mobilitare, e per la capacità di produrre o riprodurre capitale
sociale. Tuttavia, è soprattutto il ruolo dell’offerta e essere considerato: presenza
diversificata sui territori locali di attori e organizzazioni che producono protezione sociale e
servizi di welfare, sulla loro organizzazione e le loro interazioni. Il lato della domanda è
molto meno considerato.
3. Fa riferimento al concetto di sistema di welfare locale per intendere intreccio dinamico tra
gli aspetti economici, politici, sociali e culturali di un contesto locale che danno vita a una
specifica configurazione di bisogni da parte della popolazione e a una specifica
configurazione di attori locali che forniscono servizi di welfare. Analisi dei bisogni della
popolazione locale.
Ogni contesto locale ha una propria storia con specifiche caratteristiche economiche, demografiche,
politiche e sociali che contribuiscono a configurare sistemi di welfare locali differenti e a strutturare
differenti visioni che essi esprimono negli ambiti della politica sociale.
Questo approccio al sistema di welfare locale considera contemporaneamente la domanda di
welfare espressa dalla popolazione e l’offerta di welfare, vale a dire le prestazioni/servizi pubblici
e privati offerti alla popolazione e l’organizzazione di tale offerta.
La comparazione tra sistemi locali di welfare mette in gioco la costruzione locale del bene pubblico
e dei gruppi considerati maggiormente vulnerabili o bisognosi di servizi per i quali gli attori si
attivano.
Entrambi questi aspetti richiamano la narrativa della governance e il suo rapporto con il
government.
I sistemi locali di welfare non possono però essere pensati soltanto all’interno della dimensione
territoriale locale: si inseriscono in un contesto nazionale e sovranazionale che contribuisce a
strutturarli.
Si devono quindi considerare sia le influenze esterne sul territorio, sia i rapporti tra sfere
istituzionali differenti all’interno del territorio attraverso l’analisi delle relazioni che si instaurano
tra i diversi attori locali. I sistemi di welfare locali sono necessariamente sistemi aperti e occupano uno spazio
di
intersezione tra le dinamiche locali e sovralocali.
All’interno di questo approccio, il territorio acquista una nuova centralità, perché si tendono a
mettere a fuoco le relazioni tra soggetti che si costruiscono nel tempo dentro uno spazio territoriale
definito.
Lo spazio rappresenta il luogo in cui le interazioni avvengono e prendono forma e sostanza.
Superare il livello descrittivo di cosa avviene nei diversi territori, e di trovare dei parametri
interpretativi che permettano una significativa comparazione e valutazione dei differenti contesti.
I PARAMETRI PER L’ANALISI DEI SISTEMI DI WELFARE LOCALE
Le categorie analitiche di stato, mercato, famiglia-società civile restano un punto di partenza
importante, ma assumono un significato diverso nello studio dei sistemi di welfare locale. Tali
categorie devono articolarsi sui diversi livelli territoriali-istituzionali e sul rapporto fra questi.
I sistemi locali devono essere intesi come aperti e in continua trasformazione.
Il primo parametro è la forza dello stato, vale a dire la sua capacità di regolazione.
Tre elementi:
1. presenza di un quadro normativo-istituzionale chiaro, in cui sono definite competenze e
responsabilità dei diversi enti istituzionali territoriali;
2. garanzia di finanziamenti centrali che costituiscono una solida base per la pianificazione e
realizzazione degli interventi su scala locale;
3. accesso a un sistema di protezioni che assicuri gli stessi diritti sociali sull’intero territorio.
È la capacità di regolazione dello stato centrale che fornisce il quadro all’interno del quale operano
i sistemi locali e che impedisce l’affermarsi del localismo.
Quando lo stato ha un forte potere di regolazione, anche all’interno di importanti processi di
decentramento, i diritti di cittadinanza restano garantiti ed esigibili in tutto il territorio.
Le amministrazioni locali possono fare affidamento su un quadro istituzionale chiaro e in questo
quadro mobilitare le risorse locali, avendo la possibilità di mettere in atto innovazioni.
In Italia il sostegno al reddito non è una misura nazionale, e non è nemmeno garantito sull’intero
territorio regionale e municipale, con la conseguenza di una frammentazione elevata dei diritti;
inoltre tale sostegno è spesso minato dalla disponibilità di bilancio.
La capacità di regolazione pubblica deve poi essere declinata su scala locale.
Non è tanto la gestione diretta dei servizi pubblici a essere rilevante, ma la capacità dell’attore
pubblico di attivare, coordinare e regolare le risorse presenti nel territorio, quindi terzo settore in
senso ampio, e imprese.
Senza, il rischio è la frammentazione degli attori e delle prestazioni.
La cultura politica locale e la capacità di guida dell’elite politica ed economica sono da questo
punto di vista elementi importanti per comprendere il ruolo dell’ente pubblico locale quale
promotore e attivatore delle risorse locali, o semplicemente spettatore.
La seconda categoria rilevante per l’analisi del sistema di welfare locale è il mercato che può essere
inteso sia come produttore di bisogni sia come fornitore di servizi.
È sensibilmente diverso per la strutturazione locale delle politiche sociali avere a che fare con un
territorio costituito da piccole o medie imprese o da grandi imprese multinazionali, così come avere
a che fare con un tasso di occupazione femminile alto o basso, a tempo pieno o parziale.
La creazione di servizi privati può avvenire se, e solo se, vi è una domanda disattesa della
popolazione per quel servizio, se vi sono le condizioni per la sua realizzazione, per esempio non vi
sono strutture pubbliche, e se vi è una legittimazione dell’attore privato fornitore di servizi di
pubblica utilità.
La categoria mercato deve considerare i diversi intrecci fra i differenti mercati e la loro interazione
con le altre due categorie che vi sono importanti implicazioni in termini di disuguaglianza sociale
se non vi è regolazione pubblica.
La categoria famiglia-terzo settore-comunità locale include attori tra loro molto differenti e la sua
analisi è complessa.
Per quanto riguarda la famiglia essa è sia fornitore di servizi che produttore di bisogni sul territorio. Ricordiamo
che i sistemi di welfare locale contemporanei operano all’interno di un processo più o
meno avanzato di defamiliarizzazione della cura.
In un’analisi del welfare locale occorre mettere a fuoco la struttura, la tipologia e la composizione
familiare presenti in uno specifico contesto territoriale, il grado di omogeneità/eterogeneità della
popolazione locale, la presenza di popolazione straniera e la sua composizione demografica e di
origini nazionali, così come indagare sui tipi di rete sociale presenti sul territorio.
Sul fronte dell’offerta delle prestazioni/servizi, le strutture intermedie implicate nel sistema locale
sono estremamente diverse: associazioni, cooperative, gruppi organizzati differiscono molto tra loro
per ammontare di risorse disponibili e relazioni con il settore pubblico, per il livello d’azione
nazionale o locale, per il grado di indipendenza nel decision-making.
Alcune associazioni sono pienamente integrate nell’apparato istituzionale e sono quasi delle
strutture semipubbliche, altre sono autonome e agiscono essenzialmente fuori dal controllo
pubblico seguendo una logica che si basa sul colmare gli spazi lascaiti vuoti dall’intervento
pubblico.
Bisogna dunque comprendere il tipo di governance: inclusive o esclusiva.
Nella governance inclusiva tutti i soggetti effettivamente e potenzialmente coinvolti dalla questione
prendono parte al processo decisionale, nella governance esclusiva invece alcuni attori vengono
esclusi.
Occorre guardare alle forme di partnership e collaborazione che si instaurano tra attori che possono
appartenere alle tre diverse categorie di stato, mercato e terzo settore.
Questa tripartizione incontra sempre maggiori difficoltà per interpretare e classificare i differenti
attori che forniscono servizi e prestazioni.
I mix che si possono creare sono molteplici e in molti casi innovativi secondo le esigenze del
territorio.
La crisi economica complica ulteriormente il quadro perché accentua la scendo spinta che tende a
promuovere il sistemi di welfare locale per tagliare i fondi per la spesa pubblica a livello centrale e
sempre più anche a livello locale.
Le categorie che abbiamo individuato possono essere uno strumento teorico e analitico utile per la
comparazione nazionale e internazionale tra i diversi sistemi locali, ma soptattutto possono indicare
a quali condizioni ci sia un’offerta di protezione efficace e a quali ci sia un allargamento del deficit
di protezione che risulta pericoloso.
CAPITOLO 7: POVERTA’ URBANA
La presenza della povertà appare un elemento caratteristico della città contemporanea.
Sono proprio alcune dinamiche che alimentano la povertà urbana.
La povertà cessa di essere una condizione ineluttabile della condizione umana per diventare una
questione politicamente rilevante con il processo di sviluppo delle città sostenuto dalla Rivoluzione
industriale: la povertà moderna diventa soprattutto una questione urbana.
CHE COS’E’ LA POVERTA’?
La recente crisi che ha colpito gran parte dei paesi occidentali ha riportato all’attenzione dei media
la questione della povertà nei paesi economicamente sviluppati.
In tutte le società umane la penuria e l’insufficienza delle risorse indispensabili per la sussistenza
erano state un destino comune alla gran parte della popolazione.
Nell’Europa occidentale la combinazione tra la straordinaria crescita economica avvenuta negli
anni 50 e 60 e la costruzione di vasti e moderni apparati di protezione sociale aveva consentito che
l’eliminazione totale della povertà potesse essere ritenuta un obiettivo raggiungibile. Il rapidissimo processo
di sviluppo industriale non aveva di certo eliminato immediatamente il
problema della povertà, anzi, aveva in certa misura creato nuovi tipi di povertà: in Italia, presenza
di una nuova popolazione urbanizzata oggetto di forte discriminazione sociale.
Si trattava, però, di una fase di rapidissima crescita economica e modernizzazione sociale, che
prometteva a tutti di poter partecipare alla crescente diffusione di benessere.
In pochi anni anche una famiglia con modeste risorse economiche poteva realisticamente sperare di
migliorare significativamente o addirittura moltiplicare il proprio reddito in pochi anni.
La povertà era sostanzialmente scomparsa dall’attenzione sia dell’opinione pubblica sia del
dibattito politico.
Lo stesso sviluppo del welfare state in quegli anni aveva contribuito a ridefinire la questione della
povertà come un fenomeno destinato a scomparire.
Nel dibattito politico di quegli anni diventa molto più importante l’esigenza di una più equa
redistribuzione della ricchezza.
La fine di questo periodo di straordinaria crescita economica avviene a metà degli anni 70:
passaggio da modelli di sviluppo economico fondati sull’industria manifatturiera e modelli
incentrati invece sul terziario.
Fasce significative della popolazione erano rimaste escluse o avevano solo marginalmente
beneficiato del crescente benessere.
La povertà, negli anni 80, era un fenomeno relativamente marginale che riguardava settori della
popolazione in condizioni di svantaggio.
Negli Stati Uniti la povertà era legata a una questione urbana e razziale.
La povertà veniva quindi fatta risalire a modelli di comportamento fortemente radicati nella
popolazione afroamericana e latinoamericana.
Underclass=classe sociale inferiore a quella operaia costituita da disoccupati, inoccupabili e
sottoccupati sempre più esclusi senza speranza dal resto della società, di cui non condividono lo
stile di vita, le ambizioni, i successi.
I poveri non erano tali perché esclusi dai processi di creazione e distribuzione della ricchezza, ma
ne erano esclusi in quanto socializzati a una subculture of poverty.
In Europa la povertà si caratterizzava quale fenomeno prettamente urbano, ma con una più marcata
connotazione di classe invece che razziale: maggiore continuità spaziale tra i quartieri poveri e il
resto della città.
I quartieri poveri delle città europee non erano abitati da una popolazione separata dal resto della
comunità per caratteristiche etniche, razziali o culturali, ma da famiglie operaie con una fragile
esposizione occupazionale.
I quartieri poveri delle città europee erano pienamente integrati nel tessuto urbano.
Tra gli anni 80 e i primi anni del nuovo secolo, nelle città europee si assiste però a una
trasformazione di questi quartieri: cresce il numero di immigrati.
La crescita quantitativa di questa popolazione si lega a una concentrazione in aree urbane
specifiche.
Pur non configurando il modello razziale del ghetto nero americano, tende a cambiare la
caratterizzazione sociale di questi spazi e si generano nuove tensioni sociali che sfociano in episodi
di conflittualità sociale violenta.
La seconda ragione di cambiamento della povertà urbana ha a che fare con uno slittamento
concettuale espresso dal crescente uso del termine esclusione sociale invece di povertà.
Le nuove manifestazioni della povertà si caratterizzano per la rottura dei legami sociali e la
conseguente impossibilità di prendere parte alla vita della comunità di appartenenza.
La povertà diventa una condizione sempre più complessa e individuale, quindi difficilmente
condivisibile con altri, il cui esito finale è l’isolamento dal resto della società.
In questi ultimi 20 anni è diventato sempre più chiaro che la povertà non è un fenomeno residuale
che colpisce individui e famiglie i quali, a causa delle proprie caratteristiche o attitudini culturali,
non riescono a beneficiare del crescente benessere materiale. La povertà nei paesi affluenti è un fenomeno
strutturale alimentato da specifici meccanismi di
esclusione o marginalizzazione di segmenti della popolazione con caratteristiche peculiari variabili
nei diversi contesti.
La concentrazione dei poveri nelle città dipende da dinamiche sociali urbane che producono un tipo
specifico di povertà.
La povertà presenta una configurazione e delle influenze sia a livello nazionale sia a livello locale.
Anche il quartiere rappresenta una dimensione nella quale i meccanismi istituzionali agiscono
direttamente, strutturando molti dei fenomeni sociali.
Il luogo come spazio sociale catalizza la specificità dei processi di esclusione, dei regimi di welfare,
delle politiche locali, ma anche degli assetti demografici locali, delle dinamiche scolastiche e del
mercato del lavoro. Il luogo stesso diventa generatore di uno specifico processo di esclusione
multidimensionale.
Questi processi a livello locale sono influenzati dalle grandi trasformazioni socioeconomiche, ma
anche dalle più circoscritte ristrutturazioni delle imprese e dello stato.
I processi di riqualificazione urbana possono in qualche caso anche generare fenomeni di
segregazione delle famiglie più povere in alcune zone della città.
Fattori sottostanti alla povertà urbana: disoccupazione, abbandono scolastico, condizioni abitative
difficili, segregazione, ecc…
Questi fenomeni possono cambiare di intensità a seconda del contesto istituzionale, del livello di
controllo democratico e di partecipazione, della situazione politica.
Le specificità e le particolarità istituzionali in combinazione con le tradizioni, i legami familiari e
sociali e la situazione demografica, agiscono in modo congiunto sulla riproduzione della povertà e
dell’esclusione sociale.
POVERTA’ NELLA CITTA’ MODERNA
La povertà è una caratteristica persistente di quasi tutte le società umane in tutte le epoche.
Fino alla Rivoluzione industriale la povertà era una caratteristica comune a larghi strati della
popolazione: veniva percepita come una componente ineliminabile della condizione umana.
Si distingueva tra la povertà involontaria, di malati, anziani e orfani, e la povertà minacciosa dei
vagabondi, dei falsi mendicanti e degli emarginati.
La povertà diventa una questione sociale e politica solamente con la Rivoluzione industriale e con il
conseguente imponente processo di inurbamento.
La concentrazione di masse operaie nei centri industriali rende innanzitutto evidente e minacciosa
questa moltitudine di individui descritti come sporchi e miserabili a soggetti ai peggiori vizi.
La natura sociale della povertà non viene più a dipendere dalla volontà divina, ma dal modo di
produzione capitalistico e dai meccanismi di produzione e distribuzione del reddito.
Un sistema sociale fondato sul dominio del mercato, nel quale non c’è spazio per forme di socialità
alternative ai rapporti di mercato, e che finisce per far dipendere la sopravvivenza fisica delle
persone esclusivamente dalla loro capacità di procurarsi un salario, generea tendenze
autodistruttive.
Durante lo sviluppo industriale nei paesi occidentali, la povertà diventa una questione
eminentemente urbana. Nel corso del 900 la povertà urbana diventa invece un fenomeno globale
sulla scorta del rapidissimo e imponente processo di urbanizzazione avviatosi nei paesi in via di
sviluppo.
Oggi la povertà è soprattutto un fenomeno urbano.
UN EXCURSUS DELLA LETTERATURA SU SPAZIO E POVERTA’
- Charles Booth – “Life and labour of the people in London”: minuziona indagine casa per casa
tramite la quale furono elaborate delle mappe dettagliate in base al grado di povertà o al tipo di
condizione economica delle famiglie residenti.
Sette classi in funzione della natura, dell’entità e della regolarità dei guadagni.
Classe inferiore composta da lavoratori occasionali, ambulanti, perdigiorni, criminali e
semicriminali. Distinzione tra poveri meritevoli e non meritevoli.
- Shaw e McKay: il tasso di criminalità varia a seconda della debolezza o della solidità delle
istituzioni locali e della partecipazione dei cittadini.
I quartieri con alti tassi di criminalità sono considerati disorganizzati socialmente a causa della forte
eterogeneità etnica, dell’alta mobilità residenziale e della concentrazione di povertà.
- Jane Jacobs – “Vita e morte delle grandi città”: public characters=gli esclusi e i marginali da un
punto di vista economico. Il loro comportamento ha la conseguenza di rendere la vita di strada più
sicura, stabile e prevedibile.
- Julius Wilson: black inner cities=questi quartieri sono inizialmente segregati dal punto di vista
razziale ma integrati secondo un’appartenenza di classe, dovuta a una prossimità fisica e sociale tra
le famiglie nere di classe media e quelle di classe inferiore.
Questa condizione di mix sociale viene meno durante gli anni 60 e 70 con l’acquisizione dei diritti
civili e la mobilità sociale favorita dal boom economico che permise alle famiglie nere di classe
media di abbadonare questi quartieri dove rimasero invece le famiglie nere povere: quartieri sempre
più omogenei dal punto di vista sociale oltre che razziale.
I primi studi empirici sul neighbourhood effects hanno distrato come il fatto di vivere in un
quartiere povero faccia diminuire la probabilità per gli abitanti di godere di relazioni sociali che non
si limitino a una cerchia ristretta, ma includano anche individui appartenenti ad altre classi sociali.
- Altri ricercatori ritengono invece che l’effetto di quartiere sia un elemento secondario, difficile da
stimare, e che i legami e le relazioni sociali non possono mai essere realmente circoscritti al
quartiere di residenza.
- Wacquant: legame tra povertà urbana, segregazione e razzismo. Dimostra come la discriminazione
razziale sia soprattutto di tipo istituzionale e di stampo repressivo.
Egli delinea i meccanismi di riproduzione della povertà e delle disuguaglianze, che sono al tempo
stesso sociali, economici e politici, ma verso i quali gli individui non sono mai completamente
passivi. Ruolo fondamentale della cultura come risorsa: elemento in grado di fornire l’orientamento
e i mezzi per l’azione. La cultura non consiste semplicemente in un insieme di valori ma diventa un
vero e proprio repertorio a cui gli individui possono attingere per rivestire di senso le loro pratiche
e prendere decisioni.
L’autore rifiuta di attribuire ai poveri la colpa della loro povertà. La cultura della povertà si delinea
come una conseguenza della povertà e non come la sua causa principale.
LA RICERCA SULLA POVERTA’ URBANA IN ITALIA
In tutte le città è presente una quota di popolazione che è in condizioni di povertà e che spesso
tende a risiedere in alcune zone specifiche dello spazio urbano.
Nelle aree della città abitate prevalentemente da famiglie in condizioni di povertà è maggiore il
rischio di impoverimento (space matters) in quanto la configurazione nello spazio del fenomeno
diventa un fattore indipendente dalla strutturazione del fenomeno stesso.
La concentrazione di popolazione povera in spazi urbani delimitati genera alcune dinamiche sociali
che favoriscono la riproduzione della povertà.
1. I bambini vengono esposti a modelli sociali o astili educativi inadeguati.
2. Fragilità del tessuto economico sociale e connotazione negativa del quartiere e, di conseguenza,
delle persone che vi abitano.
3. Assenza o scarsa qualità dei servizi pubblici disponibili ( scuola, trasporti pubblici, attenzione
repressiva delle forze di polizia).
In ogni città le caratteristiche specifiche della popolazione povera dipendono da fattori locali
inerenti alla storia e alla geografia della città, al suo profilo sociodemografico, alla sua struttura
economica, all’organizzazione delle politiche di welfare e di sviluppo urbano.
Diversa diffusione e distribuzione della povertà e del disagio sociale nelle tre principali città
italiane.
La mancanza di dati strutturati sulla povertà nelle diverse aree urbane italiane viene sostituita, negli
ultimi 20 anni, da un numero significativo di casi studio.

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