Anno XL
04.07.2018
Numero
706
PERIODICO DI ATTUALITÀ DEI COMUNI DI ALANO DI PIAVE, QUERO VAS, SEGUSINO
Ricariche telefoniche
E’ un “RESET FESTIVAL” sempre più ricco di sorprese quello che andrà in scena da mercoledì 25 a domenica 29
luglio al Parco del Piave di Fener con la organizzazione della
associazione “LIBERO PENSIERO”. Saranno ben venti i con-
certi dal vivo cui si potrà assistere durante i cinque giorni della
festa, concerti che avranno luogo, alternativamente, su due pal-
chi differenti (e quella del secondo palco è la novità più rilevante
dell’edizione 2018, assieme alla zona campeggio attrezzata e al
chiosco della birra artigianale). Restano, ovviamente, quegli “in-
gredienti” che hanno caratterizzato le precedenti sette edizioni (e
che contribuiscono a far rivivere la stessa, magica atmosfera che
si respirava al “Music Festival”): cucina per tutti i gusti, pizzeria
ResetStyle, cinque chioschi per la birra, chillout zone, mercatino
etnico, laboratori creativi, campetto di green volley (con possibili-
tà di iscriversi al torneo), yoga in riva al Piave, t-shirt Reset 2018
(limited edition)… Insomma, un festival a ingresso libero “più straordinario che mai”, in una location - uno splendido
parco “affacciato” su un fiume - che tutti ci invidiano. Di seguito il programma completo della manifestazione.
MERCOLEDI' 25 LUGLIO (alle ore 18 aperitivo musicale, dalle ore 21 live music in chillout zone)
HAMKA, funk (Vittorio Veneto - TV) # GOODMORNING MAMA, soul / r’n’b (Verona)
GIOVEDI' 26 LUGLIO (dalle ore 21 live music)
palco principale: JHON MONTOYA, tierra folk (Colombia / Treviso) # VESSELS, elettronica (Leeds - UK)
secondo palco: JUKEBOXX, tecno (Vittorio Veneto - TV) # HLFMN, electronic / chillwave / laptronica (Roma)
VENERDI' 27 LUGLIO alle ore 12 apertura stand, dalle ore 19 live music)
palco principale: BRUCE HARPER, post rock elettronico (Brescia) # CLAVER GOLD, rap / hip hop (Ascoli Piceno)
# SCRATCH BANDITS CREW - CHINESE MAN RECORDS, scratch music / hip hop mutant (Lyon - FR)
secondo palco: AUTER, rap (Valdobbiadene - TV) # TIN WOODMAN, tin wood pop (Brescia) # VERTI-
CAL PSYCHO GROOVE, experimental jazz (Vicenza)
SABATO 28 LUGLIO (alle ore 12 apertura stand, dalle ore 19 live music)
palco principale: SONARS, electro psych (UK / IT) # UNIVERSAL SEX ARENA, rock (Mestre - VE) # GENTLE-
MAN'S DUB CLUB, dub / reggae / dance (Leeds - UK)
secondo palco: NEXT STATION, reggae (Savona) # THE BOWERS, rock’n’roll (Milano) # CARA CALMA, rock
(Brescia)
DOMENICA 29 LUGLIO (alle ore 12 apertura stand, dalle ore 15 spettacoli, dalle ore 20 live music)
dalle ore 15 spettacoli per il divertimento di grandi e piccini con: CLAUDIO E CONSUELO, spettacolo itinerante #
RUFINO CLOWN, microteatro (uno spettacolo…di pancia) # CIRCO PUNTINO, teatro circo, comici e acrobati #
CLOWN BARABBA, acrobatica, equilibrismo, fachirismo, sparafuoco
3 CRONACA
dalle ore 20 live music con: CURLY FROG & THE BLUES BRINGERS, original blues (Trento) # OLLY RIVA & THE
SOULROCKETS, rock’n’soul (Bergamo)
Nei pomeriggi poi - altra bella
novità di quest’anno - ci sarà
“ECO-ARTE”, un ciclo di quat-
tro interessantissimi laboratori
creativi destinati ai bambini dai
5 ai 10 anni e proposti e con-
dotti dai volontari della asso-
ciazione “IL COLLETTIVO”
guidata da Stephanie Rebuli. I
quattro laboratori - “DIPINGE-
RE CON LA NATURA”, “LA
DANZA DELLA TERRA”,
“CACCIA AL RIFIUTO” e
“COSTRUIAMO INSIEME” -
sono gratuiti, si svolgono
all’interno del “Reset Festival”
dal mercoledì al sabato dalle ore 15 alle ore 17 e hanno come obiettivo rafforzare nei più piccoli il senso di rispetto
per l’ambiente. Facendo leva sul gioco e sulla creatività, i bambini vengono sensibilizzati al tema del riuso e del rici-
clo, rendendoli più consapevoli nei loro gesti quotidiani. Per ulteriori informazioni sui laboratori: whatsapp
+393493008014 (Stephanie Rebuli).
Per ulteriori informazioni, invece, sul “Reset Festival”: WEB: www.liberopensiero.org - FACEBOOK: RESET e Libero
Pensiero - INSTAGRAM: reset.festival.
La scuola materna parrocchiale di Quero offre diverse opportunità didattiche come i laboratori di lingua inglese con
insegnante madrelingua, di psicomotricità con professionista in materia; un orario scolastico che va incontro alle
esigenze delle famiglie che lavorano: orario anticipato alle 7.30 e prolungato nel pomeriggio fino alle ore 18.00, inoltre
l'accoglienza dei bambini nel mese di luglio, unica scuola nel Basso Feltrino ad offrire queste opportunità. La
preparazione dei bambini che hanno frequentato l'asilo di Quero è riconosciuta dalle insegnanti della scuola primaria
(elementare) dell'Istituto Comprensivo di Quero. Facciamo fin da subito un appello alle famiglie affinché iscrivano i loro
bambini all'Asilo di Quero. Fate del bene alla nostra Comunità, iscrivete i vostri bambini alla scuola materna parrocchiale
di Quero. Grazie ad un contributo extra dell’Amministrazione comunale, la scuola sconterà un mese di retta.
(La direzione della scuola e l’amministrazione comunale)
5 ATTUALITÀ
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La “voce” sul nostro illustre conterraneo è stata curata dal professor Gerardo Bianco
Nacque a Fener, oggi frazione di Alano di Piave (Belluno), il 26 agosto 1688 da Bernardino e da Maddalena Elisa-
betta, agricoltori di modeste, ma dignitose condizioni. Avviato agli studi dallo zio paterno, Uberto, parroco di Segu-
sino, a sedici anni, nell’ottobre 1704, entrò nel seminario di Padova, in quel periodo attivissimo centro di cultura
umanistica; nel marzo 1705 appare già tra gli iscritti al corso di grammatica superiore. Di ingegno pronto e perspi-
cace, di memoria eccellente, robusta e fresca, come recitavano i giudizi sul profitto scolastico del 1706, il Forcellini
si distinse subito nella composizione latina, valutata “supra grammaticum”. Più cauto, invece, risultava il giudizio
conclusivo del curriculum, nell’agosto 1710: gli esaminatori, infatti, definirono il Forcellini “ingenii multi sed adhuc
maturescentis”. La riserva riguardava, probabilmente, l’esame di teologia scolastica, che completava il corso degli
studi, ma non certo la preparazione linguistica nel latino.
Il Forcellini, infatti, divenuto sacerdote a ventitre anni, fu presto coinvolto nelle molteplici iniziative di I. Facciolati,
prefetto degli studi del seminario, già autorevole latinista e immerso in accese discussioni, dalle problematiche stili-
stiche a quelle sulla “emendatio, ope ingenii” di lezioni dubbie, trasmesse dai codici. Ma il tema centrale, oggetto di
dibattito nei circoli umanistici di Europa da quasi due secoli, restava quello della completa ricognizione del lessico
latino, per stabilirne l’esattezza. La questione era particolarmente avvertita in Padova, sia nell’antico studio universi-
tario, sia nel nuovo seminario fondato da Gregorio Barbarigo, essendo la composizione latina ritenuta strumento in-
dispensabile per l’azione pastorale. Il Facciolati, consapevole della insufficienza e spesso inattendibilità dei tradi-
zionali repertori lessicali, a cominciare dal più celebre e diffuso “Calepino”, Dictionarium Latinum di Ambrogio Cale-
pio (Regii 1502), ne andava progettando una più ampia e corretta riedizione. Il Forcellini ne assunse, a partire dal
1715, l’onere maggiore, come dimostrano le annotazioni sulle copie del Calepino, usate da ambedue e ancora in
possesso del seminario di Padova. Nella nuova edizione del Calepino, rivista e accresciuta, pubblicata a Padova
nel 1718 (con il titolo Calepinus septem linguarum), il Facciolati non rese il giusto merito al contributo del Forcellini,
che venne solo genericamente indicato nella prefazione, senza neppure la citazione del nome. E non risulta che il
Forcellini rimanesse turbato dall’ingiusta omissione della sua collaborazione all’edizione dell’Ortografia italia-
na apparsa con il solo nome del Facciolati, sempre a Padova, nel 1721. Bisognerà attendere l’ottava edizione (Pa-
dova 1741) perché il Facciolati desse atto del contributo del Forcellini, che aveva anche collaborato alla revisione
del vocabolario greco-latino di Cornelius Schrevel edita a Padova a cura del Facciolati nel 1715. Il Forcellini fu,
quindi, pronto allorché il Facciolati lo invitò a intraprendere, insieme, l’opera che avrebbe segnato la sua vita, la rie-
laborazione, appunto, dell’intera lessicografia latina.
L’esperienza maturata nella riedizione del Calepino, pubblicata con la singolare dicitura “editio postrema”, quasi
l’annuncio di una necessaria svolta nella lessicografia latina (ma ne seguirono altre nove edizioni fino al 1779), ave-
va convinto sia il Facciolati sia il Forcellini dell’esigenza di una radicale reimpostazione metodologica che abbando-
nasse il vecchio modello di Ambrogio Calepio. L’impresa non era di facile attuazione: i tentativi precedenti, a co-
minciare da quello di Robert Estienne due secoli prima (Dictionarium seu Latinae linguae thesaurus, Parisiis 1531),
avevano avuto esiti soltanto parziali, per cui il Calepino, pur insoddisfacente e criticato, continuava a mantenere in-
tatta la sua fortuna editoriale. Ma l’entusiasmo del Facciolati e la ferma volontà del nuovo vescovo di Padova, il car-
dinale Giorgio Corner, di approntare, finalmente, un nuovo strumento linguistico del latino per la corrispondenza an-
che pastorale, indussero il Forcellini, appena conclusa la revisione del vecchio Calepino, a immergersi
nell’immensa ricerca per la redazione di un nuovo lessico. Il Forcellini aveva trent’anni quando iniziò l’opera. Il pri-
mo fascicolo del lessico indica la data del 5 novembre 1718.
7 ATTUALITÀ
Il Forcellini lavorò intensamente al progetto, senza interruzioni, per sei anni, elaborando, nei primi tre anni e mezzo,
la lettera A, giungendo, quindi, alla voce “comitor”, allorché, per ordine del nuovo vescovo di Padova, Giovanni
Francesco Barbarigo, dovette trasferirsi, nel 1724, come prefetto degli studi, nel seminario di Ceneda. L’interruzione
dell’opera durò circa un settennio. Non furono, forse, estranee alle decisioni del vescovo incomprensioni con il Fac-
ciolati, come può desumersi da una lettera da questo indirizzata a Nicola Andrisio e, probabilmente, anche una vi-
sione pastorale rivolta più alla formazione religiosa dei seminaristi che alla raffinatezza umanistica, sia pure conce-
pita come veicolo culturale per l’attività dei sacerdoti. In questo periodo l’attività del Forcellini si concentrò sulla
educazione dei chierici, maturando un’approfondita esperienza pedagogica, che chiaramente traspare da alcune
lettere al fratello Marco.
Nel 1731, richiamato nel seminario, anche per le sollecitazioni del Facciolati, dal nuovo vescovo di Padova Minotto
Ottoboni, il Forcellini poté, finalmente, riprendere l’opera interrotta che continuò, “strenue”, fino al 1742. In
quell’anno, infatti, venne incaricato delle funzioni di confessore dei chierici, un compito vissuto dal Forcellini, anche
per lo scrupolo che poneva in ogni sua azione, come particolarmente gravoso. Il lavoro lessicografico richiedeva
grande concentrazione e continuità di studi che il compito di confessore non permetteva. Il Forcellini annotò, il 10
febbraio 1742, sul manoscritto, al lemma “pone”, la sua preoccupazione di dover procedere molto lentamente. Così
accadde per circa nove anni.
Nel 1751 il nuovo vescovo di Padova, il cardinale Carlo Rezzonico, futuro papa Clemente XIII, decise di sollevare
dal compito di confessore il Forcellini, per consentirgli di dedicarsi pienamente al completamento dell’opera, essen-
do poco più che formale, e comunque compatibile, il compito di custode della Biblioteca del seminario. La gioia di
poter riprendere, con continuità, il lavoro lessicografico fu espressa, come al solito, dal Forcellini con una nota ap-
posta il 25 ottobbre 1751, alla voce “Thesaurus”, nell'undicesimo volume del suo manoscritto: “erit ... si vita viresque
suppetent, expeditior hic labor”. Bastarono, appunto, solo due anni alla conclusione dell’opera. Il 21 febbraio 1753,
ponendo il sigillo alla sua impresa, il Forcellini scriveva: “ad qualunicuinque finem, Deo favente, perveni. Reliquurn
est ut relegam”.
Restava la rilettura, che durò due anni e si concluse nell’aprile 1755. Il Forcellini aveva compilato 102 fascicoli per
un totale di dodici volumi, in circa trentacinque anni, ma l’impegno lessicografico, comprendendovi anche il rifaci-
mento del Calepino, era durato circa quaranta anni. Con una evidente vena malinconica, scrivendo ai chierici del
seminario, per esortarli alla cura dell’eloquenza romana considerata di grande giovamento a chi vuole servire la
Chiesa, il Forcellini ricordò la sua vita tutta trascorsa nell’immensa fatica di sistemare la latinità: “adulescens manus
admovi, senex, dum pefficerem, factus sum, ut videtis”.
Completata l’opera e la rilettura, il Forcellini ritenne necessaria la trascrizione del testo in una più accurata e chiara
grafia, essendo il suo manoscritto pieno di correzioni e di aggiunte, anche con foglietti laterali e stilato su carta piut-
tosto scadente. L’incarico venne affidato a Lodovico Violato, un impiegato della tipografia del seminario, esperto
della lingua latina. La trascrizione richiese molti anni di lavoro e fu completata nel novembre 1765 con grande accu-
ratezza ed eleganza di scrittura, in sedici tomi, ancora conservati nel seminario di Padova.
Ormai tutto era pronto per la stampa ma, probabilmente, difficoltà finanziarie o anche il calcolo di non lasciare in-
venduto il Calepino, ritardarono i tempi della pubblicazione. Il poderoso manoscritto rimase a lungo negli archivi, né
il Forcellini poté vedere la sua opera avviata in tipografia. Nel maggio del 1765 egli si era ritirato nella casa natia, ai
Faveri, nella contrada Fener, con una piccola pensione di 100 ducati annui. Si dedicò, quindi, all’educazione dei
giovani e alle confessioni, svolgendo, nella parrocchia di Campo, una discreta azione pastorale. Il Forcellini morì il 5
aprile 1768, nel martedì di Pasqua.
La morte del Forcellini fu, probabilmente, uno stimolo alla pubblicazione dell’opera. Fu, infatti, nello stesso anno che
il manoscritto, per ordine del cardinale Antonio Marino Priuli, da pochi mesi vescovo di Padova, venne mandato in
tipografia. Secondo la testimonianza del Violato nel gennaio 1769 la stampa era già ormai avviata. Fu Gaetano Co-
gnolato, che scrisse anche un’ampia prefazione alla prima edizione, a sovrintendere alla pubblicazione. La compo-
sizione richiese più anni di lavoro e il lessico del Forcellini vide la luce, forse, nei primi mesi del 1772, anche se
nell’intestazione fu indicata la data del 1771. Fu scelto il titolo di Totius latinitatis Lexicon consilio et cura Iacobi
Facciolati, opera et studio Aegidii Forcellini, alumni Seminarii Patavini lucubratum, essendo stata scartata l’ipotesi
bizzarra, suggerita, in un primo momento, dal Facciolati di titolare l’opera Grammatophylacium. In questa edizione,
accanto al nome del Forcellini appariva anche quello del Facciolati, quasi ne fosse coautore, ma V. De Vit chiarì
che in un primo momento l’intestazione era stata concepita come Latinitatis totius Lexicon in Patavino Seminario
cura et opera Aegidii Forcellini lucubratum, iussu et auspiciis Antonii Marini Cardinalis Prioli ep. editum. Il Forcellini,
che amava autoridimensionarsi, definendosi, scherzosamente “Calepinante”, secondo il suo stile misurato, aveva
suggerito titolazioni più modeste per la sua opera come, appunto, Latina lingua suis elementis digesta et illustrata
ad usum Seminarii Patavini oppure Elementa latinae linguae per ordinatam litterarum seriern digesta et exposita ad
usum Seminarii Patavini. La pubblicazione del Lexicon suscitò l’ammirazione degli ambienti culturali italiani ed eu-
ropei. L’opera fu studiata e ripresa da tutti i lessicografi successivi, da I.G. Sheller a K.E. Georges, a W. Freud, dal
quale poi attinsero N. Theil e E.A. Andrew per i dizionari latini, francese e americano.
8 ATTUALITÀ
La rielaborazione lessicografica della latinità, ebbe, nella concezione del Forcellini, come scopo primario quello di
fornire uno strumento più adeguato, semplice, preciso e ricco per l’eloquenza, innanzitutto religiosa, di cui il latino
era, all’epoca, veicolo essenziale. Si concretizzava, così, quella “via docta” alla “pietas” religiosa, che aveva avuto
nel fondatore del seminario di Padova, Gregorio Barbarigo, un grande ispiratore.
Per rendere più agevole la consultazione, l’ordine delle voci fu disposto dal Forcellini secondo un rigoroso criterio
alfabetico, con una chiara e precisa spiegazione dei termini latini, usando, talvolta, parole tratte perfino da idiomati-
smi veneti. Il Forcellini, per controllare l’esattezza dei vocaboli, esaminò le più accurate edizioni dei classici, i
grammatici e le raccolte epigrafiche e numismatiche, ricavandone nuove voci. Eliminò termini di dubbia provenienza
e introdusse i vocaboli dei mestieri, delle arti, dell’agricoltura, della medicina e altro attingendo ad autori come Vi-
truvio, Frontino, Vegezio. A tal fine risultò prezioso l’amichevole sodalizio culturale con gli scienziati dello studio pa-
tavino: G.B. Morgagni, G. Pontedera e G. Poleni, che fornirono chiarimenti tecnici al Forcellini, ricevendone spiega-
zioni lessicali per le loro ricerche su antichi autori latini di tecniche, agricoltura, medicina. Il Forcellini è attento alla
corretta ortografia delle parole, e di ciascuna fornisce informazioni sul genere, caso, flessione, sull’uso, frequenza,
arcaicità. Dei termini è indicata la quantità sillabica e l’etimologia, suggerita con cautela. Il primo significato indicato,
soprattutto in italiano e in greco, è quello corrente e più usuale, seguono poi i sensi figurati e anche le particolari
accezioni. Solo per alcuni termini vi sono spiegazioni nelle altre lingue europee. Il Forcellini omise, per una precisa
scelta, i nomi geografici e prosopografici, inserendo soltanto circa seicento voci aggettivali da essi derivanti. Dei vo-
caboli vengono indicate prima le citazioni degli autori di età “aurea” e “argentea”, seguono poi le testimonianze più
antiche e, quindi, quelle del periodo ritenuto della decadenza. Le citazioni degli scrittori in prosa sono accuratamen-
te indicate per libri, capitoli, sezioni; dei poeti secondo l’opera con il numero del verso. Non essendo tutte le edizioni
degli autori distribuite allo stesso modo il Forcellini, al fine di facilitare la consultazione dei testi, indicò il catalogo
delle edizioni da lui adoperate.
L’opera del Forcellini rimane esemplare per l’impianto e per la chiarezza del disegno, anche se contiene ancora fal-
se lezioni, inesattezze e lacune che furono poi corrette e integrate dalle successive edizioni curate da G. Furlanetto,
da V. De Vit e, più incisivamente, da F. Corradini. Ogni edizione del Lexicon ha una sua interessante storia: quasi
un monumento intorno al quale si adoperarono in molti a perfezionarlo. Il Furlanetto in un “Avviso letterario”, pubbli-
cato nel 1814 sul Giornale dell’Italia letteratia, aveva invitato gli studiosi di ogni parte d’Europa a segnalare aggiun-
te, a fare osservazioni in preparazione di un’appendice al Lexicon. L’aggiunta fu, poi, pubblicata a Padova nel 1816
e conteneva oltre 3-500 voci e nuovi vocaboli ricavati soprattutto dalle scoperte codicologiche di Angelo Mai. Conti-
nuarono l’opera del Forcellini, indipendentemente l’uno dall’altro, V. De Vit e F. Corradini. Quest’ultimo si era a lun-
go preparato, elaborando, sulla base anche degli esiti della filologia tedesca, nuovi e più scientifici criteri lessicogra-
fici. Una edizione anastatica della quarta edizione patavina a cura del Corradini fu poi pubblicata, nel 1940, dal se-
minario di Padova. L’opera forcelliniana era stata, intanto, integrata e completata con varie aggiunte e con
l’Onomasticon anche da G. Perin. Una ulteriore riproduzione anastatica dell’edizione del 1940 fu realizzata nel
1955.
A distanza di oltre due secoli il Lexicon forcelliniano risulta, ancora oggi, fonte preziosa di consultazione per le voci
non pubblicate dal Thesaurus linguae latinae, opera collettiva avviata all’inizio del XX secolo. Il confronto dà la mi-
sura della grande impresa compiuta dall’umile sacerdote che da solo schedò l’intera latinità.
9 ATTUALITÀ
10 CRONACA
Il saluto di Elia
Ciao, sono Elia Giacomelli, sono nato l’11 giugno 2017, volevo
attraverso le pagine del Tornado fare una sorpresa a mamma
Lorena e a papà Andrea, e salutare i miei nonni Nadia Franco
Dario e Pasqualina,i bisnonni Irma Alessandra Maria Antonia e
Giovanni, le zie Giorgia e Laura con Walter. Un bacione a tutti
e...evviva me!
11 COME ERAVAMO
La Banda
di Campo,
fine anni
Quaranta
a cura di Silvio Forcellini
Sempre il nostro abbonato Lu-
ciano Mondin ci ha fornito que-
sta bella foto tratta dal suo ine-
sauribile archivio. E’ stata scat-
tata nell’anno 1948 o 1949 e vi
è ritratta la Banda di Campo
durante una sua esibizione nel-
la piazza della frazione.
12 RASSEGNA STAMPA
Il raro esemplare investito a Malga Domador, in una Zps della Rete Natura 2000
I piccoli atleti costretti alla trasferta via terra per lo sciopero dei trasporti aerei.
Da onorare c’era l’impegno con i cugini d’Oltralpe gemellati con Segusino.
cugini d’Oltralpe lo hanno fatto lo stesso, sciroppandosi ben 26 ore di pulmino, tra andata e ritorno, per rispettare la
parola data. Il torneo si è tenuto il 9 giugno scorso, il lunedì prima la ferale notizia: voli e treni bloccati per lo sciope-
ro. A questo punto che fare? Visto che si tratta di under 10, la strada più semplice era quella di soprassedere. Ma
giammai: i ragazzi del Rugby Valdobbiadene avevano infatti un compito da svolgere molto importante, oltre a quello
di scendere in campo e fare meta: rappresentare il Comune di Segusino (dove ha sede il loro campo) a casa di
quello francese di Saint Jory, con cui è gemellato.
Un’unione così forte che quando i francesi (in
gran parte discendenti di emigrati di Segusino e
vicinanze, tanto che la lingua franca è stato il dia-
letto) hanno saputo che il loro arrivo era in forse,
si sono subito offerti a pagare la trasferta. Ma non
è stato necessario. Grazie alla società e a un
contributo del Comune, in fretta e furia è stato or-
ganizzato un pulmino in modo da permettere che,
seppur al minimo, fosse possibile comporre una
squadra: dunque cinque bambini e quattro ac-
compagnatori. A parte qualche pausa tecnica, in
14 ore sono arrivati a destinazione e, seppur era-
no ormai le due di notte, hanno trovato ad atten-
derli in piazza i “gemelli” dello champagne, che li
hanno ospitati in famiglia, come faranno il pros-
simo anno gli atleti del Rugby Valdobbiadene. Il
tempo di dormire qualche ora e poi era già ora di andare in campo. E una volta finito il torneo, sabato scorso, una
notte di sonno e poi via, altre 12 ore di pulmino per tornare a casa. «Un’esperienza molto positiva anche per questo
imprevisto dello sciopero», commentano genitori e organizzatori, «che ha insegnato ai ragazzi che bisogna fare di
tutto per rispettare gli impegni presi anche se costa sacrificio. Un grazie all’amministrazione di Segusino che ha
permesso questa trasferta all’ultimo momento». A proposito, però, com’è finito il torneo? I nostri hanno vinto una
partita su quattro: ma questo è un dettaglio, se non altro perché nelle gambe avevano quattordici ore di strada.
da “La Tribuna di Treviso” del 18 giugno 2018
LETTERE AL TORNADO
Bravo Alessandro! Il suo racconto sembra quasi abbia ispirato chi ha proposto le tracce del compito di italiano per la
maturità. Il tema della solitudine è stato, infatti, uno degli argomenti della prova d’esame. Complimenti al nostro
giovanissimo studente, al quale raccomandiamo di continuare a curare la vena letteraria.
Il Tornado avrà bisogno di nuove leve per continuare ad esistere…
15
16 RACCONTO
(M.M.) Dagli scritti di Olivo Andreazza segnalati da Alessandro Bagatella. Racconto scritto nel 1974, in cui Olivo
con la scusa della cronaca del pellegrinaggio, racconta anche il territorio che il corteo attraversa. Invenzione me-
scolata alla realtà per dar vita ad un racconto che sembra, a tratti, irriverente, ma costruito per rendere verosimile
questa “cronaca” d’altri tempi, alternando storia e geografia alle avventure dei pellegrini.
Il Pellegrinaggio
racconto di Olivo Andreazza scritto il 05.11.1974
Quell’anno vi era grande siccità nella nostra valle perché da quasi due mesi non cadeva una sola goccia di pioggia dal
cielo. Infatti il dieci di giugno c’era stato un violento temporale; da quel giorno fino al sette di agosto i giorni di sole si
erano susseguiti senza interruzione. Si pensi un poco ai terreni dei nostri paesi, costituiti da materiale di frana, prove-
nienti dai ripidi pendii sovrastanti: terra e ghiaia mescolati assieme ossia molta ghiaia e poca terra. Sarà facile allora
comprendere in quale stato si trovassero allora i campi di granoturco, i modesti vigneti ed i prati. La gente si dedicava
ormai con poco entusiasmo ai consueti lavori dei campi e attendeva rassegnata che il tempo si decidesse a cambiare.
Qualcuno, però, non si rassegnava alla sorte, perché sorretto da una incrollabile fede nella divina provvidenza. La mat-
tina di quel giorno mio fratello ed io ci siamo alzati come il solito alle sei e abbiamo ripreso a tagliar erba con la falce
messoria sui ripidi pendii di Cengia Vainel. Nitidi ci giunsero i consueti rintocchi della campana di Scalon ad annunciare
l’inizio del giorno. Verso le sette, però, si vede un insolito movimento di persone sul sagrato della chiesa. Arriva sempre
più gente da tutte le case vicine e lontane e, chi seduti sul muretto chi in piedi sembra attendere ordini da qualcuno. Si è
saputo in seguito che la sera precedente vi era stata una riunione dei saggi del paese per decidere quali misure prende-
re per combattere la siccità che ormai minacciava fame e carestia per tutti quanti. Mio zio Giovanni era un uomo amato
e stimato da tutti, in paese e nei dintorni; era amato per la sua bontà, l’altruismo, il timor di Dio. Stimato per la saggezza
del suo pensiero e per il modo calmo e sereno con cui affrontava le avverse contingenze della vita. Egli sostenne, du-
rante la riunione, che l’unica cosa da tentare era quella di fare un pellegrinaggio alla Madonna di Caravaggio per invoca-
re la Lei misericordia e aiuto affinché facesse cadere la pioggia in questa povera contrada in modo da scongiurare
l’incombente minaccia della fame. Meno Berti, noto per le sue tendenze antireligiose, insisteva invece che l’unico modo
per scongiurare il disastro era quello di mobilitare tutta la gente del paese e anche muli, asini e cavalli e portare con ogni
sorta di recipienti, l’acqua del Piave su nei prati e nei campi al fine di ridar loro nuova linfa vitale. Quando questi ebbe fi-
nito di parlare, intervenne Canipa Ragionevole, storico del paese, egli affermò con la massima convinzione che il pelle-
grinaggio era l’unica via di salvezza e a sostegno della sua tesi citava date storiche precise: giorno, mese, anno di secoli
addietro quando le preghiere della gente di Scalon furono accolte in cielo e la tanto attesa pioggia cadde abbondante
sulle nostre terre assetate. Le messe ripresero a crescere e non ci fu fame per nessuno. Soltanto una volta, il 12 agosto
1814 secondo le sue conoscenze, il popolo di Scalon non venne esaudito. Sembra, però, che durante l’inverno prece-
dente, alcune persone del paese avessero commesso gravi peccati. Eugenio Corso parlò per ultimo, sostenendo la tesi
dello zio Giovanni e si espresse in questi termini: “Il popolo di Scalon è sempre stato modello di virtù a tutti i nostri fratelli
dei paesi vicini. Esso, come dimostra la storia, è il più qualificato per chiedere soccorso alla Madonna; non vorrete per
caso che sia la gente di Carpen a invocare il suo aiuto poiché la gente forestiera sa bene che è un paese, diciamo, di
costumi piuttosto licenziosi insomma, si conduce un’esistenza troppo profana. Non è che manchi la gente proba ed one-
sta, ma la Madonna non concede certo le sue grazie ad un paese dove si pecca con tanta facilità. Quelli di Caorera tra-
scorrono la maggior parte dell’anno sui monti a fare carbone di legna o pascolare gli armenti, dimenticando i doveri di
ogni buon cristiano. Quando la stagione è terminata e scendono al paese, vanno all’osteria a bere e giocare a carte in-
vece di recarsi in chiesa a pregare. Nemmeno il popolo di Marziai che incorre negli stessi peccati di quelli di Caorera
con in più, da parte di alcuni, qualche peccato di frode in commercio. La gente di Santa Maria è, in generale, opportuni-
sta e frequenta le pratiche religiose solo per farsi notare dagli altri; insomma ha poca fede. Basta dire che Momi Fabiane
e il signor Birolin sono dei veri “turchi” e rifiutano perfino di far entrare il prete nella loro casa per la benedizione annuale.
Ma non è tutto: quando si deve portare legna e uva per il cappellano, viene portata la legna più scadente e l’uva meno
matura. I vecchi del paese ricordano di aver sentito dire che molti anni addietro era stato fatto un pellegrinaggio alla Ma-
donna di Caravaggio dagli abitanti di uno dei paesi vicini, sempre per chiedere la grazia della pioggia ma non sono stati
esauditi perché, appunto, non ne erano meritevoli. “Gli abitanti di Sanzan sono troppo lontani dal Signore – continua
Eugenio Corso – e quelli di Vas e di Quero più lontani ancora. Gli abitanti di Scalon, invece, sono sempre stati virtuosi,
rispettosi della morale cristiana, ospitali e caritatevoli, laboriosi, sobri nei costumi, morigerati nelle libagioni. L’umile
campana della loro chiesetta, diffuse sempre nel corso dei secoli ed anche nei momenti più difficili, col suono dei suoi
rintocchi, il primo saluto del giorno nascente, l’annuncio del mezzodì e l’Angelus al calar della sera per ricordare alle
anime pie il momento della preghiera quotidiana”. Bisogna dire, ad onor del vero, che qualche volta, la domenica sera,
dalle finestre dell’osteria della Monica, uscivano canti non proprio ortodossi, ma era talmente poca cosa che non venne
tenuta in alcun conto nella riunione la quale si concluse con la decisione di fare il pellegrinaggio. Quella sera stessa
vennero inviati dei ragazzi ad avvisare coloro che si trovavano nelle malghe in montagna che la mattina seguente alle
ore sette la processione sarebbe partita dal sagrato della chiesa. Rimanessero alle baite solo le persone necessarie alla
sorveglianza degli armenti. La Processione. Il cielo era come il solito, sereno e un limpido sole illuminava già le cime
dei monti; noi continuavamo a seguire con lo sguardo attento, il lento fluire della gente sul sagrato della chiesa finché
all’ora stabilita, tutti si disposero in doppia fila, pronti ad iniziare la marcia. Davanti a tutti era lo zio Giovanni come rap-
presentante del clero, preceduto dal crocifero. Seguivano: Canipa Ragionevole, Meno Berti, E. Corso e gli altri saggi.
Poi tutti gli altri uomini. Per ultime le donne e le fanciulle. La processione si mette in movimento al canto della Salve Re-
gina, seguito da quello delle Litanie, scandendo lentamente le note. Raggiunse tosto la strada comunale, proseguendo
in direzione sud-ovest sempre cantando inni in onore della Beata Vergine. Gli abitanti del Borgo attendevano con umiltà
il momento di potersi unire ai loro compaesani in processione: gli uomini con il berretto in mano e un’espressione com-
punta; le donne con il fazzoletto scuro in testa, annodato sotto il mento, erano genuflesse e recitavano preghiere sotto
voce, muovendo appena le labbra. I bambini, per contro, avrebbero voluto giocare, ma rimanevano fermi, intuendo che il
17 RACCONTO
momento non era il più indicato a dar libero corso ai loro desideri. Lo zio Giovanni aveva un’espressione ieratica mentre
dirigeva i canti, regolandone il ritmo. Camminava a passi lenti, giungendo ogni tanto le mani mentre volgeva lo sguardo
al crocifisso che lo precedeva. Di statura un poco sopra la media e settanta anni di età, lo zio Giovanni era ancora pieno
di vita anche se aveva difficoltà a camminare per via della gamba destra con il ginocchio rigido in seguito ad un infortu-
nio sul lavoro. I suoi occhi erano chiari, situati in due orbite profonde e lo sguardo sereno di chi ha l’anima pura; la sua
persona diffondeva uno strano senso di quiete che solo pochissimi posseggono. Intanto i pellegrini, uniti a quelli del
Borgo continuavano il loro lento cammino verso la speranza mentre pochi metri più sotto scorrevano fresche e limpide le
acque del Piave. Questo fiume così ricco di tanta linfa vitale era certo in stridente contrasto con i poveri prati sovrastanti
sui quali ormai l’erba più non cresceva, le piante dei fagioli, nei campi, erano quasi secche e quelle del granoturco si ar-
rotolavano nel disperato tentativo di sottrarsi ai cocenti raggi del sole mentre molte piante di viti con radici poco profonde
se seccavano all’improvviso impossibilitate dalla mancanza di acqua a mandar avanti il loro processo vitale. Negli al-
peggi le fosse che contenevano l’acqua piovana destinata ad abbeverare gli armenti e agli altri usi dell’alpe, erano quasi
asciutte e l’umidità della notte pressoché nulla. L’erba sui pendii dei monti era completamente secca e alcune piante di
carpino nero avevano le foglie gialle. La terra non si raffreddava più durante la notte e il cielo rimaneva limpido durante
tutte le ventiquattro ore del giorno. Scalon Brut. Quando i pellegrini percorsero il tratto di strada incavata nella roccia di
Scalon Brut, l’eco dei canti giungeva ancora più nitido ai nostri orecchi. E giunti alla grande caverna, molte donne si fe-
cero il segno della croce per difendersi dagli spiriti maligni anche se erano sicure di non subire alcun male dato che era
pieno giorno. Testimonianze di persone che sono transitate di qui a notte fonda, affermano di aver sentito urla tremende
uscire dall’antro e taluno, forse sotto l’effetto dei fumi del vino o della cattiva nutrizione, asserisce di essere stato trasci-
nato fino all’imbocco della caverna ma a quel punto, liberata la mano destra dalla stretta di un demonio si fece subito il
segno della croce mettendo così in fuga i nefasti demoni. Ritornato quindi sulla strada, con l’animo in subbuglio per il
pericolo corso, riprende il cammino verso casa. Lasciata alle spalle Scalon Brut, questa enorme sporgenza rocciosa che
precipita per centinaia di metri a picco sul Piave e che ancor oggi è ben levigata dall’azione erosiva del grande ghiac-
ciaio che milioni di anni fa solcava questa valle, la processione continua il suo cammino concedendosi un momento di
tregua nelle preghiere. Andrea Checolina attendeva da un bel po’ il passaggio dei suoi compaesani, sulla porta della
sua umile casetta, con il cappello in mano, pantaloni e giacca di velluto a coste, molto lisi, la catena dell’orologio ben vi-
sibile sul gilet, un fuggente sorriso sulle labbra, e un’espressione sul volto sempre in bilico tra il serio ed il faceto. Era un
uomo di indole mite, ma non si poteva mai capire quando parlava sul serio e quando no. Non bisogna dimenticare che
aveva una vivida fantasia per cui, con la massima serietà, raccontava tutta una serie di bugie che faceva sempre rima-
ner stupiti. Andrea Checolina veniva considerato da tutti come il più celebre cacciatore che fosse mai esistito in quella
contrada. Ricercatissimo ammaestratore di cani per cui in più occasioni ricchi signori gli offrirono un lauto stipendio e
una vita da signore se solo avesse voluto andare ad abitare nelle loro case a far scuola ai loro cani da caccia. Ma egli,
che amava la libertà al di sopra di ogni altra cosa al mondo, non volle mai abbandonare la sua umile casa e il suo picco-
lo podere dal quale ricavava quel tanto che gli permetteva di tirar avanti alla meno peggio assieme ai suoi due figli. Sua
moglie era morta in giovane età, lasciandogli due bambini: Elsa e Giovanni i quali crebbero felici in quel luogo tanto soli-
tario e povero. Elsa aveva una bella voce di soprano e Giovanni di Tenore. Quando, già grandi, nelle sere d’estate can-
tavano assieme qualche canzone davanti l’uscio di casa, la loro voce attraversava il Piave ed era per noi un vero piace-
re stare ad ascoltarli. E lo stesso avveniva quando Elsa si recava al fiume a lavare. Gli anni passarono e anch’essi do-
vettero andare per le vie del mondo e confondersi tra la folla anonima delle grandi città. Così, Andrea Checolina rimase
solo e continuò a vivere la sua esistenza libera e solitaria. D’inverno andava nelle famiglie dei paesi all’intorno ad am-
mazzare il maiale e confezionare le sue carni in saporiti salami, cotechini ed altre cose ancora. Però in fatto di puntualità
non si poteva fare il benché minimo affidamento su di lui. Se qualcuno lo rimproverava per non aver mantenuto gli im-
pegni presi, aveva subito pronta una delle sue innumerevoli e sempre convincenti bugie. In compenso portava sempre
con sé allegria e buon umore; e poi, il solo guardarlo era sufficiente a disporre al riso anche la persona più riservata.
Adesso si era unito anche lui alla processione, claudicando come sempre per via della gamba destra leggermente più
corta dell’altra. Con quale disposizione d’animo vi partecipasse, nessuno lo avrebbe saputo dire. Castelnuovo. Ora la
strada si allontana alquanto dal letto del Piave e, di fronte ai pellegrini, sulla riva destra, si erge possente la massiccia
costruzione del Castelnuovo, solida fortezza, eretta nel dodicesimo secolo dall’allora fiorente Repubblica di Venezia.
Essa, dopo aver assistito per secoli alle lotte tra veneziani e i barbari del nord, questi ultimi a volte anche provenienti da
lontani paesi, ed aver resistito alle frequenti e furiose inondazioni del Piave, è tuttora in ottimo stato di conservazione.
Attraverso le sue robuste porte sono passate genti di ogni contrada; seconda delle circostanze il castello è stato adibito
a fortezza, carcere, rifugio per i viandanti, stazione di sosta per le zattere provenienti dall’alto corso del Piave e dirette
verso la sua foce ed infine per molti anni venne usato come locanda e luogo di traffici non sempre puliti. Durante una
delle tanta battaglie tra i soldati della Serenissima e i barbari del nord, venne rinchiuso nella cella più oscura della sua
prigione il capitano veneziano Gerolamo Emiliani. E in merito a questo fatto, narra la leggenda che l’Emiliani, vissuto fin
dall’infanzia nell’agiatezza, mentre era rinchiuso nel carcere, riandò con il ricordo ai lontani anni della sua fanciullezza.
Rivide come in sogno la sontuosa dimora nella città lagunare dove era cresciuto e sua madre che con tanta cura e tanto
amore lo aveva allevato. Osservando il tetro ambiente dove era finito, le pesanti catene ai piedi e alle mani e il duro trat-
tamento dei suoi carcerieri, si lascia vincere dal dolore. Ben tosto, però, gli vengono alla mente le parole che la mamma
sovente gli diceva dopo aver recitato le preghiere della sera: “se un giorno ti trovassi in pericolo di vita, invoca il soccor-
so della Madonna; vedrai che essa ti verrà in aiuto”. Sollevato alquanto da questo pensiero, Gerolamo Emiliani si mette
a pregare con fervore, invocando Maria Vergine affinché venga a liberarlo da questa tetra prigione. Finito che ebbe di
pregare si meravigliò di aver potuto recitare quelle preghiere che ormai da tanti anni aveva dimenticato. Ma ecco che
mentre era immerso in questi pensieri, gli appare davanti la Madonna, tutta avvolta in una nube splendente: “Eccomi”,
disse, “ho esaudito le tue preghiere”. Detto questo, gli sciolse le pesanti catene con le quali era legato e prendendolo
per mano, lo condusse fuori dalla fortezza, attraversando il piazzale antistante gremito di soldati nemici. Questi ultimi,
colpiti da tanto splendore, si scontano in fretta facendo largo e togliendosi l’elmo dal capo di inchinano deferenti. Gero-
lamo Emiliani ritorna a Venezia, informa i suoi superiori dello straordinario evento e chiede di poter dedicare la restante
sua vita ad allievare il dolore dell’umanità. Dopo la sua morte fu fatto santo ed ancora oggi è venerato in molte parti del
mondo. Il Ponte di Vas. Il sole, già alto nel cielo, scaldava con i suoi roventi raggi cose e persone ma i nostri pellegrini
erano abituati alla calura estiva; proseguivano quindi il loro cammino ripetendo il canto delle Litanie. Ma eccoli passare
ora presso il ponte di Vas il quale trovandosi sul punto più stretto della valle sarà lungo centocinquanta metri circa. Co-
18 RACCONTO
struito agli inizi di questo secolo, esso ha assistito a parte della prima guerra mondiale, finché fu distrutto dall’esercito in
ritirata. Ricostruito di nuovo verso il 1920 uguale a prima, vide passare le ultime zattere costituite da tronchi di abete op-
portunamente disposti e provenienti dal Cadore. Queste zattere trasportavano ogni sorta di mercanzie e anche qualche
passeggero che aveva l’ardire di salirvi sopra. Esse erano sovente ingovernabili specialmente quando si trovavano sulle
rapide. Qualche volta finivano per incagliarsi ed allora i zatterieri davano libero sfogo alla loro rabbia profferendo ogni
sorta di bestemmie tanto che si erano aggiudicati il titolo di grandi bestemmiatori. Prima che il ponte fosse costruito,
c’era una barca che faceva da traghetto da una riva all’altra del fiume. Trasportava più che altro persone e qualche ar-
mento; questi ultimi soprattutto nel periodo della transumanza. Molto poche le mercanzie. Il ponte di Vas continua la sua
esistenza normale fino a quando nell’autunno dell’anno 1966 si abbatte sulla nostra valle uno dei più grandi nubifragi
che la storia ricordi. Narrano quelli che si trovavano nella zona in quella occasione che innumerevoli torrenti di pioggia
caddero per giorni senza tregua mentre il vento, fortissimo, portava via i tetti delle case e le persone che per ventura si
trovavano all’aperto; dai ripidi pendii montani cadevano frane gigantesche. Insomma, sembrava il diluvio universale. Il
nostro amato fiume ingrossava a vista d’occhio, trasportando nel suo alveo ogni cosa tra cui enormi tronchi di abete, la-
rice ed altre piante. Il ponte, ben piantato sulle sue fondamenta, reggeva bene alle continue sollecitazioni delle acque in-
furiate, ma un po’ alla volta i grandi tronchi cominciarono a fermarsi sui piloni e quindi sbarrare il passaggio dell’acqua
prima su una arcata, poi su un’altra e quindi su tutte quante. Cadeva la pioggia sempre torrenziale, il vento soffiava for-
tissimo e il livello dell’acqua saliva più rapido che mai. Giunse in breve fino sotto gli archi, poi su, sempre più su fino al
piano della strada. Le acque premevano sulla struttura del ponte con una enorme pressione sempre crescente finché ad
un tratto la gente delle case vicine ode un tremendo schianto: il ponte viene spazzato via per intero in un colpo solo e
portato a valle per alcune decine di metri. Nello stesso istante prese il via una gigantesca onda allagando campi e case
al suo passaggio. Nelle valli laterali dell’alto corso del Piave si ebbero danni ingenti: lunghi tratti di strade asportate, pon-
ti travolti, case sepolte da frane e persone inghiottite per sempre dalle acque infuriate. I nostri pellegrini sono ora nel ter-
ritorio di Vas e si avviano su per la leggera salita alla cui sommità Sant’Antonio da Padova dal sommo della sua mode-
sta e trascurata chiesetta impartirà ai fedeli che gli passano ora davanti, la sua paterna benedizione. Subito dopo la
chiesa e un poco scostato dalla strada maestra, ecco apparire il palazzo dei signori Zuliani sul cortile del quale giocano
alcuni bambini e ragazzi; nessuno di loro fa caso alla processione che passa sulla strada. Più avanti e ancora più lontani
dalla strada, si vedono i capannoni e la ciminiera della cartiera di Vas. La cartiera di Vas. Fondatore di questa benefica
industria è stato il padre degli attuali proprietari della fabbrica il quale, girando per il mondo, dotato di un’ottima intelli-
genza, imparò i segreti per fabbricare la carta. Ritornato a casa dopo alcuni anni di emigrazione, il vecchio Zuliani fece
canalizzare l’acqua di una grossa sorgente che nasce alla base del monte che sovrasta il paese e la portò vicino alla
fabbrica, ricavandone l’energia necessaria ad azionare le macchine, usandola poi per il lavaggio delle materie che veni-
vano lavorate. Questa industria portò ricchezza alla famiglia Zuliani e benessere a gran parte degli abitanti di Vas. Dopo
aver rivolto una fervida preghiera al grande santo da Padova affinchè si renda interprete delle istanze della gente di
Scalon presso la Madonna, mio zio Giovanni da il segnale della ripresa dei canti. Fatta una leggera discesa e traversato
un piccolo ponte, la processione inizia la salita che conduce al centro abitato di Vas. Laggiù in fondo, sulla sinistra, ai
piedi del monte, si vede una grande caverna nella quale, secondo studi recenti, fin da tempi remotissimi vi abitarono de-
gli esseri umani. Continuando nei lor mesti canti, i pellegrini attraversano il paese tra l’indifferenza dei presenti ma nes-
suno di coloro che formavano la processione si scompose per questo atteggiamento e le preghiere alla Beata Vergine
risuonarono più alte che mai. La grande maggioranza della gente di Vas viveva allora del lavoro in cartiera ed era molto
egoista e si riteneva superiore agli abitanti dei paesi vicini. Tutti i giorni c’era gente all’osteria; chi giocava a carte, chi a
bocce e chi conversava; altri giocavano a tamburello sulla piazza o stavano appoggiati ai muri delle case a godersi il so-
le. Tutti avevano la schiena ben dritta, la pelle del volto senza screpolature e pochi calli alle mani. Salvo che a quei po-
chi che lavoravano la terra, a loro non interessava gran che di quello che faceva il tempo: secco o pioggia, vento o
grandine la loro vita andava avanti sempre bene. Così, chiusi nel loro egoismo, non si preoccupavano per nulla delle
necessità altrui. Il sole scalda sempre di più e rivoli di sudore solcano le guance delle persone più anziane mentre il
gruppo di oranti sta passando davanti alla bianca chiesetta di santa Caterina situata in prossimità delle rocce scoscese
che separano il territorio di Vas da quello di Segusino. Il Piave scorre ora nel suo letto assai profondo, proprio sotto la
strada. Quest’ultima lascia la pianeggiante conca di Vas per inoltrarsi, stretta e tortuosa, in quel di Segusino. Sulla de-
stra orografica del fiume corre la linea ferroviaria che, passando per Feltre e Belluno perviene a Calalzo. E, più sopra, si
estende la campagna di Quero la cui chiesa parrocchiale domina il paesaggio con la sua grande mole. Il paese di Se-
gusino. Quero è situato su di un promontorio morenico dell’ultima glaciazione. Il terreno è poco fertile e gli abitanti si
danno delle arie perché vivono in un capoluogo di comune e accettano con degnazione il bicchiere di vino che vien loro
offerto da uno di Schievenin, di Carpe o di Santa Maria. Le donne di solito hanno poca voglia di lavorare e sono molto
esigenti quando vanno a bottega. Le due grandi chiese di Segusino sono ora ben visibili ai nostri pellegrini i quali fanno
il loro ingresso nel paese in perfetto ordine anche se affaticati. Neanche qui, però, le accoglienze della popolazione fu-
rono tanto calorose per via dei forti contrasti, sorti anche in altre occasioni, fra i proprietari delle terre umide che si tro-
vano sulla pianura presso il fiume da una parte e quelli che possedevano le terre asciutte delle rive e che si estendeva-
no fino a Miglies e Rivagrassa, dall’altra. Questi ultimi aspettavano con ansia la pioggia per salvare i loro raccolti, giunti
ormai al limite di resistenza. I primi, dal canto loro, si auguravano che non piovesse nel timore che troppo abbondanti
piogge facessero marcire i loro abbondanti raccolti. Così, durante il passaggio della processione, erano quasi tutti
sull’uscio di casa: metà con il viso arcigno, augurandosi in cuor loro che i voti dei pellegrini di Scalon non venissero
esauditi; l’altra metà con sul volto un’espressione di riconoscenza ed affetto, pronunciava parole di incoraggiamento per
la santa iniziativa intrapresa. Le fornaci di calce di Fener, con le loro tozze torri, sono ormai in vista; anche il luogo dove
il torrente Tegorzo entra nel letto del Piave appare quasi vicino. Le sue fertili acque vengono dal fondo della valle di
Schievenin dove alla base di una grande roccia calcarea sgorga una grossa polla d’acqua. Molti paesi della ”Marca Tre-
vigiana” sono riforniti per i loro usi domestici dell’acqua del Tegorzo. Il ponte di Fener con la sua struttura metallica si
trova poco oltre. Da quando è stato costruito si è rivelato instabile e durante le piogge primaverili o autunnali, viene so-
vente chiuso al traffico. Pare che le fondazioni di alcuni piloni non rispondano alle esigenze di stabilità richieste dalla na-
tura del suolo. Poco dopo il ponte inizia una salita abbastanza ripida ma in compenso ben ombreggiata da alti platani e
acacie che si trovano ai lati. Qui i nostri pellegrini trovano un po’ di refrigerio dalla calura e poi l’approssimarsi della meta
infonde nei loro animi nuova forza. Dalla cima della salita appare nitido il santuario, sfavillante al sole. Si ricompongono
le fila, si asciugano i sudori dalla fronte e si entra nel tempio del quale in precedenza erano state aperte le porte princi-
19 RACCONTO
pali. All’interno della chiesa c’è una dolce penombra che dispone gli animi dei fedeli alla preghiera e alla meditazione. In
tanto silenzio risalta ancora di più le ultime invocazioni dei fedeli alla Madonna affinché faccia cadere la pioggia sulle
aride ed assetate terre della valle del Piave. Assolto il loro compito, i pellegrini escono dal tempio e una parte si appres-
sa ad una fontana e toglie dalle sporte i viveri che aveva portato con se. Gli altri entrano nella vicina osteria per bere du-
rante il loro frugale pasto, un buon bicchiere di “prosecco” dal gradevole profumo e che proprio qui su questa terra sola-
tia viene coltivato. Il luogo dove si trovano ora i pellegrini è veramente suggestivo. Molte piante sempreverdi, ogni sorta
di piante da frutto e tanti filari di viti. Strade pulite e case linde; ovunque si notano i segni dell’ordine e della pulizia. Il pa-
norama che si vede all’intorno non è meno interessante: il monte Cesen, alle spalle, con i vasti pendii prativi, il massic-
cio del Grappa con sulla vetta più alta il grande monumento ossario, attorno al quale si trovano ancor oggi i segni della
lontana guerra 1915-1918. AI piedi del monte si adagiano in amene posizioni i paesi di Possagno, Cavaso e, più vicino;
Pederobba. Più a sud vi sono i Colli Asolani che partendo dalla Madonna di Rocca presso Cornuda, vanno fino ad Aso-
lo. Ancora a Sud, tolto qualche lieve promontorio presso Montebelluna e quello poco elevato ma esteso del Montello, si
estende la fertile pianura che va fino al mare. Alla sinistra, ai piedi della catena dei monti che dal monte Cesen va fino al
Nevegal, sono situati i rinomati vigneti di Valdobbiadene e Conegliano. Il Ritorno. Ammirando un panorama così sug-
gestivo e consumando con appetito il pur modesto desinare, i pellegrini si sentono veramente ristorati. Così, divisi in
piccoli gruppi, chiacchierando allegramente, riprendono la via del ritorno. I più anziani della brigata, però, danno ancora
un’occhiata al cielo per vedere se mai ci fosse qualche segno di cambiamento del tempo: una piccola nube si è formata
sulla vetta del monte Cesen non è certo quello il luogo dove hanno origine grandi formazioni nuvolose. Anche sugli Al-
topiani di Asiago vi sono delle nuvole, ma non danno a sperare nulla di concreto. Il massiccio del Grappa è stato fin dai
tempi più remoti, una vera e propria fabbrica meteorologica. E il benessere delle popolazioni contadine che per millenni
sono vissute in un raggio assai ampio attorno ad esso, dipendeva dal tipo di nuvole che venivano a formarsi lassù. Quel
giorno, però, non la più piccola nube era nell’aria in quei luoghi. Nonostante questi segni poco propizi, anche gli anziani
si misero sulla via del ritorno con molta speranza nel cuore. Ben presto raggiunsero gli altri paesani e assieme ad essi
continuarono il cammino. Essendo pomeriggio inoltrato, il caldo era meno afoso in modo che potevano procedere con
minore fatica. Sempre conversando tra loro, i pellegrini oltrepassano il ponte di Fener e approssimandosi a Segusino,
videro la bella filanda, orgoglio della gente del posto. Costruita tanti anni prima da un uomo pieno di iniziativa e di genio,
in essa venivano lavorati i bozzoli dei bachi da seta prodotti copiosamente in tutta la zona circostante. Molte persone, in
particolare donne e fanciulle, avevano un lavoro fisso con adeguato compenso. Il filato che ne usciva era di prima quali-
tà ed a questo proposito mio nonno raccontava che un anno venne allestita una mostra concorso delle sete prodotte nel
mondo. Essa ebbe luogo a Venezia e molti furono i partecipanti, giunti anche dal lontano Oriente. Gli esperti esamina-
rono con competenza i vari campioni esposti ed assegnarono il primo premio a quello proveniente dalla filanda di Segu-
sino sia per la maggior brillantezza della seta che per la perfezione della filatura: e la gente del paese era molto fiera di
questa azienda che concorreva in modo così degno al benessere di tutti. Nuvole sopra il Grappa. La comitiva oltre-
passa l’abitato, si inoltra tra le rocce scoscese che lo seguono e ben presto si trova nei pressi della chiesetta di santa
Caterina in quel di Vas. A quel punto lo zio Giovanni volge ancora una volta lo sguardo verso cima Grappa e con sollie-
vo vede che attorno alla sommità si era formata una densa nube. Lo comunica agli altri e tutti ebbero l’impressione che
qualcosa di buono stesse maturando sul monte Grappa. Riattraversando l’abitato di Vas i pellegrini diedero uno sguardo
alla canonica dove allora il parroco che abitava, era considerato dai bambini il più grande distributore di ceffoni della
diocesi di Padova. Presso la chiesetta di Sant’Antonio si fermarono un poco per riposare e dissetarsi. Di fronte a loro
stava la bella villa dell’industriale Zuliani con il giardino ben curato davanti: aiuole piene di fiori e piante con molti frutti
seminascosti tra le foglie; tutto attorno era bello perché qua e la correvano ruscelli d’acqua e quindi i prati erano verdi e
le messi sui campi maturavano normalmente. Signore ben vestite si muovevano con grazia seguite da solerti camerieri;
bimbi e ragazzi che giocavano con oggetti mai visti dai loro coetanei di Scalon. Eppure dai volti dei presenti non traspa-
riva invidia, ma solo ammirazione per quel luogo e quella agiatezza. Intanto con grande sollievo dei pellegrini, le nubi
sopra il Grappa diventavano sempre più grandi alimentando in loro la fiducia nell’aiuto della Beata Vergine. Adesso sta-
vano per inoltrarsi nella stretta valle e avrebbero perciò un orizzonte più limitato. Una improvvisa lieve brezza aveva rin-
frescato i corpi accaldati dei viandanti mentre la nuvolosità aumentava a vista d’occhio. Sul Grappa in questo frattempo
e per effetto dello scontro tra le correnti d’aria calda provenienti dalla pianura con quelle fredde del nord, vengono a
formarsi grandi nubi temporalesche il cui colore grigio-piombo, causa non poche preoccupazioni a coloro che le osser-
vano. Erano circa le quattro del pomeriggio quando una grande nube, a quota più bassa delle altre, si stacca dal monte
Grappa e percorre l’ampia valle di Alano preceduta da un forte vento. Passa sopra il villaggio di Colmirano poi su quello
di Campo, lasciando cadere qua e là qualche chicco di grandine. La gente guarda con timore verso il cielo mentre la
nube continua la sua corsa verso oriente. Oltrepassato il torrente Tegorzo dalle limpide acque, lascia cadere grossi
chicchi di grandine su giardini coltivati con amore, prati e campi assetati di acqua, case, vie e piazze. I chicchi rimbalza-
no al suolo e la gente del posto guarda sbigottita. Le campane delle chiese suonano a distesa e i più vicino corrono in
queste a chiedere al Signore di soccorrerli in questa grave sventura. Quero e la sua campagna sono ormai sotto il tiro
diretto di questa nube apportatrice di desolazione e carestia. Continua ad avanzare, oltrepassando il monte Cornella, di-
rigendosi verso la stazione ferroviaria di Quero e del villaggio montano di Cilladon. I nostri pellegrini hanno già oltrepas-
sato il ponte di Vas ed anche Scalon Brut quando vedono la nube tempestosa passare sopra Castelnuovo come
un’immensa onda marina e la sorpresa è così grande che rimangono tutti senza parola e con sul volto i segni dello
sconforto. Tenendosi uno vicino all’altro come per proteggersi a vicenda, si fermano tutti, pallidi in volto, a guardare con
occhi smarriti il procedere di quella nube che ben presto avrebbe distrutto quel poco di raccolto che si era salvato dalla
siccità. Le campane di Santa Maria suonavano disperatamente e fra pochi istanti l’ondata di grandine avrebbe oltrepas-
sato il Piave, compiendo anche là la sua opera nefasta. Ma, giunta sulla riva del sacro fiume, avvenne un prodigio che
lasciò i pellegrini ancora più sbalorditi di prima: il colore della nube minacciosa divenne di colpo bianco candido e invece
della temuta grandine cadde una fitta e calma pioggia. L’impetuoso vento cessò di colpo e una dolce quiete pervase
uomini e cose. Come in quelle tragiche giornate della nostra storia recente il Piave aveva impedito, pochi chilometri più
a valle, il passaggio del nemico, salvando in tal modo la Patria da sicura rovina, così ora si era ripetuto ancora una volta
il miracolo del Piave nel quale la Madonna, volendo premiare il virtuoso popolo che con tanta fede si era rivolto a Lei per
chiedere soccorso, impedì alla grandine di portare fame e carestia nelle sue terre. Ecco dunque i pellegrini giungere al
villaggio bagnati da capo a piedi mentre la pioggia continuava a cadere. E prati e campi ripresero vigore mentre l’umile
chiesetta del paese si andava riempiendo di fedeli per il canto del “Te Deum” in segno di ringraziamento.
20 CRONACA
La foto di copertina
(M.M.) Una tira l’altra, quasi come le copertine del nostro periodico! Stiamo parlando delle ciliegie, di così tante varietà
e gusti che ogni volta che le mangi ti sorprendi per il loro gusto sempre diverso. Quelle in copertina sono di produzione
propria, a kilometro meno di zero, polpose, buone da mettere sotto spirito. Ironia della sorte, quella in primo piano
sembra sorridere, camuffata da emoticon. Garantiamo sulla sua genuinità, anche fotografica. Si è presentata così, di-
segnata dalla natura e non artefatta da fotoritocchi vari. Dal quotidiano “La Stampa” di sabato 23 giugno apprendiamo
che anche le ciliegie tardive saranno ottime. A dispetto della credenza piemontese che dopo San Giovanni si trovano
ciliegie col “Giuanin”, a indicare le larve
che le renderebbero poco appetitose,
sappiate che sono state fatte coltivazioni
che portano i raccolti fino a metà luglio.
Tranquilli, quindi, potremo gustare questo
prelibato frutto e sorridere, senza “Gio-
vannino”.
ATTUALITÀ
21 COME ERAVAMO
Bella la foto dei coscritti inviataci dal nostro abbonato Marcello. Peccato non avere le sequenza dei nomi delle persone
ritratte, alcune ben riconoscibili. Non sarà difficile, però, per i nostri lettori dare un nome ai volti che qui vediamo. Se
avete dubbi chiedete a Silvio Rizzotto: lo vedete in seconda file, alla sinistra del cappellano.
CRONACA
50° di matrimonio
Festa per i coniugi Giulia e Silvio
di Alessandro Bagatella
I coniugi Giulia Curto e Silvio De Simoi, nostri vecchi abbonati di Sanzan, hanno rinnovato il proprio sì alla vita coniu-
gale nella chiesa di Sanzan, alla presenza di don Firmino, parroco della comunità. A festeggiare l’avvenimento del 50°
anniversario erano presenti i figli Gian Luca, Michele, Nicola e Anto-
nella. Con loro le nuore Linda, Francesca e Sonia, assieme agli
amati nipotini Francesco, Luca, Sebastiano e Chiara. Tutta la com-
pagnia si è poi trasferita in un ristorante a Farra di Soligo. Tanti au-
guri a Giulia e a Silvio e felicitazioni per il bel traguardo raggiunto,
unito ad un arrivederci alle nozze di diamante.
22 ASTERISCO
Giornali o riviste?
tratto da: https://www.cosenostre-online.it/rubriche/piazze-amiche/
Le testate giornalistiche delle nostre Pro Loco censite da Gepli
sono circa una settantina.
Per quanto riguarda il formato e la presentazione grafica, già
guardando la prima pagina le possiamo dividere in due macroca-
tegorie:
– formato “giornale”, con la pagina di testata che contiene in ge-
nere l’editoriale e due-tre articoli ritenuti più importanti; è il caso
di Cose Nostre;
– formato “rivista”: in questo caso sotto la testata
viene inserita un’immagine di copertina; gli articoli
in questo caso partono da pagina 2.
Per i giornali formato rivista la scelta dell’immagine
di copertina è molto importante, perché contraddi-
stingue l’uscita di quel numero. Nei testi a seguire
due esempi, scelti non a caso fra quelli in cui
l’immagine si prestava a raccontare qualcosa del
territorio, anche se solo a livello di curiosità.
Il Tornado
Nome evocativo, per una testata: sa di dinamismo,
di velocità. Non per nulla, la testata giornalistica,
che si autodefinisce nel sottotitolo “periodico di at-
tualità dei Comuni di Alano di Piave, Quero Vas,
Segusino”, è l’unico quindicinale presente fra le
testate seguite da GEPLI.
Editore è la Pro Loco di Fener, provincia di Belluno.
Inizio pubblicazioni nel 1980. L’immagine scelta per
il numero 678, uscito lo scorso dicembre, ha una
storia particolare. L’immagine, di Madonna con gli
angeli, è la foto di una pittura murale presente su
una casa di Fener. L’autore del dipinto è il proprie-
tario della casa, che si è ispirato a un celebre dipin-
to, La vierge aux anges, del pittore francese
Bouguerau, esponente parigino della corrente pitto-
rica ottocentesca dell’accademismo. (…Omissis…)
(M.M.) Scoperta, piacevole, navigando fra le pagine di internet, questa che qui sopra proponiamo all’attenzione
dei nostri lettori e per la quale ringraziamo gli autori ed amici del sito di “Cose Nostre”, organo di informazione del-
la Pro Loco di Caselle Torinese. Confermiamo che alle nostre copertine riserviamo un’attenzione particolare e ci
fa piacere che attirino l’attenzione, che solletichino la voglia di sfogliare la nostra pubblicazione.
Magari non ci riusciamo sempre, ma l’impegno, quello sì, è sempre massimo.
CRONACA
In ricordo di Emma Bagatella
di Alessandro Bagatella
La piccola comunità di Santa Maria di Quero Vas si è stretta alla
famiglia per commemorare Emma. Persona bonaria e servizievole
verso chi versava in stato di bisogno. Da giovane Emma conobbe i
sacrifici ed il lavoro come emigrante, dapprima in Isvizzera e poi,
nel 1948, si sposò con Decimo Andreazza e riprese la via
dell’emigrazione, stavolta in Belgio, dove il marito aveva trovato
occupazione nelle miniere di carbone. Ad Ougrée nacque il primo
figlio Vincenzo. Nel 1954 la famiglia fece ritorno in Italia e nel 1959
venne alla luce il secondo figlio: Diego. In Italia Decimo trovò lavo-
ro un po’ ovunque ed Emma si prese cura della famiglia. Rimase
vedova nel 1987 ed ebbe la sventura, nel 2012, di perdere anche
Diego, il secondogenito. Emma è stata, inoltre, una grande dona-
trice di sangue, meritando la medaglia d’oro in virtù della sua ge-
nerosità. Le sue precarie condizioni fisiche l’hanno portata ad es-
sere ospite della Casa di Riposo “Brandalise” di Feltre. Ai suoi fu-
nerali è accorsa tanta gente, fino a riempire la chiesa di Quero. Don Alessio, nel corso della cerimonia funebre, ha
espresso parole di elogio per la cara Emma. La famiglia desidera ringraziare tutto il personale del reparto medico che
ha seguito nella malattia mamma Emma. Ai famigliari le più sentite condoglianze.
23 ASTERISCO
In foto: sopra, lo
stato attuale del
pino e, qui a fianco,
copia dell’articolo
uscito nel mese di
aprile 2014 proprio
su queste pagine,
per ricordarne la
storia.
dal libro dei ricordi della famiglia Favero- segnalazione di Luca Favero
Gianfranco Favero, amichevol-
mente conosciuto come “Il
Boss”, ci ha lasciato il 29 gen-
naio del 2007. Sfogliando
l’album dei ricordi, il fratello Luca
ha trovato due foto che lo ritrag-
gono ai tempi della leva militare
(anno 1971 circa) e vuole condi-
videre queste immagini del pas-
sato assieme ai nostri lettori, per
rinnovare il ricordo di Gianfran-
co, conosciuto ben oltre i confini
di Quero.
Gianfranco, lo ricordiamo, fu an-
che presidente della sezione
donatori di sangue, contribuen-
do con il suo entusiasmo alla
sua crescita, soprattutto fra i
giovani, che seppe avvicinare al-
la generosa pratica della dona-
zione di sangue.
24 CRONACA
ASTERISCO
La parola giusta
Dice un proverbio arabo che ogni parola, prima di essere pronunciata, dovrebbe passare da tre porte.
Sull’arco della prima porta dovrebbe esserci scritto: E’ vera?"
Sulla seconda campeggiare la domanda: "E' necessaria?"
Sulla terza essere scolpita l'ultima richiesta: “E’ gentile?
Una parola giusta può superare le tre barriere e raggiungere il destinatario con il suo significato piccolo o grande.
Nel mondo di oggi, dove le parole inutili si sprecano, occorrerebbero cento porte, molte delle quali rimarrebbero sicu-
ramente chiuse. (Romano Battaglia)
25 LETTERE AL TORNADO
Amici Alpini
Caro Direttore,
la fotografia in allegato è il commento che mi sento di proporti/Vi alla cui di pagina ventuno Tornado N° 704. Persone
più titolate nell’associazione penso faranno le
considerazioni del caso, perciò mi astengo.
Qualsiasi argomentazione, anche se non condi-
visa, è sempre legittima. Quello che non è am-
missibile risulta l’anonimato chiesto, suggerito o
imposto non lo so con cui la Scrivente si presen-
ta. Molto male ha fatto la redazione ad accondi-
scendere! Non doveva succedere. Per il resto, a
mio modestissimo parere non richiesto, lo scritto
mi è un esercizio accademico di certa gioventù
studentesca magari fuori corso di professione.
M’insegnava una persona, a me molto cara, con
scolarità terza elementare, ma laurea con lode
nell’università della vita, che non controllava
quante “sinapsi” avesse inserito, ma quanto cer-
vello ci fosse nelle sue parole e idee: “chi da uo-
vo nasce la terra ruspa” e, aggiungo io, razza e
genere non c’entrano. Tornando alla fotografia,
caro Direttore, penso che il Tornado per scusar-
si con gli Alpini non per lo scritto ma per l’omissione, di cui la sopra prebenda, la pubblichi magari In copertina rappre-
sentante in parte lo spirito Alpino, con tutte le fisiologiche eccezioni.
Loreo /20/6/18 Giovanni Polloni
(M.M.) Accettiamo l’osservazione dell’amico/lettore Giovanni e assicuriamo che non avremo più spazi per interventi
che non siano firmati. Insomma, mettiamoci la faccia, anche se può essere difficile esporre le proprie idee. Però,
puntualizzo un paio di cose anch’io, in merito alle osservazioni fatte da Giovanni.
Prima di tutto ricordo che lo sfogo dell’autrice metteva in riga chi assume atteggiamenti sessisti e spesso succede,
senza che in questo conti nessuna appartenenza, effetto forse del sentirsi branco, protetti dal gruppo. Un atteggia-
mento non tollerabile. Poi, perché qualificare quel “certa gioventù studentesca magari fuori corso di professione”?
Non si può, non si deve ribattere ad una tesi cercando di screditare la parte opposta. Credo che l’intervento della
nostra lettrice sia stato utile per farci riflettere: sull’importanza di crescere in educazione nei rapporti fra uomini e
donne, sull’importanza di giocare in prima persona un ruolo positivo attivo e, inoltre, sull’importanza di avere scambi
di opinioni franche, nei quali giocare la carta della forza delle idee piuttosto che la debolezza della parte opposta.
Grazie, infine, a chi ci ha letto e a tutti coloro che ci hanno dato la possibilità di discuterne.
26 CRONACA
LETTERE AL TORNADO
Prima vennero...
dai sermoni del pastore Martin Niemöller - segnalazione di Silvio Forcellini
«Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli
ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi
erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno
vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare».
Questi versi - erroneamente attribuiti a Bertolt Brecht - prendono spunto dai sermoni del pastore Martin
Niemöller (1892-1984) sull’apatia e sui silenzi degli intellettuali tedeschi di fronte all’ascesa al potere dei nazisti e
alle “persecuzioni” nei confronti di determinati gruppi di persone, scelti di volta in volta come “nemico” verso cui
dirigere il malcontento popolare per la situazione di crisi economica degli anni Venti del XX secolo. Questi versi,
molto conosciuti e frequentemente citati, rappresentano un efficace invito a drizzare le orecchie e a ricordarsi di
quanto possa essere banale e impercettibile l’instaurarsi del Male, come alle volte si inizi con parole d’odio tese a
impaurire determinati “obiettivi” e a compiacere i propri “adepti” e come poi, una volta finite le cose fuori controllo, ci
si accorga che è troppo tardi per rimediare.
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