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DIRETTA DA
REMO FRANCESCHELLI
in questo numero:
Giuseppe Sena, Note su disegni e modelli
Carlos Lema Devesa, Le c.d. «tabelle di equivalenza» nel contesto del diritto comunitario sui marchi
d’impresa
Vincenzo Jandoli, Una nuova spinta europea alle cross border litigation? Questa volta si muove il legi-
slatore
Corte di Cassazione Penale della Repubblica, Sez. III, 3 settembre 2007 n. 33768, con nota di Emanuela
GIUFFRÈ EDITORE 6
Pubblicazione bimestrale • Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in a.p. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB (VARESE)
INDICE SOMMARIO
PARTE PRIMA
PARTE SECONDA
I. - Giurisprudenza nazionale
GIUSEPPE SENA
primo autore (ma non registrato), non costituisce di per sé viola-
zione dell’unregistered design, a meno che si dimostri che il terzo
era a conoscenza del primo modello e lo abbia sostanzialmente co-
piato; la realizzazione e divulgazione, da parte di un soggetto
terzo, di un modello o disegno identico o comunque interferente
con quello precedentemente realizzato e divulgato dal primo au-
tore (e non registrato) lo priva dei requisiti della novità e del ca-
rattere individuale e ne impedisce quindi la valida registrazione,
anche se la divulgazione da parte del terzo è intervenuta nel c.d.
« periodo di grazia », a meno che si dimostri che il terzo era a co-
noscenza della realizzazione del primo autore e la abbia sostan-
zialmente copiata, donde il carattere abusivo della sua attività.
E
v questa una soluzione unitaria, nel senso che la realizza-
zione e divulgazione da parte di un terzo, nel « periodo di grazia »,
non rileva quando, e solo quando, tale realizzazione o divulgazione
costituisce violazione della esclusiva attribuita dal regolamento
CE al primo autore sul disegno e modello non registrato (unregi-
stered design).
Come si è detto, la protezione accordata al disegno o modello
divulgato, ma non registrato, riguarda le realizzazioni dei terzi
derivanti dalla conoscenza e riproduzione o imitazione del mo-
dello o disegno originale, ma non concerne i c.d. « incontri for-
tuiti », cioè le creazioni concepite da terzi in modo indipendente;
analogamente, il « periodo di grazia » copre la predivulgazione dei
terzi derivante dalla conoscenza e riproduzione o imitazione del
modello o disegno originale, ma non si applica alle creazioni con-
cepite in modo indipendente, che determinano cosı̀ la predivulga-
zione.
CARLOS LEMA DEVESA (*)
1. Introduzione.
3) Nell’ambito dell’art. 3-bis, lett. g), della direttiva sulla pubblicità ingan-
nevole (84/450), come modificata dalla direttiva sulla pubblicità comparativa (97/
55), qual’è il significato di “tragga indebitamente vantaggio”, ed in particolare,
qualora un operatore commerciale in un elenco comparativo compari il proprio
prodotto con un prodotto contrassegnato dal marchio conosciuto, tale soggetto
trae in tal modo indebitamente vantaggio dalla notorietà connessa al marchio co-
nosciuto?
4) Nell’ambito dell’art. 3-bis, lett. h), della citata direttiva qual è il signifi-
cato di “presentare un bene o servizio come imitazione o contraffazione” ed in
particolare, tale espressione si applica anche nell’ipotesi in cui, senza che venga in
alcun modo creata confusione o inganno, una parte affermi sinceramente che il suo
prodotto ha la principale caratteristica (fragranza) identica a quella di un prodotto
che gode di un’alta notorietà, tutelato da un marchio di impresa?
5) Qualora un operatore commerciale utilizzi un segno analogo al marchio
registrato che gode di notorietà, e tra tale segno e il marchio non sussista una so-
miglianza tale da dare adito a confusione, in modo che: a) la funzione essenziale
del marchio registrato consistente nel fornire una garanzia di origine non sia pre-
giudicata o posta a repentaglio; b) il marchio o la sua notorietà non vengano an-
nacquati o smussati, nè esista alcun rischio di una di tali ipotesi; c) le vendite del
proprietario del marchio non siano pregiudicate; e d) il proprietario del marchio
non sia privato di ciascun beneficio risultante dalla promozione, del mantenimento
o miglioramento del suo marchio d’impresa; e) ma l’operatore commerciale ricavi
un vantaggio commerciale dall’uso del suo segno a motivo della sua somiglianza
con il marchio registrato, tale utilizzo equivale a trarre “indebitamente vantaggio”
dalla notorietà del marchio registrato ai sensi dell’art. 5, n. 2, della direttiva sui
marchi?
318 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte I
(8) In tal senso, vedi Art. 34.1 della Legge spagnola sui marchi del 2001.
(9) In tal senso si pronuncia la nostra dottrina più autorevole. Cfr., ad es.,
FERNANDEZ NOVOA, Tratado sobre Derecho de Marcas, 2a ed., Marcial Pons, Madrid,
2004, p. 242 ss.; BERCOVITZ RODRIGUEZ CANO, Introducción a las marcas y otros signos
distintivos en el tráfico económico, Aranzadi, Pamplona, 2002, p. 88 ss.; GALAN CORONA,
Comentario al artı́culo 34. Derechos conferidos por la marca, in BERCOVITZ RODRIGUEZ
CANO, Comentarios a la Ley de Marcas, Aranzadi, Pamplona, 2003, p. 503 ss.
I. - Articoli - Saggi - Studi 319
(12) Sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, dell’11 settem-
bre 2007, Céline, disponibile in www.curia.europa.eu.
I. - Articoli - Saggi - Studi 321
(13) Questa lettura restrittiva delle funzioni del marchio d’impresa è partico-
larmente evidente nella sentenza della Corte di Giustizia dell’11 settembre 2007 (Cé-
line), nella quale si dichiara: l’uso, da parte di un terzo che non sia stato autorizzato,
di un segno identico ad un marchio registrato per prodotti o servizi identici a quelli
322 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte I
per cui tale marchio è stato registrato può essere vietato, conformemente all’art. 5, n.
1, lett. a), della Direttiva, solo se pregiudica od è idoneo a pregiudicare le funzioni del
suddetto marchio ed in particolare la sua funzione essenziale, che è di garantire ai
consumatori l’origine dei prodotti o dei servizi. Ciò si verifica quando il segno è usato
dal terzo per i suoi prodotti o servizi in modo che i consumatori possano interpretarlo
nel senso che esso designa l’origine dei prodotti o dei servizi di cui trattasi.
(14) Su questo punto, occorre ricordare che, secondo la giurisprudenza della
Corte di Giustizia della Comunità Europea, « Come parte dell’accordo ADPIC, la Co-
munità è tenuta ad interpretare la normativa dell’ambito del diritto dei marchi, nei
limiti del possibile, nel contesto del testo e della finalità delle pertinenti disposizioni
dell’accordo ADPIC ». Vedi Corte di Giustizia delle Comunità Europee, sentenza del
16 di novembre del 2004, Anheuser-Busch, disponibile nella pagina web www.curia.eu-
ropa.eu.
(15) Vedi Corte di Giustizia delle Comunità Europee, sentenza dell’11 settem-
bre 2007, Céline.
I. - Articoli - Saggi - Studi 323
(16) Sulle funzioni del marchio, vedi, per tutti, FERNANDEZ NOVOA, op. cit., p.
66 ss.; FERNANDEZ NOVOA, Las funciones de la marca, 5 ADI (1978), p. 33 ss.; AREAN
LALIN, En torno a la función publicitaria de la marca, 8 ADI (1982), p. 57 ss.; BERCO-
VITZ RODRIGUEZ CANO, Introducción..., cit., p. 61 ss.
324 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte I
(17) Vedi Articolo 2 della Direttiva comunitaria sui marchi d’impresa, secondo
il quale « Possono costituire marchi di impresa tutti i segni che possono essere ripro-
dotti graficamente, in particolare le parole, compresi i nomi di persone, i disegni, le
lettere, le cifre, la forma del prodotto o il suo confezionamento, a condizione che tali
segni siano atti a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre im-
prese ».
(18) In tal senso, il Diritto comunitario sui marchi d’impresa non è estraneo
a quelle attuazioni da parte di terzi, che possono contribuire ad una diluizione o vol-
garizzazione del marchio, provvedendo in questi casi al titolare del marchio una pro-
tezione efficace. Senza dubbio, il caso più significativo, è quello previsto dall’art. 10
del Regolamento sul marchio comunitario, dove si stabilsce: « Se la riproduzione di un
marchio comunitario in un dizionario, in un’enciclopedia o in un’analoga opera di
consultazione dà l’impressione che esso costituisca il nome generico dei prodotti o dei
servizi per i quali è registrato il marchio, su richiesta del titolare del marchio comu-
nitario l’editore dell’opera provvede affinché al più tardi nella riedizione successiva
dell’opera la riproduzione del marchio sia corredata dell’indicazione che si tratta di
un marchio registrato ». Ovviamente, con questo precetto, si pretende dotare il tito-
lare del marchio con una protezione efficace nel caso in cui l’attuazione di un terzo
(consistente nell’introdurre il marchio in un dizionario come termine generico per un
I. - Articoli - Saggi - Studi 325
tipo o classe di prodotto), supponga un rischio per la forza distintiva del marchio, po-
tendone provocare la sua diluizione o volgarizzazione.
(19) Come abbiamo già avuto modo di verificare, questa affermazione è co-
mune nell’ambito del Diritto contro la concorrenza sleale, dove le tabelle di equiva-
lenza vengono generalmente qualificate come atti di concorrenza sleale per sfrutta-
mento indebito dell’altrui reputazione. In tal senso, vedi, per il Diritto spagnolo, le
sentenze citate nel paragrafo 1 di questa esposizione.
326 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte I
(20) Per l’applicazione di questo precetto, l’art. 8.2 della Legge sui Marchi
definisce un marchio notorio come quello che, per il suo volume di vendite, durata,
intensità, o copertura geografica di utilizzo, valore o prestigio raggiunto nel mercato
o per qualsiasi altro motivo, sia generalmente conosciuto dal settore pertinente del
pubblico al quale sono destinati i prodotti, servizi o attività che identificano tale
marchio o denominazione commerciale. Inoltre, il terzo paragrafo dello stesso art. 8,
definisce il marchio notorio come quello che è conosciuto dal pubblico in generale. Per
uno studio ampio del concetto e protezione dei marchi rinomati e che godono di no-
torietà nella Legge sui Marchi vigente, si veda FERNANDEZ NOVOA, Tratado..., cit., p.
389 ss.; MASSAGUER FUENTES, La protección jurı́dica de las marcas notorias y renombra-
das en la Ley de Marcas de 2001, 22 ADI (2001), p. 143 ss.; GALAN CORONA, in BERCO-
VITZ RODRIGUEZ CANO (dir.), Comentarios, cit., p. 505 ss.; TATO PLAZA, Introducción al
régimen jurı́dico de la marca notoria y la marca renombrada en la nueva Ley española de
marcas, lus et Veritas, numero 31, p. 32 ss. Ovvero, per uno studio della situazione an-
tecedente alla Legge dei Marchi vigente, cfr. FERNANDEZ NOVOA, Derecho de Marcas,
Montecorvo, Madrid, p. 126 ss.; MONTEAGUDO MONEDERO, La protección de la marca re-
nombrada, Civitas, Madrid, 1995, passim.
(21) Sentenza della Corte di Giustizia della Comunità Europea, del 14 settem-
bre 1999, General Motors, disponibile alla pagina web: www.curia.europa.eu.
328 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte I
(22) Sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, del 9 gennaio
2003, Davidoff II, disponibile in www.curia.europa.eu.
330 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte I
(23) Come abbiamo già potuto constatare, questa affermazione è comune nel-
l’ambito del Diritto contro la concorrenza sleale, ove le tabelle di equivalenza vengono
generalmente considerate come atti di concorrenza sleale per lo sfruttamento indebito
della notorietà altrui. In questo senso, vedi, per il Diritto spagnolo, le sentenze citate
nell’epigrafe 1 del presente studio.
I. - Articoli - Saggi - Studi 335
danno alla sua funzione distintiva, nella misura in cui può contri-
buire alla volgarizzazione del segno ed alla diluzione della sua
forza distintiva. Tale rischio è tanto più grande — reiteriamolo —
quanto più generalizzato sia l’uso delle tabelle di equivalenza. Di
modo tale che, se queste tabelle di equivalenza si usano per per-
mettere la commercializzazione di profumi scarsamente conosciuti
dai consumatori, ci sarà un alto rischio che questi percepiscano il
marchio di prestigio menzionato nelle tabelle, alla stregua di una
designazione generica di un determinato tipo di profumo con una
fragranza concreta.
In definitiva, possiamo concludere con l’affermazione che in
questi casi concorrono diverse circonstanze che possono giustifi-
care la protezione rinforzata dei marchi notori. Di modo che, an-
che il riferimento ad un marchio notorio nel contesto delle tabelle
di equivalenza, andrebbe qualificato come infrazione al diritto di
esclusiva sul marchio ai sensi dell’art. 5.2 della Direttiva comuni-
taria sui marchi.
l’art. 6.1 della Direttiva sui Marchi (relativo all’uso da parte dei
terzi di indicazioni descrittive sulle caratteristiche dei suoi pro-
dotti o servizi) e la proibizione assoluta di registrazione di cui al-
l’art. 3.1.c) della stessa Direttiva.
In accordo con quanto stabilito in questo ultimo precetto,
« Sono esclusi dalla registrazione, o, se registrati, ne può essere di-
chiarata la nullità di (...) marchi di impresa composti esclusiva-
mente da segni o indicazioni che in commercio possono servire a de-
signare la specie, la qualità, la quantità, la destinazione, il valore, la
provenienza geografica ovvero l’epoca di fabbricazione del prodotto o
della prestazione del servizio, o altre caratteristiche del prodotto o ser-
vizio ».
Per questo, nel caso di indicazioni meramente descrittive ri-
cade una chiara proibizione di registrazione. Ma lungi dall’avere
dei profili assoluti, quella proibizione possiede una portata limi-
tata. Facendo allusione ai marchi composti « esclusivamente » di
segni o indicazioni di carattere descrittivo, l’art. 3.1.a) della Diret-
tiva permette la registrazione come marchio, di segni o indicazioni
di quella natura, sempreché vadano accompagnati da altri segni o
indicazioni privi di carattere generico e l’insieme possieda una ca-
pacità differenziatrice (24).
Orbene, quando si procede alla registrazione di un insieme di
segni od indicazioni tra cui si annoverano indicazioni meramente
descrittive, il titolare del marchio acquisisce un diritto di esclusiva
di portata limitata. Di modo che, non potrà avvalersi del suo di-
ritto di esclusiva sul marchio, per impedire l’uso da parte di terzi
di quei segni o indicazioni per descrivere le caratteristiche dei cor-
rispettivi prodotti o servizi, secondo quanto è previsto nell’art. 6
della stessa Direttiva.
(25) Sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, del 17 marzo
2005, « Gillette », disponibile in www.curia.europa.eu. Per un commento a questa sen-
tenza, cfr. GARCIA VIDAL, El uso de una marca ajena para indicar el destino de un pro-
ducto o servicio propio, in FERNANDEZ NOVOA-GARCIA VIDAL-FRAMIÑAN SANTAS, Jurispru-
dencia comunitaria sobre marcas, Comares, Granada, 2006, p. 83 ss.
338 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte I
(26) Questione ben diversa è che, nelle tabelle di equivalenza, quei marchi
vengano usati pretendendo attribuirgli un significato generico di cui sono privi. Poi-
ché quei marchi sono denominazioni con una forte capacità distintiva, il suo uso pre-
tendendo attribuirgli un significato generico (con il corrispettivo rischio di volgariz-
zazione o diluzione del marchio), invece di giustificare l’applicazione in questa sede
del limite previsto nell’art. 6 della Direttiva, permette di asserire, come si è già detto,
l’esistenza di una infrazione del diritto di esclusiva sul marchio ai sensi degli artt.
5.1.a) e 5.2 della Direttiva comunitaria sui marchi.
(27) Addottiamo nel testo la classica e ben nota classificazione tra denomina-
zioni generiche, descrittive, suggestive, arbitrarie e fantasiose, inserita nella dottrina
spagnola da AREAN LALIN, L’idoneità di una denominazione per convertirsi in marchio,
5 ADI (1978), p. 471 ss.
I. - Articoli - Saggi - Studi 339
(28) In questo senso, vedi Sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità
Europee, del 16 luglio 1998, Gut Springenheide, disponibile in www.curia.europa.eu.
(29) Anche se non fa parte dello scopo specifico del presente studio (che si cir-
coscrive all’analisi delle tabelle di equivalenza nella la prospettiva del Diritto sui
marchi), occorre rilevare che, per le stesse ragioni esposte nel testo, le tabelle di equi-
valenza andrebbero qualificate come una fattispecie di pubblicità comparativa ille-
cita. Come è ben noto, l’art. 3-bis della Direttiva sulla pubblicità ingannevole e com-
parativa, fissa diversi requisiti per la liceità delle comparazioni pubblicitarie, tra cui
risaltano il divieto di trarre indebitamente vantaggio dalla fama o notorietà connessa
al marchio di un concorrente ed il divieto di presentare un prodotto come imitazione
o contraffazione di altri prodotti protetti da un marchio o da una denominazione
commerciale depositati. Nella misura in cui le tabelle di equivalenza comportano uno
sfruttamento indebito della notorietà altrui, e presentano un prodotto come imita-
zione o contraffazione di un altro contraddistinto da un marchio notorio, disatten-
dono questi due requisiti di liceità e devono pertanto qualificarsi come una fattispe-
cie di pubblicità comparativa illecita. Cosicché, e nella misura che le tabelle di equi-
valenza costituiscono una fattispecie di pubblicità comparativa illecita, non possono
neppure avvalersi del principio generale della liceità del riferimento al marchio di un
concorrente nell’ambito delle comparazioni pubblicitarie.
VINCENZO JANDOLI
di uno Stato membro nel cui territorio uno di essi è domiciliato — art. 6.1 —), ovvero
citare il convenuto dinanzi al Giudice dello Stato membro in cui l’illecito extra con-
trattuale si verifica o potrebbe verificarsi (art. 5.3).
(4) Le Corti olandesi hanno iniziato ad emettere questo tipo di decisioni (la
prima decisione è stata emessa dalla Hoge Raad, caso Lincoln v. Interlass, il 24 no-
vembre 1989, BIE 1991, 89).
Le Corti tedesche hanno più volte stabilito che le azioni cross-border sono pos-
sibili. Si veda General Hospital v. Bracco al. WIPO Settembre 1999; altre decisioni
tedesche sono riportate negli annuali delle Corti del 1996, I Kettenbandfoerderer III;
1998, 92 Schussfadenfgreifer; Corte di Appello di Düsseldorf, GRUR Int 2000, 776,
777 - Impfstoff; Düsseldorf District Court, InstGE 3, 8 13.
Per la Francia, si veda Eurosensory v. Tieman, 28 gennaio 1994; anche se vi
sono decisioni contrarie: per tutte Corte di Appello Parigi, 16 febbraio 2007 (SCS/
Tekstil).
Per il Belgio, si veda la sentenza del 14 settembre 2001, confermata in Appello,
sia pur se il Tribunale di primo grado di Bruxelles ha concesso il provvedimento cau-
telare cross-border, prevedendo però che l’efficacia sarebbe cessata quando la Corte
competente ex art. 22.4, avrebbe dichiarato il brevetto locale invalido; favorevole alla
cross border, la Corte di Appello di Bruxelles, 15 giugno 2004, in Journal of Intellec-
tual Property Law and Practise, 2005, vol. 1, n. 1.
(5) Tribunale di Bolzano, ordinanza del 22 aprile 1998 in Giurisprudenza Ita-
liana, 1999, fasc. V, p. 1016 nonché Tribunale Torino 19 maggio 2000 in Gadi 4224; e
Tribunale di Brescia in “Italian Torpedo”, 31, IIC 783; 2000.
(6) Il fenomeno da molti noto quale Italian Torpedo (FRANZOSI, “World Wide
Patent Litigation and the Italian Torpedo”, in 7, EIPR, 382 (1997), e “Torpedo are here
to stay”, in IIC, 154 — 2002 — e JANDOLI, “The Italian Torpedo”, in questa Rivista,
2000, II, 236), ha determinato in Italia un incremento di contenziosi in materia di di-
ritto industriale di accertamento negativo di contraffazione con efficacia ultranazio-
nale. Ciò ha comportato una duplice reazione. Da un lato molti giudici italiani hanno
negato sotto diversi profili la giurisdizione ex art. 5.3 a pronunciarsi su casi di non
contraffazione di privativa industriale (per tutte si veda la decisione della Corte di
Cassazione 19 dicembre 2003 n. 19550 in Dir. ind., 2004, p. 429; ma sulla discutibile
applicazione di detta decisione alle fattispecie soggette al regolamento 44/2001 si veda
FRANZOSI in “Italian Torpedo: perché un cavallo bianco non è un cavallo”; in Dir. ind.,
2004, p. 429); dall’altro la critica alla lentezza dei procedimenti italiani è stata uno
stimolo, in qualche modo, ad accelerare i giudizi. Accelerazione agevolata anche gra-
zie alla riforma del Codice di Procedura Civile (legge 28 dicembre 2005 n. 263 e legge
23 febbraio 2006 n. 51), divenuta efficace il 1 marzo 2006, in cui si è previsto che “Il
Governo è delegato ad adottare [...] uno o più decreti legislativi diretti ad assicurare una
I. - Articoli - Saggi - Studi 343
più rapida ed efficace definizione dei procedimenti giudiziari in materia di marchi na-
zionali e comunitari, brevetti d’invenzione e per nuove varietà vegetali, modelli di utilità,
disegni e modelli e diritto d’autore nonché di fattispecie di concorrenza sleale interferenti
con la tutela della proprietà industriale e intellettuale [...]” (l. 12 dicembre 2002, n. 273,
“Misure per favorire l’iniziativa privata e lo sviluppo della concorrenza”, art. 16, comma
1).
(7) Sentenza 13 luglio 2006, causa C-539/03, in Guida al diritto, 2006, 32, 115,
nota LEANDRO.
(8) In tal senso si veda Tribunale di Milano, 26 marzo 2007 n. 3753, per cui
“le frazioni nazionali di un brevetto europeo sono autonome — art. 64, commi 1 e 3 C.B.E
—: e dunque non vi sarebbe la violazione di uno stesso diritto che determini un collega-
mento di domande cosı̀ stretto ed effettivo da esigere una trattazione e una decisione unica,
per evitare il rischio di decisioni separate incompatibili — art. 6.1 Reg. e Convenzione”.
Nello stesso senso Tribunale di Milano, 29 novembre 2007 n. 13532 e Corte di Appello
Milano, Optigen v. Marchon Eyewear Inc. e Eschenbach Optic GmbH, n. 629/04 del 2
marzo 2004.
(9) Art. 8: “1. La legge applicabile all’obbligazione extracontrattuale che deriva
da una violazione di un diritto di proprietà intellettuale è quella del paese per il quale la
protezione è chiesta.
2. In caso di obbligazione extracontrattuale che deriva da una violazione di un di-
ritto di proprietà intellettuale comunitaria a carattere unitario, la legge applicabile è
344 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte I
quella del paese in cui è stata commessa la violazione per le questioni non disciplinate dal
relativo strumento comunitario.
3. Non si può derogare alla legge applicabile in virtù del presente articolo con un
accordo ai sensi dell’articolo 14.”
(10) Ciò traspare dai considerant nn. 1,6 e 7 del Reg. 864/07.
(11) Cf., e.g. Epilady VII [1993] G.R.U.R. at 242 (Int.); Epilady XII [1993]
G.R.U.R. at 252 (Int.); Epilady U.K. [1990] 21App. Cas. At 561 (I.I.C.). Si vedano in
Expandable Grafts Partneship v. Boston Scientific B.V. [1999] F.S.R. 352, 358 (No.
18 s.). Vedi anche J. STRAUS, “Patent Litigation in Europe-A Glimmer of Hope? Present
Status and Future Perspectives”, in http://law.wustl.edu/journal/2/p403straus.pdf.
(12) E del resto l’applicazione della legge nazionale — anche di altri Stati —
da parte di un Giudice dello Stato membro in un contenzioso relativo a un marchio
comunitario è già contemplata nel Regolamento 40/94 sul marchio comunitario al-
l’art. 97, se il convenuto è citato ex art. 39 Io per atti posti in essere anche al di fuori
di quello Stato membro adibito.
Per i modelli si vedano gli artt. 79-82 del Reg. CE 6/2001.
I. - Articoli - Saggi - Studi 345
nanzi al quale possa essere citato (14). Sulla base di questi due
principi dovranno essere applicati detti articoli frequentemente
invocati per fondare la giurisdizione ‘cross border’ in materia di di-
ritto industriale: l’art. 2 (il foro generale) e gli art. 5.3 e 6.1 (fori
alternativi).
(18) La Convenzione di Bruxelles all’art. 6.1 prevedeva che: “Il convenuto po-
trà inoltre essere citato:
1) in caso di pluralità di convenuti, davanti al giudice nella cui circoscrizione è si-
tuato il domicilio di uno di essi”. Poi con il Reg. 44/2001 all’art. 6.1 si è previsto che
“La persona di cui all’articolo precedente può inoltre essere convenuta: 1) in caso di plu-
ralità di convenuti, davanti al giudice del luogo in cui uno qualsiasi di essi è domiciliato,
sempre che tra le domande esista un nesso cosı̀ stretto da rendere opportuna una trattazione
unica ed una decisione unica onde evitare il rischio, sussistente in caso di trattazione se-
parata, di giungere a decisioni incompatibili...”.
348 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte I
(19) Definizione creata in Olanda (per tutte Hoge Raad, caso Roche Vs. Pri-
mus, 19 dicembre 2003).
(20) In tal senso Cottier Veron in opera citata a p. 282. Analogamente, del re-
sto, anche la Corte di Appello di Londra (Caso Research in Motion UK vs. Visto Cor-
poration, 6 marzo 2008) ha affermato che un contenzioso in materia brevettuale con
efficacia cross-border è possibile ai sensi dell’art. 6.1.
(21) High Court, Fort Dodge vs. Akzo Nobel (1997) CHPCI 97/1395/B.
I. - Articoli - Saggi - Studi 349
(22) Nello stesso senso Tribunale di Milano, 10 dicembre 2007 sopra citata,
secondo cui “Nella fattispecie, ove alla domanda di accertamento della non contraffazione
si accompagna la contestazione della validità del brevetto, è dunque richiesto, se pur in via
incidentale, un previo accertamento della validità del brevetto in questione, sicché la giu-
risdizione a conoscere della non contraffazione di ogni singola frazione del brevetto euro-
peo non può che essere attribuita in via esclusiva al giudice nazionale ex art. 22 reg.cit.
e il relativo difetto è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo”.
350 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte I
6. Il panorama italiano.
rispondere che logica vuole che il giudice per conoscere dei danni possa anche cono-
scere della fattispecie illecita. In ogni caso il Giudice italiano è tenuto ad applicare la
legge del paese in cui si è verificato l’evento illecito ex art. 62 l. 218/1995.
(25) Art. 3 — “carattere universale: la legge designata dal presente Regola-
mento si applica anche ove non sia quella di uno Stato membro”.
352 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte I
bile che vi sia chi obietti che la situazione, per quanto riguarda
l’ordinamento italiano, non sia mutata in quanto l’attuale legge 31
maggio 1995 n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto inter-
nazionale privato) prevede già che il Giudice Italiano debba appli-
care il diritto di altro Stato in presenza di particolari criteri di
collegamento. Non è esattamente cosı̀. In Italia la l. 31 maggio
1995 n. 218 ha parzialmente abrogato la Disposizione sulla legge
in generale (note quali pre-leggi). In tema di responsabilità extra-
contrattuale l’art. 25 delle preleggi prevedeva al II comma che le
obbligazioni non contrattuali sono regolate dalla legge del luogo
ove è avvenuto il fatto dal quale esse derivano. In applicazione di
questa norma vi era il principio secondo cui qualora una parte
avesse invocato a proprio favore l’applicazione di una legge stra-
niera, deducendone la diversità rispetto a quella italiana, ‘la
stessa, tuttavia avrebbe dovuto provvedere ad indicare quale sia e at-
tivarsi per fornire tutta la documentazione in modo da porre il Giu-
dice in grado di formare il proprio convincimento in ordine all’ap-
plicazione della diversa disciplina’ (cosı̀ Cassazione Civile 29 marzo
2006 n. 7250, in Giustizia civile Massimario 2006, 3). Ciò compor-
tava che qualora la parte, pur invocando l’applicazione della legge
straniera, non avesse prodotto documentazione sufficiente e ido-
nea a consentire al Giudice di applicarla, il Giudice avrebbe po-
tuto far riferimento alla legge italiana. Al contrario con l. 31 mag-
gio 1995 n. 218 l’art. 14, ha stabilito che l’accertamento della
legge straniera venga compiuto d’ufficio dal Giudice. A tal fine
questi può avvalersi oltre che degli strumenti indicati dalle con-
venzioni internazionali, di informazioni acquisite per il tramite del
Ministero di Grazia e Giustizia ovvero interpellare esperti e istitu-
zioni specializzate. Quindi, vi è stato uno sforzo notevole del legi-
slatore italiano ad indurre il giudicante ad applicare la legge stra-
niera, anche in caso di inerzia delle parti. Si ricorda il caso di
un’obbligazione extracontrattuale sorta in Camerun in cui il Giu-
dice ha applicato la legge camerunense, utilizzando il testo tra-
dotto in italiano di un estratto della legge camerunense prove-
niente dall’Ambasciata italiana di quel paese (procedimento rite-
nuto corretto dalla Cassazione Civile nella sentenza 26 febbraio
2002 n. 2791 in Giurisprudenza Italiana 2003, 479).
Tuttavia ribadiamo che l’impatto fortemente innovativo del
Reg. 864/2007 è ben diverso. Si è voluto applicare nello stesso
tempo e con le stesse modalità in tutti gli Stati UE il principio per
cui, in presenza di certe condizioni di extraterritorialità (sopra in-
dicate), il Giudice di un paese membro è obbligato ad applicare la
legge di altri stati anche extra CE. E v una precisa volontà del legi-
I. - Articoli - Saggi - Studi 353
(26) Art. 4: “1. Salvo se diversamente previsto nel presente regolamento, la legge
applicabile alle obbligazioni extracontrattuali che derivano da un fatto illecito è quella del
paese in cui il danno si verifica, indipendentemente dal paese nel quale è avvenuto il fatto
che ha dato origine al danno e a prescindere dal paese o dai paesi in cui si verificano le
conseguenze indirette di tale fatto.
2. Tuttavia, qualora il presunto responsabile e la parte lesa risiedano abitualmente
nello stesso paese nel momento in cui il danno si verifica, si applica la legge di tale paese.
3. Se dal complesso delle circostanze del caso risulta chiaramente che il fatto illecito
presenta collegamenti manifestamente più stretti con un paese diverso da quello di cui ai
paragrafi 1 o 2, si applica la legge di quest’altro paese. Un collegamento manifestamente
più stretto con un altro paese potrebbe fondarsi segnatamente su una relazione preesistente
tra le parti, quale un contratto, che presenti uno stretto collegamento con il fatto illecito in
questione”.
(27) Nello stesso senso Cassazione Civile, Sezione Unite, 11 febbraio 2003 n.
2060, in Foro it., 2004, I, 1516; Cassazione Civile 5 maggio 2006 n. 10312, in Foro it.,
2006, 12, 3388, nota PORRECA e Cassazione Civile, Sezione Unite, 13 dicembre 2005 n.
27403, in Giust. civ. Mass., 2005, 12.
354 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte I
(29) Per una interpretazione in qualche modo critica delle decisioni 13 luglio
2006 della Corte di Giustizia CE si veda l’art. ‘Exclusive Jurisdiction and cross bor-
der IP (patent) infringement. Suggestions for amendments of the Brussels I Regula-
tion’. Max Planck Institut, 20 dicembre 2006 in http://www.ivir.nl/publications/
eechoud/CLIP–Brussels–%20I.pdf.
I. - Articoli - Saggi - Studi 357
E
v possibile che nei Paesi europei si porrà l’alternativa tra la
possibilità che a una tale eccezione consegua l’inammissibilità
della controversia o la sospensione del procedimento (34). Del resto
vi sono Paesi europei in cui, qualora venga sollevata l’eccezione di
nullità dei brevetti o marchi locali, si nega la propria giurisdi-
zione. Poniamo un contenzioso in Gran Bretagna in cui viene con-
testata la contraffazione di un brevetto tedesco; se viene successi-
vamente svolta la domanda di nullità davanti al Bundespatenge-
richt di Monaco, è prevedibile che il Tribunale britannico neghi la
propria giurisdizione o, quantomeno, sospenda il giudizio.
In Italia, episodi corrispondenti si sono verificati in tema di
competenza. In altre parole, una volta svolta la domanda di con-
traffazione di un determinato brevetto, se successivamente il con-
traffattore svolge domanda di nullità davanti ad altro tribunale, il
primo tribunale adito non è tenuto a sospendere il giudizio di
contraffazione. Questo è stato quando deciso dalla sentenza della
Corte di Cassazione del 22 novembre 2006 n. 24859 (il giudizio di
contraffazione non deve essere sospeso nel caso in cui ci sia la
pendenza un altro giudizio relativo alla nullità dello stesso brevet-
to) (35).
Mi chiedo a questo punto, da quanto sopra, se aziende extra
UE (ad esempio americane o giapponesi o cinesi) possono essere
stimolate ed indotte ad intraprendere cause di contraffazione cross
border con credibili possibilità di decisioni anche in tempi ragione-
voli innanzi ai Giudici europei, tra questi inevitabilmente quelli
italiani. E ciò anche considerando da un lato che il Giudice ita-
liano potrebbe applicare la legge locale del paese di cui il brevetto
è stato validato — a loro ben più nota e familiare —, dall’altro
l’aspetto indubbiamente vantaggioso di evitare il proliferare di
contenziosi, con risparmio di energie e risorse. Del resto, in questo
caso, un giudizio intrapreso direttamente in Italia eviterebbe an-
che il rischio di una possibile (Italian) Torpedo.
ficaci nel caso in cui l’uso dell’opera o del materiale protetto sia controllato dai
titolari tramite l’applicazione di un dispositivo antiaccesso o di un procedimento
di protezione, quale la cifratura, la distorsione o qualsiasi altra trasformazione
dell’opera o del materiale protetto, ovvero sia limitato mediante un meccanismo
di controllo delle copie che realizzi l’obiettivo di protezione » « 3. Resta salva
l’applicazione delle disposizioni relative ai programmi per elaboratore di cui al
capo 4, sezione 6, titolo 1 ».
Per ragioni di completezza e con riferimento alla disciplina dei c.d. « video-
giochi » (v. infra) è opportuno ricordare le disposizioni contenute nell’art. 71-
sexies, della medesima legge sul diritto d’autore, n. 633 del 1941. Il comma 1, in-
fatti, mentre autorizza l’acquirente di fonogramma o videogramma a fare una
copia dello stesso « per uso esclusivamente personale », vieta in via generale la
prestazione di servizi finalizzati alla riproduzione di tali prodotti se effettuata a
scopo di lucro o per fini direttamente e indirettamente commerciali.
3. La motivazione della sentenza impugnata.
Il percorso argomentativo della Corte di Appello può sintetizzarsi come se-
gue:
a) La disciplina in vigore attualmente, che è stata erroneamente applicata
dal primo giudice ai fatti anteriori contestati all’imputato, è stata introdotta nel
2003 per porre rimedio al deficit di tutela delle consoles e della stessa Play Sta-
tion offerto dalla precedente normativa.
b) Solo a seguito della introduzione degli artt. 102-quater e della lettera f-bis)
dell’171-ter i videogiochi hanno perduto la qualificazione generica di « software »
per divenire una categoria a sé, dotata di specifica protezione.
c) Quella introdotta dall’art. 171-ter, lett. f-bis) costituisce, dunque, una fat-
tispecie incriminatrice nuova e non rapportabile a quella prevista dall’art. 171-
ter, lett. d) nel testo in vigore al momento dei fatti.
d) Quest’ultima disposizione non conteneva alcuna tutela penale in favore
dei videogiochi, ancora considerati come programmi per elaboratore e non ricon-
ducibili nell’ambito di tutela della citata lett. d), con la conseguente non sussi-
stenza dell’ipotesi contestata al Sig. D.
e) A tale conclusione deve giungersi anche considerando che dell’art. 171-ter,
lett. d), puniva le alterazioni apportate ai « supporti » su cui l’opera tutelata ri-
sulti incisa o contenuta, e non quelle apportate all’apparato che può leggerli ed
utilizzarli.
4. La natura dei videogiochi come programma per computer o come opera
contenente sequenza d’immagini in movimento.
Alla luce del percorso motivazionale della sentenza impugnata, appena ri-
cordato, questa Corte ritiene opportuno rimuovere subito un possibile motivo di
malinteso e chiarire le ragioni per cui assume che al caso di specie non possa in
alcun modo applicarsi la disposizione contenuta nell’art. 171-bis della legge. La
più recente giurisprudenza di legittimità, infatti, ha chiarito che i c.d. « video-
giochi » utilizzati sui personal computer o sulle consoles non costituiscono meri
« programmi per elaboratore », e cioè un software in senso proprio, bensı̀ un pro-
dotto diverso e più opportunamente riconducibile alla categoria dei supporti
contenenti sequenze di immagini. In questo senso si veda la sentenza n. 2304
della terza Sezione Penale del 15 dicembre 2006-24 gennaio 2007, Moumeni, la
cui massima (rv 235651) recita:
I. - Giurisprudenza nazionale 453
giuridico cui sottoporre, sul piano penale, le condotte che li riguardano e che ri-
guardano gli apparati destinati alla loro utilizzazione.
Pur in questo contesto la Corte ritiene sia oramai evidente che i « videogio-
chi » rappresentano qualcosa di diverso e di più articolato rispetto ai programmi
per elaboratore comunemente in commercio, cosı̀ come non sono riconducibili
per intero al concetto di supporto contenente « sequenze d’immagini in movi-
mento ». Essi, infatti, si « appoggiano » ad un programma per elaboratore, che
parzialmente comprendono, ma ciò avviene al solo fine di dare corso alla compo-
nente principale e dotata di propria autonoma concettuale, che è rappresentata
da sequenze di immagini e suoni che, pur in presenza di molteplici opzioni a di-
sposizione dell’utente (secondo una interattività, peraltro, mai del tutto libera
perché « guidata » e predefinita dagli autori), compongono una storia ed un per-
corso ideati e incanalati dagli autori del gioco. Ma anche qualora lo sviluppo di
una storia possa assumere direzioni guidate dall’utente, è indubitabile che tale
sviluppo si avvalga della base narrativa e tecnologica voluta da coloro che hanno
ideato e sviluppato il gioco, cosı̀ come nessuno dubita che costituiscano opera
d’ingegno riconducibile ai loro autori i racconti a soluzione plurima o « aperti »
che caratterizzano alcuni libri.
In altri termini, i videogiochi impiegano un software e non possono essere
confusi con esso.
Appare, dunque, corretta la definizione che una parte della dottrina ha dato
dei « videogiochi » come opere complesse e « multimediali »: vere e proprie opere
d’ingegno meritevoli di specifica tutela anche sotto la formulazione dell’art. 171-
ter, lett. d) nella formulazione in vigore all’epoca dei fatti.
5. La natura della PS2 quale console per videogiochi.
Escluso che i videogiochi siano riconducibili alla categoria giuridica del pro-
gramma per elaboratore, assume rilievo ai fini della decisione, come vedremo,
definire le caratteristiche essenziali e la natura dell’apparato PS2. Esso rappre-
sentava nel 2002 una marcata evoluzione delle già avanzate consoles in commer-
cio fino a poco tempo prima, quali la stessa Play Station immessa sul mercato
dalla soc. Sony negli anni ’90. La PS2 è dotata di un sistema operativo e di pos-
sibilità di utilizzo e di espansione (compreso l’impiego di operativi scritti in lin-
guaggio « Basic » oppure « Linux ») che l’avvicinano molto alle funzionalità di un
personal computer (si vedano, in particolare, la struttura e le caratteristiche tec-
niche come accertate dalla Corte di Giustizia, Tribunale di primo grado, terza
Sezione, con la sentenza del 30 settembre, Sony CEE Ltd contro Commissione,
nella causa T-243/01, su cui torneremo). Tuttavia essa è priva di video (cosı̀ che
deve essere necessariamente collegata ad altro apparato video) e di tastiera, che
peraltro può essere acquistata separatamente e collegata all’apparato. Risulta,
dunque, pacifico, che la PS2 rientra tra le « macchine automatiche per l’elabora-
zione dell’informazione », mentre occorre verificare se essa possa essere qualifi-
cata come « personal computer » invece che come « console ».
A tale proposito deve rilevarsi che la sentenza 30 Settembre 2003 sopra ci-
tata ha preso atto che l’originaria classificazione doganale dell’apparato PS2,
contro cui la Sony CEE Ltd. ha chiesto alla Corte di Giustizia di pronunciarsi,
ricomprendeva l’apparato tra gli « oggetti per giochi di società » e in particolare
nella sottovoce « videogiochi dei tipi utilizzabili con un ricevitore della televi-
sione ».
I. - Giurisprudenza nazionale 455
1. Introduzione.
« mod chips » o « converter chips », vicenda che, dal 2003 ad oggi, ha tro-
vato soluzioni controverse presso la giurisprudenza di merito italiana (1).
Come noto, la Sony è attiva, inter alia, sul mercato delle c.d. conso-
les e dei videogiochi. Le consoles — al pubblico note con il marchio
« Playstation 2 » — sono, come sostenuto dalla stessa azienda (2), dei veri
e propri elaboratori elettronici le cui potenzialità risultano però essere
ridotte artificiosamente dalla società medesima per ragioni commerciali.
Se infatti l’hardware potrebbe espletare tutte le funzioni di un elabora-
tore, la PS2, « ritoccata » ad hoc, può funzionare solo come « caricatore »
di videogiochi e, soprattutto, solo di alcuni videogiochi. In particolare,
la PS2 rifiuta di leggere prodotti contraffatti (riproduzioni di videogio-
chi Sony non autorizzate e non recanti il contrassegno SIAE), prodotti
legittimamente distribuiti da concorrenti ma volutamente resi incompa-
tibili, e perfino prodotti legalmente distribuiti dalla Sony ma destinati
ad altri mercati geografici.
In altre parole, come ben messo in luce dai giudici del Tribunale del
riesame (3), la strategia commerciale della Sony è chiara. Da una parte,
negando la interoperabilità (4) ai videogiochi concorrenti e a quelli con-
traffatti, la compagnia « lega » i suoi videogames alle proprie consoles (5),
che spesso vende sottocosto proprio per invogliare i consumatori all’ac-
quisto e poi sfruttare il c.d. effetto di « cattura » (« lock-in ») (6). Dall’al-
(1) Cfr. Tribunale del riesame di Bolzano, ordinanza del 31 dicembre 2003,
Pres. Es. Mori (« caso Playstation 2, n. 1 »), pubblicata su AIDA 2005, 481; Trib. Bol-
zano, sentenza del 28 gennaio 2005, Giudice Briganti Vitalizi (« Caso Playstation 2, n.
2 »); Trib. Bolzano, sentenza del 21 gennaio 2006, Giudice Gottardi (« caso Playstation
2, n. 3 »).
(2) Il fatto che la console Playstation sia, senza dubbio, un computer è stato so-
stenuto dalla stessa Sony dinanzi al Tribunale di Primo Grado. Alla Corte europea è
stato chiesto di accertare se le consoles Sony potessero essere considerate come PC (li-
beri da tasse di importazione) o, al contrario, ricadessero nella categoria dei congegni
non liberamente programmabili, soggetti a imposte doganali all’interno dei confini
comunitari. La Corte ha ritenuto che dette consoles avessero tutte le caratteristiche
per potersi qualificare come personal computer. Si veda Sony Computer Entertain-
ment Europe Ltd v. European Commission, caso T 243/01, 30 settembre 2003.
(3) Cfr. Tribunale del riesame di Bolzano, ordinanza del 31 dicembre 2003,
Pres. Es. Mori (« caso Playstation 2, n. 1 »).
(4) Da una lettura congiunta dei considerando n. 10, 11 e 12, della Direttiva
250/91/CEE (Direttiva 91/250/CEE del Consiglio, del 14 maggio 1991, relativa alla
tutela giuridica dei programmi per elaboratore, G.U.C.E. n. L. 122 del 17 maggio
1991, p. 0042-0046) il termine interoperabilità può intendersi come l’interconnessione
funzionale e l’interazione tra elementi software e hardware (generalmente noti come
« interfacce ») ovvero come l’abilità di scambiare informazioni ed utilizzarle mutua-
mente.
(5) Ciò perché, almeno secondo i giudici del Tribunale del riesame, la Sony de-
riverebbe la maggior parte dei propri profitti dalla vendita dei giochi piuttosto che da
quella delle playstation che, di regola, vengono acquistate una volta sola.
(6) Secondo la ben nota teoria economica, specie nel caso di « sistemi di pro-
dotti » — e cioè di prodotti che forniscono una determinata utilità quando utilizzati
insieme — l’investimento non recuperabile (c.d. sunk cost) in una determinata tecno-
logia di base condizionerebbe le scelte successive dell’acquirente in relazione ai pro-
I. - Giurisprudenza nazionale 459
dotti da utilizzare tramite la detta tecnologia, obbligandolo all’acquisto dei soli og-
getti con essa compatibili. Tra gli studi più esaustivi sui fenomeni del c.d. lock-in, dei
c.d. switching costs e degli effetti di rete si segnalano, inter alia, M.L. KATZ, C. SHA-
PIRO, Network Externalities, Competition, and Compatibility, in 75 Am. Econ. Rev. 424
(1985); C. SHAPIRO, M.L. KATZ, Antitrust in Software Markets, in Competition, Innova-
tion and the Microsoft Monopoly: Antitrust in the Digital Market Place, edizioni Eise-
nach & Lenard, Kluwer Academic Publishers, Boston MA, 1999; R. PITOFSKY, Anti-
trust and Intellectual Property: Unresolved Issues at the Heart of the New Economies, in
16 Berkeley Tech. L. J. 535, (2001); M.A. LEMLEY, D. MCGOWAN, Legal Implication of
Network Economic Effects, in 86 Calif. L. Rev. 479, 1998.
(7) La Sony ha diviso il mercato mondiale in tre zone geografiche (America,
Asia, Europa e Australia) per ognuna delle quali pratica un prezzo differente. E v inte-
ressante notare come è proprio la presenza delle misure tecnologiche di protezione che
permette alla Sony di mettere in pratica tale strategia impedendo a chi acquisti gio-
chi (a costo più basso) in un’altra area geografica di utilizzarli con la propria console
e quindi, cosa ancor più significativa, scoraggiando le importazioni parallele.
(8) La tutela civilistica delle misure tecnologiche di protezione è disciplinata
dall’art. 102-quater l.a. che attribuisce ai titolari dei diritti d’autore, dei diritti con-
nessi e del diritto sui generis sulle banche dati, la facoltà di apporre misure tecnolo-
giche di protezione efficaci « che comprendono tutte le tecnologie, i dispositivi o i
componenti che, nel normale corso del loro funzionamento, sono destinati ad impe-
dire o limitare atti non autorizzati dai titolari dei diritti ».
(9) Come si rileva dall’analisi svolta dai consulenti tecnici durante i giudizi di
primo grado, la scheda di espansione mod chip va inserita nella console ed opera in-
terponendosi tra il lettore DVD della Playstation 2 ed il microprocessore. In partico-
lare, al momento del caricamento del supporto, il chip opera aggiungendo un’informa-
zione che autorizza il microprocessore ad eseguire la lettura di qualsiasi tipo di sof-
tware inserito nel lettore DVD/CDROM.
460 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II
cie penali che potrebbero trovare applicazione alle circostanze del caso
qui in analisi: fattispecie regolate, rispettivamente, dagli artt. 171-ter,
lett. f-bis) e 171-bis, comma 1. La prima delle due norme, introdotta con
d.lgs. n. 68 del 2003, in recepimento della Direttiva comunitaria 20/2001/
CE (10), punisce con la reclusione e la multa chiunque, per trarne profitto,
« [...] fabbrica, importa, distribuisce, vende, noleggia [...] attrezzature,
prodotti o componenti ovvero presta servizi che abbiano la prevalente fi-
nalità o l’uso commerciale di eludere efficaci misure tecnologiche di cui
all’art. 102-quater ovvero siano principalmente progettati, prodotti, adat-
tati o realizzati con la finalità di rendere possibile o facilitare l’elusione
delle predette misure » (corsivi aggiunti). La seconda fattispecie, regolata
all’art. 171-bis, comma 1, l.a., punisce chiunque — sempre « per trarne
profitto » — « [...] importa, distribuisce, vende, detiene a scopo commer-
ciale o imprenditoriale [...] qualsiasi mezzo inteso unicamente a consen-
tire o facilitare la rimozione arbitraria o l’elusione funzionale di disposi-
tivi applicati a protezione di un programma per elaboratori » (corsivo
aggiunto).
Le fattispecie di cui agli artt. 171-ter, lett. f-bis) e 171-bis, comma 1,
l.a., sebbene accomunate per l’avere ad oggetto lo smercio lato sensu di
strumenti atti ad eludere delle misure tecnologiche di protezione, diffe-
riscono sensibilmente per due importanti aspetti. In primo luogo, la se-
conda fattispecie trova applicazione solo nel caso di misure di protezione
apposte su programmi per elaboratore elettronico; ha, pertanto, natura
speciale rispetto alla fattispecie regolata all’art. 171-ter, lett. f-bis) che
punisce, in maniera generale, tutte le condotte aventi a che fare con con-
gegni atti ad eludere o facilitare l’elusione di una misura di protezio-
ne (11). In secondo luogo, le due fattispecie differiscono in maniera signi-
ficativa riguardo l’onere della prova spettante al convenuto. Nel caso
della fattispecie di cui all’art. 171-bis, comma 1, l.a., poiché la norma ri-
chiede che il dispositivo atto ad eludere la misura di protezione sia stato
messo a punto unicamente ed esclusivamente a tal fine, il convenuto in
giudizio potrà difendersi dando prova che la tecnologia in esame è capace
di essere impiegata anche per un solo altro tipo di utilizzazione, distinto
dalla mera elusione della protezione tecnologica, che non si ponga in
contrasto con i diritti garantiti dalla l. n. 633 del 1941. Diversamente,
poiché l’art. 171-ter, lett. f-bis) menziona strumenti avente la prevalente
finalità o l’uso commerciale di eludere efficaci misure tecnologiche ovvero
principalmente progettati, prodotti, o realizzati allo scopo di rendere pos-
(10) Direttiva 2001/29/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 22 mag-
gio 2001 sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e i dei diritti con-
nessi nella società dell’informazione, G.U.C.E. L 167/11 22 giugno 2001.
(11) Nonostante la portata dell’art. 171-ter, lett. f-bis) sia certamente più am-
pia di quella dell’art. 171-bis, tale fattispecie non appare poter coprire casi di con-
dotte riguardanti l’elusione di misure tecnologiche apposte al software. Ciò perché la
prima fattispecie richiama espressamente le MTP di cui all’art. 102-quater le cui di-
sposizioni, recependo i dettami della Direttiva 2001/29/CE, non si applicano ai pro-
grammi per elaboratore. V. infra, alla nota successiva.
I. - Giurisprudenza nazionale 461
alla possibilità di risolvere il caso alla luce di una diversa fattispecie pe-
nale, nel « caso Playstation 2, n. 2 », il giudice ha espressamente moti-
vato il ricorso all’art. 171-ter, lett. f-bis), sostenendo l’erroneità di un ap-
proccio che vedrebbe i videogiochi equiparati a meri programmi per ela-
boratore. Il software, infatti, sarebbe certo parte integrante del video-
gioco, ma questo si compone di ulteriori elementi che, nel suo insieme, lo
rendono un’opera molto più complessa che certamente rientra, come i
fonogrammi e le opere audiovisive, nel novero delle altre opere dell’inge-
gno tutelate penalmente dall’art. 171-ter, lett. f-bis) (15).
Il paragone fra i due casi è di estremo interesse in quanto, pur
avendo deciso sulla base della stessa fattispecie criminosa, gli organi giu-
dicanti sono giunti a conclusioni opposte. Secondo il giudice del caso PS2
n. 2, infatti, la responsabilità ex art. 171-ter, lett. f-bis) sussiste poiché il
fine di eludere la misura tecnologica di protezione sarebbe prevalente e
preponderante rispetto agli altri usi resi possibili dalla tecnologia in
esame. In particolare, degna di nota sembra la considerazione secondo
cui la possibilità di rendere la console capace di leggere giochi di impor-
tazione non potrebbe costituire un uso legittimo in quanto, secondo il
principio dell’esaurimento enucleato all’art. 17 l.a., la stessa attività di
importazione e distribuzione di videogiochi destinati al mercato extraco-
munitario sarebbe illegale (16). In secondo luogo, sempre secondo il Giu-
dice, venendo meno l’assimilazione del videogioco al genus dei pro-
grammi per elaboratore, verrebbe parimenti meno la facoltà di effet-
tuare una copia di riserva del gioco, facoltà che l’art. 64-ter garantirebbe
solo all’acquirente legittimo di un software (17). Al contrario, a quest’ul-
timo soggetto spetterebbe semmai, conformemente a quanto sancito al-
l’art. 71-sexies, comma 1, l.a., la facoltà di farne copia per fini privati: ma
ciò nel rispetto delle misure tecnologiche di cui all’art. 102-quater, l.a.
Pertanto, conclude il Giudice, « se [dunque] è legittima la realizzazione
della copia del videogioco per fini privati, non altrettanto lo è la rimo-
zione del dispositivo che ne impedisca la lettura sulla console » (18). (An-
(15) L’idea che i videogiochi siano assimilabili a vere e proprie opere dell’inge-
gno ha trovato conferma in dottrina. V. P.F. REGOLI, I videogiochi e i videoclips nella
recente disciplina legislativa, in Riv. dir. aut., n. 1, 2007, p. 80; G. GUGLIELMETTI, Le
opere multimediali, in AIDA, 1998, p. 109 ss.; G. NIVARRA, Le opere multimediali in in-
ternet, in AIDA, 1996, p. 131.
(16) In senso analogo v. M. RICOLFI, Videogiochi che Passione! Consoles Proprie-
tarie, modchips e Norme Antielusione nella Prima Giurisprudenza Italiana, in Giur. it.,
2004, 1454 a p. 1455.
(17) La tesi appare discutibile in quanto se è vero che il videogioco si compone
di ulteriori aspetti espressivi (quali i personaggi, la trama del gioco ecc.) che possono
contribuire differenziarlo da un semplice software applicativo, dall’altra le similitu-
dini con la detta tipologia di opere dell’ingegno rimane ed è molto forte. In partico-
lare, il fatto che, in entrambi i casi il consumatore non si limita ad una fruizione
« passiva » dell’opera ma interagisce con questa al fine di raggiungere un determinato
risultato, a sua volta creativo, che può essere utile (nel caso del programma per ela-
boratore) o semplicemente dilettevole (nel caso dei videogioco).
(18) Appare singolare che il giudice non abbia tenuto conto, nel suo ragiona-
I. - Giurisprudenza nazionale 463
mento, della disposizione contenuta al quarto comma del medesimo articolo che —
con scarsa precisione — statuisce che « i titolari dei diritti sono tenuti a consentire che,
nonostante l’applicazione delle misure tecnologiche di cui all’art. 102-quater, la persona
fisica che abbia acquisito il possesso legittimo di esemplari dell’opera o del materiale
protetto [...] possa effettuare una copia privata [...] per uso personale [...] » (corsivi
aggiunti). In realtà, che i consumatori possano effettivamente vantare un vero e pro-
prio diritto alla copia privata, attuabile nei confronti dei titolari di diritti, è questione
piuttosto controversa (in favore di questa tesi, G. Sanseverino, nota a Trib. Bolzano,
31 dicembre 2003, Giudice Mori, AIDA, 2005, 484), che si complica ulteriormente nel
caso in cui l’opera sia protetta da una MTP (negativamente sul punto M. RICOLFI, su-
pra nota 16, a p. 1455). Si veda, a tal proposito, la recente decisione della Corte Su-
prema francese nel caso « Mulholland Drive » secondo cui la realizzazione di una co-
pia privata dell’omonimo film confliggerebbe con la nozione di normale sfruttamento
dell’opera (il caso riguardava un consumatore che aveva legittimamente acquistato
copia del film in DVD e non riusciva ad effettuare una riproduzione per fini privati a
causa delle MTP) (Cfr. Decisione della Suprema Corte Francese, 1o Sezione Civile, 28
febbraio 2006, 2006 D. 784. La decisione è stata severamente criticata da C. GEIGER,
Three Steps Test, a Threat to a Balanced Copyright Law?, in IIC, n. 6/2006, 683). Ad
ogni modo, sembra opportuno puntualizzare che l’art. 71-sexies si applica specifica-
mente alla riproduzione privata di fonogrammi e videogrammi, categoria all’interno
della quale non è scontato possano essere ricondotti i videogiochi. Basti pensare, a tal
proposito, come il quarto comma del detto articolo, appena richiamato in questa
nota, fa riferimento alla possibilità di effettuare una copia privata « anche solo ana-
logica ». Ben si comprende come la copia analogica di un CD musicale o di un DVD
consente ugualmente all’utente di poter fruire del contenuto protetto, sebbene attra-
verso una tecnologia obsoleta; la medesima cosa, tuttavia, non pare possibile nel caso
dei videogiochi.
(19) Interessante, su questo punto, il paragone con l’ordinanza firmata dal
Giudice Mori. I Giudici del Tribunale del riesame si sono a lungo interrogati sulla le-
gittimità della condotta con cui il produttore/distributore della macchina hardware,
dopo averne perso la disponibilità (in ragione dell’atto di vendita), tenti di impedire
all’acquirente legittimo di modificarla per renderne l’uso più consono alle proprie esi-
genze. Riconoscono, infatti, i giudici che l’inserimento della misura di protezione,
avendo esattamente questo fine, di fatto aggira gli ostacoli provenienti dalle norme
civilistiche. Peraltro, osserva il Tribunale del riesame, le limitazioni contrattuali inse-
rite attraverso licenze shrink-wrap o click-wrap, miranti a limitare la libertà dei con-
sumatori, non possono essere rese esecutive nei Paesi di civil law come l’Italia, dove i
termini contrattuali (per poter essere validi ed attuabili) devono essere conosciuti —
conoscibili o comprensibili — dal consumatore al momento della vendita; ed una tale
conoscenza non può essere presunta se, come avviene nel caso delle dette licenze, essi
non sono chiaramente a disposizione dell’acquirente al momento della conclusione del
contratto.
464 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II
(20) Al momento dei fatti, l’art. 171-ter, lett. d) puniva: « chiunque produce,
utilizza, importa, detiene per la vendita, pone in commercio, vende, noleggia o cede
a qualsiasi titolo sistemi atti ad eludere, decodificare o rimuovere le misure di prote-
zione del diritto d’autore o dei diritti connessi ». La Corte territoriale aveva escluso la
responsabilità dell’imputato sostenendo, in maniera non troppo chiara, che detta
norma non fosse applicabile al caso dei videogiochi: questi, da una parte, non pote-
vano correttamente assimilarsi ai programmi per elaboratore — e rientrare dunque
sotto l’art. 171-bis — ma, dall’altra, solo a seguito delle modifiche operate con il d.lgs.
n. 68 del 2003, ed in particolare con l’introduzione degli artt. 102-quater e 171-ter, lett.
f-bis), « hanno perduto la qualificazione generica di “software” per divenire una cate-
goria a sé, dotata di specifica protezione ». Cfr. i fatti riportati in Cass. pen., Sez. III
(ud. 25 maggio 2007) 3 settembre 2007, n. 33768.
(21) Sony Corp. of America v. Universal City Studios Inc., 464 U.S. 417, (1984).
(22) La Corte Suprema ritenne che la riproduzione tramite il videoregistratore
rientrava nella nozione di fair use in quanto, priva di scopo commerciale, era sempli-
cemente volta a consentire agli utenti di spostare nel tempo la visione di un pro-
gramma che erano legittimati a vedere (c.d. time shifting). Secondo la Corte Suprema,
infatti, « even unauthorized uses of a copyrighted work are not necessarily infringing.
An unlicensed use of the copyright is not an infringement unless it conflicts with one
of the specific exclusive rights conferred by the copyright statute ». Idem, p. 447 ss.
I. - Giurisprudenza nazionale 465
(25) Secondo quanto sancito dallo stesso art. 102-quater l.a., i titolari di diritto
d’autore, di diritto connesso e il costitutore di una banca dati di cui all’art. 102-bis
l.a. possono tutelare le proprie opere tramite l’apposizione di misure tecnologiche di
protezione, da intendersi come « tutte le tecnologie, i dispositivi o i componenti che,
nel normale corso del loro funzionamento, sono destinati a impedire o limitare atti
non autorizzati dai titolari dei diritti ». Se i videogiochi — come sostenuto in ultimo
dalla Cassazione nella sentenza in epigrafe — rientrano nel novero di opere coperte
da diritto d’autore, i titolari dei diritti ben possono avvalersi della tutela di cui all’art.
102-quater.
(26) Si noti, infatti, che il diritto di apporre misure di protezione è attribuito
ai titolari di diritti d’autore, diritti connessi e diritto sui generis sulle banche di dati:
ma non è attribuito al titolare di diritto d’autore su di un programma per elaboratore
elettronico (come espressamente escluso dall’art. 102-quater, comma 3), né tantomeno
in via generale, ai titolari di distinti diritti di proprietà industriale, come ad esempio
al titolare di un brevetto su di un’invenzione attuata a mezzo di elaboratore elettro-
nico, o al titolare di diritti su topografie dei prodotti a semiconduttori, etc. Preme qui
precisare, tuttavia, che tale circostanza non impedisce al titolare di un diritto di pro-
prietà industriale, di proteggere il proprio bene apponendovi delle misure di prote-
zione. Tali misure, però, in questo secondo caso, non beneficieranno della tutela di cui
all’art. 102-quater e, di rimando, di quella codificata all’art. 171-ter, lett. f-bis).
(27) Gli artt. 11 e 18 rispettivamente del WIPO Copyright Treaty e WIPO Per-
formances and Phonograms Treaty fanno riferimento a misure tecnologiche di prote-
zione utilizzate dagli autori in connessione con l’esercizio dei propri diritti sanciti dai
medesimi Trattati o dalla Convenzione di Berna, e che sono volte a restringere con-
dotte non autorizzate dai titolari dei diritti rispetto alle proprie opere o condotte non
permesse dalla legge. Cfr. WIPO Copyright Treaty (WCT) adottato dalla Conferenza
Diplomatica di Ginevra del 20 dicembre 1996, art. 11 (« Obblighi concernenti le Mi-
sure Tecnologiche »), e analogamente WIPO Performances and Phonograms Treaty
(« WPPT ») adottato dalla Conferenza Diplomatica di Ginevra del 20 dicembre 1996,
art. 18 (« Obblighi concernenti le Misure Tecnologiche »). E v interessante mettere in
luce come la stessa Direttiva 29/2001/CE, sebbene si sia discostata dalle disposizioni
degli articoli del WCT e del WPPT nel non condizionare l’applicabilità della misura
al fatto che questa sia effettivamente volta a tutelare una facoltà espressamente at-
tribuita al titolare del diritto dalla legge (consentendo, pertanto, ai titolari dei diritti
di « blindare » utilizzazioni dell’opera che, per legge, sarebbero libere), ha però man-
tenuto il legame tra MTP e opera o materiale protetto là dove all’art. 6, comma 3,
parla di dispositivi che « [...] nel normale corso del loro funzionamento, sono destinati a
impedire o limitare atti su opere o altri materiali protetti [...] » (corsivi aggiunti): for-
mula recepita pedissequamente dalla nostra normativa. Per una trattazione più ap-
I. - Giurisprudenza nazionale 467
6. Conclusioni.
di gestire ed organizzare la disposizione dei files nel lettore (ad esempio suddividen-
doli in c.d. playlists).
Ovviamente, perché l’intero sistema funzioni è necessario che tutti i suoi com-
ponenti siano interoperabili tra loro. Perché il sistema poi divenga quanto più possi-
bile profittevole, è necessario utilizzare l’interoperabilità in maniera strategica. Ciò
spiega, ad esempio, per quale motivo la Apple al momento del lancio dell’i-pod,
quando non esistevano ancora dei servizi di vendita di brani musicali online, si sia ben
guardata dal renderlo incapace di leggere brani contraffatti. Anzi, si può tranquilla-
mente affermare che la Apple si sia deliberatamente avvantaggiata del dilagante fe-
nomeno della pirateria musicale per lanciare un prodotto che, al momento di immis-
sione nel mercato, poteva essere utilizzato quasi unicamente per riprodurre brani
contraffatti (si può escludere solo il caso della riproduzione di brani trasferiti sul let-
tore portatire da un CD legalmente acquistato, ma questa è certamente un’ipotesi re-
siduale).
E
v peraltro interessante notare come successivamente all’introduzione del proprio
servizio di vendita di brani musicali online, tramite l’i-tunes music store, la casa di
Cupertino abbia ritenuto opportuno rendere l’i-pod incapace di leggere brani scaricati
da servizi concorrenti quale quello offerto dalla RealNetworks. Quest’ultima vicenda
è stata riportata e commentata da J. BOYLE, The Apple of forbidden knowledge, Finan-
cial Times, August 12th 2004.
I. - Giurisprudenza nazionale 469
dei programmi per elaboratore, bensı̀ in ragione del fatto che la condotta
elusiva aveva avuto ad oggetto la protezione tecnologica direttamente
apposta al programma per computer sotteso al funzionamento della con-
sole.
In conclusione, la tutela legale accordata alle misure tecnologiche di
protezione certamente aggiunge un ulteriore strato di protezione alle
opere protette dal diritto d’autore. Occorre, tuttavia, tenere a mente che
dette misure non sono — non debbono essere! — tutelate per se, indipen-
dentemente dal proprio ambito di applicazione, bensı̀ là dove coprano
opere tutelate dal diritto d’autore. E v pertanto necessario che l’elusione
di tali misure sia colpita ove ed in quanto esse direttamente « insistano »
su un’opera dell’ingegno oggetto di copyright. Viceversa, se la tutela ve-
nisse accordata indipendentemente dall’« oggetto » si correrebbe il ri-
schio, come paventato dalla Corte Suprema nel caso Sony, di ampliare a
dismisura la portata di un diritto che già, per sua natura, è volto a raf-
forzare, se non ad estendere, la portata monopolistica del diritto d’au-
tore.
EMANUELA AREZZO
470 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II
I
TRIBUNALE DI MILANO
Sezione Specializzata in proprietà industriale ed intellettuale
Ordinanza 24 novembre 2005
Pres. TARANTOLA — ROSA — Est. DE SAPIA
Marco Bruns, 69 S.r.l. e Fin Esse S.r.l. (Avv.ti L. Mansani e I. Betti)
c. Flirt S.r.l. (Avv.ti F. Cannizzaro e G. Selgi)
Marchi - Illiceità del marchio per contrarietà al buon costume - Capacità distin-
tiva - Elemento concettuale - Rischio di confusione - Insussistenza.
Si possono sollevare dubbi, in relazione al disposto di cui all’art. 14, co. 1, lett.
a) CPI, sulla tutelabilità di un marchio avente ad oggetto una lettera dell’alfabeto che
raffigura in forma stilizzata un atto sessuale, tenuto conto che il segno, se si prescinde
da quel richiamo, non risulta avere specifiche particolarità grafiche tali da consen-
tire una protezione ulteriore rispetto alla lettera dell’alfabeto raffigurata.
II
TRIBUNALE DI BARI
Sezione Specializzata in proprietà industriale ed intellettuale
25 giugno 2007
Pres. MAGALETTI — CLAUDIO — Est. DI PAOLA
Marco Bruns, 69 S.r.l. e Fin Esse S.r.l.
(Avv.ti L. Mansani, I. Betti e Angelo Donato)
c. Felice Nicola Covelli (Avv. ti C. Manzi e S. Liuni)
mento della sfera sessuale, pur rappresentando il nucleo individualizzante del segno,
appaia tuttavia indiretto, eventuale e non automaticamente collegato alla visione del
segno.
La tutela del marchio forte comporta l’illegittimità di qualsiasi variazione e
modificazione dell’uso di quella parte dello stesso che costituisce il cd. cuore, ossia il
nucleo ideologico che ne esprime l’idea fondamentale.
Valutando complessivamente sia le caratteristiche stilistiche dei marchi, sia il
contenuto concettuale, il consumatore del settore interessato (moda) può trarre il con-
vincimento che i marchi in conflitto appartengano ad una stessa famiglia di segni,
riconducibile ad una medesima origine commerciale, secondo una tecnica diffusa nel
settore della moda e dell’abbigliamento in cui la penetrazione sul mercato è assicu-
rata dall’uso di marchi seriali rivolti a differenti settori del pubblico per garantire la
continuità del messaggio principale che sta alla base della serie dei marchi.
stente, che, in maniera ancora più esplicita, consente di riconoscere nella lettera
“H” accompagnata da due punti, due persone che compiono un determinato atto
sessuale.
Il conflitto fra i segni in questione, pertanto, presuppone la possibilità di
utilizzare marchi che, pur in maniera velatamente celata, basano il loro messag-
gio caratterizzante sulla rappresentazione di un rapporto sessuale nel suo compi-
mento.
Ciò premesso, si osserva che per quanto immagini di nudo o di impronta
erotica vengano talvolta utilizzate anche nella pubblicità, ciononostante nel caso
di specie, grazie alla modalità grafica utilizzata (stilizzazione), si introduce una
rappresentazione di tipo dinamico, relativa ad un comportamento sessuale, che
come tale deve essere valutata con maggiore rigore.
E se questo è il nucleo ideologico del segno, appare irrilevante che il ri-
chiamo all’atto sessuale possa talvolta non apparire immediato, proprio in
quanto tale trasposizione ed il conseguente doppio senso, configurano l’appetibi-
lità del segno, valutabile in chiave distintiva.
Per queste ragioni le, pur apprezzabili, argomentazioni svolte dalla difesa di
parte reclamante non risultano pertinenti, riguardando casi in cui prevale un ri-
chiamo per cosı̀ dire statico ed in ogni caso meno esplicito, alla sfera sessuale,
ipotesi che non ricorre nel caso di specie.
Quanto alla possibilità, pure evidenziata dai reclamanti, di “soddisfare ogni
più recondita curiosità riguardo alle pratiche sessuali anche più inusitate ...” attra-
verso la rete internet (reclamo pag. 11), ciò attiene alla sfera privata di ciascun
utente e certo non contribuisce a definire il concetto di “buon costume”.
Del resto, nello stesso “parere pro veritate” prodotto da parte reclamante
(doc. n. 25), pur ritenendosi il marchio in esame conforme alla morale pubblica,
non può non ammettersi che si tratti di segno di cattivo gusto.
Contrariamente a quanto dedotto da parte reclamante, infine, non si per-
viene a diversa conclusione sulla base dell’intervenuta registrazione del segno
quale marchio comunitario, considerato che nel Reg. CE n. 40/94 vige analoga
disposizione, riguardante i marchi contrari al buon costume (art. 7.1.f), onde ap-
pare assorbente la già evidenziata lesività del segno.
Le conclusioni raggiunte assorbono ogni altra questione sollevata in causa e
comportano il rigetto del reclamo.
Le peculiarità del caso consigliano la compensazione delle spese di lite an-
che di questa fase del giudizio.
II
deve, dunque, valutarsi se residuino poteri di ufficio del Tribunale per rilevare
eventuali cause di nullità del marchio.
La questione, non affrontata espressamente dalla giurisprudenza, impone di
verificare la funzione dell’istituto della nullità del marchio ed al tempo stesso di
qualificare l’attività del giudice chiamato a sondare la fondatezza della domanda
proposta per conseguire la tutela invocata da chi si assume titolare del diritto
esclusivo derivante dalla registrazione del marchio.
Di certo la categoria della nullità riferita al marchio non può identificarsi
con la nullità negoziale in senso lato in quanto, come è stato puntualmente sot-
tolineato, si tratta di invalidità che attiene alla registrazione intervenuta e non
al marchio in sé; invalidità, peraltro, che per le cause individuate nel sistema
normativo si atteggia non già come inefficacia della registrazione, ma come effi-
cacia precaria della stessa (in quanto soggetta alla possibile reazione dei terzi, in-
teressati ad interrompere quell’efficacia appunto con la proposizione dell’azione
giudiziale diretta a dichiarare la nullità del [la registrazione del] marchio).
Le proposizioni ora ricordate, frutto di attente elaborazioni dottrinali, non
possono essere integralmente condivise.
Tra le cause che importano la nullità del marchio certamente assumono ri-
lievo preminente le situazioni di conflitto con altri diritti, titolati o no, che pos-
sono impedire il riconoscimento del dato della novità del segno; allo stesso modo,
incidono sul giudizio di validità del marchio i motivi che attengono alla capacità
del segno registrato di assumere la qualità di marchio (quali l’assenza di capa-
cità distintiva; la carenza dei presupposti per il riconoscimento nel segno scelto
della natura di marchio), circostanze che mirano ad impedire la realizzazione di
situazioni in cui l’assunto titolare del segno acquisti indebitamente posizioni di
privilegio derivanti dalla monopolizzazione di segni e messaggi, che devono rima-
nere nella disponibilità comune di tutti gli imprenditori.
Vi sono, però, presupposti di validita del diritto al marchio, quali quelli
compresi nell’area della liceità richiesta dall’art. 18 lett. A) l. marchi (ora dal-
l’art. 14 c.p.i.), il cui significato non può dirsi esclusivamente connesso alla tu-
tela delle posizioni degli altri soggetti interessati all’uso del segno, ma piuttosto
appare rivolto, cosı̀ come in altri ambiti dell’ordinamento, a scongiurare il rico-
noscimento di tutela giuridica a fatti, atti e istituti fondati su condizioni di illi-
ceità comunemente riconosciute dalla collettività.
Se, dunque, in relazione ai motivi di nullità che esprimono l’esigenza di tu-
tela dei terzi (interessati all’uso di altri segni o di altri diritti esclusivi nell’am-
bito della proprietà industriale) è corretto sottolineare come la nullità del mar-
chio non potrà essere rilevata d’ufficio, spettando alla parte interessata di richie-
dere la relativa declaratoria o di sollevare la corrispondente eccezione, non si
comprende perché in relazione a motivi di nullità discendenti dal contrasto del
marchio registrato con i parametri della liceità debba impedirsi al Giudice di ri-
levare l’assenza di quello specifico requisito di validità, posta a tutela (anche) di
interessi collettivi. Spetta certamente al Giudice, pur di fronte alla presunzione
di validità del titolo di proprietà posto a base della domanda (sia essa di contraf-
fazione dell’altrui marchio ovvero di nullità del marchio non ancora utilizzato e
già registrato) verificare se il titolo azionato corrisponda alla fattispecie legale
che individua il titolo di proprietà in relazione ai profili che attengono alla tutela
di interessi collettivi; ove accerti la carenza di uno dei requisiti richiesti dall’or-
476 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II
l’effetto di coinvolgimento della sfera sessuale, con il richiamo alla posizione dei
due soggetti coinvolti nell’atto sessuale, appare indiretto, eventuale e non auto-
maticamente collegato alla visione del segno.
Per altro verso, non v’e dubbio che nel settore dei messaggi pubblicitari in
genere, ed anche in quello più specifico dei marchi, sono state già apprezzate
espressioni inequivocabilmente dirette al coinvolgirnento della sfera sessuale, con
l’uso di immagini, segni ed espressioni ehe non lasciano spazio a interpretazioni
differenti e richiamano palesemente il riferimento, al contenuto sessuale del mes-
saggio, con tratti di palese volgarità o oscenità (v. in tema di marchi, la decisione
della Commissione di ricorso presso l’UAMI in data 6 luglio 2006 R495/2005-0,
relativa al marchio denominativo “screw you”, che ha rigettato la richiesta di re-
gistrazione del marchio per l’oscenità dell’espressione, usualmente collegata al
gesto di mostrare il dito medio con la mano chiusa).
Dunque, mancando un sicuro effetto di lesione dei valori protetti dalla
norma che vieta la registrazione dei marchi contrari al buon costume, va escluso
che il marchio esaminato ricada nell’ambito della disposizione di cui all’art. 18 l.
marchi.
Passando ad esaminare il contenuto della domanda di nullità proposta che
concerne il marchio registrato dal convenuto in data 19 gennaio 2005 al n.
952285 (circostanza dedotta dagli attori e non contestata da controparte), va ri-
levato che la confondibilità lamentata dagli attori tra il proprio segno ed il mar-
chio successivo registrato da parte convenuta deve esser valutata tenendo conto
delle caratteristiche dei marchi in conflitto e dei prodotti destinati ad essere
contraddistinti dai marchi.
In relazione a tale ultimo profilo, non è contestato tra le parti che i marchi
concernono prodotti sicuramente affini; si tratta, infatti, di marchi operanti
principalmente nel settore dell’abbigliamento ed in settori assai vicini (metalli
preziosi, telecomunicazioni) ricadenti tutti nell’area comunemente denominata
del gusto e della moda. Dunque, deve riconoscersi la somiglianza (se non l’iden-
tità) dei prodotti contraddistinti dai marchi degli attori e dal marchio del conve-
nuto.
Per quanto, attiene, poi, le caratteristiche dei marchi, trattandosi di marchi
che raffigurano lettere dell’alfabeto, è sicuramente dominante l’elemento visivo
dei marchi: la comparazione dei segni consente di apprezzare come la rappresen-
tazione delle diverse lettere utilizzate (A e K) presenta in entrambi i marchi l’uso
di uno sfondo di colore contrastante (giallo), lo stesso calibro e lo stesso carattere
della lettera, la presenza in entrambi i segni di due puntini che richiamano il se-
gno della dieresi.
Tali caratteri si individuano agevolmente esaminando i due marchi ripro-
dotti di seguito:
478 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II
Sulla scorta dell’esame operato, si può affermare che vi sono notevoli ele-
menti di somiglianza visiva tra i due marchi, pur trattandosi di marchi costituiti
da diverse lettere dell’alfabeto.
Per ciò che attiene il profilo uditivo, certamente le due lettere che compon-
gono i marchi nella pronuncia italiana individuano suoni tra lora differenti; va
però osservato che i prodotti contraddistinti dai marchi difficilmente vengono ri-
chiesti dal pubblico dei consumatori attraverso ordini orali; inoltre, nel settore
commerciale considerato appare decisivo l’impatto visivo che porta ad indivi-
duare la provenienza dei prodotti.
Quanto, infine, alla comparazione concettuale dei due marchi, entrambe le
parti hanno convenuto che la presentazione dei marchi attraverso la presenza dei
due puntini posti a lato della lettera A e sulla lettera K portano in entrambi i casi
a richiamare la posizione (pur se diversa) di due corpi nell’atto di congiungersi
sessualmente.
Il convenuto ha, ripetutamente contestato il carattere forte e notorio dei
marchi registrati facenti capo agli attori, ritenendo che, trattandosi di marchi
costituiti da una lettera dell’alfabeto, privi di tratti di spiccata originalità, gli
stessi debbano qualificarsi come marchi deboli, in quanto tali tutelati solo in re-
lazioni a marchi successivi in tutto simili ed analoghi e non anche in riferimento
a marchi posteriori che ne riprendano il nucleo ideologico.
Premesso che il giudizio da svolgere concerne unicamente i marchi “A”, ri-
sultando irrilevanti le considerazioni svolte sui marchi “A-style” per i quali nes-
suna domanda risulta formulata, va altresı̀ preliminarmente rilevato che ogni
valutazione in ordine all’eventuale notorietà dei marchi non inciderebbe in alcun
modo sull’esito del giudizio relativo alla sussistenza del rischio di confusione o di
associazione tra i segni; quel dato, infatti, è considerato dal legislatore per assi-
curare al titolare del marchio che gode di notorietà la tutela del proprio segno
anche rispetto a marchi utilizzati per prodotti non affini (art. 17, lett. G) e art.
47 1. marchi, ora riprodotti negli art. 12, lett. F) e 25 c.p.i.).
Egualmente infondata è l’affermazione, più volte ribadita dal convenuto, in
relazione all’impossibilità per il marchio costituto da una lettera dell’alfabeto,
sempre originariamente debole, di acquisire il carattere di marchio forte.
E
v ormai patrimonio acquisito della giurisprudenza la nozione del “rafforza-
mento” del marchio debole, in ragione di massicce attività di pubblicizzazione
del marchio e del conseguente successo decretato dal mercato dei consumatori
con l’identificazione del prodotto o del servizio contraddistinto dal marchio con
il termine generico o descrittivo scelto dall’imprenditore (cfr. nella giurispru-
denza di merito App. Milano 6 luglio 2001; Trib. Bologna 22 luglio 2004; Trib.
Catania 23 dicembre 2002 e 7 dicembre 2002; Trib. Bologna 10 ottobre 2001 e
118 giugno 2001, nonché nella giurisprudenza di legittimità, Cass. 16 luglio 2004,
n. 13178).
Ebbene, la copiosa documentazione offerta dagli attori testimonia un in-
tenso impegno pubblicitario, documentato sia quanto alle spese sostenute (oltre
115.000 nel solo primo semestre dell’anno 2004), sia agli effetti raggiunti desumi-
bili dal numero e dalla diffusione delle testate giornalistiche su cui sono apparsi
numerosi articoli (a partire dall’anno 2000 e sino al 2005) e che riguardavano il
crescente successo commerciale e pubblicitario del marchio degli attori; i dati del
fatturato delle aziende che hanno fatto uso del marchio (dati non contestati e
I. - Giurisprudenza nazionale 479
motivi sopra esposti va accolta anche tale domanda, con l’accessoria pronuncia
di inibitoria dell’uso del marchio registrato dal Covelli.
Quanto al regolamento delle spese del giudizio, le stesse, liquidate nella mi-
sura indicata in dispositivo, vanno poste a carico della parte soccombente.
(1) In argomento si osserva che sono stati ad esempio concessi i seguenti mar-
chi comunitari: “Pisstarget”, “Big Cock”, “Bullshit”, “Orgasmus”, “Bitch” e “Porn-
star”.
(2) Cfr., tra le altre, decisione 186/92, in Giurisprudenza pubblicitaria, diretta
da Luigi C. Ubertazzi, 1992-1993; decisione 30/92, in Giurisprudenza pubblicitaria, di-
retta da Luigi C. Ubertazzi, 1992-1993 e decisione 377/99, in Giurisprudenza pubbli-
citaria, diretta da Luigi C. Ubertazzi, 1999.
(3) Pronuncia n. 258/1997, in Giurisprudenza pubblicitaria, 1998, diretta da
Luigi C. Ubertazzi.
(4) Pronuncia n. 190/1997, in Giurisprudenza pubblicitaria, 1997, diretta da
Luigi C. Ubertazzi.
I. - Giurisprudenza nazionale 485
merito alla loro liceità appare essere meno severo. Al riguardo, emblema-
tica è la sentenza emessa dal Trib. di Milano in data 14 febbraio 2005 (5),
con la quale è stata dichiarata la nullità del marchio “I Grandi Veggenti
d’Italia” registrato per servizi di cartomanzia, chiaroveggenza ed esote-
rismo in generale, in quanto “l’uso del termine ‘veggente’ è contrario alla
legge poiché usato per distinguere un’attività che la legge vieta e che la me-
desima parola è funzionale a distinguere nel suo esercizio, mentre cosı̀ non
sarebbe se l’identica dicitura fosse usata in ‘senso metaforico’ per contrasse-
gnare ad esempio un modello di cannocchiale o di binocolo”.
E
v stato cosı̀ ritenuto che la forza del marchio in questione derivi
proprio dalla duplice chiave di lettura che il segno suscita: all’apparenza,
I. - Giurisprudenza nazionale 487
(6) Cfr., fra le altre, Cass., 19 aprile 2000, n. 5091, in GADI, 2000 (4062/1);
Cass., 25 settembre 1998, n. 9617, in GADI, 1998 (3726/1); Cass., 9 febbraio 1995, n.
1473, in GADI, 1995 (3192/3); Trib. Roma, 22 giungo 1991 (ord.) in GADI, 2002
(4355/3); App. Palermo, 17 febbraio 1994, in GADI, 1994 (3107/1). In dottrina, si veda
A. VANZETTI-V. DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, 5a ed., 2005, Milano, Giuf-
frè, pagg. 220-221.
(7) In questo senso, cfr., fra le altre, Trib. CE, 12 luglio 2006, in causa T-277/
04, caso Vitakraft; Corte di Giustizia CE, 7 luglio 2005, in causa C-353/03, caso Nestlè;
Corte di Giustizia CE, 18 giugno 2002, in causa C-299/99, caso Philips; Corte di Giu-
stizia CE, 4 maggio 1999, in causa C-108/97 C-109/97, caso Windsurfing Chiemsee; per
quanto concerne la giurisprudenza domestica cfr., fra le altre, Cass., 9 maggio 1995,
488 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II
n. 2884, in GADI, 1985 (1842); Cass., 20 novembre 1982, n. 6262, in GADI, 1982
(1477/4); Trib. Cagliari, 28 settembre 1989, in GADI, 1989 (2451/3)). In dottrina, si
veda A. VANZETTI-V. DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, cit., pagg. 160-161; L.
MANSANI, La capacità distintiva come concetto dinamico, in Il dir. ind., 2007/1, pagg. 19-
26.
(8) Cfr., tra le altre, Cass., 7 maggio 1983, n. 3109, in GADI, 1983 (1595), caso
Ferragamo v. Fendi; Cass., 19 novembre 1994, n. 9827, in GADI, 1994 (3029); App. Pa-
lermo, 17 febbraio 1994, in GADI, 1994 (3107); Trib. Milano, 14 dicembre 1995, in
GADI, 1996 (3450).
(9) Al riguardo cfr., fra le altre, Trib. CE, 12 luglio 2006, in causa T-277/04,
caso Vitakraft, cit.; Corte di Giustizia CE, 7 luglio 2005, in causa C-353/03, caso Ne-
stlè, cit.; Corte di Giustizia CE, 18 giugno 2002, in causa C-299/99, caso Philips, cit.;
Corte di Giustizia CE, 4 maggio 1999, in causa C-108/97 C- 109/97, caso Windsurfing
Chiemsee, cit.; relativamente alla giurisprudenza domestica cfr., fra le altre, Cass., 9
maggio 1995, n. 2884, in GADI, 1985 (1842), cit.; Cass., 20 novembre 1982, n. 6262, in
GADI, 1982 (1477/4), cit.; Trib. Cagliari, 28 settembre 1989, in GADI, 1989 (2451/3).
In dottrina, si veda A. VANZETTI-V. DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, cit.,
pagg. 160-161.
(10) Sul punto cfr., in dottrina, A. VANZETTI, Marchi di numeri e di lettere del-
l’alfabeto, in questa Rivista, 2002, I, pagg. 640-651; A. VANZETTI, Marchi e segni di uso
comune, in questa Rivista, 2002, pagg. 895-910; A. VANZETTI-V. DI CATALDO, in Manuale
di diritto industriale, 4a ed., 2003, Milano, pag. 164, ove si afferma che sulla base della
legge attualmente in vigore [ovvero dopo la riforma del 1992] non è più possibile af-
fermare in linea di principio che le lettere sono in sé segni di uso generale.
I. - Giurisprudenza nazionale 489
(12) Cfr., tra le altre, Trib. CE, 6 luglio 2004, in causa T-117/02, in GADI, 2004
(4778/2); Trib. CE, 12 dicembre 2002, in causa T-110/01, in GADI, 2003 (4612/2).
(13) Cfr., tra le altre, Trib. Brescia, 9 giugno 1993, in GADI, 1993 (2975); Trib.
Cagliari, 28 settembre 1989, in GADI, 1989 (2451/3); App. Milano, 13 luglio 1979, in
GADI, 1979 (1205/01); Trib. Milano, 11 ottobre 1976, in GADI, 1976 (863/2); Trib.
Roma, 9 giugno 1976, in GADI, 1976 (842/3).
I. - Giurisprudenza nazionale 491
(14) Per la tesi secondo cui il rischio di associazione riguarda segni distintivi
non confondibili cfr., G. SENA, Il nuovo diritto dei marchi, 2001, Milano, Giuffrè, pagg.
68 ss.; C. GALLI, Rischio di associazione, protezione allargata e marchi anteriori alla ri-
forma, in questa Rivista, 1995, II, pagg. 15-30; M. FRANZOSI, Sul rischio di associazione
(marchi e concorrenza sleale) e sulla funzione del marchio, in questa Rivista, 1996, II,
pagg. 295-298. Per la tesi secondo cui il rischio di associazione costituisce un’ipotesi
del rischio di confusione cfr. A. VANZETTI-V. DI CATALDO, Manuale di diritto industriale,
cit., pp. 212-215; L. MANSANI, La nozione del rischio di associazione fra segni nel diritto
comunitario dei marchi, in questa Rivista, 1997, I, pagg. 133-146.
Sempre in argomento, si segnala che la Corte di Giustizia è orientata nel senso
di considerare il rischio di associazione come un’ipotesi del rischio di confusione,
escludendo quindi che si possa parlare di associazione non confusoria.
(15) Basti pensare a Dior e Diorella, Fendi e Fendissime, Max Mara e Marella.
La serialità si realizza altresı̀ tipicamente nel settore farmaceutico e nel mercato edi-
toriale. Si veda, al riguardo, F. GHIRETTI, La tutela dei marchi in serie, in Studi in onore
di Adriano Vanzetti, 2001, Milano, Giuffrè, pagg. 725-733; C. GALLI, Problemi attuali in
materia di marchi farmaceutici, in questa Rivista, 1992, I, pagg. 37-48.
(16) Cfr. C. GALLI, Problemi attuali in tema di marchi farmaceutici, in questa
Rivista, 1992, cit., pag. 47.
492 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II
(20) Cfr., fra le altre, Corte di Giustizia CE, 23 marzo 2006, in causa C-206/
04P, caso Sir, Corte di Giustizia CE, 8 aprile 2003, in procedimenti riuniti C-53701,
C-54/01 e C-55/01, in GADI 2003 (4606/1); Corte di Giustizia CE, 22 giugno 1999, in
causa C-342/97, caso Lloyd, cit.; Corte di Giustizia CE, 29 settembre 1998, in causa
C-39/97, caso Canon, cit.; Corte di Giustizia CE, 11 novembre 1997, in causa C-251/
95, caso Sabel, cit.; Trib. CE, 30 aprile 2003 nelle cause riunite T-324/01 e T-110/02, in
GADI 2003 (4616/2); Trib. CE, 27 febbraio 2002, in causa T-34/00, in GADI 2002
(4471); Trib. CE, 12 dicembre 2002, in causa T-110/01, in GADI 2003 (4612); Trib. CE,
19 settembre 2001, in proc. T-129/00, in GADI 2002 (4466/2).
(21) Cfr., fra le altre, Trib. CE, 23 ottobre 2002, in causa T-104/0, Trib. CE, 15
febbraio 2005, in causa T-169/02, Trib. CE, 16 maggio 2007, nel procedimento T-137/
05, caso La Perla; Trib. CE, 23 ottobre 2002, in causa T-6/01, in GADI 2003 (4611) e
Corte di Giustizia CE, 9 marzo 2006, in causa C-421/04, entrambe relative al caso
Matratzen e Corte di Giustizia CE, 12 giugno 2007, in causa C-334/05, caso Limoncello.
494 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II
TRIBUNALE DI ROMA
Sezione specializzata per la proprietà industriale e intellettuale
sentenza 20 ottobre 2007, n. 22340
Pres. MARVASI — Rel. MUSCOLO
Taisho Pharmaceutical Co. Ltd. e Abbott S.p.a.
c. Ministero dello Sviluppo Economico
Il contenuto della nota del Ministero dello Sviluppo Economico di ricalcolo del
CCP, in applicazione dell’art. 64 cpi, non è quello di una ablazione, ancorché par-
ziale, del diritto di proprietà intellettuale, ma una mera ricognizione degli effetti at-
tributivi e conformativi di detto diritto che discendono dalla norma.
L’art. 61 cpi, adottato dal legislatore nazionale nei suoi pieni poteri, che ride-
termina la durata dei CCP anteriori, non contrasta con nessuna delle norme del re-
golamento comunitario n. 1768/92 e pertanto non va disapplicato.
La questione di illegittimità costituzionale dell’art. 61 CPI per contrasto agli
artt. 3, 24, 97 e 113 Cost. è manifestamente infondata.
di diritto comunitario con sospensione del processo e rinvio alla Corte di Giusti-
zia delle Comunità Europee; per il caso di mancato rinvio pregiudiziale; in ulte-
riore subordine chiede di sollevare questione di legittimità costituzionale del pre-
detto art. 61.4 CPI per contrarietà agli artt. 3,9, 10, 11, 24, 32,41,42.3, 97, 113,
117 Cost., con sospensione del giudizio e rimessione alla Corte costituzionale.
Il MSE, costituito, eccepisce in via pregiudiziale il difetto di giurisdizione
del tribunale adito, per essere competente in Tribunale Amministrativo del La-
zio, contesta la illegittimità delle due note per contrasto col diritto comunitario,
la interpretazione delle disposizioni e la applicazione dei principi del medesimo
effettuata dalla parte attrice, la sussistenza dei presupposti per la interpreta-
zione pregiudiziale della Corte di Giustizia e la rilevanza e manifesta infonda-
tezza dei profili di illegittimità costituzionale eccepiti dalla controparte.
Discussa la causa all’udienza collegiale, essa è trattenuta per la decisione.
MOTIVI DELLA DECISIONE. — Il caso. Nel caso in esame la narrazione dei fatti
è la medesima ad opera di entrambe le parti e le circostanze, incontestate, sono
comunque provate tutte documentalmente: la Taisho è titolare del certificato, in
relazione al brevetto per il principio attivo della claritromicina utilizzato nella
specialità medicinale antibiotica Klacid; la Abbott è titolare dell’AIC per il Kla-
cid e sub-licenziataria della Taisho per l’uso del principio attivo di cui sopra per
la preparazione del farmaco.
Abrogato per illegittimità costituzionale l’art. 14.1 del r.d. n. 1127/1939
nella parte in cui portava divieto di brevettazione dei medicamenti, per contra-
sto con gli artt. 3,9 e 41 Cost., con l’art. 1 l. n. 349/1941, che ha aggiunto l’art.
4-bis al citato regio decreto, è stato altresı̀ introdotto il CCP con una durata di
protezione pari al periodo intercorso tra la data di deposito della domanda di
brevetto e la data del decreto con cui viene concessa la prima autorizzazione alla
immissione in commercio del medicamento, sino a una durata massima di di-
ciotto anni.
Il reg. 1768/1992, all’art. 13, riduce la durata dei CCP a un massimo di cin-
que anni e all’art. 20 dispone la non applicabilità della durata ridotta ai certifi-
cati rilasciati e alle domande di certificato depositate negli Stati membri prima
della entrata in vigore del regolamento.
L’art. 3.8 del d.l. n. 62/2002, convertito nella l. n. 112/2002 e codificato nel-
l’art. 61.4 del CPI riduce la durata della protezione dei CCP di sei mesi per ogni
anno solare a decorrere dal 1o gennaio 2004; con una nota il MSE comunica alla
Taisho un tabulato di ricalcolo in riduzione della durata del proprio CCP dal 1o
marzo 2010 al 30 dicembre 2007, con una decurtazione della durata di ventisei
mesi.
La Taisho propone avverso detto atto impugnazione avanti al Tar del Lazio
per l’annullamento e in subordine per il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giusti-
zia o per la rimessione alla Corte costituzionale, e con sentenza 7965/03 del 3 ot-
tobre 2003 il Tar, dichiarata la propria giurisdizione, respinge il ricorso nel me-
rito e ritiene la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzio-
nale; contro tale sentenza la Beecham interpone impugnazione, ancora pendente,
avanti al Consiglio di Stato.
In caso analogo la Commissione dei ricorsi, con sentenza 23/03, accertata la
I. - Giurisprudenza nazionale 497
11, di determinazione del regime transitorio, è attuato mediante rinvio alle leggi
degli Stati membri, cosı̀ come adottate o da adottarsi dal legislatore nazionale.
Tale ricostruzione non è affatto in contrasto con quanto statuito nella ordi-
nanza della Corte di Giustizia richiamata dalla parte a supporto della propria
tesi, limitandosi questa ad affermare che « non risulta che la normativa nazionale
operi un qualsiasi rinvio al regolamento n. 1768/92, attraverso cui quest’ultimo
divenga applicabile nell’ordinamento giuridico interno al di fuori dell’ambito di
applicazione ratione temporis di tale regolamento »; è infatti fuori contestazione
che la norma nazionale non estenda la applicabilità del regolamento ai CPP an-
teriori, limitandosi a rideterminarne autonomamente la durata, per scopi che
non è dato in questa sede sindacare (CGCE ord. 26 aprile 2002 Vis Farmaceutici
Istituto scientifico delle Venezie v. Dupher International Research, C-454/2000).
Cosı̀ ricostruito il sistema di norme sulla durata dei CPP anteriori, l’art.
61.4, adottato dal legislatore nazionale nei suoi pieni poteri, che rideteremina la
durata dei CPP anteriori, non contrasta con nessuna delle norme del regola-
mento in esame.
Il secondo profilo di contrasto con il diritto comunitario postulato da parte
attrice è quello della violazione dell’art. 295 sulla neutralità dei regimi proprie-
tari; ma proprio il fatto che il legislatore nazionale sia valso dei propri poteri di
conformazione del diritto di proprietà sui CPP, rideterminandone la durata, co-
stituisce applicazione del principio di neutralità dei regimi proprietari rispetto
all’azione del legislatore europeo, affermato nella citata norma.
La questione di interpretazione pregiudiziale delle disposizioni di diritto comu-
nitario. In via logicamente subordinata alla disapplicazione dell’art. 61.4 per
contrasto con il diritto comunitario, la parte attrice chiede il rinvio alla Corte di
Giustizia per la interpretazione pregiudiziale dell’art. 20 del regolamento, letto
alla luce del considerando 11, richiedendo se la disposizione possa essere inter-
pretata come portante un permesso agli Stati membri di ridurre la durata dei
CPP anteriori alla entrata in vigore del regolamento stesso.
La disposizione dell’art. 20 è sufficientemente chiara e non dà adito ad al-
cun ragionevole dubbio circa il significato da attribuirle; pertanto la questione
della interpretazione dell’art. 20 e della estrapolazione della relativa norma tran-
sitoria che regola in caso può essere risolta dal Tribunale come sopra ed esso non
ritiene sussistere i presupposti di opportunità per il rinvio pregiudiziale, in que-
sto caso facoltativo, alla Corte di Giustizia.
Le questioni di legittimità costituzionale. In via subordinata, per il caso in cui
l’art. 61.4 CPI non sia ritenuto in conflitto con il diritto comunitario, cosı̀ come
interpretato dal Tribunale, la parte attrice solleva questione di legittimità costi-
tuzionale della citata disposizione rispetto a numerosi principi e norme della Co-
stituzione e ne chiede la rimessione alla Corte costituzionale.
La questione sollevata dalla parte è rilevante, giacché essa impugna di co-
stituzionalità la norma che determina la durata dei CPP in una azione di accer-
tamento della durata medesima.
Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il primo profilo di
incostituzionalità postulato è il contrasto con l’art. 42.3 Cost., che, a tutela del
diritto di proprietà privata, prescrive un indennizzo per il caso di espropriazione
per motivi di interesse generale; nel caso di specie, premessa la natura proprie-
taria del diritto di proprietà intellettuale, l’art. 61.4, abbreviando la durata della
I. - Giurisprudenza nazionale 501
stiziabilità delle posizioni giuridiche regolate dalla legge, interpretato dalla Corte
costituzionale nel senso della legittimità costituzionale delle leggi provvedimento
unicamente se ricorrano determinate condizioni.
La manifesta infondatezza della questione in questo caso dipende dal fatto
che l’art. 61.4 non può essere definito come una legge provvedimento perché
porta norme con carattere di generalità ed astrattezza in quanto hanno come
destinatari tutti i titolari di CCP anteriori a una certa data, che secondo le pro-
spettazioni della stessa parte attrice sono circa quattrocento.
Infine l’ultimo profilo di incostituzionalità postulato dalla parte attrice at-
tiene al contrasto con artt. 10 e 11 Cost. per violazione dei principi generali di
diritto internazionale, identificati in questo caso dalla parte nel principio della
tutela della proprietà privata e di necessaria giustificatezza e proporzionalità
delle misura ablatorie della stessa, principio sancito nell’art. 1 del protocollo 1
del 20 marzo 1952 alla Convenzione Europea di Salvaguardia dei Diritti del-
l’Uomo e delle Libertà Fondamentali del 4 ottobre 195, richiamato dall’art. 6.2
del Trattato di Maastricht del 7 luglio 1992, nonché nel divieto di nazionalizza-
zione di proprietà private straniere senza indennizzo.
Ciò la parte afferma sul ribadito presupposto che la riduzione della durata
dei CCP integri una espropriazione senza indennizzo; pertanto la manifesta in-
fondatezza di tale ultima questione deriva da tutti gli argomenti sopra spesi per
negare la natura di atto ablativo della proprietà della decurtazione di durata del
diritto di esclusiva.
Conclusioni. In conclusione, l’art. 61.4 CPI nella parte in cui riduce la du-
rata dei CCP concessi ai sensi della l. n. 349/1991, per le ragioni tutte sovraespo-
ste è conforme al diritto comunitario e rispettoso delle norme della Costituzione
e la durata dei predetti CCP può accertarsi in quella calcolata, in sua attuazione,
con la nota del MSE; la domanda principale di accertamento di una diversa du-
rata deve quindi essere respinta.
La difficoltà del caso in relazione a tutte le questioni trattate, costituisce
ragione sufficiente di compensazione integrale tra le parti delle spese di processo.
P.Q.M.
(1) In G.U. 4 novembre 1991, n. 258. Sul tema v. P.A.E. FRASSI, Alcune osser-
vazioni in margine alla legge 91/349, in questa Rivista, 1991, I p. 405; L. LIUZZO, Am-
pliamento della tutela dei farmaci in Italia: il certificato complementare di protezione, in
questa Rivista, 1993, I, p. 243; G. FLORIDIA, in AA.VV., Diritto industriale. Proprietà
intellettuale e concorrenza, Torino, 2005, p. 228.
(2) Il CPI, d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, ha abrogato la legge del 1991 (v. art.
246 lett. z), recependone tuttavia il contenuto all’art. 61.
(3) L’allungamento della durata del brevetto non sarebbe stato possibile in
Italia e negli altri paesi aderenti alla Convenzione di Monaco che regola il brevetto
europeo, in quanto l’art. 63, nella versione allora vigente, limitava a venti anni la
protezione. La legge nazionale che ha istituito il certificato complementare era invece
perfettamente compatibile con la Convenzione di Monaco poiché quest’ultima non
impediva agli stati aderenti di introdurre titoli di protezione particolari. Que-
st’aspetto è adesso superato perché la revisione dell’art. 63 CBE, entrata in vigore il
4 luglio 1997, consente agli stati contraenti di concedere una protezione ulteriore op-
pure di estendere la protezione se il prodotto è sottoposto a una procedura ammini-
strativa di autorizzazione.
In altri Paesi, invece, si è optato per l’estensione del titolo originario, v. in par-
ticolare la legge statunitense del 1984, Drug Price and Competition and Patent Term
Restoration Act (Public Law 98-417). Sul punto P.A.E. FRASSI, Commento alla Propo-
sta di regolamento CEE C114/10 del 3/4/1990, in questa Rivista, 1991, I, p. 160.
(4) La vendita nel territorio nazionale è infatti subordinata al rilascio dell’au-
torizzazione per l’immissione in commercio (AIC), a seguito di una complessa proce-
dura amministrativa, in cui il richiedente è tenuto a presentare un dossier con tutte
le informazioni ottenute dalla sperimentazione clinica. La procedura amministrativa
ha la finalità di salvaguardare la salute pubblica, rendendo possibile la vendita di far-
maci sicuri o, comunque, che garantiscano un buon rapporto rischio/beneficio. L’au-
torità preposta ad esaminare e valutare il dossier presentato dal richiedente è l’Agen-
zia italiana del farmaco (AIFA), istituita con il d.l. n. 269 del 30 settembre 2003. La
domanda e la procedura di istruttoria dell’AIC è regolata dal Codice dei medicinali,
d.lgs. 24 aprile 2006, n. 219, all’art. 6 ss., il quale specifica altresı̀ che l’AIFA deve
pronunciarsi sulla domanda nel termine di 210 gg.
506 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II
nitario n. 1768 del 18 giugno 1992 (5), adottato con lo scopo di prevedere
una soluzione uniforme a livello comunitario e scongiurare cosı̀ il pericolo
di norme nazionali eterogenee.
Dal momento che l’obiettivo, tanto della legge nazionale quanto del
regolamento, è quello di far recuperare il « tempo perduto » al titolare
della privativa, entrambe le discipline prevedono che gli effetti del certi-
ficato si estendano per il periodo intercorso tra la data di deposito della
domanda del brevetto di base e la data della prima autorizzazione di im-
missione in commercio. Sennonché proprio in termini di durata sussiste
una sostanziale divergenza tra le due normative: mentre ai sensi del re-
golamento la durata del certificato non può essere superiore a cinque
anni a decorrere dalla data in cui il certificato acquista efficacia (6), la
normativa italiana prevede che la durata del certificato non possa in ogni
caso essere superiore a diciotto anni (7).
A differenza di quanto stabilito dal Regolamento, quindi, la legge
istitutiva dei CCP permetteva all’industria farmaceutica di recuperare in
toto il tempo impiegato per ottenere l’autorizzazione, assicurando cosı̀ un
monopolio ventennale a partire dal momento in cui si era concretizzata
la possibilità di sfruttare economicamente l’invenzione.
Questa scelta del legislatore, in particolare rispetto al limite dei di-
ciotto anni, era stata accolta da alcuni commentatori con qualche per-
plessità. Si era infatti giustamente osservato che una protezione comple-
mentare nell’ordine dei diciotto anni vanificava il tentativo di una solu-
zione equilibrata tra i contrapposti interessi in gioco nel settore farma-
ceutico, esprimendo quasi un favor per il brevetto farmaceutico rispetto
a quello di altri settori della tecnica (8).
Con l’approvazione del Regolamento, le norme comunitarie più re-
strittive hanno prevalso su quelle nazionali, facendo tuttavia salvi i cer-
tificati precedentemente concessi sulla base della legge italiana (9). Si era
cosı̀ creata una situazione paradossale, tale per cui la durata massima
della privativa era di diciotto anni per i certificati concessi prima del 2
gennaio 1993 (perché rilasciati ex l. n. 349/1991), e di cinque anni per
quelli successivi (in quanto conformi al Regolamento comunitario). Tale
3. Considerazioni conclusive.
TRIBUNALE DI VENEZIA
Sez. Spec. PI, 24 gennaio 2008
Rel. MAIOLINO
Gilmar S.p.a. c. Immagine Eyewear s.r.l.
2. Il marchio ICE non può neppure ritenersi divenuto di uso comune nel
linguaggio corrente o commerciale (art. 12/I lett. a) c.p.i.), tale dovendosi inter-
pretare solo la parola che nel linguaggio commerciale o comune è utilizzata abi-
tualmente per indicare categorie merceologiche tra loro eterogenee oppure una
rivendicazione di qualità attinente non ad uno specifico prodotto, bensı̀ a qua-
lunque tipo di prodotti.
Ebbene, se si considera che l’impedimento alla registrazione di cui si discute
è stato riconosciuto per marchi quali “leader”, “group”, “elite”, “standard”,
“extra”, “super” o, secondo la stessa pronuncia della CGCE 4.10.2001 C-517/99
citata da IE, “bravo” (conclusionale pag. 16), ritiene il Collegio che risulti chiara
la differenza rispetto al marchio ICE, che non appare idoneo ad identificare ca-
tegorie di prodotti oppure ad identificarne una qualità, senza che tale conclu-
sione possa essere modificata per il solo fatto che si tratti di un marchio partico-
larmente presente nel mercato. D’altra parte neppure la società convenuta ha
indicato a quali caratteristiche astrattamente generali ICE farebbe inequivoco
riferimento.
D’altra parte, la stessa ricostruzione di parte convenuta smentisce la tesi
proposta, laddove viene sottolineato come il marchio ICE sarebbe particolar-
mente utilizzato nell’ambito di marchi diffusi nel settore degli occhiali, giacché
la circostanza varrebbe comunque a smentire che il segno ICE abbia assunto
portata identificativa di prodotti tra loro eterogenei.
tico autonomo, di per sé decisivo nell’esercitare un’autonoma forza attrattiva sul
consumatore: il consumatore, quindi, non acquisterà più il prodotto in conside-
razione della provenienza indicata dal marchio, ma per la forza attrattiva del suo
aspetto estetico, ottenuto attraverso una peculiare realizzazione del segno. Pro-
prio in questa ipotesi, infatti, il marchio perde la sua funzione distintiva ed as-
sume una estranea funzione estetica.
Se si esaminano però gli occhiali di Gilmar, anche quelli “censurati” dalla
convenuta (doc. n. 18 attoreo) ritiene il Tribunale che, se una forza attrattiva
deve essere riconosciuta in un elemento estetico, ciò sia garantito soprattutto
dalla forma dell’occhiale, dai colori prescelti e dal loro abbinamento, dalla forma
delle lenti e dall’uso dei materiali: di fonte a tutti questi elementi il valore este-
tico della concreta modalità di realizzazione del segno ICE e della sua applica-
zione sulla stanghetta può sı̀ avere un valore estetico proprio, ma che va ad ag-
giungersi e non ad esaurire la principale forza attrattiva della linea armoniosa
dell’occhiale nel suo complesso. L’acquirente di un occhiale prodotto da una casa
di moda, quando sceglie un occhiale, si concentra sull’aspetto estetico dello
stesso, ma nel suo “percorso di selezione” sceglie prima di tutto la forma dell’oc-
chiale medesimo e solo in un secondo momento si farà condizionare dalla moda-
lità di applicazione del marchio o comunque da un decoro sulla stanghetta.
Vale al riguardo altresı̀ ricordare come lo specifico impedimento di cui si di-
scute sia stato riconosciuto in giurisprudenza per un marchio per piastrelle for-
mato dalla testa di una medusa realizzata con particolari modalità, essendosi ri-
tenuto che il disegno in questione configurasse (al tempo) speciale ornamento,
tale da giustificare la registrazione quale modello (Pret. Modena 26.1.1999 in
GADI 1999, pag. 879): ma se una piastrella sotto un profilo estetico ben può es-
sere preferita ad un’altra in considerazione del disegno sulla stessa raffigurato (a
prescindere dal fatto che lo stesso disegno configuri anche il marchio del produt-
tore), è più difficile dichiarare in assoluto ed in linea generale che un occhiale
venga preferito ad un altro in considerazione della modalità decorativa con cui è
riportato il segno distintivo del produttore sulla stanghetta.
La gradevolezza di forme, con cui il marchio è riportato sul prodotto, non
ne preclude certo la registrabilità, non potendosi certo pensare che l’imprendi-
tore voglia riportare la provenienza dell’articolo dalla propria azienda in maniera
sgradevole o comunque che, al momento del proprio ingresso nel mercato, non
voglia tenere conto e valorizzare anche la particolare funzione del prodotto in
questione: e l’occhiale viene comunemente ormai utilizzato non solo per correg-
gere i difetti della vista o riparare gli occhi dal sole, ma anche quale accessorio
di moda con una forte valenza estetica.
Deve quindi concludersi per il rigetto dell’eccezione di nullità del marchio
ICE registrato da Gilmar.
Dispone l’art. 24 c.p.i. (e, prima, l’art. 42 l. marchi) che il marchio debba
essere effettivamente utilizzato, giacché il non uso protratto per un quinquennio
ne determina la decadenza: il problema evidentemente sta nel fornire una defi-
nizione dell’“uso effettivo”, che la convenuta ha negato nel caso di specie.
518 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II
La prova del non uso grava su chi eccepisca la decadenza (art. 121 c.p.i.).
Partendo dai documenti a disposizione, deve rilevarsi come l’occhiale sub
doc. n. 16 attoreo riporti il marchio ICE e corrisponda al modello IG 591 (anche
sub doc. n .129 attoreo), IG 592, IG 593 (quest’ultimo anche sub doc. n. 128 at-
toreo); sub doc. n. 127 attoreo vi è invece il modello d’occhiale della serie IG 520.
Ebbene il modello IG 591 risulta raffigurato nelle pubblicità apparse nel
settimanale D di Repubblica da dicembre 1997 fino a maggio 1998 (fino a doc. n.
138 attoreo); i modelli IG 591, IG 592 e IG 593 sono, ancora, oggetto di fattura-
zione da marzo 1998 a maggio 1999 (doc. n. 124 attoreo) mentre il modello IG
520 è oggetto di fatturazione a febbraio 2000 (doc. n. 124 citato).
Che i modelli citati presentassero il marchio ICE risulta poi dal prospetto
acquisito nell’accordo delle parti all’udienza del 10.1.2007. Al riguardo preme
peraltro sottolineare come appaia irrilevante che ICE fosse indicato da solo op-
pure unitamente al(l’autonomo) marchio ICEBERG: ciò che rileva ai fini della
valutazione di fondatezza della eccezione di decadenza del marchio per non uso
è la verifica che il segno ICE fosse utilizzato e — di più — che fosse utilizzato
quale marchio. Ebbene, basta esaminare il modello sub doc. n. 126 attoreo per
sgombrare il campo da qualsiasi dubbio: ICE campeggia sulla stanghetta perfet-
tamente visibile e leggibile, mentre ICEBERG è scritto molto più in piccolo so-
pra la C di ICE, cosicché va senz’altro affermato che ICE nel citato occhiale fosse
utilizzato quale marchio.
Tornando al prospetto acquisito al verbale d’udienza 10.1.2007, risulta che
in Italia nel 1998 furono venduti n. 5.807 occhiali con marchio ICE (e non ICE-
BERG, atteso che il prospetto stesso distingue i due tipi di prodotto), nel 1999
n. 749 pezzi e nel 2000 n. 388 pezzi; all’estero nel 1998 n. 18.186 pezzi, nel 1999
n. 2.470 pezzi e nel 2000 n. 151 pezzi.
Il teste Schiavo ha poi riferito che la nuova produzione dei modelli di oc-
chiali Gilmar con marchio ICE è ripresa con la collezione Sole 2004/2005: in par-
ticolare i nuovi modelli erano stati progettati tra fine 2003 ed inizio dell’anno
2004, gli ordini di produzione ed acquisto risalivano ad aprile 2004, i distributori
esteri avevano visto i nuovi prodotti a fine luglio 2004 e quelli italiani a fine ago-
sto: gli occhiali erano stati infine presentati pubblicamente ad ottobre 2004 (cir-
costanza quest’ultima confermata dal teste Zanotto).
Parte convenuta contesta che i ridotti quantitativi di occhiali venduti tra il
1998 ed il 2000 siano sufficienti ad impedire la decadenza per non uso del mar-
chio ICE, quanto meno per il settore dell’occhialeria.
4. Giova senz’altro partire dalla ratio della norma, che sanziona con la de-
cadenza il non uso del marchio: la stessa consiste nell’evitare che si verifichino
fenomeni c.d. di accaparramento di marchi (ovvero registrazione di marchi poi
non utilizzati) o c.d. di cimiteri di marchi (ovvero che si accumulino marchi in-
terdetti ai concorrenti, ma che ormai non vengono utilizzati dagli originari tito-
lari e quindi risultano ingiustificatamente preclusi alla concorrenza): evidente-
mente è il secondo rischio che rileva nel caso in esame, atteso che è pacifico che,
quanto meno fino ad un determinato periodo di tempo, il marchio ICE è stato
utilizzato per nuovi modelli di occhiali.
5. E v stato definito “uso effettivo” quell’utilizzo non meramente simbolico
o per quantitativi di prodotto (e quindi di marchio) irrilevanti; il concetto deve
comunque ritenersi relativo, dovendosi evidentemente distinguere a seconda del
I. - Giurisprudenza nazionale 519
L’art. 25 c.p.i. stabilisce che il marchio registrato sia nullo, tra le altre ipo-
tesi, quando ricorre uno degli impedimenti di cui all’art. 12 c.p.i. Prevede a sua
volta l’art. 12 c.p.i. che non sono nuovi i marchi che siano simili ad un segno già
noto come marchio o segno distintivo per prodotti o servizi identici o simili, se a
causa dell’identità o somiglianza tra i segni o dell’identità o somiglianza tra i
I. - Giurisprudenza nazionale 521
tere distintivo. All’opposto, non convince la contraria tesi sostenuta dalla conve-
nuta nelle proprie note conclusive, laddove indica nella X il cuore o il tipo del
marchio: la lettera X non appare inequivocabilmente dotata di un significato au-
tonomo, collegato al mondo fantascientifico, e se anche voglia attribuirsi rilievo
allo studio semantico inerente la lettera X, pubblicato successivamente allo sca-
dere dei termini istruttori maturati in giudizio, ciò non toglie che nel caso di
specie la lettera in questione non appare tale da neutralizzare il richiamo al-
l’identico termine costituente (per intero) il marchio attoreo. Cosicché, invariato
il termine ICE, poiché X-ICE non risulta possedere un significato autonomo e
diverso rispetto ad ICE, la “caratterizzazione fantascientifica” ben potrebbe es-
sere anche propria di Gilmar.
In secondo luogo perché, dovendosi comunque calare i marchi nell’ambito
della realtà commerciale nella quale vengono utilizzati, non può disconoscersi
che Gilmar usa declinare i propri marchi o, meglio, la radice dei propri marchi
(ICE) in più segni autonomi, distinti tra loro dalla sola aggiunta di una lettera
(ICE B, ICE J), dedicati a prodotti diversi; ed il fatto che nel caso di IE la let-
tera aggiuntiva sia anteposta e non posposta alla parte centrale del segno (ovvero
X-ICE e non ICE X) non ha valenza decisiva nella valutazione odierna, trattan-
dosi in effetti di un elemento del tutto casuale, che non vale ad escludere che
Gilmar per ipotesi abbia cosı̀ voluto denominare una propria linea, eventual-
mente di stampo più “aggressivo”, caratteristica rivendicata dalla produzione di
IE.
Ancora, ad abundantiam non può disconoscersi che Gilmar è titolare di plu-
rimi marchi (doc. n. 1 attoreo), molti dei quali sono incentrati sul termine ICE,
nel senso che presentano il segno ICE accompagnato da altri elementi (lettere o
parole), che però non tolgono ad ICE la posizione di centralità: Twice, Iceberg,
Sport Ice (doc. n. 1 attoreo), Ice B (doc. n. 9 attoreo), Golf Sport Ice (doc. n. 5
attoreo); cosicché è inevitabile che un segno distintivo, che successivamente in-
tenda fare il proprio ingresso nel settore merceologico di riferimento avvalendosi
del termine ICE, verrà facilmente collegato alla “famiglia di marchi” utilizzata
dalla società attrice; cosicché il nuovo marchio dovrà quanto meno accompa-
gnare il termine ICE ad ulteriori elementi, che assumano autonoma funzione di-
stintiva, atta a neutralizzare il collegamento con il precedente segno e tale da
concentrare l’attenzione del consumatore non più su ICE ma proprio sull’ele-
mento aggiuntivo o quanto meno a trasformare la particella ICE in un segno au-
tonomo.
Dalle considerazioni che precedono ritiene il Collegio di poter desumere che
la particolare linea trendy e — come rileva la convenuta — financo “aggressiva”
scelta da IE per i propri occhiali non valga a scongiurare il rischio confusorio co-
munque insito delle forti similitudini tra i segni. La linea di produzione attual-
mente seguita da IE è un elemento occasionale: anche la società convenuta po-
trebbe quindi un domani affiancare all’attuale prodotto un occhiale più tradizio-
nale; conseguentemente non vale a configurare un pubblico di riferimento del
tutto autonomo rispetto a quello già descritto. Specularmene, l’attuale linea di
occhiali di IE ben potrebbe configurare una autonoma linea di occhiali più ag-
gressiva riconducibile alla società Gilmar, presente in vari settori soprattutto
della moda con linee di differente tipologia.
In conclusione, va accolta la domanda di nullità avente ad oggetto il mar-
I. - Giurisprudenza nazionale 523
(1) Vedila anche in Il dir. ind., 2008, 325 ss., con nota di LAMANDINI-
PAPPALARDO, Il difficile equilibrio tra valore sostanziale e carattere distintivo della forma.
Gli autori si interrogano anche sulla possibilità che una forma ab origine solo distin-
tiva e validamente registrabile come marchio acquisti poi un valore sostanziale attra-
verso investimenti pubblicitari che la dotino di una funzione selettiva in grado di in-
cidere sull’apprezzamento dei consumatori e concludono nel senso che il segno do-
vrebbe permanere tutelabile come marchio. Cfr. ivi, 334.
(2) Altri aspetti affrontati nella sentenza non sono oggetto di queste rapide
note (la descrittività del marchio ICE, la natura di segno di uso generale, la nozione
524 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II
stesso senso, anche se con diversa conclusione in fatto, cfr. Trib. Milano, 7 ottobre
2002, in Giur. ann. dir. ind., 4523/4, nel caso della fibbia-chiusura ad omega di Ferra-
gamo, giudicata validamente registrabile. E v stato, invece, ritenuto prevalere il valore
decorativo rispetto a quello distintivo in un marchio costituto dalla testa di una me-
dusa riprodotta su piastrelle (Pret. Modena, 26 gennaio 1999, in Giur. ann. dir. ind.,
3977).
(5) Cosı̀ SENA, Il diritto dei marchi, cit., p. 83.
(6) Cfr. SANDRI, Marchi non convenzionali, in Il dir. ind., 2007, 341 ss. (ove
ampia rassegna di casistica comunitaria); ID., La valutazione del momento percettivo del
marchio, in questa Rivista, 2002, I, 526 ss.
526 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II
rano due bande parallele il cui colore contrasta con il colore principale di questi
ultimi, la Adidas AG e la Adidas Benelux BV (in prosieguo, congiuntamente, la
« Adidas ») hanno avviato dinanzi al Rechtbank te Breda un procedimento som-
mario nei confronti della H&M nonché un’azione nel merito nei confronti della
Marca Mode e della C&A, affinché fosse vietato a queste imprese di utilizzare
qualsiasi segno costituito dal motivo a tre bande registrato su domanda della
Adidas o da un motivo corrispondente ad esso, quale il motivo a due bande pa-
rallele utilizzato da queste imprese.
12. La Marca Mode, la C&A, la H&M e la Vendex hanno, dal canto loro,
proposto domande dinanzi al Rechtbank te Breda affinché quest’ultimo dichia-
rasse che esse erano libere di far figurare due bande a fini decorativi su capi di
abbigliamento sportivo e casual.
13. Con sentenza 2 ottobre 1997, il presidente del Rechtbank te Breda, sta-
tuendo nel procedimento sommario, ha ingiunto alla H&M di cessare di utiliz-
zare nel Benelux il segno costituito dal motivo a tre bande registrato su domanda
della Adidas o qualsiasi altro segno ad esso corrispondente, quale il motivo a due
bande utilizzato dalla H&M.
14. Con una sentenza interlocutoria del 13 ottobre 1998, il Rechtbank te
Breda ha dichiarato che vi era stata violazione dei marchi di cui la Adidas è ti-
tolare.
15. Le sentenze 2 ottobre 1997 e 13 ottobre 1998 hanno costituito oggetto
di appello dinanzi al Gerechtshof te ’s-Hertogenbosch.
16. Con sentenza 29 marzo 2005, il Gerechtshof te ’s-Hertogenbosch ha an-
nullato le sentenze 2 ottobre 1997 e 13 ottobre 1998 e, statuendo esso stesso sulla
controversia, ha respinto sia la domanda della Adidas che quelle della Marca
Mode, della C&A, della H&M e della Vendex in quanto, da un lato, non vi era
stata violazione dei marchi di cui la Adidas è titolare e, dall’altro, le domande
presentate dalla Marca Mode, dalla C&A, dalla H&M e dalla Vendex avevano una
portata troppo generica.
17. Il Gerechtshof te’s-Hertogenbosch ha precisato che un motivo a tre
bande come quello che è stato registrato su domanda della Adidas è di per sé
poco distintivo, ma, a causa degli sforzi pubblicitari sostenuti dalla Adidas, i
marchi di cui questa è titolare hanno acquisito un carattere distintivo considere-
vole e sono divenuti notoriamente conosciuti. I detti marchi beneficerebbero
quindi di una protezione estesa per quanto riguarda il motivo a tre bande. Tut-
tavia, dato che le bande e i semplici motivi a bande sono, in via di principio, se-
gni che devono rimanere disponibili e che non si prestano quindi ad un diritto
esclusivo, i marchi di cui la Adidas è titolare non potrebbero offrire una qualsiasi
protezione contro l’uso di motivi a due bande.
18. L’Adidas ha presentato ricorso per cassazione dinanzi allo Hoge Raad
der Nederlanden, affermando che, nella struttura del regime introdotto dalla di-
rettiva, l’imperativo di disponibilità deve essere preso in considerazione solo al-
l’atto dell’applicazione degli impedimenti alla registrazione o dei motivi di nul-
lità previsti all’art. 3 della direttiva.
19. In tale contesto lo Hoge Raad der Nederlanden ha deciso di sospendere
il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
« 1) Se, ai fini della determinazione dell’ambito di tutela di un marchio con-
sistente in un segno intrinsecamente privo di carattere distintivo o in un’indica-
II. - Giurisprudenza comunitaria e dell’ufficio europeo dei brevetti 531
zione rispondente alla descrizione di cui all’art. 3, n. 1, lett. c), della direttiva, ma
che attraverso l’uso abbia acquisito carattere distintivo e sia stato oggetto di re-
gistrazione, occorra tenere conto dell’interesse generale a non restringere indebi-
tamente la disponibilità di determinati segni per gli altri operatori offerenti pro-
dotti o servizi analoghi.
2) In caso di soluzione affermativa della questione n. 1, se vi sia differenza
qualora i segni in esame, da tenere disponibili, vengano considerati dal pubblico
rilevante come segni distintivi di prodotti, oppure come semplice decorazione.
3) In caso di soluzione affermativa della questione n. 1, se vi sia differenza
qualora il segno contestato dal titolare del marchio sia privo di carattere distin-
tivo ai sensi dell’art. 3, n. 1, lett. b), della direttiva, oppure costituisca un’indica-
zione ai sensi dell’art. 3, n. 1, lett. c), della direttiva ».
Sulle questioni pregiudiziali. — 20. Con le sue questioni, che occorre esami-
nare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede in sostanza in quale misura oc-
corra tener conto dell’interesse generale consistente nel non restringere indebita-
mente la disponibilità di taluni segni all’atto della valutazione dell’estensione del
diritto esclusivo del titolare di un marchio.
21. Il detto giudice ha formulato tale domanda in relazione al motivo a tre
bande registrato su domanda dell’Adidas, che ha acquisito un carattere distin-
tivo con l’uso. In particolare, esso chiede se, allorché terzi utilizzano segni iden-
tici o similari al marchio di cui trattasi senza il consenso del titolare di quest’ul-
timo e fanno valere a sostegno di tale uso l’imperativo di disponibilità, si debba
accertare se i detti segni siano considerati o meno dal pubblico interessato come
decorativi, se siano o meno privi di carattere distintivo ai sensi dell’art. 3, n. 1,
lett. b), della direttiva, e se abbiano o meno carattere descrittivo ai sensi del suo
art. 3, n. 1, lett. c).
sponibilità dei segni (v. sentenza 27 aprile 2006, causa C-145/05, Levi Strauss,
Racc., pag. I-3703, punto 19).
25. Se risulta cosı̀ che l’imperativo di disponibilità svolge un ruolo perti-
nente nell’ambito degli artt. 3 e 12 della direttiva, si deve constatare che la pre-
sente domanda di pronuncia pregiudiziale oltrepassa tale ambito, poiché solleva
la questione se l’imperativo di disponibilità costituisca un criterio di valutazione,
dopo la registrazione di un marchio, al fine di delimitare l’estensione del diritto
esclusivo del titolare del marchio. Infatti, la Marca Mode, la C&A, la H&M e la
Vendex non cercano di ottenere una dichiarazione di nullità ai sensi del detto
art. 3 o di decadenza ai sensi del detto art. 12, ma invocano la necessità di di-
sponibilità di motivi a bande diversi da quello registrato su domanda dell’Adi-
das, al fine di far valere il loro diritto di utilizzare tali motivi senza il consenso
di questa.
26. Orbene, allorché un terzo si avvale dell’imperativo di disponibilità per
far valere il suo diritto di utilizzare un segno diverso da quello registrato su do-
manda del titolare del marchio, la pertinenza di un tale argomento non può es-
sere valutata nell’ambito degli artt. 3 e 12 della direttiva, ma deve essere esami-
nata in relazione all’art. 5 della direttiva, che riguarda la protezione del marchio
registrato contro l’utilizzo di segni da parte di terzi, nonché in relazione all’art.
6, n. 1, lett. b), della direttiva, se il segno di cui trattasi rientra nel campo di ap-
plicazione di tale disposizione.
come risulta dalla formulazione dell’art. 5, n. 1, lett. b), della direttiva e dalla
giurisprudenza sopra citata, la questione dell’esistenza di un rischio di confu-
sione deve essere risolta fondandosi sulla percezione, da parte del pubblico, dei
prodotti coperti dal marchio del titolare, da un lato, e dei prodotti coperti dal
segno utilizzato dal terzo, dall’altro.
31. Inoltre, segni che devono restare disponibili in linea di principio per
tutti gli operatori economici sono suscettibili di essere utilizzati in maniera abu-
siva al fine di creare una confusione nella mente del consumatore. Se, in un tale
contesto, il terzo potesse avvalersi dell’imperativo di disponibilità per utilizzare
liberamente un segno purtuttavia simile al marchio, senza che il titolare di que-
st’ultimo possa opporvisi facendo valere un rischio di confusione, si pregiudiche-
rebbe l’applicazione effettiva della regola prevista all’art. 5, n. 1, lett. b), della
direttiva.
32. Questa considerazione vale in particolare per i motivi a bande. Come
l’Adidas ha ammesso nella parte introduttiva delle sue osservazioni, i motivi a
bande in quanto tali sono disponibili e possono quindi essere apposti in molti
modi su capi di abbigliamento sportivi e casual da tutti gli operatori. Tuttavia,
i concorrenti dell’Adidas non possono essere autorizzati a ledere il motivo a tre
bande registrato su domanda di quest’ultima apponendo sui capi di abbiglia-
mento sportivo e casual che commercializzano motivi a bande talmente simili a
quello registrato su domanda dell’Adidas da dare adito a un rischio di confusione
per il pubblico.
33. Spetterà al giudice nazionale verificare se sussista un tale rischio di con-
fusione. Al fine di questa verifica è utile esaminare il quesito del giudice nazio-
nale relativo alla necessità di accertare se il pubblico percepisca il segno utiliz-
zato dal terzo come un semplice ornamento del prodotto di cui trattasi.
34. A tal riguardo, occorre rilevare che la percezione da parte del pubblico
di un segno nel senso che costituisce un ornamento non può rappresentare un
ostacolo alla protezione conferita dall’art. 5, n. 1, lett. b), della direttiva allorché,
nonostante il suo carattere decorativo, il detto segno presenta una similitudine
con il marchio registrato tale che il pubblico interessato può credere che i pro-
dotti provengano dalla stessa impresa o, eventualmente, da imprese collegate
economicamente.
35. Nella fattispecie, occorrerà valutare se il consumatore medio, allorché
percepisce capi di abbigliamento sportivo e casual sui quali sono apposti motivi
a bande negli stessi punti e con le stesse caratteristiche del motivo a bande regi-
strato su domanda dell’Adidas, con la sola differenza che essi sono composti da
due e non da tre bande, possa essere tratto in inganno sull’origine di tale pro-
dotto, credendo che questo venga commercializzato dalla Adidas AG, dalla Adi-
das Benelux BV o da un’impresa collegata economicamente ad esse.
36. Come risulta dal decimo “considerando” della direttiva, questa valuta-
zione non dipende unicamente dal grado di somiglianza tra il marchio e il segno,
ma anche dalla facilità con cui il segno può essere associato al marchio in consi-
derazione, in particolare, della notorietà di quest’ultimo sul mercato. Infatti, più
il marchio è noto, maggiore sarà il numero di operatori che vorranno utilizzare
segni simili. La presenza sul mercato di una grande quantità di prodotti coperti
da segni simili potrebbe ledere il marchio in quanto rischia di diminuire il suo
534 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II
1, lett. b), della direttiva stabilisce che il titolare di un marchio non può vietare
ai terzi l’uso, nel commercio, di indicazioni relative alla specie, alla qualità, alla
quantità, alla destinazione, al valore, alla provenienza geografica, all’epoca di
fabbricazione del prodotto o di prestazione del servizio o ad altre caratteristiche
del prodotto o del servizio, purché l’uso sia conforme agli usi consueti di lealtà in
campo industriale e commerciale.
45. Limitando cosı̀ gli effetti del diritto esclusivo del titolare del marchio,
l’art. 6 della direttiva mira a conciliare gli interessi fondamentali della tutela dei
diritti di marchio con quelli della libera circolazione delle merci nonché della li-
bera prestazione dei servizi nel mercato comune, in modo tale che il diritto di
marchio possa svolgere la sua funzione di elemento essenziale del sistema di con-
correnza non falsato che il Trattato CE intende introdurre e conservare (v. sen-
tenza 17 marzo 2005, causa C-228/03, Gillette Company e Gillette Group Fin-
land, Racc., pag. I-2337, punto 29 e giurisprudenza ivi citata).
46. Più specificamente, l’art. 6, n. 1, lett. b), della direttiva mira a salva-
guardare la possibilità per tutti gli operatori economici di utilizzare indicazioni
descrittive. Questa disposizione costituisce quindi, come ha rilevato l’avvocato
generale ai paragrafi 75 e 78 delle sue conclusioni, un’espressione dell’imperativo
di disponibilità.
47. Tuttavia, l’imperativo di disponibilità non può in alcun caso costituire
una limitazione autonoma degli effetti del marchio che si aggiunge a quelle espli-
citamente previste all’art. 6, n. 1, lett. b), della direttiva. Occorre a tal riguardo
sottolineare che, affinché un terzo possa far valere le limitazioni degli effetti del
marchio contenute all’art. 6, n. 1, lett. b), della direttiva e avvalersi in tale con-
testo dell’imperativo di disponibilità che è alla base di tale disposizione, occorre
che l’indicazione da esso utilizzata sia, come richiede tale disposizione, relativa a
una delle caratteristiche del prodotto commercializzato o del servizio fornito da
questo terzo (v., in tal senso, sentenze Windsurfing Chiemsee, cit., punto 28, e 25
gennaio 2007, causa C-48/05, Adam Opel, Racc., pag. I-1017, punti 42-44).
48. Nella fattispecie, dalla decisione di rinvio e dalle osservazioni presentate
dai concorrenti dell’Adidas dinanzi alla Corte risulta che questi ultimi fanno va-
lere come giustificazione dell’utilizzo dei motivi a due bande controversi il carat-
tere puramente decorativo di questi ultimi. Ne deriva che l’apposizione, da parte
di questi concorrenti, di motivi a bande su capi di abbigliamento non mira a for-
nire un’indicazione relativa a una delle caratteristiche di questi prodotti.
49. Sulla base di tutte le considerazioni che precedono occorre rispondere
alla domanda di pronuncia pregiudiziale dichiarando che la direttiva deve essere
interpretata nel senso che non si può tener conto dell’imperativo di disponibilità
all’atto della valutazione dell’estensione del diritto esclusivo del titolare d’un
marchio, salvo nella misura in cui trova applicazione la limitazione degli effetti
del marchio definita all’art. 6, n. 1, lett. b), della detta direttiva.
Sulle spese. — 50. Nei confronti delle parti nella causa principale il presente
procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui
spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presen-
tare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
536 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II
(1) Si vedano, in tal senso, sentenza 4 maggio 1999, cause C-108/97 e C-109/
97, Windsurfing Chimesee Produktions — und Vertriebs GmbH c. Boots — und Se-
gelzubehor Walter Huber, in GADI, 1999, 4043; sentenza 8 aprile 2003, cause C-53/
01, C-54/01 e C-55/01, Linde AG, Winward Industries Inc e Rado Uhren AG, in GADI,
2003, 4606; sentenza 6 maggio 2003, causa C-104/01, Libertel Groep BV c. Benelux
— Mrkenbureau, in questa Rivista, 2003, II, p. 228 ss., con nota di CUSUMANO; sen-
tenza 12 febbraio 2004, causa C-363/99, Koninklijke KPN Nederland NV c. Benelux-
Merkenbureau, in Racc., 2004, p. I-1619 (caso Postkantoor).
(2) La Corte di Giustizia è già stata interpellata due volte in via pregiudiziale
nell’ambito di procedimenti promossi dalla Adidas a tutela del suo marchio a tre stri-
sce, pronunciandosi con sentenza 22 giugno 2000, causa C-425/98, Marca Mode CV c.
Adidas Ag e Adidas Benelux BV, Racc., 2000, p. I-4861 e sentenza 23 ottobre 2003,
II. - Giurisprudenza comunitaria e dell’ufficio europeo dei brevetti 537
(9) Il principio della libera disponibilità dei segni trova origine nell’ordina-
mento tedesco anteriormente al recepimento della direttiva comunitaria. Tale princi-
pio, detto “Freihaltebedurfnis”, era stato elaborato dalla giurisprudenza per limitare
la registrazione di segni che dovevano poter essere utilizzati anche da altri operatori
economici. In particolare, secondo la ricostruzione operata dall’Avvocato Generale
RUIZ-JARABO COLOMER (opinioni generali del 16 gennaio 2008, disponibili sul sito inter-
net http://curia.europa.eu, punti 33-45), tale principio sarebbe stato elaborato per ov-
viare alle lacune legislative della normativa nazionale, contenente un elenco ristretto
di impedimenti alla registrazione che non teneva conto dell’interesse generale alla li-
bera utilizzabilità di certi segni. Sull’evoluzione del Freihaltebedurfnis tedesco si veda
FEZER, K.-H., Markenrecht, C.H. Beck, II ed., Munich, 1999, p. 402. Non a caso, i
giudici tedeschi sono stati i primi a sottoporre alla Corte di Giustizia il problema della
rilevanza dell’imperativo di disponibilità nell’ambito dell’interpretazione della diret-
tiva in materia di marchi, con particolare riferimento alle denominazioni geografiche
di cui all’art. 3, comma 1, lett. c) della direttiva (caso Windsurfing Chiemsee, cit.).
(10) Come si vedrà, ciò che lascia particolarmente perplessi della posizione
della Corte sull’imperativo di disponibilità è la distinzione tra l’impedimento alla re-
gistrazione di segni privi di capacità distintiva di cui all’art. 3, n. 1, lett. b) e il suc-
cessivo impedimento relativo ai segni descrittivi di cui alla lett. c). Si vedano, in dot-
trina, PHILLIPS, « Trade Mark and the Need to Keep Free », in IIC, vol. 36, n. 4/2005, p.
389 ss.; KEELING, « About Kinetic Watches, Easy Banking and Nappies that Keep a Baby
Dry: a Review of Recent European Case Law on Absolute Grounds for Refusal to Regi-
ster Trade Marks », in I.P.Q. 2003, 2, p. 131 ss.; HANDLER, « The Distintive Problem of
European Trade Mark Law », in EIPR 2005, 27(9), p. 306 ss.; SIMON, « What’s Cooking
at the CFI? More Guidance on Descriptive and Non Distinctive Trade Marks », in EIPR
2003, 25(7), p. 322 ss. Il tema della libera disponibilità di certi segni non sembra in-
vece aver suscitato particolare interesse nell’ambito della dottrina italiana. L’unico a
essersene occupato sembra essere SARTI con particolare riferimento alla forma del
prodotto in « I marchi di forma fra secondary meaning e funzionalità », in Studi di di-
ritto industriale in onore di Adriano Vanzetti. Proprietà intellettuale e concorrenza, vol.
II, Giuffrè, 2004, p. 1412 ss.
(11) Si tratta delle disposizioni richiamate dalla stessa Corte e contenute ne-
gli art. 3.1. lett. c), 3.1. lett. e) e 12. Con particolare riguardo all’art. 3, comma 1 lett.
e) si ricorda che la Corte ha infatti avuto modo di rilevare che la ratio di tale impedi-
mento « consiste nel fatto di evitare che la tutela del diritto di marchio sfoci nel conferi-
mento al suo titolare di un monopolio su soluzioni tecniche o caratteristiche utilitarie di
un prodotto, che possono essere ricercate dall’utilizzatore nei prodotti dei concorrenti. In
tal modo, l’art. 3, n. 1, lett. e), intende evitare che la tutela conferita dal diritto di marchio
si estenda, oltre i segni che permettono di distinguere un prodotto o servizio da quelli of-
ferti dai concorrenti, erigendosi in ostacolo a che questi ultimi possano offrire liberamente
prodotti che incorporano dette soluzioni tecniche o dette caratteristiche utilitarie in concor-
540 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II
renza con il titolare del marchio ». (sentenza 18 giugno 2002, causa C-299/99, Ko-
ninklijke Philips Electronics NV v. Remington Consumer Products Ltd, in Racc.,
2002, p. I-5475, punto 78). Oltre alle disposizioni appena richiamate, si deve ritenere
che l’interesse alla libera disponibilità di segni rilevi anche con riferimento all’art. 3,
n. 1, lett. d). La Corte, infatti, non ha mai avuto occasione di pronunciarsi sull’inter-
pretazione di tale disposizione, ma è certamente corretto estendere all’impedimento
alla registrazione di segni generici la stessa ratio sottesa all’impedimento alla registra-
zione delle indicazioni descrittive. Stando alla sentenza in commento, infine, deve ri-
tenersi ispirata alla medesima ratio anche la disposizione di cui al’art. 6, n. 1, lett. b)
che, di fatto, riflette le ragioni dell’impedimento di cui all’art. 3, n. 1, lett. c).
(12) Sentenza Windsurfing, cit., punto 25. La Corte si è espressa in senso ana-
logo anche in Linde, cit., punti 73 e 74 e in Postkantoor, cit., punto 54.
(13) Sentenza 23 ottobre 2003, causa C-191/01P, UAMI c. Wrigley Jr. Com-
pany, in GADI, 2003, 4607, punto 35.
(14) Cfr. BENTLY SHERMAN, Intellectual Property Law, II ed., Oxford 2001, p.
805-807.
(15) In passato in Italia si riteneva addirittura che il divieto di registrazione
di indicazioni generiche e descrittive esaurisse le ipotesi di mancanza di capacità di-
stintiva. In tal senso si veda VANZETTI DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, V
ed., Giuffrè, 2005, p. 156. Sebbene la categoria dei segni privi di capacità distintiva si
sia estesa fino a ricomprendere anche segni che non sono generici o descrittivi, è tut-
tavia inopinabile il fatto che un segno generico o descrittivo è anche privo, in origine,
di carattere distintivo.
II. - Giurisprudenza comunitaria e dell’ufficio europeo dei brevetti 541
(20) Come la cucitura a « gabbiano » oggetto della decisione Levi Strauss, cit.,
o come quella raffigurata in un articolo di MORRI, in questa Rivista, 2006, I, p. 276,
oggetto di registrazione come marchio comunitario.
(21) Ciò è quanto sostengono le concorrenti di Adidas. In ogni caso è da tempo
immemore che motivi simili vengono applicati sugli indumenti (si pensi ad esempio
alle divise di alcuni pubblici ufficiali).
II. - Giurisprudenza comunitaria e dell’ufficio europeo dei brevetti 543
sto che l’interesse generale alla libera utilizzabilità di segni uguali o si-
mili.
Resta da chiedersi se tale sistema normativo, nel tracciare un bilan-
ciamento tra interessi contrapposti, abbia effettivamente tenuto conto
del notevole incremento di registrazioni per tutti i segni diversi da quelli
denominativi contenuti nell’elenco di cui all’art. 2 della direttiva, e della
realtà imprenditoriale contemporanea. Se è vero che la giurisprudenza
comunitaria ha limitato la registrazione dei segni atipici, in particolare
costituiti dalla forma del prodotto, richiedendo che gli stessi vengano
percepiti dal pubblico in funzione distintiva, è anche vero che le grandi
imprese dispongono dei mezzi economici necessari per ottenere tale risul-
tato attraverso l’uso del segno idoneo a conferirgli capacità distintiva. E v
stato non a caso rilevato (22) che il problema del monopolio conferito
dalla registrazione come marchio è oggi più attuale che mai e dipende da
un insieme di fattori: in primo luogo perché il concetto di ciò che può
costituire valido marchio si è esteso alle forme, ai colori, alle lettere, ai
numeri e perfino ai suoni e agli odori; in secondo luogo perché la possi-
bilità di registrare un marchio comunitario valido in tutto il territorio
dell’Unione Europea aumenta i potenziali rischi legati alla indisponibi-
lità dei segni da parte di altri operatori; in terzo luogo per via delle di-
sparità tra le multinazionali e le piccole e medie imprese e, infine, per via
dei costi della giustizia che operano come deterrente per molte imprese
che, nell’incertezza sul legittimo uso di un determinato segno, preferi-
scono non correre il rischio di sfruttarlo per evitare l’azione del titolare
di un marchio simile.
GAIA SALOM
Dottore in giurisprudenza
Le camere di ricorso dell’ufficio europeo dei brevetti non costituiscono una giu-
risdizione nazionale ma fanno parte di una organizzazione internazionale chiamata
ad applicare le regole della Convenzione di Monaco che le ha istituite.
Le camere di ricorso non hanno il potere di rimettere questioni pregiudiziali
alla Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 134 del Trattato CE, anche se debbono inter-
pretare norme convenzionali che recepiscono il diritto comunitario (quale la Diret-
tiva 98/44/CE sulla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche).
Quando si debba valutare della liceità dell’invenzione, la domanda di brevetto
europeo va interpretata nel suo insieme e per il modo in cui verrà attuata allorché
sia coinvolto lo sfruttamento di tecnonologie per fini non eticamente accettabili.
La domanda di brevetto che — pur senza far menzione del metodo — presup-
ponga per l’ottenimento del prodotto rivendicato (cultura cellulare) l’utilizzo come
materiale di partenza di cellule staminali embrionali umane implicandone la distru-
zione, contravviene alla “moral clause” contenuta nell’art. 53 della Convenzione di
Monaco ed alla regola 23 D sub C del regolamento di esecuzione (28 sub C EPC
2000) che della prima costituisce specificazione e si applica anche ai casi pendenti
prima dela sua entrata in vigore (1o settembre 1999).
I progressi tecnici divenuti pubblicamente disponibili dopo la data di deposito
della domanda e che prevedano l’impiego di metodi innocui non possono essere presi
in considerazione nella procedura di rilascio per le ragioni di certezza del diritto e di
affidamento dei terzi (*).
I. In its decision T 1374/04 (OJ EPO 2007, 313) Stem cells/WARF, Tech-
nical Board of Appeal 3.3.08 referred the following points of law to the Enlarged
Board of Appeal:
1. Does Rule 23d(c) [now 28(c)] EPC apply to an application filed before the
entry into force , of the rule?
2. If the answer to question 1 is yes, does Rule 23d(c) [now 28(c)] EPC for-
bid the patenting of claims directed to products (here: human embryonic stem cell;
cultures) which — as described in the application — at the filing date could be pre-
pared exclusively by a method which necessarily involved the destruçtion, of the hu-
man embryos from which the said products are derived, if the said method is not part
of the claims?
3. If the answer to question 1 or 2 is no, does Article 53(a) EPC forbid paten-
ting such claims?
4. In the context of questions 2 and 3, is it of relevance that after the filing
date the same products could be obtained without having to recur to a.method
necessarily involving the destruction of human embryos (here: eg derivation
from available human embryonic cell lines)?
(To facilitate understanding, hereinafter the Rules of the Implementing Re-
gulations to the European Patent Convention are cited as numbered according
to the amended Implementing Regulations to the European Patent Convention
which entered into force on 13 December 2007, with the old numbering given in
brackets, except when quoting decisions, legislation or the referral questions).
II. The appeal pending before the referring Board 3.3.08 is against the de-
cision of 13 July 2004 of the Examining Division, refusing European patent ap-
plication No. 96 903 521.1. This decision related to a set of claims 1 to 10 of
which Claim 1 reads:
« 1. A cell culture comprising primate embryonic stem cells which (i) are ca-
pable of proliferation in vitro [sic] culture for over one year, (ii) maintain a
karyotype in which all chromosomes normally characteristic of the primate species
are present and are not noticeably altered through culture for. over one year, (iii)
maintain the potential to differentiate to derivatives of endoderm, mesoderm, and
ectoderm tissues throughout the culture, and (iv) are prevented from differentiating
when cultured on a fibroblast feeder layer ».
III. The Examining Division refused the application under Article 97(1)
EPC 1973 for the reason that claims 1 to 7, 9 and 10 did not comply with the
requirements of Article 53(a) EPC 1973 in conjunction with Rule 23d(c) [now
28(c)] EPC, because, as regards the generation of human embryonic stem cell
cultures, the use of human embryos as starting material was described in the ap-
plication as originally filed as being indispensable. The use of a human embryo
as starting material for the generation of a product of industrial application (ie
the claimed embryonic stem cell cultures) meant a use thereof for industrial pur-
poses within the meaning of Rule 23d(c) [now 28(c)] EPC and was thus prohibi-
ted under the said provision in conjunction with Article 53(a) EPC 1973: The
provisions of Rule 23d(c) [now 28(c)] EPC in conjunction with Article 53(a) EPC
1973 were not directed exclusively to the claimed subject-matter but rather con-
cerned inventions, thus including all aspects that made the claimed subject-mat-
ter available to the public. The description provided only one source of starting
cells, namely a pre-implantation embryo. It was therefore irrelevant that the
546 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II
Introductory comment:
— In 1998 the named inventor using the methods suggested in the applica-
tion was the first to successfully isolate and culture human embryonic stem cells
that can grow in vitro. The provision of these is a major scientific breakthrough
and pioneering invention opening up a new and very exciting field of research
having great potential. for promising medical therapies and other . applications,
and worthy of patent protection.
— Since Rule 28(c) (formerly 23d(c)) EPC repeats the wording of Article
6(2)(c) of the Directive 98/44/EC of 6 July 1998 (hereinafter “the Directive”), the
Enlarged Board of Appeal in interpreting Rule 28(c) (formerly 23d(c)) EPC is in-
terpreting the law of the European Union (hereinafter “EU”) and is required by
Article 234 of the Consolidated Version of the Treaty establishing the European
Community in force since 1 February 2003 under the Treaty of Nice signed 26
February 2001 (hereinafter “EC Treaty”), as a court or tribunal of a member
state against whose decision there is no judicial remedy to ask for a ruling by the
ECJ, in the present situation where the interpretation of Article 6(2)(c) of the
Directive is not free of doubt (i.e. not acte clair).
— The Enlarged Board of Appeal meets the ECJ criteria of being a court
or tribunal, and ECJ Case C-337/95, (“Dior v. Dvora”) is a precedent for a court
under an: international treaty and having jurisdiction for more than a single EU
member state asking for a ruling: Further the vast majority of EPC states are.
Member States of the EU and the Enlarged Board of Appeal sits in such a state.
II. - Giurisprudenza comunitaria e dell’ufficio europeo dei brevetti 547
— Not asking the ECJ for a ruling now, bears the risk that national courts
will subsequently apply (and be obliged to apply) an interpretation of Article 6
of the Directive which does not accord with that applied by the EPO.
Relating to question 1:
28 May 1997 who expressed concern about human cloning, but no desire to ham-
per therapeutic stem cell research. In the light of this opinion it was proposed
there should be a prohibition against the patenting of “methods in which human
embryos are used”. This provision was modified by the Council of Ministers to its
present wording relating to prohibiting patenting of “uses of human embryos for
industrial or commercial purposes”. The change was influenced by UK govern-
ment submissions based on UK legislative provision for licences to be granted for
the use of pre-14 day embryos for research or the treatment of disease. The
words “uses of human embryos for industrial and commercial purposes” in the
Directive are, in the light of the UK’s position, seeking to identify a class of
unacceptable uses on the one hand which contrasts with a class of acceptable
uses on the other. That negotiations at highest level within the EU were invol-
ved, means that the use of the words “industrial and commercial” in Article
6(2)(c) of the Directive cannot be treated merely as a reference to the pre-requi-
site for any patent of there being “industrial applicability”.
Relating to question 4:
VII. The main points made on behalf of the President of the European
Patent Office in writing and at the oral proceedings can be summarized as fol-
lows.
— The Boards of Appeal of the EPO are not courts or tribunals of a mem-
ber state of the EU, and there is no power under the EPC for a Board of Appeal
to refer questions to the ECJ.
Relating to question 1:
— Rule 28(c) (formerly 23d(c)) EPC has immediate effect and applies to
European patent applications filed before its entry into force. The principle of
legitimate expectations and/or acquired rights cannot be extended to the point
of preventing this rule from applying to the future effects of situations which
arose under earlier rules.
Relating to question 2:
— The ratio legis of Rule 28(c) (formerly 23d(c)) EPC is the prohibition of
misuses or the commodification of embryos.
II. - Giurisprudenza comunitaria e dell’ufficio europeo dei brevetti 549
Relating to question 3:
Relating to question 1:
— The large majority considered that Rule 28(c) (formerly 23d(c)) EPC
was applicable also to applications pending at the date of its introduction, but
the opinion was also expressed that it amounted to a change in law which should
only be applicable to applications filed after its. introduction.
Relating to question 2:
IX. Oral proceedings took place on 24 June 2008. For the Appellant the
representatives requested to answer
question 1 of the referral with: yes;
question 2 of the referral with: no;
question 3 of the referral with: no;
question 4 of the referral with: no.
It was also requested that the Enlarged Board refer to the European Court
of Justice the following questions:
1. Under Article 6(2)(c) of Directive 98/44/EC of 6th July 1998 is a Member
State permitted to forbid the patenting of claims directed to products (here: hu-
man embryonic stem cell cultures) which — as described in the application — at
the filing date could be prepared exclusively by a method which necessarily in-
volved the destruction of the human embryos from which the said products are
derived, if the said method is not part of the claims?
2. If the answer to question 1 is no, does Article 6(1) of the Directive mean
a Member State is permitted to forbid patenting such claims?
X. At the end of the oral proceedings, the Chairman closed the debate and
announced that the decision would be given in writing.
Admissibility
refer the question of interpretation to the ECJ; it is convenient to deal with this
as a preliminary point.
3. Neither the EPC nor the Implementing Regulations thereto make any
provision for a referral by any instance of the EPO of questions of law to the
ECJ. The Boards of Appeal are a creation of the EPC, and their powers are limi-
ted to those given in the EPC. Prima facie the conclusion must be that the ab-
sence of any provision enabling such a referral makes such referral impossible.
4. Nor does Article 234 of the EC Treaty giving the ECJ jurisdiction to
give preliminary rulings concerning inter alia the validity and interpretation of
acts of the institutions of the European Community, such as the Directive, ap-
pear to provide any basis for a Board of Appeal of the EPO to request the’ECJ
to give a ruling on any questions before such Board of Appeal.
Article 234 of the EC Treaty requires the question to be raised in a case
pending before a court or tribunal of an EU member state. Whereas EPO Boards
of Appeal have been recognized as being courts or tribunals, they are not courts
or tribunals of an EU member state but of an international organization whose
contracting states are not all members of the EU:
5. The Administrative Council of the EPO as legislator responsible for the
Implementing Regulations found it necessary to introduce what are now Rules
26 to 29 (formerly 23b to 23e) EPC so that the provisions of the EPC correspond
to those of the Directive. Thereby all Contracting States to the E u PC, even those
not members of the EU, have indicated their will that these rules be used to in-
terpret the EPC when considering whether or not a European patent should be
granted. But this cannot be taken as conferring some new power or imposing
some new obligation on the Boards of Appeal to ask for an interpretation by the
ECJ of the EPC or its Implementing Regulations. Certainly the Contracting
States to the EPC which are not member states of the EU cannot be presumed
to have conferred jurisdiction on the ECJ.
6. The mere identity of the wording of Rule 28(c) (formerly 23d(c)) EPC
and of Article 6(2)(c) of the Directive cannot lead to the conclusion that the ECJ
now has jurisdiction to.decide matters for the EPO under the EPC. The Boards
of Appeal apply the provision because it is law under a specific Rule of the Im-
plementing Regulations to the EPC, and not because the Directive is a source of
law to be applied directly. This is corroborated by the fact that Rule 26(1) (for-
merly 23b(1)). EPC only states that the Directive shall be used as a supplemen-
tary means of interpretation of Rules 26 to 29 formerly 23b to 23e) EPC.
7. Article 23(3) EPC provides that in their decisions the members of the
Boards shall not be bound by any instructions and shall comply only with the
provisions. of this Convention. While Article 23(3) EPC is in its present form, the
Enlarged Board concludes that neither it, nor any Board of Appeal of the EPO,
has the power to bind itself to follow a ruling of the ECJ on the interpretation of
Article 6(2)(c) of the Directive and apply this to Rule 28(c) (formerly 23d(c))
EPC.
8. The Enlarged Board has not been made aware of any precedent for
asking the ECJ for a consultative opinion and it must be questionable whether
the ECJ would entertain such a request in a situation where it would be unclear
as to who would be entitled to make submissions to the ECJ on any questions
submitted.
552 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II
Q1. Does Rule 23d (c) [now 28(c)]. EPC apply to an application filed be-
fore the entry into force of the rule?
12. By its decision of 16 June 1999, the Administrative Council of the EPO
inserted a new Chapter VI (now V) entitled “Biotechnological inventions” into
Part II of the EPC Implementing Regulations. These new provisions entered
into force on 1 September 1999, thus transposing the Directive on the legal pro-
tection of biotechnological inventions into the European Patent law Rule 26(1)
(formerly 23b(1)) EPC expressly provides that the relevant provisions of the
Convention shall be applied to European patent applications and patents concer-
II. - Giurisprudenza comunitaria e dell’ufficio europeo dei brevetti 553
Q2. If the answer to question 1 is yes, does Rule 23d(c) [now 28(c)] EPC
forbid the patenting of claims directed to products (here: human embryonic stem cell
cultures) which — as described in the; application — at the filing date could be pre-
pared exclusively by a method which necessarily involved the destruction of the hu-
man embryos, from which the said products are derived, if the said method is not part
of the claims?
15. The present invention concerns inter alia human embryonic stem cell
cultures which at the filing date could be prepared exclusively by a method
which, necessarily involved the destruction of the human embryos from which
they are derived, said method not being part of the claims. Rule 28 (formerly
23d) EPC provides, inter alia: “Under Article 53(a), European patents shall not
be granted in respect of biotechnological inventions which, in particular, concern
... (c) uses of human embryos for industrial or commercial purposes”. The que-
stion thus is whether the present invention falls under the prohibition of this
provision.
16. When looking at the travaux préparatoires relating to the introduction
of Rules 26 to 29 (formerly 23b to e) EPC, it becomes apparent that the aim was
to align the EPC to the Directive. This follows from the Notice dated 1 July 1999
concerning the amendment of the Implementing Regulations to the European
Patent Convention (OJ 1999, 575) and is also evidenced by the fact that, accor-
ding to Rule 26(1) (formerly 23b(1)) EPC, the Directive shall be used as a sup-
plementary means of interpretation. Therefore, the Enlarged Board of Appeal
554 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II
and will not submit to the Regulatory Committee proposals for projects, which
include research activities which destroy human embryos, including for the pro-
curement of stem cells. The exclusion of funding for this step of research will not
prevent the Community funding of subsequent steps involving human embryo-
nic stem cells”. This selective funding in no way supports the Appellant’s posi-
tion.
19. Against a reading of Rule 28(c) (formerly 23d(c)) EPC being applica-
ble to the invention in this case, the Appellant has put forward several argu-
ments. Firstly it argues for a very specific meaning of embryo, as being embryos
of 14 days or older, in accordance with usage in the medical field.
20. Neither the EU legislator nor the EPC legislator have chosen to define
the term “embryo”, as used in the Directive or now in Rule 28 (formerly 23d)
EPC. This contrasts with the German law (Gesetz zum Schutz von Embryonen
of 13 December 1990, § 8) where embryo is defined as including a fertilized egg,
or the UK law (Human Fertilisation and Embryology Act 1990, Section 1(1))
where embryo includes the two cell zygote and an egg in the process of fertilisa-
tion. The EU and the EPC legislators must presumably have been aware of the
definitions used in national laws on regulating embryos, and yet chose to leave
the term undefined. Given the purpose to protect human dignity and prevent the
commercialization of embryos, the Enlarged Board can only presume that “em-
bryo” was not to be given any restrictive meaning in Rule 28 (formerly 23d)
EPC, as to do so would undermine the intention of the legislator, and that what
is an embryo is a question of fact in the context of any particular patent appli-
cation.
21. Secondly the Appellant contends that, in order to fall under the prohi-
bition of Rule 28(c) (formerly 23d(c)) EPC, the use of human embryos must be
claimed.
22. However, this Rule (as well as the corresponding provision of the Di-
rective) does not mention claims, but refers to “invention” in the context of its
exploitation. What needs to be looked at is not just the explicit wording of the
claims but the technical teaching of the application as a whole as to how the in-
vention is to be performed. Before human embryonic stem cell cultures can be
used they have to be made. Since in the case referred to the Enlarged Board the
only teaching of how to perform the invention to make human embryonic stem
cell cultures is the use (involving their destruction) of human embryos, this in-
vention falls under the prohibition of Rule 28(c) (formerly 23d(c)) EPC (compare
also the decision of the BPatG of 5 December 2006, loc. cit., points IV 2.1 to 2.3).
To restrict the application of Rule 28(c) (formerly 23d(c)) EPC to what an ap-
plicant chooses explicitly to, put in his claim would have the undesirable conse-
quence of making avoidance of the patenting prohibition merely a matter of cle-
ver and skilful drafting of such claim.
23. In a case like the present one, where the teaching to obtain the em-
bryonic human stem cells claimed is confined to the use (involving their destruc-
tion) of human embryos, the argument raised by the Appellant, namely that the
exclusion from patentability would go much too far if one would consideròall the
steps preceding an invention for the purposes of Rule 28(c) (formerly 23d(c))
EPC, is not relevant.
24. The Appellant further argues that the use of human embryos to make
556 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II
the claimed human embryonic stem cell cultures is not a use “for industrial or
commercial purposes”, as required by Rule 28(c) (formerly 23d(c)) EPC, but
some other form of use not prohibited by this Rule.
25. A claimed new and inventive product must first be made before it can
be used. Such making is the ordinary way commercially to exploit the claimed
invention and falls within the monopoly granted, as someone having a patent
application with a claim directed to this product has on the grant of the patent
the right to exclude others from making or using such product. Making the clai-
med product remains commercial or industrial exploitation of the invention even
where there is an intention to use that product for further research. On the facts
which this Board must assume in answering the referred question 2, making the
claimed product involves the destruction of human embryos. This use involving
destruction is thus an integral and essential part of the industrial or commercial
exploitation of the claimed invention, and thus violates the prohibition of Rule
28(c).(formerly 23d(c)) EPC.
26. In the context of the terms “for industrial or commercial purposes”
used in Rule 28 (formerly 23d) EPC and Article 6(2)c) of the Directive, the Ap-
pellant has also pointed to the legislative history of the Directive and argued.that
the replacement, of the terms “methods in which human embryos are used” by
“uses of human embryos for industrial, or commercial purposes” meant a nar-
rowing of the provision, excluding inventions such as the present one from its
scope.
27. However, this Board cannot detect such a narrowing. The reason given
in Point 37 of the Common Position for this amendment is that a distinction was
wanted between the uses of human embryos for industrial or commercial purpo-
ses, which were excluded from patentability, and inventions for therapeutic or
diagnostic purposes applied to the human embryo and useful to it, the latter not
being excluded from patentability. To clarify this exception from the exception,
a new Recital 42 was introduced into the Directive. Thus, if anything, these rea-
sons point in the direction of the opinion of this Board that in the present case
human embryos are used for industrial or commercial purposes, since patentabi-
lity was only considered if the invention was to the benefit of the embryo itself
(compare also decision of the BPatG of 5 December 2006, loc. cit., point IV 3).
That this is not the case here is evident, since the embryos used to perform the
invention are destroyed.
28. Addressing the relationship of Rule 28(c) (formerly 23d(c)) EPC to Ar-
ticle 53(a) EPC, the Appellant argues that, if the Rule is read to exclude inven-
tions such as the one underlying this case, the Rule would go beyond Article
53(a) EPC and thus be ultra vires (Article 164(2) EPC). By the same token, it
would also contravene Article 27 of the TRIPS Agreement, which in this area al-
lows only an exception to patentability within the scope of Article 53(a) EPC.
29. The Enlarged Board of Appeal does not share the opinion that such a
reading makes Rule 28(c) (formerly 23d(c)) EPC ultra vires. Article 53(a) EPC
excludes inventions from patentability if their commercial exploitation is against
ordre public or morality. Reference is made to points 25 to 27 where it has been
explained why this Board considers the performing of this invention as commer-
cial exploitation. In this context, it is important to point out that it is not the
fact of the patenting itself that is considered to be against ordre public or mora-
II. - Giurisprudenza comunitaria e dell’ufficio europeo dei brevetti 557
lity, but it is the performing of the invention, which includes a step (the use in-
volving its destruction of a human embryo) that has to be considered to contra-
vene those concepts.
30. It should be noted that the wording of Article 53(a) EPC now differs
slightly from the wording of Article 53(a) EPC 1973. Its text now reads « inven-
tions the commercial exploitation of which would be contrary to “ordre public”
or morality; such exploitation shall not to be deemed to be so contrary merely
because it is prohibited by law or regulation in some or all of the Contracting
States » with deletions compared to the EPC 1973 shown struck through and ad-
ditions in italics. The changes are not relevant to the issues considered in this
decision.
31. For the reasons given above, the Enlarged Board of Appeal comes to
the conclusion that the legislators (both the legislator of the Implementing Re-
gulations to the EPC and of the Directive) wanted to exclude inventions such as
the one underlying this referral from patentability and that in doing so, they
have remained: within the scope of Article 53(a) EPC and of the TRIPS Agree-
ment. In view of this result, it is not necessary nor indeed appropriate to discuss
further arguments and points of view put forward in these-proceedings such as
whether the standard of ordre public or morality should be a European one or
not, whether it matters if research in certain European countries involving the
destruction of human embryos to obtain stem cells is permitted, whether the be-
nefits of the invention for humanity should be balanced against the prejudice to
the embryo, or what the point in time is to assess ordre public or morality under
Article 53a EPC. The legislators have decided, remaining within the ambit of Ar-
ticle 53(a) EPC, and there is no room for manoeuvre.
Q3. If the answer to question 1 or 2 is no, does Article 53(a) EPC forbid pa-
tenting such claims?
32. Question 3 does not need answering, since the Enlarged Board has
held that Rule 28(c) (formerly 23d(c)) EPC is applicable, that it is within the
scope of Article 53(a) EPC, and that it forbids the patenting of products which
at the filing date could be prepared exclusively by a method necessarily involving
the destruction of human embryos from which said products are derived, so that
the answers to questions 1 and 2 is yes.
Q4. In the context of questions 2 and 3, is it of relevance that after the filing
date the same products could be obtained without having to recur to, a method neces-
sarily involving the destruction of human embryos (here: eg derivation from availa-
ble human embryonic cell lines)?
ORDER
cerca sulle staminali in USA, sul versante del diritto europeo dei brevetti
una importante decisione riafferma il divieto di manipolazione della vita
umana fin dal momento del concepimento.
La Wisconsin Alumni Resarch Foundation (WARF) a metà degli
anni 90 presentava domanda di brevetto europeo avente ad oggetto una
cultura cellulare comprendente cellule staminali embrionali di primate.
Come è noto, chi intende ottenere la privativa sui diritti derivanti
dalla propria scoperta su tutto il territorio dei paesi europei aderenti alla
Convenzione sul brevetto europeo (attualmente 34) deve ottenere dal-
l’Ufficio di Monaco il relativo brevetto che viene rilasciato dopo un at-
tento esame di novità e liceità dell’invenzione cui può seguire una fase
contenziosa avanti ad organi d’appello interni (Camere di ricorso) ad ini-
ziativa di chi si veda rigettare la domanda.
La ricerca nel campo delle biotecnologie richiede enormi investi-
menti che l’industria è in grado di affrontare solo ove possa vantare lo ius
excludendi alios grazie al brevetto ottenuto su quel trovato (prodotto o
procedimento) protetto da ogni possibile imitazione onde si spiega la ra-
gione per cui l’ottenimento della privativa sia obbiettivo perseguito con
grande tenacia dalle multinazionali di settore.
La divisione esaminatrice rifiutava il brevetto accertando che il tro-
vato permetteva la creazione anche di culture cellulari staminali embrio-
nali umane per ottenere le quali si rivelava indispensabile l’uso dell’em-
brione umano (fertilizzato in vitro) destinato ad essere impiegato come
materiale di partenza per la generazione di un prodotto di applicazione
industriale (appunto le culture cellulari rivendicate). E ciò era vietato
dall’art. 53 a della Convenzione escludente dalla brevettabilità le inven-
zioni la cui attuazione risulti contraria all’ordine pubblico od al buon costu-
me (1) e dalla regola 23d sub c del Regolamento di esecuzione (oggi 28 sub
c EPC 2000) indicante tra le eccezioni alla brevettabilità gli usi degli em-
brioni umani per finalità industriali o commerciali (2).
Gli esaminatori in particolare rimarcavano che il combinato dispo-
sto delle due norme non era rivolto esclusivamente all’oggetto rivendi-
cato ma all’invenzione nel suo complesso, inclusi tutti gli aspetti che la
rendevano disponibile al pubblico, restando cosı̀ irrilevante che non fosse
stato rivendicato il metodo di produzione.
Negavano inoltre che potesse applicarsi la “deroga” all’eccezione di
brevettabilità formulata nel considerando 42 della Direttiva sulla biotec-
nologie riguardante le invenzioni con finalità terapeutiche o diagnostiche
per l’utilità dell’embrione stesso, quella condizione non realizzandosi nella
fattispecie nonostante il potenziale beneficio che tali manipolazioni
(3) I membri dell’Enlarged Board sono designati per un periodo di 5 anni tra
i componenti delle singole Camere ma è prevista la partecipazione anche di giuristi
non permanenti (legally qualified members) provenienti dalle giurisdizioni e dalle au-
torità para-giurisdizionali degli Stati contraenti, nominati dal Consiglio di ammini-
strazione dell’UEB per un periodo rinnovabile di 3 anni e chiamati (a rotazione) ad
esprimere la loro opinione (pur continuando a svolgere il servizio nazionale) onde con-
tribuire all’armonizzazione del diritto brevettuale europeo (art. 11 EPC 2000 che ha
sostituito in via definitiva la norma « transitoria » dell’art. 160.2 della CBE).
II. - Giurisprudenza comunitaria e dell’ufficio europeo dei brevetti 561
(4) In termini sul legal status delle Camere di ricorso non identificabili in Corti
o Tribunali degli Stati membri già si era pronunzita — prima facie — la Technical
Board (T 276/99).
(5) Corte di Giustizia C-337/95 (Dior-Evora).
562 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II
(6) Il principio affermato non è nuovo essendo già stato deciso che il “pac-
chetto” di regole sulle invenzioni biotecnologiche nella parte in cui si riferiva all’art.
53 a della CBE aveva natura interpretativa (Technical Board T 272/95) e comunque
che l’art. 23d del Regolamento andava applicato senza condizioni (Technical Board T
315/03).
(7) E v pacifico nella giurisprudenza delle Camere che le regole sulla interpreta-
zione dei trattati possono fornire una guida in questioni pertinenti l’interpretazione
della CBE (Enlarged Board G 2/02 e G 3/02).
(8) Anche il Parlamento europeo nell’Ottobre del 2005 aveva adottato una ri-
soluzione secondo la quale la creazione di cellule staminali implicante distruzione de-
gli embrioni umani costituiva violazione della direttiva.
(9) Cosı̀ GERMINARIO, The value of life: are human ESC patentable?, in Patent
World, June 2004.
II. - Giurisprudenza comunitaria e dell’ufficio europeo dei brevetti 563
E
v stato invece sottolineato che sia la regola 23d sub c sia la corri-
spondente disposizione della direttiva non facevano menzione di rivendi-
cazioni di sorta ma si riferivano all’invenzione nell’ambito del suo sfrut-
tamento, rimandando all’insegnamento tecnico contenuto nella domanda
di brevetto nel suo complesso e dunque anche al modo di sua realizza-
zione.
Da tanto derivando che — essendo l’uso (comportante la distru-
zione) dell’embrione umano l’unico insegnamento di come eseguire l’in-
venzione — essa inevitabilmente ricadeva nei divieto benché non fosse
stato rivendicato il metodo di produzione, posto che non era il fatto della
brevettabilità in se stessa a contravvenire alla “moral clause” quanto
piuttosto il compimento dell’invenzione medesima che includeva una
fase contraria ai principi dell’ordine pubblico e del buon costume.
Non è stata perciò ricercata alcuna scriminante tra uso “accetta-
bile” ed uso “inaccettabile” degli embrioni umani quale sarebbe stato —
nell’un caso — l’utilizzo dell’embrione per la derivazione di linee cellu-
lari al fine di ritrarre dalla sperimentazione terapie benefiche per alle-
viare le sofferenze umane; nell’altro la mera commercializzazione di or-
gani del corpo umano (ivi compresi gli embrioni).
La soluzione adottata sul punto è radicale, basandosi sulla distin-
zione normativa tra usi degli embrioni umani per scopi industriali e
commerciali (esclusi dalla brevettabilità) ed usi a fini terapeutici e dia-
gnostici a beneficio degli embrioni stessi (ammessi alla brevettabilità),
non necessitando tale conclusione la verifica di uno standard europeo in
tema di morale o se la ricerca implicante la distruzione degli embrioni
sia permessa o meno negli Stati dell’UE (10).
Rispondendo poi sulla IVa questione (non necessitando risposta la
a
III domanda stante la ritenuta applicabilità alla fattispecie della regola
23d sub c del Regolamento quale “specificazione” dell’art. 53a della Con-
venzione) la Camera ha ritenuto irrilevanti gli eventuali progressi tecnici
intervenuti dopo la presentazione della domanda che non potevano an-
dare né a danno né a beneficio del richiedente, diversamente creandosi
una situazione di incertezza giuridica in pregiudizio di terzi che avessero
proposto un metodo innocuo.
5. Conclusioni.
brevetto (e quindi esentato) quanto non sia in esse incluso (claims sy-
stem): questo tutte le volte in cui la Convenzione conservi — nel proibire
la brevettabilità — obiezioni etiche contro lo sfruttamento della tecnolo-
gia coinvolta nell’oggetto rivendicato.
Se è vero infatti che il brevetto da diritto di vietare ai terzi di fare
od usare ciò che è rivendicato a scopi industriali o commerciali, il modo
in cui viene descritto come farlo od usarlo non può essere considerato ir-
rilevante nell’economia dell’invenzione a prescindere dal tenore letterale
delle rivendicazioni (11).
Né va sottaciuto che la formulazione del principio espresso nell’art.
6.2 sub c della Direttiva (da cui deriva la corrispondente norma del Re-
golamento) è frutto di corpi legislativi responsabili politicamente che si
presume non stessero pensando in termini di categorie di rivendicazioni
brevettuali ma piuttosto all’“essenza” dell’invenzione con riferimento a
tecnologie facenti uso di embrioni umani per fini non eticamente accet-
tabili.
Va comunque soggiunto — nonostante la Camera ampliata non ab-
bia inteso ergersi a moral arbiter — che la risposta negativa fornita sul-
l’impiego delle cellule staminali embrionali umane quale limite invalica-
bile alla brevettabilità dei procedimenti che quell’uso implicano con pre-
giudizio per l’embrione stesso sottende — pur senza nominarlo — il
principio che l’embrione costituisce sempre l’inizio di una vita umana
che contiene tutte le informazioni genetiche e la potenziale capacità di
differenziarsi e svilupparsi in individuo per cui non può essere neutraliz-
zato come un oggetto a discapito dello status di cui gode.
Ciò emerge nel dictum finale della decisione dove è precisato che non
tanto è vietata la brevettabilità di invenzioni che facciano impiego di
cellule staminali o delle loro culture quanto piuttosto brevettare prodotti
ottenibili con un uso degli embrioni umani che implichi la loro distru-
zione.
Il principio della dignità umana rende perciò inappagante il c.d. be-
lancing approach (utilitaristico) essendo inaccettabile, discutendosi ap-
punto di vita umana, assumere una decisione che soppesi gli interessi
degli esseri viventi che potenzialmente potrebbero trarre benefici dalla
sviluppo di siffatte tecnologie contro il diritto dell’embrione di arrivare
alla vita e non essere sacrificato a beneficio di altri (12).
Il caso WARF ricalca nella sostanza quello sul c.d. brevetto di
Edimburgo (riguardante un procedimento per propagare selettivamente
cellule staminali transgeniche) concesso nel 1999 e ridotto in sede di op-
posizione nei limiti della sola richiesta ausiliaria riferita alla utilizzazione
di cellule staminali “adulte” (isolate da tessuti adulti, dal cordone om-
belicale, da tessuti fetali al termine della gravidanza) e dunque non pre-
supponente la distruzione dell’embrione (quale implicata dalla richiesta
principale come tale respinta).
L’uomo deve porsi limiti inviolabili. Oltre un certo limite non può
andare perché esiste una linea di confine tra scienza e vita che non va
sacrificata alle esigenze della ricerca destinata a transitare da interventi
non manipolativi dell’embrione o comunque non comportanti la sua di-
struzione (13): via questa che sembra al momento l’unica esente da pro-
blemi etici.
MASSIMO SCUFFI
Consigliere della Corte di cassazione
Membro giuridico della Camera ampliata di ricorso
dell’Ufficio europeo dei brevetti
(13) Nell’agosto del 2006 Robert Lanza, biologo della advanced cell techno-
logy (act) aveva annunciato la possibilità di derivare una cultura di cellule staminali
senza distruggere l’embrione ma in realtà l’operazione sarebbe consistita nel dividere
l’embrione in una coppia gemellare distruggendone uno per creare la cultura.
IV. - MASSIMARIO DELLE SENTENZE DELLA
CASSAZIONE IN MATERIA DI DIRITTO INDUSTRIALE
MASSIMARIO
GENNAIO/GIUGNO 2008 (*)
DITTA
1. Cass. civ., sez. I, 12 marzo 2008 n. 6720 — Pres. CARNEVALE — Rel. PICCI-
NINNI — P.M. UCCELLA (Conf.) — Caiazzo Industria Detergenti s.r.l. c. To-
massi.
Ditta - Art. 13 del d.lgs. n. 480 del 1992 - Divieto di adozione come segno di-
stintivo del marchio altrui - Applicabilità - Presupposto - Rischio di confondi-
bilità - Accertamento - Giudizio di comparazione - Modalità.
Ai sensi dell’art. 13 del r.d. 21 giugno 1942, n. 929, come modificato dal d.lgs.
4 dicembre 1992, n. 480, il divieto di adozione come ditta, insegna, denominazione o
ragione sociale, di un segno uguale o simile al marchio altrui, trova applicazione
quando, a causa dell’identità od affinità tra l’attività d’impresa dei due titolari dei
segni distintivi ed i prodotti o i servizi per i quali è stato adottato il marchio, si possa
verificare un rischio di confusione per il pubblico, identificabile anche con la possi-
bilità di associazione tra i segni. Ne consegue che il giudizio di comparazione sul
quale si fonda la confondibilità non deve essere formulato in riferimento ai prodotti
delle due imprese o alla violazione della correttezza professionale o commerciale, ma
esclusivamente in riferimento all’attività svolta dall’impresa che ha assunto il mar-
chio come segno distintivo della propria ditta e i prodotti, protetti dal marchio regi-
strato, commercializzati dall’altra.
MARCHIO
— complesso: 8.
— contraffazione: 3, 12, 13.
— debole o forte: 2.
— di colore: 6.
— di fatto: 11.
— di forma: 5.
— secondary meaning: 9.
— tutela penale: 1, 4, 7, 10.
1. Cass. pen., sez. III, 7 gennaio 2008 n. 166 (Ud. 28 settembre 2007) — Pres.
GRASSI — Rel. FRANCO — P.M. SALZANO (Conf.) — Imp. Parentini.
Marchio - Tutela penale - Tutela del “made in Italy” - Indicazione del luogo
di fabbricazione del prodotto - Falsità della stessa - Integrazione del reato di
cui all’art. 517 cod. pen. - Sussistenza - Fattispecie.
In tema di reato di vendita di prodotti industriali con segni mendaci di cui al-
l’art. 517 cod. pen., l’imprenditore non ha l’obbligo di indicare sull’oggetto quale sia
il luogo di fabbricazione dello stesso, ma qualora tale indicazione sia apposta, la fal-
sità della stessa è idonea di per sé sola a trarre in inganno sull’origine del prodotto.
2. Cass. civ., sez. I, 7 marzo 2008 n. 6193 — Pres. DE MUSIS — Rel. NAPPI —
P.M. PRATIS (Conf.) — Mattel inc. e Mattel s.r.l. c. Edigamma s.r.l.
Marchio - Debole o forte - Confondibilità - Accertamento - Criteri - Valuta-
zione globale e sintetica - Necessità - Esame separato dei singoli elementi - In-
sufficienza - Esame della natura “forte” o “debole” del marchio - Necessità -
Fattispecie.
3. (continua)
Marchio - Azione di contraffazione - Natura giuridica - Reale - Accertamento
- Confondibilità tra marchi - Estensione alla confondibilità tra prodotti -
Esclusione.
568 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II
4. Cass. pen., sez. V, 13 marzo 2008 n. 11240 (Ud. 14 febbraio 2008) — Pres.
CALABRESE — Rel. FERRUA — P.M. FEBBRARO (Conf.) — Imp. Ady Baye.
Marchio - Tutela penale - Detenzione a fini di vendita di prodotti con marchio
contraffatto - Scadente qualità dei materiali utilizzati e particolari modalità di
vendita - Rilevanza ai fini del bene protetto - Esclusione - Ragioni.
Il reato di introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi (art.
474 cod. pen.) tutela la fede pubblica - intesa come affidamento nei marchi o nei se-
gni distintivi - e non gli acquirenti; ai fini della sua configurabilità, pertanto, è del
tutto irrilevante che l’acquirente sia in grado, avuto riguardo alla qualità del pro-
dotto, al prezzo, al luogo dell’esposizione nonché alla figura del venditore, di escludere
la genuinità del prodotto, in quanto ciò che rileva è esclusivamente la possibilità di
confusione tra i marchi — per la cui individuazione è sufficiente ma imprescindi-
bile un raffronto tra i segni — e non già quella tra i prodotti.
5. Cass. civ., sez. I, 18 marzo 2008 n. 7254 — Pres. LOSAVIO — Rel. RAGONESI
— P.M. RUSSO (Conf.) — Louis Vuitton Malletier S.A. c. Robert Diffusione
srl, Giorgia srl ed a.
Marchio - Marchio cosiddetto “di forma” - Legittimità - Condizioni e limiti -
Forme frutto di lavorazioni non “standardizzate” - Carattere distintivo - Sus-
sistenza - Fattispecie.
In tema di marchio, per il quale l’art. 18, primo comma, lettera c), del r.d. 21
giugno 1942, n. 929 (nel testo risultante dalla sostituzione operata con l’art. 18 del
d.lgs. 4 dicembre 1992, n. 480), preclude che possano costituire oggetto di registra-
zione i segni costituiti dalla forma imposta dalla natura stessa del prodotto, dalla
forma del prodotto necessaria per ottenere un risultato tecnico, o dalla forma che dà
un valore sostanziale al prodotto, il segno costituito dalla forma di un prodotto, che
ne consente la registrazione come marchio, deve rivestire un carattere ornamentale o
funzionale inferiore a quello necessario per rendere la forma brevettabile come mo-
dello, ma che tuttavia goda di un autonomo carattere distintivo. Tali possono essere
considerate le forme frutto di lavorazioni non “standardizzate”, suscettibili per ciò di
assumere un proprio carattere di distintività. (Nella specie la S. C. ha confermato la
statuizione della corte territoriale laddove aveva negato il carattere di segno registra-
bile come marchio della lavorazione del cuoio c.d. “a granopaglia”, ritenendo, con
motivazione adeguata, il carattere “standardizzato” della relativa lavorazione).
IV. - Massimario 569
6. (continua)
Marchio - Indicativo - Di colore - Brevettabilità - Limiti - Valutazione in con-
creto - Necessità - Fattispecie.
7. Cass. pen., sez. II, 20 marzo 2008 n. 12452 (Ud. 4 marzo 2008) — Pres.
RIZZO — Rel. FIANDANESE — P.M. GALASSO (Conf.) — Imp. Altobello.
Marchio - Tutela penale - Introduzione nello Stato e commercio di prodotti
con segni falsi - Ricettazione - Concorso - Configurabilità - Fondamento.
8. Cass. civ., sez. I, 16 aprile 2008 n. 10071 — Pres. CARNEVALE — Rel. RAGO-
NESI — P.M. GOLIA (Conf.) — Havana Club Holding S.A., Havana Club In-
ternational S.A., Distillerie F.lli Ramazzotti S.p.A c. Distillerie Bagnoli di
Bagnoli Giovanni & C. snc ed a.
Marchio - Complesso - Caratteristiche - Combinazione di più componenti -
Efficacia distintiva - Accertamento della natura forte o debole dei singoli mar-
chi - Necessità - Fattispecie.
tato il ricorso avverso la sentenza di secondo grado che aveva escluso la natura forte
sia del primo componente del marchio complesso “Havana Club”, avente ad oggetto
un nome geografico, in quanto meramente indicativo del luogo di provenienza della
bevanda alcolica cosı̀ denominata, sia del secondo componente, relativo al luogo di
abituale di consumo del prodotto stesso).
9. (continua)
Marchio - Capacità distintiva derivante dal “secondary meaning” - Caratte-
ristiche - Notorietà interna ed internazionale del marchio - Accertamento -
Presenza del prodotto sul mercato - Insufficienza - Rilevante diffusione e pro-
mozione pubblicitaria - Necessità.
In tema di tutela del marchio forte, la capacità distintiva derivante dal “secon-
dary meaning”, cioè dalla notorietà assunta a causa dell’uso o del carattere interna-
zionale del segno distintivo, deve essere accertata con riferimento alla fase temporale
anteriore alla registrazione del marchio di cui si denuncia la contraffazione, non ri-
levando, al riguardo, la mera presenza del prodotto nel mercato, se non accompagnata
dalla prova della rilevante diffusione e promozione dello stesso.
10. Cass. pen., sez. II, 23 aprile 2008 n. 16821 (Ud. 3 aprile 2008) — Pres. RIZZO
— Rel. NUZZO — P.M. CEDRANGOLO (Conf.) — Imp. Diop Mamadou Lamine.
Marchio - Tutela penale - Introduzione nello Stato e commercio di prodotti
con segni falsi - Falso grossolano - Reato impossibile - Condizioni.
In tema di commercio di prodotti con segni falsi, perché il falso possa essere
considerato innocuo e grossolano, e dunque, perché il reato possa essere ritenuto im-
possibile, occorre che le caratteristiche intrinseche del prodotto e del marchio che con
esso si identifica siano tali da escludere immediatamente la possibilità che una per-
sona di comune avvedutezza e discernimento possa essere tratta in inganno: tale giu-
dizio va formulato con criteri che consentano una valutazione “ex ante” della ricono-
scibilità “ictu oculi” della grossolanità della falsificazione.
11. Cass. civ., sez. I, 21 maggio 2008 n. 13067 — Pres. CARNEVALE — Rel. RAGO-
NESI — P.M. GOLIA (Conf.) — Scifoni Renata di Scifoni Carlo e C. sas c. Sci-
foni Fratelli organizzazione internazionale per le onoranze funebri di Scifoni
Patrizia sas.
Marchio - Nominativo - Personale - Ragione sociale - Marchio di fatto, per
prodotti dello stesso genere, di altro imprenditore - Pregresso utilizzo - Con-
seguenze - Divieto di impiego come marchio ulteriore - Fondamento.
In tema di utilizzo delle ragioni sociali da parte di due concorrenti alla stregua
IV. - Massimario 571
di marchi, ai sensi del secondo comma dell’art. 13 del r.d. 21 giugno 1942, n. 929,
come modificato dalla legge 21 marzo 1967 n. 158, applicabile “ratione temporis”, si
applica il principio per cui l’uso del proprio nome patronimico come marchio, an-
corché accompagnato da elementi differenziatori, è vietato quando tale nome già co-
stituisca marchio, anche di fatto, di altro imprenditore per prodotti dello stesso ge-
nere; tale anteriorità conferendo invero al primo utilizzatore l’esclusività dell’uso.
12. Cass. civ., sez. I, 19 giugno 2008 n. 16647 — Pres. PROTO — Rel. TAVASSI —
P.M. RUSSO (Parz. Diff.) — Ghercu c. HB Brditschka Gmbh & Co KG.
Marchio - Contraffazione - Giudizio di contraffazione - Azione di concorrenza
sleale - Introduzione con le memorie ex art. 183 cod. proc. civ. - Esigenza sorta
dalle difese del convenuto - Ammissibilità - Fattispecie.
Sebbene la domanda volta ad ottenere l’inibitoria dell’abuso del marchio sia di-
versa rispetto a quella volta ad ottenere l’inibitoria di atti di concorrenza sleale, essa
può essere formulata per la prima volta con le memorie di cui all’art. 183 cod. proc.
civ., se la relativa esigenza sia sorta dalle difese del convenuto. (In applicazione di
tale giudizio, la S.C. ha ritenuto ammissibile la domanda di inibizione dell’uso della
ditta, proposta dall’attore a seguito dell’eccezione sollevata dal convenuto, il quale si
era difeso dall’azione di contraffazione sostenendo di aver fatto uso del marchio solo
come ditta).
13. (continua)
Marchio - Contraffazione - Uso di segni distintivi identici o simili a quelli le-
gittimamente usati dall’imprenditore concorrente - Appropriazione o contraf-
fazione del marchio - Configurabilità - Tutela del marchio e repressione della
concorrenza sleale - Cumulabilità - Sussistenza.
DIRITTO D’AUTORE
1. Cass. civ., sez. III, 12 febbraio 2008 n. 3267 — Pres. DI NANNI — Rel. FRA-
SCA — P.M. SCHIAVON (Conf.) — Ferrara c. Clemi Cinematografica, Balducci
ed a.
572 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II
2. Cass. pen., sez. III, 12 marzo 2008 n. 11096 (Ud. 17 gennaio 2008) — Pres.
VITALONE — Rel. ONORATO — P.M. CIAMPOLI (Parz. diff.) — Imp. Governa-
tori.
Diritti d’autore - Tutela penale - Opere d’arte - Autenticazione di opere d’arte
false - Reato originariamente previsto dalla l. n. 1062 del 1971, successiva-
mente punito dal d.lgs. n. 490 del 1999 e, attualmente, dal d.lgs. n. 42 del 2004
- Continuità normativa - Sussistenza.
In tema di tutela penale delle opere d’arte, sussiste continuità normativa tra il
reato prima previsto dall’art. 4 l. 20 novembre 1971, n. 1062, poi sostituito dall’art.
127 d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490 ed attualmente sanzionato dall’art. 178 d.lgs. 22
gennaio 2004, n. 42, in quanto tutte le fattispecie puniscono la medesima condotta
consistente nell’autenticazione di opere false, conoscendone la falsità.
3. Cass. pen., sez. III, 2 aprile 2008 n. 13810 (Ud. 12 febbraio 2008) — Pres.
LUPO — Rel. PETTI — P.M. MONTAGNA (Diff.) — Imp. Diop Elhadji Yanda.
Diritti d’autore - Tutela penale - Sentenza della Corte di Giustizia CE d’inter-
pretazione del diritto comunitario - Natura vincolante nei giudizi nazionali -
Sussistenza - Fattispecie.
Le sentenze della Corte di giustizia CE, quale interprete qualificato del diritto
comunitario, di cui definisce autoritativamente il significato a norma dell’art. 164
del Trattato CE, hanno efficacia vincolante, anche “ultra partes”, nei procedimenti
dinanzi alle autorità, giurisdizionali o amministrative, dei singoli Stati membri. (Fat-
tispecie relativa a sentenza della Corte di giustizia che ha qualificato come “regola
tecnica”, da notificare alla Commissione europea, in base alle direttive 83/189/CE e
98/34/CE, l’apposizione del contrassegno Siae sui supporti non cartacei con conse-
guente obbligo, per i giudici nazionali, di disapplicazione, nelle fattispecie di reato
di cui agli artt. 171-bis, commi primo e secondo, e 171-ter, comma primo, lett. d),
della l. n. 633 del 1941, della relativa normativa ove non notificata).
IV. - Massimario 573
4. Cass. pen., sez. III, 2 aprile 2008 n. 13812 (Ud. 12 febbraio 2008) — Pres.
LUPO — Rel. PETTI — P.M. MONTAGNA (Conf.) — Imp. Giacometti.
Diritti d’autore - Tutela penale - Ricezione di programma criptato mediante
utilizzo di “smart card” legittimamente detenuta - Diffusione in pubblico
senza accordo col distributore - Reato di cui all’art. 171-ter, comma primo,
lett. e) l. n. 633 del 1941 - Configurabilità.
Integra il reato di cui all’art. 171-ter, comma primo, lett. e), l. n. 633 del 1941
e non già il reato di cui all’art. 171-octies stessa legge, la condotta di chi, utilizzando
una “smart card”, legittimamente detenuta in base al contratto ed idonea a consen-
tire la ricezione di programmi televisivi a pagamento per uso esclusivamente privato,
diffonda in pubblico i programmi stessi in assenza di accordo con il distributore.
5. Cass. pen., sez. III, 2 aprile 2008 n. 13816 (Ud. 12 febbraio 2008) — Pres.
LUPO — Rel. ONORATO — P.M. MONTAGNA (Conf.) — Imp. Valentino.
Diritti d’autore - Tutela penale - Integrazione dei reati relativi a supporti privi
di contrassegno Siae - Anteriorità del contrassegno rispetto alla direttiva co-
munitaria 83/189/CE ovvero, se successivo, sua comunicazione alla Commis-
sione Europea - Necessità - Sussistenza - Fattispecie - Normativa comunitaria
ad effetto diretto.
6. Cass. pen., sez. III, 2 aprile 2008 n. 13819 (Ud. 12 febbraio 2008) — Pres.
LUPO — Rel. ONORATO — P.M. MONTAGNA (Conf.) — imp. Kane.
574 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II
7. Cass. pen., sez. III, 2 aprile 2008 n. 13822 (Ud. 12 febbraio 2008) — Pres.
LUPO — Rel. PETTI — P.M. MONTAGNA (Conf.) — Imp. Maggiola.
Diritti d’autore - Tutela penale - Proiezione in pubblico di opera destinata ad
uso privato - Reato di cui all’art. 171-ter lett. b) l. n. 633 del 1941 - Sussistenza
- Limiti.
Integra il reato di cui all’art. 171-ter, comma primo, lett. b), l. n. 633 del 1941
la diffusione, senza autorizzazione, in una pubblica proiezione, di opera cinemato-
grafica contenuta in dvd e destinata esclusivamente ad uso privato salvo che detta
diffusione avvenga entro la cerchia ordinaria della famiglia, del convitto, della scuola
o dell’istituto di ricovero, purché non effettuata a scopo di lucro.
8. Cass. pen., sez. III, 2 aprile 2008 n. 13839 (Ud. 12 febbraio 2008) — Pres.
LUPO — Rel. SQUASSONI — P.M. (Diff.) — Imp. Cipriani.
Diritti d’autore - Tutela penale - Utilizzazione per uso non privato di apparati
per la decodificazione di trasmissione ad accesso condizionato - Reato ex art.
171-octies, l. n. 633 del 1941 - Sussistenza.
9. Cass. pen., sez. III, 2 aprile 2008 n. 13844 (Ud. 12 febbraio 2008) — Pres.
LUPO — Rel. ONORATO — P.M. MONTAGNA (Conf.) — Imp. Di Martino.
Diritti d’autore - Tutela penale - Fattispecie dell’art. 171-ter, comma secondo,
IV. - Massimario 575
lett. a), l. n. 633 del 1941 - Natura di reato autonomo rispetto ai fatti del
comma primo - Sussistenza - Ragioni.
La fattispecie di cui all’art. 171-ter, secondo comma, lett. a), della l. n. 633 del
1941, non configura una circostanza aggravante dei fatti di cui al primo comma dello
stesso articolo, ma integra una figura autonoma di reato, essendo identificata con
elementi materiali e psicologici del tutto diversi e comunque non sovrapponibili con
quelli previsti nelle lettere da a) a h) del predetto primo comma.
10. Cass. pen., sez. III, 8 aprile 2008 n. 14435 (Ud. 4 marzo 2008) — Pres. LUPO
— Rel. SENSINI — P.M. PASSACANTANDO (Diff.) — Imp. Diop Mor.
Diritti d’autore - Tutela penale - Reato di cui all’art. 171-ter, lett. d), l. n. 633
del 1941 - Commercializzazione di oltre cinquanta copie o esemplari di opere
- Automatica qualificazione del fatto a norma dell’art. 171-ter, comma se-
condo, l. n. 633 del 1941 - Esclusione.
11. Cass. civ., sez. III, 16 maggio 2008 n. 12433 — Pres. FANTACCHIOTTI — Rel.
LANZILLO — P.M. FUZIO (Diff.) — Zannotti c. Cesco Capanna Editore srl.
Diritti d’autore - Diritti relativi al ritratto - Violazione del diritto all’imma-
gine - Danni patrimoniali conseguenti - Liquidazione - Criteri - Individua-
zione - Parametri di valutazione equitativa - Riferibilità agli indici previsti
dall’art. 128, comma secondo, della legge n. 633 del 1941 - Ammissibilità.
nendo conto, in particolare, dei criteri enunciati dall’art. 128, comma secondo, della
legge n. 633 del 1941 sulla protezione del diritto di autore.
12. Cass. pen., sez. VII, 29 maggio 2008 n. 21579 (Cc 6 marzo 2008) — Pres.
ROSSI — Rel. FRANCO — P.M. (Diff.) — Imp. Boujlaib.
Diritti d’autore - Tutela penale - Integrazione dei reati relativi a supporti privi
di contrassegno Siae - Anteriorità del contrassegno rispetto alla direttiva co-
munitaria ovvero, se successivo, sua comunicazione alla Commissione Euro-
pea - Necessità - Sussistenza - Fattispecie.
Ai fini dell’integrazione dei reati di cui alla l. n. 633 del 1941, e successive mo-
difiche, che prevedono, tra gli elementi costitutivi della condotta, quello della man-
canza del contrassegno Siae, è richiesta la prova, incombente sul pubblico ministero,
che l’obbligo di apposizione del predetto contrassegno, da qualificare come “regola
tecnica” ai sensi della normativa comunitaria come interpretata dalla Corte di giu-
stizia CE, sia stato introdotto dal legislatore nazionale anteriormente alla data del 31
marzo 1983, quale data di entrata in vigore della direttiva 83/189/CE, ovvero che, se
introdotto successivamente, sia stato, in adempimento di detta direttiva, previamente
comunicato dallo Stato italiano alla Commissione dell’Unione Europea; la man-
canza di tale prova comporta l’assoluzione dell’imputato perché il fatto non è previ-
sto dalla legge come reato. (Nella specie, relativa al reato di cui all’art. 171-ter,
comma secondo, lett. a), la Corte, sul presupposto che l’obbligo di apposizione del
contrassegno Siae sui supporti rappresentati da videocassette, musicassette, fono-
grammi, videogrammi o sequenze di immagini in movimento è stato introdotto, per
la prima volta, dal d.lgs. n. 685 del 1994, e quindi successivamente all’entrata in vi-
gore della predetta direttiva comunitaria, senza che ne sia stata fatta comunicazione
alla Commissione, ha annullato senza rinvio la sentenza di condanna assolvendo con
la formula predetta).
13. (continua)
Diritti d’autore - Tutela penale - Reati di detenzione o commercializzazione di
supporti illecitamente duplicati o riprodotti - Mancanza del contrassegno Siae
- Prova della duplicazione o riproduzione - Esclusione - Mero indizio - Esclu-
sione - Ragioni - Fattispecie - Interpretazione della Corte di Giustizia CE -
Rilevanza.
tispecie relativa al reato di cui all’art.171-ter, comma primo, lett. c), della l. n. 633
del 1941 e successive modifiche). Le sentenze della Corte di giustizia CE, quale in-
terprete qualificato del diritto comunitario, di cui definisce autoritativamente il si-
gnificato a norma dell’art. 164 del Trattato CE, hanno infatti efficacia vincolante,
anche “ultra partes”, nei procedimenti dinanzi alle autorità, giurisdizionali o am-
ministrative, dei singoli Stati membri. (Fattispecie relativa a sentenza della Corte di
giustizia che ha qualificato come “regola tecnica”, da notificare alla Commissione
europea, in base alle direttive 83/189/CE e 98/34/CE, l’apposizione del contrassegno
Siae sui supporti non cartacei con conseguente obbligo, per i giudici nazionali, di
disapplicazione, nelle fattispecie di reato di cui agli artt. 171-bis, commi primo e se-
condo, e 171-ter della l. n. 633 del 1941, che prevedono la mancanza del contrassegno
quale elemento costitutivo, della relativa normativa ove non notificata).
INVENZIONI INDUSTRIALI
— brevetto europeo: 1.
— iniziativa del P.M.: 2.
1. Cass. civ., SS. UU., 12 marzo 2008 n. 6532 — Pres. VITTORIA — Rel. FORTE
— P.M. CENICCOLA (Conf.) — Medic srl c. Meridian Bioscience Inc. e Meri-
dian Bioscience s.r.l.
Invenzioni industriali - Brevetto europeo - Azione diretta ad ottenere la decla-
ratoria di nullità di una domanda di brevetto - Concessione del brevetto in
corso di causa - Sopravvenuta condizione dell’azione - Giurisdizione del giu-
dice ordinario - Sussistenza - Fondamento.
2. (continua)
Invenzioni industriali - Azione di nullità della domanda per ottenere il bre-
vetto - Promovimento da parte del P.M. - Esclusione - Conseguenze sul con-
578 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II
In materia di brevetti, atteso che il P.M. può promuovere l’azione di nullità del
brevetto concesso, ai sensi dell’art. 78 del r.d. n. 1127 del 1939, e non quella tendente
alla nullità della sola domanda per ottenerlo, con la conseguenza che non può quali-
ficarsi interventore necessario nel giudizio relativo alla seconda, la mancata notifica
del ricorso per cassazione al P.G. della Corte d’appello non incide sull’ammissibilità
del ricorso stesso, né rende necessaria l’integrazione del contraddittorio, qualora
(come nel caso di specie) il P.M. sia intervenuto nel giudizio di merito che ha per
oggetto la domanda per ottenere il brevetto.
MODELLI DI UTILITA
v E MODELLI ORNAMENTALI
— novità: 1.
1. Cass. civ., sez. I, 2 aprile 2008 n. 8510 — Pres. MORELLI — Rel. CECCHERINI
— P.M. CENICCOLA (Conf.) — BSH Bosch und Siemens Hausgerate GMBH
c. Candy Elettrodomestici srl.
Modelli di utilità - Brevetto - Requisiti - Diversità rispetto al brevetto per in-
venzione - Esclusione - Novità intrinseca - Necessità - Requisiti.
Ai fini del riconoscimento del brevetto per modello di utilità è richiesto, come
per il brevetto per le invenzioni, oltre al requisito formale della descrizione chiara e
completa, il requisito sostanziale della novità intrinseca od originalità, da ricono-
scersi ogni qual volta sia possibile rinvenire un’idea nuova che incida su un mecca-
nismo od una forma già noti, conferendogli nuova utilità mediante soluzioni ed ac-
corgimenti che vadano oltre la mera applicazione di regole ovvie ed elementari e at-
tribuiscano a macchine, strumenti, utensili ed oggetti, un incremento di efficienza o
di comodità d’impiego.
(Pubblicata in questa Rivista, 2008, II, p. 283 ss., con commenti di A. VAN-
ZETTI e M. FRANZOSI).
CONCORRENZA
1. Cass. civ., sez. I, 10 gennaio 2008 n. 355 — Pres. PROTO — Rel. SCHIRÒ —
P.M. CARESTIA (Conf.) — Consorzio per la tutela del formaggio Grana Pa-
dano c. Valgrana SpA.
IV. - Massimario 579
Le attività svolte da soggetti privati, quali sono il Consorzio per la tutela del
formaggio “Grana Padano” e la società di Certificazione della qualità alimentare, per
le certificazioni di conformità del prodotto e per i controlli volti a prevenire abusi ri-
spetto alle prescrizioni del regolamento CE n. 2081 del 1992, in quanto rientranti nei
compiti essenziali dello Stato in materia di alimentazione e, quindi, nell’ambito dei
servizi economici di carattere generale, sono riconducibili all’esercizio privato di
pubbliche funzioni e cioè ad attività di diritto pubblico, per le quali si è fuori dal-
l’ambito di applicazione della normativa antitrust, la quale presuppone, ai sensi del-
l’art. 8 primo comma della legge n. 287 del 1990, che l’abuso di posizione dominante
o le intese restrittive della concorrenza avvengano nello svolgimento dell’attività di
impresa. Tuttavia, poiché, secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia, la no-
zione di impresa abbraccia qualsiasi entità che eserciti un’attività economica consi-
stente nell’offerta di beni o servizi sul mercato, indipendentemente dallo statuto giu-
ridico e dalle modalità di finanziamento, l’esenzione prevista dal secondo comma del-
l’art. 8 per le imprese che gestiscono servizi di interesse economico generale, opera li-
mitatamente “a tutto quanto strettamente connesso all’adempimento degli specifici
compiti loro affidati”. Pertanto, qualora le summenzionate attività svolte da soggetti
privati, pur se autoritative, deviino dallo scopo istituzionale per cui quelle pubbliche
funzioni sono state conferite, viene meno il nesso funzionale con il carattere non eco-
nomico dell’attività posta in essere, la quale rientra a pieno titolo nell’ambito dell’at-
tività di impresa, con conseguente applicazione della disciplina a tutela della concor-
renza di cui alla legge n. 287 del 1990. (Nella fattispecie, la S.C. ha cassato la sen-
tenza impugnata per avere omesso di considerare che le determinazioni assunte dal
Consorzio sopra citato attraverso apposite “linee guida”, ritenute da un produttore di
formaggio restrittive alla libertà di concorrenza in quanto limitative alla propria ca-
pacità produttiva, introducevano arbitrariamente standard di qualità non previsti
dal regolamento comunitario citato nonché il contingentamento della produzione che
esulava dalle proprie funzioni di vigilanza e, pertanto, non potevano essere conside-
rate come espressione dell’attività svolta “iure imperii”, ma come attività economica
rientrante nella previsione degli art. 2 e 3 della legge n. 287 del 1990 e costituente
pratica anticoncorrenziale illecita).
2. Cass. civ., sez. V, Ord. 8 febbraio 2008 n. 3030 — Pres. ALTIERI — Rel. MA-
RIGLIANO — P.M. SEPE (Diff.) — Amministrazione delle Finanze c. Paint
graphos scarl.
Concorrenza - Aiuti di Stato - Agevolazioni per la cooperazione - Applicabi-
lità alle società cooperative a mutualità prevalente - Conseguenze - Proporzio-
nalità degli aiuti di Stato rispetto ai fini dell’impresa - Abuso del diritto -
580 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II
3. Cass. civ., sez. I, 22 febbraio 2008 n. 4531 — Pres. PLENTEDA — Rel. NAPPI
— P.M. VELARDI (Conf.) — Tiranno c. Ramondo Giovanni s.r.l.
Concorrenza sleale - Confusione circa la provenienza dei prodotti - Accerta-
mento in concreto - Censurabilità in cassazione - Esclusione.
4. Cass. civ., sez. I, 29 febbraio 2008 n. 5437 — Pres. PLENTEDA — Rel. NAPPI
— P.M. VELARDI (Conf.) — Mega Bloks inc. c. Lego System A/S e Lego s.p.a.
Concorrenza sleale - Elementi modulari idonei alla connessione con quelli di
IV. - Massimario 581
5. (continua)
Concorrenza sleale - Elementi modulari compatibili con prodotti commerciati
da impresa concorrente - Interconnettività - Forma necessaria - Confondibi-
lità sulla provenienza - Esclusione.
6. (continua)
Concorrenza sleale - Fattispecie prevista nell’art. 2598 cod. civ. - Autonomia
della “causa petendi” - Conseguenze - Esclusione da parte del giudice del me-
rito della violazione ex art. 2598 cod. civ. n. 1 - Accoglimento relativo all’art.
2598 n. 3 cod. civ. - Ricorso per cassazione della parte soccombente - Conte-
stazione del rigetto riguardante la violazione ex art. 2598 cod. civ. - Ricorso
incidentale - Necessità.
In tema di concorrenza sleale, ognuna delle ipotesi previste dall’art. 2598 cod.
civ. individua un’autonoma “causa petendi” fondata su accertamenti di fatto speci-
fici ed alternativi. Pertanto, quando il giudice di secondo grado abbia escluso la vio-
lazione dell’art. 2598 n. 1 cod. civ., non ravvisando l’esistenza di comportamenti ido-
nei a trarre in inganno sulla provenienza e sull’identità dei prodotti, ma abbia fon-
dato l’accoglimento della domanda sull’accertamento della violazione della correttezza
professionale secondo il parametro stabilito nell’art. 2598 cod. civ. n. 3, deve essere
582 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II
proposto ricorso incidentale per contestare l’accertamento negativo relativo alla fatti-
specie di cui all’art. 2598 n. 1 cod. civ., ed impedire la formazione del giudicato sul
rigetto di tale specifica domanda.
(Pubblicata in questa Rivista, 2008, II, p. 151 ss., con commento di S. PE-
RON, Presupposti soggettivi della concorrenza sleale: brevi note).
7. Cass. civ., sez. I, 7 marzo 2008 n. 6194 — Pres. DE MUSIS — Rel. NAPPI —
P.M. PRATIS (Conf.) — Bonfiglioli Riduttori s.p.a. c. Motovario s.p.a.
Concorrenza sleale - Storno di dipendenti - Sussunzione nella fattispecie di cui
all’art. 2598 n. 3 c.c. - Condizioni.
8. Cass. civ., sez. I, Ord. 9 aprile 2008 n. 9167 — Pres. PROTO — Rel. PETITTI
— P.M. FUZIO (Diff.) — Taddia srl c. Leon Infortunistica sas.
Concorrenza sleale - Azione per la repressione della concorrenza - Risarci-
mento del danno - Interferenza con la tutela della proprietà industriale ed in-
tellettuale - Nozione - Rinvio alla connessione e all’accessorietà delle cause -
Necessità - Esclusione - Limiti - Conseguenze.
9. Cass. civ., sez. I, 16 aprile 2008 n. 10062 — Pres. PROTO — Rel. PANEBIANCO
— P.M. (Conf.) — Bazar snc di Pedini e Mezzanotti c. Pedini.
Concorrenza - Limiti legali - Divieto di concorrenza ex art. 2557 I co. c.c. -
IV. - Massimario 583
10. Cass. civ., sez. I, 21 maggio 2008 n. 13051 — Pres. PROTO — Rel. SALMÈ —
P.M. APICE (Conf.) — Banca Popolare di Milano scarl c. Altroconsumo, Cit-
tadinanzattiva, Associazione bancaria italiana ed a.
Concorrenza - Posizione dominante collettiva - Norme bancarie uniformi -
Elaborazione, diffusione e positiva valutazione di condizioni generali di con-
tratto da parte di un’associazione di categoria delle banche - Assenza di abuso
- Autorevolezza e rappresentatività dell’associazione - Conseguenze.
11. Cass. civ., sez. I, 21 maggio 2008 n. 13067 — Pres. CARNEVALE — Rel. RAGO-
NESI — P.M. GOLIA (Conf.) — Scifoni Renata di Scifoni Carlo e C. sas c. Sci-
foni Fratelli organizzazione internazionale per le onoranze funebri di Scifoni
Patrizia sas.
Concorrenza sleale - Azione inibitoria della pubblicità ex art. 2599 cod. civ. -
Pronuncia inibitoria - Oggetto di giudicato - Nuova azione di concorrenza
sleale - Domanda di inibitoria all’utilizzo del medesimo nome nella denomi-
nazione sociale - Ammissibilità - Fondamento - Condizioni - Conseguenze - Fat-
tispecie.
zione diretta nelle forme dell’esecuzione forzata, può costituire oggetto di giudicato,
consentendo di “acquisire” ad un eventuale secondo giudizio di cognizione l’accerta-
mento, compiuto nel primo giudizio, dell’illiceità dell’atto ex art. 2598 cod. civ.; i
principi sui limiti oggettivi di tale giudicato sono rispettati se fra i due comporta-
menti (quello considerato nella pronuncia inibitoria e quello successivamente realiz-
zato) sussista un’identità di genere e specie, all’interno della quale le eventuali va-
riazioni meramente estrinseche e non caratterizzanti non possono fare escludere l’ope-
ratività della pronuncia medesima; ne consegue che se oggetto della seconda azione
non è l’accertamento dell’adempimento del giudicato formatosi sulla prima pronun-
cia inibitoria, bensı̀ la verifica di nuovi comportamenti pubblicitari in funzione an-
ticoncorrenziale, la predetta identità non sussiste, né dunque può essere invocato al-
cun giudicato. (Fattispecie decisa con riguardo ad una prima pronuncia che inibiva
ad una società l’uso di una certa denominazione nella pubblicità se non previa ado-
zione di particolari accorgimenti, oggetto di azione ritenuta dalla S.C. diversa ri-
spetto alla successiva azione con cui veniva domandata sia l’inibizione totale all’uti-
lizzo della medesima denominazione altresı̀ nella ragione sociale del concorrente con-
venuto sia l’accertamento dell’usurpazione del marchio).
12. Cass. civ., sez. I, 23 maggio 2008 n. 13424 — Pres. PROTO — Rel. RAGONESI
— P.M. ABBRITTI (Conf.) — Bardazzi c. Facem srl.
Concorrenza sleale - Uso di mezzi non conformi alla correttezza professionale
- Storno di dipendenti - Elementi - Consapevolezza dell’idoneità dell’atto a
danneggiare l’altrui impresa - “Animus nocendi” - Accertamento - Fattispe-
cie.
13. (continua)
Concorrenza sleale - Storno di dipendenti - Presupposti - Particolare qualifi-
cazione ed utilità per l’impresa concorrente - Necessità.
IV. - Massimario 585
14. Cass. civ., sez. I, 4 giugno 2008 n. 14793 — Pres. PROTO — Rel. TAVASSI —
P.M. RUSSO (Diff.) — MO.VE. mobiliare veneta SpA c. Ligabue Catering
SpA.
Concorrenza sleale - Uso di mezzi non conformi alla correttezza professionale
- Presupposti e condizioni - Idoneità al danneggiamento dell’altrui azienda -
Effetto di sviamento di clientela anche solo potenziale - Sufficienza - Fattispe-
cie.
L’art. 2598, n. 3, cod. civ. fissa una nozione di concorrenza sleale più ampia di
quella propria dei due precedenti numeri riferendosi all’uso diretto o indiretto di ogni
altro mezzo contrario ai principi della correttezza professionale; l’idoneità di tale uso
a danneggiare l’altrui azienda, per il suo potenziale effetto di sviamento della clien-
tela, rende irrilevante la confondibilità obiettiva e materiale dei prodotti e delle atti-
vità concorrenti. (Principio enunciato dalla S.C. in riferimento alla condotta di un
imprenditore che, gestendo un bar nelle immediate vicinanze di un esercizio concor-
rente, famoso per l’offerta di ristorazione accompagnata da un servizio di orchestra
all’esterno, aveva esposto un cartello con la scritta “nessun supplemento per la mu-
sica”, cosı̀ da indurre il pubblico a ritenere che egli ponesse gratuitamente a dispo-
sizione della clientela un servizio, fornito in realtà da altri).
15. Cass. civ., sez. I, Ord. 19 giugno 2008 n. 16744 — Pres. ADAMO — Rel. CUL-
TRERA — P.M. MARTONE (Conf.) — Italstudio spa c. Posanzini ed a.
tata dall’attrice: l’assenza di tali elementi impedisce infatti di qualificare tale elenco
come informazione aziendale, tutelata dall’art. 98 del d.lgs. n. 30 cit., rendendo la fat-
tispecie riconducibile alla concorrenza sleale c.d. pura, la quale resta affidata alla
competenza del giudice ordinario, ove, come nella specie, non possa ravvisarsi un’in-
terferenza neppure indiretta con l’esercizio di diritti di proprietà industriale o del di-
ritto d’autore, trattandosi di un documento privo dei caratteri di creatività e novità
propri delle opere dell’ingegno e non emergendo né dall’atto di citazione né dalle di-
fese del convenuto alcun riferimento, neppure in chiave di mera delibazione e nep-
pure incidentale, a diritti titolati dal codice della proprietà industriale.