Sei sulla pagina 1di 191

ANNO LVII - 2008 ISSN 0035-614X

ANNO LVII - 2008 - N. 6


RIVISTA DI DIRITTO INDUSTRIALE

DIRETTA DA

GIUSEPPE SENA - VINCENZO FRANCESCHELLI


FONDATA DA

REMO FRANCESCHELLI

in questo numero:
Giuseppe Sena, Note su disegni e modelli
Carlos Lema Devesa, Le c.d. «tabelle di equivalenza» nel contesto del diritto comunitario sui marchi
d’impresa
Vincenzo Jandoli, Una nuova spinta europea alle cross border litigation? Questa volta si muove il legi-
slatore
Corte di Cassazione Penale della Repubblica, Sez. III, 3 settembre 2007 n. 33768, con nota di Emanuela

RIVISTA DI DIRITTO INDUSTRIALE


Arezzo, Videogiochi e consoles tra diritto d’autore e misure tecnologiche di protezione
Tribunale di Milano, Sez. Spec. in propr ind. ed intell., ord. 24 novembre 2005, Tribunale di Bari, Sez.
Spec. in propr ind. ed intell., 25 giugno 2007, con nota di Antonia Erriquez, osservazioni in merito
all’illiceità di un marchio per contrarietà al buon costume ed alla sussistenza del rischio di associazione
tra segni
Tribunale di Roma, 20 ottobre 2007, con nota di Patrizia Errico, La durata dei certificati complementari
di protezione nazionali: questioni di costituzionalità
Tribunale di Venezia, Sent. 24 gennaio 2008, con nota di Paola A.E. Frassi, Brevi riflessioni sul valore
sostanziale della forma
Corte di Giustizia CE, Sez. I, 10 aprile 2008, C-102/07, con nota Gaia Salomon, L’interesse generale alla
libera disponibilità dei segni nella giurisprudenza comunitaria
Ufficio Europeo dei Brevetti - Enlarged Board Of Appeal, 25 novembre 2008 - Wiscosin Alumni Research
Foundation, con nota di Massimo Scuffi, Il caso Warf e la tutela dell’embrione umano
Massimario delle sentenze della Cassazione in materia di diritto industriale, gennaio-giugno 2008, a cura
di Giorgia Tassoni

GIUFFRÈ EDITORE 6
Pubblicazione bimestrale • Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in a.p. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB (VARESE)
INDICE SOMMARIO

PARTE PRIMA

I. - Articoli - Saggi - Studi

GIUSEPPE SENA, Note su disegni e modelli .................................................... 309


CARLOS LEMA DEVESA, Le c.d. « tabelle di equivalenza » nel contesto del diritto
comunitario sui marchi d’impresa ..................................................... 314
VINCENZO JANDOLI, Una nuova spinta europea alle cross border litigation?
Questa volta si muove il legislatore ..................................................... 341

PARTE SECONDA

I. - Giurisprudenza nazionale

CORTE DI CASSAZIONE PENALE DELLA REPUBBLICA, Sez. III, 3 settembre 2007


n. 33768
Misure tecnologiche di protezione - Videogiochi - Programmi per
elaboratore elettronico - Playstation Sony - Art. 171-bis, comma 1,
l. n. 633/41 - Art. 171-ter, lett. f-bis) l. n. 633/41.
Con nota di EMANUELA AREZZO, Videogiochi e consoles tra diritto d’au-
tore e misure tecnologiche di protezione .............................................. 449
I. - TRIBUNALE DI MILANO, Sez. Spec. in propr ind. ed intell., ord. 24 novem-
bre 2005
Marchi - Illiceità del marchio per contrarietà al buon costume - Ca-
pacità distintiva - Elemento concettuale - Rischio di confusione -
Insussistenza.
II. - TRIBUNALE DI BARI, Sez. Spec. in propr ind. ed intell., ord. 25 giugno
2007
Marchi - Elemento grafico - Capacità distintiva - Sussistenza - Ele-
mento concettuale.
Illiceità del marchio per contrarietà al buon costume - Insussistenza
Marchio forte - Tutela - Rischio di confusione e/o di associazione tra
segni - Marchi “in serie”- Sussistenza.
II

Con nota di ANTONIA ERRIQUEZ, Osservazioni in merito all’illiceità di


un marchio per contrarietà al buon costume ed alla sussistenza del ri-
schio di associazione tra segni ........................................................... 470
TRIBUNALE DI ROMA, 20 ottobre 2007
Certificato complementare di protezione - Provvedimento di rical-
colo della durata del CCP - Regolamento 1768/92 - Legittimità co-
stituzionale dell’art. 64 CPI.
Con nota di PATRIZIA ERRICO, La durata dei certificati complementari
di protezione nazionali: questioni di costituzionalità .......................... 495
TRIBUNALE DI VENEZIA, Sent. 24 gennaio 2008
Marchio di forma - Valore sostanziale del prodotto - Nozione - Li-
miti di ammissibilità della registrazione.
Con nota di PAOLA A.E. FRASSI, Brevi riflessioni sul valore sostanziale
della forma ........................................................................................ 513

II. - Giurisprudenza comunitaria e dell’Ufficio europeo dei brevetti

CORTE DI GIUSTIZIA CE, Sez. I, 10 aprile 2008, C-102/07


Marchio - Art. 5, n. 1, lett. b) della Direttiva n. 89/104/CEE - Am-
bito di tutela - Rischio di confusione - Imperativo di disponibilità.
Marchio - Art. 5, n. 2 della Direttiva n. 89/104/CEE - Marchio che
gode di rinomanza - Ambito di tutela - Imperativo di disponibilità.
Marchio - Art. 6, n. 1, lett. b) della Direttiva n. 89/104/CEE - Limi-
tazioni ai diritti del titolare - Imperativo di disponibilità.
Con nota di GAIA SALOM, L’interesse generale alla libera disponibilità
dei segni nella giurisprudenza comunitaria ........................................ 527
UFFICIO EUROPEO DEI BREVETTI - ENLARGED BOARD OF APPEAL, 25 novembre
2008 - Wiscosin Alumni Research Foundation
Brevetto europeo - Interpretazione - Liceità dell’invenzione - Diret-
tiva CE sulla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche -
Rapporti tra le camere di ricorso dell’ufficio europeo dei brevetti e
la Corte di Giustizia - Uso di cellule staminali derivate dall’em-
brione umano.
Con nota di MASSIMO SCUFFI, Il caso Warf e la tutela dell’embrione
umano ............................................................................................... 544

IV. - Massimario delle sentenze della Cassazione in materia di diritto industriale

Massimario delle sentenze della Cassazione in materia di diritto indu-


striale, gennaio-giugno 2008, a cura di GIORGIA TASSONI ................... 566
I. - ARTICOLI - SAGGI - STUDI

GIUSEPPE SENA

NOTE SU DISEGNI E MODELLI

Requisiti per una valida registrazione del disegno o modello,


tanto ai sensi degli artt. 31.1, 32, 33.1, 34.1 c.p.i., quanto ai sensi
degli artt. 4, 5, 6, 7.1 reg. 6/02/CE, sono la novità ed il carattere
individuale; novità e carattere individuale esclusi dalla predivul-
gazione del modello, da chiunque compiuta.
Incidentalmente si può osservare che l’art. 32 c.p.i. e l’art. 5
del regolamento escludono, con identica formulazione, la novità
nel caso della predivulgazione di un disegno o modello « identico »,
cioè di un disegno o modello le cui caratteristiche differiscano sol-
tanto per « dettagli irrilevanti ».
Questa definizione del requisito della novità non è tuttavia
coordinata con le norme di cui agli artt. 33 c.p.i. e 6 del regola-
mento relative al carattere individuale, nonché con le norme di cui
agli artt. 41.3 c.p.i. e 10 del regolamento che delimitano l’esten-
sione della protezione, che si riferiscono all’« impressione gene-
rale ».
Tornando al problema della predivulgazione, si deve imme-
diatamente aggiungere che gli artt. 34.3 c.p.i. e 7.2 reg. 6/02/CE
prevedono un c.d. « periodo di grazia » per il quale la predivulga-
zione compiuta dall’autore, o dal suo avente causa, oppure da
terzi in virtù di informazioni fornite o di atti compiuti dall’autore
o dal suo avente causa, nei dodici mesi precedenti la presentazione
della domanda di registrazione, non costituisce divulgazione, ren-
dendo cosı̀ possibile una valida registrazione.
Il primo punto da sottolineare è che tale c.d. « periodo di
grazia » non è equiparabile ad un termine di priorità, nel senso che
il diritto di esclusiva attribuito dalla registrazione non retroagisce
al momento della predivulgazione posta in essere dall’autore o da
suoi aventi causa entro l’anno precedente il deposito della do-
manda.
In via di principio, quindi, un terzo che in questo periodo
Diritto Industriale - 2008
310 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte I

dovesse realizzare e divulgare un identico modello o comunque un


modello interferente con quello precedentemente realizzato e di-
vulgato dal primo autore, non violerebbe alcun diritto di quest’ul-
timo; ed in più determinerebbe una divulgazione di tale primo
modello, cosı̀ da privarlo dei requisiti per una valida registrazione.
Questa prima conclusione non è tuttavia completa.
Si debbono considerare gli artt. 34.4 c.p.i. e 7.3 reg. 6/02/CE
secondo i quali non rileverebbe neppure la divulgazione del terzo
risultante da un « abuso commesso nei confronti dell’autore o del
suo avente causa »: ci si deve quindi chiedere quando la divulga-
zione posta in essere da un terzo possa qualificarsi come « abu-
siva » e quindi non rilevante ai fini della divulgazione del modello;
sembra infatti doversi escludere che qualsiasi predivulgazione co-
stituisca un abuso commesso nei confronti dell’autore.
A questo punto è necessario aprire una parentesi.
Il considerando 20 del reg. 6/02/CE è cosı̀ formulato: « Oc-
corre altresı̀ permettere all’autore o al suo avente causa di sotto-
porre alla prova del mercato i prodotti in cui il disegno o il mo-
dello è attuato prima di decidere se chiedere o no la protezione del
disegno o modello comunitario registrato. A questo fine risulta
necessario disporre che la divulgazione del disegno o modello fatta
dall’autore o dal suo avente causa, o qualsiasi divulgazione non au-
torizzata effettuata nei dodici mesi precedenti la data di deposito
della domanda di disegno o modello comunitario registrato, non
pregiudichi la valutazione delle caratteristiche di novità e d’indi-
vidualità del disegno o modello in questione ».
Interpretando letteralmente tale testo, parrebbe che qualsiasi
divulgazione non autorizzata, effettuata entro l’anno da un terzo,
non rilevi nel giudizio di novità e di individualità del disegno o
modello.
Tuttavia, alla divulgazione non autorizzata non corrisponde
certamente il concetto di abuso di cui all’art. 7.3 del regolamento.
Del resto, tanto il testo francese, quanto il testo inglese del-
l’anzidetto considerando 20, si riferiscono alla « divulgation abu-
sive » o ad « abusive disclosures », utilizzando quindi la formula ri-
presa poi dall’art. 7.3 del reg. 6/02/CE.
Anche il nostro art. 34.4 c.p.i. usa la parola « abuso ».
Chiusa questa parentesi, resta dunque da chiedersi quando vi
sia abuso da parte del terzo.
L’interpretazione più rigorosa induce a ritenere che di abuso
debba parlarsi soltanto nell’ipotesi in cui un terzo divulghi il mo-
dello del quale sia venuto a conoscenza in seguito ad un rapporto
fiduciario con l’autore; e ciò in analogia con quanto dispone l’art.
I. - Articoli - Saggi - Studi 311

47.1 c.p.i. con riferimento alla non opponibilità della divulgazione


dell’invenzione derivante da un « abuso evidente ».
Resterebbe cosı̀ esclusa da tale deroga la divulgazione da
parte di un terzo che abbia, non solo concepito identico o analogo
disegno o modello in modo indipendente, ma anche l’ipotesi in cui
la divulgazione possa farsi risalire alla conoscenza ed alla copia,
da parte del terzo, del primo disegno o modello.
E
v necessario tuttavia considerare la questione anche da un
diverso punto di vista.
Come è noto, il regolamento comunitario prevede una forma
di protezione per i modelli e disegni non registrati, cioè per il c.d.
unregistered design (1).
Si tratta di una esclusiva triennale, che decorre dalla crea-
zione e dalla divulgazione da parte dell’autore del modello o dise-
gno.
E
v evidente come si determini una sovrapposizione fra il c.d.
« anno di grazia », di cui si è detto sopra, ed il primo anno del
triennio di protezione assicurato ai modelli e disegni indipenden-
temente dalla registrazione.
Prima di procedere ad un tentativo di coordinamento fra gli
effetti giuridici di queste due fattispecie, problema che sembra sia
totalmente sfuggito al legislatore comunitario, è necessario defi-
nire il contenuto del diritto riconosciuto all’autore sulla base della
realizzazione e divulgazione del modello o disegno non registrato
(unregistered design).
Deve ricordarsi che l’art. 19.2 del regolamento stabilisce che
la protezione cosı̀ attribuita riguarda il caso in cui l’utilizzazione
contestata deriva dalla copiatura del disegno o modello protetto,
ancorché non registrato, e che l’utilizzazione contestata non è con-
siderata derivante dalla copiatura del disegno o modello preceden-
temente divulgato dal primo autore, se risulta realizzata indipen-
dentemente da chi si può ragionevolmente pensare che non cono-
scesse il disegno o modello precedentemente divulgato dal primo.
Nel considerando 21 si legge che « la protezione non può
estendersi a prodotti a cui sono applicati disegni o modelli che
sono il risultato di un disegno o modello concepito in modo indi-
pendente da un secondo disegnatore ».
I c.d. « incontri fortuiti » non sono insomma compresi nel di-
ritto di esclusiva conferito dal disegno o modello non registrato, a

(1) Sull’argomento, recentemente, cfr. GIUDICI, Il design non registrato, in que-


sta Rivista, 2007, I, p. 199.
312 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte I

differenza di quanto avviene nel caso dei modelli e disegni regi-


strati (2).
In altre parole, nel caso di unregistered design, l’esclusiva ri-
guarda l’ipotesi di conoscenza e copia del modello altrui, lasciando
impregiudicato il caso della creazione indipendente realizzata dal
terzo.
Cosı̀ chiarito il contenuto del diritto attribuito all’unregistered
design, viene spontaneo chiedersi se vi sia una sostanziale identità
fra l’atto del terzo che costituisce violazione di quella esclusiva e
l’atto del terzo, intervenuto nel c.d. « periodo di grazia », che com-
porta una divulgazione non opponibile, in quanto abusiva.
Si tratta di una stessa situazione di fatto, cioè della realizza-
zione e divulgazione del modello da parte di un terzo entro il
primo anno successivo alla realizzazione e divulgazione del mo-
dello da parte del primo autore: l’anno che costituisce il c.d. « pe-
riodo di grazia » coincide o si sovrappone, per cosı̀ dire, al primo
anno in cui viene protetto il disegno o modello non registrato.
Senonché, la fattispecie che esclude la predivulgazione del
modello registrato (limitata al caso di abuso) è diversa dalla fatti-
specie che costituisce violazione del diritto riconosciuto al primo
autore in assenza di registrazione (che comprende anche la copia-
tura del disegno e modello protetto).
Non sarebbe quindi, a rigore, possibile identificare il compor-
tamento abusivo del terzo, che non determina predivulgazione del
modello (ex art. 7.3 reg. 6/02/CE), con il comportamento che co-
stituisce (ex artt. 11.1 e 19.2 del regolamento) violazione dell’un-
registered design.
Da un punto di vista astrattamente razionale o, se si preferi-
sce, sistematico, sarebbe tuttavia ragionevole ritenere che il man-
cato effetto predivulgativo della realizzazione e divulgazione del
modello da parte del terzo nel c.d. « periodo di grazia », derivi
proprio dalla illiceità di tale realizzazione in funzione della nor-
mativa dell’unregistered design.
Per giustificare tale risultato è però necessario forzare l’inter-
pretazione dell’art. 7.3 del regolamento (e conseguentemente del-
l’art. 34.4 c.p.i.), qualificando come « abuso commesso nei con-
fronti dell’autore » anche la mera copiatura del disegno o modello.
La conclusione di questo faticoso percorso può dunque essere
cosı̀ sintetizzata: la produzione e la commercializzazione da parte
di un soggetto terzo di un modello o disegno identico o comunque
interferente con quello precedentemente realizzato e divulgato dal

(2) GIUDICI, op. cit., p. 204.


I. - Articoli - Saggi - Studi 313

primo autore (ma non registrato), non costituisce di per sé viola-
zione dell’unregistered design, a meno che si dimostri che il terzo
era a conoscenza del primo modello e lo abbia sostanzialmente co-
piato; la realizzazione e divulgazione, da parte di un soggetto
terzo, di un modello o disegno identico o comunque interferente
con quello precedentemente realizzato e divulgato dal primo au-
tore (e non registrato) lo priva dei requisiti della novità e del ca-
rattere individuale e ne impedisce quindi la valida registrazione,
anche se la divulgazione da parte del terzo è intervenuta nel c.d.
« periodo di grazia », a meno che si dimostri che il terzo era a co-
noscenza della realizzazione del primo autore e la abbia sostan-
zialmente copiata, donde il carattere abusivo della sua attività.
E
v questa una soluzione unitaria, nel senso che la realizza-
zione e divulgazione da parte di un terzo, nel « periodo di grazia »,
non rileva quando, e solo quando, tale realizzazione o divulgazione
costituisce violazione della esclusiva attribuita dal regolamento
CE al primo autore sul disegno e modello non registrato (unregi-
stered design).
Come si è detto, la protezione accordata al disegno o modello
divulgato, ma non registrato, riguarda le realizzazioni dei terzi
derivanti dalla conoscenza e riproduzione o imitazione del mo-
dello o disegno originale, ma non concerne i c.d. « incontri for-
tuiti », cioè le creazioni concepite da terzi in modo indipendente;
analogamente, il « periodo di grazia » copre la predivulgazione dei
terzi derivante dalla conoscenza e riproduzione o imitazione del
modello o disegno originale, ma non si applica alle creazioni con-
cepite in modo indipendente, che determinano cosı̀ la predivulga-
zione.
CARLOS LEMA DEVESA (*)

LE COSIDDETTE « TABELLE DI EQUIVALENZA »


NEL CONTESTO DEL DIRITTO COMUNITARIO
SUI MARCHI D’IMPRESA

SOMMARIO: 1. Introduzione. — 2. Le tabelle di equivalenza nel contesto dell’art. 5.1.a)


della Direttiva Comunitaria sui marchi d’impresa. — 2.1. L’art. 5.1.a) della Di-
rettiva Comunitaria sui marchi e la protezione assoluta del marchio nell’ipotesi
di doppia identità. — 2.2. La giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Co-
munità Europee sull’art. 5.1.a) della Direttiva Comunitaria sui marchi d’im-
presa. — 2.2.1. I casi « Opel » e « Céline ». — 2.2.2. Il pregiudizio delle funzioni
del marchio come presupposto per l’applicazione sull’art. 5.1.a) della Direttiva
sui marchi d’impresa. — 2.3. Le tabelle di equivalenza nel contesto dell’art.
5.1.a) della Direttiva Comunitaria sui marchi d’impresa. — 3. Le tabelle di
equivalenza nell’ambito dell’art. 5.2 della Direttiva comunitaria sui marchi
d’impresa. — 3.1. La protezione di un marchio notorio per mezzo dell’art. 5.2
della Direttiva Comunitaria sui marchi. — 3.1.1. Antecedenti. — 3.2. Condi-
zioni per l’applicazione dell’art. 5.2 della Direttiva Comunitaria sui marchi
d’impresa. — 3.2.1. Il concetto di marchio notorio. — 3.2.2. Ambito di appli-
cazione dell’art. 5.2 della Direttiva. — 3.2.3. Circostanze da cui scaturisce la
protezione rinforzata del marchio notorio. — 3.3. Le tabelle di equivalenza nel
contesto dell’art. 5.2 della Direttiva Comunitaria sui marchi d’impresa. —
4. Inapplicabilità del limite al diritto di marchio previsto nell’art. 6.1.b) della
Direttiva Comunitaria sui marchi d’impresa. — 4.1. Il limite relativo all’uso di
indicazioni descrittive. — 4.2. Inapplicabilità del limite riguardante l’uso di in-
dicazioni descrittive nelle ipotesi delle tabelle di equivalenza. — 4.2.1. Introdu-
zione. — 4.2.2. Inesistenza di indicazioni descrittive. — 4.2.3. Incompatibilità
con le pratiche sleali in materia industriale e commerciale.

1. Introduzione.

La giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità


Europee sull’art. 5.1.a) della Direttiva Comunitaria sui marchi
d’impresa.

Nel settore della profumeria, è abbastanza comune che dei


fabbricanti poco conosciuti dal pubblico realizzino profumi che

(*) Professore di Derecho Mercantil, Universidad Complutense de Madrid.


Per la traduzione del testo si ringrazia la Dott. Arianna Lucardi.

Diritto Industriale - 2008


I. - Articoli - Saggi - Studi 315

evocano la fragranza di altri di grande fama e prestigio. Per com-


mercializzare e promuovere questi profumi di scarsa penetrazione
nel mercato, questi fabbricanti ricorrono in talune occasioni alle
denominate « tabelle di equivalenza », per mezzo delle quali si equi-
para il profumo poco conosciuto tra il pubblico dei consumatori
con il profumo più rinomato e la cui fragranza viene evocata (1).
Tradizionalmente, queste cosidette « tabelle di equivalenza »
sono state analizzate nell’ambito del Diritto contro la Concor-
renza Sleale. In questo contesto, sembra che esista un consenso
generalizzato nell’affermare che questo tipo di tabelle costitui-
scono — nel Diritto spagnolo — un atto di sfruttamento della
fama altrui, considerato come atto di concorrenza sleale dall’art.
12 della Legge sulla Concorrenza Sleale (2).
Un buon esempio, a questo riguardo, si ritrova nella sentenza
del Tribunale provinciale di Toledo dell’8 gennaio 2002, nella
quale si afferma che costituisce « un atto di sleale concorrenza —
per sfruttamento immotivato della rinomanza altrui — l’uso di mar-
chi di riconosciuto prestigio per promuovere la commercializzazione
dei propri prodotti, presentando ai potenziali compratori una lista di
marchi rinomati di profumi la cui fragranza è stata imitata dalla
parte convenuta per mezzo dell’assegnazione di un numero di equiva-
lenza » (3).
Nello stesso senso si erano pronunciate lo stesso Tribunale
Provinciale di Toledo nella sentenza del 28 febbraio 2001 (4) ed il
Tribunale Provinciale di Malaga nella sua sentenza del 3 giugno
1997 (5). Del resto, risultano di particolare interesse le argomenta-
zioni che ritroviamo nella prima di queste due sentenze, dove il
Tribunale Provinciale di Toledo ha dichiarato la slealtà di talune
tabelle di equivalenza, fondandosi sui seguenti argomenti: « nella

(1) In relazione alle tabelle di equivalenza in genere, vedi, GUYET, Concurrence


déloyale par l’emploi de tableaux de référence des marques de parfum. Note de jurispru-
dence, Schw. Mitt., 1985, p. 33 ss.
(2) Ai sensi dell’art. 12 della Legge sulla Concorrenza Sleale, « è considerato
sleale lo sfruttamento immotivato, in beneficio proprio od altrui, dei vantaggi del
prestigio in campo industriale, commerciale o professionale acquisito da terzi nel
mercato. In particolar modo, si reputa sleale l’uso di segni distintivi altrui o denomi-
nazioni di origine falsi, accompagnati dall’indicazione sulla vera provenienza del pro-
dotto o di espressioni tali come modello, sistema, tipo, classe e simili ».
(3) Sentenza del Tribunale Provinciale di Toledo, dell’8 gennaio 2002, 23 ADI
(2002), p. 685 ss.
(4) Sentenza del Tribunale Provinciale di Toledo, del 28 febbraio 2001, AC
2001/418.
(5) Sentenza del Tribunale Provinciale di Malaga, del 3 giugno 1997, AC
1997/2493.
316 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte I

fattispecie, non ci troviamo di fronte ad un caso di confronto di mar-


chi, ma di comportamenti concorrenziali sleali, in concreto lo sfrutta-
mento del prestigio altrui, poiché risulta evidente che il fatto più im-
portante, quando si tratta di captare “collaboratori” o venditori, è
quello di mettere in relazione i propri prodotti con i marchi di presti-
gio tra i quali si trova quello della parte appellante, di tal modo che
il consumatore non compra il profumo per l’interesse che suscita in
lui il marchio della parte convenuta, ma bensı́ perché gli viene offerto
come imitazione di marchi prestigiosi, i quali senza ombra di dubbio,
dispongono di un forte potere di attrazione sul consumatore » (6).
Cosicché non sembrano esserci dubbi rispetto alla qualifica-
zione delle cosidette tabelle di equivalenza — nel Diritto contro la
concorrenza sleale — come atti di concorrenza sleale per lo sfrut-
tamento immotivato della rinomanza altrui. Tuttavia, le cosidette
tabelle di equivalenza sono state anche analizzate di recente nel
contesto del Diritto sui marchi d’impresa. Si tratta di stabilire,
insomma, se l’uso di marchi — normalmente rinomati — nelle
suddette tabelle di equivalenza suppone un’infrazione del diritto
di esclusività sui marchi citati. In questo senso si orienta la re-
cente questione pregiudiziale posta alla Corte di Giustizia delle
Comunità Europee dalla Court of Appeal inglese nell’ambito del li-
tigio tra l’Oréal e Bellure (caso 487/07) (7).

(6) Analogamente si è pronunciata la giurisprudenza italiana fin dal 1993


(Trib. Milano, 2 dicembre 1993, in questa Rivista, 1994, II, 286, con nota di TARCHINI,
Le c.d. tabelle di concordanza) e più recentemente Trib. Torino, 6 maggio 2004, in Giur.
it., 2004, 1892.
(7) Il testo di questo esposto pregiudiziale è stato pubblicato nel DOCE C/8,
del 12 gennaio 2008, ed è il seguente:
1) Qualora un operatore commerciale, in una pubblicità relativa ai propri pro-
dotti o servizi, usi un marchio di cui è titolare un concorrente allo scopo di parago-
narne le caratteristiche (ed in particolare, la fragranza) di prodotti da lui commercia-
lizzati con le caratteristiche (ed in particolare, con la fragranza) dei prodotti commer-
cializzati dal concorrente sotto tale marchio, in modo tale da non creare confusione o
compromettere in altro modo la caratteristica essenziale del marchio come indica-
zione di origine, tale uso può rientrare nell’art. 5, n. 1, della direttiva 89/104?
2) Qualora un operatore commerciale, nell’esercizio di un’attività utilizzi (in
particolare in una lista comparativa) un marchio conosciuto e registrato con il fine di
indicare una caratteristica del suo stesso prodotto (in particolare la sua fragranza) se-
condo modalità che:
a) non causi alcun tipo di rischio di confusione, e b) non incida sulla vendita dei
prodotti in base al marchio conosciuto e registrato; c) non comprometta in alcun
modo la funzione essenziale del marchio come garanzia di origine e non arrechi pre-
giudizio alla notorietà di quel marchio con l’annacquamento della sua immagine o la
diluizione del marchio o in qualsiasi altro modo; e d) svolga un ruolo significativo
nella promozione del prodotto dell’operatore commerciale, rientra quell’uso nell’am-
bito dell’art. 5, n. 1, lett. a), della direttiva 89/104?
I. - Articoli - Saggi - Studi 317

Quindi, anche se in questa questione pregiudiziale si tratta


solamente di un’infrazione potenziale del diritto di esclusività sul
marchio nel contesto dell’art. 5.1.a) della Direttiva comunitaria
sui marchi di impresa, crediamo che un’analisi approfondita delle
tabelle di equivalenza alla luce del Diritto sui Marchi debba ri-
spondere a tre quesiti diversi. In prima istanza, ed in linea con la
pronuncia pregiudiziale richiesta dalla Court of Appeal inglese —
si deve determinare se il riferimento a un marchio altrui nelle ta-
belle di equivalenza costituisce un’infrazione del diritto di esclusi-
vità sul marchio nel contesto di quanto stabilito nell’art. 5.1.a)
della Direttiva Comunitaria. A mio parere, si deve anche ricercare
— come seconda ipotesi — se quel riferimento, nel caso che si ma-
nifesti, possa costituire un’infrazione del diritto di esclusività sul
marchio nel contesto di quanto disposto nell’art. 5.2 della Diret-
tiva comunitaria. E, per ultimo, si dovrà analizzare se il riferi-
mento ad un marchio altrui nel contesto delle tabelle di equiva-
lenza possa eventualmente trovare giustificazione nell’art. 6.1.b)
della Direttiva. Saranno queste le tre questioni che verranno ana-
lizzate nei seguenti capitoli.

3) Nell’ambito dell’art. 3-bis, lett. g), della direttiva sulla pubblicità ingan-
nevole (84/450), come modificata dalla direttiva sulla pubblicità comparativa (97/
55), qual’è il significato di “tragga indebitamente vantaggio”, ed in particolare,
qualora un operatore commerciale in un elenco comparativo compari il proprio
prodotto con un prodotto contrassegnato dal marchio conosciuto, tale soggetto
trae in tal modo indebitamente vantaggio dalla notorietà connessa al marchio co-
nosciuto?
4) Nell’ambito dell’art. 3-bis, lett. h), della citata direttiva qual è il signifi-
cato di “presentare un bene o servizio come imitazione o contraffazione” ed in
particolare, tale espressione si applica anche nell’ipotesi in cui, senza che venga in
alcun modo creata confusione o inganno, una parte affermi sinceramente che il suo
prodotto ha la principale caratteristica (fragranza) identica a quella di un prodotto
che gode di un’alta notorietà, tutelato da un marchio di impresa?
5) Qualora un operatore commerciale utilizzi un segno analogo al marchio
registrato che gode di notorietà, e tra tale segno e il marchio non sussista una so-
miglianza tale da dare adito a confusione, in modo che: a) la funzione essenziale
del marchio registrato consistente nel fornire una garanzia di origine non sia pre-
giudicata o posta a repentaglio; b) il marchio o la sua notorietà non vengano an-
nacquati o smussati, nè esista alcun rischio di una di tali ipotesi; c) le vendite del
proprietario del marchio non siano pregiudicate; e d) il proprietario del marchio
non sia privato di ciascun beneficio risultante dalla promozione, del mantenimento
o miglioramento del suo marchio d’impresa; e) ma l’operatore commerciale ricavi
un vantaggio commerciale dall’uso del suo segno a motivo della sua somiglianza
con il marchio registrato, tale utilizzo equivale a trarre “indebitamente vantaggio”
dalla notorietà del marchio registrato ai sensi dell’art. 5, n. 2, della direttiva sui
marchi?
318 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte I

2. Le tabelle di equivalenza nel contesto dell’art. 5.1.a) della Diret-


tiva Comunitaria sui marchi d’impresa.

2.1. L’art. 5.1.a) della Direttiva Comunitaria sui marchi e la


protezione assoluta del marchio nelle ipotesi di doppia
identità.

Ai sensi dell’art. 5.1 della Direttiva comunitaria, « Il marchio


di impresa registrato conferisce al titolare un diritto esclusivo. II ti-
tolare ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare
nel commercio: a) un segno identico al marchio di impresa per pro-
dotti o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato; b) un
segno che, a motivo dell’identità o della somiglianza di detto segno col
marchio di impresa e dell’identità o somiglianza dei prodotti o servizi
contraddistinti dal marchio di impresa e dal segno, possa dare adito
a un rischio di confusione per il pubblico, comportante anche un ri-
schio di associazione tra il segno e il marchio di impresa » (8).
Come si può constatare, questo precetto stabilisce una distin-
zione chiara e nitida tra le ipotesi in cui si usa un segno identico
per prodotti identici a quelli per cui il marchio è stato registrato,
e quegli altri casi in cui si usa un segno identico o simile per pro-
dotti identici o simili. Mentre nella ipotesi di doppia identità, la
protezione del marchio registrato è assoluta (9) (in modo tale che
l’esercizio del diritto di esclusività non sia subordinato alla prova
dell’esistenza del rischio di confusione), nel secondo dei casi il ti-
tolare del marchio che voglia esercitare il suo ius prohibendi di
fronte ad un uso di un segno identico o simile per prodotti iden-
tici o simili dovrà dimostrare l’esistenza di un rischio di confu-
sione tra il marchio registrato ed il segno usato da un terzo. La
stessa Direttiva comunitaria sui marchi conferma questa chiara
distinzione, quando afferma, nel Considerando 10, che « la tutela
accordata dal marchio d’impresa registrato e che mira in partico-
lare a garantire la funzione d’origine del marchio di impresa, è as-
soluta nel caso di identità tra il marchio di impresa e il segno e tra
i prodotti o servizi; che la tutela è accordata anche in caso di so-

(8) In tal senso, vedi Art. 34.1 della Legge spagnola sui marchi del 2001.
(9) In tal senso si pronuncia la nostra dottrina più autorevole. Cfr., ad es.,
FERNANDEZ NOVOA, Tratado sobre Derecho de Marcas, 2a ed., Marcial Pons, Madrid,
2004, p. 242 ss.; BERCOVITZ RODRIGUEZ CANO, Introducción a las marcas y otros signos
distintivos en el tráfico económico, Aranzadi, Pamplona, 2002, p. 88 ss.; GALAN CORONA,
Comentario al artı́culo 34. Derechos conferidos por la marca, in BERCOVITZ RODRIGUEZ
CANO, Comentarios a la Ley de Marcas, Aranzadi, Pamplona, 2003, p. 503 ss.
I. - Articoli - Saggi - Studi 319

miglianza tra il marchio di impresa e il segno e tra i prodotti o


servizi » (10).

2.2. La giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità


Europee sull’art. 5.1.a) della Direttiva Comunitaria sui
marchi d’impresa.

2.2.1. I casi « Opel » e « Céline ». — Nonostante l’art. 5.1.a)


della Direttiva, come è stato già esposto, sembra accordare al
marchio d’impresa una protezione assoluta in quelle ipotesi in cui
un terzo usi un segno identico per prodotti altrettanto identici, la
Corte di Giustizia delle Comunità Europee ha mitigato la portata
di quella disposizione. Infatti, questa Corte ha precisato che —
persino nell’ambito dell’art. 5.1.a) della Direttiva — lo ius prohi-
bendi connesso al diritto di esclusiva sul marchio d’impresa può
essere messo in atto solo quando l’uso da parte di un terzo di un
segno identico per prodotti ugualmente identici comprometta o
ponga a repentaglio alcune tra le funzioni che vengono attribuite
al marchio.
Questa dottrina venne stabilita per la prima volta dalla
Corte di Giustizia delle Comunità Europee nella sua sentenza del
25 gennaio 2007 (« Opel ») (11). Nella medesima, troviamo la se-
guente dottrina rispetto all’interpretazione dell’art. 5.1.a) della
Direttiva: « Occorre ricordare che, secondo la giurisprudenza della
Corte, il diritto di esclusività previsto dall’art. 5, n. 1, della Diret-
tiva è stato concesso al fine di consentire al titolare del marchio di
tutelare i propri interessi specifici, in qualità appunto di titolare
di tale marchio, ossia per garantire che il marchio possa adempiere
le funzioni sue proprie, e che dunque l’esercizio di tale diritto
debba essere riservato ai casi in cui l’uso del segno da parte di un
terzo pregiudichi o possa pregiudicare le funzioni del marchio e, in

(10) Nello stesso orientamento di fornire al marchio una protezione di carat-


tere assoluto nelle ipotesi di doppia identità, l’art. 16 ADPIC stabilisce quanto segue:
« Il titolare di un marchio di fabbrica o di commercio registrato, potrà usufruire del
diritto esclusivo di impedire che qualsiasi terzo, senza il suo consenso, usi nel corso di
operazioni commerciali segni identici o simili per contraddistinguere beni o servizi che
siano identici o simili a quelli per cui il marchio è stato registrato, qualora l’uso sud-
detto rechi confusione. Nel caso che venga usato un segno identico per contraddistin-
guere beni o servizi identici, si dovrà presumere che esiste possibilità di confusione ».
Sulle differenze tra l’art. 16 ADPIC e l’art. 5.1.a) della Direttiva comunitaria, cfr.
FERNANDEZ NOVOA, op. cit., p. 243 ss.
(11) Sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, del 25 gennaio
2007, Opel, disponibile in www.curia.europa.eu.
320 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte I

particolare, la sua funzione essenziale di garantire ai consumatori


la provenienza del prodotto (sentenze Arsenal Football Club, già
citata, punto 51, e 16 novembre 2004, causa C-245/02, Anheuser-
Busch, Racc. p. I-10989, punto 59). Pertanto, ai sensi dell’art. 5,
n. 1, lett. a), della Direttiva, l’apposizione su modellini di veicoli,
da parte di un terzo, di un segno identico ad un marchio regi-
strato per giocattoli può essere vietata, soltanto qualora pregiudi-
chi o possa pregiudicare le funzioni di tale marchio ».
Successivamente, la dottrina creata dalla Corte di Giustizia
nella sua sentenza nella causa Opel fu confermata dalla sentenza
della stessa Corte dell’11 settembre 2007, dettata nella causa Cé-
line ( 12 ). Nella medesima, l’alta Corte Comunitaria affermò
quanto segue: come emerge dalla giurisprudenza della Corte (sen-
tenze Arsenal Football Club, cit.; 16 novembre 2004, causa C-245/
02, Anheuser-Busch, Racc. p. I-10989, e Adam Opel, cit.), il tito-
lare di un marchio registrato può vietare l’uso da parte di un terzo
di un segno identico al suo marchio, conformemente all’art. 5, n.
1, lett. a), della Direttiva, solo in presenza dei seguenti quattro
requisiti: — l’uso deve aver luogo nel commercio; — deve essere
fatto senza il consenso del titolare del marchio; — deve essere
fatto per prodotti o servizi identici a quelli per cui il marchio è
stato registrato e — deve pregiudicare ovvero essere idoneo a pre-
giudicare le funzioni del marchio, e in particolare la sua funzione
essenziale, che consiste nel garantire ai consumatori l’origine dei
prodotti o servizi.
Inoltre, e riferendosi a quest’ultimo presupposto per l’appli-
cazione dell’art. 5.1.a) della Direttiva, la Corte aggiunse altresı̀
che: l’uso, da parte di un terzo che non sia stato autorizzato, di un
segno identico ad un marchio registrato per prodotti o servizi
identici a quelli per cui tale marchio è stato registrato può essere
vietato, conformemente all’art. 5, n. 1, lett. a), della Direttiva,
solo se pregiudica o è idoneo a pregiudicare le funzioni del mar-
chio in questione ed in particolare la sua funzione essenziale, che
è di garantire ai consumatori l’origine dei prodotti o dei servizi.
Ciò si verifica quando il segno è usato dal terzo per i suoi prodotti
o servizi in modo che i consumatori possano interpretarlo nel
senso che esso designa l’origine dei prodotti o dei servizi di cui
trattasi. Infatti, in tal caso, l’uso del suddetto segno può mettere
a rischio la funzione essenziale del marchio, in quanto, affinché il
marchio possa svolgere il suo ruolo di elemento essenziale del si-

(12) Sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, dell’11 settem-
bre 2007, Céline, disponibile in www.curia.europa.eu.
I. - Articoli - Saggi - Studi 321

stema di concorrenza non falsato, che il Trattato CE intende


creare e mantenere, esso deve garantire che tutti i prodotti o ser-
vizi da esso designati sono stati fabbricati o forniti sotto il con-
trollo di un’unica impresa alla quale può essere attribuita la re-
sponsabilità della loro qualità (v., in tal senso, sentenza Arsenal
Football Club, cit., punto 48 e giurisprudenza ivi citata, nonché i
punti 56-59).

2.2.2. Il pregiudizio delle funzioni del marchio come presup-


posto per l’applicazione dell’art. 5.1.a) della Direttiva sui marchi
d’impresa. — Cosicché, la Corte di Giustizia delle Comunità Euro-
pee ha ristretto il carattere apparentemente assoluto della prote-
zione che la Direttiva Comunitaria accordava al marchio d’im-
presa nelle ipotesi di doppia identità, permettendo l’applicazione
dell’art. 5.1.a) (ed il conseguente esercizio dello ius prohibendi da
parte del proprietario del marchio) unicamente nel caso in cui, ol-
tre al verificarsi di quella doppia identità di segni e prodotti, l’uso
da parte di un terzo di un segno identico per prodotti anche loro
identici arrechi un pregiudizio alle funzioni del marchio.
Peraltro, occorre apporre diverse critiche a questa dottrina
della Corte di Giustizia della Comunità Europea. La prima è in-
dubbiamente la sua difficile compatibilità con il significato lette-
rale dell’art. 5.1.a) della Direttiva, che — come lo conferma la Di-
rettiva nei suoi Considerando — pretende di accordare al marchio
una protezione assoluta nelle ipotesi di doppia identità, senza su-
bordinare quella protezione a fattori addizionali di alcun tipo, nè
esigere quindi in forma esplicita un pregiudizio delle funzioni del
marchio per l’esercizio dello ius prohibendi da parte del titolare
dello stesso.
Comunque, indipendentemente dalla difficile compatibilità
della dottrina della Corte di Giustizia della Comunità Europea
con la interpretazione letterale dell’art. 5.1.a) della Direttiva (in-
terpretato in conformità con i Considerando della Direttiva), è an-
cora più grave che la Corte di Giustizia della Comunità Europea,
oltre a porre — come presupposto per l’esercizio dello ius prohi-
bendi — l’effettivo pregiudizio delle funzioni del marchio, alla fine
riconosce al medesimo una sola funzione: quella di indicazione
dell’origine imprenditoriale dei prodotti (13).

(13) Questa lettura restrittiva delle funzioni del marchio d’impresa è partico-
larmente evidente nella sentenza della Corte di Giustizia dell’11 settembre 2007 (Cé-
line), nella quale si dichiara: l’uso, da parte di un terzo che non sia stato autorizzato,
di un segno identico ad un marchio registrato per prodotti o servizi identici a quelli
322 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte I

In effetti, se da un lato si esige (come presupposto per l’eser-


cizio dello ius prohibendi nelle ipotesi di doppia identità) un pre-
giudizio delle funzioni del marchio d’impresa, come conseguenza
dell’uso del medesimo da parte di un terzo e al contempo si so-
stiene che tale pregiudizio deve incidere, in particolare, sulla fun-
zione d’indicazione dell’origine imprenditoriale, oltre a contrad-
dire la presunzione stabilita dall’art. 16 dell’ADPIC (14), si sta
privando di qualsiasi senso e significato la distinzione che indica
l’art. 5.1.a) della Direttiva tra le ipotesi di doppia identità e le
ipotesi di somiglianza dei segni o dei prodotti.
In questo senso, non occorrono troppe argomentazioni per
potere concludere che nelle ipotesi in cui un terzo utilizza un se-
gno identico — connesso a prodotti identici — « in modo che i con-
sumatori possano interpretarlo nel senso che esso designa l’origine dei
prodotti o dei servizi di cui trattasi » (15), esiste, in genere, un rischio
di confusione. Ma se nelle ipotesi di doppia identità, si esige l’esi-
stenza di un rischio di confusione come presupposto per l’eserci-
zio dello ius prohibendi, la nitida distinzione che traccia l’art. 5.1
della Direttiva tra queste ipotesi e i casi di somiglianza tra i segni
e/o i corrispondenti prodotti o servizi non avrebbe più alcun senso.
Di conseguenza, se si desidera mantenere il pregiudizio delle
funzioni del marchio, come presupposto per l’esercizio dello ius
prohibendi — in consonanza con la dottrina della Corte di Giusti-
zia Europea — senza che svanisca il significato della nitida distin-
zione tracciata dall’art. 5.1. della Direttiva tra le ipotesi di doppia
identità e quelle di somiglianza, bisogna ammettere che quel pre-
giudizio possa ledere qualsiasi delle funzioni del marchio d’im-
presa. Cosicché nelle ipotesi di doppia identità, il titolare del mar-
chio potrà esercitare lo ius prohibendi contro il terzo che stia
usando un segno identico per prodotti ugualmente identici, non

per cui tale marchio è stato registrato può essere vietato, conformemente all’art. 5, n.
1, lett. a), della Direttiva, solo se pregiudica od è idoneo a pregiudicare le funzioni del
suddetto marchio ed in particolare la sua funzione essenziale, che è di garantire ai
consumatori l’origine dei prodotti o dei servizi. Ciò si verifica quando il segno è usato
dal terzo per i suoi prodotti o servizi in modo che i consumatori possano interpretarlo
nel senso che esso designa l’origine dei prodotti o dei servizi di cui trattasi.
(14) Su questo punto, occorre ricordare che, secondo la giurisprudenza della
Corte di Giustizia della Comunità Europea, « Come parte dell’accordo ADPIC, la Co-
munità è tenuta ad interpretare la normativa dell’ambito del diritto dei marchi, nei
limiti del possibile, nel contesto del testo e della finalità delle pertinenti disposizioni
dell’accordo ADPIC ». Vedi Corte di Giustizia delle Comunità Europee, sentenza del
16 di novembre del 2004, Anheuser-Busch, disponibile nella pagina web www.curia.eu-
ropa.eu.
(15) Vedi Corte di Giustizia delle Comunità Europee, sentenza dell’11 settem-
bre 2007, Céline.
I. - Articoli - Saggi - Studi 323

solamente quando questo uso leda la funzione del marchio come


indicazione dell’origine imprenditoriale, ma anche quando com-
prometta qualsiasi altra funzione generalmente connessa al mar-
chio (16): la sua funzione di indicazione di qualità, la sua funzione
di condensazione del goodwill e la sua funzione pubblicitaria.

2.3. Le tabelle di equivalenza nel contesto dell’art. 5.1.a) della


Direttiva Comunitaria sui marchi d’impresa.

A questo punto, è necessario concludere che il riferimento ad


un marchio altrui, nel contesto delle tabelle di equivalenza rappre-
senta un’infrazione del diritto di esclusività del marchio stabilito
nell’art. 5.1.a) della Direttiva comunitaria sui marchi d’impresa.
In effetti questa conclusione è obbligata se si parte da una
interpretazione letterale e rigorosa dell’art. 5.1.a) della Direttiva.
Secondo questa interpretazione letterale, risulta evidente che il ri-
ferimento ad un marchio altrui nel contesto della tabella di equi-
valenza, presuppone l’uso di un marchio identico per prodotti che
sono identici a quelli per i quali è stato registrato il marchio, sod-
disfacendo tutte le condizioni di applicazione di quel precetto. In
tal senso, non esistono dubbi che, nel caso delle tabelle di equiva-
lenza, il marchio altrui si utilizza « per prodotti o servizi identici »,
poiché non è per caso che quel marchio si utilizza per caratteriz-
zare un profumo, differenziandolo da altri profumi, sia che siano
stati inclusi nella tabella, sia che non lo siano.
Si potrebbe arrivare alle stesse conclusioni anche qualora si
facesse una interpretazione più restrittiva dell’art. 5.1.a) della Di-
rettiva comunitaria sui marchi d’impresa, e ciò in linea con la
dottrina stabilita dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee
nei giudizi « Opel » e « Céline ». Ricordiamo infatti, che la Corte di
Giustizia delle Comunità Europee sostenne in queste due sentenze
che, affinché vi sia una infrazione del diritto di esclusività sul
marchio ai sensi dell’art. 5.1.a), non è sufficiente che si utilizzi un
marchio identico per prodotti e servizi altrettanto identici; è an-
che necessario che l’utilizzo del marchio da parte di un terzo, sup-
ponga una menomazione delle caratteristiche generalmente rico-
nosciute al marchio in questione.

(16) Sulle funzioni del marchio, vedi, per tutti, FERNANDEZ NOVOA, op. cit., p.
66 ss.; FERNANDEZ NOVOA, Las funciones de la marca, 5 ADI (1978), p. 33 ss.; AREAN
LALIN, En torno a la función publicitaria de la marca, 8 ADI (1982), p. 57 ss.; BERCO-
VITZ RODRIGUEZ CANO, Introducción..., cit., p. 61 ss.
324 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte I

Orbene, a mio parere, il riferimento ad un marchio altrui, nel


contesto delle tabelle di equivalenza, danneggia per lo meno tre
delle caratteristiche proprie del marchio: il suo carattere distin-
tivo, la caratteristica di condensazione del goodwill e la caratteri-
stica pubblicitaria.
In tal senso, si può affermare che la prima e principale carat-
teristica del marchio sia quella di permettere l’identificazione del-
l’origine imprenditoriale dei prodotti, attestando agli occhi dei
consumatori che tutti i prodotti contraddistinti dallo stesso mar-
chio, provengono dalla stessa origine. Solamente se il marchio per-
mette di differenziare i prodotti rispetto ad altri identici o simili,
potrà allo stesso tempo permettere di identificare l’origine im-
prenditoriale dei prodotti. Per questa ragione, l’idoneità o forza
differenziatrice rappresenta la prima condizione che deve soddi-
sfare un segno perché possa essere registrato ed utilizzato come
marchio (17).
Nell’ipotesi delle tabelle di equivalenza, il marchio altrui si
usa, non per identificare un profumo concreto, proveniente da una
determinata impresa, bensı̀ al contrario come mezzo per identifi-
care un tipo di profumo con una fragranza specifica. In altre pa-
role, con le tabelle di equivalenza si pretende convertire un mar-
chio in designazione di un tipo di profumo avente un determinato
tipo di fragranza. Ovviamente, questa forma di utilizzo del mar-
chio altrui, ne danneggia il suo carattere distintivo, nella misura
in cui potrebbe contribuire alla volgarizzazione del segno ed a di-
luirne la sua forza distintiva (18).

(17) Vedi Articolo 2 della Direttiva comunitaria sui marchi d’impresa, secondo
il quale « Possono costituire marchi di impresa tutti i segni che possono essere ripro-
dotti graficamente, in particolare le parole, compresi i nomi di persone, i disegni, le
lettere, le cifre, la forma del prodotto o il suo confezionamento, a condizione che tali
segni siano atti a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre im-
prese ».
(18) In tal senso, il Diritto comunitario sui marchi d’impresa non è estraneo
a quelle attuazioni da parte di terzi, che possono contribuire ad una diluizione o vol-
garizzazione del marchio, provvedendo in questi casi al titolare del marchio una pro-
tezione efficace. Senza dubbio, il caso più significativo, è quello previsto dall’art. 10
del Regolamento sul marchio comunitario, dove si stabilsce: « Se la riproduzione di un
marchio comunitario in un dizionario, in un’enciclopedia o in un’analoga opera di
consultazione dà l’impressione che esso costituisca il nome generico dei prodotti o dei
servizi per i quali è registrato il marchio, su richiesta del titolare del marchio comu-
nitario l’editore dell’opera provvede affinché al più tardi nella riedizione successiva
dell’opera la riproduzione del marchio sia corredata dell’indicazione che si tratta di
un marchio registrato ». Ovviamente, con questo precetto, si pretende dotare il tito-
lare del marchio con una protezione efficace nel caso in cui l’attuazione di un terzo
(consistente nell’introdurre il marchio in un dizionario come termine generico per un
I. - Articoli - Saggi - Studi 325

Ovviamente, questo rischio di diluizione e volgarizzazione


del marchio è tanto maggiore quanto più generalizzata sia l’uti-
lizzo delle tabelle di equivalenza. Di modo che se questo tipo di
tabelle sono generalizzate per permettere la commercializzazione
di profumi poco conosciuti dai consumatori, vi sarà un forte ri-
schio che questi percepiscano il marchio prestigioso al quale si fa
riferimento nelle tabelle come una designazione generica di un de-
terminato tipo di profumo, con una fragranza specifica.
Inoltre, il riferimento ad un marchio altrui nella tabella di
equivalenza, non solo ne mina la sua caratteristica distintiva. An-
che il suo carattere di goodwill e la sua caratteristica pubblicitaria
ne risultano menomate.
In tal senso, non sembra che siano necessari troppi argo-
menti per poter affermare che l’operatore che fa ricorso all’utilizzo
delle tabelle di equivalenza intende facilitare la penetrazione nel
mercato dei suoi prodotti (normalmente si tratta di prodotti poco
conosciuti dal pubblico dei consumatori), mediante la loro equipa-
razione ai marchi molto più notori. Ossia: in grande misura, il
successo che possono avere i prodotti che quell’operatore commer-
cializza, per regola generale, sarà dovuto non tanto alle caratteri-
stiche od al prestigio intrinseco di tali prodotti, quanto alla loro
equiparazione a prodotti notori e di grande prestigio. Da ciò ne
deriva che, per mezzo delle tabelle di equivalenza, si sfrutta la
fama ed il prestigio associato a determinati marchi ampiamente
conosciuti dal pubblico dei consumatori (19). Per mezzo dello
sfruttamento di questo prestigio e goodwill si cerca di facilitare la
penetrazione nel mercato di prodotti poco conosciuti dai settori
interessati. Ed è precisamente per questo motivo, che non è pos-
sibile negare che il riferimento a marchi di prestigio, nel contesto
delle tabelle di equivalenza diminuisce la caratteristica pubblici-
taria e la caratteristica di condensazione del goodwill dei corri-
spondenti prodotti e servizi.
Al riguardo, possiamo concludere affermando che, sia che si
parta dall’interpretazione letterale dell’art. 5.1.a) della Direttiva
comunitaria sui marchi d’impresa, sia che si applichi in questa
sede la dottrina stabilita dalla Corte di Giustizia delle Comunità

tipo o classe di prodotto), supponga un rischio per la forza distintiva del marchio, po-
tendone provocare la sua diluizione o volgarizzazione.
(19) Come abbiamo già avuto modo di verificare, questa affermazione è co-
mune nell’ambito del Diritto contro la concorrenza sleale, dove le tabelle di equiva-
lenza vengono generalmente qualificate come atti di concorrenza sleale per sfrutta-
mento indebito dell’altrui reputazione. In tal senso, vedi, per il Diritto spagnolo, le
sentenze citate nel paragrafo 1 di questa esposizione.
326 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte I

Europee nelle cause « Opel » e « Céline », il riferimento ad un mar-


chio altrui nel contesto delle tabelle di equivalenza, deve conside-
rarsi come un’infrazione del diritto di esclusività sul marchio, ai
sensi dell’art. 5.1.a) della Direttiva in questione.

3. Le tabelle di equivalenza nell’ambito dell’art. 5.2 della Direttiva


Comunitaria sui marchi d’impresa.

3.1. La protezione di un marchio notorio per mezzo dell’art.


5.2 della Direttiva Comunitaria sui marchi.

3.1.1. Antecedenti. — Nelle precedenti epigrafi abbiamo po-


tuto verificare che il riferimento ad un marchio altrui, nel conte-
sto delle tabelle di equivalenza rappresenta un’infrazione del di-
ritto di esclusività sul marchio ai sensi dell’art. 5.1.a) della Diret-
tiva comunitaria sui marchi di impresa.
Orbene, non bisogna ignorare che, come regola generale, i
marchi altrui ai quali si fa riferimento nelle tabelle di equivalenza
sono marchi di alto prestigio e notori nel mercato. Per questo mo-
tivo, ed a prescindere dall’eventuale infrazione del diritto di esclu-
sività sul marchio ai sensi dell’art. 5.1.a) della Direttiva, ci si deve
anche domandare se quei marchi beneficiano della protezione raf-
forzata che il Diritto comunitario riconosce ai marchi notori. Ed
infine, se il suo utilizzo nel contesto delle tabelle di equivalenza
può considerarsi un’infrazione ai sensi dell’art. 5.2 della Direttiva
comunitaria sui marchi di impresa.
Questo precetto dispone che: « Uno Stato membro può inoltre
prevedere che il titolare abbia il diritto di vietare ai terzi, salvo pro-
prio consenso, di usare nel commercio un segno identico o simile al
marchio di impresa per prodotti o servizi che non sono affini a quelli
per cui esso è stato registrato, se il marchio di impresa gode di noto-
rietà nello Stato membro e se l’uso immotivato del segno consente di
trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla noto-
rietà del marchio di impresa o reca pregiudizio agli stessi ».
Come è possibile verificare, l’art. 5.2 della Direttiva comuni-
taria sui marchi di impresa permette che gli Stati membri, a de-
terminate condizioni, concedano ai marchi notori una protezione
rafforzata. Per i fini che ci interessano, dobbiamo mettere in ri-
salto che lo Stato spagnolo ha utilizzato questa possibilità attra-
verso l’art. 34.2.c) della Legge sui Marchi, secondo cui, « il titolare
del marchio registrato potrà vietare che dei terzi, senza il suo con-
I. - Articoli - Saggi - Studi 327

senso, utilizzino in commercio, qualsiasi segno identico o simile per


prodotti o servizi che non siano simili a quelli per cui sia stato regi-
strato il marchio, quando questo sia notorio o rinomato in Spagna, e
quando con l’utilizzo del segno, fatto senza giusta causa si possa in-
dicare una connessione tra tali beni o servizi ed il titolare del mar-
chio, o, in generale, quando tale uso possa implicare un vantaggio in-
debito od un pregiudizio al carattere distintivo o della notorietà o pre-
stigio del marchio registrato » (20).

3.2. Condizioni per l’applicazione dell’art. 5.2 della Direttiva


Comunitaria sui marchi d’impresa.

3.2.1. Il concetto di marchio notorio. — Come già esposto,


l’art. 5.2 della Direttiva Comunitaria sui marchi conferisce una
protezione rafforzata al marchio notorio; o, utilizzando i termini
della stessa Direttiva, ai marchi di impresa che godono di noto-
rietà nello Stato membro.
Da questo punto di vista, si deve evidenziare che la Corte di
Giustizia della Comunità Europea, ha già avuto modo di delimi-
tare il concetto di marchio notorio e di stabilire un elenco delle
circostanze alle quali bisogna attenersi quando si debba attribuire
questa qualifica ad un marchio. In tal senso, vale la pena di evi-
denziare la sentenza della Corte di Giustizia della Comunità Eu-
ropea del 14 settembre 1999, nel giudizio General Motors (21), che
stabilisce la seguente dottrina: « Le versioni tedesca, olandese e sve-
dese [della Direttiva] utilizzano termini che indicano che il marchio

(20) Per l’applicazione di questo precetto, l’art. 8.2 della Legge sui Marchi
definisce un marchio notorio come quello che, per il suo volume di vendite, durata,
intensità, o copertura geografica di utilizzo, valore o prestigio raggiunto nel mercato
o per qualsiasi altro motivo, sia generalmente conosciuto dal settore pertinente del
pubblico al quale sono destinati i prodotti, servizi o attività che identificano tale
marchio o denominazione commerciale. Inoltre, il terzo paragrafo dello stesso art. 8,
definisce il marchio notorio come quello che è conosciuto dal pubblico in generale. Per
uno studio ampio del concetto e protezione dei marchi rinomati e che godono di no-
torietà nella Legge sui Marchi vigente, si veda FERNANDEZ NOVOA, Tratado..., cit., p.
389 ss.; MASSAGUER FUENTES, La protección jurı́dica de las marcas notorias y renombra-
das en la Ley de Marcas de 2001, 22 ADI (2001), p. 143 ss.; GALAN CORONA, in BERCO-
VITZ RODRIGUEZ CANO (dir.), Comentarios, cit., p. 505 ss.; TATO PLAZA, Introducción al
régimen jurı́dico de la marca notoria y la marca renombrada en la nueva Ley española de
marcas, lus et Veritas, numero 31, p. 32 ss. Ovvero, per uno studio della situazione an-
tecedente alla Legge dei Marchi vigente, cfr. FERNANDEZ NOVOA, Derecho de Marcas,
Montecorvo, Madrid, p. 126 ss.; MONTEAGUDO MONEDERO, La protección de la marca re-
nombrada, Civitas, Madrid, 1995, passim.
(21) Sentenza della Corte di Giustizia della Comunità Europea, del 14 settem-
bre 1999, General Motors, disponibile alla pagina web: www.curia.europa.eu.
328 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte I

d’impresa deve essere “conosciuto”, senza precisare l’estensione della


conoscenza richiesta, mentre le altre versioni linguistiche utilizzano il
termine “notorio” o espressioni che implicano, come quest’ultimo ter-
mine, sul piano quantitativo, un certo grado di conoscenza fra il pub-
blico. Tale sfumatura, che non comporta un’effettiva contraddizione,
deriva dalla maggiore neutralità dei termini utilizzati nelle versioni
tedesca, olandese e svedese. Tuttavia, essa non consente di negare la
necessità di una soglia di conoscenza che, nell’ambito di un’interpre-
tazione uniforme del diritto comunitario, discende da una compara-
zione fra tutte le versioni linguistiche della direttiva ».
La suddetta sentenza continua aggiungendo: « Tale necessità
discende del pari dal contesto generale e dall’obiettivo della direttiva.
Nella misura in cui l’art. 5, n. 2, della direttiva, a differenza dell’art.
5, n. 1, tutela i marchi registrati nei confronti dei prodotti o servizi
non simili, la prima condizione che esso stabilisce implica un certo
grado di conoscenza nel pubblico del marchio d’impresa precedente.
Infatti, solo nel caso di un sufficiente grado di conoscenza di detto
marchio il pubblico, posto in presenza del marchio successivo può, se
del caso, anche per prodotti o servizi non simili, effettuare un con-
fronto fra i due marchi e, di conseguenza, si può recare pregiudizio
al marchio precedente. Il pubblico per il quale il marchio d’impresa
precedente deve aver acquisito una notorietà è quello interessato a tale
marchio d’impresa, vale a dire, secondo il prodotto o il servizio posto
in commercio, il grande pubblico ovvero un pubblico più specializ-
zato, ad esempio un determinato ambiente professionale. Né la lettera,
né lo spirito dell’art. 5, n. 2, della direttiva consentono di richiedere
che il marchio d’impresa sia conosciuto da una determinata percen-
tuale del pubblico cosı́ definito. Il grado di conoscenza richiesto deve
essere considerato raggiunto se il marchio d’impresa precedente è co-
nosciuto da una parte significativa del pubblico interessato ai pro-
dotti o servizi contraddistinti da detto marchio ».

3.2.2. Ambito di applicazione dell’art. 5.2 della Direttiva. —


Peraltro, la Direttiva comunitaria offre la possibilità agli Stati
membri di accordare una protezione rinforzata al marchio cono-
sciuto. Dal significato letterale dell’art. 5.2 della Direttiva —
come pure dal tenore dell’art. 34.2.c) della legge spagnola sui mar-
chi — si inferisce che le ipotesi che danno adito a questa prote-
zione rinforzata sono solo quelle in cui un terzo usa un segno
identico o simile al marchio conosciuto per prodotti o servizi di-
versi da quelli per cui esso è stato registrato.
Tuttavia, nonostante il significato letterale della Direttiva co-
munitaria, la Corte di Giustizia delle Comunità Europee ha
I. - Articoli - Saggi - Studi 329

emesso una interpretazione correttrice dell’art. 5.2 di cui sopra. E


sostiene che la protezione rinforzata che nel precetto si contempla
per il marchio conosciuto può essere invocata, sia nelle ipotesi di
utilizzo di un segno identico o simile per prodotti diversi da quelli
per cui esso è stato registrato, sia nei casi di utilizzo di un segno
identico o simile per prodotti identici o simili a quelli per cui è
stata ottenuta la registrazione del marchio conosciuto.
In questo senso, è molto significativa la sentenza della Corte
di Giustizia delle Comunità Europee del 9 gennaio 2003, nella
causa Davidoff II (22), nella quale si afferma quanto segue: « Si
deve ricordare che, contrariamente all’art. 5, n. 1, della Direttiva,
l’art. 5, n. 2, della stessa non impone agli Stati membri di introdurre
nel loro diritto nazionale la tutela da esso stabilita. Esso si limita a
concedere loro la facoltà di introdurre siffatta tutela. Qualora ci si sia
avvalsi di tale facoltà, i marchi che godono di una notorietà benefi-
ciano quindi tanto della tutela conferita dall’art. 5, n. 1, della Diret-
tiva quanto di quella stabilita dall’art. 5, n. 2, della stessa. L’art. 5,
n. 2, della Direttiva consente di accordare ai marchi notori una tutela
rafforzata rispetto a quella prevista dall’art. 5, n. 1. La tutela è raf-
forzata quanto ai prodotti e ai servizi nei confronti dei quali essa si
applica, nel senso che il titolare può essere autorizzato a vietare l’uso
di un segno identico o simile al suo marchio per prodotti o servizi che
non sono simili a quelli per i quali il marchio è registrato, vale a dire
in situazioni in cui è esclusa la tutela conferita dall’art. 5, n. 1, che
si applica soltanto per i prodotti o servizi identici o simili ».
Inoltre, ed è ulteriormente significativo, la Corte di Giustizia
delle Comunità Europee prosegue dichiarando: « Detta tutela raf-
forzata è accordata quando l’uso del segno senza giusto motivo trae
indebitamente beneficio dal carattere distintivo o dalla notorietà del
marchio o arreca loro pregiudizio. Si tratta quindi di una tutela spe-
cifica contro pregiudizi del carattere distintivo o della notorietà dei
marchi considerati. Nella causa principale il Bundesgerichtshof non
esclude che possa essere problematico dimostrare un rischio di confu-
sione, nel qual caso il titolare del marchio notorio potrebbe avere un
legittimo interesse a tutelare il carattere distintivo e la notorietà del
suo marchio in forza dell’art. 5, n. 2, della Direttiva. Si pone quindi
la questione se il testo dell’art. 5, n. 2, della Direttiva, in quanto si
riferisce espressamente soltanto all’uso di un segno per prodotti o ser-
vizi non simili, osti all’applicazione di tale disposizione anche in
caso di uso del segno per prodotti o servizi identici o simili. A questo

(22) Sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, del 9 gennaio
2003, Davidoff II, disponibile in www.curia.europa.eu.
330 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte I

proposito occorre subito rilevare che l’art. 5, n. 2, della Direttiva non


dev’essere interpretato esclusivamente alla luce del suo testo, ma an-
che in considerazione dell’economia generale e degli obiettivi del si-
stema del quale fa parte. Orbene, in considerazione di questi elementi,
non si può dare del suddetto articolo un’interpretazione che comporti
una tutela dei marchi notori minore in caso di uso di un segno per
prodotti o servizi identici o simili rispetto al caso di uso di un segno
per prodotti o servizi non simili. La questione discussa dinanzi alla
Corte è consistita essenzialmente nello stabilire se la tutela di un mar-
chio notorio contro l’uso di un segno per prodotti o servizi identici o
simili e recante pregiudizio al carattere distintivo o alla notorietà di
detto marchio non possa già essere ottenuta in base all’art. 5, n. 1,
della Direttiva, di modo che non sarebbe necessario cercare tale tutela
nel disposto dell’art. 5, n. 2. A questo proposito, anche se, alla luce
del decimo considerando della Direttiva, la tutela conferita dall’art. 5,
n. 1, lett. a), di questa è assoluta quando l’uso arreca pregiudizio o
può arrecare pregiudizio a una delle funzioni del marchio (v. sen-
tenza 12 novembre 2002, causa C-206/01, Arsenal Football Club,
Racc. p. I ss., punti 50 e 51), l’applicazione dell’art. 5, n. 1, lett. b),
dipende dall’esistenza di un rischio di confusione (v. sentenza 22
giugno 2000, causa C-425/98, Marca Mode, Racc. p. I-4861, punto
34). Va sottolineato che, ai punti 20 e 21 della precitata sentenza SA-
BEL, la Corte ha già escluso un’interpretazione estensiva dell’art. 4,
n. 1, lett. b), della Direttiva, in sostanza identico all’art. 5, n. 1, lett.
b), della stessa, interpretazione che le era stata proposta in quanto, in
particolare, l’art. 5, n. 2, della Direttiva si applica, in base al suo te-
nore, soltanto in caso d’uso di un segno per prodotti o servizi non si-
mili. Pertanto, in circostanze che escluderebbero un rischio di confu-
sione, l’art. 5, n. 1, lett. b), della Direttiva non potrebbe essere invo-
cato dal titolare di un marchio notorio per proteggersi contro un pre-
giudizio del carattere distintivo o della notorietà di questo. Di conse-
guenza, occorre risolvere la prima questione come segue: gli artt. 4, n.
4, lett. a), e 5, n. 2, della Direttiva devono essere interpretati nel senso
che lasciano agli Stati membri il potere di prevedere una tutela speci-
fica a favore di un marchio registrato che gode di notorietà quando il
marchio o il segno successivo, identico o simile a tale marchio regi-
strato, è destinato ad essere usato o è usato per prodotti o servizi iden-
tici o simili a quelli da questo contraddistinti ».
Alla luce di questa dottrina della Corte di Giustizia, l’ambito
d’applicazione dell’art. 5.2 della Direttiva Comunitaria sembra
chiaro. Nel senso che il titolare di un marchio conosciuto potrà in-
vocare la protezione rinforzata prevista nel precetto sopra richia-
mato quando un terzo usi un segno identico o simile per prodotti
I. - Articoli - Saggi - Studi 331

ugualmente identici o simili e l’uso suddetto non possa essere per-


seguito in base all’art. 5.1 — lettere a) e b) — della Direttiva Co-
munitaria. Orbene, il titolare del marchio conosciuto potrà eserci-
tare lo ius prohibendi solo in quanto dall’uso da parte di un terzo
di un segno identico o simile — per contraddistinguere prodotti
identici, simili o non simili — sopravvengano talune delle conse-
guenze previste nell’art. 5.2 medesimo.

3.2.3. Circostanze da cui scaturisce la protezione rinforzata del


marchio notorio. — Effettivamente, l’art. 5.2 della Direttiva Co-
munitaria sui marchi condiziona la protezione rinforzata del mar-
chio notorio quando concorrano talune circostanze specifiche. Stà
di fatto che il titolare del marchio notorio potrà invocare la pro-
tezione rinforzata prevista in quel precetto solo quando l’uso im-
motivato di un segno identico o simile, senza il suo consenso, con-
senta ad un terzo di trarre indebitamente vantaggio dal carattere
distintivo o dalla notorietà del marchio di impresa o possa recare
pregiudizio agli stessi.
Cosicché, il titolare del marchio notorio potrà far valere il suo
diritto di esclusività per impedire l’utilizzo di un segno identico o
simile, quando questo utilizzo comporti un indebito sfruttamento
della notorietà o goodwill del marchio.
In questo senso, occorre rilevare che, quantunque la Diret-
tiva comunitaria sui marchi definisca i marchi notori sulla base di
un criterio esclusivamente quantitativo, questi — per norma —
godono di un immagine positiva tra i consumatori. In altre parole,
godono di un determinato livello di goodwill o rinomanza tra i
consumatori. E questa immagine può trasmettersi ad altri pro-
dotti o servizi quando questi si contraddistinguono nel mercato
con un segno identico o simile. Per questo motivo, la Direttiva
rinforza l’ambito di protezione del marchio notorio in quelle ipo-
tesi in cui con l’uso di un segno identico o simile venga trasmesso
ad essi totalmente o parzialmente il goodwill o rinomanza di cui
gode il marchio.
Inoltre, il titolare del marchio conosciuto può altresı̀ far va-
lere il suo diritto di esclusività per vietare la registrazione o l’uti-
lizzo di un segno confondibile — per contraddistinguere prodotti
o servizi non simili — quando l’utilizzo dello stesso da parte di un
terzo possa arrecare un pregiudizio alla notorietà del marchio.
Come è già stato rilevato, l’utilizzo del marchio notorio da
parte di un terzo per contraddistinguere altri prodotti o servizi,
può dare adito ad un rischio di svilimento; vale a dire, un rischio
di perdita della notorietà o goodwill che dai consumatori vengono
332 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte I

associati al marchio. La Commissione Ricorsi dell’OAMI, nella sua


risoluzione del 25 aprile 2001 ha delimitato perfettamente le ipo-
tesi in cui può insorgere tale rischio.
Nella risoluzione suddetta, si afferma: « è importante dimo-
strare che il marchio viene disaccreditato o degradato da una sua as-
sociazione con qualcosa di sconveniente. Questo può accadere quando
il marchio viene usato, da una parte, in un contesto sgradevole,
osceno o degradante, o, dall’altro, in un contesto che anche se non
sgradevole di per sé, è incompatibile con l’immagine del marchio. In
tutti i casi nei quali si effettua una aprossimazione nociva all’imma-
gine del marchio ed una perdita del prestigio del marchio stesso, ed a
cui la terminologia inglese allude come “dilution by tarnishment”.
Un marchio verrà annacquato in questo modo quando la capacità del
consumatore di associarlo ai prodotti o servizi per i quali esso è stato
registrato viene sminuita dal fatto che: a) lo si vincoli con prodotti di
cattiva qualità o che danno adito ad associazioni mentali inopportune
o dubbie che contrastano con le associazioni o l’immagine generate
dall’uso legittimo del marchio dal suo proprietario; b) lo si vincoli
con prodotti incompatibili con la qualità ed il prestigio di cui gode il
marchio, quantunque non si tratti di un uso inadeguato del marchio
per se stesso considerato; c) la sua parte denominativa o figurativa
venga modificata o alterata in modo negativo ».
Finalmente, il titolare del marchio notorio può anche far va-
lere il suo diritto di esclusiva per vietare l’uso del marchio da
parte di un terzo quando questo uso comporti uno sfruttamento
indebito od un pregiudizio del carattere distintivo del marchio.
Al riguardo, occorre ricordare che i marchi notori sono mar-
chi ampiamente conosciuti. A causa dell’ampia diffusione dei mar-
chi notori tra il pubblico dei consumatori, di solito questi marchi
godono di una notevole capacità distintiva. Ne risulta che l’uso del
marchio da parte di un terzo possa, per norma, comportare uno
sfruttamento indebito del carattere distintivo del marchio notorio.
In effetti, attraverso l’uso del marchio notorio, il terzo può bene-
ficiare dello spiccato carattere distintivo del marchio notorio, che
gli facilita la penetrazione dei suoi nuovi prodotti nel mercato.
Peraltro, l’uso del marchio notorio da parte di un terzo può
altresı̀ arrecare un pregiudizio al carattere distintivo del marchio
stesso. In tal senso, è un fatto riconosciuto che uno dei rischi che
tradizionalmente corrono i marchi notori è il rischio di diluzione o
indebolimento. Nei casi in cui il marchio venga usato da imprese
diverse da quella del titolare del marchio, verrà ostacolata seria-
mente la funzione distintiva che il marchio adempie nel mercato.
I. - Articoli - Saggi - Studi 333

3.3. Le tabelle di equivalenza nel contesto dell’art. 5.2 della


Diretiva Comunitaria sui marchi d’impresa.

In una sezione precedente di questo studio, abbiamo visto


che il riferimento ad un marchio altrui, nel contesto delle tabelle
di equivalenza, va considerata come un’infrazione del diritto di
esclusiva ai sensi dell’art. 5.1.a) della Direttiva Comunitaria. Ef-
fettivamente, dall’interpretazione letterale di questo precetto, si
inferisce che le tabelle di equivalenza implicano un uso di un se-
gno identico al marchio registrato per contraddistinguere prodotti
o servizi ugualmente identici a quelli per cui esso è stato regi-
strato.
Questa conclusione deve essere mantenuta quantunque si ac-
cetti l’interpretazione restrittiva dell’art. 5.1.a) della Direttiva,
fornita dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee, poiché
non invano il riferimento ad un marchio altrui nel contesto delle
tabelle di equivalenza suppone un pregiudizio di tre delle funzioni
generalmente connesse al marchio.
Peraltro, occorre tenere presente che i marchi richiamati nel
contesto delle tabelle di equivalenza sono nella maggioranza dei
casi, marchi di grande fama e notevole grado di conoscenza nei
settori interessati. In questo modo rientrano nella definizione di
marchi notori ai sensi dell’art. 5.2 della Direttiva.
Di conseguenza, se si dovesse concludere — a scopi dialettici
— che il riferimento a tali marchi nel contesto delle tabelle di
equivalenza non constituisce un’infrazione del diritto di marchio
ai sensi dell’art. 5.1 della Direttiva, si dovrebbe altresı̀ ammettere
che il titolare del marchio notorio possa — nelle fattispecie de-
scritte — invocare la protezione rinforzata prevista nell’art. 5.2
della Direttiva.
In effetti, abbiamo già avuto modo di constatare che la Corte
di Giustizia delle Comunità Europee ha ammesso che l’art. 5.2
della Direttiva, possa essere invocato dal titolare del marchio no-
torio anche quando vi sia l’utilizzo di un segno identico o simile
per contraddistinguere prodotti identici, quando questo utilizzo
non sia perseguibile in base all’art. 5.1 della Direttiva. D’altra
parte, nel caso che stiamo discutendo, concorrono tre delle circo-
stanze che — d’accordo con quanto sopra esposto — determinano
la protezione rinforzata del marchio notorio. Cosı̀, è ovvio che il
riferimento ai marchi notori nel contesto delle tabelle di equiva-
lenza implichi uno sfruttamento indebito ed un pregiudizio della
notorietà di tali marchi. E può anche arrecare un evidente pregiu-
dizio al suo carattere distintivo.
334 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte I

In questo senso, come abbiamo già avuto modo di esporre,


sembra evidente che l’operatore che fa ricorso all’uso delle tabelle
di equivalenza facilita la penetrazione nel mercato dei suoi pro-
dotti (che sono di norma scarsamente conosciuti tra il pubblico dei
consumatori), equiparandoli a marchi di maggior prestigio. In al-
tri termini: gran parte del successo che l’operatore può riscuotere
con i suoi prodotti non è dovuto, in genere, alle caratteristiche o
al prestigio intrinseco di questi, bensı̀ alla sua equiparazione con
prodotti di notevole prestigio e notorietà. Da cui si desume che,
grazie alle tabelle di equivalenza, si sfrutta la fama ed il prestigio
associato a determinati marchi ampiamente conosciuti tra il pub-
blico dei consumatori (23). Con lo sfruttamento di tale prestigio e
goodwill si vuole facilitare la penetrazione nel mercato di prodotti
scarsamente conosciuti dai settori interessati.
Come seconda ipotesi, il riferimento a marchi prestigiosi, nel
contesto delle tabelle di equivalenza, potrebbe anche dare adito
ad un rischio di svilimento dei marchi suddetti, o, se si preferisce,
ad un pregiudizio della sua fama e goodwill. Effettivamente, nella
misura in cui il marchio notorio venisse associato nelle tabelle di
equivalenza a prodotti di bassa qualità, potrebbe ripercuotere sul
goodwill o la notorietà di cui tale marchio gode tra i settori inte-
ressati.
Finalmente, — nella questione che stiamo analizzando — ac-
quista particolare intensità il rischio di diluzione o pregiudizio del
carattere distintivo del marchio notorio, che viene elencato nella
tabella di equivalenza. In questo senso, abbiamo già avuto modo
di segnalare che, nelle tabelle di equivalenza, i marchi notori non
vengono usati nella loro funzione propria e più caratteristica: os-
sia per identificare l’origine imprenditoriale dei prodotti e servizi
corrispondenti e permettere la loro differenziazione nel mercato
rispetto a prodotti e servizi simili. Piuttosto, nelle tabelle di equi-
valenza, il marchio notorio viene usato per identificare un deter-
minato tipo di fragranza agli occhi dei consumatori, o, se si prefe-
risce, un profumo con una fragranza determinata. O, in altre pa-
role, nelle tabelle di equivalenza viene fatto riferimento al mar-
chio notorio pretendendo attribuirgli un senso generico e che si li-
mita all’identificazione di un tipo concreto di fragranza.
Questa modalità di impiego del marchio altrui arreca un

(23) Come abbiamo già potuto constatare, questa affermazione è comune nel-
l’ambito del Diritto contro la concorrenza sleale, ove le tabelle di equivalenza vengono
generalmente considerate come atti di concorrenza sleale per lo sfruttamento indebito
della notorietà altrui. In questo senso, vedi, per il Diritto spagnolo, le sentenze citate
nell’epigrafe 1 del presente studio.
I. - Articoli - Saggi - Studi 335

danno alla sua funzione distintiva, nella misura in cui può contri-
buire alla volgarizzazione del segno ed alla diluzione della sua
forza distintiva. Tale rischio è tanto più grande — reiteriamolo —
quanto più generalizzato sia l’uso delle tabelle di equivalenza. Di
modo tale che, se queste tabelle di equivalenza si usano per per-
mettere la commercializzazione di profumi scarsamente conosciuti
dai consumatori, ci sarà un alto rischio che questi percepiscano il
marchio di prestigio menzionato nelle tabelle, alla stregua di una
designazione generica di un determinato tipo di profumo con una
fragranza concreta.
In definitiva, possiamo concludere con l’affermazione che in
questi casi concorrono diverse circonstanze che possono giustifi-
care la protezione rinforzata dei marchi notori. Di modo che, an-
che il riferimento ad un marchio notorio nel contesto delle tabelle
di equivalenza, andrebbe qualificato come infrazione al diritto di
esclusiva sul marchio ai sensi dell’art. 5.2 della Direttiva comuni-
taria sui marchi.

4. Inapplicabilità del limite al diritto di marchio previsto nell’art.


6.1.b) della Direttiva Comunitaria sui marchi d’impresa.

4.1. Il limite relativo all’uso di indicazioni descrittive.

D’altra parte, è un fatto ben noto che l’esercizio del diritto


di esclusiva sul marchio (e dello ius prohibendi) inerente allo
stesso, non riveste un carattere assoluto. Al contrario, l’esercizio
del diritto di esclusiva viene sottoposto a determinate limitazioni.
Nella Direttiva Comunitaria sui marchi, queste limitazioni ven-
gono contemplate nell’art. 6.1., il cui tenore letterale è il seguente:
« Il diritto conferito dal marchio di impresa non permette al titolare
dello stesso di vietare ai terzi l’uso nel commercio: a) del loro nome ed
indirizzo; b) di indicazioni relative alla specie, alla qualità, alla
quantità, alla destinazione, al valore, alla provenienza geografica, al-
l’epoca di fabbricazione del prodotto o di prestazione del servizio o ad
altre caratteristiche del prodotto o del servizio; c) del marchio di im-
presa se esso è necessario per contraddistinguere la destinazione di un
prodotto o servizio, in particolare come accessori o pezzi di ricambio,
purché l’uso sia conforme agli usi consueti di lealtà in campo indu-
striale e commerciale ».
Agli effetti che qui perseguiamo, occorre rilevare che esiste
una stretta connessione tra il limite previsto nella lettera b) del-
336 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte I

l’art. 6.1 della Direttiva sui Marchi (relativo all’uso da parte dei
terzi di indicazioni descrittive sulle caratteristiche dei suoi pro-
dotti o servizi) e la proibizione assoluta di registrazione di cui al-
l’art. 3.1.c) della stessa Direttiva.
In accordo con quanto stabilito in questo ultimo precetto,
« Sono esclusi dalla registrazione, o, se registrati, ne può essere di-
chiarata la nullità di (...) marchi di impresa composti esclusiva-
mente da segni o indicazioni che in commercio possono servire a de-
signare la specie, la qualità, la quantità, la destinazione, il valore, la
provenienza geografica ovvero l’epoca di fabbricazione del prodotto o
della prestazione del servizio, o altre caratteristiche del prodotto o ser-
vizio ».
Per questo, nel caso di indicazioni meramente descrittive ri-
cade una chiara proibizione di registrazione. Ma lungi dall’avere
dei profili assoluti, quella proibizione possiede una portata limi-
tata. Facendo allusione ai marchi composti « esclusivamente » di
segni o indicazioni di carattere descrittivo, l’art. 3.1.a) della Diret-
tiva permette la registrazione come marchio, di segni o indicazioni
di quella natura, sempreché vadano accompagnati da altri segni o
indicazioni privi di carattere generico e l’insieme possieda una ca-
pacità differenziatrice (24).
Orbene, quando si procede alla registrazione di un insieme di
segni od indicazioni tra cui si annoverano indicazioni meramente
descrittive, il titolare del marchio acquisisce un diritto di esclusiva
di portata limitata. Di modo che, non potrà avvalersi del suo di-
ritto di esclusiva sul marchio, per impedire l’uso da parte di terzi
di quei segni o indicazioni per descrivere le caratteristiche dei cor-
rispettivi prodotti o servizi, secondo quanto è previsto nell’art. 6
della stessa Direttiva.

4.2. Inapplicabilità del limite riguardante l’uso di indicazioni


descrittive nell’ipotesi delle tabelle di equivalenza.

4.2.1. Introduzione. — Nelle sezioni precedenti, abbiamo


avuto modo di constatare che il riferimento ad un marchio altrui,
nel contesto delle tabelle di equivalenza, potrebbe venire conside-
rata come un’infrazione del diritto di marchio, sia ai sensi dell’art.

(24) Questa possibilità viene contemplata espressamente nell’art. 5.3 della


Legge spagnola sui marchi, secondo il quale « si potrà registrare come marchio la con-
giunzione dei segni di cui alle lettere b), c) e d), sempreché la congiunzione suddetta
possieda la distintività richiesta dal comma 1 dell’art. 4 della presente Legge ».
I. - Articoli - Saggi - Studi 337

5.1.a) della Direttiva comunitaria sui marchi, che ai sensi dell’art.


5.2 dello stesso testo.
Partendo da questa base, e per concludere il nostro studio, ci
resta soltanto da analizzare se il riferimento ad un marchio altrui
nel contesto delle tabelle di equivalenza potrebbe eventualmente
avvalersi del limite al diritto di marchio previsto dall’art. 6.1.b)
della Direttiva. In altri termini, dobbiamo determinare se in ri-
sposta alle eventuali azioni che il titolare del marchio registrato
possa intraprendere (ai sensi degli artt. 5.1.a) e 5.2 della Diret-
tiva), il responsabile della tabella di equivalenza possa invocare
l’eccezione prevista nell’art. 6.1.b). E a tale scopo potrebbe ad-
durre che il riferimento al marchio altrui — nel contesto della ta-
bella di equivalenza — costituisce una mera indicazione descrit-
tiva delle caratteristiche dei corrispettivi prodotti o servizi che
commercializza.
In mia opinione, questa questione merita una risposta netta-
mente negativa. In prima istanza, perché i marchi a cui viene
fatto riferimento nelle tabelle di equivalenza non possono in alcun
modo essere qualificati come indicazioni meramente descrittive.
E, in secondo luogo, perché nemmeno l’uso che si fa di tali marchi
nelle tabelle di equivalenza può considerarsi che sia in conformità
con le pratiche leali nell’ambito industriale o commerciale.

4.2.2. Inesistenza di indicazioni descrittive. — In effetti, bi-


sogna escludere — prima di tutto — che i marchi a cui si fa rife-
rimento nelle tabelle di equivalenza costituiscano mere indicazioni
descrittive delle caratteristiche di un profumo e, in particolare,
della sua fragranza.
In questo senso, consideriamo che la dottrina stabilita dalla
Corte di Giustizia delle Comunità Europee nella sua sentenza del
17 marzo 2005 (Gillette) (25), anche se inizialmente dettata ri-
spetto al punto c) dell’art. 6.1. della Direttiva, sia totalmente ap-
plicabile all’interpretazione del punto b) del citato art. 6.1. In
questa sentenza, si è stabilito: « un tale uso di un marchio è neces-
sario nel caso in cui la detta informazione non può in pratica essere
comunicata al pubblico da un terzo senza che venga fatto uso del mar-
chio di cui quest’ultimo non è il titolare. Come rilevato dall’avvocato
generale ai paragrafi 64 e 71 delle sue conclusioni, questo uso deve in

(25) Sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, del 17 marzo
2005, « Gillette », disponibile in www.curia.europa.eu. Per un commento a questa sen-
tenza, cfr. GARCIA VIDAL, El uso de una marca ajena para indicar el destino de un pro-
ducto o servicio propio, in FERNANDEZ NOVOA-GARCIA VIDAL-FRAMIÑAN SANTAS, Jurispru-
dencia comunitaria sobre marcas, Comares, Granada, 2006, p. 83 ss.
338 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte I

pratica essere il solo mezzo per fornire un’informazione di tale tipo.


A tale riguardo, per accertarsi se possano essere utilizzati altri mezzi
per fornire un’informazione del genere, è necessario prendere in con-
siderazione, ad esempio, l’eventuale esistenza di standard tecnici o di
norme generalmente usate per il tipo di prodotto messo in commercio
dal terzo e note al pubblico al quale è destinato questo tipo di prodotto.
Tali norme, o altre caratteristiche, devono essere idonee a fornire al
detto pubblico un’informazione comprensibile e completa sulla desti-
nazione del prodotto messo in commercio da detto terzo per preservare
il sistema della concorrenza non falsato sul mercato di tale prodotto ».
Ebbene, l’esperienza ci dimostra che, quando si procede alla
descrizione di un aroma nella commercializzazione di un determi-
nato prodotto (trattasi di profumi o di qualsiasi altro tipo di pro-
dotti, come per esempio ambientatori o incluso il vino) si ricorre a
spiegazioni che si appoggiano su certi tipi di fiori, frutta od altri
prodotti o materie per evocare l’aroma che emana il prodotto de-
scritto. Di conseguenza, i marchi a cui si fa riferimento nelle ta-
belle di equivalenza non costituiscono, nè nel linguaggio comune,
nè negli usi di commercio, denominazioni che descrivano in forma
diretta o indiretta un aroma in particolare (26). Da cui si inferisce
che i marchi a cui si fa riferimento nelle tabelle di equivalenza co-
stituiscono mere denominazioni arbitrarie o fantasiose, e in modo
alcuno possono venire qualificate come indicazioni descrittive
delle caratteristiche di un aroma.

4.2.3. Incompatibilità con le pratiche sleali in materia indu-


striale e commerciale. — Nell’epigrafe precedente, abbiamo potuto
constatare che i marchi — normalmente notori — a cui si fa rife-
rimento nel contesto delle tabelle di equivalenza costituiscono, in
genere, segni arbitrari o fantasiosi (27), e non possono essere qua-
lificati come indicazioni meramente descrittive di un determinato
aroma. Questa circostanza, di per sé, esclude la possibilità di ap-

(26) Questione ben diversa è che, nelle tabelle di equivalenza, quei marchi
vengano usati pretendendo attribuirgli un significato generico di cui sono privi. Poi-
ché quei marchi sono denominazioni con una forte capacità distintiva, il suo uso pre-
tendendo attribuirgli un significato generico (con il corrispettivo rischio di volgariz-
zazione o diluzione del marchio), invece di giustificare l’applicazione in questa sede
del limite previsto nell’art. 6 della Direttiva, permette di asserire, come si è già detto,
l’esistenza di una infrazione del diritto di esclusiva sul marchio ai sensi degli artt.
5.1.a) e 5.2 della Direttiva comunitaria sui marchi.
(27) Addottiamo nel testo la classica e ben nota classificazione tra denomina-
zioni generiche, descrittive, suggestive, arbitrarie e fantasiose, inserita nella dottrina
spagnola da AREAN LALIN, L’idoneità di una denominazione per convertirsi in marchio,
5 ADI (1978), p. 471 ss.
I. - Articoli - Saggi - Studi 339

plicare, nella fattispecie che stiamo discutendo, il limite al diritto


di esclusiva sul marchio previsti nell’art. 6.1.b) della Direttiva co-
munitaria.
Nonostante quanto si è detto precedentemente, e quantun-
que si sostenesse — a scopi meramente dialettici — che quei mar-
chi costituiscono indicazioni descrittive, il cui uso nelle tabelle di
equivalenza potrebbe appellarsi, prima facie, al limite previsto
nell’art. 6.1.b) della Direttiva, sarebbe necessario tenere conto che
lo stesso art. 6 della Direttiva (in fine), condiziona l’uso delle in-
dicazioni descrittive alla sua compatibilità con le pratiche sleali in
materia industriale e commerciale.
Ebbene, la Corte di Giustizia delle Comunità Europee, nella
sua già citata sentenza del 17 marzo 2005 (« Gillette »), ha elabo-
rato un’ampia ed esaustiva interpretazione di questo requisito di
applicabilità dei diversi limiti al diritto di marchio previsti nel-
l’art. 6.1 della Direttiva. In questa importante sentenza, l’alto tri-
bunale comunitario stabilı̀ la dottrina seguente: « l’uso del marchio
non è conforme agli usi consueti di lealtà in campo industriale e
commerciale, in particolare, quando: a) avvenga in modo tale da far
pensare che esista un legame commerciale fra i terzi e il titolare del
marchio; b) pregiudichi il valore del marchio traendo indebitamente
vantaggio dal suo carattere distintivo o dalla sua notorietà; c) arrechi
discredito o denigrazione a tale marchio, d) o quando il terzo presenti
il suo prodotto come un’imitazione o una contraffazione del prodotto
recante il marchio di cui egli non è il titolare ».
Rispetto alle tabelle di equivalenza, si infrangono almeno due
di questi presupposti o condizioni. Cosı̀, come abbiamo già avuto
l’occasione di segnalare, il riferimento a marchi conosciuti nel con-
testo delle tabelle di equivalenza suppone trarre indebitamente
vantaggio della notorietà o goodwill associato a tali marchi. In-
fatti, l’operatore che fa ricorso all’uso delle tabelle di equivalenza
pretende di facilitare la penetrazione dei suoi prodotti nel mercato
(peraltro normalmente poco conosciuti tra il pubblico dei consu-
matori), mediante la sua equiparazione con marchi di grande no-
torietà. Ovvero: gran parte del successo riscosso dai prodotti
messi in commercio da quell’operatore non sarà dovuto, in genere,
alle caratteristiche od al prestigio intrinseco dei suddetti prodotti,
bensı̀ alla loro equiparazione con prodotti di gran prestigio e no-
torietà. Da quanto esposto ne deriva che, attraverso le tabelle di
equivalenza, si sfrutta la notorietà ed il prestigio associato a de-
terminati marchi ampiamente conosciuti tra il pubblico dei consu-
matori. Attraverso lo sfruttamento di questo prestigio e goodwill,
340 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte I

si mira a facilitare la penetrazione nel mercato di prodotti scarsa-


mente noti tra i settori interessati.
D’altra parte, le tabelle di equivalenza implicano, senza al-
cun’ombra di dubbio, la presentazione dei profumi promozionati
quali imitazioni o repliche di altri prodotti contraddistinti dai
marchi notori a cui si fa riferimento. In genere, si conviene che
occorre analizzare gli annunci ed i messaggi pubblicitari in fun-
zione del significato che trasmettono ad un consumatore medio
normalmente informato e ragionevolmente attento e perspica-
ce (28). Ed è inconfutabile che mentre analizza una tabella di equi-
valenza, un consumatore medio normalmente informato e ragio-
nevolmente attento e perspicace, giunge alla conclusione che i pro-
fumi promozionati imitano o replicano gli altri che si contraddi-
stinguono per mezzo dei marchi di prestigio ai quali si vogliono
equiparare (29).

(28) In questo senso, vedi Sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità
Europee, del 16 luglio 1998, Gut Springenheide, disponibile in www.curia.europa.eu.
(29) Anche se non fa parte dello scopo specifico del presente studio (che si cir-
coscrive all’analisi delle tabelle di equivalenza nella la prospettiva del Diritto sui
marchi), occorre rilevare che, per le stesse ragioni esposte nel testo, le tabelle di equi-
valenza andrebbero qualificate come una fattispecie di pubblicità comparativa ille-
cita. Come è ben noto, l’art. 3-bis della Direttiva sulla pubblicità ingannevole e com-
parativa, fissa diversi requisiti per la liceità delle comparazioni pubblicitarie, tra cui
risaltano il divieto di trarre indebitamente vantaggio dalla fama o notorietà connessa
al marchio di un concorrente ed il divieto di presentare un prodotto come imitazione
o contraffazione di altri prodotti protetti da un marchio o da una denominazione
commerciale depositati. Nella misura in cui le tabelle di equivalenza comportano uno
sfruttamento indebito della notorietà altrui, e presentano un prodotto come imita-
zione o contraffazione di un altro contraddistinto da un marchio notorio, disatten-
dono questi due requisiti di liceità e devono pertanto qualificarsi come una fattispe-
cie di pubblicità comparativa illecita. Cosicché, e nella misura che le tabelle di equi-
valenza costituiscono una fattispecie di pubblicità comparativa illecita, non possono
neppure avvalersi del principio generale della liceità del riferimento al marchio di un
concorrente nell’ambito delle comparazioni pubblicitarie.
VINCENZO JANDOLI

UNA NUOVA SPINTA EUROPEA


ALLE CROSS BORDER LITIGATION?
QUESTA VOLTA SI MUOVE IL LEGISLATORE

SOMMARIO: 1. Il Regolamento CE 864/2007 sulla legge applicabile a contenziosi inter-


nazionali in tema di illeciti extra contrattuali. — 2. I presupposti del Regola-
mento CE 864/2007. — 3. La norma generale della giurisdizione e le “giurisdi-
zioni alternative”. — 4. Il problema del foro speciale ex art. 22.4 Regolamento
CE 44/2001. — 5. La portata innovativa del Reg. 864/2007. — 6. Il panorama
italiano. — 7. I criteri di collegamento del Reg. 864/2007. — 8. Ambito della
legge applicabile. — 9. Come potrà applicare il giudice la legge di un altro
Stato. — 10. Il Reg. 864/07 e la spinta verso una cross border litigation. —
11. Considerazioni conclusive.

1. Il Regolamento CE 864/2007 sulla legge applicabile a conten-


ziosi internazionali in tema di illeciti extra contrattuali.

Tra il 1990 e 2006, ci sono state numerose decisioni cross-bor-


der, con l’applicazione della Convenzione di Bruxelles del 27 set-
tembre 1968, sulla competenza giurisdizionale e riconoscimento e
l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale — poi
modificato dal Regolamento CE 44/2001 (1) —. E v infatti consen-
tita la possibilità ad un Giudice di uno Stato membro dell’Unione
Europea di emettere decisioni nei confronti del cittadino domici-
liato nello stesso Stato membro, anche su fatti a questi riconduci-
bili, verificati in altri Stati membri e, ragionevolmente (2), anche
in altri paesi estranei all’Unione Europea (3).

(1) Per comodità di seguito, quando considererò le norme CE sulla compe-


tenza giurisdizionale, citerò unicamente detto regolamento, salvo espresso riferimento
alla Convenzione di Bruxelles. Ma, nel caso di riferimento a Stati non membri, si do-
vrà fare riferimento unicamente alla Convenzione di Bruxelles.
(2) In tal senso, Corte di Giustizia CE 1 marzo 2005 caso Owusu C-281/02, in
Giust. civ., 2005, 10, I, 2287.
(3) A questo principio, contemplato dall’art. 2, sono previste delle deroghe in
tema di illecito extra contrattuale quando vi sono più convenuti residenti o domici-
liati in più Stati membri (in cui è possibile citare tutti i convenuti dinanzi al Giudice

Diritto Industriale - 2008


342 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte I

In applicazione di detti articoli i Tribunali di diversi paesi


dell’Unione Europea, tra cui Olanda, Gran Bretagna, Germania,
Belgio, Francia ed Italia, hanno emesso numerose decisioni sulla
giurisdizione ultra nazionale in tema di violazione di diritti di pri-
vativa industriale (marchi, brevetti, copyright, design e denomi-
nazione di origine).
In tali casi ci sono state diverse interpretazioni, alcune più
restrittive della cross border injunction (tra queste va ricordato
l’orientamento non particolarmente favorevole delle corti inglesi),
altre meno (Corte olandese, belga e tedesca (4)). In Italia ad un
iniziale orientamento favorevole (5), è seguito un ‘revirement’ an-
che causato da un non corretto uso della Italian Torpedo (6).

di uno Stato membro nel cui territorio uno di essi è domiciliato — art. 6.1 —), ovvero
citare il convenuto dinanzi al Giudice dello Stato membro in cui l’illecito extra con-
trattuale si verifica o potrebbe verificarsi (art. 5.3).
(4) Le Corti olandesi hanno iniziato ad emettere questo tipo di decisioni (la
prima decisione è stata emessa dalla Hoge Raad, caso Lincoln v. Interlass, il 24 no-
vembre 1989, BIE 1991, 89).
Le Corti tedesche hanno più volte stabilito che le azioni cross-border sono pos-
sibili. Si veda General Hospital v. Bracco al. WIPO Settembre 1999; altre decisioni
tedesche sono riportate negli annuali delle Corti del 1996, I Kettenbandfoerderer III;
1998, 92 Schussfadenfgreifer; Corte di Appello di Düsseldorf, GRUR Int 2000, 776,
777 - Impfstoff; Düsseldorf District Court, InstGE 3, 8 13.
Per la Francia, si veda Eurosensory v. Tieman, 28 gennaio 1994; anche se vi
sono decisioni contrarie: per tutte Corte di Appello Parigi, 16 febbraio 2007 (SCS/
Tekstil).
Per il Belgio, si veda la sentenza del 14 settembre 2001, confermata in Appello,
sia pur se il Tribunale di primo grado di Bruxelles ha concesso il provvedimento cau-
telare cross-border, prevedendo però che l’efficacia sarebbe cessata quando la Corte
competente ex art. 22.4, avrebbe dichiarato il brevetto locale invalido; favorevole alla
cross border, la Corte di Appello di Bruxelles, 15 giugno 2004, in Journal of Intellec-
tual Property Law and Practise, 2005, vol. 1, n. 1.
(5) Tribunale di Bolzano, ordinanza del 22 aprile 1998 in Giurisprudenza Ita-
liana, 1999, fasc. V, p. 1016 nonché Tribunale Torino 19 maggio 2000 in Gadi 4224; e
Tribunale di Brescia in “Italian Torpedo”, 31, IIC 783; 2000.
(6) Il fenomeno da molti noto quale Italian Torpedo (FRANZOSI, “World Wide
Patent Litigation and the Italian Torpedo”, in 7, EIPR, 382 (1997), e “Torpedo are here
to stay”, in IIC, 154 — 2002 — e JANDOLI, “The Italian Torpedo”, in questa Rivista,
2000, II, 236), ha determinato in Italia un incremento di contenziosi in materia di di-
ritto industriale di accertamento negativo di contraffazione con efficacia ultranazio-
nale. Ciò ha comportato una duplice reazione. Da un lato molti giudici italiani hanno
negato sotto diversi profili la giurisdizione ex art. 5.3 a pronunciarsi su casi di non
contraffazione di privativa industriale (per tutte si veda la decisione della Corte di
Cassazione 19 dicembre 2003 n. 19550 in Dir. ind., 2004, p. 429; ma sulla discutibile
applicazione di detta decisione alle fattispecie soggette al regolamento 44/2001 si veda
FRANZOSI in “Italian Torpedo: perché un cavallo bianco non è un cavallo”; in Dir. ind.,
2004, p. 429); dall’altro la critica alla lentezza dei procedimenti italiani è stata uno
stimolo, in qualche modo, ad accelerare i giudizi. Accelerazione agevolata anche gra-
zie alla riforma del Codice di Procedura Civile (legge 28 dicembre 2005 n. 263 e legge
23 febbraio 2006 n. 51), divenuta efficace il 1 marzo 2006, in cui si è previsto che “Il
Governo è delegato ad adottare [...] uno o più decreti legislativi diretti ad assicurare una
I. - Articoli - Saggi - Studi 343

Tuttavia, si può affermare che nel complesso in Europa le


cross-border litigation sono state ritenute ammissibili. Ciò quanto-
meno fino al 13 luglio 2006, quando la Corte di Giustizia ha
emesso la decisione Roche/Primus (7) relativa ad un contenzioso
in materia brevettuale. La Corte di Giustizia ha affermato che
ogni Giudice ha una propria e inderogabile competenza territo-
riale sulla valutazione della contraffazione delle singole porzioni
locali di un brevetto europeo. Questa decisione ha avuto un effetto
quasi di paralisi dei vari contenziosi europei ad efficacia ultra na-
zionale. V’è da dire che detta decisione non può essere conside-
rata, come molti hanno scritto, un diniego alle cross-border litiga-
tion per se, ma riduce la possibilità ad intraprenderle ex art.
6.1 (8).
Ev apparso allora particolarmente peculiare, probabilmente
una coincidenza, che il legislatore comunitario sia intervenuto su-
bito dopo con il Reg. 864/2007, nel quale ha previsto la possibilità
da parte del singolo Giudice di uno Stato membro di applicare le
leggi di altri Stati in relazione a contenziosi “internazionali”, in
questo modo presupponendo che il Giudice adito abbia la possibi-
lità di emettere decisioni che producano effetti in altri Stati. Il
Reg. 864/2007 riguarda la legge applicabile alle obbligazioni extra
contrattuali ed entrerà in vigore a decorrere dall’11 gennaio 2009
(cosı̀ art. 32).
Il Reg. 864/2007, in particolare, disciplina anche la viola-
zione di diritti di proprietà industriale (art. 8 (9)). In tal caso il

più rapida ed efficace definizione dei procedimenti giudiziari in materia di marchi na-
zionali e comunitari, brevetti d’invenzione e per nuove varietà vegetali, modelli di utilità,
disegni e modelli e diritto d’autore nonché di fattispecie di concorrenza sleale interferenti
con la tutela della proprietà industriale e intellettuale [...]” (l. 12 dicembre 2002, n. 273,
“Misure per favorire l’iniziativa privata e lo sviluppo della concorrenza”, art. 16, comma
1).
(7) Sentenza 13 luglio 2006, causa C-539/03, in Guida al diritto, 2006, 32, 115,
nota LEANDRO.
(8) In tal senso si veda Tribunale di Milano, 26 marzo 2007 n. 3753, per cui
“le frazioni nazionali di un brevetto europeo sono autonome — art. 64, commi 1 e 3 C.B.E
—: e dunque non vi sarebbe la violazione di uno stesso diritto che determini un collega-
mento di domande cosı̀ stretto ed effettivo da esigere una trattazione e una decisione unica,
per evitare il rischio di decisioni separate incompatibili — art. 6.1 Reg. e Convenzione”.
Nello stesso senso Tribunale di Milano, 29 novembre 2007 n. 13532 e Corte di Appello
Milano, Optigen v. Marchon Eyewear Inc. e Eschenbach Optic GmbH, n. 629/04 del 2
marzo 2004.
(9) Art. 8: “1. La legge applicabile all’obbligazione extracontrattuale che deriva
da una violazione di un diritto di proprietà intellettuale è quella del paese per il quale la
protezione è chiesta.
2. In caso di obbligazione extracontrattuale che deriva da una violazione di un di-
ritto di proprietà intellettuale comunitaria a carattere unitario, la legge applicabile è
344 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte I

tribunale di uno Stato membro è chiamato ad applicare la legge


del luogo in cui il brevetto o il marchio locale è stato violato. E v
evidente che detto regolamento non ha ad oggetto la Giurisdi-
zione, ma solo la legge applicabile e che presupposto per l’applica-
zione dello stesso regolamento è che il Giudice abbia giurisdizione
nella fattispecie prospettata. Tuttavia il fatto stesso che il legisla-
tore comunitario abbia disciplinato l’ipotesi che il Giudice possa
(anzi, debba) conoscere della contraffazione di marchi o brevetti
effettuata all’estero, applicando la legge di altri stati, è una spinta
inevitabile per il proseguimento delle controversie in materia di
diritto industriale con efficacia ultranazionale. Soprattutto è evi-
dente l’evoluzione del sistema legislativo comunitario a favorire la
decisione, in un unico processo, di fattispecie eventualmente veri-
ficate in più Paesi europei (10). Si vogliono forse evitare decisioni
difformi, relative a una stessa fattispecie, come avvenuto nel caso
Epilady (11). Né si venga a dire che il Reg. 864/2007 riguarda solo
quelle privative industriali cosiddette europee (marchi comunitari
e modelli comunitari). Queste privative “europee” sono espressa-
mente disciplinate dall’art. 8.2 (riportato sopra in nota 9) che ri-
guarda, appunto, i diritti di proprietà intellettuale e comunitaria
a carattere unitario. Mentre l’8.1 e l’8.3, quando citano diritti di
proprietà intellettuale, fanno riferimento ad altre privative indu-
striali (tra queste le cosiddette porzioni locali/nazionali dei bre-
vetti europei) (12). D’altro canto vi è già chi è convinto che la cross
border litigation sia del tutto compatibile anche con l’art. 6.1 del
Reg. 44/2001 (in tal senso sembra essere la Hoge Raad 30 novem-
bre 2007, Roche vs. Primus, come riportato nella sentenza della
Corte di Appello di Londra del 6 febbraio 2008 (in nota 20), in

quella del paese in cui è stata commessa la violazione per le questioni non disciplinate dal
relativo strumento comunitario.
3. Non si può derogare alla legge applicabile in virtù del presente articolo con un
accordo ai sensi dell’articolo 14.”
(10) Ciò traspare dai considerant nn. 1,6 e 7 del Reg. 864/07.
(11) Cf., e.g. Epilady VII [1993] G.R.U.R. at 242 (Int.); Epilady XII [1993]
G.R.U.R. at 252 (Int.); Epilady U.K. [1990] 21App. Cas. At 561 (I.I.C.). Si vedano in
Expandable Grafts Partneship v. Boston Scientific B.V. [1999] F.S.R. 352, 358 (No.
18 s.). Vedi anche J. STRAUS, “Patent Litigation in Europe-A Glimmer of Hope? Present
Status and Future Perspectives”, in http://law.wustl.edu/journal/2/p403straus.pdf.
(12) E del resto l’applicazione della legge nazionale — anche di altri Stati —
da parte di un Giudice dello Stato membro in un contenzioso relativo a un marchio
comunitario è già contemplata nel Regolamento 40/94 sul marchio comunitario al-
l’art. 97, se il convenuto è citato ex art. 39 Io per atti posti in essere anche al di fuori
di quello Stato membro adibito.
Per i modelli si vedano gli artt. 79-82 del Reg. CE 6/2001.
I. - Articoli - Saggi - Studi 345

qualche modo critica nei confronti della decisione della Corte di


Giustizia sopraccitata 13 luglio 2006).

2. I presupposti del Regolamento CE 864/2007.

Nelle premesse del Regolamento 864/2007 si legge che l’obiet-


tivo del legislatore è l’attuazione del programma dell’Aja adottato
dal Consiglio Europeo del 15 novembre 2004 ed essere coerente
con il Reg. 44/2001, sulla giurisdizione dei Giudici negli Stati
membri (Considerant VII) (13).
Il Giudice di uno Stato membro applica la legge di un altro
Stato membro se ha giurisdizione a conoscere sul caso che gli è
stato presentato. Vista quindi la stretta connessione del Reg. 864/
2007 al Reg. 44/2001 è necessario, per comprendere l’operatività e
soprattutto l’impatto innovativo del primo, descrivere sia pur bre-
vemente gli articoli del Reg. 44/2001 più dibattuti in tema di cross
border litigation.
Il legislatore comunitario vuole evitare l’esercizio disinvolto
del forum shopping. Se è vero che, alternativamente al foro gene-
rale del convenuto (art. 2 Reg. 44/2001) l’attore può citare in giu-
dizio una parte davanti a più tribunali attraverso i fori alternativi
di competenza speciale contemplati dagli art. 5.3 (foro dell’ille-
cito) e 6.1 (foro di uno dei convenuti), è pur vero che principio es-
senziale alla base del Reg. 44/2001 è la certezza del diritto (giu-
dice naturale) e dunque che le norme sulla giurisdizione debbano
presentare un alto grado di prevedibilità (cosı̀ considerant 11 del
Reg. 44/2001). Per questo motivo in più occasioni la Corte di Giu-
stizia ha osservato che i fori di competenza speciale, alternativi
all’art. 2, sono di stretta interpretazione (cosı̀ Corte di Giustizia
nelle sentenze 13 luglio 2006, C-103, in Guida al diritto, 2006, 37,
108). Vi deve essere, in altre parole, il contemperamento e soddi-
sfacimento di un duplice e diverso interesse ed esigenza: quella
dell’attore di poter identificare facilmente il Giudice da adire e
quella del convenuto di prevedere ragionevolmente il Giudice di-

(13) Il programma dell’Aja adottato dal Consiglio Europeo del 5 novembre


2004, al punto 3.4.2 prevede espressamente il reciproco riconoscimento delle decisioni
o mezzi efficacia per tutelare i diritti dei cittadini a garantirne l’esercizio attraverso
le frontiere europee. La prosecuzione dell’attuazione del programma di misure sul re-
ciproco riconoscimento deve essere una priorità fondamentale dei prossimi anni per
garantirne il completamento entro il 2011. I lavori sui progetti illustrati dovranno es-
sere proseguiti attivamente ed il conflitto di legge in relazione alle obbligazioni extra-
contrattuali sarà risolto con il progetto Roma II (cosı̀ in Gazzetta Ufficiale del-
l’Unione Europea C-53/133, 2005).
346 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte I

nanzi al quale possa essere citato (14). Sulla base di questi due
principi dovranno essere applicati detti articoli frequentemente
invocati per fondare la giurisdizione ‘cross border’ in materia di di-
ritto industriale: l’art. 2 (il foro generale) e gli art. 5.3 e 6.1 (fori
alternativi).

3. La norma generale della giurisdizione e le “giurisdizioni alter-


native”.
L’attore può citare in giudizio il preteso contraffattore da-
vanti al Giudice dello Stato membro in cui il secondo risiede o ha
domicilio. Pertanto il Giudice del luogo in cui è domiciliato l’au-
tore della condotta asseritamente illecita avrà la competenza a
conoscere dell’illiceità della condotta ovunque si sia verificata e
dell’integrale danno cagionato dall’atto illecito accertato, anche al
di fuori di quello Stato (15). Né è rilevante il fatto che l’attore sia
domiciliato o risieda in un paese extra UE ovvero che il fatto con-
testato si sia verificato in un territorio estraneo all’UE (in tal
senso Corte di Giustizia 1 marzo 2005 caso Owusu, citato in nota
2). Va, peraltro, osservato che secondo il diritto italiano, proprio in
relazione al domicilio del convenuto, non può essere considerato
tale ai fini dell’art. 2 Reg. 44/2001 l’elezione di domicilio effet-
tuata in occasione del deposito di una porzione nazionale di un
brevetto europeo (16).
Ai sensi dell’art. 2, pertanto, non sembra che possano esservi
problemi da parte del Giudice a riconoscere la propria giurisdi-
zione relativamente a contraffazioni verificatesi in altri Stati an-
che extra UE. Per il vero potrebbero porsi dei limiti laddove ve-
nissero sollevate delle domande — o eccezioni — di nullità (17), ma
di questo tratterò nel paragrafo successivo.

(14) Corte di Giustizia CE 10 giugno 2004, C-168/02, in Dir. comunitario e


scambi internaz., 2004, 769.
(15) Cosı̀ Corte di Giustizia CE (caso Mines de Potasse de Alsace) 30 novem-
bre 1976, in Racc. p. 1735 C 21/76; Corte di Giustizia CE, sentenza 30 novembre 1976,
causa C-21/76, Handelverkerij G.J. Bier c. Mines de Potasse d’Alsace, in Foro it.,
1977, IV, 49, con nota di TIZZANO e Corte di Giustizia CE (caso Fiona Shevill), 7 marzo
1995, C-68/93.
(16) In tal senso Tribunale Milano, 24 gennaio 2004, sentenza 1116/04 del 24
gennaio 2004, Clondiag Chip Technologies GmbH / Eppendorf Array Technologies
S.A. (inedita); In senso conforme Corte di Cassazione, Sez. Un., 8 agosto 1989, n.
3657, in Giust. civ. Mass., 1989, fasc. 8-9; Corte di Appello Milano, 2 marzo 2004 in
Dir. ind., 2004, 431, nota FRANZOSI.
(17) In tal senso si veda Cottier Veron, p. 276, Commentario Regolamento 44/
2001, 2007, “International and European IP Law Trips, Paris Convention, European
Enforcement and Transfer of Technology”, Kluwer Law International, 2008.
I. - Articoli - Saggi - Studi 347

Per l’art. 5.3 è competente anche il Giudice dello Stato mem-


bro all’interno del quale l’evento dannoso è avvenuto o può avve-
nire. L’applicazione di tale articolo è stata molto dibattuta in
passato anche per la sua speculare applicazione nelle Torpedo, ma
di questo già si è detto sopra nella nota 6, e il presente articolo
non vuole trattare detto aspetto. Del resto, l’art. 5.3 non ha par-
ticolare rilevanza in relazione alla portata innovativa della legge
applicabile con il Reg. 864/2007: il Giudice adito, nel cui territo-
rio si è verificato l’evento illecito, non farebbe altro che applicare
la legge del proprio Stato.
L’altro foro alternativo è contemplato dall’art. 6.1 per cui,
quando vi sono più convenuti, il Giudice del domicilio di ognuno
di loro ha giurisdizione nei confronti di tutti i convenuti. Apparen-
temente vi è una notevole possibilità di forum shopping, limitata
però dal fatto che è necessario che le domande siano strettamente
collegate tra loro, come espressamente prevede il nuovo art. 6.1
del Reg. 44/2001 (a parziale modifica del precedente art. 6.1. Con-
venzione di Bruxelles (18)). In particolare è richiesto “in più” un
“nesso cosı̀ stretto da rendere opportuna una trattazione unica ed
evitare, in caso di trattazione separata, di giungere a decisioni in-
compatibili”. La Corte di Giustizia ha escluso l’applicazione di
detto articolo in casi di contraffazione brevettuale, poiché non vi
sarebbe una stessa situazione di diritto (cosı̀ Corte di Giustizia,
Caso Roche vs. Primus 13 luglio 2006 n. 539 C-539/03). La Corte,
infatti, ha affermato che “qualora più Giudici di Stati contraenti
differenti vengono aditi con azioni per contraffazione di un brevetto
europeo rilasciato in ognuno degli Stati medesimi, relativamente alle
azioni avviate nei confronti di convenuti domiciliati negli Stati stessi
per pretesi fatti commessi sui rispettivi territori, le eventuali diver-
genze tra le decisioni pronunciate dai Giudici interessati non si col-
locherebbero nel contesto di una stessa situazione di diritto. Infatti
eventuali decisioni divergenti non possono essere qualificate come
contraddittorie” (cosı̀ punti 31 e 32, Corte di Giustizia CE 13 luglio
2006). Pertanto, secondo la Corte di Giustizia, non sarebbe suffi-
ciente l’identità delle singole situazioni di fatto (ad esempio la

(18) La Convenzione di Bruxelles all’art. 6.1 prevedeva che: “Il convenuto po-
trà inoltre essere citato:
1) in caso di pluralità di convenuti, davanti al giudice nella cui circoscrizione è si-
tuato il domicilio di uno di essi”. Poi con il Reg. 44/2001 all’art. 6.1 si è previsto che
“La persona di cui all’articolo precedente può inoltre essere convenuta: 1) in caso di plu-
ralità di convenuti, davanti al giudice del luogo in cui uno qualsiasi di essi è domiciliato,
sempre che tra le domande esista un nesso cosı̀ stretto da rendere opportuna una trattazione
unica ed una decisione unica onde evitare il rischio, sussistente in caso di trattazione se-
parata, di giungere a decisioni incompatibili...”.
348 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte I

contestazione di contraffazione di uno stesso prodotto): “ai sensi


dell’art. 64 n. 3 della Convenzione di Monaco sul brevetto europeo,
ogni contraffazione di un brevetto europeo deve essere esaminata
alla luce della normativa nazionale vigente in materia, in ognuno
dei singoli Stati per i quali il brevetto è stato rilasciato” (cosı̀
punto 30, C.G.E. 13 giugno 2006). Per il vero la nuova possibilità
riconosciuta al Giudice di uno Stato membro di applicare le leggi
di più Stati dovrebbe consentire di superare il limite della ‘situa-
zione di diritto’. Cosı̀ potrebbe trovare più facile e armoniosa ap-
plicazione dell’art. 6.1, come dirò in seguito nel paragrafo 5.
Per alcuni la portata limitativa della cross-border litigation
data dalla Corte di Giustizia nella sentenza 13 luglio 2006, po-
trebbe essere attenuata laddove si dimostri che in caso di più con-
venuti, la parte che ha domicilio nello Stato dinanzi al quale è
stato radicato il giudizio sia non soltanto lo ‘spider in the
web’ (19), ma abbia realmente svolto atti illeciti anche all’interno
dei singoli Stati in cui hanno sede gli altri convenuti (20). Ciò forse
è discutibile considerando che la Corte di Giustizia, nella sentenza
sopra citata, ha espressamente previsto che anche se ci si trovasse
di fronte ad una stessa situazione di fatto, tuttavia la situazione
di diritto determinata dall’applicazione di una legge diversa con-
templerebbe inevitabilmente una diversa fattispecie giuridica e
quindi, in quanto tale, non strettamente connessa come richiesto
dall’art. 6.1 (punti 34 e 35 della Corte di Giustizia CE 13 luglio
2006).

4. Il problema del foro speciale ex art. 22.4 Regolamento Ce 44/


2001.

Cosa accade se il convenuto svolge domanda — o eccezione —


riconvenzionale di nullità del diritto di proprietà intellettuale
azionato? E v questo un problema che ha da tempo sollevato criti-
camente la High Court di Londra in tema di cross border litiga-
tion (21), osservando che, essendovi il limite dell’art. 22.4 Reg. 44/
2001 — secondo il quale il Giudice nel cui territorio sono stati ri-

(19) Definizione creata in Olanda (per tutte Hoge Raad, caso Roche Vs. Pri-
mus, 19 dicembre 2003).
(20) In tal senso Cottier Veron in opera citata a p. 282. Analogamente, del re-
sto, anche la Corte di Appello di Londra (Caso Research in Motion UK vs. Visto Cor-
poration, 6 marzo 2008) ha affermato che un contenzioso in materia brevettuale con
efficacia cross-border è possibile ai sensi dell’art. 6.1.
(21) High Court, Fort Dodge vs. Akzo Nobel (1997) CHPCI 97/1395/B.
I. - Articoli - Saggi - Studi 349

chiesti il deposito o la registrazione della privativa industriale, ha


competenza esclusiva a pronunciarsi sulla validità della stessa —,
il Giudice di uno Stato non può pronunciarsi sulla contraffazione di
una privativa non locale, poiché l’accertamento di contraffazione
spesso non prescinde da un accertamento sulla validità del titolo.
La Corte di Giustizia, con sentenza del 13 luglio 2006 (caso
GAT vs. LuK), C-4/03, ha confermato che la competenza esclusiva
in tema di nullità di una privativa industriale riguarda sia l’ipo-
tesi in cui la domanda di nullità venga svolta in via principale, sia
l’ipotesi in cui la nullità venga sollevata quale mera eccezione. In
entrambi i casi vi è competenza esclusiva del Giudice del luogo in
cui detta privativa è stata domandata o registrata (22). Ne conse-
gue che da un lato il Giudice adito non può pronunciarsi in que-
sti casi sulla validità di una privativa di altro Stato. Dall’altro, se
viene svolta una domanda o eccezione di nullità su detta priva-
tiva, il Giudice seguirà le proprie locali regole processuali e,
quindi, dovrà decidere se sospendere o meno il giudizio (si veda in
seguito nel paragrafo 11).

5. La portata innovativa del Reg. 864/2007.

Il Giudice, dunque, dello Stato membro presso il quale la


giurisdizione sussiste ex art. 2, Reg. 44/2001, ha competenza illi-
mitata a pronunciarsi su contraffazioni verificatesi in altri Stati
membri e ragionevolmente anche in Stati extra UE (con esclu-
sione delle domande o eccezioni di nullità eventualmente svolte
dal convenuto).
Se la giurisdizione sussiste ex art. 5.3, Reg. 44/2001, come
abbiamo detto, non si pongono profili di applicazione di legge di
altro Stato.
Se il Giudice è adito ex art. 6.1, Reg. 44/2001, sussiste il
limite sopra indicato dalla sentenza Corte di Giustizia CE del 13
luglio 2006. Riteniamo, per il vero, che il limite in qualche modo
posto dalla Corte — per cui in cause brevettuali, essendo le por-
zioni nazionali pur derivanti da uno stesso brevetto europeo bre-

(22) Nello stesso senso Tribunale di Milano, 10 dicembre 2007 sopra citata,
secondo cui “Nella fattispecie, ove alla domanda di accertamento della non contraffazione
si accompagna la contestazione della validità del brevetto, è dunque richiesto, se pur in via
incidentale, un previo accertamento della validità del brevetto in questione, sicché la giu-
risdizione a conoscere della non contraffazione di ogni singola frazione del brevetto euro-
peo non può che essere attribuita in via esclusiva al giudice nazionale ex art. 22 reg.cit.
e il relativo difetto è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo”.
350 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte I

vetti diversi, vi sarebbero ‘differenti situazioni giuridiche’ e dunque


non vi sarebbe l’opportunità di un unico giudizio — potrebbe es-
sere fortemente ridimensionato dal nuovo Reg. 864/2007 che con-
sentirebbe, ad un solo Giudice di applicare più leggi locali e ciò al
fine anche di evitare decisioni, se non incompatibili, quantomeno
tra loro contraddittorie, tali per cui uno stesso prodotto potrebbe
essere considerato contraffattorio di uno stesso brevetto ‘validato’
in più Stati.
Se è vero che dette ‘validazioni’ non possono che avere le
stesse rivendicazioni (cosı̀ C.B.E., art. 65) è pur vero che lo stesso
ambito di interpretazione del brevetto individuato dalla CBE ex
art. 69 può essere valutato diversamente a secondo del singolo
Stato europeo in cui è applicabile (23). Allo stesso modo il giudizio
di contraffazione è disciplinato dalla legge locale (art. 64.3 CBE).
Ma queste considerazioni non possono essere considerate validi
presupposti perché si possa parlare di diritti/titoli diversi, soprat-
tutto in considerazione del nuovo impulso dato dal legislatore eu-
ropeo con il Reg. 864/2007, come argomenterò di seguito.
E
v pacifico che la giurisdizione ultranazionale è incontestabile
laddove la contraffazione sia stata svolta all’estero dal convenuto
adito ex art. 2 Reg. 44/2001. L’art. 8 Reg. 864/2007 implica, o co-
munque presuppone, che il Giudice possa pronunciarsi sulla con-
traffazione del brevetto effettuata anche all’estero. Quindi è evi-
dente che il Giudice debba conoscere della contraffazione verifica-
tasi in più Stati applicando la legge di detti Stati. Quindi, in tal
caso il Giudice potrà conoscere ‘differenti situazioni giuridiche’
(come afferma la C.G.E. in Roche vs. Primus), e ciò proprio al fine
di evitare possibili giudicati conflittuali, come previsto dal legisla-
tore comunitario. Perché mai allora dovrebbe essere diverso se la
stessa contraffazione venisse svolta, ad esempio, dall’altro locale
distributore convenuto ex art. 6.1? Un esempio forse potrà chiarire
il tutto. Un’azienda italiana produce un binocolo in Italia e lo di-
stribuisce in Francia. Ev citata dinanzi al Giudice italiano poiché il
binocolo interferirebbe con un brevetto europeo ‘validato’ in Ita-
lia e Francia. Il Giudice italiano dovrà applicare la legge francese
per verificare l’interferenza del binocolo con la porzione francese
(ex art. 8 (24)). Poniamo che il tribunale italiano pronunci la con-

(23) In tal senso si veda Pagenbergh Cornish Interpretation of Patents in Eu-


rope (Heymanns 2006, p. 4 e ss.).
(24) Al riguardo potrebbe essere contestato che l’art. 15 del Reg. 864/2007
prevede l’applicazione della legge locale sui danni o misure cautelari non per indivi-
duare l’ambito di protezione del diritto leso e la sua eventuale violazione. Si potrebbe
I. - Articoli - Saggi - Studi 351

traffazione del brevetto francese. Cosa accade se il giudice fran-


cese successivamente adito dal distributore francese del binocolo
dichiara la non contraffazione del binocolo relativamente allo
stesso brevetto? Ci si troverebbe, dunque, dinanzi a decisioni con-
traddittorie e incompatibili. Pertanto è evidente che l’art. 6.1 deve
trovare applicazione alle cause di diritto industriale proprio a se-
guito della entrata in vigore del Reg. 864/2007, che cosı̀ potrebbe,
inevitabilmente, avvicinare le legislazione nazionali e prevenire gli
effetti dannosi di decisioni contraddittorie.
Il Reg. 864/2007 ha dunque una portata fortemente innova-
tiva, per due caratteristiche essenziali:
a) si pone come una sorta di legge quadro che uniforme-
mente in tutta Europa consente ai Giudici dei vari Stati membri
di applicare, con gli stessi criteri di collegamento, la legge di più
Stati membri — e non solo — ad uno stesso fatto;
b) impone a tutti i giudici degli Stati membri anche di appli-
care la legge di altro Stato non necessariamente membro (25). Per-
tanto, qualora l’evento illecito si sia verificato in un paese extra
UE, il Giudice adito dello Stato membro dovrà applicare la legge
di quello Stato in cui si è verificato detto illecito. Ciò è difficil-
mente attuabile in altri paesi extra UE: infatti negli Stati Uniti,
ad esempio, i Giudici hanno sempre considerato con forte perples-
sità di avere giurisdizione su casi verificati in territorio extra USA.
Ad esempio la Corte Suprema, in più occasioni ha affermato di
non avere giurisdizione su contraffazione di brevetti britannici
(cosı̀ United Mine Workers of Am. V. Gibbs, 383/US 715,725/1976,
13B Wright Miller, Cooper and Freer, Federal Practice and Proce-
dure — par. 3567.1 at n. 42; in particolare Stein Associates Inc. v.
Heat and Control Inc. 748 F.2.d, 653, 658 (Fed. Cir. 1984) “only a
British Court applying British Law, can determine validity and
infringement of British patents”; nello stesso senso la recente de-
cisione della Corte di Appello, Voda contro Cordis, 1 febbraio 2007,
in United States Court of Appeals for the Federal Circuits).

6. Il panorama italiano.

Rispetto alla portata innovativa del Reg. 864/2007 è prevedi-

rispondere che logica vuole che il giudice per conoscere dei danni possa anche cono-
scere della fattispecie illecita. In ogni caso il Giudice italiano è tenuto ad applicare la
legge del paese in cui si è verificato l’evento illecito ex art. 62 l. 218/1995.
(25) Art. 3 — “carattere universale: la legge designata dal presente Regola-
mento si applica anche ove non sia quella di uno Stato membro”.
352 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte I

bile che vi sia chi obietti che la situazione, per quanto riguarda
l’ordinamento italiano, non sia mutata in quanto l’attuale legge 31
maggio 1995 n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto inter-
nazionale privato) prevede già che il Giudice Italiano debba appli-
care il diritto di altro Stato in presenza di particolari criteri di
collegamento. Non è esattamente cosı̀. In Italia la l. 31 maggio
1995 n. 218 ha parzialmente abrogato la Disposizione sulla legge
in generale (note quali pre-leggi). In tema di responsabilità extra-
contrattuale l’art. 25 delle preleggi prevedeva al II comma che le
obbligazioni non contrattuali sono regolate dalla legge del luogo
ove è avvenuto il fatto dal quale esse derivano. In applicazione di
questa norma vi era il principio secondo cui qualora una parte
avesse invocato a proprio favore l’applicazione di una legge stra-
niera, deducendone la diversità rispetto a quella italiana, ‘la
stessa, tuttavia avrebbe dovuto provvedere ad indicare quale sia e at-
tivarsi per fornire tutta la documentazione in modo da porre il Giu-
dice in grado di formare il proprio convincimento in ordine all’ap-
plicazione della diversa disciplina’ (cosı̀ Cassazione Civile 29 marzo
2006 n. 7250, in Giustizia civile Massimario 2006, 3). Ciò compor-
tava che qualora la parte, pur invocando l’applicazione della legge
straniera, non avesse prodotto documentazione sufficiente e ido-
nea a consentire al Giudice di applicarla, il Giudice avrebbe po-
tuto far riferimento alla legge italiana. Al contrario con l. 31 mag-
gio 1995 n. 218 l’art. 14, ha stabilito che l’accertamento della
legge straniera venga compiuto d’ufficio dal Giudice. A tal fine
questi può avvalersi oltre che degli strumenti indicati dalle con-
venzioni internazionali, di informazioni acquisite per il tramite del
Ministero di Grazia e Giustizia ovvero interpellare esperti e istitu-
zioni specializzate. Quindi, vi è stato uno sforzo notevole del legi-
slatore italiano ad indurre il giudicante ad applicare la legge stra-
niera, anche in caso di inerzia delle parti. Si ricorda il caso di
un’obbligazione extracontrattuale sorta in Camerun in cui il Giu-
dice ha applicato la legge camerunense, utilizzando il testo tra-
dotto in italiano di un estratto della legge camerunense prove-
niente dall’Ambasciata italiana di quel paese (procedimento rite-
nuto corretto dalla Cassazione Civile nella sentenza 26 febbraio
2002 n. 2791 in Giurisprudenza Italiana 2003, 479).
Tuttavia ribadiamo che l’impatto fortemente innovativo del
Reg. 864/2007 è ben diverso. Si è voluto applicare nello stesso
tempo e con le stesse modalità in tutti gli Stati UE il principio per
cui, in presenza di certe condizioni di extraterritorialità (sopra in-
dicate), il Giudice di un paese membro è obbligato ad applicare la
legge di altri stati anche extra CE. E v una precisa volontà del legi-
I. - Articoli - Saggi - Studi 353

slatore europeo a fornire ai Giudici degli strumenti che consentano


di giudicare fatti verificatisi all’estero, senza dover per questo ri-
nunciare alla propria giurisdizione e dunque anche con tempi più
rapidi: l’obiettivo è la maggiore efficienza del processo. Inoltre il
secondo comma dell’art. 14 (l. 218/1995) prevede la possibilità
“qualora il Giudice non riesca ad accertare la legge straniera indi-
cata neanche con l’aiuto delle parti di applicare la legge richia-
mata mediante altri criteri di collegamento eventualmente previ-
sti per la medesima ipotesi normativa. In mancanza si applica la
legge italiana”. Ma detta ipotesi non viene contemplata nel Reg.
864/2007.

7. I criteri di collegamento del Reg. 864/2007.

L’art. 4 del Reg. 864/2007 (26) è la norma generale di collega-


mento. Prevede che la legge applicabile è quella del Paese in cui il
danno si verifica.
Tale criterio di collegamento, in qualche modo, richiama
l’art. 5.3. del Reg. 44/2001 (che fa riferimento al territorio in cui
è avvenuto o può avvenire l’evento dannoso). Per capire qual è ‘il
luogo in cui si verifica il danno’ è utile ricorrere alle diverse inter-
pretazioni della Corte su cosa si debba considerare per “luogo in
cui l’evento dannoso si è verificato”. Certamente non è il luogo in
cui la parte lesa sostiene di aver patito il pregiudizio patrimoniale
presso la propria sede, in conseguenza di un danno iniziale verifi-
catosi e da essa subito in altro Stato contraente (cosı̀ Corte di
Giustizia, 19 settembre 1995 n. 364 C-364/93, caso Marinari (27)).

(26) Art. 4: “1. Salvo se diversamente previsto nel presente regolamento, la legge
applicabile alle obbligazioni extracontrattuali che derivano da un fatto illecito è quella del
paese in cui il danno si verifica, indipendentemente dal paese nel quale è avvenuto il fatto
che ha dato origine al danno e a prescindere dal paese o dai paesi in cui si verificano le
conseguenze indirette di tale fatto.
2. Tuttavia, qualora il presunto responsabile e la parte lesa risiedano abitualmente
nello stesso paese nel momento in cui il danno si verifica, si applica la legge di tale paese.
3. Se dal complesso delle circostanze del caso risulta chiaramente che il fatto illecito
presenta collegamenti manifestamente più stretti con un paese diverso da quello di cui ai
paragrafi 1 o 2, si applica la legge di quest’altro paese. Un collegamento manifestamente
più stretto con un altro paese potrebbe fondarsi segnatamente su una relazione preesistente
tra le parti, quale un contratto, che presenti uno stretto collegamento con il fatto illecito in
questione”.
(27) Nello stesso senso Cassazione Civile, Sezione Unite, 11 febbraio 2003 n.
2060, in Foro it., 2004, I, 1516; Cassazione Civile 5 maggio 2006 n. 10312, in Foro it.,
2006, 12, 3388, nota PORRECA e Cassazione Civile, Sezione Unite, 13 dicembre 2005 n.
27403, in Giust. civ. Mass., 2005, 12.
354 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte I

Si è anche affermato che il luogo in cui si è manifestato il danno


è il luogo in cui il fatto generatore, che fa sorgere la responsabilità
da delitto o quasi delitto del suo autore, ha prodotto i suoi effetti
dannosi nei confronti della vittima: nel caso di diffamazione inter-
nazionale a mezzo stampa, la lesione alla reputazione all’onore si
manifesta nei luoghi in cui la pubblicazione viene diffusa (cosı̀
Corte di Giustizia 7 marzo 1995 C-68/93, caso Fiona Shevill). Tut-
tavia nell’art. 4 Reg. 864/2007 da un lato è stato escluso che si
debba applicare la legge in cui il fatto che ha dato origine al danno
si sia manifestato, dall’altro non si deve considerare neppure la
legge del paese in cui si sono verificate le conseguenze indirette di
tale fatto. Ecco allora che né è rilevante il luogo in cui si è mani-
festata l’azione da cui è scaturito l’evento illecito (e quindi, in caso
di contraffazione brevettuale, la produzione del manufatto illecito
potrebbe essere considerata di per sé evento dannoso, ma non i
fatti propedeutici alla produzione, a meno che non costituiscano
autonome fattispecie di illecito), né (anche conformemente alla
decisione della Corte di Giustizia nel caso Fiona Shevill) è appli-
cabile la legge del luogo in cui il danneggiato ha subito la ridu-
zione del patrimonio.
In materia, però, di diritto industriale trova applicazione un
altro criterio di collegamento: si applica la legge del paese in cui è
valido ed efficace il diritto di privativa industriale asseritamene
violato (cosı̀ art. 8.1). Quindi nei confronti di una società italiana
che ha prodotto e commercializzato un determinato manufatto,
diffuso in Germania e Francia, il Giudice italiano (adito ex art. 2,
Reg. 44/2001) potrà pronunciarsi sulla contraffazione della por-
zione italiana, tedesca e francese del brevetto azionato, appli-
cando la legge rispettivamente italiana, tedesca e francese.
Nei casi di concorrenza sleale vi è un altro criterio di collega-
mento: la legge del territorio in cui sono pregiudicati o rischiano
di esserlo i rapporti di concorrenza o gli interessi collettivi dei
consumatori. Qualora vi sia un pregiudizio di un concorrente spe-
cificamente individuato, trova applicazione il principio generale
sopra citato dell’art. 4 (28).

(28) Art. 1. La legge applicabile all’obbligazione extracontrattuale che deriva da


un atto di concorrenza sleale è quella del paese sul cui territorio sono pregiudicati, o ri-
schiano di esserlo, i rapporti di concorrenza o gli interessi collettivi dei consumatori.
2. Qualora un atto di concorrenza sleale leda esclusivamente gli interessi di un dato
concorrente, si applica l’articolo 4. Sul punto cfr. HANDIG, Neues im Internationalen
Wettbewerbsrecht - Auswirkungen der Rom II Verordnung, in GRUR, 2008, 1, 24 e ss.
I. - Articoli - Saggi - Studi 355

8. Ambito della legge applicabile.

Ma su quali aspetti del contenzioso il Giudice dovrà conside-


rare la legge di un altro Stato?
L’art. 15 del Reg. 864/2007 prevede un elenco dettagliato che
comprende: l’individuazione dei soggetti responsabili e di cosa gli
stessi possano essere chiamati a rispondere (in sostanza “an” e
“quantum”); misure cautelari per prevenire o inibire danni ovvero
per fissare le modalità di risarcimento; individuazione dei soggetti
che hanno diritto al risarcimento del danno; modo di estinzione
delle obbligazioni incluse le norme relative alla prescrizione e de-
cadenza.
Se la privativa industriale azionata è un marchio comunita-
rio o modello comunitario, la legge da applicare relativamente al-
l’ambito di protezione, ovvero, per quanto riguarda la contraffa-
zione, sarà rispettivamente il Reg. CE 40/1994 e il Reg. CE n.
6/2002. Mentre sugli aspetti sopra indicati e richiamati dall’art.
15, anche ai modelli e i marchi comunitari si applicherà la legge
nel luogo in cui detti modelli sono stati violati (cosı̀ art. 8.2).

9. Come potrà applicare il giudice la legge di un altro Stato.

La portata innovativa della Convenzione impone una forma


di collaborazione inevitabile tra parti e giudice. E v irragionevole
pensare che qualora venga citato in giudizio il cittadino italiano
dinanzi al giudice italiano per illeciti svolti ad esempio negli Stati
Uniti e in Perù, il Giudice debba ‘studiare’ autonomamente, sia
pur attraverso la collaborazione dei consolati e/o ambasciata di
detti paesi, la legge peruviana e statunitense.
In Italia ci sono stati diversi casi (sia pur non in diritto indu-
striale) di conflitti con efficacia ultranazionale. In particolare il
caso citato in cui l’illecito si è verificato nel Camerun, “ai fini della
conoscenza della legge straniera, il Giudice italiano può avvalersi, ol-
tre che degli strumenti indicati nelle convenzioni internazionali e delle
informazioni acquisite tramite il Ministero della Giustizia, anche di
quelle assunte tramite esperti ed istituzioni specializzate, potendo ri-
correre, onde garantire l’effettività al diritto straniero applicabile a
qualsiasi mezzo anche informale, valorizzando il ruolo attivo delle
parti come strumento utile per la relativa acquisizione” (cosı̀ Cassa-
zione Civile 26 febbraio 2002 n. 2791).
E
v necessario, quindi, che anche in materia di diritto indu-
striale le parti, nell’ipotesi sopra indicata, invocando ad esempio
356 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte I

la legge peruviana ovvero statunitense, debbano, produrre oltre


che le leggi locali anche precedenti giurisprudenziali e dottrinali
su detta legge e, perché no, — certamente se il giudizio riguarda
l’applicazione di legge di uno Stato membro — iniziare a conside-
rare di allargare il collegio di difesa anche alla partecipazione di
colleghi europei (caso YAKULT in European Trademark Report,
1998, p. 465). In caso di inerzia delle parti, però, sarà il Giudice a
doversi avvalere di esperti locali, analogamente a quanto previsto
dal legislatore italiano, come sopra indicato.

10. Il Reg. 864/2007 e la spinta verso una cross border litigation.

Sulla base di quanto sopra esposto è prevedibile che il Reg.


864/2007 troverà applicazione, almeno inizialmente, più facil-
mente in casi in cui il convenuto è citato ex art. 2 Reg. 44/2001,
che nel caso di più convenuti citati ex art. 6.1. Ciò almeno fin-
quando le Corti locali, anche in considerazione della portata inno-
vativa del sopraindicato regolamento, ritengano che il limite posto
dalle decisioni Roche e Luke della CGE non sia più applicabile ai
contenziosi radicati ex art. 6.1 in materia di diritto industriale,
come sopra ho avuto modo di esporre (29).

11. Considerazioni conclusive.

Ci sono state delle perplessità sull’efficacia del sistema giudi-


ziario italiano che non persegua con la dovuta severità le contraf-
fazioni effettuate da alcune aziende locali. Non entro nel merito di
tale reprimenda. Ma se è cosı̀, vi potrebbero essere numerosi casi
in cui inevitabilmente, ai sensi dell’art. 2, molti asseriti contraffat-
tori italiani non potrebbero che essere convenuti in giudizio in
Italia per ottenere nei loro confronti delle decisioni cross-border. Il
giudice italiano, cosı̀, potrà pronunciarsi sull’accertamento della
contraffazione effettuata nei vari paesi in cui il brevetto azionato
è stato validato. Una volta accertata la contraffazione il giudice
potrà condannare il contraffattore a risarcire i danni secondo le
leggi applicabili nei singoli paesi in cui il danno si è verificato.

(29) Per una interpretazione in qualche modo critica delle decisioni 13 luglio
2006 della Corte di Giustizia CE si veda l’art. ‘Exclusive Jurisdiction and cross bor-
der IP (patent) infringement. Suggestions for amendments of the Brussels I Regula-
tion’. Max Planck Institut, 20 dicembre 2006 in http://www.ivir.nl/publications/
eechoud/CLIP–Brussels–%20I.pdf.
I. - Articoli - Saggi - Studi 357

Pertanto, se la contraffazione si è verificata negli Stati Uniti, po-


trebbe essere tenuto anche a considerare di applicare i punitive
damages in caso di contraffazione consapevole (cosı̀ detta wilful
infringement) (30), sia pur nei limiti dell’art. 26 Reg. 864/2007 (31).
Per molte aziende vi sono, però, delle controindicazioni a ra-
dicare la causa in Italia. Una è la lunghezza delle cause in Italia,
un’altra il timore che il Giudice locale possa essere spinto da una
sorta di favor rei, verso le aziende locali. Sul primo aspetto va
detto che la situazione è notevolmente cambiata negli ultimi anni.
Lo scrivente, potrebbe non essere creduto, essendo inevitabil-
mente di parte. Tuttavia diversa credibilità la si potrà indiscutibil-
mente attribuire alla decisione sopra citata della High Court of
Justice di Londra del 6 marzo 2008, secondo cui la situazione pro-
cessuale in Italia sta decisamente migliorando e continua a mi-
gliorare (punto 13 di detta decisione). (32) Sul secondo aspetto ri-
cordo che in diversi casi i tribunali italiani sono stati ritenuti par-
ticolarmente severi nel reprimere certe condotte illecite tenute da
aziende italiane. Ben più di altri tribunali europei. Si consideri la
repressione della produzione e commercializzazione di bottiglie di
whisky dall’apparenza scozzese, mentre nella realtà non lo sono.
Ebbene, questo è un fenomeno che riguarda molti paesi in Europa
e non solo. Tra i paesi ritenuti più severi nel reprimere detti ille-
citi figura l’Italia (33). Forse lo stesso non accade per il risarci-
mento dei danni. Ma in tal caso il giudice dovrà applicare la legge
dove l’illecito si è verificato. Dunque se il legislatore altrove è più
severo, detta “severità” verrà applicata allo stesso modo dal Giu-
dice italiano.
Peraltro, in Italia, in tema di contraffazione brevettuale è
particolarmente interessante l’aspetto della eventuale eccezione di
nullità che possa essere sollevata dall’asserito contraffattore.
La pronuncia resa dalla Corte di Giustizia 13 luglio 2006
(GAT vs. LuK) ha lasciato aperta la questione sulle conseguenze
processuali interne a ciascuno Stato in caso venga sollevata l’ecce-
zione di nullità di un brevetto straniero per la cui contraffazione
si agisce.

(30) Per tutte, Corte di Appello di New York, 5 dicembre 2007.


(31) L’applicazione di una norma di legge di un paese designata dal presente
regolamento può essere esclusa solo qualora tale applicazione risulti manifestamente
incompatibile con l’ordine pubblico del foro.
(32) “Italy was notoriously slow, though it is our understanding that things have
improved since then and are continuing to improve”.
(33) Per tutti si veda le decisioni richiamate ne “La concorrenza sleale in tema
di etichette per prodotti alimentari”; su Il diritto industriale, 1996, p. 199.
358 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte I

E
v possibile che nei Paesi europei si porrà l’alternativa tra la
possibilità che a una tale eccezione consegua l’inammissibilità
della controversia o la sospensione del procedimento (34). Del resto
vi sono Paesi europei in cui, qualora venga sollevata l’eccezione di
nullità dei brevetti o marchi locali, si nega la propria giurisdi-
zione. Poniamo un contenzioso in Gran Bretagna in cui viene con-
testata la contraffazione di un brevetto tedesco; se viene successi-
vamente svolta la domanda di nullità davanti al Bundespatenge-
richt di Monaco, è prevedibile che il Tribunale britannico neghi la
propria giurisdizione o, quantomeno, sospenda il giudizio.
In Italia, episodi corrispondenti si sono verificati in tema di
competenza. In altre parole, una volta svolta la domanda di con-
traffazione di un determinato brevetto, se successivamente il con-
traffattore svolge domanda di nullità davanti ad altro tribunale, il
primo tribunale adito non è tenuto a sospendere il giudizio di
contraffazione. Questo è stato quando deciso dalla sentenza della
Corte di Cassazione del 22 novembre 2006 n. 24859 (il giudizio di
contraffazione non deve essere sospeso nel caso in cui ci sia la
pendenza un altro giudizio relativo alla nullità dello stesso brevet-
to) (35).
Mi chiedo a questo punto, da quanto sopra, se aziende extra
UE (ad esempio americane o giapponesi o cinesi) possono essere
stimolate ed indotte ad intraprendere cause di contraffazione cross
border con credibili possibilità di decisioni anche in tempi ragione-
voli innanzi ai Giudici europei, tra questi inevitabilmente quelli
italiani. E ciò anche considerando da un lato che il Giudice ita-
liano potrebbe applicare la legge locale del paese di cui il brevetto
è stato validato — a loro ben più nota e familiare —, dall’altro
l’aspetto indubbiamente vantaggioso di evitare il proliferare di
contenziosi, con risparmio di energie e risorse. Del resto, in questo
caso, un giudizio intrapreso direttamente in Italia eviterebbe an-
che il rischio di una possibile (Italian) Torpedo.

(34) Cfr. SCHAUWECKER, Zur internationale Zuständigkeit bei Patentverletyung-


klage, GRUR Int., 2008, 2, 101.
(35) Cass., 22 novembre 2006, n. 24859, in Giust. civ. Mass., 2006, 11.
I. - G I U R I S P R U D E N Z A NAZIONALE

CASSAZIONE PENALE SEZIONE III


(ud. 25 maggio 2007) 3 settembre 2007, n. 33768
Pres. C. VITALONE — Cons. A. Teresi, M. Marmo, L. Marini, G. Sarno

Misure tecnologiche di protezione - Videogiochi - Programmi per elaboratore elet-


tronico - Playstation Sony - Art. 171-bis, comma 1, l. n. 633/41 - Art. 171-ter, lett.
f-bis) l. n. 633/41.

I « videogiochi » rappresentano qualcosa di diverso e di più articolato rispetto


ai programmi per elaboratore comunemente in commercio, cosı̀ come non sono ricon-
ducibili per intero al concetto di supporto contenente « sequenze d’immagini in mo-
vimento ». Essi, infatti, si « appoggiano » ad un programma per elaboratore, che
parzialmente comprendono, ma ciò avviene al solo fine di dare corso alla componente
principale e dotata di propria autonomia concettuale, che è rappresentata da se-
quenze di immagini e suoni che, pur in presenza di molteplici opzioni a disposizione
dell’utente (secondo una interattività, peraltro, mai del tutto libera perché « guidata »
e predefinita dagli autori), compongono una storia ed un percorso ideati e incana-
lati dagli autori del gioco. Appare, dunque, corretta la definizione di « videogiochi »
come opere complesse e « multimediali ».
La tutela delle misure tecnologiche di protezione trova fondamento nella l. n. 633
del 1941, art. 102-quater e le violazioni o elusioni di tali misure sono oggi sanzio-
nate in via generale dall’art. 171-ter, lett. f-bis) (che cosı̀ viene per tale via a tutelare
l’abusiva fruizione delle opere dell’ingegno tra cui rientrano i videogiochi), mentre la
fattispecie di cui all’art. 171-bis, comma 1, può essere considerata una norma speci-
fica di tutela dei programmi per elaboratore.
L’art. 171-ter, lett. f-bis), ha inteso introdurre un elemento di chiarezza rispetto
alla formulazione dell’art. 171-ter, lett. d), in vigore al momento dei fatti, che poteva
prestarsi ad una lettura non più al passo con l’evoluzione tecnologica e dei diritti
« digitali », ma non ha affatto introdotto una fattispecie incriminatrice del tutto
nuova. Con la conseguenza che non può ritenersi che prima della sua introduzione
non sussistesse alcuna fattispecie incriminatrice delle condotte di elusione o viola-
zione delle misure tecnologiche di protezione poste a tutela dei prodotti dell’ingegno
contenuti e commercializzati su supporto informatico.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. — Il Sig. D. fu tratto a giudizio avanti il Tribu-


nale di Bolzano per rispondere del reato previsto dalla l. 22 aprile 1941, n. 633,
art. 171-ter, lett. d), per avere — quale socio e legale rappresentante della « H.S.
Distribuzione di DALVIT Oscar & C. Snc » con sede in (omissis) — detenuto per
la vendita e posto in commercio dei « mod chip » destinati ad alterare il prodotto
450 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

« Playstation 2 » e consentire la fruizione di videogiochi masterizzati, operando


attraverso il sito internet da lui gestito (omissis). I fatti erano stati accertati
dalla Guardia di Finanza di Viterbo presso un cliente destinatario dei prodotti
della « HS Distribuzione ».
Il Tribunale, ritenuto che sussista perfetta continuità tra l’iniziale contesta-
zione e il reato previsto dal medesimo art. 171-ter, lett. f-bis), come modificato
successivamente alla contestazione stessa, e ritenutolo ipotesi più favorevole al-
l’imputato, ha condannato il Sig. D. in relazione a tale ultima disposizione stabi-
lendo la pena di mesi 6 di reclusione e € 6.000,00 di multa, condizionalmente so-
spesa.
Avverso tale decisione il Sig. D. ha presentato appello, chiedendo l’assolu-
zione dall’imputazione a lui ascritta.
Con la decisione impugnata la Corte di Appello di Bolzano ha riformato la
sentenza di primo grado ed assolto il Sig. D.. Ha ritenuto la Corte di Appello che
la disciplina contenuta nell’art. 171-ter, citata lett. f-bis), introdotta specifica-
mente con il decreto legislativo del 2003, sia del tutto innovativa rispetto a quella
contenuta nel medesimo art. 171-ter, lett. d), e preveda per la prima volta la san-
zionabilità di condotte come quelle addebitate al Sig. D., condotte che restano
invece estranee alle disposizioni in vigore nel 2002.
Afferma, infatti, la sentenza impugnata, che lo stesso giudice di prime cure
aveva ritenuto applicabile la citata lett. f-bis) e non si era soffermato sulla con-
testata lett. d). Ciò in quanto, con riferimento alla disciplina introdotta nel 2003,
« lo stesso Giudice ha riconosciuto che tale normativa è quella pensata essenzial-
mente per la tutela delle consoles e delle playstations e pertanto, con il raffronto
della normativa in vigore al momento del fatto, si può agevolmente vedere che si
è venuto a colmare un vuoto normativo, non essendo stata considerata dai pro-
duttori di videogiochi e strumenti dedicati a giocare con gli stessi efficace la tu-
tela precedente, che considerava i videogiochi da sussumere nella categoria am-
pia del software senza differenziare. E v condivisibile quanto afferma il Giudice di
Primo Grado, alla luce della legislazione vigente, che attualmente i videogiochi
possono essere considerati categoria a sé; non lo era all’epoca del fatto contestato
all’imputato ».
La conseguenza di tale ragionamento è che la condotta contestata del Sig.
D. non risultava all’epoca dei fatti riconducibile ad alcuna ipotesi criminosa,
salvo ipotizzare l’applicazione della l. n. 633 del 1941, art. 171-bis, peraltro non
contestata, con conseguente assoluzione con la formula più ampia.

MOTIVI DELLA DECISIONE. — 1. I fatti addebitati al ricorrente.


I fatti storici addebitati al ricorrente possono ritenersi pacifici e non sono
oggetto di contestazione.
Egli era all’epoca dei fatti legale rappresentante della « H.S. Distribuzione
di DAVIT Oscar & C. Snc » con sede in (omissis), società che risulta avere dete-
nuto per la vendita e posto in commercio dei « mod chip », e cioè componenti
elettronici in grado di modificare la funzionalità dell’apparato prodotto con mar-
chio Sony e denominato « Play Station 2 » (di seguito PS2). In particolare, i
« mod chip » permettevano all’utente di aggirare le protezioni apposte dal fabbri-
cante e consentivano all’apparato PS2 di leggere ed utilizzare anche supporti non
I. - Giurisprudenza nazionale 451

originali contenenti videogiochi, con conseguente possibilità di leggere ed utiliz-


zare videogiochi « masterizzati » e cioè riprodotti in modo illegale e privi di con-
trassegno SIAE. Va detto che i medesimi « mod chip » ampliano anche altre fun-
zionalità dell’apparato PS2, in sé legittime.
2. La disciplina interna applicabile ai fatti.
Più complessa appare la ricostruzione e l’interpretazione della normativa
interna applicabile ai fatti in esame, anche considerando che in epoca successiva
agli stessi è entrata in vigore, con il d.lgs. 9 aprile 2003, n. 68, una rilevante mo-
difica della l. 22 aprile 1941, n. 633 sul diritto d’autore.
L’originaria contestazione mossa al ricorrente faceva riferimento all’art.
171-ter, lett. d) della citata l. n. 633 del 1941. Tale disposizione, introdotta con la
l. 18 agosto 2000, n. 248, punisce:
« Chiunque produce, utilizza, importa, detiene per la vendita, pone in com-
mercio, vende, noleggia o cede a qualsiasi titolo sistemi atti ad eludere, decodi-
ficare o rimuovere le misure di protezione del diritto d’autore o dei diritti con-
nessi ».
E
v opportuno ricordare subito che altra e diversa è la disposizione che tutela
i diritti esistenti sui programmi informatici, o software; essa è contenuta nel pre-
cedente art. 171-bis della medesima legge, secondo il quale risulta vietato « qual-
siasi mezzo inteso unicamente a consentire o facilitare la rimozione arbitraria o
l’elusione funzionale di dispositivi applicati a protezione di un programma per
elaboratore » (disposizione introdotta dal d.lgs. 20 dicembre 1992, n. 518, art. 10,
in attuazione della Direttiva del Consiglio n. 250 del 1991, e quindi più volte mo-
dificata fino al testo attuale che è stato fissato dalla l. 18 agosto 2000, n. 248, art.
13). Tale disciplina, esistente nel periodo di commissione dei fatti oggetto del
presente procedimento, è stata successivamente modificata dal legislatore, anche
in attuazione dei principi contenuti nella Direttiva 2001/29/CE del Parlamento e
del Consiglio (in data 22 maggio 2001) sulla protezione della proprietà intellet-
tuale, che invitava i Paesi membri ad adottare forme più incisive di tutela.
Con d.lgs. n. 68 del 9 aprile 2003 sono cosı̀ state apportate significative mo-
difiche alla disciplina in vigore, riducendo l’ambito di applicazione della citata
lett. d) dell’art. 171-ter, ai casi di tutela non riconducibili alla previsione dei
mezzi di tutela previsti dall’art. 102-quater, ed introducendo in tale articolo la
lett. f-bis), che sottopone a sanzione penale:
« Chiunque... per uso non personale e a fini di lucro, fabbrica, importa, di-
stribuisce, vende, noleggia, cede a qualsiasi titolo, pubblicizza per la vendita o il
noleggio, detiene per scopi commerciali, attrezzature, prodotti o componenti ov-
vero presta servizi che abbiano la prevalente finalità o l’uso commerciale di elu-
dere efficaci misure tecnologiche di protezione di cui all’art. 102-quater, ovvero
siano principalmente progettati, prodotti, adattati o realizzati con la finalità di
rendere o facilitare l’elusione delle predette misure... ».
A sua volta, il richiamato art. 102-quater (introdotto anch’esso con il decreto
legislativo del 2003) prevede in via generale che:
« 1. I titolari dei diritti d’autore e dei diritti connessi... possono apporre
sulle opere o sui materiali protetti misure tecnologiche di protezione efficaci che
comprendano tutte le tecnologie, i dispositivi o i componenti che, nel normale
corso del loro funzionamento, sono desinati a limitare atti non autorizzati dai ti-
tolari dei diritti. » « 2. Le misure tecnologiche di protezione sono considerate ef-
452 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

ficaci nel caso in cui l’uso dell’opera o del materiale protetto sia controllato dai
titolari tramite l’applicazione di un dispositivo antiaccesso o di un procedimento
di protezione, quale la cifratura, la distorsione o qualsiasi altra trasformazione
dell’opera o del materiale protetto, ovvero sia limitato mediante un meccanismo
di controllo delle copie che realizzi l’obiettivo di protezione » « 3. Resta salva
l’applicazione delle disposizioni relative ai programmi per elaboratore di cui al
capo 4, sezione 6, titolo 1 ».
Per ragioni di completezza e con riferimento alla disciplina dei c.d. « video-
giochi » (v. infra) è opportuno ricordare le disposizioni contenute nell’art. 71-
sexies, della medesima legge sul diritto d’autore, n. 633 del 1941. Il comma 1, in-
fatti, mentre autorizza l’acquirente di fonogramma o videogramma a fare una
copia dello stesso « per uso esclusivamente personale », vieta in via generale la
prestazione di servizi finalizzati alla riproduzione di tali prodotti se effettuata a
scopo di lucro o per fini direttamente e indirettamente commerciali.
3. La motivazione della sentenza impugnata.
Il percorso argomentativo della Corte di Appello può sintetizzarsi come se-
gue:
a) La disciplina in vigore attualmente, che è stata erroneamente applicata
dal primo giudice ai fatti anteriori contestati all’imputato, è stata introdotta nel
2003 per porre rimedio al deficit di tutela delle consoles e della stessa Play Sta-
tion offerto dalla precedente normativa.
b) Solo a seguito della introduzione degli artt. 102-quater e della lettera f-bis)
dell’171-ter i videogiochi hanno perduto la qualificazione generica di « software »
per divenire una categoria a sé, dotata di specifica protezione.
c) Quella introdotta dall’art. 171-ter, lett. f-bis) costituisce, dunque, una fat-
tispecie incriminatrice nuova e non rapportabile a quella prevista dall’art. 171-
ter, lett. d) nel testo in vigore al momento dei fatti.
d) Quest’ultima disposizione non conteneva alcuna tutela penale in favore
dei videogiochi, ancora considerati come programmi per elaboratore e non ricon-
ducibili nell’ambito di tutela della citata lett. d), con la conseguente non sussi-
stenza dell’ipotesi contestata al Sig. D.
e) A tale conclusione deve giungersi anche considerando che dell’art. 171-ter,
lett. d), puniva le alterazioni apportate ai « supporti » su cui l’opera tutelata ri-
sulti incisa o contenuta, e non quelle apportate all’apparato che può leggerli ed
utilizzarli.
4. La natura dei videogiochi come programma per computer o come opera
contenente sequenza d’immagini in movimento.
Alla luce del percorso motivazionale della sentenza impugnata, appena ri-
cordato, questa Corte ritiene opportuno rimuovere subito un possibile motivo di
malinteso e chiarire le ragioni per cui assume che al caso di specie non possa in
alcun modo applicarsi la disposizione contenuta nell’art. 171-bis della legge. La
più recente giurisprudenza di legittimità, infatti, ha chiarito che i c.d. « video-
giochi » utilizzati sui personal computer o sulle consoles non costituiscono meri
« programmi per elaboratore », e cioè un software in senso proprio, bensı̀ un pro-
dotto diverso e più opportunamente riconducibile alla categoria dei supporti
contenenti sequenze di immagini. In questo senso si veda la sentenza n. 2304
della terza Sezione Penale del 15 dicembre 2006-24 gennaio 2007, Moumeni, la
cui massima (rv 235651) recita:
I. - Giurisprudenza nazionale 453

« In materia di diritto d’autore, la detenzione per la vendita o la distribu-


zione di CD contenenti videogiochi duplicati o riprodotti abusivamente configura
il reato di cui alla l. n. 633 del 1941, art. 171-ter, lett. B), anche se commesso in
epoca antecedente l’entrata in vigore delle l. n. 248 del 2000, in quanto costitui-
scono supporti contenenti sequenze di immagini in movimento, ai sensi della lett.
A) del citato art. 171-ter, per i quali la semplice detenzione per la vendita risul-
tava già sanzionata penalmente nel testo introdotto dal d.lgs. 16 novembre 1994,
n. 685, art. 7, come modificato dal d.lgs. 15 marzo 1996 n. 204 ». In particolare,
in motivazione, dopo un ampio excursus normativo, si legge:
« ... Ai sensi del vecchio testo della l. n. 633 del 1941, art. 171-ter (precedente
alle modifiche apportate dalla l. n. 248 del 2000), la semplice detenzione ai fini
di vendita di musicassette e supporti audio privi del contrassegno S.I.A.E. ed
abusivamente riprodotti, non integrava il reato di cui al comma 1, lett. c), perché
questo puniva soltanto la vendita o il noleggio e non anche la detenzione ai fini
di vendita e di noleggio, e neppure integrava il reato di cui allo stesso comma 1,
lett. b), perché questo, pur contemplando anche la detenzione ai fini di vendita
o di noleggio, riguardava però soltanto le opere cinematografiche o audiovisive
abusivamente duplicate o riprodotte, mentre le musicassette o i supporti audio
sono diversi dalle videocassette o dalle opere cinematografiche o televisive e dai
« supporti analoghi » previsti dalle lettere a) e b), proprio in quanto hanno conte-
nuto musicale e non cinematografico, ferma restando la configurabilità del ten-
tativo.
«Ev configurabile il delitto di cui alla l. n. 633 del 1941, art. 171-ter, comma
1, lett. b), nel testo anteriore alla l. n. 248 del 2000 contestato al capo A, per i
soli CD contenenti videogiochi di cui l’imputato è stato trovato in possesso e
questa Corte ha già evidenziato (sia pure con riferimento alle videocassette) che
per esse, costituenti supporti contenenti “sequenze di immagini in movimento”
di cui all’art. 171-ter, comma 1, lett. a), anteriormente alle modifiche introdotte
dalla l. n. 248 del 2000, già era espressamente vietata, dalla successiva lett. b)
della menzionata norma, la detenzione per la vendita (vedi Cass., Sez. III, 18
giugno 2004, ric. Di Guardo) ».
Il principio cosı̀ affermato costituisce il punto di arrivo di una evoluzione
che ha visto la Corte muovere dall’originaria attenzione alla disciplina dei sof-
tware (tra tutte, Sez. III pen., sentenza n. 8236 del 4 luglio-8 settembre 1997,
Lapeschi, rv 208957) e quindi prendere atto delle peculiari caratteristiche dei
« videogiochi », la cui complessità ideativa e tecnica è andata aumentando espo-
nenzialmente. Di tale evoluzione dà conto indirettamente la sentenza n. 1716 del
6-24 maggio 1999, PM in proc. Bonetti (rv 213761) con cui la terza Sezione Pe-
nale, con decisione in tema di sequestro, ritenne che occorresse attribuire all’au-
torità giudiziaria procedente la possibilità di valutare la sussistenza dell’ipotesi
di reato prevista dalla lett. c) dell’allora vigente art. 171-ter nella considerazione
che i « videogiochi » potrebbero essere considerati non semplici « programmi per
elaboratori », ma supporti costituiti da « sequenze di immagini in movimento ».
Questa Corte ritiene di condividere solo in parte l’approdo cui è giunta, sia
pure con motivazione assai sintetica, la giurisprudenza citata.
Va premesso che la disciplina europea, che sarà in seguito meglio esaminata,
non fornisce una chiara ed univoca definizione dei « videogiochi » e della disci-
plina ad essi applicabile. Tale lacuna rende non semplice individuare il regime
454 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

giuridico cui sottoporre, sul piano penale, le condotte che li riguardano e che ri-
guardano gli apparati destinati alla loro utilizzazione.
Pur in questo contesto la Corte ritiene sia oramai evidente che i « videogio-
chi » rappresentano qualcosa di diverso e di più articolato rispetto ai programmi
per elaboratore comunemente in commercio, cosı̀ come non sono riconducibili
per intero al concetto di supporto contenente « sequenze d’immagini in movi-
mento ». Essi, infatti, si « appoggiano » ad un programma per elaboratore, che
parzialmente comprendono, ma ciò avviene al solo fine di dare corso alla compo-
nente principale e dotata di propria autonoma concettuale, che è rappresentata
da sequenze di immagini e suoni che, pur in presenza di molteplici opzioni a di-
sposizione dell’utente (secondo una interattività, peraltro, mai del tutto libera
perché « guidata » e predefinita dagli autori), compongono una storia ed un per-
corso ideati e incanalati dagli autori del gioco. Ma anche qualora lo sviluppo di
una storia possa assumere direzioni guidate dall’utente, è indubitabile che tale
sviluppo si avvalga della base narrativa e tecnologica voluta da coloro che hanno
ideato e sviluppato il gioco, cosı̀ come nessuno dubita che costituiscano opera
d’ingegno riconducibile ai loro autori i racconti a soluzione plurima o « aperti »
che caratterizzano alcuni libri.
In altri termini, i videogiochi impiegano un software e non possono essere
confusi con esso.
Appare, dunque, corretta la definizione che una parte della dottrina ha dato
dei « videogiochi » come opere complesse e « multimediali »: vere e proprie opere
d’ingegno meritevoli di specifica tutela anche sotto la formulazione dell’art. 171-
ter, lett. d) nella formulazione in vigore all’epoca dei fatti.
5. La natura della PS2 quale console per videogiochi.
Escluso che i videogiochi siano riconducibili alla categoria giuridica del pro-
gramma per elaboratore, assume rilievo ai fini della decisione, come vedremo,
definire le caratteristiche essenziali e la natura dell’apparato PS2. Esso rappre-
sentava nel 2002 una marcata evoluzione delle già avanzate consoles in commer-
cio fino a poco tempo prima, quali la stessa Play Station immessa sul mercato
dalla soc. Sony negli anni ’90. La PS2 è dotata di un sistema operativo e di pos-
sibilità di utilizzo e di espansione (compreso l’impiego di operativi scritti in lin-
guaggio « Basic » oppure « Linux ») che l’avvicinano molto alle funzionalità di un
personal computer (si vedano, in particolare, la struttura e le caratteristiche tec-
niche come accertate dalla Corte di Giustizia, Tribunale di primo grado, terza
Sezione, con la sentenza del 30 settembre, Sony CEE Ltd contro Commissione,
nella causa T-243/01, su cui torneremo). Tuttavia essa è priva di video (cosı̀ che
deve essere necessariamente collegata ad altro apparato video) e di tastiera, che
peraltro può essere acquistata separatamente e collegata all’apparato. Risulta,
dunque, pacifico, che la PS2 rientra tra le « macchine automatiche per l’elabora-
zione dell’informazione », mentre occorre verificare se essa possa essere qualifi-
cata come « personal computer » invece che come « console ».
A tale proposito deve rilevarsi che la sentenza 30 Settembre 2003 sopra ci-
tata ha preso atto che l’originaria classificazione doganale dell’apparato PS2,
contro cui la Sony CEE Ltd. ha chiesto alla Corte di Giustizia di pronunciarsi,
ricomprendeva l’apparato tra gli « oggetti per giochi di società » e in particolare
nella sottovoce « videogiochi dei tipi utilizzabili con un ricevitore della televi-
sione ».
I. - Giurisprudenza nazionale 455

Sulla richiesta della Sony CEE Ltd. di diversamente classificare il prodotto,


il Tribunale di primo grado afferma (punto 111) che, con riferimento agli appa-
rati per videogiochi, « devono essere considerati tali tutti i prodotti destinati ad
essere utilizzati, esclusivamente o essenzialmente, per l’esecuzione di videogio-
chi, quand’anche essi potessero essere utilizzati ad altri fini », ed aggiunge (punto
112):
« Ora, è innegabile che, sia per il modo in cui la console PlayStation 2 è im-
portata, venduta e presentata al pubblico, sia per la maniera in cui la stessa è
configurata, la console PlayStation 2 è destinata ad essere utilizzata essenzial-
mente per l’esecuzione di videogiochi... », cosa che (punto 113) è confermata dai
documenti che accompagnano il prodotto e che dimostrano che essa « viene com-
mercializzata e venduta ai consumatori essenzialmente come console per video-
giochi, anche potendo essere altresı̀ utilizzata per altri fini » e dal fatto che
alcune unità, quali tastiera, mouse e video, non sono fornite originariamente e
debbono eventualmente essere acquistate a parte.
In conclusione, questa Corte ritiene che la citata sentenza del Tribunale di
primo grado, indipendentemente dal successivo giudizio relativo alla non corret-
tezza della classificazione doganale, abbia manifestato con chiarezza un giudizio
positivo circa la circostanza che la PS2 ha carattere essenziale di apparato desti-
nato all’impiego di videogiochi e che questa caratteristica ne contraddistingue la
natura e l’immagine presentata al pubblico.
6. La tutela dei prodotti dell’ingegno.
Rileva la Corte che non vi dubbio che l’art. 171-ter, lett. f-bis) — cosı̀ come
riconosciuto dalla sentenza impugnata — punisca le alterazioni apportate agli
apparati al fine di accedere alla fruibilità di prodotti protetti, cosı̀ come deciso
dalla terza Sezione Penale con la sentenza n. 28912 del 7 aprile-2 luglio 2004,
Campana, la cui massima (rv 229417) recita:
« La fabbricazione e la detenzione per la distribuzione, a fini di lucro, dei
dispositivi “sharer” e di “kit sharer” — apparati idonei a condividere abusiva-
mente tra più utenti il messaggio decodificato per l’accesso ad un servizio televi-
sivo criptato — non integrano il reato di cui alla l. 22 aprile 1941, n. 633, art.
171-octies, e successive modificazioni, che incrimina condotte analoghe poste in
essere in riferimento ad apparecchi atti alla decodificazione, ma quello previsto
dalla stessa legge, art. 171-ter, lett. f-bis), introdotto con il d.lgs. n. 68 del 2003;
tale fattispecie penale assume carattere di specialità rispetto alla fattispecie di
illecito amministrativo di cui al d.lgs. n. 373 del 2000, artt. 1, 4 e 6, perché, es-
sendo successiva a quella, manifesta la chiara voluntas legis di criminalizzare
quelle condotte per il loro maggiore disvalore; del resto rientra nella discreziona-
lità del legislatore punire più severamente la condotta di aggiramento fraudo-
lento dei sistemi di protezione dei servizi televisivi, caratterizzata dal dolo speci-
fico di lucro, rispetto a quella di palese violazione dei sistemi di accesso condi-
zionato predisposti dall’emittente televisiva ».
Tale pronuncia, che esprime un principio applicabile anche alla diversa con-
dotta oggetto del presente giudizio, rappresenta un approdo della evoluzione
normativa che si accompagna all’evoluzione delle misure tecnologiche poste a di-
fesa del diritto d’autore.
Le « misure tecnologiche di protezione » (o MTP) si sono, infatti, aggiornate
ed evolute seguendo le possibilità, ed i rischi, conseguenti allo sviluppo della tec-
456 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

nologia di comunicazione, ed in particolare della tecnologia che opera sulla rete.


Una parte significativa degli strumenti di difesa del diritto d’autore sono stati
orientati ad operare in modo coordinato sulla copia del prodotto d’autore e sul-
l’apparato destinato ad utilizzare quel supporto, tanto che qualche commenta-
tore si è chiesto se, ormai, le forme di tutela facciano de « la macchina la rispo-
sta alla macchina ».
Le disposizioni sulle misure tecnologiche di protezione trovano un primo
fondamento nei trattati « WIPO » adottati il 20 dicembre 1996 e nel rinvio da
essi operato ai contenuti della Convenzione di Berna secondo quanto convenuto
nei lavori conclusisi a Parigi il 24 luglio 1971. A quelle disposizioni fanno ri-
chiamo sia la Direttiva 1991/250/CE del Coniglio datata 14 maggio 1991 (relativa
alla tutela dei programmi per elaboratore) sia la Direttiva 2001/29/CE del Parla-
mento e del Consiglio (in tema di armonizzazione dei diritti d’autore e dei diritti
connessi nella società dell’informazione). E v su questa base che il legislatore ita-
liano ha introdotto nella l. n. 633 del 1941 sul diritto d’autore l’art. 102-quater
che consente l’adozione di misure di protezione e vieta le condotte che ne elimi-
nano o eludono l’efficacia e permettono un utilizzo abusivo delle opere da esse
tutelate.
Non è questa la sede per affrontare la questione dei « diritti digitali » (o
DRMs, dall’espressione anglosassone « Digital Rights Management »), ma la
Corte non può esimersi dal sottolineare la delicatezza dei temi coinvolti dall’esi-
genza di assicurare tutela alle opere dell’ingegno in un contesto in cui i titolari
dell’opera e dei suoi diritti possono sommare la qualità di titolari esclusivi anche
degli strumenti tecnologici indispensabili all’utente per fruire del prodotto, con
il rischio, a tutti evidente, della creazione di limitazione dei diritti dell’individuo
e del consumatore potenzialmente sproporzionata. Da questo punto di vista, ad
esempio, qualche perplessità sorgono a seguito delle pratiche, adottate da alcune
multinazionali, tra cui la stessa Sony, di frazionamento del mercato, cosı̀ come
meriterebbero ulteriore attenzione i rischi di posizione dominante o di compres-
sione della concorrenza derivanti dall’obbligo di acquistare unicamente specifici
apparati (di costo rilevante) che viene imposto al consumatore che intenda uti-
lizzare un’opera di ingegno contenuta in un supporto che necessita di quel tipo
di apparato per poter essere fruita e « consumata ».
E tuttavia, l’attualità dei rischi ricordati (rischi che dovranno trovare in al-
tre sedi istituzionali le eventuali opportune risposte) non può avere influenza sul
giudizio circa le condotte che comportano violazione delle misure poste a prote-
zione del diritto d’autore nel settore dei prodotti digitali.
7. L’applicabilità ai fatti in esame (contestati per l’anno 2002) della l. n. 633
del 1941, art. 171-ter, lett. d).
La Corte ha fin qui escluso che i videogiochi siano riducibili a semplici pro-
grammi per elaboratore e che l’apparato PS2 sia da considerarsi, ai nostri fini,
qualcosa di diverso da una console destinata prioritariamente all’utilizzo dei vi-
deogiochi.
Secondo la ricostruzione del sistema normativo vigente, poi, la Corte ha ri-
tenuto che la tutela delle misure tecnologiche di protezione trovi fondamento
nella l. n. 633 del 1941, art. 102-quater e che le violazioni o elusioni di tali misure
siano oggi sanzionate in via generale dall’art. 171-ter, lett. f-bis) (che cosı̀ viene
per tale via a tutelare l’abusiva fruizione delle opere dell’ingegno tra cui rien-
I. - Giurisprudenza nazionale 457

trano i videogiochi), mentre dell’art. 171-bis, comma 1, può essere considerata


una norma specifica di tutela dei programmi per elaboratore.
Va cosı̀ escluso che alla condotta attribuita al Sig. D. sia applicabile la (pe-
raltro non contestata) violazione prevista della citata l. n. 633 del 1941, art. 171-
bis.
Sulla base di tali considerazioni la Corte deve stabilire se detta condotta
rientri oppure no nella previsione dell’art. 171-ter, lett. d), disposizione che la
sentenza impugnata ha ritenuto non ricomprendere la contestazione mossa al ri-
corrente.
Sul punto la sentenza della Corte di Appello di Trento, Sezione distaccata di
Balzano, merita di essere censurata, con conseguente suo annullamento.
Appare evidente a questa Corte che della l. n. 633, del 1941, art. 171-ter,
lett. f-bis), ha inteso introdurre un elemento di chiarezza rispetto ad una formu-
lazione che poteva prestarsi ad una lettura non più al passo con l’evoluzione tec-
nologica e dei diritti « digitali », ma non ha affatto introdotto una fattispecie in-
criminatrice del tutto nuova. Con la conseguenza che non può ritenersi che
prima della sua introduzione non sussistesse alcuna fattispecie incriminatrice
delle condotte di elusione o violazione delle misure tecnologiche di protezione
poste a tutela dei prodotti dell’ingegno contenuti e commercializzati su supporto
informatico. Il testo originario dell’art. 171-ter, lett. d), in vigore al momento dei
fatti, non sembra lasciare in proposito alcun dubbio. Esso, come già ricordato,
recita:
« Chiunque produce, utilizza, importa, detiene per la vendita, pone in com-
mercio, vende, noleggia o cede a qualsiasi titolo sistemi atti ad eludere, decodi-
ficare o rimuovere le misure di protezione del diritto d’autore o dei diritti con-
nessi ».
Per le ragioni in precedenza esposte, questa Corte ritiene che tale formula-
zione ricomprenda anche l’elusione e la rimozione dei sistemi di protezione inte-
grati fra supporto informatico e apparato destinato ad essere utilizzato, con la
conseguenza che erroneamente la Corte territoriale ha escluso che le condotte
poste in essere nel 2002 dal Sig. D. fossero in allora disciplinate dalla l. n. 633 del
1941, art. 171-ter, lett. d).

P.Q.M. — Annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di Appello di


Trento per l’ulteriore corso.

Videogiochi e consoles tra diritto d’autore e misure tecnologiche di prote-


zione.

SOMMARIO: 1. Introduzione. — 2. La fattispecie criminosa da applicare al


caso concreto. — 3. Le diverse soluzioni fornite dai giudici di prime
cure. — 4. La sentenza della Cassazione penale. — 5. Qualche
spunto critico. — 6. Conclusioni.

1. Introduzione.

La sentenza in epigrafe sembra concludere la vicenda giudiziaria dei


458 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

« mod chips » o « converter chips », vicenda che, dal 2003 ad oggi, ha tro-
vato soluzioni controverse presso la giurisprudenza di merito italiana (1).
Come noto, la Sony è attiva, inter alia, sul mercato delle c.d. conso-
les e dei videogiochi. Le consoles — al pubblico note con il marchio
« Playstation 2 » — sono, come sostenuto dalla stessa azienda (2), dei veri
e propri elaboratori elettronici le cui potenzialità risultano però essere
ridotte artificiosamente dalla società medesima per ragioni commerciali.
Se infatti l’hardware potrebbe espletare tutte le funzioni di un elabora-
tore, la PS2, « ritoccata » ad hoc, può funzionare solo come « caricatore »
di videogiochi e, soprattutto, solo di alcuni videogiochi. In particolare,
la PS2 rifiuta di leggere prodotti contraffatti (riproduzioni di videogio-
chi Sony non autorizzate e non recanti il contrassegno SIAE), prodotti
legittimamente distribuiti da concorrenti ma volutamente resi incompa-
tibili, e perfino prodotti legalmente distribuiti dalla Sony ma destinati
ad altri mercati geografici.
In altre parole, come ben messo in luce dai giudici del Tribunale del
riesame (3), la strategia commerciale della Sony è chiara. Da una parte,
negando la interoperabilità (4) ai videogiochi concorrenti e a quelli con-
traffatti, la compagnia « lega » i suoi videogames alle proprie consoles (5),
che spesso vende sottocosto proprio per invogliare i consumatori all’ac-
quisto e poi sfruttare il c.d. effetto di « cattura » (« lock-in ») (6). Dall’al-

(1) Cfr. Tribunale del riesame di Bolzano, ordinanza del 31 dicembre 2003,
Pres. Es. Mori (« caso Playstation 2, n. 1 »), pubblicata su AIDA 2005, 481; Trib. Bol-
zano, sentenza del 28 gennaio 2005, Giudice Briganti Vitalizi (« Caso Playstation 2, n.
2 »); Trib. Bolzano, sentenza del 21 gennaio 2006, Giudice Gottardi (« caso Playstation
2, n. 3 »).
(2) Il fatto che la console Playstation sia, senza dubbio, un computer è stato so-
stenuto dalla stessa Sony dinanzi al Tribunale di Primo Grado. Alla Corte europea è
stato chiesto di accertare se le consoles Sony potessero essere considerate come PC (li-
beri da tasse di importazione) o, al contrario, ricadessero nella categoria dei congegni
non liberamente programmabili, soggetti a imposte doganali all’interno dei confini
comunitari. La Corte ha ritenuto che dette consoles avessero tutte le caratteristiche
per potersi qualificare come personal computer. Si veda Sony Computer Entertain-
ment Europe Ltd v. European Commission, caso T 243/01, 30 settembre 2003.
(3) Cfr. Tribunale del riesame di Bolzano, ordinanza del 31 dicembre 2003,
Pres. Es. Mori (« caso Playstation 2, n. 1 »).
(4) Da una lettura congiunta dei considerando n. 10, 11 e 12, della Direttiva
250/91/CEE (Direttiva 91/250/CEE del Consiglio, del 14 maggio 1991, relativa alla
tutela giuridica dei programmi per elaboratore, G.U.C.E. n. L. 122 del 17 maggio
1991, p. 0042-0046) il termine interoperabilità può intendersi come l’interconnessione
funzionale e l’interazione tra elementi software e hardware (generalmente noti come
« interfacce ») ovvero come l’abilità di scambiare informazioni ed utilizzarle mutua-
mente.
(5) Ciò perché, almeno secondo i giudici del Tribunale del riesame, la Sony de-
riverebbe la maggior parte dei propri profitti dalla vendita dei giochi piuttosto che da
quella delle playstation che, di regola, vengono acquistate una volta sola.
(6) Secondo la ben nota teoria economica, specie nel caso di « sistemi di pro-
dotti » — e cioè di prodotti che forniscono una determinata utilità quando utilizzati
insieme — l’investimento non recuperabile (c.d. sunk cost) in una determinata tecno-
logia di base condizionerebbe le scelte successive dell’acquirente in relazione ai pro-
I. - Giurisprudenza nazionale 459

tra, tramite la segmentazione del mercato mondiale in tre distinte aree


geografiche e la differente politica di prezzo, tenta di massimizzare i
propri profitti modulando l’importo richiesto per le consoles e per i gio-
chi in ragione della presunta diversa capacità di spesa degli abitanti
l’area di riferimento (7).
Chiaramente le condotte poste in essere dalla Sony potrebbero rea-
lizzare violazioni delle norme poste a tutela della concorrenza. Tuttavia,
dal momento che tali profili non sono stati presi in esame dai giudici di
merito, la presente nota non approfondirà tali aspetti.
Come anticipato, infatti, la controversia che ci occupa, originata
dalla Sony, ha avuto ad oggetto i cosiddetti « mod-chips » o, più sempli-
cemente, « schede tecniche di espansione », la cui produzione e distribu-
zione al pubblico — trattandosi di congegni che consentono l’elusione di
misure tecnologiche di protezione (8) — integrerebbe la fattispecie penale
che proibisce per l’appunto il c.d. trafficking in dispositivi volti ad aggi-
rare tali protezioni (9). Ma quale fattispecie entrerebbe in gioco nel caso
in esame?

2. La fattispecie criminosa da applicare al caso concreto.

La legge italiana sul diritto d’autore prevede due distinte fattispe-

dotti da utilizzare tramite la detta tecnologia, obbligandolo all’acquisto dei soli og-
getti con essa compatibili. Tra gli studi più esaustivi sui fenomeni del c.d. lock-in, dei
c.d. switching costs e degli effetti di rete si segnalano, inter alia, M.L. KATZ, C. SHA-
PIRO, Network Externalities, Competition, and Compatibility, in 75 Am. Econ. Rev. 424
(1985); C. SHAPIRO, M.L. KATZ, Antitrust in Software Markets, in Competition, Innova-
tion and the Microsoft Monopoly: Antitrust in the Digital Market Place, edizioni Eise-
nach & Lenard, Kluwer Academic Publishers, Boston MA, 1999; R. PITOFSKY, Anti-
trust and Intellectual Property: Unresolved Issues at the Heart of the New Economies, in
16 Berkeley Tech. L. J. 535, (2001); M.A. LEMLEY, D. MCGOWAN, Legal Implication of
Network Economic Effects, in 86 Calif. L. Rev. 479, 1998.
(7) La Sony ha diviso il mercato mondiale in tre zone geografiche (America,
Asia, Europa e Australia) per ognuna delle quali pratica un prezzo differente. E v inte-
ressante notare come è proprio la presenza delle misure tecnologiche di protezione che
permette alla Sony di mettere in pratica tale strategia impedendo a chi acquisti gio-
chi (a costo più basso) in un’altra area geografica di utilizzarli con la propria console
e quindi, cosa ancor più significativa, scoraggiando le importazioni parallele.
(8) La tutela civilistica delle misure tecnologiche di protezione è disciplinata
dall’art. 102-quater l.a. che attribuisce ai titolari dei diritti d’autore, dei diritti con-
nessi e del diritto sui generis sulle banche dati, la facoltà di apporre misure tecnolo-
giche di protezione efficaci « che comprendono tutte le tecnologie, i dispositivi o i
componenti che, nel normale corso del loro funzionamento, sono destinati ad impe-
dire o limitare atti non autorizzati dai titolari dei diritti ».
(9) Come si rileva dall’analisi svolta dai consulenti tecnici durante i giudizi di
primo grado, la scheda di espansione mod chip va inserita nella console ed opera in-
terponendosi tra il lettore DVD della Playstation 2 ed il microprocessore. In partico-
lare, al momento del caricamento del supporto, il chip opera aggiungendo un’informa-
zione che autorizza il microprocessore ad eseguire la lettura di qualsiasi tipo di sof-
tware inserito nel lettore DVD/CDROM.
460 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

cie penali che potrebbero trovare applicazione alle circostanze del caso
qui in analisi: fattispecie regolate, rispettivamente, dagli artt. 171-ter,
lett. f-bis) e 171-bis, comma 1. La prima delle due norme, introdotta con
d.lgs. n. 68 del 2003, in recepimento della Direttiva comunitaria 20/2001/
CE (10), punisce con la reclusione e la multa chiunque, per trarne profitto,
« [...] fabbrica, importa, distribuisce, vende, noleggia [...] attrezzature,
prodotti o componenti ovvero presta servizi che abbiano la prevalente fi-
nalità o l’uso commerciale di eludere efficaci misure tecnologiche di cui
all’art. 102-quater ovvero siano principalmente progettati, prodotti, adat-
tati o realizzati con la finalità di rendere possibile o facilitare l’elusione
delle predette misure » (corsivi aggiunti). La seconda fattispecie, regolata
all’art. 171-bis, comma 1, l.a., punisce chiunque — sempre « per trarne
profitto » — « [...] importa, distribuisce, vende, detiene a scopo commer-
ciale o imprenditoriale [...] qualsiasi mezzo inteso unicamente a consen-
tire o facilitare la rimozione arbitraria o l’elusione funzionale di disposi-
tivi applicati a protezione di un programma per elaboratori » (corsivo
aggiunto).
Le fattispecie di cui agli artt. 171-ter, lett. f-bis) e 171-bis, comma 1,
l.a., sebbene accomunate per l’avere ad oggetto lo smercio lato sensu di
strumenti atti ad eludere delle misure tecnologiche di protezione, diffe-
riscono sensibilmente per due importanti aspetti. In primo luogo, la se-
conda fattispecie trova applicazione solo nel caso di misure di protezione
apposte su programmi per elaboratore elettronico; ha, pertanto, natura
speciale rispetto alla fattispecie regolata all’art. 171-ter, lett. f-bis) che
punisce, in maniera generale, tutte le condotte aventi a che fare con con-
gegni atti ad eludere o facilitare l’elusione di una misura di protezio-
ne (11). In secondo luogo, le due fattispecie differiscono in maniera signi-
ficativa riguardo l’onere della prova spettante al convenuto. Nel caso
della fattispecie di cui all’art. 171-bis, comma 1, l.a., poiché la norma ri-
chiede che il dispositivo atto ad eludere la misura di protezione sia stato
messo a punto unicamente ed esclusivamente a tal fine, il convenuto in
giudizio potrà difendersi dando prova che la tecnologia in esame è capace
di essere impiegata anche per un solo altro tipo di utilizzazione, distinto
dalla mera elusione della protezione tecnologica, che non si ponga in
contrasto con i diritti garantiti dalla l. n. 633 del 1941. Diversamente,
poiché l’art. 171-ter, lett. f-bis) menziona strumenti avente la prevalente
finalità o l’uso commerciale di eludere efficaci misure tecnologiche ovvero
principalmente progettati, prodotti, o realizzati allo scopo di rendere pos-

(10) Direttiva 2001/29/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 22 mag-
gio 2001 sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e i dei diritti con-
nessi nella società dell’informazione, G.U.C.E. L 167/11 22 giugno 2001.
(11) Nonostante la portata dell’art. 171-ter, lett. f-bis) sia certamente più am-
pia di quella dell’art. 171-bis, tale fattispecie non appare poter coprire casi di con-
dotte riguardanti l’elusione di misure tecnologiche apposte al software. Ciò perché la
prima fattispecie richiama espressamente le MTP di cui all’art. 102-quater le cui di-
sposizioni, recependo i dettami della Direttiva 2001/29/CE, non si applicano ai pro-
grammi per elaboratore. V. infra, alla nota successiva.
I. - Giurisprudenza nazionale 461

sibile o più agevole l’elusione, al convenuto non basterà semplicemente


dar conto di ulteriori usi leciti della tecnologia contestata, ma dovrà
provare che questi, e non l’aggiramento della misura, costituiscono le
preminenti funzionalità del prodotto (12).

3. Le diverse soluzioni fornite dai giudici di prime cure.

Per meglio analizzare la sentenza in epigrafe, sembra opportuno ri-


chiamare, pur brevemente, le decisioni dei casi precedenti a quello qui
commentato, nelle quali i giudici di primo grado sono giunti a conclu-
sioni diverse applicando le due distinte fattispecie.
Nel primo — in ordine cronologico — dei tre casi (13), il Tribunale
del Riesame di Bolzano, riunito in camera di consiglio, revocò la misura
cautelare emessa contro il ricorrente, ritenendo nella specie non applica-
bile la norma invocata, l’art. 171-ter, lett. f-bis). In particolare, nell’as-
sunto che la citata norma vieta solo quell’insieme di condotte aventi ad
oggetto la distribuzione in senso lato di attrezzature o componenti desti-
nati in via prevalente e principale ad eludere le misure di cui all’art.
102-quater l.a., la Corte sosteneva che la funzione principale del chip
« [...] non è quella di consentire l’uso di copie pirata, ma bensı̀ di supe-
rare ostacoli monopolistici e di meglio utilizzare la playstation ». Non
solo, infatti, il caricamento della scheda di espansione nella console con-
sentirebbe di ripristinarne la piena funzionalità rendendola equiparabile,
a tutti gli effetti, ad un personal computer dotato di processore Pentium
III (14), ma tale azione renderebbe altresı̀ possibile il caricamento di gio-
chi legalmente distribuiti da concorrenti, il caricamento di giochi pro-
dotti e distribuiti da Sony (ma destinati ad altri mercati geografici), la
lettura di supporti di contenuto diverso (dai videogames), e persino la
possibilità di effettuare una copia di riserva (c.d. copia di back-up), come
previsto dall’art. 64-ter, comma 2, l.a.
A differenza dell’ordinanza appena analizzata, ove non si fa cenno

(12) Le differenze tra le due fattispecie sono direttamente riconducibili alla


volontà del legislatore comunitario che, nelle disposizioni e nei considerando della Di-
rettiva 29/2001/CE, ha espressamente richiesto che al software non si applicassero le
novità ivi introdotte, ciò con particolare riferimento alle libere utilizzazioni e alla di-
sciplina delle misure tecniche di protezioni per le quali ha espressamente richiamato
le disposizioni di cui alla Direttiva 250/91/CEE. Cfr. considerando n. 50 e art. 1,
comma 2, Direttiva 29/2001/CE. Più diffusamente sull’argomento v. E. AREZZO, Mi-
sure tecnologiche di protezione, software e interoperabilità nell’era digitale, in Riv. dir.
aut., n. 3, 2008, p. 340.
(13) Trib. Bolzano (ordinanza), 31 dicembre 2003, Giudice Mori, AIDA, 2005,
481 (« Caso Playstation 2, n. 1 »).
(14) Peraltro, i giudici hanno messo in evidenza che la Sony distribuisce sof-
tware funzionanti sulla sua console, e che consentono agli utenti di programmare la
console stessa ed utilizzarla come un personal computer. La Sony vende anche un se-
condo kit (consistente sia di componenti software che hardware) che permette ai con-
sumatori di creare i propri videogames e di giocarvi sulla playstation.
462 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

alla possibilità di risolvere il caso alla luce di una diversa fattispecie pe-
nale, nel « caso Playstation 2, n. 2 », il giudice ha espressamente moti-
vato il ricorso all’art. 171-ter, lett. f-bis), sostenendo l’erroneità di un ap-
proccio che vedrebbe i videogiochi equiparati a meri programmi per ela-
boratore. Il software, infatti, sarebbe certo parte integrante del video-
gioco, ma questo si compone di ulteriori elementi che, nel suo insieme, lo
rendono un’opera molto più complessa che certamente rientra, come i
fonogrammi e le opere audiovisive, nel novero delle altre opere dell’inge-
gno tutelate penalmente dall’art. 171-ter, lett. f-bis) (15).
Il paragone fra i due casi è di estremo interesse in quanto, pur
avendo deciso sulla base della stessa fattispecie criminosa, gli organi giu-
dicanti sono giunti a conclusioni opposte. Secondo il giudice del caso PS2
n. 2, infatti, la responsabilità ex art. 171-ter, lett. f-bis) sussiste poiché il
fine di eludere la misura tecnologica di protezione sarebbe prevalente e
preponderante rispetto agli altri usi resi possibili dalla tecnologia in
esame. In particolare, degna di nota sembra la considerazione secondo
cui la possibilità di rendere la console capace di leggere giochi di impor-
tazione non potrebbe costituire un uso legittimo in quanto, secondo il
principio dell’esaurimento enucleato all’art. 17 l.a., la stessa attività di
importazione e distribuzione di videogiochi destinati al mercato extraco-
munitario sarebbe illegale (16). In secondo luogo, sempre secondo il Giu-
dice, venendo meno l’assimilazione del videogioco al genus dei pro-
grammi per elaboratore, verrebbe parimenti meno la facoltà di effet-
tuare una copia di riserva del gioco, facoltà che l’art. 64-ter garantirebbe
solo all’acquirente legittimo di un software (17). Al contrario, a quest’ul-
timo soggetto spetterebbe semmai, conformemente a quanto sancito al-
l’art. 71-sexies, comma 1, l.a., la facoltà di farne copia per fini privati: ma
ciò nel rispetto delle misure tecnologiche di cui all’art. 102-quater, l.a.
Pertanto, conclude il Giudice, « se [dunque] è legittima la realizzazione
della copia del videogioco per fini privati, non altrettanto lo è la rimo-
zione del dispositivo che ne impedisca la lettura sulla console » (18). (An-

(15) L’idea che i videogiochi siano assimilabili a vere e proprie opere dell’inge-
gno ha trovato conferma in dottrina. V. P.F. REGOLI, I videogiochi e i videoclips nella
recente disciplina legislativa, in Riv. dir. aut., n. 1, 2007, p. 80; G. GUGLIELMETTI, Le
opere multimediali, in AIDA, 1998, p. 109 ss.; G. NIVARRA, Le opere multimediali in in-
ternet, in AIDA, 1996, p. 131.
(16) In senso analogo v. M. RICOLFI, Videogiochi che Passione! Consoles Proprie-
tarie, modchips e Norme Antielusione nella Prima Giurisprudenza Italiana, in Giur. it.,
2004, 1454 a p. 1455.
(17) La tesi appare discutibile in quanto se è vero che il videogioco si compone
di ulteriori aspetti espressivi (quali i personaggi, la trama del gioco ecc.) che possono
contribuire differenziarlo da un semplice software applicativo, dall’altra le similitu-
dini con la detta tipologia di opere dell’ingegno rimane ed è molto forte. In partico-
lare, il fatto che, in entrambi i casi il consumatore non si limita ad una fruizione
« passiva » dell’opera ma interagisce con questa al fine di raggiungere un determinato
risultato, a sua volta creativo, che può essere utile (nel caso del programma per ela-
boratore) o semplicemente dilettevole (nel caso dei videogioco).
(18) Appare singolare che il giudice non abbia tenuto conto, nel suo ragiona-
I. - Giurisprudenza nazionale 463

cor) meno convincente appare, poi, la ricostruzione secondo cui il trasfe-


rimento del diritto di proprietà relativo alla console, anch’essa tutelabile
dal diritto d’autore (quantomeno in relazione al sistema operativo), av-
verrebbe nei limiti degli usi previsti dal venditore ed accettati dal con-
sumatore al momento dell’acquisto (19).
Il terzo caso (« Caso Playstation 2, n. 3 ») si distingue dai precedenti
perché, partendo dal presupposto che i videogiochi vadano considerati,
a tutti gli effetti, dei programmi per elaboratore, il Giudice ha applicato
la fattispecie di cui all’art. 171-bis l.a., sostenendo che la nuova, intro-
dotta con il d.lgs. n. 68 del 2003 (ricordo: l’art. 171-ter, lett. f-bis), in at-
tuazione della Direttiva 29/2001/CE, sarebbe applicabile solo a fono-

mento, della disposizione contenuta al quarto comma del medesimo articolo che —
con scarsa precisione — statuisce che « i titolari dei diritti sono tenuti a consentire che,
nonostante l’applicazione delle misure tecnologiche di cui all’art. 102-quater, la persona
fisica che abbia acquisito il possesso legittimo di esemplari dell’opera o del materiale
protetto [...] possa effettuare una copia privata [...] per uso personale [...] » (corsivi
aggiunti). In realtà, che i consumatori possano effettivamente vantare un vero e pro-
prio diritto alla copia privata, attuabile nei confronti dei titolari di diritti, è questione
piuttosto controversa (in favore di questa tesi, G. Sanseverino, nota a Trib. Bolzano,
31 dicembre 2003, Giudice Mori, AIDA, 2005, 484), che si complica ulteriormente nel
caso in cui l’opera sia protetta da una MTP (negativamente sul punto M. RICOLFI, su-
pra nota 16, a p. 1455). Si veda, a tal proposito, la recente decisione della Corte Su-
prema francese nel caso « Mulholland Drive » secondo cui la realizzazione di una co-
pia privata dell’omonimo film confliggerebbe con la nozione di normale sfruttamento
dell’opera (il caso riguardava un consumatore che aveva legittimamente acquistato
copia del film in DVD e non riusciva ad effettuare una riproduzione per fini privati a
causa delle MTP) (Cfr. Decisione della Suprema Corte Francese, 1o Sezione Civile, 28
febbraio 2006, 2006 D. 784. La decisione è stata severamente criticata da C. GEIGER,
Three Steps Test, a Threat to a Balanced Copyright Law?, in IIC, n. 6/2006, 683). Ad
ogni modo, sembra opportuno puntualizzare che l’art. 71-sexies si applica specifica-
mente alla riproduzione privata di fonogrammi e videogrammi, categoria all’interno
della quale non è scontato possano essere ricondotti i videogiochi. Basti pensare, a tal
proposito, come il quarto comma del detto articolo, appena richiamato in questa
nota, fa riferimento alla possibilità di effettuare una copia privata « anche solo ana-
logica ». Ben si comprende come la copia analogica di un CD musicale o di un DVD
consente ugualmente all’utente di poter fruire del contenuto protetto, sebbene attra-
verso una tecnologia obsoleta; la medesima cosa, tuttavia, non pare possibile nel caso
dei videogiochi.
(19) Interessante, su questo punto, il paragone con l’ordinanza firmata dal
Giudice Mori. I Giudici del Tribunale del riesame si sono a lungo interrogati sulla le-
gittimità della condotta con cui il produttore/distributore della macchina hardware,
dopo averne perso la disponibilità (in ragione dell’atto di vendita), tenti di impedire
all’acquirente legittimo di modificarla per renderne l’uso più consono alle proprie esi-
genze. Riconoscono, infatti, i giudici che l’inserimento della misura di protezione,
avendo esattamente questo fine, di fatto aggira gli ostacoli provenienti dalle norme
civilistiche. Peraltro, osserva il Tribunale del riesame, le limitazioni contrattuali inse-
rite attraverso licenze shrink-wrap o click-wrap, miranti a limitare la libertà dei con-
sumatori, non possono essere rese esecutive nei Paesi di civil law come l’Italia, dove i
termini contrattuali (per poter essere validi ed attuabili) devono essere conosciuti —
conoscibili o comprensibili — dal consumatore al momento della vendita; ed una tale
conoscenza non può essere presunta se, come avviene nel caso delle dette licenze, essi
non sono chiaramente a disposizione dell’acquirente al momento della conclusione del
contratto.
464 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

grammi e videogrammi. Facendo poi proprie le osservazioni esposte dai


Giudici nel caso Playstation 2 n. 1, il Tribunale ha deciso di assolvere
l’imputato per insussistenza del fatto, ritenendo che il caricamento della
scheda di espansione nella console rendeva possibili altri usi leciti della
macchina, e non solo, né principalmente, l’elusione della MTP.

4. La sentenza della Cassazione penale.

La Suprema Corte, concordando con quanto sostenuto dalla Corte


territoriale, ha ribadito la necessità di assimilare i videogiochi ad opere
dell’ingegno: pur se essi impiegano un software, non parrebbe opportuno
confonderli con questo. E del resto, in quanto opere complesse e « mul-
timediali », i videogiochi godrebbero della specifica tutela attribuita dal-
l’art. 171-ter, lett. f-bis): norma, ricorda la Suprema Corte, che, inserita
a seguito del recepimento della Direttiva comunitaria 29/2001/CE, non
ha introdotto una nuova fattispecie criminosa, bensı̀ ha semplicemente
ridefinito, al passo con i tempi, quella già contenuta nell’art. 171-ter, lett.
d), in vigore al momento dei fatti (20).

5. Qualche spunto critico.

Nel lontano 1984, la Corte Suprema statunitense veniva chiamata,


per la prima volta, a pronunziarsi sulla legittimità della distribuzione al
pubblico di congegni atti a permettere la riproduzione non autorizzata di
opere cinematografiche (21). Accertata la natura non contraffattoria di
tali condotte (22), i Giudici si rifiutarono di accogliere il punto di vista
della sentenza di Appello, — secondo cui la Universal avrebbe avuto il

(20) Al momento dei fatti, l’art. 171-ter, lett. d) puniva: « chiunque produce,
utilizza, importa, detiene per la vendita, pone in commercio, vende, noleggia o cede
a qualsiasi titolo sistemi atti ad eludere, decodificare o rimuovere le misure di prote-
zione del diritto d’autore o dei diritti connessi ». La Corte territoriale aveva escluso la
responsabilità dell’imputato sostenendo, in maniera non troppo chiara, che detta
norma non fosse applicabile al caso dei videogiochi: questi, da una parte, non pote-
vano correttamente assimilarsi ai programmi per elaboratore — e rientrare dunque
sotto l’art. 171-bis — ma, dall’altra, solo a seguito delle modifiche operate con il d.lgs.
n. 68 del 2003, ed in particolare con l’introduzione degli artt. 102-quater e 171-ter, lett.
f-bis), « hanno perduto la qualificazione generica di “software” per divenire una cate-
goria a sé, dotata di specifica protezione ». Cfr. i fatti riportati in Cass. pen., Sez. III
(ud. 25 maggio 2007) 3 settembre 2007, n. 33768.
(21) Sony Corp. of America v. Universal City Studios Inc., 464 U.S. 417, (1984).
(22) La Corte Suprema ritenne che la riproduzione tramite il videoregistratore
rientrava nella nozione di fair use in quanto, priva di scopo commerciale, era sempli-
cemente volta a consentire agli utenti di spostare nel tempo la visione di un pro-
gramma che erano legittimati a vedere (c.d. time shifting). Secondo la Corte Suprema,
infatti, « even unauthorized uses of a copyrighted work are not necessarily infringing.
An unlicensed use of the copyright is not an infringement unless it conflicts with one
of the specific exclusive rights conferred by the copyright statute ». Idem, p. 447 ss.
I. - Giurisprudenza nazionale 465

diritto di impedire la distribuzione di videoregistratori, di percepire delle


royalties sulla vendita di tali apparecchi o di ottenere una forma di in-
dennizzo alternativo — motivando che l’accoglimento di una tale tesi
« [...] would enlarge the scope of respondents’ statutory monopolies to
encompass control over an article of commerce that is not the subject of
copyright protection. » Precisando altresı̀ che « [S]uch an expansion of
the copyright privilege is beyond the limits of the grants authorized by
Congress » (23).
Prescindendo dal problema della classificazione dei videogiochi al-
l’interno di una piuttosto che un’altra categoria di opere dell’ingegno
(problema in relazione al quale è quantomai auspicabile un chiarimento
legislativo) si vorrebbe qui mettere in luce un aspetto che non è sinora
emerso, in tutta la sua importanza, nelle analisi dei casi sin qui riportati.
Ed infatti, nonostante le circostanze dei casi in discussione presentino
marcate diversità rispetto alla controversia appena richiamata, emerge
un profilo, e specialmente una preoccupazione, a fattor comune.
Innanzitutto, preme notare come tutti i Giudici — sia di merito che
di Cassazione — abbiano concentrato la loro attenzione pressoché esclu-
sivamente su due elementi: da una parte, sull’effettiva capacità del mod
chip di eludere la misura di protezione; dall’altra, sulla categoria di opere
protette che potesse meglio ricomprendere i videogiochi. Il sottinteso
(comune, appunto) è che la misura di protezione fosse volta a scoraggiare
l’acquisto di videogiochi contraffatti e quindi, in ultima analisi, il feno-
meno della pirateria tout court. L’assunto (tacito) era dunque che il fine
cui la protezione tecnologica tende sia l’elemento chiave nella scelta della
fattispecie penalistica da applicare (24).
Vi sono peraltro ulteriori rilevanti elementi che i Giudici (tutti) sem-
brano aver trascurato. Come già ricordato, la tecnologia di protezione in
discussione consta di almeno due componenti: un codice inserito nel vi-
deogioco ed un congegno posto nella console tra l’hardware ed il software.
Al momento del caricamento del gioco, la console cercherà specifica-
mente la sequenza di codice impressa nel gioco e ne consentirà la lettura
solo al ritrovamento di quelle precise informazioni. Ora, è opportuno no-
tare che gli atti di elusione contestati nel caso che i occupa non riguar-
davano i videogiochi — ad esempio, non modificavano l’informazione
software che questi contenevano — ma si rivolgevano ed operavano solo
nei confronti del congegno apposto alla console.
Pare necessario allora fare un passo indietro e chiedersi quale diritto
proprietario legittimasse Sony ad apporre la misura — rectius il sistema
— di protezione qui descritta e, di conseguenza, se, e a quale titolo, Sony

(23) Idem, p. 421.


(24) Non riuscendo ad arginare il fenomeno della (riproduzione non autoriz-
zata e conseguente) commercializzazione su larga scala di giochi contraffatti, i tito-
lari dei diritti appongono una misura tecnologica di protezione al dispositivo che « ca-
rica » i giochi e, impedendo alla console di leggere i videogames contraffatti, di fatto
dovrebbe spingere i consumatori ad acquistare solo prodotti originali.
466 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

potesse effettivamente contestare l’elusione consentita attraverso il mod


chip. Mi parrebbe corretto dire che, in quanto titolare dei diritti esclu-
sivi sui videogiochi, la Sony era legittimata ad apporre su questi la por-
zione di codice che funzionava come chiave di accesso, per consentirne il
caricamento (25). Meno chiaro è se, sempre in qualità di titolare dei di-
ritti sui videogiochi, la Sony poteva ritenersi legittimata ad apporre delle
misure di protezione in capo ad altri oggetti, distinti dai videogiochi, e
non tutelati da diritto d’autore (26). Se è vero, infatti, che la normativa
italiana, sulla scia della Direttiva comunitaria, si è discostata dall’impo-
stazione data nei Trattati WIPO del 1996 riguardo la disciplina delle
MTP, il « collegamento » tra misura e oggetto sul quale tale misura viene
ad essere apposta è rimasto, tant’è che l’art. 102-quater parla di diritto
di apporre la protezione « sulle opere o sui materiali protetti » (27). Il

(25) Secondo quanto sancito dallo stesso art. 102-quater l.a., i titolari di diritto
d’autore, di diritto connesso e il costitutore di una banca dati di cui all’art. 102-bis
l.a. possono tutelare le proprie opere tramite l’apposizione di misure tecnologiche di
protezione, da intendersi come « tutte le tecnologie, i dispositivi o i componenti che,
nel normale corso del loro funzionamento, sono destinati a impedire o limitare atti
non autorizzati dai titolari dei diritti ». Se i videogiochi — come sostenuto in ultimo
dalla Cassazione nella sentenza in epigrafe — rientrano nel novero di opere coperte
da diritto d’autore, i titolari dei diritti ben possono avvalersi della tutela di cui all’art.
102-quater.
(26) Si noti, infatti, che il diritto di apporre misure di protezione è attribuito
ai titolari di diritti d’autore, diritti connessi e diritto sui generis sulle banche di dati:
ma non è attribuito al titolare di diritto d’autore su di un programma per elaboratore
elettronico (come espressamente escluso dall’art. 102-quater, comma 3), né tantomeno
in via generale, ai titolari di distinti diritti di proprietà industriale, come ad esempio
al titolare di un brevetto su di un’invenzione attuata a mezzo di elaboratore elettro-
nico, o al titolare di diritti su topografie dei prodotti a semiconduttori, etc. Preme qui
precisare, tuttavia, che tale circostanza non impedisce al titolare di un diritto di pro-
prietà industriale, di proteggere il proprio bene apponendovi delle misure di prote-
zione. Tali misure, però, in questo secondo caso, non beneficieranno della tutela di cui
all’art. 102-quater e, di rimando, di quella codificata all’art. 171-ter, lett. f-bis).
(27) Gli artt. 11 e 18 rispettivamente del WIPO Copyright Treaty e WIPO Per-
formances and Phonograms Treaty fanno riferimento a misure tecnologiche di prote-
zione utilizzate dagli autori in connessione con l’esercizio dei propri diritti sanciti dai
medesimi Trattati o dalla Convenzione di Berna, e che sono volte a restringere con-
dotte non autorizzate dai titolari dei diritti rispetto alle proprie opere o condotte non
permesse dalla legge. Cfr. WIPO Copyright Treaty (WCT) adottato dalla Conferenza
Diplomatica di Ginevra del 20 dicembre 1996, art. 11 (« Obblighi concernenti le Mi-
sure Tecnologiche »), e analogamente WIPO Performances and Phonograms Treaty
(« WPPT ») adottato dalla Conferenza Diplomatica di Ginevra del 20 dicembre 1996,
art. 18 (« Obblighi concernenti le Misure Tecnologiche »). E v interessante mettere in
luce come la stessa Direttiva 29/2001/CE, sebbene si sia discostata dalle disposizioni
degli articoli del WCT e del WPPT nel non condizionare l’applicabilità della misura
al fatto che questa sia effettivamente volta a tutelare una facoltà espressamente at-
tribuita al titolare del diritto dalla legge (consentendo, pertanto, ai titolari dei diritti
di « blindare » utilizzazioni dell’opera che, per legge, sarebbero libere), ha però man-
tenuto il legame tra MTP e opera o materiale protetto là dove all’art. 6, comma 3,
parla di dispositivi che « [...] nel normale corso del loro funzionamento, sono destinati a
impedire o limitare atti su opere o altri materiali protetti [...] » (corsivi aggiunti): for-
mula recepita pedissequamente dalla nostra normativa. Per una trattazione più ap-
I. - Giurisprudenza nazionale 467

dubbio sembrerebbe — a prima vista — meno rilevante nel caso con-


creto, in considerazione del fatto che Sony produce anche le console e
pertanto, pur non vantando — in qualità di produttore della Playstation
— un diritto espressamente riconosciuto verso l’apposizione di MTP alla
componente hardware o software della medesima (28), poteva certamente
modificare la propria macchina al fine di renderla interoperabile solo con
i propri giochi (29).
Ciò detto, non può non considerarsi (e v. il rilievo formulato
poc’anzi) come l’elusione della MTP a mezzo dell’istallazione del mod
chip concernesse non la misura apposta ai videogiochi, bensı̀ solo quella
posta sulla console. Pertanto, sarebbe forse stato più opportuno guardare
a Sony nella sua veste di produttore di consoles e considerarla, solo in
quanto tale, legittimata ad agire (30).
A ben vedere, l’accoglimento della ricostruzione normativa da ul-
timo accolta anche dalla Cassazione è molto pericoloso perché finisce con
l’attribuire, alle imprese che forniscono sistemi di prodotti (31), il duplice

profondita dell’argomento, rimando al mio Misure tecnologiche di protezione, software


e interoperabilità nell’era digitale, cit., a p. 351 e ss.
(28) V. supra nota 26.
(29) Si noti, peraltro, che la facoltà di apporre una misura di protezione non
aveva certo bisogno del riconoscimento normativo di cui all’art. 102-quater: sulla cui
portata innovativa si sono interrogati diversi studiosi. Ex multis, v. P. SPADA, Copia
Privata ed Opera sotto Chiave, in questa Rivista, I, 2002, p. 591. Ed invero tale norma,
quantomeno nell’assetto normativo attuale, sembra essere funzionale solamente alla fat-
tispecie di cui all’art. 171-ter, lett. f-bis), in quanto consente — tramite, appunto, il
rimando alle MTP di cui all’art. 102-quater — di derivare l’applicabilità della detta
norma, distinguendola, ad esempio, dalle altre fattispecie codificate agli artt. 171-ter,
lett. f) o 171-bis, comma 1, l.a.
(30) Mettiamo il caso che anziché un’unica società, come nel caso in esame, due
distinte imprese, l’una che produce videogiochi e l’altra che produce console, si accor-
dino per rendere i prodotti della prima esclusivamente fruibili (per i consumatori) a
mezzo del macchinario venduto dalla seconda. Ora, senza l’accordo della seconda, la
prima non potrebbe certo modificare la console apponendovi una misura di protezione
per tutelare i propri giochi, cosı̀ come non potrebbe certo citare in giudizio un terzo
che vende dispositivi atti a rimuovere il congegno di protezione apposto su di una
console di cui essa non è proprietaria, in particolare sostenendo che l’elusione di tale
dispositivo, consentendo la lettura di tutti i giochi (anche delle copie contraffatte dei
propri), lede il suo diritto di blindare la sua opera con recinti tecnologici e dunque in-
tegra la fattispecie di cui all’art. 171-ter, lett. f-bis. Paradossalmente, in un caso del
genere, nemmeno la seconda impresa produttrice delle console avrebbe interesse a
perseguire il fatto poiché dall’elusione del meccanismo di protezione essa non perce-
pisce alcun danno. La misura, infatti, non è volta ad impedire la riproduzione non
autorizzata del programma software della console.
(31) Circostanza tutt’altro che infrequente nei nuovi mercati digitali. Si pensi,
ad esempio, al caso della Apple che produce lettori multimediali — hardware — sui
quali è caricato un software che consente di utilizzare i contenuti all’interno della
memoria del prodotto; tale software è interoperabile con un secondo software appli-
cativo, sempre prodotto dalla casa di Cupertino, installato sul personal computer del-
l’utente e che consente a quest’ultimo non solo di acquistare brani musicali online ma
anche, più semplicemente, di fruire di tali brani attraverso l’elaboratore elettronico e
468 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

vantaggio di poter apporre misure di protezione su qualunque tipo di di-


spositivo hardware loro torni utile, e di invocare poi, giocando sulla dop-
pia titolarità (dei contenuti e degli apparati necessari alla loro fruizione),
la tutela penale più forte. In questo modo, anche congegni privi di pro-
tezione alcuna, o tutelati dal diritto brevettuale, potrebbero essere « blin-
dati » da una misura di protezione e poi ulteriormente protetti grazie alla
tutela penale apprestata dall’art. 171-ter, lett. f-bis).
In fine, l’impostazione seguita dai Giudici del merito pare codificare
una sorta di responsabilità indiretta « al quadrato » poiché concede ai ti-
tolari dei diritti sui videogiochi, là dove siano anche produttori delle
consoles, di « recintare » quest’ultime con misure di protezione che le ren-
dono incapaci di leggere giochi contraffatti o semplicemente concorrenti.
E si consente altresı̀ ai medesimi di perseguire penalmente i produttori
— non già di una tecnologia che consente o agevola in qualche modo la
contraffazione dei videogiochi, questa sı̀ sarebbe responsabilità indiretta,
bensı̀ — di una tecnologia che opera direttamente sulla macchina ma che
non facilita né rende possibile una contraffazione: e ciò perché il chip non
consente né di contraffare i videogiochi né tantomeno il programma
operativo che controlla la console).

6. Conclusioni.

Tornando al caso in discussione, preme rilevare che poiché la misura


di protezione era apposta tra la componente hardware della console e
quella software, sarebbe forse stato opportuno, al fine di invocare la tu-
tela delle norme antielusione, quantomeno riferirsi alla fattispecie di cui
all’art. 171-bis, comma 1. E ciò non, come ha concluso il giudice del caso
Playstation 2 n. 3, per la presunta ascrivibilità dei videogiochi al genus

di gestire ed organizzare la disposizione dei files nel lettore (ad esempio suddividen-
doli in c.d. playlists).
Ovviamente, perché l’intero sistema funzioni è necessario che tutti i suoi com-
ponenti siano interoperabili tra loro. Perché il sistema poi divenga quanto più possi-
bile profittevole, è necessario utilizzare l’interoperabilità in maniera strategica. Ciò
spiega, ad esempio, per quale motivo la Apple al momento del lancio dell’i-pod,
quando non esistevano ancora dei servizi di vendita di brani musicali online, si sia ben
guardata dal renderlo incapace di leggere brani contraffatti. Anzi, si può tranquilla-
mente affermare che la Apple si sia deliberatamente avvantaggiata del dilagante fe-
nomeno della pirateria musicale per lanciare un prodotto che, al momento di immis-
sione nel mercato, poteva essere utilizzato quasi unicamente per riprodurre brani
contraffatti (si può escludere solo il caso della riproduzione di brani trasferiti sul let-
tore portatire da un CD legalmente acquistato, ma questa è certamente un’ipotesi re-
siduale).
E
v peraltro interessante notare come successivamente all’introduzione del proprio
servizio di vendita di brani musicali online, tramite l’i-tunes music store, la casa di
Cupertino abbia ritenuto opportuno rendere l’i-pod incapace di leggere brani scaricati
da servizi concorrenti quale quello offerto dalla RealNetworks. Quest’ultima vicenda
è stata riportata e commentata da J. BOYLE, The Apple of forbidden knowledge, Finan-
cial Times, August 12th 2004.
I. - Giurisprudenza nazionale 469

dei programmi per elaboratore, bensı̀ in ragione del fatto che la condotta
elusiva aveva avuto ad oggetto la protezione tecnologica direttamente
apposta al programma per computer sotteso al funzionamento della con-
sole.
In conclusione, la tutela legale accordata alle misure tecnologiche di
protezione certamente aggiunge un ulteriore strato di protezione alle
opere protette dal diritto d’autore. Occorre, tuttavia, tenere a mente che
dette misure non sono — non debbono essere! — tutelate per se, indipen-
dentemente dal proprio ambito di applicazione, bensı̀ là dove coprano
opere tutelate dal diritto d’autore. E v pertanto necessario che l’elusione
di tali misure sia colpita ove ed in quanto esse direttamente « insistano »
su un’opera dell’ingegno oggetto di copyright. Viceversa, se la tutela ve-
nisse accordata indipendentemente dall’« oggetto » si correrebbe il ri-
schio, come paventato dalla Corte Suprema nel caso Sony, di ampliare a
dismisura la portata di un diritto che già, per sua natura, è volto a raf-
forzare, se non ad estendere, la portata monopolistica del diritto d’au-
tore.
EMANUELA AREZZO
470 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

I
TRIBUNALE DI MILANO
Sezione Specializzata in proprietà industriale ed intellettuale
Ordinanza 24 novembre 2005
Pres. TARANTOLA — ROSA — Est. DE SAPIA
Marco Bruns, 69 S.r.l. e Fin Esse S.r.l. (Avv.ti L. Mansani e I. Betti)
c. Flirt S.r.l. (Avv.ti F. Cannizzaro e G. Selgi)

Marchi - Illiceità del marchio per contrarietà al buon costume - Capacità distin-
tiva - Elemento concettuale - Rischio di confusione - Insussistenza.

Si possono sollevare dubbi, in relazione al disposto di cui all’art. 14, co. 1, lett.
a) CPI, sulla tutelabilità di un marchio avente ad oggetto una lettera dell’alfabeto che
raffigura in forma stilizzata un atto sessuale, tenuto conto che il segno, se si prescinde
da quel richiamo, non risulta avere specifiche particolarità grafiche tali da consen-
tire una protezione ulteriore rispetto alla lettera dell’alfabeto raffigurata.

II
TRIBUNALE DI BARI
Sezione Specializzata in proprietà industriale ed intellettuale
25 giugno 2007
Pres. MAGALETTI — CLAUDIO — Est. DI PAOLA
Marco Bruns, 69 S.r.l. e Fin Esse S.r.l.
(Avv.ti L. Mansani, I. Betti e Angelo Donato)
c. Felice Nicola Covelli (Avv. ti C. Manzi e S. Liuni)

Marchi - Elemento grafico - Capacità distintiva - Sussistenza - Elemento concet-


tuale.
Illiceità del marchio per contrarietà al buon costume - Insussistenza.
Marchio forte - Tutela - Rischio di confusione e/o di associazione tra segni - Mar-
chi “in serie” - Sussistenza.

Un segno costituito da una lettera dell’alfabeto in una peculiare caratterizza-


zione grafica, quale quella avente ad oggetto l’immagine di due corpi stilizzati nel
compimento di un atto sessuale, rende particolare la rappresentazione della lettera
scelta come segno, garantendo un sufficiente grado di distintività del segno, a prescin-
dere dal fatto che il carattere distintivo del segno discenda anche, ma non unicamente,
dall’elemento concettuale che si estrinseca, attraverso la raffigurazione, nel riferi-
mento all’atto sessuale.
Un segno non può essere considerato contrario al buon costume ai sensi dell’art.
14, co. 1, lett. a) CPI ove l’aspetto concettuale del segno consistente nel coinvolgi-
I. - Giurisprudenza nazionale 471

mento della sfera sessuale, pur rappresentando il nucleo individualizzante del segno,
appaia tuttavia indiretto, eventuale e non automaticamente collegato alla visione del
segno.
La tutela del marchio forte comporta l’illegittimità di qualsiasi variazione e
modificazione dell’uso di quella parte dello stesso che costituisce il cd. cuore, ossia il
nucleo ideologico che ne esprime l’idea fondamentale.
Valutando complessivamente sia le caratteristiche stilistiche dei marchi, sia il
contenuto concettuale, il consumatore del settore interessato (moda) può trarre il con-
vincimento che i marchi in conflitto appartengano ad una stessa famiglia di segni,
riconducibile ad una medesima origine commerciale, secondo una tecnica diffusa nel
settore della moda e dell’abbigliamento in cui la penetrazione sul mercato è assicu-
rata dall’uso di marchi seriali rivolti a differenti settori del pubblico per garantire la
continuità del messaggio principale che sta alla base della serie dei marchi.

FATTO e DIRITTO. — Premesso che con atto depositato il 28 ottobre 2005


Marco Bruns, 69 Srl e Fin Esse Srl, proponevano reclamo avverso l’ordinanza
emessa in data 10 ottobre 2005, con la quale era stato respinto il ricorso presen-
tato a tutela dei propri marchi aventi ad oggetto “un segno costituito dalla lettera
dell’alfabeto ‘A’ in una particolare veste grafica (...) che intenzionalmente cela una
seconda immagine, di due figure umane stilizzate, che può essere colta solo ad un
esame più attento”.
Rilevato che Flirt Srl resisteva al reclamo, chiedendo la conferma dell’im-
pugnata ordinanza.
Ciò premesso, reputa il Tribunale che la ricostruzione operata dal giudice
designato e le relative conclusioni siano corrette e congruamente motivate, con
la conseguenza che devono essere confermate in questa sede.
In particolare, il giudice designato ha sollevato “concreti dubbi sulla effettiva
liceità della registrazione dei marchi in questione in relazione al disposto di cui al-
l’art. 14 comma 1 lett. a) C.P.I.” ed ha precisato che “la tutela che sostanzialmente
viene richiesta (...) si incentra proprio sul richiamo che il segno in questione pone
in essere alla raffigurazione di natura sessuale, tenuto conto che detto segno, ove da
tale pur evidente richiamo dovesse prescindersi, non risulterebbe avere specifiche
particolarità grafiche tali da consentire una tutela estesa anche alla raffigurazione di
diverse lettere dell’alfabeto non autonomamente registrate dallo stesso soggetto”.
Tale impostazione appare corretta considerato che il segno di parte ricor-
rente è composto dalla lettera “A” accompagnata da due punti, e che, come tale,
non risulta connotato da particolare distintività.
Ev solo il posizionamento, per cosı̀ dire strategico, dei due punti che accom-
pagnano la lettera “A”, che fa trasparire un secondo significato, derivante dalla
peculiare prospettiva in tal modo creata e che configura la rappresentazione di
due figure umane, stilizzate, nel compimento di un atto sessuale.
Da quanto detto ne consegue che il nucleo ideologico del segno in esame, del
quale viene chiesta la tutela, è costituito dalla raffigurazione di un rapporto ses-
suale, di tipo non ben identificato, ma certo immaginabile.
In questa prospettiva, è evidente l’interferenza con il marchio di parte resi-
472 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

stente, che, in maniera ancora più esplicita, consente di riconoscere nella lettera
“H” accompagnata da due punti, due persone che compiono un determinato atto
sessuale.
Il conflitto fra i segni in questione, pertanto, presuppone la possibilità di
utilizzare marchi che, pur in maniera velatamente celata, basano il loro messag-
gio caratterizzante sulla rappresentazione di un rapporto sessuale nel suo compi-
mento.
Ciò premesso, si osserva che per quanto immagini di nudo o di impronta
erotica vengano talvolta utilizzate anche nella pubblicità, ciononostante nel caso
di specie, grazie alla modalità grafica utilizzata (stilizzazione), si introduce una
rappresentazione di tipo dinamico, relativa ad un comportamento sessuale, che
come tale deve essere valutata con maggiore rigore.
E se questo è il nucleo ideologico del segno, appare irrilevante che il ri-
chiamo all’atto sessuale possa talvolta non apparire immediato, proprio in
quanto tale trasposizione ed il conseguente doppio senso, configurano l’appetibi-
lità del segno, valutabile in chiave distintiva.
Per queste ragioni le, pur apprezzabili, argomentazioni svolte dalla difesa di
parte reclamante non risultano pertinenti, riguardando casi in cui prevale un ri-
chiamo per cosı̀ dire statico ed in ogni caso meno esplicito, alla sfera sessuale,
ipotesi che non ricorre nel caso di specie.
Quanto alla possibilità, pure evidenziata dai reclamanti, di “soddisfare ogni
più recondita curiosità riguardo alle pratiche sessuali anche più inusitate ...” attra-
verso la rete internet (reclamo pag. 11), ciò attiene alla sfera privata di ciascun
utente e certo non contribuisce a definire il concetto di “buon costume”.
Del resto, nello stesso “parere pro veritate” prodotto da parte reclamante
(doc. n. 25), pur ritenendosi il marchio in esame conforme alla morale pubblica,
non può non ammettersi che si tratti di segno di cattivo gusto.
Contrariamente a quanto dedotto da parte reclamante, infine, non si per-
viene a diversa conclusione sulla base dell’intervenuta registrazione del segno
quale marchio comunitario, considerato che nel Reg. CE n. 40/94 vige analoga
disposizione, riguardante i marchi contrari al buon costume (art. 7.1.f), onde ap-
pare assorbente la già evidenziata lesività del segno.
Le conclusioni raggiunte assorbono ogni altra questione sollevata in causa e
comportano il rigetto del reclamo.
Le peculiarità del caso consigliano la compensazione delle spese di lite an-
che di questa fase del giudizio.

P.Q.M. — Il Tribunale, ogni contraria istanza, eccezione o deduzione disat-


tesa, respinge il reclamo proposto con atto depositato in data 28 ottobre 2005 da
Marco Bruns, 69 Srl e Fin Esse Srl.
Compensa le spese di lite.

II

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. — Con atto di citazione notificato il 15 marzo


2005 Marco Bruns e le società 69 s.r.l. e Fin Esse s.r.l. convenivano in giudizio
I. - Giurisprudenza nazionale 473

davanti al Tribunale di Bari, sezione specializzata per la proprietà industriale ed


intellettuale, Covelli Felice Nicola.
Esponevano gli attori che il Bruns era l’ideatore e titolare del marchio co-
stituito dalla lettera A in una particolare veste grafica (caratterizzata dalla pre-
senza di una dieresi obliqua sul lato sinistro della lettera) “che secondo le inten-
zioni del suo creatore nasconde una seconda immagine, meno casta e di forte im-
patto visivo, che può essere colta solo ad un esame più attento”; che il segno cosı̀
descritto era stato registrato sia come marchio comunitario dal 2 settembre 2002
(registrazione n. 2277085) che come marchio nazionale dall’11 dicembre 2002
(registrazione n. 879973), per contraddistinguere prodotti di abbigliamento, in
cuoio e sportivi; che lo stesso segno aveva formato oggetto di domanda di mar-
chio internazionale depositata il 20 maggio 2003; che inoltre il Bruns aveva de-
positato domande di registrazione come marchio nazionale e comunitario del se-
gno denominativo “A-style”, sempre in relazione ai medesimi prodotti di abbi-
gliamento e sportivi.
Aggiungevano che le società 69 s.r.l. e Fin Esse s.r.l. erano rispettivamente
licenziatarie e sublicenziatarie esclusive del marchio comunitario registrato.
Specificavano gli attori che i marchi registrati erano stati pubblicizzati ini-
zialmente ricorrendo al c.d. marketing di strada o urbano (mediante affissione di
adesivi riproducenti il marchio su insegne, pali, semafori ed altri elementi di ar-
redo urbano), quindi facendo uso di intense campagne pubblicitarie sulla
stampa, specializzata e non, attraverso i mezzi televisivi e, con importanti appa-
rizioni in esposizioni e fiere destinate all’abbigliamento, aggiungevano che la dif-
fusione dei marchi era stata incrementata dai progressivi aumenti di fatturato e
vendita di capi di abbigliamento contraddistinti dai predetti marchi riscontrati
dall’anno 2003 in poi; sostenevano che i marchi avevano acquisito il carattere del
marchio forte e notorio, grazie al rafforzamento della capacità distintiva del se-
gno collegato alla particolare raffigurazione grafica ed all’intensa distribuzione
commerciale dei prodotti contraddistinti dai marchi.
Avendo appreso e accertato l’esistenza di un segno costituito dalla lettera K
accompagnata dalla presenza di una dieresi apposta nella parte superiore della
lettera, gli attori individuavano un sito Internet in cui veniva riprodotto il segno,
risultato oggetto di domanda di registrazione di marchio nazionale per prodotti
di abbigliamento, nonché per metalli preziosi, carta e telecomunicazioni, deposi-
tata il 12 luglio 2004 da Covelli Felice Nicola.
Ritenendo che il segno per il quale il Covelli aveva richiesto la registrazione
come marchio difettasse del requisito della novità, trattandosi di una semplice
variazione del segno ideato dal Bruns, avendo il Covelli ripreso la stessa veste
grafica, il medesimo sfondo giallo, lo stesso genere di carattere e il medesimo
concetto creativo consistente nell’utilizzo di due pallini abbinati ad una lettera
dell’alfabeto cosı̀ da rappresentare due figure umane stilizzate, e ricorrendo nella
specie il rischio di associazione tra i due segni e l’evidente affinità dei prodotti
destinati ad essere contraddistinti dai marchi, formulavano domande di accerta-
mento dell’assenza dei requisiti per la valida registrazione del segno di cui alla
domanda n. MI 2004C007098 e conseguente declaratoria della nullità della regi-
strazione del marchio di cui alla domanda n. MI 2004C007098, nonché di accer-
tamento della contraffazione del proprio marchio per effetto dell’uso del segno di
cui alla domanda n. MI 2004C007098.
474 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

Costituendosi in giudizio, il convenuto contestava le affermazioni degli at-


tori, osservando che i marchi da loro registrati non potevano considerarsi né
forti, né notori, mancando una diffusa consapevolezza nel pubblico dei consuma-
tori del nucleo ideologico dei marchi (attinente alla lettura del segno che consen-
tiva di individuare le due figure umane stilizzate), che peraltro non veniva in al-
cun modo descritto nella richiesta di registrazione; sottolineava, inoltre, il difetto
di originalità del marchio “A-style”, essendo diffusa la presenza di svariati mar-
chi rea1izzati in combinazione con il sintagma — style —; aggiungeva che il pro-
prio marchio non veniva rappresentato unicamente con lo sfondo giallo, ma in
diverse modalità e con differenti colorazioni ed elementi figurativi.
Anche in relazione agli elementi di prova addotti dagli attori per sostenere
il carattere forte e notorio dei marchi azionati, il convenuto osservava d’un lato
che la diffusione dei marchi era stata dimostrata unicamente per una ristretta
fascia di pubblico dei consumatori, individuati nel pubblico più giovane; dall’al-
tro rilevava che il dedotto incremento del fatturato dei prodotti contraddistinti
con i marchi “A-style” non era sufficiente a dimostrare l’acquisita notorietà dei
marchi, trattandosi di incrementi intervenuti in un breve arco di tempo (dal 2003
al 2004) e comunque privi di riscontri quanto alla corrispondente quota di mer-
cato acquisita.
A seguito dell’udienza di comparizione ex art. 180 c.p.c. veniva disposta la
comunicazione dell’atto di citazione e della comparsa di risposta all’Ufficio del
P.M. ai sensi dell’art. 71 c.p.c.; con successiva comunicazione del 30 dicembre
2005 il P.M. concludeva per l’accoglimento della domanda proposta.
Di seguito venivano fissate le udienze ex art. 183 5o comma c.p.c. e la suc-
cessiva udienza ex art. 184 c.p.c.; con le memorie depositate le parti ribadivano
le rispettive posizioni, documentando gli attori ulteriori circostanze rilevanti per
dimostrare la diffusione e la notorietà del marchio (attraverso articoli giornali-
stici e dati aziendali relativi al fatturato del periodo 2005/2006). Fissata, quindi,
l’udienza di precisazione delle conclusioni, la causa veniva riservata per la deci-
sione con assegnazione dei termini ex art. 190 c.p.c. per il deposito delle comparse
conclusionali e delle repliche.

MOTIVI DELLA DECISIONE. — Le domande proposte sono fondate e vanno, in


conseguenza, accolte con le precisazioni di seguito specificate.
Va preliminarmente considerata la questione concernete la rilevabilità d’uf-
ficio delle cause di nullità del diritto di marchio, per il quale sia stata proposta
domanda diretta a conseguire la tutela del segno (questione che si pone peraltro
essenzialmente in riferimento alla domanda formulata sulla scorta della titolarità
del marchio nazionale, atteso che secondo la disciplina dei marchi comunitari è
esclusa la possibilità di rilevare la nullità del marchio comunitario in difetto di
una specifica domanda ad eccezione del convenuto: v. art. 95 reg. CE 40/1994).
Nella fattispecie in esame, infatti, il convenuto nel corpo della comparsa
conclusionale ha formulato domanda di nullità del marchio azionato dagli attori
Marco Bruns e dai suoi licenziatari, deducendone la contrarietà al buon costume
anche sulla scorta di una recente decisione resa in sede di reclamo cautelare di-
nanzi ad altra autorità giudiziaria; l’evidente tardività della proposizione della
domanda di nullità comporta la palese inammissibilità della domanda stessa;
I. - Giurisprudenza nazionale 475

deve, dunque, valutarsi se residuino poteri di ufficio del Tribunale per rilevare
eventuali cause di nullità del marchio.
La questione, non affrontata espressamente dalla giurisprudenza, impone di
verificare la funzione dell’istituto della nullità del marchio ed al tempo stesso di
qualificare l’attività del giudice chiamato a sondare la fondatezza della domanda
proposta per conseguire la tutela invocata da chi si assume titolare del diritto
esclusivo derivante dalla registrazione del marchio.
Di certo la categoria della nullità riferita al marchio non può identificarsi
con la nullità negoziale in senso lato in quanto, come è stato puntualmente sot-
tolineato, si tratta di invalidità che attiene alla registrazione intervenuta e non
al marchio in sé; invalidità, peraltro, che per le cause individuate nel sistema
normativo si atteggia non già come inefficacia della registrazione, ma come effi-
cacia precaria della stessa (in quanto soggetta alla possibile reazione dei terzi, in-
teressati ad interrompere quell’efficacia appunto con la proposizione dell’azione
giudiziale diretta a dichiarare la nullità del [la registrazione del] marchio).
Le proposizioni ora ricordate, frutto di attente elaborazioni dottrinali, non
possono essere integralmente condivise.
Tra le cause che importano la nullità del marchio certamente assumono ri-
lievo preminente le situazioni di conflitto con altri diritti, titolati o no, che pos-
sono impedire il riconoscimento del dato della novità del segno; allo stesso modo,
incidono sul giudizio di validità del marchio i motivi che attengono alla capacità
del segno registrato di assumere la qualità di marchio (quali l’assenza di capa-
cità distintiva; la carenza dei presupposti per il riconoscimento nel segno scelto
della natura di marchio), circostanze che mirano ad impedire la realizzazione di
situazioni in cui l’assunto titolare del segno acquisti indebitamente posizioni di
privilegio derivanti dalla monopolizzazione di segni e messaggi, che devono rima-
nere nella disponibilità comune di tutti gli imprenditori.
Vi sono, però, presupposti di validita del diritto al marchio, quali quelli
compresi nell’area della liceità richiesta dall’art. 18 lett. A) l. marchi (ora dal-
l’art. 14 c.p.i.), il cui significato non può dirsi esclusivamente connesso alla tu-
tela delle posizioni degli altri soggetti interessati all’uso del segno, ma piuttosto
appare rivolto, cosı̀ come in altri ambiti dell’ordinamento, a scongiurare il rico-
noscimento di tutela giuridica a fatti, atti e istituti fondati su condizioni di illi-
ceità comunemente riconosciute dalla collettività.
Se, dunque, in relazione ai motivi di nullità che esprimono l’esigenza di tu-
tela dei terzi (interessati all’uso di altri segni o di altri diritti esclusivi nell’am-
bito della proprietà industriale) è corretto sottolineare come la nullità del mar-
chio non potrà essere rilevata d’ufficio, spettando alla parte interessata di richie-
dere la relativa declaratoria o di sollevare la corrispondente eccezione, non si
comprende perché in relazione a motivi di nullità discendenti dal contrasto del
marchio registrato con i parametri della liceità debba impedirsi al Giudice di ri-
levare l’assenza di quello specifico requisito di validità, posta a tutela (anche) di
interessi collettivi. Spetta certamente al Giudice, pur di fronte alla presunzione
di validità del titolo di proprietà posto a base della domanda (sia essa di contraf-
fazione dell’altrui marchio ovvero di nullità del marchio non ancora utilizzato e
già registrato) verificare se il titolo azionato corrisponda alla fattispecie legale
che individua il titolo di proprietà in relazione ai profili che attengono alla tutela
di interessi collettivi; ove accerti la carenza di uno dei requisiti richiesti dall’or-
476 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

dinamento sotto tale profilo, dovrà evidentemente rigettare la domanda propo-


sta.
In questa prospettiva, il Tribunale ritiene che la questione dell’eventuale
contrarietà al buon costume del marchio posto a base delle domande proposte
dagli attori debba esser affrontata, pur se in via incidentale (senza, pertanto, che
da tale valutazione possa discendere alcuna eventuale declaratoria di nullità,
mancando una specifica domanda sul punto).
Prendendo atto dell’orientamento della giurisprudenza di merito segnalato
da parte convenuta (Trib. Milano 17 dicembre 2005), ritiene il Collegio che il
marchio in questione non possa ritenersi contrario al buon costume.
Ai fini della valutazione da operare è utile riportare la raffigurazione del
marchio registrato:

Occorre osservare, in proposito, che l’elemento astrattamente idoneo a far


emergere la potenziale contrarieta del marchio al buon costume è la rappresen-
tazione che, attraverso il posizionamento della dieresi sulla lettera A, consente di
“leggere” dietro l’asettica riproduzione grafica della lettera, il disegno di due
corpi stilizzati nel compimento di un atto sessuale.
Ad avviso del Collegio non può ritenersi che l’elemento ora indicato rappre-
senti con sicurezza, come affermato dal convenuto, il sicuro nucleo ideologico del
marchio esaminato. Infatti, il carattere distintivo del segno utilizzato dagli attori
non discende unicamente dall’aspetto concettuale del marchio, che attraverso la
raffigurazione più volte ricordata fa riferimento all’atto sessuale, l’uso di una
lettera dell’alfabeto, peraltro già di per sé idoneo a costituire segno suscettibile
di essere qualificato corne marchio (art. 16 l. marchi ed oggi art. 7 c.p.i.; nella
giurisprudenza comunitaria v. Trib. I grado Comunità europee, 13-07-2004, n.
115/02), nel caso in esame è caratterizzato sia dal contrasto cromatico tra lo
sfondo e la lettera riprodotta, sia dal tratto con cui viene realizzata la lettera, sia
ancora dall’anomalo posizionamento della dieresi (che viene percepito dal consu-
matore anche senza aver presente l’immagine “nascosta” che si cela nella ripro-
duzione stilizzata su ricordata); l’insieme di tali aspetti rende particolare la rap-
presentazione della lettera prescelta come segno, garantendo un sufficiente grado
di distintività del segno.
Se, dunque, il messaggio individuato mediante il superamento della visione
dell’elemento letterale non rappresenta il solo nucleo individualizzante del mar-
chio, deve altresı̀ convenirsi che quel messaggio contiene un riferimento alla sfera
sessuale, ma di certo non immediatamente percepibile in quanto tale; su questo
aspetto hanno diffusamente discusso le parti in causa, e la stessa osservazione del
marchio, in assenza di segnalazioni e suggerimenti, non consente di apprezzare
intuitivamente e ad un primo sguardo a quale rappresentazione possa essere fi-
nalizzata l’apposizione dei puntini a lato della lettera A. Ciò induce a ritenere ehe
I. - Giurisprudenza nazionale 477

l’effetto di coinvolgimento della sfera sessuale, con il richiamo alla posizione dei
due soggetti coinvolti nell’atto sessuale, appare indiretto, eventuale e non auto-
maticamente collegato alla visione del segno.
Per altro verso, non v’e dubbio che nel settore dei messaggi pubblicitari in
genere, ed anche in quello più specifico dei marchi, sono state già apprezzate
espressioni inequivocabilmente dirette al coinvolgirnento della sfera sessuale, con
l’uso di immagini, segni ed espressioni ehe non lasciano spazio a interpretazioni
differenti e richiamano palesemente il riferimento, al contenuto sessuale del mes-
saggio, con tratti di palese volgarità o oscenità (v. in tema di marchi, la decisione
della Commissione di ricorso presso l’UAMI in data 6 luglio 2006 R495/2005-0,
relativa al marchio denominativo “screw you”, che ha rigettato la richiesta di re-
gistrazione del marchio per l’oscenità dell’espressione, usualmente collegata al
gesto di mostrare il dito medio con la mano chiusa).
Dunque, mancando un sicuro effetto di lesione dei valori protetti dalla
norma che vieta la registrazione dei marchi contrari al buon costume, va escluso
che il marchio esaminato ricada nell’ambito della disposizione di cui all’art. 18 l.
marchi.
Passando ad esaminare il contenuto della domanda di nullità proposta che
concerne il marchio registrato dal convenuto in data 19 gennaio 2005 al n.
952285 (circostanza dedotta dagli attori e non contestata da controparte), va ri-
levato che la confondibilità lamentata dagli attori tra il proprio segno ed il mar-
chio successivo registrato da parte convenuta deve esser valutata tenendo conto
delle caratteristiche dei marchi in conflitto e dei prodotti destinati ad essere
contraddistinti dai marchi.
In relazione a tale ultimo profilo, non è contestato tra le parti che i marchi
concernono prodotti sicuramente affini; si tratta, infatti, di marchi operanti
principalmente nel settore dell’abbigliamento ed in settori assai vicini (metalli
preziosi, telecomunicazioni) ricadenti tutti nell’area comunemente denominata
del gusto e della moda. Dunque, deve riconoscersi la somiglianza (se non l’iden-
tità) dei prodotti contraddistinti dai marchi degli attori e dal marchio del conve-
nuto.
Per quanto, attiene, poi, le caratteristiche dei marchi, trattandosi di marchi
che raffigurano lettere dell’alfabeto, è sicuramente dominante l’elemento visivo
dei marchi: la comparazione dei segni consente di apprezzare come la rappresen-
tazione delle diverse lettere utilizzate (A e K) presenta in entrambi i marchi l’uso
di uno sfondo di colore contrastante (giallo), lo stesso calibro e lo stesso carattere
della lettera, la presenza in entrambi i segni di due puntini che richiamano il se-
gno della dieresi.
Tali caratteri si individuano agevolmente esaminando i due marchi ripro-
dotti di seguito:
478 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

Sulla scorta dell’esame operato, si può affermare che vi sono notevoli ele-
menti di somiglianza visiva tra i due marchi, pur trattandosi di marchi costituiti
da diverse lettere dell’alfabeto.
Per ciò che attiene il profilo uditivo, certamente le due lettere che compon-
gono i marchi nella pronuncia italiana individuano suoni tra lora differenti; va
però osservato che i prodotti contraddistinti dai marchi difficilmente vengono ri-
chiesti dal pubblico dei consumatori attraverso ordini orali; inoltre, nel settore
commerciale considerato appare decisivo l’impatto visivo che porta ad indivi-
duare la provenienza dei prodotti.
Quanto, infine, alla comparazione concettuale dei due marchi, entrambe le
parti hanno convenuto che la presentazione dei marchi attraverso la presenza dei
due puntini posti a lato della lettera A e sulla lettera K portano in entrambi i casi
a richiamare la posizione (pur se diversa) di due corpi nell’atto di congiungersi
sessualmente.
Il convenuto ha, ripetutamente contestato il carattere forte e notorio dei
marchi registrati facenti capo agli attori, ritenendo che, trattandosi di marchi
costituiti da una lettera dell’alfabeto, privi di tratti di spiccata originalità, gli
stessi debbano qualificarsi come marchi deboli, in quanto tali tutelati solo in re-
lazioni a marchi successivi in tutto simili ed analoghi e non anche in riferimento
a marchi posteriori che ne riprendano il nucleo ideologico.
Premesso che il giudizio da svolgere concerne unicamente i marchi “A”, ri-
sultando irrilevanti le considerazioni svolte sui marchi “A-style” per i quali nes-
suna domanda risulta formulata, va altresı̀ preliminarmente rilevato che ogni
valutazione in ordine all’eventuale notorietà dei marchi non inciderebbe in alcun
modo sull’esito del giudizio relativo alla sussistenza del rischio di confusione o di
associazione tra i segni; quel dato, infatti, è considerato dal legislatore per assi-
curare al titolare del marchio che gode di notorietà la tutela del proprio segno
anche rispetto a marchi utilizzati per prodotti non affini (art. 17, lett. G) e art.
47 1. marchi, ora riprodotti negli art. 12, lett. F) e 25 c.p.i.).
Egualmente infondata è l’affermazione, più volte ribadita dal convenuto, in
relazione all’impossibilità per il marchio costituto da una lettera dell’alfabeto,
sempre originariamente debole, di acquisire il carattere di marchio forte.
E
v ormai patrimonio acquisito della giurisprudenza la nozione del “rafforza-
mento” del marchio debole, in ragione di massicce attività di pubblicizzazione
del marchio e del conseguente successo decretato dal mercato dei consumatori
con l’identificazione del prodotto o del servizio contraddistinto dal marchio con
il termine generico o descrittivo scelto dall’imprenditore (cfr. nella giurispru-
denza di merito App. Milano 6 luglio 2001; Trib. Bologna 22 luglio 2004; Trib.
Catania 23 dicembre 2002 e 7 dicembre 2002; Trib. Bologna 10 ottobre 2001 e
118 giugno 2001, nonché nella giurisprudenza di legittimità, Cass. 16 luglio 2004,
n. 13178).
Ebbene, la copiosa documentazione offerta dagli attori testimonia un in-
tenso impegno pubblicitario, documentato sia quanto alle spese sostenute (oltre
115.000 nel solo primo semestre dell’anno 2004), sia agli effetti raggiunti desumi-
bili dal numero e dalla diffusione delle testate giornalistiche su cui sono apparsi
numerosi articoli (a partire dall’anno 2000 e sino al 2005) e che riguardavano il
crescente successo commerciale e pubblicitario del marchio degli attori; i dati del
fatturato delle aziende che hanno fatto uso del marchio (dati non contestati e
I. - Giurisprudenza nazionale 479

che dimostrano una progressione geometrica notevole dell’attività produttiva,


passata da poco meno di 20.000 unità all’inizio dell’anno 2003, ad oltre 320.000
unità, alla fine dell’anno 2005, con un corrispondente aumento del valore da
€ 375.000 sino a € 7.900.000, attraverso una rete commerciale di circa 900 punti
vendita, per un quarto collocati fuori dall’Italia tra Spagna, Francia, Regno
Unito, Svizzera, Grecia e Giappone) consentono di derivare logicamente una ri-
levante diffusione commerciale dei prodotti che recano il marchio azionato dagli
attori. Inoltre, taluni specifici episodi, quale quello relativo all’uso nell’anno 2005
di un segno M sormontato da due puntini ad opera di un editore di periodici de-
stinati al pubblico dei giovani universitari per designare il c.d. “Master style”,
segno dichiaratamente ispirato al marchio “A” come di un marchio rappresenta-
tivo di una specifica linea imprenditoriale e commerciale caratterizzato da un
importante successo pubblicitario (“il marchio di abbigliamento che trionfa tra
gli under 30 ... un brand famoso in tutto il mondo”: v. il doc. n. 21 del fascicolo
degli attori), costituiscono seri e rilevanti elementi di prova dell’intervenuto raf-
forzamento del marchio.
Pertanto, dovendosi riconosce il carattere forte del marchio nazionale e co-
munitario anteriore, “la tutela di esso comporta l’illegittimità di qualsiasi varia-
zione e modificazione dell’uso di quella parte dello stesso che costituisce il c.d.
cuore, ossia il nucleo ideologico che ne esprime l’idea fondamentale” (cosı̀ Cass.
13178/2004 cit.): nucleo che si è identificato nella particolare rappresentazione
cromatica e grafica, abbinata all’apposizione dei puntini a mo’ di dieresi.
In definitiva, ritiene il Collegio che tra i due marchi in esame gli elementi di
somiglianza superino le differenze uditive e visive connesse all’uso di diverse let-
tere dell’alfabeto; inoltre, la sicura comunanza dei prodotti contraddistinti, porta
a valutare in senso positivo il giudizio di sussistenza del rischio di confusione.
A ciò va aggiunto come, valutando complessivamente sia le caratteristiche
stilistiche dei marchi, sia le modalità di presentazione dello sfondo su cui i mar-
chi sono apposti, sia ancora il contenuto concettuale dei segni, il consumatore del
settore interessato, sufficientemente avveduto e certo più attento di un consuma-
tore di beni di largo consumo, potrà trarre il convincimento che i marchi in con-
flitto appartengano ad una stessa famiglia di segni, riconducibile ad una mede-
sima origine commerciale, secondo una tecnica diffusa nel settore della moda e
dell’abbigliamento in cui la penetrazione sul mercato è assicurata dall’uso di
marchi seriali rivolti a differenti settori del pubblico per garantire la continuità
del messaggio principale che sta alla base della serie dei marchi (cfr. nella giuri-
sprudenza comunitaria Trib. I grado, 23 febbraio 2006, causa T-194/03; 4 maggio
2005, causa T-22/04; 6 ottobre 2004, cause riunite da T-117/03 a T-119/03 e
T-171/03).
Si realizza, in tal modo, il rischio di associazione tra i segni che, ai sensi del-
l’art. 18 1. marchi (ora art. 12 c.p.i.), comporta il difetto di novità del marchio
successivo e, per effetto del disposto dell’art. 47 1. marchi (ora art. 25 c.p.i.), im-
porta la nullità del marchio successivo.
Per ciò che attiene la domanda di accertamento della contraffazione dei
marchi degli attori, va rilevato che risultando in atti la prova di un’effettiva uti-
lizzazione del marchio registrato dal Covelli, quantomeno attraverso l’attività di
pubblicizzazione sulla rete Internet documentata dagli attori, per i medesimi
480 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

motivi sopra esposti va accolta anche tale domanda, con l’accessoria pronuncia
di inibitoria dell’uso del marchio registrato dal Covelli.
Quanto al regolamento delle spese del giudizio, le stesse, liquidate nella mi-
sura indicata in dispositivo, vanno poste a carico della parte soccombente.

P.Q.M. — Il Tribunale, definitivamente pronunciando sulla domande propo-


ste da Bruns Marco, 69 s.r.l., in persona del legale rappresentante pro-tempore e
Fin Esse s.r.1., in persona del legale rappresentante pro-tempore, nei confronti di
Covelli Felice Nicola, con atto di citazione notificato il 15 marzo 2005, cosı̀ prov-
vede:
1. in accoglimento delle domande proposte, dichiara la nullità del marchio
n. 952285, registrato in data 19 gennaio 2005, in quanto anticipato dal marchio
nazionale n. 879973 e dal marchio comunitario n. 2277085, di titolarità di Bruns
Marco;
2. dichiara che l’uso da parte di Covelli Felice Nicola del marchio n. 952285,
registrato in data 19 gennaio 2005, costituisce contraffazione del marchio nazio-
nale n. 879973 e del marchio comunitario n. 2277085, di titolarità di Bruns
Marco;
3. inibisce a Covelli Felice Nicola l’uso del marchio n. 952285, registrato in
data 19 gennaio 2005;
4. condanna Covelli Felice Nicola al pagamento delle spese del giudizio so-
stenute dagli attori, che liquida in complessivi € 9.400, di cui € 400 per spese,
€ 2.000 per diritti ed € 7.000 per onorari, oltre accessori come per legge e tariffa.
Cosı̀ deciso nella camera di consiglio della sezione specializzata in materia di
proprietà industriale ed intellettuale del Tribunale di Bari il 25 giugno 2007.

Osservazioni in merito all’illiceità di un marchio per contrarietà al buon


costume ed alla sussistenza del rischio di associazione tra segni.

1. L’ordinanza e la sentenza in commento offrono degli spunti in-


teressanti per svolgere alcune riflessioni in relazione alla illiceità di un
marchio per contrarietà al buon costume ed in merito alla sussistenza del
rischio di associazione tra segni. Esse, infatti, affrontano le medesime
questioni, attraverso lo stesso iter argomentativo, giungendo tuttavia a
conclusioni opposte.

2. Invero, il Tribunale di Milano, con ordinanza del 24 novembre


2005, ha ritenuto che il nucleo ideologico del marchio azionato (lettera A
accompagnata da due punti) fosse costituito esclusivamente dalla raffi-
gurazione “nascosta” di un rapporto sessuale poiché, in assenza di tale
connotato, il segno non risulterebbe dotato di particolare distintività.
Sulla base di tali considerazioni, il Tribunale ha respinto il reclamo pro-
posto statuendo che “il giudice designato ha sollevato concreti dubbi sulla
effettiva liceità della registrazione dei marchi in questione in relazione al di-
sposto di cui all’art. 14, co. 1, lett. a) CPI ed ha precisato che la tutela che
I. - Giurisprudenza nazionale 481

sostanzialmente viene richiesta (...) si incentra proprio sul richiamo che il


segno in questione pone in essere alla raffigurazione di natura sessuale, te-
nuto conto che detto segno, ove da tale pur evidente richiamo dovesse prescin-
dersi, non risulterebbe avere specifiche particolarità grafiche tali da consen-
tire una tutela estesa anche alla raffigurazione di diverse lettere dell’alfabeto
non autonomamente registrate dallo stesso soggetto”.

3. Di diverso avviso è stato il Tribunale di Bari, per il quale il ca-


rattere distintivo del segno in questione non deriva unicamente dal-
l’aspetto concettuale che si estrinseca nell’allusione, peraltro implicita,
ad un atto sessuale (con conseguente esclusione della illiceità del mar-
chio per contrarietà al buon costume) ma anche dalla particolare rappre-
sentazione grafica e cromatica della lettera, abbinata all’apposizione di
due puntini come in una dieresi. A parere dei giudici baresi, infatti, pro-
prio l’insieme di tali aspetti rende peculiare la rappresentazione della
lettera prescelta, garantendo un sufficiente grado di distintività al mar-
chio. Infatti, nella sentenza emessa in data 25 giugno 2007 dalla Sezione
Specializzata del Tribunale di Bari si legge: “Il carattere distintivo del se-
gno utilizzato dagli attori [lettera A con dieresi] non discende unicamente
dall’aspetto concettuale del marchio, che (...) fa riferimento all’atto sessuale;
l’uso di una lettera dell’alfabeto (...), nel caso in esame, è caratterizzato sia
dal contesto cromatico tra lo sfondo e la lettera riprodotta, sia dal tratto con
cui viene realizzata la lettera, sia ancora dall’anomalo posizionamento della
dieresi (che viene percepito dal consumatore anche senza aver presente l’im-
magine ‘nascosta’ che si cela nella riproduzione stilizzata); l’insieme di tali
aspetti rende particolare la rappresentazione della lettera prescelta come se-
gno, garantendo un sufficiente grado di distintività del segno. Se dunque il
messaggio individuato mediante il superamento della visione dell’elemento
letterale non rappresenta il solo nucleo individualizzante del marchio, deve
altresı̀ convenirsi che quel messaggio contiene un riferimento alla sfera ses-
suale ma di certo non è immediatamente percepibile in quanto tale; (...) ciò
induce a ritenere che l’effetto del coinvolgimento della sfera sessuale, appare
indiretto, eventuale e non automaticamente collegato alla visione del segno
(...). Dunque, mancando un sicuro effetto di lesione dei valori protetti dalla
norma che vieta la registrazione dei marchi contrari al buon costume, va
escluso che il marchio esaminato ricada nell’ambito della disposizione di cui
all’art. [14 CPI]”.
Sulla base di tali considerazioni, il Tribunale di Bari ha concluso che
il pubblico di riferimento, dalla comparazione degli elementi stilistici del
482 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

marchio in esame e del marchio in conflitto (anch’esso costituito da una


lettera dell’alfabeto che nascondeva un’immagine a sfondo sessuale), e di
quelli concettuali, possa trarre il convincimento che i marchi in conflitto
appartengano ad una stessa famiglia di segni. Invero, nella sentenza del
Tribunale di Bari si legge che “Valutando complessivamente sia le caratte-
ristiche stilistiche dei marchi, sia le modalità di presentazione dello sfondo
su cui i marchi sono apposti, sia ancora il contenuto concettuale dei segni,
il consumatore del settore interessato, sufficientemente avveduto e certo più
attento di un consumatore di beni di largo consumo, potrà trarre il convin-
cimento che i marchi in conflitto appartengano ad una stessa famiglia di se-
gni, riconducibile ad una medesima origine commerciale, secondo una tec-
nica diffusa nel settore della moda e dell’abbigliamento in cui la penetra-
zione sul mercato è assicurata dall’uso di marchi seriali rivolti a differenti
settori del pubblico per garantire la continuità del messaggio principale che
sta alla base della serie dei marchi”.

4. Per quanto concerne la prima delle due questioni affrontata


dalla Sezione Specializzata del Tribunale di Milano e dalla Sezione Spe-
cializzata del Tribunale di Bari (ovvero quella inerente all’illiceità di un
marchio per contrarietà al buon costume) i giudici milanesi, identifi-
cando il nucleo ideologico del segno azionato nella raffigurazione di un
rapporto sessuale, ed escludendo che la lettera alfabetica in questione (la
A) con due punti, come tale, risultasse connotata da una particolare di-
stintività, hanno concluso che il marchio azionato non fosse meritevole di
protezione poiché il messaggio caratterizzante del segno sarebbe stato
contrario al buon costume.

5. Di contro, i giudici baresi, pur non soffermandosi sul concetto di


“contrarietà al buon costume”, hanno affermato che tale particolare illi-
ceità di un marchio sussiste solo ove esso sia univocamente ed intrinse-
camente offensivo dei valori protetti dall’art. 14 CPI. Il Tribunale di
Bari ha ritenuto che tale tipologia di illiceità sia esclusa ove il marchio
sia privo di esplicita ed indiscutibile offensività. Invero, i giudici baresi
hanno considerato rilevante, ai fini della distintività del marchio attoreo
(lettera A con dieresi), sia l’elemento letterale che l’aspetto concettuale,
individuando nel connubio dei medesimi il nucleo caratterizzante del se-
gno. In particolare, con riferimento al messaggio allusivo alla sfera ses-
suale, il Tribunale di Bari ha reputato come tale richiamo non apparisse
I. - Giurisprudenza nazionale 483

immediato ed ha conseguentemente escluso che il marchio attoreo possa


essere ritenuto contrario al buon costume.
Nel caso di specie, infatti, il convenuto aveva dedotto la contrarietà
al buon costume del marchio azionato dagli attori in considerazione del
fatto che il posizionamento della dieresi sulla lettera A avrebbe consen-
tito di leggere il disegno di due corpi stilizzati nel compimento di un atto
sessuale. Al riguardo, il Tribunale barese, a differenza di quello milanese,
ha ritenuto necessario svolgere un esame più accurato del segno, rile-
vando come esso si presti, in realtà, ad una doppia lettura: una prima, in
cui risulta innocuo in quanto costituito dalla lettera A in una particolare
veste grafica, ovvero accompagnata da una dieresi obliqua sul lato sini-
stro della lettera; ed una seconda, meno casta, che richiama la posizione
di due figure umane nell’atto di congiungersi sessualmente.
I giudici baresi hanno osservato come questa seconda immagine,
sebbene di forte impatto visivo una volta svelata, sia però nascosta, in-
diretta, poiché non immediatamente percepibile come tale.

A parere del Tribunale, proprio questa circostanza (cioè che l’allu-


sione alla sfera sessuale sia solo implicita) assume rilevanza ai fini del-
l’esclusione della illiceità per contrarietà al buon costume del marchio in
questione. Invero, il fatto che il riferimento alla sfera sessuale non sia
automaticamente collegato alla visione del segno distintivo, bensı̀ even-
tuale, consente di concludere che il marchio, in questa prospettiva, non
costituisce un’immagine chiaramente ed inequivocabilmente offensiva
degli interessi salvaguardati dalla norma di cui all’art. 14, co. 1, lett. a),
CPI.

6. Proprio in quest’ultimo senso è l’orientamento della giurispru-


denza comunitaria, secondo cui la registrazione di un marchio per con-
trarietà alla “moralità pubblica” va rifiutata solo quando il marchio è
univocamente ed intrinsecamente offensivo della moralità pubblica. In
applicazione di tale principio sono state ad esempio rigettate sia la do-
manda di registrazione del marchio “Fuck of the year”, n. 306.399, rela-
tiva ad una sorta di concorso pornografico, sia la domanda di registra-
zione del marchio “Dick and Fanny”, n. 1.535.947, poiché designante —
nello slang inglese più volgare — l’organo sessuale maschile e femminile.
Tale ultimo rifiuto di registrazione è tuttavia stato oggetto di impugna-
zione innanzi alla Commissione di Ricorso dell’UAMI che, con decisione
del 25 marzo 2003, ha accolto il ricorso ed ha concesso la registrazione.
484 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

La Commissione di Ricorso ha escluso l’illiceità del marchio per contra-


rietà al buon costume “(...) per il solo fatto che le due parole abbiano, iso-
latamente considerate o in combinazione fra loro, una connotazione sessuale
che possa essere ritenuta offensiva in base ai principi accettati di moralità
(...)”. Quelle parole, infatti, oltre ad avere “un significato neutrale nel
linguaggio formale, designano, in un modo particolarmente inelegante, delle
parti anatomiche che sono raramente menzionante nel linguaggio ordinario,
sia esso formale o informale (...)”. Tuttavia, poiché le espressioni di cui si
tratta non sono “insultanti”, la Commissione ha concluso che “il marchio
può tutt’al più sollevare questioni di buon gusto, ma non di (...) moralità”.
La decisione della Commissione di Ricorso conferma quindi che l’in-
validità di un marchio per contrarietà alla moralità pubblica è relegata
a casi eccezionali nei quali il marchio minaccia la morale pubblica intesa
come regole di ordine sociale, e non a quelli in cui il marchio risulta es-
sere semplicemente volgare o di cattivo gusto (1).
Anche la giurisprudenza domestica non pare essere di avviso molto
diverso. Il Giurı̀ dell’Autodisciplina pubblicitaria, in diverse pronunce,
ha stabilito che “L’utilizzo della tematica sessuale non è considerato di per
sé contrario ai principi di correttezza pubblicitaria” (2). Invero, quando si
è trattato di giudicare di messaggi ironici o goliardici, ancorché volgari,
ha escluso l’illiceità dei medesimi per contrarietà al buon costume. In-
fatti, nel negare ad esempio che fosse illecito lo slogan “Persino i mem-
bri del Parlamento si alzeranno” accompagnato dall’immagine di una
ragazza che indossa solo un paio di jeans, ha affermato che “E v ben vero
che c’è una tradizione per la quale si considera ancora la tematica sessuale
con i criteri dei vecchi tabù; ma la tematica sessuale non deve spingere a
giudizi sommari, soprattutto quando bisogna riconoscere al messaggio uno
spirito ironico, forse goliardico” (3); ancora, nell’escludere l’illiceità della
pubblicità di un’impresa di costruzioni consistente nello slogan “Rifatevi
i balconi” con l’immagine di una ragazza che si reggeva il seno, ha affer-
mato che “La scollatura (...) ed i seni vanno visti in relazione all’headline.
Ora, è indubbio che ‘Rifatevi i balconi’ è una battuta da goliardi e di cattivo
gusto (...) ma più volte il Giurı̀ ha ribadito che la sanzione del ‘cattivo gu-
sto’ non rientra tra i suoi compiti” (4).
Da quanto precede, deriva in buona sostanza che quando determi-
nate locuzioni verbali sono usate in senso un po’ metaforico il giudizio in

(1) In argomento si osserva che sono stati ad esempio concessi i seguenti mar-
chi comunitari: “Pisstarget”, “Big Cock”, “Bullshit”, “Orgasmus”, “Bitch” e “Porn-
star”.
(2) Cfr., tra le altre, decisione 186/92, in Giurisprudenza pubblicitaria, diretta
da Luigi C. Ubertazzi, 1992-1993; decisione 30/92, in Giurisprudenza pubblicitaria, di-
retta da Luigi C. Ubertazzi, 1992-1993 e decisione 377/99, in Giurisprudenza pubbli-
citaria, diretta da Luigi C. Ubertazzi, 1999.
(3) Pronuncia n. 258/1997, in Giurisprudenza pubblicitaria, 1998, diretta da
Luigi C. Ubertazzi.
(4) Pronuncia n. 190/1997, in Giurisprudenza pubblicitaria, 1997, diretta da
Luigi C. Ubertazzi.
I. - Giurisprudenza nazionale 485

merito alla loro liceità appare essere meno severo. Al riguardo, emblema-
tica è la sentenza emessa dal Trib. di Milano in data 14 febbraio 2005 (5),
con la quale è stata dichiarata la nullità del marchio “I Grandi Veggenti
d’Italia” registrato per servizi di cartomanzia, chiaroveggenza ed esote-
rismo in generale, in quanto “l’uso del termine ‘veggente’ è contrario alla
legge poiché usato per distinguere un’attività che la legge vieta e che la me-
desima parola è funzionale a distinguere nel suo esercizio, mentre cosı̀ non
sarebbe se l’identica dicitura fosse usata in ‘senso metaforico’ per contrasse-
gnare ad esempio un modello di cannocchiale o di binocolo”.

7. Ciò premesso, ed a prescindere dalle considerazioni svolte dal


Tribunale di Milano e dal Tribunale di Bari, nonché da quanto espresso
dall’UAMI e dal Giurı̀, ci si può chiedere più in generale se il contenuto
sessuale di un messaggio trasmesso da un segno distintivo possa essere
astrattamente considerato, nell’attuale contesto storico, sociale e cultu-
rale, non conforme al comune senso del pudore.
Con particolare riferimento all’ordinanza meneghina ed alla pronun-
cia barese, si osserva come sebbene entrambe omettano di fornire parti-
colari delucidazioni in merito al significato di “marchio contrario al buon
costume”, è noto che la nozione alla quale riferirsi per definire il concetto
di “buon costume” è quella di “comune senso del pudore”. Ciò detto,
nella società odierna, il coinvolgimento della sfera sessuale non sembra
costituire più un tabù. Infatti, espressioni a sfondo sessuale sono ormai
entrate a far parte del linguaggio comune, compreso quello televisivo,
radiofonico e dell’informazione in genere. Sia il linguaggio comune, sia il
senso comune, sono pieni di doppi sensi allusivi al sesso. Non solo: raffi-
gurazioni e descrizioni sessuali sono altresı̀ presenti nell’arte figurativa,
nella letteratura, nel teatro, nella pubblicità, nella fotografia, nei fumetti
e nelle canzoni. Il richiamo alla sessualità è dunque generalmente utiliz-
zato nella comunicazione di massa e comunemente accettato dal pub-
blico.
In definitiva, si potrebbe ritenere che sia seguendo il ragionamento
svolto dai due Tribunali, che supera la definizione di contrarietà al “buon
costume”, sia recuperando la medesima (cioè buon costume = comune
senso del pudore = morale pubblica, intesa come regole di ordine sociale)
si possa concludere che nella società odierna il riferimento di un segno
distintivo alla sfera sessuale non rappresenti (più) una fattispecie contra-
ria alla morale pubblica corrente, potendo al massimo sollevare questioni
di buon gusto; potrebbe cioè essere volgare, senza però porre un pro-
blema di minaccia alla morale pubblica, salvo ovviamente quando il ri-
chiamo alla sfera sessuale avvenga in modo osceno o pornografico.

8. Se dunque, alla luce delle osservazioni che precedono, l’elemento


concettuale, in quanto secondario o indiretto, consente di escludere che

(5) In GADI, 2005 (4854/3).


486 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

il marchio di cui si tratta potesse essere dichiarato contrario al buon co-


stume (per lo meno aderendo alle considerazioni svolte dal Tribunale di
Bari), tuttavia, come hanno rilevato sia i giudici baresi che i giudici mi-
lanesi, il medesimo assume un ruolo di primaria importanza ai fini della
valutazione della capacità distintiva del marchio e della conseguente tu-
tela ad esso accordata. Infatti, se per i giudici milanesi il messaggio ca-
ratterizzante del marchio consiste esclusivamente nella rappresentazione
di un rapporto sessuale,

i giudici baresi identificano il nucleo ideologico individualizzante, in


cui cioè si riassume e si sostanzia la capacità distintiva del segno in que-
stione, in una particolare rappresentazione, grafica e cromatica (lettera
nera su sfondo giallo), di una lettera dell’alfabeto (la A) in cui si cela,
grazie al posizionamento strategico di due punti, atti a simboleggiare le
teste, il disegno di due corpi umani stilizzati in una posa evocativa di un
atto sessuale. E se tale seconda immagine da un lato può essere colta solo
ad un esame più attento del marchio in quanto non è immediatamente
percepibile, dall’altro lato costituisce chiaramente un elemento caratte-
rizzante del segno, dato che il richiamo all’atto sessuale è intenzionale.
Il Tribunale barese sottolinea cioè come il carattere distintivo del mar-
chio in oggetto discenda anche, ma non esclusivamente, da questo deter-
minato elemento concettuale. In altri termini, il nucleo ideologico che ne
esprime l’idea fondamentale, il cosiddetto “cuore” del marchio, a parere
dei giudici baresi non sarebbe dato unicamente dal messaggio concet-
tuale (riferimento all’atto sessuale), ma dalla combinazione di questo
elemento con quello grafico, cosı̀ da dar vita ad un logo caratterizzato
dal fatto di essere costituito da una lettera in cui si celano due figure
umane stilizzate in una posa osée.

E
v stato cosı̀ ritenuto che la forza del marchio in questione derivi
proprio dalla duplice chiave di lettura che il segno suscita: all’apparenza,
I. - Giurisprudenza nazionale 487

una semplice lettera dell’alfabeto affiancata da due punti e, in un se-


condo momento, due figure umane stilizzate in una particolare posa, ve-
rosimilmente sessuale.

9. Ricostruita l’identità del marchio contestato nei termini di cui


si è detto, i Tribunali affrontano la questione della tutela del marchio
azionato concludendo, quello milanese, nel senso dell’insussistenza del
rischio di confusione e/o del rischio di associazione tra segni alla luce di
quanto esposto in precedenza;

quello barese, nel senso di ritenere sussistente il rischio di confusione


tra i marchi in conflitto, proprio in base alle considerazioni di cui sopra.

E ciò in applicazione dei consolidati orientamenti giurisprudenziali


e dottrinali in materia, secondo cui la tutela del marchio forte (6) si
estende al tipo, al nucleo ideologico, al concetto che il marchio esprime.
In particolare, il Tribunale di Bari riconosce il carattere forte del
marchio di cui si discute anche avendo riguardo alla pubblicità di cui
esso è stato oggetto ed al successo ad esso decretato dai consumatori (7).

(6) Cfr., fra le altre, Cass., 19 aprile 2000, n. 5091, in GADI, 2000 (4062/1);
Cass., 25 settembre 1998, n. 9617, in GADI, 1998 (3726/1); Cass., 9 febbraio 1995, n.
1473, in GADI, 1995 (3192/3); Trib. Roma, 22 giungo 1991 (ord.) in GADI, 2002
(4355/3); App. Palermo, 17 febbraio 1994, in GADI, 1994 (3107/1). In dottrina, si veda
A. VANZETTI-V. DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, 5a ed., 2005, Milano, Giuf-
frè, pagg. 220-221.
(7) In questo senso, cfr., fra le altre, Trib. CE, 12 luglio 2006, in causa T-277/
04, caso Vitakraft; Corte di Giustizia CE, 7 luglio 2005, in causa C-353/03, caso Nestlè;
Corte di Giustizia CE, 18 giugno 2002, in causa C-299/99, caso Philips; Corte di Giu-
stizia CE, 4 maggio 1999, in causa C-108/97 C-109/97, caso Windsurfing Chiemsee; per
quanto concerne la giurisprudenza domestica cfr., fra le altre, Cass., 9 maggio 1995,
488 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

Ciò premesso, i giudici baresi, con riferimento al carattere distintivo


delle lettere alfabetiche, individuano proprio nella particolare rappresen-
tazione grafica della lettera l’elemento in grado di attribuire al segno ca-
rattere distintivo.
In questa prospettiva, la soluzione offerta dal Tribunale di Bari ap-
pare allineata all’orientamento più consolidato secondo cui, in caso di
marchi costituiti da una lettera dell’alfabeto, l’oggetto della tutela sa-
rebbe circoscritto alla loro peculiare rappresentazione grafica, la quale
dovrebbe essere connotata da un apporto sufficientemente individualiz-
zante (8). La sentenza in rassegna sembra dunque discostarsi dall’as-
sunto, espresso in diverse delle decisioni precedentemente citate in nota,
secondo cui un marchio costituito da una lettera alfabetica, sarebbe in-
vece per sua natura “debole”, rimarcando — al contrario — che l’elevata
capacità distintiva del segno azionato deriva sia dalla “doppia lettura” di
cui può essere oggetto, sia dal fatto di aver acquisito un rilevante secon-
dary meaning (9). Il che pare in linea con l’evoluzione dottrinale e giuri-
sprudenziale, successiva alla riforma del 1992, secondo cui va ricono-
sciuta l’idoneità del segno costituito da una lettera alfabetica a costituire
oggetto di valido marchio (superando cosı̀ la tesi per la quale una lettera
dell’alfabeto non potrebbe formare oggetto di registrazione in quanto se-
gno di uso generale, che in quanto tale va lasciato nella libera disponibi-
lità di chiunque). E la possibilità che anche un marchio costituito da una
lettera dell’alfabeto in una peculiare forma grafica possa assumere il ca-
rattere di marchio “forte”, intrinsecamente, o per effetto del secondary
meaning acquisito (10), costituisce un logico corollario di quel principio.

n. 2884, in GADI, 1985 (1842); Cass., 20 novembre 1982, n. 6262, in GADI, 1982
(1477/4); Trib. Cagliari, 28 settembre 1989, in GADI, 1989 (2451/3)). In dottrina, si
veda A. VANZETTI-V. DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, cit., pagg. 160-161; L.
MANSANI, La capacità distintiva come concetto dinamico, in Il dir. ind., 2007/1, pagg. 19-
26.
(8) Cfr., tra le altre, Cass., 7 maggio 1983, n. 3109, in GADI, 1983 (1595), caso
Ferragamo v. Fendi; Cass., 19 novembre 1994, n. 9827, in GADI, 1994 (3029); App. Pa-
lermo, 17 febbraio 1994, in GADI, 1994 (3107); Trib. Milano, 14 dicembre 1995, in
GADI, 1996 (3450).
(9) Al riguardo cfr., fra le altre, Trib. CE, 12 luglio 2006, in causa T-277/04,
caso Vitakraft, cit.; Corte di Giustizia CE, 7 luglio 2005, in causa C-353/03, caso Ne-
stlè, cit.; Corte di Giustizia CE, 18 giugno 2002, in causa C-299/99, caso Philips, cit.;
Corte di Giustizia CE, 4 maggio 1999, in causa C-108/97 C- 109/97, caso Windsurfing
Chiemsee, cit.; relativamente alla giurisprudenza domestica cfr., fra le altre, Cass., 9
maggio 1995, n. 2884, in GADI, 1985 (1842), cit.; Cass., 20 novembre 1982, n. 6262, in
GADI, 1982 (1477/4), cit.; Trib. Cagliari, 28 settembre 1989, in GADI, 1989 (2451/3).
In dottrina, si veda A. VANZETTI-V. DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, cit.,
pagg. 160-161.
(10) Sul punto cfr., in dottrina, A. VANZETTI, Marchi di numeri e di lettere del-
l’alfabeto, in questa Rivista, 2002, I, pagg. 640-651; A. VANZETTI, Marchi e segni di uso
comune, in questa Rivista, 2002, pagg. 895-910; A. VANZETTI-V. DI CATALDO, in Manuale
di diritto industriale, 4a ed., 2003, Milano, pag. 164, ove si afferma che sulla base della
legge attualmente in vigore [ovvero dopo la riforma del 1992] non è più possibile af-
fermare in linea di principio che le lettere sono in sé segni di uso generale.
I. - Giurisprudenza nazionale 489

10. Sempre in materia di ambito di tutela del marchio, il Tribunale


barese ha affermato la sussistenza del rischio di confusione tra i segni in
conflitto in applicazione degli ulteriori e consolidati principi giurispru-
denziali e dottrinali secondo cui il rischio di confusione è tanto più ele-
vato quanto più rilevante è il carattere distintivo del marchio anteriore,
nel senso che più il marchio possiede un elevato carattere distintivo, sia
intrinsecamente, sia a causa della sua notorietà sul mercato, più ampia è
la tutela di cui esso fruisce (11).
E
v stato altresı̀ sottolineato che il rischio di confusione deve essere
valutato globalmente, prendendo in esame tutti i fattori che entrano in

In giurisprudenza, cfr., Cass., 25 giugno 2007, n. 14684, Salvatore Ferragamo


Italia S.p.A. v. Intimato Bigini Giovanni e C. s.n.c., in Guida al Diritto, n. 30, del 28
luglio 2007, pagg. 25-29, ove viene chiaramente espresso il seguente principio: “La va-
lidità del marchio dedotto in causa, a prescindere dalla sua concreta caratterizzazione gra-
fica e dalla stilizzazione (...) avrebbe dovuto essere affermata o negata (...) in ragione
(...) della capacità distintiva di cui lo specifico segno era o no dotato una volta che (...)
fosse riuscito a creare un collegamento con i prodotti dell’impresa che ha fatto uso di quella
determinata lettera, e l’ha registrata come marchio, proprio in funzione distintiva dei pro-
dotti (...)”. Sempre in quella sede, la Cassazione rilevava come il giudice di merito
fosse incorso in una “sovrapposizione di piani che ha portato a confondere tra lettere del-
l’alfabeto in sé e per sé considerate, come segni normalmente destinati (...) ad una fun-
zione comunicativa (...) e lettere dell’alfabeto utilizzate (...) come segni identificativi di
prodotti (...) e pertanto destinati ad una funzione distintiva, funzione, quest’ultima, che
non preclude a chiunque lo voglia di continuare a usare quelle stesse lettere secondo la loro
naturale destinazione di strumento di linguaggio”. In argomento si veda altresı̀ il com-
mento di M. BARBUTO alla sentenza citata, in Guida al Diritto, cit., pagg. 30-32 se-
condo il quale: “I marchi alfabetici e numerici sono sicuramente registrabili perché la
legge lo consente (come lo consentiva in passato). Essi non sono ‘deboli’ di per sé, cioè
solo perché alfabetici o numerici, perché il concetto di ‘debolezza’ riguarda l’evocazione de-
scrittiva del prodotto o del servizio. Vedasi in proposito la casistica giurisprudenziale:
‘Pomito’ per le conserve di pomodoro; ‘Jet Tour’ per un’agenzia viaggi; ‘Plia’ per le sedie
pieghevoli; ‘Mariage’ per gli abiti da sposa, ‘Lingua-viva’ e ‘British-School’ per corsi di
lingue; tutti validi, ma deboli perché fantasiosamente descrittivi del prodotto. Al contra-
rio, non è per niente evocativo del panettone la ‘A’ di Alemagna, come non lo è dei vestiti
la ‘V’ di Valentino o la ‘LV’ delle borse di Louis Vuitton; neppure è descrittivo-evocativo
di un’autovettura il numero ‘500’ o ‘124’ o ‘Uno’. I marchi alfabetici e numerici, normal-
mente non evocativi né descrittivi di alcun prodotto, sono però privi di tutela quando al-
tri usano quelle stesse lettere o numeri per esigenze di comunicazione imprenditoriale (...)
come per indicare la serie o il tipo di prodotto (...) l’epoca di fabbricazione (...) la loro
quantità [dunque non in funzione distintiva]. La ragione di tale conclusione risiede nel-
l’art. 21 comma 1, lettera b) cpi (che recita: ‘i diritti di marchio (...) non permettono al
titolare di vietare ai terzi l’uso nell’attività economica (...) di indicazioni relative (...)
alla quantità (...) al valore (...) all’epoca di fabbricazione e ad altre caratteristiche del
prodotto o del servizio’), come richiedeva l’art. 1-bis, comma 1, lettera b), (identico), del
regio decreto 929/1942 (abrogato).
In sintesi: il carattere ‘debole’ dei marchi alfabetici e numerici deve essere valutato
e affermato caso per caso, non in via generale; a posteriori, non a priori”.
(11) Cfr., tra le altre, Corte di Giustizia CE, 22 giugno 1999, in causa C-342/
97, caso Lloyd; Corte di Giustizia CE, 29 settembre 1998, in causa C-39/97, caso Ca-
non; Corte di Giustizia CE, 11 novembre 1997, in causa C-251/95, caso Sabel. In dot-
trina si veda A. VANZETTI-V. DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, 5a ed., 2005,
cit., pagg. 39-41, 153-154, 212-215, 223-225.
490 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

considerazione, in particolare l’elevato carattere distintivo (intrinseco o


acquisito) e l’interdipendenza tra la somiglianza dei segni e quella dei
prodotti, nel senso che un tenue grado di somiglianza tra i prodotti de-
signati può essere compensato da un elevato grado di somiglianza tra i
segni e viceversa (12).
In effetti i giudici baresi, nel procedere ad un raffronto tra i segni
distintivi in questione, hanno rilevato come il marchio del convenuto co-
stituisse una ripresa del nucleo ideologico che esprimeva l’idea fonda-
mentale del marchio usato dagli attori. Invero quest’ultimo, come espo-
sto in precedenza, si caratterizza per il fatto di essere costituito dalla
particolare rappresentazione, grafica e cromatica (lettera nera su sfondo
giallo) di una lettera dell’alfabeto (la A) in cui si cela, grazie al posizio-
namento strategico di due punti atti a simboleggiare le teste, il disegno
di due corpi umani stilizzati in una particolare posa, evocativa di un atto
sessuale. Ed il marchio del convenuto, come ha osservato il Tribunale
barese, era anch’esso costituito da una lettera alfabetica (in questo caso
la K), sempre accompagnata dalla presenza di una dieresi apposta nella
parte superiore della lettera, che pure simboleggia le teste di due figure
nell’atto di congiungersi sessualmente, il tutto su uno sfondo giallo.

La sentenza barese, quindi, ha sottolineato come il marchio del con-


venuto costituisse una semplice variazione del marchio azionato dagli
attori, in quanto erano riprodotti il contrasto cromatico giallo/nero tra la
lettera e lo sfondo, l’anomalo posizionamento della dieresi che dà luogo
a due figure stilizzate e l’immagine allusiva alla sfera sessuale che si cela
nella riproduzione stilizzata.
Il Tribunale di Bari ha evidenziato, dunque, a differenza di quanto
sembra emergere nell’ordinanza del Tribunale meneghino, che la partico-
lare configurazione di una lettera registrata come marchio può essere
contraffatta dall’adozione di una diversa lettera dell’alfabeto, se que-
st’ultima è caratterizzata dalla medesima combinazione grafica (13).

(12) Cfr., tra le altre, Trib. CE, 6 luglio 2004, in causa T-117/02, in GADI, 2004
(4778/2); Trib. CE, 12 dicembre 2002, in causa T-110/01, in GADI, 2003 (4612/2).
(13) Cfr., tra le altre, Trib. Brescia, 9 giugno 1993, in GADI, 1993 (2975); Trib.
Cagliari, 28 settembre 1989, in GADI, 1989 (2451/3); App. Milano, 13 luglio 1979, in
GADI, 1979 (1205/01); Trib. Milano, 11 ottobre 1976, in GADI, 1976 (863/2); Trib.
Roma, 9 giugno 1976, in GADI, 1976 (842/3).
I. - Giurisprudenza nazionale 491

11. Alla luce delle considerazioni che precedono, i giudici baresi


hanno affermato la sussistenza di un rischio di associazione tra segni, e
ciò sulla base di un interessante richiamo al fenomeno dei marchi “in se-
rie” ed alla protezione generalmente conferita a tali marchi. Invero, il
profilo del rischio di associazione viene di solito affrontato in connes-
sione con il pericolo di confusione. La questione è, in sostanza, se il ri-
schio di associazione presuppone il rischio di confusione o prescinde da
quest’ultimo (14).
In questa prospettiva, la pronuncia del Tribunale di Bari merita di
essere segnalata poiché rileva come la vicinanza anche concettuale dei
segni in oggetto, unitamente alla somiglianza delle loro caratteristiche
grafiche, contribuisca a determinare un rischio di confusione quanto
meno per associazione. E ciò, osserva altresı̀ il Tribunale barese, in con-
siderazione del fatto che il marchio azionato dagli attori concerne pro-
dotti relativi ad un settore (moda) nel quale è frequente l’uso di marchi
c.d. “in serie” (15). In altri termini, i giudici evidenziano la circostanza
che il pubblico di riferimento, valutando complessivamente gli elementi
di somiglianza tra i segni in questione, possa trarre il convincimento che
i marchi in conflitto appartengano ad una stessa famiglia di segni, ricon-
ducibile ad una medesima origine commerciale, secondo una tecnica dif-
fusa nel settore della moda e dell’abbigliamento in cui la penetrazione
sul mercato è sovente assicurata dall’uso di marchi appunto “in serie”.
Al riguardo, vengono tradizionalmente definiti marchi “in serie” “i
marchi tra loro simili con i quali un imprenditore contraddistingue diverse
varianti merceologiche di uno stesso prodotto, oppure prodotti con alcune ca-
ratteristiche comuni” (16). La peculiarità dei marchi “in serie” risiede nel
fatto di essere costruiti tutti allo stesso modo, ovvero mediante la ripe-
tizione di un elemento comune, generalmente costituito dal componente
maggiormente individualizzante. In termini di tutela, la natura dei mar-

(14) Per la tesi secondo cui il rischio di associazione riguarda segni distintivi
non confondibili cfr., G. SENA, Il nuovo diritto dei marchi, 2001, Milano, Giuffrè, pagg.
68 ss.; C. GALLI, Rischio di associazione, protezione allargata e marchi anteriori alla ri-
forma, in questa Rivista, 1995, II, pagg. 15-30; M. FRANZOSI, Sul rischio di associazione
(marchi e concorrenza sleale) e sulla funzione del marchio, in questa Rivista, 1996, II,
pagg. 295-298. Per la tesi secondo cui il rischio di associazione costituisce un’ipotesi
del rischio di confusione cfr. A. VANZETTI-V. DI CATALDO, Manuale di diritto industriale,
cit., pp. 212-215; L. MANSANI, La nozione del rischio di associazione fra segni nel diritto
comunitario dei marchi, in questa Rivista, 1997, I, pagg. 133-146.
Sempre in argomento, si segnala che la Corte di Giustizia è orientata nel senso
di considerare il rischio di associazione come un’ipotesi del rischio di confusione,
escludendo quindi che si possa parlare di associazione non confusoria.
(15) Basti pensare a Dior e Diorella, Fendi e Fendissime, Max Mara e Marella.
La serialità si realizza altresı̀ tipicamente nel settore farmaceutico e nel mercato edi-
toriale. Si veda, al riguardo, F. GHIRETTI, La tutela dei marchi in serie, in Studi in onore
di Adriano Vanzetti, 2001, Milano, Giuffrè, pagg. 725-733; C. GALLI, Problemi attuali in
materia di marchi farmaceutici, in questa Rivista, 1992, I, pagg. 37-48.
(16) Cfr. C. GALLI, Problemi attuali in tema di marchi farmaceutici, in questa
Rivista, 1992, cit., pag. 47.
492 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

chi “in serie” comporta che il pubblico dei consumatori, di fronte a un


nuovo marchio costruito sulla stessa componente comune ed apposto su
prodotti della medesima specie, sia indotto a pensare che esso costitui-
sca una variante del primo e dunque che faccia parte della “serie”, con
conseguente riconduzione del prodotto contraddistinto dal secondo mar-
chio alla medesima origine del primo marchio (17).
Muovendo da questa prospettiva, i giudici baresi hanno rilevato che,
sebbene la lettera A sia diversa, anche foneticamente, dalla lettera K, ove
tuttavia quest’ultima sia disegnata in modo da riprodurre la medesima
raffigurazione grafica, sicuramente distintiva, espressa dalla lettera A
(ovvero due corpi umani stilizzati nell’atto di congiungersi sessualmente)
si ha un pericolo di confusione per lo meno sotto la forma del rischio di
associazione.

12. Alla luce delle argomentazioni svolte in precedenza, appare de-


gno di nota, sia nell’ordinanza che nella sentenza, il fatto che l’elemento
concettuale di un segno distintivo sia stato ritenuto di decisiva impor-
tanza ai fini della valutazione in merito all’illiceità o meno di un segno
per contrarietà al buon costume, all’individuazione della capacità distin-
tiva di un segno ed alla sussistenza o meno del pericolo di confusione e/o
del rischio di associazione tra segni.
Significativa, a tale ultimo riguardo, risulta essere la sentenza
emessa dal Trib. CE, 22 giugno 2004, nel procedimento T-185/02 (18),
caso Picasso/Picaro e confermata dalla Corte di Giustizia CE con sen-
tenza del 12 gennaio 2006, nella causa C-361/04 (19). In questa pronun-
cia, infatti, la Corte pone l’accento sul fatto che il marchio “Picasso” è
dotato di un chiaro significato, immediatamente comprensibile da parte
del pubblico di riferimento, con la conseguenza che le somiglianze visive
e fonetiche tra i segni a raffronto (“Picasso” e “Picaro”) passano in se-
condo piano rispetto alla differenza concettuale. La Corte appare dun-
que istituire una scala gerarchica fra i criteri di valutazione della confon-
dibilità tra segni al vertice della quale viene posto quello concettuale,
concludendo pertanto nel senso di ritenere insussistente il rischio di con-
fusione tra i segni per il solo fatto che essi sono diversi concettualmente.

(17) Cfr. M. FRANZOSI, Il marchio difensivo, in questa Rivista, 1976, I, pagg.


167 ss.
(18) In GADI, 2004 (4776).
(19) In GADI, 2006 (5052).
I. - Giurisprudenza nazionale 493

13. Con particolare riferimento alla confondibilità tra segni sul


piano concettuale, si evidenza che se è principio consolidato quello se-
condo cui il confronto tra i segni in conflitto va effettuato basandosi su
un esame visivo, auditivo e concettuale, valutati secondo l’impressione
d’insieme (20), si deve altresı̀ osservare che la giurisprudenza, in determi-
nate circostanze (come nel caso Picasso), ha tuttavia ritenuto prevalente
l’elemento concettuale sugli altri due (21). Ad esempio, nella decisione
emessa dal Trib. CE in data 3 marzo 2004, nel procedimento T-355/02
(confermata dalla Corte di Giustizia con decisione in data 23 marzo 2006
nella causa C-206/04), caso Zirh/Sir, è stato stabilito che “le differenze
concettuali e visive tra due segni possono neutralizzare determinate somi-
glianze fonetiche tra di essi, purché almeno uno di questi segni abbia, nella
prospettiva del pubblico rilevante, un significato chiaro e determinato”; e
ancora, il Trib. CE, con pronuncia del 14 ottobre 2003, nel procedimento
T-292/01, Phillips-Van Heusen v. Pash Textilvertrieb, ha osservato che
“Occorre considerare che le differenze logiche che separano i marchi in esame
sono idonee a neutralizzare in larga misura le somiglianze visive e fonetiche
rilevate”; ed altresı̀, con pronuncia del 7 settembre 2006, il Trib. CE, nel
procedimento T-168/04, caso Arbre Magique, ha statuito che “arbre ma-
gique, il deodorante per l’ambiente a forma di abete, è concettualmente simile
al marchio che gli era stato opposto e costituito dalla stessa sagoma incorpo-
rante una figura stilizzata dall’aria comica ed umoristica (...). La sagoma
dell’abete rinvia al suo concetto e tale concetto prevale, nella percezione vi-
siva, su ogni altro elemento. Il valore semantico viene dunque preferito nella
comparazione dei segni in esame a quello visivo e fonetico”.
In proposito si osserva come sia il Tribunale di Prima Istanza sia la
Corte di Giustizia propendano ad attribuire alla valenza concettuale di
un segno una sorta di primato tra i criteri rilevanti ai fini del giudizio di
confondibilità. A parità cioè di condizioni tra la percezione visuale, fone-
tica e concettuale, quest’ultima tende ad essere valutata con precedenza
rispetto alle altre.
In questa prospettiva pare opportuno rilevare, principalmente in re-
lazione al caso Picasso, come una corretta applicazione del criterio di cui

(20) Cfr., fra le altre, Corte di Giustizia CE, 23 marzo 2006, in causa C-206/
04P, caso Sir, Corte di Giustizia CE, 8 aprile 2003, in procedimenti riuniti C-53701,
C-54/01 e C-55/01, in GADI 2003 (4606/1); Corte di Giustizia CE, 22 giugno 1999, in
causa C-342/97, caso Lloyd, cit.; Corte di Giustizia CE, 29 settembre 1998, in causa
C-39/97, caso Canon, cit.; Corte di Giustizia CE, 11 novembre 1997, in causa C-251/
95, caso Sabel, cit.; Trib. CE, 30 aprile 2003 nelle cause riunite T-324/01 e T-110/02, in
GADI 2003 (4616/2); Trib. CE, 27 febbraio 2002, in causa T-34/00, in GADI 2002
(4471); Trib. CE, 12 dicembre 2002, in causa T-110/01, in GADI 2003 (4612); Trib. CE,
19 settembre 2001, in proc. T-129/00, in GADI 2002 (4466/2).
(21) Cfr., fra le altre, Trib. CE, 23 ottobre 2002, in causa T-104/0, Trib. CE, 15
febbraio 2005, in causa T-169/02, Trib. CE, 16 maggio 2007, nel procedimento T-137/
05, caso La Perla; Trib. CE, 23 ottobre 2002, in causa T-6/01, in GADI 2003 (4611) e
Corte di Giustizia CE, 9 marzo 2006, in causa C-421/04, entrambe relative al caso
Matratzen e Corte di Giustizia CE, 12 giugno 2007, in causa C-334/05, caso Limoncello.
494 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

si è detto nei giudizi di confondibilità possa condurre ad escludere la


sussistenza, in concreto, del rischio di confusione, ove cioè la netta diffe-
renza concettuale tra i termini in conflitto sia tale da essere percepita
come determinante dal pubblico di riferimento al fine della scelta d’ac-
quisto.
ANTONIA ERRIQUEZ
Avvocato in Milano e Dottoranda di Ricerca
I. - Giurisprudenza nazionale 495

TRIBUNALE DI ROMA
Sezione specializzata per la proprietà industriale e intellettuale
sentenza 20 ottobre 2007, n. 22340
Pres. MARVASI — Rel. MUSCOLO
Taisho Pharmaceutical Co. Ltd. e Abbott S.p.a.
c. Ministero dello Sviluppo Economico

Certificato complementare di protezione - Provvedimento di ricalcolo della durata


del CCP - Regolamento 1768/92 - Legittimità costituzionale dell’art. 64 CPI.

Il contenuto della nota del Ministero dello Sviluppo Economico di ricalcolo del
CCP, in applicazione dell’art. 64 cpi, non è quello di una ablazione, ancorché par-
ziale, del diritto di proprietà intellettuale, ma una mera ricognizione degli effetti at-
tributivi e conformativi di detto diritto che discendono dalla norma.
L’art. 61 cpi, adottato dal legislatore nazionale nei suoi pieni poteri, che ride-
termina la durata dei CCP anteriori, non contrasta con nessuna delle norme del re-
golamento comunitario n. 1768/92 e pertanto non va disapplicato.
La questione di illegittimità costituzionale dell’art. 61 CPI per contrasto agli
artt. 3, 24, 97 e 113 Cost. è manifestamente infondata.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. — La Taisho Pharmaceutical CO. Ltd., società


con sede in Giappone e la Abbott S.p.a., società con sede in Italia, che fa parte
del gruppo statunitense Abbott Laboratoires INC., rispettivamente titolare del
certificato complementare di protezione di composizione farmaceutica
C-UB92CCP121, (ora in poi « certificato »), su brevetto di base 672116BE82
(d’ora in poi, « brevetto ») per il principio attivo della claritromicina, e titolare
delle Autorizzazioni alla Immissione in Commercio (AIC) del medicinale antibio-
tico Klacid, nonché sub-licenziataria, agiscono contro il Ministero dello Sviluppo
Economico (MSE), che con nota dell’Ufficio Italiano Marchi e Brevetti (UIBM),
813466 dell’8 ottobre 2002 (d’ora in poi « nota » ha ridotto al 31 dicembre 2007
l’originaria durata al 1o marzo 2010 del certificato.
La parte attrice, presupposta la giurisdizione del Tribunale ordinario e della
sezione specializzata aditi con il rito speciale degli artt. 134 d.lgs. n. 30/2005
(Codice della Proprietà Industriale e Intellettuale, d’ora in avanti CPI), do-
manda l’accertamento della durata dei certificati sino al 1 marzo 2010, previa
disapplicazione dell’art. 3.8 del d.l. n. 63/2002, convertito in l. n. 112/2002 e del-
l’art. 61.4 del CPI, norme in attuazione delle quali è stata adottata la nota MSE,
per contrarietà con gli artt. 1 del Protocollo 1 del 20 marzo 1952 alla Convezione
Europea di Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e della Libertà Fondamentali del
4 ottobre 1950, recepiti dall’art. 6 del Trattato di Maastricht del 7 luglio 1992,
nonché per contrarietà agli artt. 5, 10 e 295 del Trattato CE e undicesimo consi-
derando e art. 20 del Regolamento 1768/92CEE.
Nel caso di mancata disapplicazione la parte attrice chiede in subordine di
sollevare questione di interpretazione pregiudiziale delle medesime disposizioni
496 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

di diritto comunitario con sospensione del processo e rinvio alla Corte di Giusti-
zia delle Comunità Europee; per il caso di mancato rinvio pregiudiziale; in ulte-
riore subordine chiede di sollevare questione di legittimità costituzionale del pre-
detto art. 61.4 CPI per contrarietà agli artt. 3,9, 10, 11, 24, 32,41,42.3, 97, 113,
117 Cost., con sospensione del giudizio e rimessione alla Corte costituzionale.
Il MSE, costituito, eccepisce in via pregiudiziale il difetto di giurisdizione
del tribunale adito, per essere competente in Tribunale Amministrativo del La-
zio, contesta la illegittimità delle due note per contrasto col diritto comunitario,
la interpretazione delle disposizioni e la applicazione dei principi del medesimo
effettuata dalla parte attrice, la sussistenza dei presupposti per la interpreta-
zione pregiudiziale della Corte di Giustizia e la rilevanza e manifesta infonda-
tezza dei profili di illegittimità costituzionale eccepiti dalla controparte.
Discussa la causa all’udienza collegiale, essa è trattenuta per la decisione.

MOTIVI DELLA DECISIONE. — Il caso. Nel caso in esame la narrazione dei fatti
è la medesima ad opera di entrambe le parti e le circostanze, incontestate, sono
comunque provate tutte documentalmente: la Taisho è titolare del certificato, in
relazione al brevetto per il principio attivo della claritromicina utilizzato nella
specialità medicinale antibiotica Klacid; la Abbott è titolare dell’AIC per il Kla-
cid e sub-licenziataria della Taisho per l’uso del principio attivo di cui sopra per
la preparazione del farmaco.
Abrogato per illegittimità costituzionale l’art. 14.1 del r.d. n. 1127/1939
nella parte in cui portava divieto di brevettazione dei medicamenti, per contra-
sto con gli artt. 3,9 e 41 Cost., con l’art. 1 l. n. 349/1941, che ha aggiunto l’art.
4-bis al citato regio decreto, è stato altresı̀ introdotto il CCP con una durata di
protezione pari al periodo intercorso tra la data di deposito della domanda di
brevetto e la data del decreto con cui viene concessa la prima autorizzazione alla
immissione in commercio del medicamento, sino a una durata massima di di-
ciotto anni.
Il reg. 1768/1992, all’art. 13, riduce la durata dei CCP a un massimo di cin-
que anni e all’art. 20 dispone la non applicabilità della durata ridotta ai certifi-
cati rilasciati e alle domande di certificato depositate negli Stati membri prima
della entrata in vigore del regolamento.
L’art. 3.8 del d.l. n. 62/2002, convertito nella l. n. 112/2002 e codificato nel-
l’art. 61.4 del CPI riduce la durata della protezione dei CCP di sei mesi per ogni
anno solare a decorrere dal 1o gennaio 2004; con una nota il MSE comunica alla
Taisho un tabulato di ricalcolo in riduzione della durata del proprio CCP dal 1o
marzo 2010 al 30 dicembre 2007, con una decurtazione della durata di ventisei
mesi.
La Taisho propone avverso detto atto impugnazione avanti al Tar del Lazio
per l’annullamento e in subordine per il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giusti-
zia o per la rimessione alla Corte costituzionale, e con sentenza 7965/03 del 3 ot-
tobre 2003 il Tar, dichiarata la propria giurisdizione, respinge il ricorso nel me-
rito e ritiene la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzio-
nale; contro tale sentenza la Beecham interpone impugnazione, ancora pendente,
avanti al Consiglio di Stato.
In caso analogo la Commissione dei ricorsi, con sentenza 23/03, accertata la
I. - Giurisprudenza nazionale 497

propria giurisdizione, dichiara inammissibili i ricorsi della GSK, che ha proposto


impugnazione, ancora pendente, avanti alla Corte di Cassazione.
Nelle more, sulla base della sentenza 345/05 del 15 luglio-29 luglio 2005
della Corte costituzionale, che dichiarata inammissibile la questione di legitti-
mità costituzionale rimessa dalla Commissione ricorsi in analogo caso, inciden-
talmente affermando la giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria in ordine
all’accertamento della durata della privativa, le due società attrici agiscono
avanti a questo tribunale.
In conclusione, la riduzione della durata dei CCP con atto del MSE ha dato
origine a un cospicuo contenzioso nazionale, che è ancora pendente avanti alla
Commissione ricorsi, alla Corte di Cassazione al Consiglio di Stato, oltre che
avanti a questo tribunale, e su cui si è pronunciata la Corte costituzionale.
Le questioni: la qualificazione della nota del MSE. La qualificazione degli atti
del MSE è questione logicamente preliminare a quelle che seguono, come tale ri-
solta, ancorché con contrasti, da tutte le pronunce intervenute sulla materia del
contendere.
L’art. 61.4, costituente la base normativa di detta nota, recita testualmente:
« Al fine di adeguare progressivamente la durata della copertura brevettale com-
plementare a quella prevista dalla norma comunitaria, le disposizioni di cui alla
legge 19 ottobre 1991, n. 349, ed al regolamento CEE n. 1768/1992 del Consiglio
del giugno 1992, trovano attuazione attraverso una riduzione della protezione
complementare pari a sei mesi per ogni anno solare, a decorrere dal 1 gennaio
2004, fino al completo allineamento alla normativa europea ».
E
v la stessa norma attributiva della legge quindi la fonte della riduzione di
durata della protezione della privativa data dai CCP e della conformazione con-
seguente del diritto di proprietà intellettuale; la nota del MSE non attua nessun
affievolimento del diritto cosı̀ conformato, ma si limita a una ricognizione degli
effetti della legge sui singoli CCP ai fini della pubblicità notizia effettuata dal-
l’UIBM.
L’atto in questione quindi può essere definito sı̀ soggettivamente ammini-
strativo, in quanto promana dalla PA, ma non oggettivamente amministrativo, e
in particolare non atto provvedimentale, giacché in esso non si esprime l’eserci-
zio del potere della PA di cura dell’interesse pubblico, ed in particolare non si
esprime il potere autoritativo della stessa, che con un atto di disposizione va a
incidere su situazioni soggettive.
La stessa Corte costituzionale, nella sentenza 345/05, ha incidentalmente
affermato che « qualsiasi determinazione adottata dall’Ufficio in ordine alla du-
rata della privativa è meramente “ricognitiva” di quanto dispone la legge »; lo
stesso orientamento si riscontra nella sentenza della Commissione ricorsi 23/03
che, in analoga fattispecie, ha definito le note relative a diversi CCP, « atti endo-
procedimentali di un subprocedimento di pubblicazione del ricalcolo della du-
rata che l’ufficio stesso ha avviato » nonché « misura di pubblicità legale dotata
di efficacia meramente notiziale ».
Anche in ragione della sua natura non provvedimentale, il contenuto della
nota non è quello di una ablazione, ancorché parziale, del diritto di proprietà in-
tellettuale, ma una mera ricognizione degli effetti attributivi e conformativi di
detto diritto che discendono dalla norma dell’art. 61.4.
La questione pregiudiziale di giurisdizione. Il Ministero convenuto oppone
498 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

eccezione di difetto di giurisdizione del tribunale adito in favore della giurisdi-


zione esclusiva del tribunale amministrativo attribuita dapprima dall’art. 65.1
del r.d. 1127/1939 e ora dall’art. 142.5 CPI per il ricorso avverso il decreto di
espropriazione del brevetto per pubblica utilità, sul precedente della costante
giurisprudenza del Tar Lazio, tra cui la sentenza sopra citata emessa nell’impu-
gnazione delle due note MSE.
Per le ragioni sopraesposte, nel caso di specie non vi è alcuna espropriazione
del brevetto per pubblica utilità, ma, come accertato dalla stessa pronuncia del
Tar ultima citata, una mera conformazione del contenuto del diritto di proprietà
intellettuale con riferimento alla sua durata (vedi Tar Lazio 8891/2003: che defi-
nisce il limite temporale impresso ai CCP come « evento... normale della situa-
zione dominicale, secondo la struttura impressale dalla legge e, quindi, come una
prescrizione al diritto di proprietà finalizzata ad assicurarne la funzione sociale,
essendo coessenziale alla nozione giuridica anche del diritto di esclusiva il suo
adattamento ad esigenze sociali di pari o superiore dignità »).
Inoltre nel caso di specie la parte esercita una azione di accertamento del
contenuto del diritto soggettivo di proprietà intellettuale sotto il profilo della sua
durata, preordinata all’esercizio di una futura azione di condanna per il risarci-
mento dei danni causati dalla riduzione temporale della privativa.
Non vi è alcuna impugnazione per annullamento dell’atto amministrativo e
cioè della nota dell’UIBM, per illegittimità della espropriazione, e gli effetti del-
l’atto sono postulati soltanto come causa della incertezza per le parti sul conte-
nuto del diritto di privativa brevettale, a differenza di quanto avvenuto invece
avanti al Tar Lazio, nel processo in cui è stata emanata la sentenza 8891/03 ri-
chiamata dalla parte convenuta, che non costituisce pertanto precedente in ter-
mini.
Dunque, nel caso di specie, il petitum sostanziale della azione risiede nella
rimozione della incertezza circa il contenuto del diritto di proprietà intellettuale
e non nell’accertamento della legittimità della azione amministrativa di espro-
priazione del brevetto per pubblica utilità, con conseguente affievolimento del
diritto proprietario a interesse legittimo.
La causa petendi della azione, intesa anch’essa in senso sostanziale, si iden-
tifica poi nella illegittimità per contrasto col diritto comunitario e costituzionale
dell’art. 61.4 CPI, norma direttamente attributiva del diritto di proprietà intel-
lettuale conformato con una durata ridotta, e non nella illegittimità dell’atto
amministrativo, meramente ricognitivo di tale durata.
In conclusione, nel caso di specie non è applicabile la norma dell’art. 142.5
CPI e non sussiste la giurisdizione esclusiva del Tar e anche secondo il criterio
generale di riparto della giurisdizione, e cioè quello delle situazioni giuridiche
soggettive azionate, di cui all’art. 103.1 Cost e norme subordinate, sussiste la
giurisdizione generale dell’AGO e non dell’AGA; la stessa sentenza 345/05 della
Corte costituzionale si è incidentalmente pronunciata in favore della giurisdi-
zione ordinaria sulla azione di mero accertamento sulla « validità e apparte-
nenza » del diritto di privativa.
La eccezione pregiudiziale di difetto di giurisdizione opposta dalla parte
convenuta è quindi infondata e deve essere respinta.
La questione preliminare dell’interesse ad agire. A fronte dell’azione di mero
accertamento si pone in via preliminare la questione dell’interesse ad agire della
I. - Giurisprudenza nazionale 499

parte, che lo prospetta nella situazione di incertezza in cui il proprio diritto è


posto dal ricalcolo della durata dei CCP effettuata con la nota del MSE e dal
contrasto di pronunce delle diverse giurisdizioni adite sul punto.
La giurisprudenza di legittimità ha definito la condizione dell’azione dell’in-
teresse ad agire in accertamento come interesse al mezzo processuale al fine della
rimozione della incertezza causata sia da fatti sia da atti giuridici (vedi tra tante
Cass. 23 marzo 2004 n. 5719, Cass. 22 gennaio 2001 n. 892; Cass. Sez. un. 10 ago-
sto 2000 n. 565).
Per le ragioni sovraesposte in punto riparto di giurisdizione, l’atto della P.A.
meramente ricognitivo di situazioni giuridiche soggettive già attribuite e regolate
dalla legge, è equiparabile all’atto di diritto privato, di contestazione o iattanza,
che crea incertezza sulla sussistenza e il contenuto del diritto soggettivo della
parte, non potendosi tale incertezza eliminare attraverso la rimozione degli ef-
fetti dell’atto con l’impugnazione dello stesso.
Pertanto nel caso di specie in cui la pronuncia del tribunale può rimuovere,
attraverso la sua disapplicazione, la contestazione sulla durata del diritto di pro-
prietà intellettuale della parte, sussiste l’interesse ad agire in accertamento di
quest’ultima.
La questione di disapplicazione degli atti amministrativi per contrasto con il
diritto comunitario. La parte attrice chiede in via preliminare logica la disappli-
cazione dell’art. 61.4 per contrasto con il diritto comunitario, in forza del prin-
cipio di primazia di questo.
Il primo profilo sollevato è quello del contrasto con l’art. 249.2 del Trattato
CE e il principio della diretta applicazione dei regolamenti, giacché la norma im-
pugnata violerebbe il considerando 11 del Reg. 1768/92, che attribuisce al rego-
lamento lo scopo di « determinare il regime transitorio applicabile alle domande
di certificato depositate ed ai certificati rilasciati conformemente alla legislazione
nazionale prima della entrata in vigore » (n.d.e del regolamento stesso).
La medesima norma sarebbe altresı̀ in violazione dell’art. 20 dello stesso re-
golamento, secondo cui la nuova disciplina introdotta dallo stesso sulla durata
ridotta dei CPP « non si applica né ai certificati rilasciati conformemente alla le-
gislazione nazionale di uno Stato membro prima della entrata in vigore del pre-
sente Regolamento, né alle domande di certificato depositate in conformità di
detta legislazione prima della data di pubblicazione del presente Regolamento ».
Nella ricostruzione di parte attrice la disposizione sopraccitata avrebbe re-
cepito in toto la legislazione nazionale previgente regolatrice dei CPP anteriori, e
cioè l’art. 4-bis n. 1127/1939, « cristallizzandola », e le avrebbe attribuito natura
e rango di norma di diritto comunitario; cosı̀ l’art. 20 avrebbe attuato lo scopo
di determinazione del diritto transitorio previsto dal considerando 11. Pertanto
la parte predica la contrarietà dell’art. 61.4 anche alle norme a esso previgenti,
quali norme di diritto comunitario.
Il Tribunale non condivide tale ricostruzione del sistema: l’art. 20 in esame
altro non è che una norma (transitoria)su norme, che regola l’ambito di applica-
zione del regolamento, escludendo dallo stesso i CPP anteriori a una certa data,
purché siano rilasciati in conformità alla legislazione nazionale dello Stato mem-
bro, senza nulla prescrivere circa i contenuti delle regole nazionali adottate, o da
adottare, applicabili a detti CPP e senza modificarne la natura e il rango di leggi
nazionali, proprio come tali richiamate. Lo scopo richiamato dal considerando
500 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

11, di determinazione del regime transitorio, è attuato mediante rinvio alle leggi
degli Stati membri, cosı̀ come adottate o da adottarsi dal legislatore nazionale.
Tale ricostruzione non è affatto in contrasto con quanto statuito nella ordi-
nanza della Corte di Giustizia richiamata dalla parte a supporto della propria
tesi, limitandosi questa ad affermare che « non risulta che la normativa nazionale
operi un qualsiasi rinvio al regolamento n. 1768/92, attraverso cui quest’ultimo
divenga applicabile nell’ordinamento giuridico interno al di fuori dell’ambito di
applicazione ratione temporis di tale regolamento »; è infatti fuori contestazione
che la norma nazionale non estenda la applicabilità del regolamento ai CPP an-
teriori, limitandosi a rideterminarne autonomamente la durata, per scopi che
non è dato in questa sede sindacare (CGCE ord. 26 aprile 2002 Vis Farmaceutici
Istituto scientifico delle Venezie v. Dupher International Research, C-454/2000).
Cosı̀ ricostruito il sistema di norme sulla durata dei CPP anteriori, l’art.
61.4, adottato dal legislatore nazionale nei suoi pieni poteri, che rideteremina la
durata dei CPP anteriori, non contrasta con nessuna delle norme del regola-
mento in esame.
Il secondo profilo di contrasto con il diritto comunitario postulato da parte
attrice è quello della violazione dell’art. 295 sulla neutralità dei regimi proprie-
tari; ma proprio il fatto che il legislatore nazionale sia valso dei propri poteri di
conformazione del diritto di proprietà sui CPP, rideterminandone la durata, co-
stituisce applicazione del principio di neutralità dei regimi proprietari rispetto
all’azione del legislatore europeo, affermato nella citata norma.
La questione di interpretazione pregiudiziale delle disposizioni di diritto comu-
nitario. In via logicamente subordinata alla disapplicazione dell’art. 61.4 per
contrasto con il diritto comunitario, la parte attrice chiede il rinvio alla Corte di
Giustizia per la interpretazione pregiudiziale dell’art. 20 del regolamento, letto
alla luce del considerando 11, richiedendo se la disposizione possa essere inter-
pretata come portante un permesso agli Stati membri di ridurre la durata dei
CPP anteriori alla entrata in vigore del regolamento stesso.
La disposizione dell’art. 20 è sufficientemente chiara e non dà adito ad al-
cun ragionevole dubbio circa il significato da attribuirle; pertanto la questione
della interpretazione dell’art. 20 e della estrapolazione della relativa norma tran-
sitoria che regola in caso può essere risolta dal Tribunale come sopra ed esso non
ritiene sussistere i presupposti di opportunità per il rinvio pregiudiziale, in que-
sto caso facoltativo, alla Corte di Giustizia.
Le questioni di legittimità costituzionale. In via subordinata, per il caso in cui
l’art. 61.4 CPI non sia ritenuto in conflitto con il diritto comunitario, cosı̀ come
interpretato dal Tribunale, la parte attrice solleva questione di legittimità costi-
tuzionale della citata disposizione rispetto a numerosi principi e norme della Co-
stituzione e ne chiede la rimessione alla Corte costituzionale.
La questione sollevata dalla parte è rilevante, giacché essa impugna di co-
stituzionalità la norma che determina la durata dei CPP in una azione di accer-
tamento della durata medesima.
Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il primo profilo di
incostituzionalità postulato è il contrasto con l’art. 42.3 Cost., che, a tutela del
diritto di proprietà privata, prescrive un indennizzo per il caso di espropriazione
per motivi di interesse generale; nel caso di specie, premessa la natura proprie-
taria del diritto di proprietà intellettuale, l’art. 61.4, abbreviando la durata della
I. - Giurisprudenza nazionale 501

privativa, elemento coessenziale alla stessa, si risolverebbe in una parziale espro-


priazione senza indennizzo per i titolari.
Sotto tale profilo la questione sollevata è manifestamente infondata: nell’in-
terpretazione del disposto costituzionale, il III comma dell’art. 42 deve essere
letto insieme al II comma, che tutela la proprietà privata nei limiti preordinati
« ad assicurarne la funzione sociale »; non a caso il copioso dibattito, dottrinale e
giurisprudenziale, degli anni 80 sulla lettura dell’art. 42 Cost. fu centrato proprio
sulla funzionalizzazione della proprietà privata.
Senza entrare nel merito di tale dibattito, per quanto di rilevanza nel caso
di specie, può predicarsi che il contenuto del diritto di proprietà sia conformato
dall’interno dalla funzione sociale, che ne costituisce la connotazione costituzio-
nale; in forza della riserva di legge, gli statuti delle diverse proprietà, che variano
da bene a bene, si rinvengono nelle norme di legge sott’ordinate, i cui scopi deb-
bono rispondere alla finalizzazione costituzionale.
La conformazione del diritto di proprietà privata funzionalizzata trascende
in espropriazione, cioè in vera e propria ablazione del diritto, unicamente se la
legge priva del tutto il proprietario dei poteri di godimento, o di disposizione o
di esclusiva; il mero limite apposto a tali poteri, ivi compreso il limite di durata,
resta una mera conformazione intrinseca del contenuto del diritto proprietario.
Quanto allo statuto della proprietà intellettuale, poi, la connotazione del
contenuto degli stessi in relazione alla loro durata è, da sempre, una scelta del
legislatore della materia, che contempera gli interessi, privatistici, del titolare del
brevetto con quelli, di rilevanza anche pubblica, alla innovazione tecnologica; in-
fatti la c.d. questione brevettuale, che è soprattutto questione della portata e
della durata della protezione della invenzione, consiste proprio nell’identificare il
punto di massima efficienza nella durata temporale del brevetto: una privativa
troppo limitata nel tempo disincentiva la ricerca applicata, ma una troppo pro-
lungata attua un effetto di sbarramento della stessa e toglie alla privativa ogni
carattere proconcorrenziale.
La Costituzione economica europea, nella interpretazione della Corte di
Giustizia, detta gli stessi principi in materia di diritti della proprietà intellet-
tuale: « Il libero esercizio di un’attività professionale fa parte, cosı̀ come d’al-
tronde il diritto di proprietà, dei principi generali del diritto comunitario. Detti
principi non si configurano tuttavia come prerogative assolute, ma vanno consi-
derati in relazione alla loro funzione sociale. Ne consegue che possono essere ap-
portate restrizioni al diritto di proprietà e al libero esercizio di un’attività pro-
fessionale, a condizione che tali restrizioni siano effettivamente consone ad obiet-
tivi di interesse generale perseguiti dalla Comunità europea e non costituiscano,
rispetto allo scopo perseguito, un intervento sproporzionato e inaccettabile tale
da ledere la sostanza stessa dei diritti cosı̀ garantiti. » (CGCE 28 aprile 1998,
causa C-200/96, Metronome Musik/Music Point Hokamp).
In questo contesto normativo, la abbreviazione operata dalla legge della du-
rata di protezione dei CPP, deve qualificarsi come mera conformazione del diritto
di proprietà intellettuale in ragione della sua funzionalizzazione alla promozione
della innovazione, ai sensi dell’art. 42.II; infatti l’art. 61.4 dà espressa contezza
della ratio della norma in esso contenuta, e cioè il « fine di adeguare progressiva-
mente la durata della copertura brevettale complementare a quella prevista dalla
normativa comunitaria », la quale a sua volta, nei considerando, fa riferimento a
502 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

« tutti gli interessi in gioco » e in particolare a sia la protezione degli investimenti


effettuati nella ricerca, sia l’interesse alla salute pubblica.
Non vi è dunque alcuna ablazione del diritto, ancorché parziale; in difetto
di espropriazione non è prescritto alcun indennizzo e la norma che non lo pre-
vede non contrasta con l’art. 42.III Cost.. Lo stesso Tar Lazio, nella sentenza più
volte citata ha espresso il medesimo principio, affermando « l’impossibilità di in-
vocare l’art. 42.III Cost. ed il diritto all’indennizzo, giacché la nuova disciplina
della durata dei CPP..., in realtà innova soltanto un regime intertemporale...re-
lativamente alla efficacia temporale e non alla titolarità in sé del diritto di esclu-
siva » e richiamando espressamente « la tutela dell’interesse pubblico alla pere-
quazione dei regimi della durata dei brevetti anche se implica un sacrificio per la
singola impresa titolare di CCP ». (Tar Lazio 21 ottobre 2003 ult. cit.).
La seconda censura di legittimità costituzionale dell’art. 61.4 effettuata da
parte attrice è il contrasto con l’art. 41 Cost che tutela la libertà di impresa pri-
vata; il libero esercizio della impresa farmaceutica, che avrebbe fatto affida-
mento su una più lunga durata dei CCP, con relativi costi per investimenti nella
ricerca, sarebbe leso nella sua dimensione dinamica, giacché ai costi sostenuti
non corrisponderebbero più i previsti ricavi per la disposizione del diritto di
esclusiva.
A questo profilo di incostituzionalità la parte collega la violazione dell’art.
3 Cost., e del principio di uguaglianza intesa quale ragionevolezza del tratta-
mento riservato dalla legge al cittadino, comprensiva del principio di affida-
mento sulla non irragionevolezza delle leggi, principio quest’ultimo comunque
recepito nella Costituzione materiale; la decurtazione imprevista della durata del
diritto di privativa costituirebbe un regolamento irrazionale della situazione giu-
ridica pregressa su cui la parte aveva fatto affidamento.
Anche tali censure sono manifestamente infondate: infatti nell’art. 41 l’ini-
ziativa economica privata ha il limite della utilità sociale; nel rispetto di questo
limite, se esso si invera negli scopi delle singole leggi dello Stato regolatore del-
l’economia, consiste la ragionevolezza dell’eventuale disparità di trattamento tra
diverse situazioni di mercato, e l’imprenditore privato non può fare fondato af-
fidamento su una libertà di impresa illimitata o sulla invarianza dei limiti a
fronte di modificazioni dell’ambiente economico.
La riduzione graduale della durata dei CCP, che garantisce peraltro un ade-
guamento progressivo alla legislazione comunitaria e alla durata dei CCP da
questa regolati nonché un ravvicinamento alle legislazioni in materia degli altri
Stati membri, permette una liberalizzazione anticipata della messa in commer-
cio dei farmaci generici che contengono il principio attivo protetto, e per l’ef-
fetto, una riduzione del loro prezzo, in favore sia del consumatore privato, per cui
comporta una maggiore effettività di tutela del diritto alla salute, sia dello Stato,
per il contenimento della spesa pubblica connessa al servizio sanitario nazionale.
Le sopraccitate rationes legis, che sono per inciso le medesime richiamate nei
consideranda sopraccitati dello stesso reg. 1768/1992, costituiscono attuazione del
limite di utilità sociale alla piena libertà di iniziativa economica delle imprese
farmaceutiche, tenuto ragionevolmente conto delle specificità del settore, nonché
frutto di un bilanciamento di interessi costituzionalmente protetti, quali ap-
punto quello al libero esercizio della impresa e quello alla effettiva tutela della
salute.
I. - Giurisprudenza nazionale 503

Il mercato del settore è tutt’altro che un mercato affollato, e per le imprese


leaders la pianificazione degli investimenti in ricerca applicata deve tener conto
della complessiva attività di impresa, che coinvolge tutti i farmaci e principi at-
tivi prodotti, coperti da tutte le privative di cui esse sono titolari, rispetto a cui
quelle protette dai CCP in contestazione costituiscono un mero segmento; una
riduzione limitata della durata del diritto di esclusiva per alcuni CCP può certo
tradursi in una diminuzione dei ricavi d’impresa e in una riduzione di profitti,
che costituisce un profilo di rischio d’impresa, sulla eliminazione del quale nes-
sun imprenditore può fare affidamento.
Tale riduzione invece non può ragionevolmente avere sui piani industriali un
effetto tale da compromettere il ruolo, essenziale, delle imprese private farma-
ceutiche, di promozione della ricerca applicata di settore; quindi da un lato la li-
bertà di iniziativa economica è limitata ma non violata, dall’altro la finalizza-
zione indiretta della stessa alla tutela della salute collettiva è preservata.
Terzo profilo di incostituzionalità dell’art. 61.4 opposto da parte attrice è il
contrasto con l’art. 117e), come modificato con la espressa menzione della mate-
ria della concorrenza, che introduce anche nella Costituzione economica formale
la tutela dell’assetto concorrenziale dei mercati, ormai parte della Costituzione
materiale e comunque recepito dal Trattato UE attraverso gli artt. 10 e 11 Cost.;
la decurtazione della durata dei CCP falserebbe il gioco della libera concorrenza
tra imprenditori sul mercato, sfavorendo le imprese che hanno investito in ri-
cerca e favorendo le altre.
Anche tale profilo di incostituzionalità è manifestamente infondato: il rap-
porto tra la libera concorrenza e i diritti di proprietà intellettuale è regolato pro-
prio dall’art. 30 del Trattato UE, secondo cui i principi di libera circolazione
delle merci sul mercato e di libera concorrenza, qualificabili come veri e propri
principi di ordine pubblico economico, subiscono il limite della tutela della pro-
prietà industriale e in questo senso è costante anche la giurisprudenza della
Corte di Giustizia; è d’altro canto sempre attuale il dibattito del nesso contro-
verso tra competitività e protezione della proprietà intellettuale.
Nella misura in cui la riduzione della durata della protezione dei CCP ha
come effetto, per il meccanismo sopradescritto, una accresciuta liberalizzazione
nella messa in commercio dei medicinali, essa contribuisce semmai alla fisiono-
mia concorrenziale dei mercati, tutelando cosı̀ l’interesse del mercato e non
quello dei mercanti (Cass. n. 1636/2006), e dunque anche l’interesse del consuma-
tore finale del prodotto farmaceutico, pur senza ledere la effettiva competitività
delle imprese, per le ragioni sopraesposte e non viola ma semmai attua il princi-
pio di libera concorrenza costituzionalmente protetto.
La quarta censura di illegittimità costituzionale dell’art. 61.4 da parte at-
trice concerne la violazione dell’art. 9 Cost. che promuove la ricerca scientifica;
gli argomenti usati dalla parte sono i medesimi che supportano le due precedenti
censure in punto disincentivazione degli investimenti dell’impresa nella ricerca
farmaceutica; anche questa questione è manifestamente infondata per le ragioni
illustrate sopra a proposito degli ostacoli non effettivi frapposti alla attività del-
l’impresa farmaceutica e dello sbarramento della ricerca per contro conseguente
a una eccessiva durata dei brevetti sui medicamenti.
Il quinto profilo di incostituzionalità della norma attiene al contrasto con
gli artt. 3, 24, 97 e 113 Cost., che garantiscono il principio di legalità e piena giu-
504 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

stiziabilità delle posizioni giuridiche regolate dalla legge, interpretato dalla Corte
costituzionale nel senso della legittimità costituzionale delle leggi provvedimento
unicamente se ricorrano determinate condizioni.
La manifesta infondatezza della questione in questo caso dipende dal fatto
che l’art. 61.4 non può essere definito come una legge provvedimento perché
porta norme con carattere di generalità ed astrattezza in quanto hanno come
destinatari tutti i titolari di CCP anteriori a una certa data, che secondo le pro-
spettazioni della stessa parte attrice sono circa quattrocento.
Infine l’ultimo profilo di incostituzionalità postulato dalla parte attrice at-
tiene al contrasto con artt. 10 e 11 Cost. per violazione dei principi generali di
diritto internazionale, identificati in questo caso dalla parte nel principio della
tutela della proprietà privata e di necessaria giustificatezza e proporzionalità
delle misura ablatorie della stessa, principio sancito nell’art. 1 del protocollo 1
del 20 marzo 1952 alla Convenzione Europea di Salvaguardia dei Diritti del-
l’Uomo e delle Libertà Fondamentali del 4 ottobre 195, richiamato dall’art. 6.2
del Trattato di Maastricht del 7 luglio 1992, nonché nel divieto di nazionalizza-
zione di proprietà private straniere senza indennizzo.
Ciò la parte afferma sul ribadito presupposto che la riduzione della durata
dei CCP integri una espropriazione senza indennizzo; pertanto la manifesta in-
fondatezza di tale ultima questione deriva da tutti gli argomenti sopra spesi per
negare la natura di atto ablativo della proprietà della decurtazione di durata del
diritto di esclusiva.
Conclusioni. In conclusione, l’art. 61.4 CPI nella parte in cui riduce la du-
rata dei CCP concessi ai sensi della l. n. 349/1991, per le ragioni tutte sovraespo-
ste è conforme al diritto comunitario e rispettoso delle norme della Costituzione
e la durata dei predetti CCP può accertarsi in quella calcolata, in sua attuazione,
con la nota del MSE; la domanda principale di accertamento di una diversa du-
rata deve quindi essere respinta.
La difficoltà del caso in relazione a tutte le questioni trattate, costituisce
ragione sufficiente di compensazione integrale tra le parti delle spese di processo.

P.Q.M.

1) respinge la domanda principale;


2) compensa integralmente tra le parti le spese di processo.

La durata dei certificati complementari di protezione nazionali: questioni


di costituzionalità.

SOMMARIO: 1. I termini del problema. — 2. Le questioni esaminate dalla


Sezione Specializzata di Roma: i) la violazione dell’art. 42 Cost.;
ii) la violazione del principio di tutela dell’affidamento. — 3. Consi-
derazioni conclusive.

1. I termini del problema.

La elaborata sentenza in epigrafe rappresenta un ulteriore rilevante


episodio della vicenda giurisprudenziale relativa alla durata dei certifi-
I. - Giurisprudenza nazionale 505

cati complementari di protezione rilasciati in base alla l. 19 ottobre 1991,


n. 349 (1), disciplina « confluita » nell’art. 61 del Codice della proprietà
industriale (CPI) (2). Come noto, la normativa attribuisce al titolare del
brevetto che copre un medicamento (il cosı̀ detto brevetto di base) la
possibilità di ottenere un « certificato complementare di protezione » che
conferisce gli stessi diritti esclusivi nascenti dal brevetto. In tal modo si
consente il prolungamento della protezione brevettuale (3), permettendo
all’impresa farmaceutica di recuperare il tempo necessario per ottenere
il rilascio dell’autorizzazione di immissione in commercio, presupposto
per lo sfruttamento commerciale del prodotto (4). In assenza di questo
correttivo, l’industria farmaceutica sarebbe fortemente penalizzata per-
ché non godrebbe di un periodo sufficientemente lungo per ammortiz-
zare gli investimenti effettuati (in R&S e in sperimentazioni cliniche),
costi fissi per la produzione di un medicinale. Da qui discenderebbe an-
che un evidente pregiudizio per la collettività in quanto una contrazione
dei profitti delle imprese si trasformerebbe inevitabilmente in minor in-
vestimenti per la realizzazione di innovazioni farmaceutiche.
Queste considerazioni sono anche alla base del Regolamento comu-

(1) In G.U. 4 novembre 1991, n. 258. Sul tema v. P.A.E. FRASSI, Alcune osser-
vazioni in margine alla legge 91/349, in questa Rivista, 1991, I p. 405; L. LIUZZO, Am-
pliamento della tutela dei farmaci in Italia: il certificato complementare di protezione, in
questa Rivista, 1993, I, p. 243; G. FLORIDIA, in AA.VV., Diritto industriale. Proprietà
intellettuale e concorrenza, Torino, 2005, p. 228.
(2) Il CPI, d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, ha abrogato la legge del 1991 (v. art.
246 lett. z), recependone tuttavia il contenuto all’art. 61.
(3) L’allungamento della durata del brevetto non sarebbe stato possibile in
Italia e negli altri paesi aderenti alla Convenzione di Monaco che regola il brevetto
europeo, in quanto l’art. 63, nella versione allora vigente, limitava a venti anni la
protezione. La legge nazionale che ha istituito il certificato complementare era invece
perfettamente compatibile con la Convenzione di Monaco poiché quest’ultima non
impediva agli stati aderenti di introdurre titoli di protezione particolari. Que-
st’aspetto è adesso superato perché la revisione dell’art. 63 CBE, entrata in vigore il
4 luglio 1997, consente agli stati contraenti di concedere una protezione ulteriore op-
pure di estendere la protezione se il prodotto è sottoposto a una procedura ammini-
strativa di autorizzazione.
In altri Paesi, invece, si è optato per l’estensione del titolo originario, v. in par-
ticolare la legge statunitense del 1984, Drug Price and Competition and Patent Term
Restoration Act (Public Law 98-417). Sul punto P.A.E. FRASSI, Commento alla Propo-
sta di regolamento CEE C114/10 del 3/4/1990, in questa Rivista, 1991, I, p. 160.
(4) La vendita nel territorio nazionale è infatti subordinata al rilascio dell’au-
torizzazione per l’immissione in commercio (AIC), a seguito di una complessa proce-
dura amministrativa, in cui il richiedente è tenuto a presentare un dossier con tutte
le informazioni ottenute dalla sperimentazione clinica. La procedura amministrativa
ha la finalità di salvaguardare la salute pubblica, rendendo possibile la vendita di far-
maci sicuri o, comunque, che garantiscano un buon rapporto rischio/beneficio. L’au-
torità preposta ad esaminare e valutare il dossier presentato dal richiedente è l’Agen-
zia italiana del farmaco (AIFA), istituita con il d.l. n. 269 del 30 settembre 2003. La
domanda e la procedura di istruttoria dell’AIC è regolata dal Codice dei medicinali,
d.lgs. 24 aprile 2006, n. 219, all’art. 6 ss., il quale specifica altresı̀ che l’AIFA deve
pronunciarsi sulla domanda nel termine di 210 gg.
506 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

nitario n. 1768 del 18 giugno 1992 (5), adottato con lo scopo di prevedere
una soluzione uniforme a livello comunitario e scongiurare cosı̀ il pericolo
di norme nazionali eterogenee.
Dal momento che l’obiettivo, tanto della legge nazionale quanto del
regolamento, è quello di far recuperare il « tempo perduto » al titolare
della privativa, entrambe le discipline prevedono che gli effetti del certi-
ficato si estendano per il periodo intercorso tra la data di deposito della
domanda del brevetto di base e la data della prima autorizzazione di im-
missione in commercio. Sennonché proprio in termini di durata sussiste
una sostanziale divergenza tra le due normative: mentre ai sensi del re-
golamento la durata del certificato non può essere superiore a cinque
anni a decorrere dalla data in cui il certificato acquista efficacia (6), la
normativa italiana prevede che la durata del certificato non possa in ogni
caso essere superiore a diciotto anni (7).
A differenza di quanto stabilito dal Regolamento, quindi, la legge
istitutiva dei CCP permetteva all’industria farmaceutica di recuperare in
toto il tempo impiegato per ottenere l’autorizzazione, assicurando cosı̀ un
monopolio ventennale a partire dal momento in cui si era concretizzata
la possibilità di sfruttare economicamente l’invenzione.
Questa scelta del legislatore, in particolare rispetto al limite dei di-
ciotto anni, era stata accolta da alcuni commentatori con qualche per-
plessità. Si era infatti giustamente osservato che una protezione comple-
mentare nell’ordine dei diciotto anni vanificava il tentativo di una solu-
zione equilibrata tra i contrapposti interessi in gioco nel settore farma-
ceutico, esprimendo quasi un favor per il brevetto farmaceutico rispetto
a quello di altri settori della tecnica (8).
Con l’approvazione del Regolamento, le norme comunitarie più re-
strittive hanno prevalso su quelle nazionali, facendo tuttavia salvi i cer-
tificati precedentemente concessi sulla base della legge italiana (9). Si era
cosı̀ creata una situazione paradossale, tale per cui la durata massima
della privativa era di diciotto anni per i certificati concessi prima del 2
gennaio 1993 (perché rilasciati ex l. n. 349/1991), e di cinque anni per
quelli successivi (in quanto conformi al Regolamento comunitario). Tale

(5) In G.U.C.E. del 2 luglio 1992 n. L 182. V. in particolare il considerando 4.


(6) Art. 13 del Regolamento n. 1768/1992.
(7) Art. 1 l. n. 349/1991.
(8) P.A.E. FRASSI, op. cit.. L’Autrice sottolineava come il titolare di un bre-
vetto farmaceutico secondo questo sistema godrebbe di un’esclusiva effettiva di venti
anni quando si riscontra nella pratica che l’esclusiva ventennale di un qualsiasi bre-
vetto è ridotta mediamente di tre o quattro anni impiegati nello studio e nello svi-
luppo del prodotto prima che sia possibile la sua effettiva messa a disposizione per il
consumo. Questo sistema si tradurrebbe in una disparità di trattamento fra il settore
farmaceutico e gli altri settori della tecnica.
(9) Ai sensi dell’art. 20, la disciplina del Regolamento 1768 del 1992 non si
applica né ai certificati rilasciati conformemente alla legislazione nazionale di uno
Stato membro prima della data di entrata in vigore del presente regolamento, né alle
domande di certificato depositate in conformità di detta legislazione prima della data
di pubblicazione del regolamento nella G.U.C.E.
I. - Giurisprudenza nazionale 507

situazione ha prodotto notevoli disparità soprattutto tra i certificati ita-


liani e quelli degli altri stati membri, impedendo la produzione di prin-
cipi attivi in Italia anche se destinati all’estero (10).
Al fine di riallineare la durata delle esclusive, è stato necessario un
intervento legislativo in via d’urgenza: con il d.l. 15 aprile 2002, n. 63,
convertito poi con l. 15 giugno 2002, n. 112, si è deciso di ridurre la du-
rata dei certificati nazionali di sei mesi ogni anno a partire dal 1o gen-
naio 2004 (11).
Questa normativa ha investito alcune centinaia di certificati che,
destinati a scadere molti anni dopo rispetto alle corrispondenti privative
in altri stati europei, erano in grado di determinare un eccessivo aggra-
vio della spesa sanitaria nonché di ostacolare lo sviluppo dei farmaci ge-
nerici in Italia.
L’intervento legislativo, tuttavia, è stato oggetto di critiche da più
fronti, anche espressione di interessi contrapposti. Da un lato, benché la
novella si proponesse di promuovere la concorrenza nel settore farmaceu-
tico, alimentando un ribasso dei prezzi, è stata considerata dall’Autorità
Garante inidonea ad eliminare le distorsioni derivanti dalla legge del
1991 (12).
Da un diverso punto di vista, più vicino agli interessi dell’industria
farmaceutica, la riduzione è stata ritenuta eccessivamente penalizzante
per i produttori di medicinali. In particolare, è stato affermato che la di-
sciplina rappresentasse uno strumento di sostegno indiretto all’industria
nazionale (genericista e chimica di base), spiegabile sulla base del diverso
contesto italiano: negli anni novanta mentre molte case farmaceutiche

(10) Cfr. M. BOSSAHARD, Problemi di coordinamento tra la disciplina europea del


certificato protettivo complementare per i medicinali (CPC) e disciplina nazionale del
certificato complementare di protezione per i medicamenti (CCP), in questa Rivista,
1998, I, p. 60. L’Autore evidenziava con un esempio concreto la diversità circa la du-
rata del CCP nei vari stati membri e proponeva una serie di soluzioni: dalla dichiara-
zione di incostituzionalità della l. n. 349/1991, al riconoscimento di una abrogazione
tacita della legge in quanto contraria alla ratio del regolamento.
(11) Il d.l. n. 63/2002 prevedeva una riduzione più cospicua del certificato
complementare. L’art. 3, comma 8, in particolare, imponeva una riduzione del pe-
riodo di protezione complementare, pari ad un anno del 2002 e a due anni per ogni
anno solare successivo, fino al completamento allineamento alla durata prevista dalla
normativa europea.
(12) Cfr. Segnalazione AS 239 del 30/5/2002, Durata della copertura brevet-
tuale complementare dei farmaci, in Boll., 21/2002. Ad avviso dell’Autorità antitrust,
il prolungamento della tutela brevettuale non appariva giustificato da un punto di vi-
sta economico ed industriale perché gli investimenti in attività di ricerca e sviluppo
compiuti per le molecole in questione erano già stati recuperati. In particolare, l’Au-
torità faceva notare come i certificati complementari concessi in base alla legge del
1991 erano per lo più detenuti da imprese multinazionali che avevano perso la prote-
zione (o godevano di una tutela di durata minore) proprio nei paesi in cui avevano ef-
fettuato molti dei loro investimenti, mentre le imprese farmaceutiche italiane opera-
vano generalmente in co-marketing su licenza delle imprese titolari.
508 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

sono state acquisite da multinazionali estere, l’industria nazionale dei


generici è cresciuta, guadagnando influenza a livello politico (13).
Nonostante siano trascorsi diversi anni dall’approvazione della legge
che ha imposto la riduzione e nonostante la normativa sia stata fatta
propria dal CPI, all’art. 61, comma 4 e 5, i dibattiti circa la durata dei
certificati complementari non si sono sopiti, soprattutto a seguito di al-
terne vicende giudiziarie.
Difatti, a partire dal 2003 l’Ufficio Italiano brevetti e marchi ha
provveduto al ricalcolo della durata dei diritti esclusivi in base a quanto
stabilito dalla novella del 2002. L’Ufficio ha altresı̀ comunicato ai titolari
dei certificati, attraverso apposite note ministeriali, la « nuova » data di
scadenza. Una volta ricevuti i provvedimenti di ricalcolo, alcune case
farmaceutiche hanno proposto ricorso contro il provvedimento dell’Uffi-
cio (14). Altre hanno impugnato il provvedimento davanti ai giudici am-
ministrativi (15). Nel caso deciso dalla sentenza in esame, un’impresa,
presupposta la competenza della sezione specializzata, ha chiesto l’accer-
tamento della durata del proprio certificato complementare.
In tutte questi procedimenti, le imprese hanno sollevato questioni di
legittimità costituzionale che sono state risolte in modo difforme dalle
diverse autorità giudiziarie adite (Commissione di ricorso, Tar, Sezioni
specializzate).
Tralascerò in questa sede le considerazioni svolte dai giudici circa la
presunta violazione degli artt. 24, 97 e 113 Cost., nonché il contrasto
della nota ministeriale con il Trattato CE, approfondendo invece le due
questioni che appaiono più controverse.

(13) Cosı̀ F. DE BENEDETTI, Motivazioni economiche e politiche dietro le modifi-


che alla normativa sui certificati complementari di protezione, in Dir. ind., 2003, p. 97.
Si è provocatoriamente valutato l’intervento normativo in esame come un aiuto di
stato alle imprese genericiste: Cfr. F. MIOLA-M. MARINO, La riduzione dei c.d. CPC ita-
liani: un aiuto statale all’industria dei generici?, in Rass. dir. farm., 2003, p. 662.
(14) Nel procedimento svoltosi davanti la Commissione dei ricorsi, la ricor-
rente aveva sollevato una eccezione di illegittimità costituzionale sotto vari profili. In
primo luogo, si lamentava un contrasto tra la normativa italiana e quella comunita-
ria; il secondo profilo di incostituzionalità riguardava la presunta violazione del prin-
cipio costituzionale della tutela dell’affidamento che le imprese farmaceutiche ave-
vano legittimamente nutrito sulla stabilità e certezza delle norme giuridiche conte-
nute nella l. n. 349/1991; in terzo luogo, si lamentava una violazione dell’art. 41 e 42
Cost.. Con l’ordinanza, 3 ottobre 2003, n. 2044, pubblicata in Dir. ind., 2003, p. 503,
la Commissione dei Ricorsi accoglieva la richiesta della ricorrente, rimettendo la que-
stione alla Corte costituzionale. Chiamata in causa, la Corte costituzionale non aveva
sciolto i nodi interpretativi della normativa italiana, perché aveva ritenuto la que-
stione inammissibile per mancanza di giurisdizione in capo all’organo rimettente, vale
a dire la Commissione di ricorso. Cfr. sentenza della Corte costituzionale del 29 luglio
2005, n. 345, in Dir. ind., 2006, p. 5.
(15) Tar Lazio, sentenza del 12 giugno 2003, in Dir. ind., 2003, p. 511; sen-
tenza del 3 ottobre 2003, n. 7965; sentenza n.8041 del 6 ottobre 2003, sentenza 21 ot-
tobre 2003, n. 8891, reperibili al sito http://www.giustizia-amministrativa.it.
I. - Giurisprudenza nazionale 509

2. Le questioni esaminate dalla Sezione Specializzata di Roma: i) la vio-


lazione dell’art. 42 Cost.

La parte, chiedendo l’accertamento della durata del certificato di


cui era titolare, ha eccepito l’illegittimità costituzionale dell’art. 61 CPI
per contrasto all’art. 42 Cost.. Ad avviso dell’impresa farmaceutica, in-
fatti, la riduzione del certificato complementare è paragonabile ad una
espropriazione e, di conseguenza, illegittima in assenza di un adeguato
motivo di interesse generale e senza liquidazione di un indennizzo.
Il Tribunale ha ritenuto manifestamente infondata la questione, ar-
gomentando che la novella del 2002 costituisce espressione di un potere
« conformativo » (16) e non — come sostenuto dalla parte — di un potere
ablativo, circostanza confermata dalla natura della nota ministeriale di
ricalcolo della durata, natura meramente ricognitiva e non provvedimen-
tale. In sostanza, secondo il Tribunale, la riduzione della durata del CCP
non comporta uno svuotamento del diritto proprietario di rilevante en-
tità ma si limita a circoscrive le facoltà del titolare del brevetto, in fun-
zione di un interesse pubblico.
Difatti, nel garantire all’art. 42 il diritto di proprietà, la Costitu-
zione ne mette in risalto la « funzione sociale », la quale deve essere po-
sta dal legislatore e dagli interpreti in stretta relazione all’art. 2 Cost.,
che richiede a tutti i cittadini l’adempimento dei doveri inderogabili di
solidarietà economica e sociale (17). Sulla base di questi presupposti, il
diritto di proprietà intellettuale è stato « conformato » per raggiungere
l’obiettivo, esplicato nello stesso art. 61 CPI, di adeguare progressiva-
mente la durata della copertura complementare nazionale a quella pre-
vista dalla normativa comunitaria.
Se tale ricostruzione è sostanzialmente condivisa dai giudici ammi-
nistrativi che si sono pronunciati sulla medesima questione (18), conside-
razioni diverse sono state espresse dalla Commissione dei ricorsi che, ri-
mettendo la questione alla Corte costituzionale, ha rimarcato il sacrificio
dell’interesse dell’impresa che si traduce in conseguenze patrimoniali
sfavorevoli (19): va tuttavia precisato che la stessa posizione della Com-

(16) L’espressione è utilizzata da M.S. GIANNINI, Diritto amministrativo, 1988,


p. 1208. La tematica relativa alla definizione dei concetti di potere conformativo, di
cui all’art. 42, comma 2 Cost., e potere ablativo ex art. 42, comma 3, assume partico-
lare rilevanza ed è stata approfondita in ambito urbanistico. La conformazione del
diritto di proprietà consiste nella delimitazione delle facoltà del proprietario, volta a
soddisfare un dato interesse pubblico, ma che non dà vita ad alcun indennizzo. Diver-
samente, gli interventi riconducibili al potere ablatorio svuotano il diritto domenicale
nelle sue facoltà essenziali e, pertanto, generano l’obbligo di indennizzo a favore del
proprietario. Per maggiori approfondimenti sul tema, v. F. CARINGELLA-M. DI PALMA,
Potere espropriativo e proprietà privata, Milano, 2005, p. 127 ss.
(17) In tal senso da ultimo la Corte costituzionale, sentenza del 24 ottobre
2007, n. 348 in Foro it., 2008, I, 39.
(18) Cfr. sentenza Tar Lazio 21 ottobre 2003, n. 8891, cit.
(19) Ordinanza del 3 ottobre 2003, n. 2044, cit. L’importanza di questa que-
510 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

missione sul punto appariva piuttosto scettica, in quanto riteneva pro-


fondamente incerta l’eccezione di incostituzionalità.
Nella sentenza che ci occupa i giudici della Sezione Specializzata di
Roma, pur riconoscendo la riduzione come una misura non favorevole
per l’impresa, escludono che tale limitazione possa essere considerata
una ablazione del diritto stesso poiché non incide sui poteri di godi-
mento. Al contrario, la durata dell’esclusiva, coessenziale alla natura ed
allo scopo del brevetto, viene considerata come limite intrinseco alle mo-
dalità di sfruttamento economico che si fondano sul CCP.
Dalla disamina della problematica, un punto appare incontroverti-
bile: la riduzione è coerente con interessi di carattere generale in quanto,
da un lato, rappresenta un efficace strumento di controllo della spesa
pubblica (20), dall’altro opera una correzione perequativa, cercando di
appianare l’eccessiva divergenza tra le disposizioni nazionali e quelle co-
munitarie.

ii) la violazione del principio di tutela dell’affidamento.

Il secondo profilo di incostituzionalità riguarda la presunta viola-


zione del principio costituzionale della tutela dell’affidamento. Difatti,
dopo alcune incertezze interpretative, il principio dell’affidamento è
stato riconosciuto a livello costituzionale e, in particolare, con la sen-
tenza 11 luglio 1999, n. 419, è stato ricondotto alla clausola generale del-
l’art. 3, preordinato a garantire la ragionevolezza delle leggi (21).
Secondo la ricostruzione della parte, l’intervento del 2002 sarebbe
appunto irragionevole in quanto non avrebbe tenuto conto dell’interesse
dei produttori di medicinali che hanno modellato le proprie strategie
commerciali facendo affidamento sulla estensione temporale della priva-
tiva dettata dalla disciplina del 1991. E v noto infatti che le case farma-

stione di legittimità costituzionale è sottolineata da G. SENA, La durata della prote-


zione brevettuale, i certificati di protezione complementari ed una importante decisione
della commissione dei ricorsi, in questa Rivista, 2003, I, p. 295.
(20) La riduzione dei CCP italiana permette un ingresso anticipato dei corri-
spondenti farmaci generici, ingresso che determina un consistente risparmio per il
SSN che si fa carico della spesa farmaceutica dei farmaci essenziali (quelli inseriti nel
prontuario farmaceutico nazionale). D’altra parte, la stessa l. 23 dicembre 1978 n.
833, sancisce che « la produzione e la distribuzione dei farmaci devono essere regolate
secondo criteri coerenti con gli obiettivi del SSN, con la funzione sociale del farmaco
e con la prevalente finalità pubblica della produzione » (art. 29).
(21) Come precisato dalla Corte costituzionale, sussiste un diritto del citta-
dino a non essere danneggiato da disposizioni retroattive le quali trasmodino in un
regolamento irrazionale di situazioni sostanzialmente fondate su leggi precedenti. Cfr.
sentenza 4 novembre 1999, n. 419, in Giur. cost., 1999, p. 3643, con commento di P.
CARNEVALE, « ... Al fuggir di giovinezza... nel doman s’ha più certezza » e sentenza 12
novembre 2002, n. 446, sempre con osservazioni di P. CARNEVALE, Più ombre che luci
su di un tentativo di rendere maggiormente affidabile lo scrutinio della legge sotto il pro-
filo della tutela del legittimo affidamento, in Giur. cost., 2992, p. 3666.
I. - Giurisprudenza nazionale 511

ceutiche pianificano gli investimenti e la propria attività di vendita nella


prospettiva di avere un determinato lasso di tempo per il loro recupero:
la normativa sotto esame, quindi, avrebbe causato un danno patrimo-
niale alle imprese interessate, con il rischio che la contrazione dei profitti
determini un freno per la ricerca applicata di settore (22).
Tuttavia, se da un lato sussiste l’affidamento delle imprese (a non
subire una perdita economica), dall’altro il legislatore del 2002 ha inteso
salvaguardare interessi generali, in primis il contingentamento della
spesa pubblica.
Il rispetto del principio di ragionevolezza, quindi, implica una valu-
tazione che si sostanzia nel bilanciamento di queste opposte esigenze.
Non a caso, nell’ordinanza su richiamata la Commissione dei ricorsi, pur
ritenendo non manifestamente infondata la questione, aveva sottolineato
come la decisione sull’eccezione postulasse un sindacato di razionalità
molto prossimo al merito delle valutazioni legislative (23).
Pertanto, se è pur vero che la riduzione dei CCP lede le aspettative
di « guadagno » dei titolari, non per questo si può impedire al legislatore
di emanare norme modificatrici della disciplina dei rapporti di durata in
senso sfavorevole per i destinatari, a meno che le disposizioni non siano
del tutto irragionevoli (24).
Alla luce delle considerazioni fatte, la novella del 2002 non appare
del tutto priva di ragionevolezza e quindi non si espone alla censura di
costituzionalità. Questo l’orientamento della Sezione specializzata di
Roma (condivisa anche dal Tar Lazio).
A ben vedere, dichiarandone l’inammissibilità, il Tribunale si è
espresso sulla questione in modo ancor più risoluto, quasi mettendo in
discussione lo stesso affidamento delle imprese farmaceutiche: nella mo-
tivazione della sentenza si legge infatti che « una riduzione limitata della
durata del diritto di esclusiva per alcuni CCP può certo tradursi in una
diminuzione dei ricavi d’impresa e in una riduzione di profitti, che costi-
tuisce un profilo di rischio d’impresa, sulla eliminazione del quale nessun
imprenditore può fare affidamento ».

(22) V. R. PARDOLESI-G. COLANGELO, Estensione temporale della protezione bre-


vettuale e concorrenza: il caso dei certificati complementari, in Corr. giur., 2004, p. 533;
G. DI GENIO, Principio costituzionale dell’affidamento e coerenza normativa in materia
di brevettistica farmaceutica, in Dir. economia, 2007, p. 351. In senso diverso M. LAMAN-
DINI, Accorciamento del certificato complementare e principi costituzionali, in Dir. ind.,
2003, p. 517.
(23) Cfr. F. SORRENTINO, Sui limiti della tutela costituzionale dell’affidamento, in
Foro amm.-Tar, 2004, p. 904, il quale, sottolineando il nesso tra diritti di proprietà in-
dustriale e incentivazione della ricerca, considera qualificato l’affidamento delle im-
prese farmaceutiche: è difficile — ad avviso dell’Autore — configurare esigenze pub-
bliche inderogabili che giustifichino la sua limitazione.
(24) Come affermato da P. CARNEVALE, op. cit., p. 3648 la legittimità dello ius
superveniens di sfavore e la tutela dell’affidamento non appaiono antitetici in sé ma
componibili in un equilibrio le cui condizioni di razionalità sono da ricercare.
512 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

3. Considerazioni conclusive.

Le questioni di legittimità costituzionale della normativa che ha ri-


dotto la durata dei certificati complementari sono state risolte in senso
negativo dal Tribunale, ma la vicenda non può dirsi conclusa. Alcuni ri-
corsi, presentati dai produttori di medicinali, sono tuttora pendenti davanti
a giurisdizioni superiori (ad esempio, Consiglio di Stato), procedimenti in
cui saranno valutate le medesime eccezioni di incostituzionalità.
Dal momento che l’esame dei rilievi costituzionali ha portato a so-
luzioni contrastanti (sia a livello giurisprudenziale, che dottrinario), non
si può escludere che in futuro le autorità giudiziarie chiamate in causa
optino per devolvere le questioni alla Consulta. In tal caso, la Corte co-
stituzionale non potrebbe esimersi dal decidere, risolvendo in senso defi-
nitivo la questione (25).
Benché la normativa sulla riduzione dei CCP comporti per i titolari
di esclusive una consistente perdita economica, è difficile nel caso in
esame, da un lato, configurare una forma di espropriazione che dà vita
a un indennizzo, dall’altro, considerare del tutto irrazionale la disciplina
introdotta nel 2002.
Sotto quest’ultimo profilo, un monopolio, derivante dal certificato,
della potenziale durata di trentotto anni sembra mal conciliarsi con l’esi-
genza di porre vincoli alla spesa pubblica, senza tuttavia compromettere
il diritto alla salute, garantita all’art. 32 Cost.. Questa normativa anzi
appare coerente con l’intera regolazione del settore farmaceutico che —
specie negli ultimi anni — è stata segnata dalla necessità di fissare dei
tetti per la spesa sanitaria in generale, e farmaceutica in particolare (26).
PATRIZIA ERRICO

(25) Si ricorda che la Corte costituzionale ha ritenuto inammissibile la que-


stione di illegittimità costituzione dell’art. 61 CPI sottopostale dalla Commissione dei
ricorsi in quanto ha negato che la Commissione esercitasse funzioni giurisdizionali. Il
difetto di giurisdizione, tuttavia, non appariva cosı̀ scontato, soprattutto alla luce
della nuova disciplina del CPI. Cfr. C. MANGIAFICO, Durata dei certificati complementari
di protezione: la Consulta dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzio-
nale, in Dir. ind., 2006, p. 19.
A ben vedere, il codice ha consacrato la natura di giudice speciale della Com-
missione dei ricorsi, ampliandone decisamente la sfera di operatività (cfr. art. 135
CPI). La novità più considerevole apportata dal codice consiste nel prevedere un ri-
corso avverso i provvedimenti dell’Ufficio Italiani brevetti e marchi che impediscono
il riconoscimento di un diritto.
(26) V. da ultimo d.l. 1o ottobre 2007, n. 159 coordinato con la legge di con-
versione 29 novembre 2007, n. 222 recante Interventi urgenti in materia economico-
finanziaria, per lo sviluppo e l’equità sociale, in G.U. n. 279 del 30 novembre 2007,
suppl. ordinario n. 249, che ha fissato la spesa farmaceutica nazionale al 14% dell’in-
tera spesa sanitaria pubblica, o ancora in generale la regolazione del prezzo per i far-
maci rimborsati dal SSN. Cfr. F. GIANFRATE, L’industria del farmaco tra sviluppo compe-
titivo e welfare, in L’industria, 2007, p. 85, secondo cui la principale criticità del settore
farmaceutico è rappresentata dalla compatibilità tra spesa pubblica e remuneratività
per l’industria che scopre medicinali innovativi. Per la sintesi dei principali interventi
normativi di controllo della spesa pubblica in materia, v. tab. 3 riportata a p. 102.
I. - Giurisprudenza nazionale 513

TRIBUNALE DI VENEZIA
Sez. Spec. PI, 24 gennaio 2008
Rel. MAIOLINO
Gilmar S.p.a. c. Immagine Eyewear s.r.l.

Marchio di forma - Valore sostanziale del prodotto - Nozione - Limiti di ammissi-


bilità della registrazione.

L’impedimento alla registrazione dei marchi di forma costituito dall’attribu-


zione di un valore sostanziale al prodotto si configura quando il marchio, per le spe-
cifiche modalità di realizzazione e non per il suo carattere distintivo dell’impresa di
provenienza, dia al prodotto un aspetto estetico idoneo ad assicurargli un significa-
tivo vantaggio competitivo. Il segno non svolge più la funzione tipica del marchio (o,
quanto meno, la sua funzione principale) di collegamento del prodotto ad una deter-
minata impresa ed al valore ad essa connesso, ma ha un valore estetico autonomo, di
per sé decisivo nell’esercitare un’autonoma forza. In questa ipotesi, infatti, il mar-
chio perde la sua funzione distintiva ed assume una estranea funzione estetica (nel
caso di specie, è stato giudicato privo di valore sostanziale il fregio costituente mar-
chio apposto sulle stanghette di occhiali).

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. — Gilmar s.p.a. ha convenuto in giudizio Imma-


gine Eyewear s.r.l. (d’ora in avanti per brevità “IE”), riferendo di operare nel
settore della moda in genere, di essere titolare di molteplici marchi nazionali ed
internazionali, figurativi e denominativi, tra cui Ice, Sport Ice, Golf Sport Ice,
Ice Design, Ice Glasses, Ice B e di utilizzare sempre ICE quale radice dei propri
marchi. Sostenendo la forza del proprio marchio ICE ed invocando i precedenti
giurisprudenziali che le avevano confermato la tutela dei citati segni distintivi,
anche affermandone la notorietà, si doleva l’attrice del fatto che IE avesse pro-
dotto e commercializzato occhiali con il marchio X-ICE sulle aste, ottenendo
anche la registrazione del marchio il 20.12.2001.
Denunciando la situazione di confondibilità che era venuta a crearsi tra i
marchi, chiedeva fosse dichiarata la nullità del marchio registrato da IE e che
fosse accertata la responsabilità della convenuta per la contraffazione del proprio
marchio e per la concorrenza sleale per imitazione servile, concorrenza parassi-
taria ed atti contrari alla correttezza professionale nonché per l’illecito aquiliano;
chiedeva quindi che fosse pronunciata l’inibitoria alla commercializzazione e
pubblicizzazione degli occhiali e lenti recanti marchio X-ICE o ICE o altro mar-
chio simile confondibile con quelli registrati da Gilmar, fosse disposta la pubbli-
cazione del provvedimento, fosse determinata una penale per ogni violazione;
con riserva di un successivo giudizio per il risarcimento del danno patito.
IE si costituiva in causa, riferendo che nel 2001 aveva lanciato una linea di
occhialeria posizionata nel segmento di prodotti trendy, contraddistinta dal mar-
chio X-ICE. Sosteneva peraltro l’assenza di confondibilità tra i marchi a con-
fronto, atteso che nel segno di IE il carattere distintivo del marchio poggiava
514 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

sulla X iniziale, insolita e fortemente caratterizzante, e dal suo accostamento al


termine inglese ICE, che da un lato indicava un particolare tipo di lenti, dall’al-
tro si pronunciava come l’altro termine inglese EYES, ovvero “occhi”; neppure
sussisteva confondibilità con i marchi dell’attrice Ice B o Ice J, atteso che in X-
ICE la X anticipava e non seguiva la parola ICE.
Sottolineava poi come i marchi dell’attrice risalissero al 2004 e fossero
quindi successivi a quelli di IE e comunque non risultavano registrati per gli oc-
chiali, in ogni caso come il marchio ICE non godesse della celebrità del marchio
ICEBERG e come IE fosse riuscita piuttosto a creare un valore simbolico del
tutto autonomo al proprio marchio, per accreditare un’immagine indipendente
da quella di Gilmar, tanto è vero che ormai da anni entrambe le società parteci-
pavano a fiere del settore dell’occhialeria, senza che si fossero mai verificate né
episodi confusori né contestazioni.
Rilevava altresı̀ come il termine ICE fosse descrittivo nel settore dell’occhia-
leria, sia perché espressivo della caratteristica della specchiatura delle lenti sia
perché omofono alla parola EYES, tanto è vero che esistevano moltissimi mar-
chi comprendenti il termine ICE. Il marchio di Gilmar doveva quindi ritenersi
nullo per difetto di capacità distintiva: non a caso, proseguiva la convenuta, il
marchio ICE non era mai stato utilizzato per l’occhialeria e la maggior parte dei
marchi attorei non si esauriva nel termine ICE, ma conteneva elementi aggiun-
tivi e solo l’imitazione di questi ultimi avrebbe potuto dar luogo ad una condotta
contraffattiva da parte di IE.
Il mancato utilizzo del marchio ICE per l’occhialeria determinava altresı̀ la
decadenza per non uso del segno: la licenziataria del marchio Iceberg per gli oc-
chiali (Perlinea s.r.l., poi Visibilia s.r.l.) aveva infatti riferito che nessun modello
di occhiali ICE era stato commercializzato quanto meno da luglio 1997 ad otto-
bre 2004.
Infine doveva rilevarsi come Gilmar avesse utilizzato il marchio ICE sulle
stanghette degli occhiali non quale marchio, bensı̀ in funzione meramente deco-
rativa, resa con strass o lettere metalliche particolari, tanto che spesso la parola
ICE non risultava neppure leggibile.
La convenuta chiedeva quindi il rigetto della domanda attorea ed in via ri-
convenzionale la declaratoria di avvenuta decadenza parziale per non uso in re-
lazione agli occhiali ed ai prodotti per l’occhialeria dei marchi di Gilmar conte-
nenti la parola ICE ed in particolare dei marchi di cui alla registrazione n.
495.942, n. 511.144, n. 512.238, n. 557.701, n. 557.700, n. 710754, n. 511.753,
nonché della frazione nazionale dei marchi internazionali n. 528436, n. 674618,
n. 540312 e n. 541473.
La causa è stata documentalmente e testimonialmente istruita e, su richie-
sta congiunta delle parti, è stata trattenuta per la decisione collegiale all’esito
della discussione orale tenutasi all’udienza del 15.6.2007.

MOTIVI DELLA DECISIONE. — Preme al Tribunale chiarire in primo luogo di


quali marchi Gilmar chieda la tutela: ovvero precisare con riferimento a quali
marchi la società attrice denunci la confondibilità con il marchio X-ICE di IE.
La precisazione si rende opportuna giacché parte della difesa attorea ha ad og-
getto i plurimi marchi “a base Iceberg” registrati da Gilmar, ma — deve ritenersi
I. - Giurisprudenza nazionale 515

— ciò solo al fine di un più contestualizzato inquadramento storico della fatti-


specie concreta, atteso che poi la domanda risulta riferita ai soli marchi conte-
nenti il segno ICE. Ed invero la citazione introduttiva nel paragrafo dedicato alla
confondibilità (V, a pagina 9) discute esclusivamente della confondibilità tra ICE
ed X-ICE, cosicché l’accertamento della contraffazione richiesto tra le conclu-
sioni di Gilmar deve essere inteso come “contraffazione del marchio ICE”.
Ebbene, i marchi ICE direttamente rilevanti ai fini della specifica decisione
sulla contraffazione sono sostanzialmente due: un marchio figurativo, ove il se-
gno ICE è scritto in modo simile a come è riportato nell’occhiale sub doc. n. 126
attoreo, registrato il 13.5.1997 per la classe 9 (tra cui i prodotti ottici e quindi gli
occhiali: doc. n. 1 attoreo), ed un marchio denominativo ICE depositato il
21.1.1987 per le classi 18 (tra cui profumeria, oli essenziali, cosmetici) e 25 (ab-
bigliamento, calzature, cappelleria) e rinnovato per venti anni (doc. n. 2 attoreo:
si tratta della domanda di registrazione n. 39812/87). Vi sono ulteriori marchi
ICE intestati a Gilmar, ma tutti registrati in data successiva rispetto alla regi-
strazione di X-ICE.

L’eccezione di nullità del marchio ICE. La descrittività del segno.

1. Un marchio è descrittivo, quando, in estrema sintesi, preannuncia le ca-


ratteristiche del prodotto per il quale è utilizzato.
Ritiene il Collegio che l’eccezione sollevata dalla convenuta non appaia sotto
questo aspetto fondata: il segno adottato da Gilmar, a tutto voler concedere, può
risultare suggestivo ma non descrittivo. Invero, anche valorizzando l’aspetto fo-
netico del marchio ICE, che si legge in modo simile (e peraltro non identico) al
diverso termine EYES, ed anche valorizzando — secondo la tesi difensiva della
convenuta e senza approfondire in questa sede la problematica del marchio reso
in lingua straniera — la traduzione in “occhi”, il collegamento con gli occhiali
non sarebbe comunque diretto, bensı̀ mediato da un secondo passaggio, atteso
che già il termine “occhi” non indica gli occhiali né una caratteristica degli oc-
chiali e quindi non è descrittivo del prodotto “occhiali”, ma indica solo ciò che
gli occhiali proteggono.
Nel caso di specie, poi, il collegamento (indiretto) sarebbe addirittura di se-
condo grado, giacché si parte dal termine inglese ICE e, valorizzando il simile ef-
fetto fonetico, si passa al diverso termine inglese EYES (dizione simile ma scrit-
tura completamente diversa: ed il marchio non solo si pronuncia, ma anche si
legge e si memorizza nella sua composizione di singole lettere), successivamente
da EYES si giunge al prodotto “occhiali”.
Il percorso è davvero troppo articolato perché si possa affermare la mera
descrittività del marchio ICE utilizzato per l’occhialeria: la censura di descritti-
vità del marchio non appare quindi fondata.
Neppure infine la difesa appare condivisibile laddove sottolinea che il ter-
mine ICE sarebbe utilizzato nel settore dell’occhialeria per riferirsi alla specchia-
tura delle lenti, giacché in primo luogo manca in giudizio una prova rigorosa del
generalizzato utilizzo del termine allo scopo indicato ed in ogni caso di tratte-
rebbe di un termine prettamente tecnico, ignoto in detta accezione al consuma-
tore tipico del settore.
516 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

L’uso comune del segno ICE.

2. Il marchio ICE non può neppure ritenersi divenuto di uso comune nel
linguaggio corrente o commerciale (art. 12/I lett. a) c.p.i.), tale dovendosi inter-
pretare solo la parola che nel linguaggio commerciale o comune è utilizzata abi-
tualmente per indicare categorie merceologiche tra loro eterogenee oppure una
rivendicazione di qualità attinente non ad uno specifico prodotto, bensı̀ a qua-
lunque tipo di prodotti.
Ebbene, se si considera che l’impedimento alla registrazione di cui si discute
è stato riconosciuto per marchi quali “leader”, “group”, “elite”, “standard”,
“extra”, “super” o, secondo la stessa pronuncia della CGCE 4.10.2001 C-517/99
citata da IE, “bravo” (conclusionale pag. 16), ritiene il Collegio che risulti chiara
la differenza rispetto al marchio ICE, che non appare idoneo ad identificare ca-
tegorie di prodotti oppure ad identificarne una qualità, senza che tale conclu-
sione possa essere modificata per il solo fatto che si tratti di un marchio partico-
larmente presente nel mercato. D’altra parte neppure la società convenuta ha
indicato a quali caratteristiche astrattamente generali ICE farebbe inequivoco
riferimento.
D’altra parte, la stessa ricostruzione di parte convenuta smentisce la tesi
proposta, laddove viene sottolineato come il marchio ICE sarebbe particolar-
mente utilizzato nell’ambito di marchi diffusi nel settore degli occhiali, giacché
la circostanza varrebbe comunque a smentire che il segno ICE abbia assunto
portata identificativa di prodotti tra loro eterogenei.

L’uso del marchio ICE in funzione ornamentale.

Sostiene IE che, come confermato anche dall’avvenuta registrazione come


modello di una particolare realizzazione della scritta ICE sull’asta di occhiali, il
marchio sarebbe utilizzato da Gilmar con modalità tali da attribuire al prodotto
un valore sostanziale e che quindi andrebbe riconosciuto un ulteriore impedi-
mento alla registrazione del marchio attoreo, secondo la prescrizione dell’art. 9
c.p.i. (e, prima, dell’art. 18/I lett. c). Nel caso di specie si contesta che venga uti-
lizzato quale marchio un segno tridimensionale che, per le modalità con cui è
reso (con strass o lettere metalliche di peculiare grafismo), attribuirebbe al pro-
dotto cui è applicato un valore estetico autonomo, tanto da far scendere in se-
condo piano la funzione distintiva del marchio ed addirittura da risultare diffi-
cilmente leggibile la parola ICE.
3. Ritiene in proposito il Collegio che l’impedimento alla registrazione in
esame si configuri solo quando il marchio, per le specifiche modalità di realizza-
zione e non per il suo carattere distintivo dell’impresa di provenienza, dia al pro-
dotto un aspetto estetico idoneo ad assicurargli un significativo vantaggio com-
petitivo; il segno non svolge più la funzione tipica del marchio (o, quanto meno,
la sua funzione principale) di collegamento del prodotto ad una determinata im-
presa ed al valore ad essa connesso, non svolge più la sua funzione di trasferire
sul prodotto contrassegnato quelle caratteristiche proprie di prodotti con lo
stesso marchio e provenienti quindi dalla stessa impresa, ma ha un valore este-
I. - Giurisprudenza nazionale 517

tico autonomo, di per sé decisivo nell’esercitare un’autonoma forza attrattiva sul
consumatore: il consumatore, quindi, non acquisterà più il prodotto in conside-
razione della provenienza indicata dal marchio, ma per la forza attrattiva del suo
aspetto estetico, ottenuto attraverso una peculiare realizzazione del segno. Pro-
prio in questa ipotesi, infatti, il marchio perde la sua funzione distintiva ed as-
sume una estranea funzione estetica.
Se si esaminano però gli occhiali di Gilmar, anche quelli “censurati” dalla
convenuta (doc. n. 18 attoreo) ritiene il Tribunale che, se una forza attrattiva
deve essere riconosciuta in un elemento estetico, ciò sia garantito soprattutto
dalla forma dell’occhiale, dai colori prescelti e dal loro abbinamento, dalla forma
delle lenti e dall’uso dei materiali: di fonte a tutti questi elementi il valore este-
tico della concreta modalità di realizzazione del segno ICE e della sua applica-
zione sulla stanghetta può sı̀ avere un valore estetico proprio, ma che va ad ag-
giungersi e non ad esaurire la principale forza attrattiva della linea armoniosa
dell’occhiale nel suo complesso. L’acquirente di un occhiale prodotto da una casa
di moda, quando sceglie un occhiale, si concentra sull’aspetto estetico dello
stesso, ma nel suo “percorso di selezione” sceglie prima di tutto la forma dell’oc-
chiale medesimo e solo in un secondo momento si farà condizionare dalla moda-
lità di applicazione del marchio o comunque da un decoro sulla stanghetta.
Vale al riguardo altresı̀ ricordare come lo specifico impedimento di cui si di-
scute sia stato riconosciuto in giurisprudenza per un marchio per piastrelle for-
mato dalla testa di una medusa realizzata con particolari modalità, essendosi ri-
tenuto che il disegno in questione configurasse (al tempo) speciale ornamento,
tale da giustificare la registrazione quale modello (Pret. Modena 26.1.1999 in
GADI 1999, pag. 879): ma se una piastrella sotto un profilo estetico ben può es-
sere preferita ad un’altra in considerazione del disegno sulla stessa raffigurato (a
prescindere dal fatto che lo stesso disegno configuri anche il marchio del produt-
tore), è più difficile dichiarare in assoluto ed in linea generale che un occhiale
venga preferito ad un altro in considerazione della modalità decorativa con cui è
riportato il segno distintivo del produttore sulla stanghetta.
La gradevolezza di forme, con cui il marchio è riportato sul prodotto, non
ne preclude certo la registrabilità, non potendosi certo pensare che l’imprendi-
tore voglia riportare la provenienza dell’articolo dalla propria azienda in maniera
sgradevole o comunque che, al momento del proprio ingresso nel mercato, non
voglia tenere conto e valorizzare anche la particolare funzione del prodotto in
questione: e l’occhiale viene comunemente ormai utilizzato non solo per correg-
gere i difetti della vista o riparare gli occhi dal sole, ma anche quale accessorio
di moda con una forte valenza estetica.
Deve quindi concludersi per il rigetto dell’eccezione di nullità del marchio
ICE registrato da Gilmar.

La decadenza del marchio per non uso.

Dispone l’art. 24 c.p.i. (e, prima, l’art. 42 l. marchi) che il marchio debba
essere effettivamente utilizzato, giacché il non uso protratto per un quinquennio
ne determina la decadenza: il problema evidentemente sta nel fornire una defi-
nizione dell’“uso effettivo”, che la convenuta ha negato nel caso di specie.
518 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

La prova del non uso grava su chi eccepisca la decadenza (art. 121 c.p.i.).
Partendo dai documenti a disposizione, deve rilevarsi come l’occhiale sub
doc. n. 16 attoreo riporti il marchio ICE e corrisponda al modello IG 591 (anche
sub doc. n .129 attoreo), IG 592, IG 593 (quest’ultimo anche sub doc. n. 128 at-
toreo); sub doc. n. 127 attoreo vi è invece il modello d’occhiale della serie IG 520.
Ebbene il modello IG 591 risulta raffigurato nelle pubblicità apparse nel
settimanale D di Repubblica da dicembre 1997 fino a maggio 1998 (fino a doc. n.
138 attoreo); i modelli IG 591, IG 592 e IG 593 sono, ancora, oggetto di fattura-
zione da marzo 1998 a maggio 1999 (doc. n. 124 attoreo) mentre il modello IG
520 è oggetto di fatturazione a febbraio 2000 (doc. n. 124 citato).
Che i modelli citati presentassero il marchio ICE risulta poi dal prospetto
acquisito nell’accordo delle parti all’udienza del 10.1.2007. Al riguardo preme
peraltro sottolineare come appaia irrilevante che ICE fosse indicato da solo op-
pure unitamente al(l’autonomo) marchio ICEBERG: ciò che rileva ai fini della
valutazione di fondatezza della eccezione di decadenza del marchio per non uso
è la verifica che il segno ICE fosse utilizzato e — di più — che fosse utilizzato
quale marchio. Ebbene, basta esaminare il modello sub doc. n. 126 attoreo per
sgombrare il campo da qualsiasi dubbio: ICE campeggia sulla stanghetta perfet-
tamente visibile e leggibile, mentre ICEBERG è scritto molto più in piccolo so-
pra la C di ICE, cosicché va senz’altro affermato che ICE nel citato occhiale fosse
utilizzato quale marchio.
Tornando al prospetto acquisito al verbale d’udienza 10.1.2007, risulta che
in Italia nel 1998 furono venduti n. 5.807 occhiali con marchio ICE (e non ICE-
BERG, atteso che il prospetto stesso distingue i due tipi di prodotto), nel 1999
n. 749 pezzi e nel 2000 n. 388 pezzi; all’estero nel 1998 n. 18.186 pezzi, nel 1999
n. 2.470 pezzi e nel 2000 n. 151 pezzi.
Il teste Schiavo ha poi riferito che la nuova produzione dei modelli di oc-
chiali Gilmar con marchio ICE è ripresa con la collezione Sole 2004/2005: in par-
ticolare i nuovi modelli erano stati progettati tra fine 2003 ed inizio dell’anno
2004, gli ordini di produzione ed acquisto risalivano ad aprile 2004, i distributori
esteri avevano visto i nuovi prodotti a fine luglio 2004 e quelli italiani a fine ago-
sto: gli occhiali erano stati infine presentati pubblicamente ad ottobre 2004 (cir-
costanza quest’ultima confermata dal teste Zanotto).
Parte convenuta contesta che i ridotti quantitativi di occhiali venduti tra il
1998 ed il 2000 siano sufficienti ad impedire la decadenza per non uso del mar-
chio ICE, quanto meno per il settore dell’occhialeria.
4. Giova senz’altro partire dalla ratio della norma, che sanziona con la de-
cadenza il non uso del marchio: la stessa consiste nell’evitare che si verifichino
fenomeni c.d. di accaparramento di marchi (ovvero registrazione di marchi poi
non utilizzati) o c.d. di cimiteri di marchi (ovvero che si accumulino marchi in-
terdetti ai concorrenti, ma che ormai non vengono utilizzati dagli originari tito-
lari e quindi risultano ingiustificatamente preclusi alla concorrenza): evidente-
mente è il secondo rischio che rileva nel caso in esame, atteso che è pacifico che,
quanto meno fino ad un determinato periodo di tempo, il marchio ICE è stato
utilizzato per nuovi modelli di occhiali.
5. E v stato definito “uso effettivo” quell’utilizzo non meramente simbolico
o per quantitativi di prodotto (e quindi di marchio) irrilevanti; il concetto deve
comunque ritenersi relativo, dovendosi evidentemente distinguere a seconda del
I. - Giurisprudenza nazionale 519

tipo di prodotto in esame: l’uso effettivo di un marchio di merendine sarà


senz’altro superiore all’uso effettivo di un marchio di automobili. Ed infatti la
Corte di Giustizia CE ha individuato l’uso simbolico in quell’uso “finalizzato al
mero mantenimento dei diritti conferiti dal marchio”, senza peraltro che la di-
mensione quantitativa assuma dirimente rilievo e pretendendo piuttosto un uso
sul mercato e non meramente interno all’impresa, anche se avente ad oggetto
merci già presenti sul mercato e non immesse ex novo (CGCE 11.3.2003 C-40/01).
Tentando una definizione positiva, si è suggerito che l’uso effettivo del mar-
chio sia quello che trova una giustificazione di carattere economico in seno al-
l’impresa e quindi che consente l’acquisto (in caso di uso iniziale) o il manteni-
mento (in caso di uso diminuito in un momento successivo alla registrazione)
dell’avviamento connesso al marchio.
Si è anche sostenuto in dottrina che l’uso concreto rilevante per impedire il
verificarsi della decadenza dovrebbe essere analogo all’uso necessario per l’acqui-
sto del diritto sul marchio di fatto.
In proposito, però, il Collegio condivide la tesi attorea, per cui l’uso effet-
tivo dovrebbe essere riconosciuto con maggiore indulgenza nell’ipotesi di cui al-
l’art. 24 c.p.i., soprattutto ove si tratti di valutare l’intervenuta decadenza di un
marchio efficacemente utilizzato per anni, rispetto all’ipotesi del marchio di
fatto: nel primo caso, infatti, si tratta di caducare una privativa pur registrata
ed esercitata nel tempo, mentre nel secondo caso si tratta di attribuire una pri-
vativa, mai registrata, unicamente quale conseguenza dell’uso concreto.
Ebbene, tornando ai dati evincibili dall’istruttoria svolta, ritiene il Tribu-
nale di dover in primo luogo sottolineare come senz’altro debba riconoscersi un
uso effettivo del marchio ICE per l’occhialeria da parte di Gilmar per l’anno
1998. Proprio nel 1998 infatti videro la luce tre nuovi modelli di occhiali da sole
(IG 591, 592 e 593: lo si desume sia dalle pubblicità giornalistiche citate che dal
prospetto acquisito all’udienza 10.1.2007: al riguardo non è quindi integralmente
attendibile la testimonianza del Levi, che ricordava essere cessata qualsiasi pro-
duzione sin dal 1997) e proprio fino a maggio 1998 risulta documentato l’acqui-
sto di spazi pubblicitari su D di Repubblica (doc. n. 138 attoreo citato), atti a
dimostrare gli investimenti ancora impiegati nello specifico settore da Gilmar e
l’evidente interesse per il marchio ICE.
Preme peraltro al Tribunale segnalare come in un periodo in cui è indiscu-
tibile la configurabilità di un uso effettivo del segno distintivo, il numero di oc-
chiali marchiati ICE venduti da Gilmar in Italia ammonti a soli 5.807 pezzi: si
tratta di un numero nettamente inferiore a quello registrato per gli occhiali mar-
chiati Iceberg, che contava nello stesso periodo una vendita di oltre 18.000 pezzi:
è alla luce di queste considerazioni di natura “quantitativa” che vanno esaminati
i dati di vendita relativi agli anni 1999 e 2000. Non appare invero rilevante al
Collegio che le vendite siano proseguite negli anni successivi al 1998 al solo fine
di eliminare gli avanzi di magazzino, come ha dichiarato il teste Levi: ai fini della
configurabilità di un uso effettivo del marchio, non assume dirimente rilievo
l’animus che sostiene la vendita, ma rileva piuttosto che il marchio rimanga pre-
sente sul mercato.
Ciò considerato ritiene il Collegio che la vendita di 749 pezzi nell’anno 1999
— anche considerando le sole vendite italiane — non possa considerarsi un uso
520 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

simbolico o non effettivo del marchio: ciò in considerazione di plurime circo-


stanze.
In primo luogo 749 pezzi sono ben più del 10% della vendita dell’anno an-
teriore (quasi il 13%), quando il marchio era in pieno utilizzo, quindi già di per
sé può affermarsi non trattarsi di un uso in percentuale simbolica. In secondo
luogo, deve ricordarsi come gli occhiali vengano comunemente tenuti esposti in
apposite vetrine o espositori, cosicché se è presente agli atti il dato delle vendite,
non è noto ma dev’essere necessariamente superiore il dato degli occhiali espo-
sti; volendo tentare una quantificazione, può ipotizzarsi che nel 1999, se sono
stati venduti 749 pezzi, saranno stati esposti — quanto meno — anche tutti gli
occhiali che sono stati venduti negli anni successivi: quindi, considerando anche
gli anni successivi al 2000 sulla base del prospetto citato, saranno stati esposti
circa 2000 pezzi, ovvero oltre un terzo degli occhiali venduti nel 1998. Infine, ri-
tiene il Collegio sia altresı̀ rilevante, nel valutare se l’uso pur ridotto del marchio
fosse idoneo a mantenere il relativo avviamento in capo a Gilmar, il fatto che gli
occhiali in questione venissero comunemente esposti e venduti assieme agli oc-
chiali con marchio Iceberg (trattati come si è visto in quantità nettamente supe-
riori) o comunque anche nell’ambito di corner o negozi monomarca di cui ha ri-
ferito la teste Gerani: è inevitabile che il consumatore di riferimento, una volta
visti accostati i due marchi ICE ed ICEBERG, quand’anche non avesse in pre-
cedenza conosciuto il primo, sarebbe stato indotto ad accomunare i segni come
provenienti dalla stessa impresa, cosı̀ da riconoscere la portata distintiva di ICE
anche quando il suo uso fu ridotto, ma continuò ad avvenire in stretto collega-
mento con il marchio ICEBERG.
Da quanto esposto deve concludersi che, se l’uso effettivo del marchio ICE
è riconoscibile — quanto meno — fino a tutto l’anno 1999, essendo comunque
proseguite le vendite anche nel 2000, e se l’uso è ripreso con nuovi investimenti
e nuovi modelli al più tardi nell’estate 2004, quando i nuovi occhiali sono stati
presentati ai venditori esteri ed italiani, o in via estremamente prudenziale nel-
l’ottobre 2004 alla fiera di settore, l’eccezione di decadenza per non uso non può
dirsi fondata, atteso che la prova fornita dalla convenuta è fortemente contra-
stata dalle circostanze descritte.
L’eccezione di decadenza del marchio ICE va quindi rigettata.
Le considerazioni esposte rendono a questo punto ultronea ogni valutazione
di affinità tra prodotti (occhiali e altri prodotti per cui il marchio ICE non fu mai
ridotto nel suo utilizzo: la questione sarà invece approfondita nell’ambito della
valutazione della denunciata contraffazione) ovvero di notorietà o addirittura ri-
nomanza del marchio ICE, questioni pure trattate dalle parti.

La domanda di nullità del marchio X-ICE registrato dalla convenuta.

L’art. 25 c.p.i. stabilisce che il marchio registrato sia nullo, tra le altre ipo-
tesi, quando ricorre uno degli impedimenti di cui all’art. 12 c.p.i. Prevede a sua
volta l’art. 12 c.p.i. che non sono nuovi i marchi che siano simili ad un segno già
noto come marchio o segno distintivo per prodotti o servizi identici o simili, se a
causa dell’identità o somiglianza tra i segni o dell’identità o somiglianza tra i
I. - Giurisprudenza nazionale 521

prodotti possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può


consistere anche in un rischio di associazione tra i segni (lettera b).
La valutazione di novità del marchio X-ICE può condursi con riferimento
ai marchi attorei consistenti esclusivamente nel termine ICE: si può concentrare
la presente analisi sul marchio figurativo (ove il segno ICE è scritto in modo si-
mile a come è riportato nell’occhiale sub doc. n. 126 attoreo) registrato il
13.5.1997 per la classe 9 (tra cui i prodotti ottici e quindi gli occhiali: doc. n. 1
attoreo), ed il marchio denominativo ICE depositato il 21.1.1987 per le classi 18
(tra cui profumeria, oli essenziali, cosmetici) e 25 (abbigliamento, calzature, cap-
pelleria) e rinnovato per venti anni (doc. n. 2 attoreo: si tratta della domanda di
registrazione n. 39812/87).
Il marchio di IE, asseritamente privo del carattere di novità, consiste in una
particolare scrittura del segno X-ICE, resa in “caratteri stilizzati outline”, come
recita la dichiarazione di protezione allegata all’attestato di registrazione (doc. n.
44 attoreo).
6. Preme ricordare come la comparazione tra i segni a raffronto al fine di
valutarne la confondibilità debba condursi in astratto, ricostruendo però quale
sia la situazione che possa verificarsi sul mercato e tenendo quindi conto della
natura del prodotto in questione e dell’attenzione media del consumatore tipico.
Quanto al pubblico di riferimento dei prodotti di cui si discute, gli occhiali
in questione sono venduti o da negozi monomarca oppure da negozi o punti ven-
dita di occhiali che espongano articoli di molteplici marche o ancora da esercizi
commerciali che vendano abbigliamento o accessori di livello medio o medio-alto;
il consumatore di riferimento può individuarsi nel soggetto che acquisti l’occhiale
non solo come strumento utile, ma anche come prodotto dotato di autonoma va-
lenza estetica: in sostanza un consumatore attento anche alla linea ed all’aspetto
esteriore dell’occhiale. Questo non significa però che si tratti di un consumatore
che si rivolga all’acquisto con l’intenzione a priori di acquistare l’una piuttosto
che l’altra marca: egli desidera un prodotto che gli piaccia e magari conforme ai
dettami della moda, ma non necessariamente è affezionato all’una piuttosto che
all’altra casa produttrice.
Ebbene, ritiene il Tribunale che il rischio confusorio tra i marchi a raffronto
sussista sia che si prenda a riferimento il solo marchio figurativo di Gilmar sia
che si esamini anche il marchio denominativo della medesima società attrice.
Premesso che, nel momento in cui si raffrontino due marchi con valenza sia
denominativa che figurativa, la nullità va affermata anche se la confondibilità
debba essere riconosciuta anche sulla base del raffronto dei soli elementi deno-
minativi, va osservato come ICE ed X-ICE abbiano ad avviso del Tribunale un
significativo e decisivo grado di somiglianza per giungerne ad affermarne il ri-
schio confusorio: foneticamente il secondo segno riprende integralmente il primo,
riproponendolo identicamente: il trattino, infatti, separa la lettera X dal termine
ICE, che quindi è presente identicamente nei due segni.
L’aggiunta della lettera X, infatti, non vale ad eliminare il rischio confuso-
rio, come sostiene la convenuta. In primo luogo perché, se si ritiene che si tratti
di una lettera di scarso significato, come rileva parte convenuta all’atto della sua
costituzione, lungi dal ridurre, finisce per accentuare la somiglianza tra i due se-
gni, giacché gli stessi vengono a differenziarsi esclusivamente per un elemento ri-
tenuto scarsamente significativo e quindi privo di autonomo e significativo po-
522 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

tere distintivo. All’opposto, non convince la contraria tesi sostenuta dalla conve-
nuta nelle proprie note conclusive, laddove indica nella X il cuore o il tipo del
marchio: la lettera X non appare inequivocabilmente dotata di un significato au-
tonomo, collegato al mondo fantascientifico, e se anche voglia attribuirsi rilievo
allo studio semantico inerente la lettera X, pubblicato successivamente allo sca-
dere dei termini istruttori maturati in giudizio, ciò non toglie che nel caso di
specie la lettera in questione non appare tale da neutralizzare il richiamo al-
l’identico termine costituente (per intero) il marchio attoreo. Cosicché, invariato
il termine ICE, poiché X-ICE non risulta possedere un significato autonomo e
diverso rispetto ad ICE, la “caratterizzazione fantascientifica” ben potrebbe es-
sere anche propria di Gilmar.
In secondo luogo perché, dovendosi comunque calare i marchi nell’ambito
della realtà commerciale nella quale vengono utilizzati, non può disconoscersi
che Gilmar usa declinare i propri marchi o, meglio, la radice dei propri marchi
(ICE) in più segni autonomi, distinti tra loro dalla sola aggiunta di una lettera
(ICE B, ICE J), dedicati a prodotti diversi; ed il fatto che nel caso di IE la let-
tera aggiuntiva sia anteposta e non posposta alla parte centrale del segno (ovvero
X-ICE e non ICE X) non ha valenza decisiva nella valutazione odierna, trattan-
dosi in effetti di un elemento del tutto casuale, che non vale ad escludere che
Gilmar per ipotesi abbia cosı̀ voluto denominare una propria linea, eventual-
mente di stampo più “aggressivo”, caratteristica rivendicata dalla produzione di
IE.
Ancora, ad abundantiam non può disconoscersi che Gilmar è titolare di plu-
rimi marchi (doc. n. 1 attoreo), molti dei quali sono incentrati sul termine ICE,
nel senso che presentano il segno ICE accompagnato da altri elementi (lettere o
parole), che però non tolgono ad ICE la posizione di centralità: Twice, Iceberg,
Sport Ice (doc. n. 1 attoreo), Ice B (doc. n. 9 attoreo), Golf Sport Ice (doc. n. 5
attoreo); cosicché è inevitabile che un segno distintivo, che successivamente in-
tenda fare il proprio ingresso nel settore merceologico di riferimento avvalendosi
del termine ICE, verrà facilmente collegato alla “famiglia di marchi” utilizzata
dalla società attrice; cosicché il nuovo marchio dovrà quanto meno accompa-
gnare il termine ICE ad ulteriori elementi, che assumano autonoma funzione di-
stintiva, atta a neutralizzare il collegamento con il precedente segno e tale da
concentrare l’attenzione del consumatore non più su ICE ma proprio sull’ele-
mento aggiuntivo o quanto meno a trasformare la particella ICE in un segno au-
tonomo.
Dalle considerazioni che precedono ritiene il Collegio di poter desumere che
la particolare linea trendy e — come rileva la convenuta — financo “aggressiva”
scelta da IE per i propri occhiali non valga a scongiurare il rischio confusorio co-
munque insito delle forti similitudini tra i segni. La linea di produzione attual-
mente seguita da IE è un elemento occasionale: anche la società convenuta po-
trebbe quindi un domani affiancare all’attuale prodotto un occhiale più tradizio-
nale; conseguentemente non vale a configurare un pubblico di riferimento del
tutto autonomo rispetto a quello già descritto. Specularmene, l’attuale linea di
occhiali di IE ben potrebbe configurare una autonoma linea di occhiali più ag-
gressiva riconducibile alla società Gilmar, presente in vari settori soprattutto
della moda con linee di differente tipologia.
In conclusione, va accolta la domanda di nullità avente ad oggetto il mar-
I. - Giurisprudenza nazionale 523

chio nazionale X-ICE di IE; va conseguentemente anche accertata la contraffa-


zione da parte della convenuta del marchio attoreo in precedenza indicato. Ri-
mane a questo punto superflua la trattazione in ordine al secondo marchio atto-
reo citato, ovvero quello puramente denominativo.
Va altresı̀ inibito alla società convenuta l’utilizzo in qualsiasi forma del mar-
chio di cui è stata dichiarata la nullità e quindi la produzione, commercializza-
zione, pubblicizzazione, anche nel sito internet, di occhiali o prodotti per occhia-
leria con marchio X-ICE. Appare opportuno assegnare alla società convenuta un
termine di “tolleranza”, per consentirle di eliminare la merce contestata e — in-
tervento un po’ più laborioso — ogni riferimento al marchio dal proprio sito: ap-
pare congruo un termine di venti giorni dalla comunicazione del dispositivo della
presente decisione ovvero dalla notificazione di parte, se anteriore.
Va altresı̀ prevista una penale a garanzia dell’adempimento della pronun-
ciata inibitoria, che può quantificarsi in € 200,00 per ogni occhiale prodotto,
venduto o offerto in vendita o per ogni episodio di pubblicizzazione del marchio
X-ICE ovvero di € 100,00 per ogni giorno di ritardo nella “pulitura del sito”.
Quanto alle ulteriori domande svolte da Gilmar, deve osservarsi come la ri-
chiesta di accertamento della condotta di concorrenza sleale possa essere accolta
solo con riferimento all’ipotesi di cui al n. 1 di cui all’art. 2598 c.c., atteso che
non vi è traccia di condotte rilevanti ai sensi delle altre due fattispecie astratte
delineate dalla medesima norma sub n. 2 e n. 3.
Va invece accolta la domanda di pubblicazione della presente decisione, li-
mitatamente ai capi relativi alla nullità del marchio X-ICE ed alla contraffa-
zione del marchio attoreo ICE. Vi provvederà la convenuta entro il termine di
venti giorni già indicato: in caso di inadempimento, potrà provvedervi l’attrice,
salvo obbligo di rimborso da parte della convenuta.
Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
Dall’art. 282 c.p.c. discende la provvisoria esecutività della presente deci-
sione.
La sentenza va trasmessa all’Ufficio Italiano Marchi e Brevetti.
... (omissis) ...

Brevi riflessioni sul valore sostanziale della forma.

La decisione del Tribunale di Venezia qui pubblicata (1) offre, fra i


vari altri (2), lo spunto per qualche breve considerazione in tema di mar-

(1) Vedila anche in Il dir. ind., 2008, 325 ss., con nota di LAMANDINI-
PAPPALARDO, Il difficile equilibrio tra valore sostanziale e carattere distintivo della forma.
Gli autori si interrogano anche sulla possibilità che una forma ab origine solo distin-
tiva e validamente registrabile come marchio acquisti poi un valore sostanziale attra-
verso investimenti pubblicitari che la dotino di una funzione selettiva in grado di in-
cidere sull’apprezzamento dei consumatori e concludono nel senso che il segno do-
vrebbe permanere tutelabile come marchio. Cfr. ivi, 334.
(2) Altri aspetti affrontati nella sentenza non sono oggetto di queste rapide
note (la descrittività del marchio ICE, la natura di segno di uso generale, la nozione
524 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

chio di forma con particolare riferimento alla nozione di “valore sostan-


ziale”.
Come è noto l’art. 7 c.p.i. annovera, fra i segni suscettibili di costi-
tuire un marchio di impresa, la forma del prodotto o della confezione di
esso.
L’art. 9 c.p.i. precisa tuttavia che non possono costituire oggetto di
registrazione come marchio di impresa i segni costituiti esclusivamente
dalla forma che dà un valore sostanziale al prodotto.
Si è posto dunque da tempo un delicato problema di interpretazione
di tale normativa (3).
Non sembra infatti che possa identificarsi la forma che dà un valore
sostanziale al prodotto con qualsiasi forma ornamentale, poiché ciò fini-
rebbe per svuotare di significato la regola generale che consente esplici-
tamente la registrazione come marchio della forma non ovvia del pro-
dotto e della sua confezione; ogni forma adottata come marchio ha nor-
malmente un qualche pregio ornamentale. E ciò riconosce chiaramente
la sentenza in esame laddove afferma che: “La gradevolezza di forme, con
cui il marchio è riportato sul prodotto, non ne preclude certo la registrabi-
lità, non potendosi certo pensare che l’imprenditore voglia riportare la pro-
venienza dell’articolo dalla propria azienda in maniera sgradevole o comun-
que che, al momento del proprio ingresso nel mercato, non voglia tenere conto
e valorizzare anche la particolare funzione del prodotto in questione: e l’oc-
chiale viene comunemente ormai utilizzato non solo per correggere i difetti
della vista o riparare gli occhi dal sole, ma anche quale accessorio di moda
con una forte valenza estetica”.
Dovrà allora ritenersi che la norma considerata (art. 9 c.p.i.) si rife-
risca solamente a quelle forme che incidono in modo determinante, o ap-
punto “sostanziale”, sull’apprezzamento del prodotto, con esclusione in-
vece di quelle forme di presentazione o di confezionamento che non sono
determinanti nella sua scelta, come avviene ad esempio per la forma di
un contenitore, o per l’aspetto conferito ad un prodotto amorfo e, nel
caso di specie, per un fregio-marchio apposto lateralmente su occhiali di
moda, cosicché, per seguire il condivisibile ragionamento del Tribunale
veneziano, “non è registrabile come marchio di forma il marchio che per le
sue specifiche modalità di realizzazione dia al prodotto un aspetto estetico
idoneo ad assicurargli un significativo vantaggio competitivo” (4).

di uso idoneo ad evitarne la decadenza, le regole del giudizio di confondibilità fra


marchi).
(3) Cfr. SENA, Il diritto dei marchi, IV ed., Milano 2007, 80 ss.; VANZETTI, I di-
versi livelli di tutela delle forme ornamentali e funzionali, in questa Rivista, 1994, I, 330
ss.; ID., Manuale di diritto industriale, V ed., Milano, 2005, 65 ss.
(4) Cosı̀ in dottrina SARTI, La tutela dell’estetica del prodotto industriale, Milano
1990, p. 120 ss.
Una precedente decisione di App. Milano, 22 giugno 2001, in Giur. ann. dir.
ind., 4354, aveva affermato che la forma conferisce valore sostanziale al prodotto
quando il suo apprezzamento da parte del consumatore sia tale da comportare un
vantaggio di natura concorrenziale (si trattava della forma dell’ovetto Kinder). Nello
I. - Giurisprudenza nazionale 525

L’altro aspetto della questione qui considerata, ad essa logicamente


preliminare, riguarda la riferibilità alla forma del prodotto in questione
di una funzione distintiva.
Non deve infatti trascurarsi il principio più generale, desumibile
sempre dall’art. 7 c.p.i., che limita la registrabilità come marchio alle
sole forme che siano atte a distinguere i prodotti o i servizi di una im-
presa da quelle di altre imprese, ai segni che svolgono cioè una funzione
distintiva.
Mentre infatti per i marchi denominativi o figurativi, costituiti da
parole, nomi, disegni ecc. apposti sul prodotto od usati nella pubblicità,
non è dubbia la funzione distintiva intrinseca alla loro stessa natura, nel
caso della forma del prodotto è necessario evitare di confondere la mera
forma di qualsivoglia prodotto con la forma che costituisce un segno di-
stintivo, altrimenti si arriverebbe a concludere che ogni prodotto, che ha
necessariamente una sua forma, è un marchio di forma, è il marchio di
sé stesso (5).
Questa esigenza di individuare se il segno costituito dalla forma del
prodotto venga percepito dal pubblico di riferimento come un marchio,
o se invece venga considerato come la mera forma di un prodotto, è colta
appieno nel caso di specie che mostra di valorizzare l’approccio che con-
sidera il marchio non solo nella sua natura ontologica di segno di comu-
nicazione, ma proprio perché tale, nella sua struttura di mediatore di
messaggi tra l’impresa, da un lato, ed il suo naturale interlocutore, il
consumatore, dall’altro. Il consumatore è quindi palesemente il recettore
del segno/marchio ed occorre fare riferimento a come questi lo percepi-
sce, come del resto ripetutamente affermato dalla giurisprudenza comu-
nitaria (6).
Questa prospettiva è stata esattamente approfondita nella decisione
del Board of Appeal comunitario del 16 gennaio 2006 con riferimento
alla forma dell’autovettura Hummer, la cui registrazione come marchio
è stata negata.
Si legge in tale decisione che non è sufficiente che una data forma sia
originale e diversa dalla forma di altri prodotti per farne di essa un mar-
chio: “nell’opinione della Corte la maggior parte degli acquirenti percepisce
la forma di un’autovettura come design e non come marchio”.
In altre parole, la forma svolge la funzione distintiva propria del
marchio, non quando consente di distinguere l’uno dall’altro diversi pro-

stesso senso, anche se con diversa conclusione in fatto, cfr. Trib. Milano, 7 ottobre
2002, in Giur. ann. dir. ind., 4523/4, nel caso della fibbia-chiusura ad omega di Ferra-
gamo, giudicata validamente registrabile. E v stato, invece, ritenuto prevalere il valore
decorativo rispetto a quello distintivo in un marchio costituto dalla testa di una me-
dusa riprodotta su piastrelle (Pret. Modena, 26 gennaio 1999, in Giur. ann. dir. ind.,
3977).
(5) Cosı̀ SENA, Il diritto dei marchi, cit., p. 83.
(6) Cfr. SANDRI, Marchi non convenzionali, in Il dir. ind., 2007, 341 ss. (ove
ampia rassegna di casistica comunitaria); ID., La valutazione del momento percettivo del
marchio, in questa Rivista, 2002, I, 526 ss.
526 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

dotti, ma quando individua agli occhi del consumatore la fonte d’origine,


cioè l’impresa produttrice di un dato prodotto.
Per restare al settore delle autovetture, questa conclusione è chiara
se si considera una decisione del Tribunale comunitario di prima istanza
in data 6 marzo 2003 (nella causa T-128/01) che ha riconosciuto la regi-
strazione di un marchio di forma costituito dalla “calandra” di una au-
tovettura: “la calandra non svolge una funzione esclusivamente tecnica poi-
ché, a differenza di altre parti che compongono il veicolo, talvolta le forme
delle calandre tendono a persistere nel tempo e vengono utilizzate per vari
modelli di un medesimo costruttore... la calandra è divenuta un elemento es-
senziale della differenziazione fra i modelli esistenti sul mercato realizzati
dai vari costruttori”.
Ancora, per passare al settore degli accessori di moda, deve ricor-
darsi la decisione inerente alla forma di un gancino quadrato singolo,
laddove la Commissione di ricorso ha stabilito che il valore sostanziale va
identificato in quelle forme che risultano in grado “... di orientare in
modo determinante le scelte d’acquisto sul mercato tra prodotti concorrenti”.
Nel caso di specie “... l’apporto ornamentale (della fibbia), per quanto im-
portante, non sembra accreditare il prodotto di valore esclusivo, determinan-
te” (7).
Senza insistere oltre, le citate decisioni evidenziano i limiti della
proteggibilità di un oggetto di design attraverso la sua registrazione come
marchio in dipendenza della qualificante diversità ontologica fra marchi
(di forma) e disegni e modelli.
PAOLA A.E. FRASSI

(7) Cfr. Terza Commissione di Ricorso UAMI, caso R 395/1999-3, 3 maggio


2000, in Giur. ann. dir. ind., 2000, 4198.
II. - GIURISPRUDENZA COMUNITARIA E
DELL’UFFICIO EUROPEO DEI BREVETTI

CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNITÀ EUROPEE


Sez. I, 10 aprile 2008, causa C-102/07
Pres. P. JANN — Giudici A. TIZZANO, A. BORG BARTHET, M. ILEŠIČ (Relatore) e E.
LEVITS
Avvocato Generale D. RUIZ-JARABO COLOMER
Adidas AG, Adidas Benelux BV (avv.ti G. Vos e A. Quaedvlieg)
c. Marca Mode, C&A Nederland CV, H&M Hennes & Mauritz Netherlands BV,
Vendex KBB Nederland BV (avv.ti J.J. Brinkhof e G. Van Roeyen)

Marchio - Art. 5, n. 1, lett. b) della Direttiva n. 89/104/CEE - Ambito di tutela - Ri-


schio di confusione - Imperativo di disponibilità.
Marchio - Art. 5, n. 2 della Direttiva n. 89/104/CEE - Marchio che gode di rino-
manza - Ambito di tutela - Imperativo di disponibilità.
Marchio - Art. 6, n. 1, lett. b) della Direttiva n. 89/104/CEE - Limitazioni ai diritti
del titolare - Imperativo di disponibilità.

Il rischio di confusione, che costituisce la condizione specifica della protezione


conferita dal marchio registrato, in particolare contro l’uso da parte di terzi di segni
non identici, deve essere oggetto di una valutazione globale che tenga conto di tutti i
fattori rilevanti, ivi inclusi la notorietà del marchio di impresa sul mercato, l’asso-
ciazione che può essere fatta tra il marchio e il segno usato o registrato, nonché il
grado di somiglianza tra il marchio e il segno e tra i prodotti o servizi designati. Non
può rientrare tra questi fattori la circostanza che esiste, per gli operatori economici,
una necessità di disponibilità del segno, in quanto la questione dell’esistenza di un
rischio di confusione deve essere risolta fondandosi sulla percezione da parte del
pubblico dei prodotti coperti dal marchio, da un lato, e dei prodotti coperti dal segno
utilizzato dal terzo, dall’altro.
Ai fini della tutela prevista dall’art. 5, n. 2 della Direttiva n. 89/104/CEE è
sufficiente che il grado di somiglianza tra il marchio che gode di rinomanza e il se-
gno sia tale da indurre il pubblico interessato a stabilire un nesso tra il segno e il
marchio, a prescindere dal rischio di confusione. L’imperativo di disponibilità ri-
mane estraneo sia alla valutazione del grado di somiglianza tra il marchio che gode
di rinomanza e il segno utilizzato dal terzo, sia al nesso che potrebbe essere stabilito
dal pubblico interessato tra il marchio e il segno e non può quindi costituire un ele-
mento pertinente per verificare se l’uso del segno tragga indebitamente vantaggio dal
carattere distintivo o dalla notorietà del marchio, ovvero arrechi loro pregiudizio.
L’art. 6, n. 1, lett. b), della direttiva mira a salvaguardare la possibilità per tutti
gli operatori economici di utilizzare indicazioni descrittive e costituisce quindi
528 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

un’espressione dell’imperativo di disponibilità. Tuttavia, l’imperativo di disponibi-


lità non può in alcun caso costituire una limitazione autonoma degli effetti del mar-
chio in aggiunta a quelle esplicitamente previste all’art. 6, n. 1, lett. b), della diret-
tiva.

(Omissis). — 1. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpre-


tazione della prima direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/104/CEE, sul
ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’im-
presa (GU 1989, L 40, pag. 1; in prosieguo: la « direttiva »).
2. Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia che op-
pone la Adidas AG e la Adidas Benelux BV alla Marca Mode CV (in prosieguo: la
« Marca Mode »), alla C&A Nederland CV (in prosieguo: la « C&A »), alla H&M
Hennes & Mauritz Netherlands BV (in prosieguo: la « H&M ») e alla Vendex KBB
Nederland BV (in prosieguo: la « Vendex »), relativamente all’estensione della
protezione dei marchi figurativi a tre bande di cui la Adidas AG è titolare.

Ambito normativo. — 3. L’art. 3 della direttiva, intitolato « Impedimenti alla


registrazione o motivi di nullità », stabilisce, al n. 1:
« l. Sono esclusi dalla registrazione, o, se registrati, possono essere dichiarati
nulli:
a) i segni che non possono costituire un marchio di impresa;
b) i marchi di impresa privi di carattere distintivo;
c) i marchi di impresa composti esclusivamente da segni o indicazioni che in
commercio possono servire a designare la specie, la qualità, la quantità, la desti-
nazione, il valore, la provenienza geografica ovvero l’epoca di fabbricazione del
prodotto o della prestazione del servizio, o altre caratteristiche del prodotto o
servizio;
d) i marchi di impresa composti esclusivamente da segni o indicazioni che
siano divenuti di uso comune nel linguaggio corrente o negli usi leali e costanti
del commercio;
e) i segni costituiti esclusivamente:
— dalla forma imposta dalla natura stessa del prodotto;
— dalla forma del prodotto necessaria per ottenere un risultato tecnico;
— dalla forma che dà un valore sostanziale al prodotto;
(...) ».
4. L’art. 3, n. 3, della direttiva enuncia:
« Un marchio di impresa non è escluso dalla registrazione o, se registrato,
non può essere dichiarato nullo ai sensi del paragrafo 1, lettere b), c) o d), se
prima della domanda di registrazione o a seguito dell’uso che ne è stato fatto esso
ha acquisito un carattere distintivo. Gli Stati membri possono inoltre disporre
che la presente disposizione sia anche applicabile quando il carattere distintivo è
stato acquisito dopo la domanda di registrazione o dopo la registrazione stessa ».
5. L’art. 5 della direttiva, intitolato « Diritti conferiti dal marchio di im-
presa », dispone, ai nn. 1 e 2:
« 1. Il marchio di impresa registrato conferisce al titolare un diritto esclu-
II. - Giurisprudenza comunitaria e dell’ufficio europeo dei brevetti 529

sivo. II titolare ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare


nel commercio:
a) un segno identico al marchio di impresa per prodotti o servizi identici a
quelli per cui esso è stato registrato;
b) un segno che, a motivo dell’identità o della somiglianza di detto segno col
marchio di impresa e dell’identità o somiglianza dei prodotti o servizi contraddi-
stinti dal marchio di impresa e dal segno, possa dare adito a un rischio di confu-
sione per il pubblico, comportante anche un rischio di associazione tra il segno e
il marchio di impresa.
2. Uno Stato membro può inoltre prevedere che il titolare abbia il diritto di
vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nel commercio un segno identico
o simile al marchio di impresa per i prodotti o servizi che non sono simili a quelli
per cui esso è stato registrato, se il marchio di impresa gode di notorietà nello
Stato membro e se l’uso immotivato del segno consente di trarre indebitamente
vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio di impresa o reca
pregiudizio agli stessi ».
6. L’art. 6 della direttiva, intitolato « Limitazione degli effetti del marchio
di impresa », prevede, al n. 1:
« 1. Il diritto conferito dal marchio di impresa non permette al titolare dello
stesso di vietare ai terzi l’uso nel commercio:
a) del loro nome e indirizzo;
b) di indicazioni relative alla specie, alla qualità, alla quantità, alla destina-
zione, al valore, alla provenienza geografica, all’epoca di fabbricazione del pro-
dotto o di prestazione del servizio o ad altre caratteristiche del prodotto o del
servizio;
c) del marchio di impresa se esso è necessario per contraddistinguere la de-
stinazione di un prodotto o servizio, in particolare come accessori o pezzi di ri-
cambio, purché l’uso sia conforme agli usi consueti di lealtà in campo industriale
e commerciale ».
7. L’art. 12 della direttiva, intitolato « Motivi di decadenza », enuncia, al n.
2:
« Il marchio di impresa è suscettibile (...) di decadenza quando esso dopo la
data di registrazione:
a) è divenuto, per il fatto dell’attività o inattività del suo titolare, la gene-
rica denominazione commerciale di un prodotto o servizio per il quale è regi-
strato;
(...) ».
Causa principale e questioni pregiudiziali
8. La società Adidas AG è titolare di marchi figurativi costituiti da tre bande
verticali parallele, di uguale larghezza, che sono apposte lateralmente su capi di
abbigliamento sportivo e casual, ed il cui colore contrasta con il colore principale
di questi capi.
9. La società Adidas Benelux BV è titolare di una licenza esclusiva per il
Benelux concessa dalla Adidas AG.
10. La Marca Mode, la C&A, la H&M e la Vendex sono imprese concorrenti
che esercitano il commercio nel settore tessile.
11. Dopo aver constatato che alcuni di questi concorrenti avevano comin-
ciato a mettere in vendita capi di abbigliamento sportivo e casual sui quali figu-
530 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

rano due bande parallele il cui colore contrasta con il colore principale di questi
ultimi, la Adidas AG e la Adidas Benelux BV (in prosieguo, congiuntamente, la
« Adidas ») hanno avviato dinanzi al Rechtbank te Breda un procedimento som-
mario nei confronti della H&M nonché un’azione nel merito nei confronti della
Marca Mode e della C&A, affinché fosse vietato a queste imprese di utilizzare
qualsiasi segno costituito dal motivo a tre bande registrato su domanda della
Adidas o da un motivo corrispondente ad esso, quale il motivo a due bande pa-
rallele utilizzato da queste imprese.
12. La Marca Mode, la C&A, la H&M e la Vendex hanno, dal canto loro,
proposto domande dinanzi al Rechtbank te Breda affinché quest’ultimo dichia-
rasse che esse erano libere di far figurare due bande a fini decorativi su capi di
abbigliamento sportivo e casual.
13. Con sentenza 2 ottobre 1997, il presidente del Rechtbank te Breda, sta-
tuendo nel procedimento sommario, ha ingiunto alla H&M di cessare di utiliz-
zare nel Benelux il segno costituito dal motivo a tre bande registrato su domanda
della Adidas o qualsiasi altro segno ad esso corrispondente, quale il motivo a due
bande utilizzato dalla H&M.
14. Con una sentenza interlocutoria del 13 ottobre 1998, il Rechtbank te
Breda ha dichiarato che vi era stata violazione dei marchi di cui la Adidas è ti-
tolare.
15. Le sentenze 2 ottobre 1997 e 13 ottobre 1998 hanno costituito oggetto
di appello dinanzi al Gerechtshof te ’s-Hertogenbosch.
16. Con sentenza 29 marzo 2005, il Gerechtshof te ’s-Hertogenbosch ha an-
nullato le sentenze 2 ottobre 1997 e 13 ottobre 1998 e, statuendo esso stesso sulla
controversia, ha respinto sia la domanda della Adidas che quelle della Marca
Mode, della C&A, della H&M e della Vendex in quanto, da un lato, non vi era
stata violazione dei marchi di cui la Adidas è titolare e, dall’altro, le domande
presentate dalla Marca Mode, dalla C&A, dalla H&M e dalla Vendex avevano una
portata troppo generica.
17. Il Gerechtshof te’s-Hertogenbosch ha precisato che un motivo a tre
bande come quello che è stato registrato su domanda della Adidas è di per sé
poco distintivo, ma, a causa degli sforzi pubblicitari sostenuti dalla Adidas, i
marchi di cui questa è titolare hanno acquisito un carattere distintivo considere-
vole e sono divenuti notoriamente conosciuti. I detti marchi beneficerebbero
quindi di una protezione estesa per quanto riguarda il motivo a tre bande. Tut-
tavia, dato che le bande e i semplici motivi a bande sono, in via di principio, se-
gni che devono rimanere disponibili e che non si prestano quindi ad un diritto
esclusivo, i marchi di cui la Adidas è titolare non potrebbero offrire una qualsiasi
protezione contro l’uso di motivi a due bande.
18. L’Adidas ha presentato ricorso per cassazione dinanzi allo Hoge Raad
der Nederlanden, affermando che, nella struttura del regime introdotto dalla di-
rettiva, l’imperativo di disponibilità deve essere preso in considerazione solo al-
l’atto dell’applicazione degli impedimenti alla registrazione o dei motivi di nul-
lità previsti all’art. 3 della direttiva.
19. In tale contesto lo Hoge Raad der Nederlanden ha deciso di sospendere
il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
« 1) Se, ai fini della determinazione dell’ambito di tutela di un marchio con-
sistente in un segno intrinsecamente privo di carattere distintivo o in un’indica-
II. - Giurisprudenza comunitaria e dell’ufficio europeo dei brevetti 531

zione rispondente alla descrizione di cui all’art. 3, n. 1, lett. c), della direttiva, ma
che attraverso l’uso abbia acquisito carattere distintivo e sia stato oggetto di re-
gistrazione, occorra tenere conto dell’interesse generale a non restringere indebi-
tamente la disponibilità di determinati segni per gli altri operatori offerenti pro-
dotti o servizi analoghi.
2) In caso di soluzione affermativa della questione n. 1, se vi sia differenza
qualora i segni in esame, da tenere disponibili, vengano considerati dal pubblico
rilevante come segni distintivi di prodotti, oppure come semplice decorazione.
3) In caso di soluzione affermativa della questione n. 1, se vi sia differenza
qualora il segno contestato dal titolare del marchio sia privo di carattere distin-
tivo ai sensi dell’art. 3, n. 1, lett. b), della direttiva, oppure costituisca un’indica-
zione ai sensi dell’art. 3, n. 1, lett. c), della direttiva ».

Sulle questioni pregiudiziali. — 20. Con le sue questioni, che occorre esami-
nare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede in sostanza in quale misura oc-
corra tener conto dell’interesse generale consistente nel non restringere indebita-
mente la disponibilità di taluni segni all’atto della valutazione dell’estensione del
diritto esclusivo del titolare di un marchio.
21. Il detto giudice ha formulato tale domanda in relazione al motivo a tre
bande registrato su domanda dell’Adidas, che ha acquisito un carattere distin-
tivo con l’uso. In particolare, esso chiede se, allorché terzi utilizzano segni iden-
tici o similari al marchio di cui trattasi senza il consenso del titolare di quest’ul-
timo e fanno valere a sostegno di tale uso l’imperativo di disponibilità, si debba
accertare se i detti segni siano considerati o meno dal pubblico interessato come
decorativi, se siano o meno privi di carattere distintivo ai sensi dell’art. 3, n. 1,
lett. b), della direttiva, e se abbiano o meno carattere descrittivo ai sensi del suo
art. 3, n. 1, lett. c).

Considerazioni preliminari. — 22. Come ha ricordato l’avvocato generale ai


paragrafi 33 e segg. delle sue conclusioni, esistono considerazioni di interesse ge-
nerale, relative in particolare alla necessità di una concorrenza non falsata, le
quali raccomandano che taluni segni possano essere utilizzati liberamente da
tutti gli operatori economici.
23. Come la Corte ha già dichiarato, questo imperativo di disponibilità co-
stituisce la ratio che è alla base di taluni impedimenti alla registrazione enunciati
all’art. 3 della direttiva (v., in tal senso, segnatamente, sentenze 4 maggio 1999,
cause riunite C-108/97 e C-109/97, Windsurfing Chiemsee, Racc., pag. I-2779,
punto 25; 8 aprile 2003, cause da C-53/01 a C-55/01, Linde e a., Racc., pag.
I-3161, punto 73, e 6 maggio 2003, causa C-104/01, Libertel, Racc., pag. I-3793,
punto 53).
24. Inoltre, l’art. 12, n. 2, lett. a), della direttiva prevede che il marchio
d’impresa è suscettibile di decadenza quando, dopo la registrazione, è divenuto,
per il fatto dell’attività o inattività del suo titolare, la generica denominazione
commerciale del prodotto o del servizio per il quale è registrato. Con tale dispo-
sizione, il legislatore comunitario ha proceduto al contemperamento degli inte-
ressi del titolare di un marchio e di quelli dei suoi concorrenti connessi alla di-
532 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

sponibilità dei segni (v. sentenza 27 aprile 2006, causa C-145/05, Levi Strauss,
Racc., pag. I-3703, punto 19).
25. Se risulta cosı̀ che l’imperativo di disponibilità svolge un ruolo perti-
nente nell’ambito degli artt. 3 e 12 della direttiva, si deve constatare che la pre-
sente domanda di pronuncia pregiudiziale oltrepassa tale ambito, poiché solleva
la questione se l’imperativo di disponibilità costituisca un criterio di valutazione,
dopo la registrazione di un marchio, al fine di delimitare l’estensione del diritto
esclusivo del titolare del marchio. Infatti, la Marca Mode, la C&A, la H&M e la
Vendex non cercano di ottenere una dichiarazione di nullità ai sensi del detto
art. 3 o di decadenza ai sensi del detto art. 12, ma invocano la necessità di di-
sponibilità di motivi a bande diversi da quello registrato su domanda dell’Adi-
das, al fine di far valere il loro diritto di utilizzare tali motivi senza il consenso
di questa.
26. Orbene, allorché un terzo si avvale dell’imperativo di disponibilità per
far valere il suo diritto di utilizzare un segno diverso da quello registrato su do-
manda del titolare del marchio, la pertinenza di un tale argomento non può es-
sere valutata nell’ambito degli artt. 3 e 12 della direttiva, ma deve essere esami-
nata in relazione all’art. 5 della direttiva, che riguarda la protezione del marchio
registrato contro l’utilizzo di segni da parte di terzi, nonché in relazione all’art.
6, n. 1, lett. b), della direttiva, se il segno di cui trattasi rientra nel campo di ap-
plicazione di tale disposizione.

Sull’interpretazione dell’art. 5, n. 1, lett. b), della direttiva. — 27. Conferendo


al titolare di un marchio il diritto di vietare ai terzi di usare un segno identico o
simile, in caso di rischio di confusione, ed elencando gli usi di un segno siffatto
che possono essere vietati, l’art. 5 della direttiva è diretto a tutelare il titolare
stesso contro usi di segni idonei a ledere tale marchio (v., in tal senso, sentenza
Levi Strauss, cit., punto 14).
28. Il rischio di confusione costituisce la condizione specifica della prote-
zione conferita dal marchio registrato, in particolare contro l’uso da parte di
terzi di segni non identici. La Corte ha definito questa condizione come il rischio
che il pubblico possa credere che i prodotti o i servizi di cui trattasi provengano
dalla stessa impresa o, eventualmente, da imprese economicamente collegate (v.
sentenze 22 giugno 1999, causa C-342/97, Lloyd Schuhfabrik Meyer, Racc., pag.
I-3819, punto 17, nonché 6 ottobre 2005, causa C-120/04, Medion, Racc., pag.
I-8551, punti 24 e 26).
29. Secondo il decimo “considerando” della direttiva, la valutazione dell’esi-
stenza di un tale rischio « dipende da numerosi fattori e, segnatamente, dalla no-
torietà del marchio di impresa sul mercato, dall’associazione che può essere fatta
tra il marchio di impresa e il segno usato o registrato, dal grado di somiglianza
tra il marchio di impresa e il segno e tra i prodotti o servizi designati ». Il rischio
di confusione deve essere quindi oggetto di valutazione globale tenendo conto di
tutti i fattori pertinenti del caso di specie (v. sentenze 11 novembre 1997, causa
C-251/95, Sabel, Racc., pag. I-6191, punto 22; 22 giugno 2000, causa C-425/98,
Marca Mode, Racc., pag. I-4861, punto 40, e Medion, cit., punto 27).
30. Non può rientrare tra questi fattori pertinenti la circostanza che esiste,
per gli operatori economici, una necessità di disponibilità del segno. Infatti,
II. - Giurisprudenza comunitaria e dell’ufficio europeo dei brevetti 533

come risulta dalla formulazione dell’art. 5, n. 1, lett. b), della direttiva e dalla
giurisprudenza sopra citata, la questione dell’esistenza di un rischio di confu-
sione deve essere risolta fondandosi sulla percezione, da parte del pubblico, dei
prodotti coperti dal marchio del titolare, da un lato, e dei prodotti coperti dal
segno utilizzato dal terzo, dall’altro.
31. Inoltre, segni che devono restare disponibili in linea di principio per
tutti gli operatori economici sono suscettibili di essere utilizzati in maniera abu-
siva al fine di creare una confusione nella mente del consumatore. Se, in un tale
contesto, il terzo potesse avvalersi dell’imperativo di disponibilità per utilizzare
liberamente un segno purtuttavia simile al marchio, senza che il titolare di que-
st’ultimo possa opporvisi facendo valere un rischio di confusione, si pregiudiche-
rebbe l’applicazione effettiva della regola prevista all’art. 5, n. 1, lett. b), della
direttiva.
32. Questa considerazione vale in particolare per i motivi a bande. Come
l’Adidas ha ammesso nella parte introduttiva delle sue osservazioni, i motivi a
bande in quanto tali sono disponibili e possono quindi essere apposti in molti
modi su capi di abbigliamento sportivi e casual da tutti gli operatori. Tuttavia,
i concorrenti dell’Adidas non possono essere autorizzati a ledere il motivo a tre
bande registrato su domanda di quest’ultima apponendo sui capi di abbiglia-
mento sportivo e casual che commercializzano motivi a bande talmente simili a
quello registrato su domanda dell’Adidas da dare adito a un rischio di confusione
per il pubblico.
33. Spetterà al giudice nazionale verificare se sussista un tale rischio di con-
fusione. Al fine di questa verifica è utile esaminare il quesito del giudice nazio-
nale relativo alla necessità di accertare se il pubblico percepisca il segno utiliz-
zato dal terzo come un semplice ornamento del prodotto di cui trattasi.
34. A tal riguardo, occorre rilevare che la percezione da parte del pubblico
di un segno nel senso che costituisce un ornamento non può rappresentare un
ostacolo alla protezione conferita dall’art. 5, n. 1, lett. b), della direttiva allorché,
nonostante il suo carattere decorativo, il detto segno presenta una similitudine
con il marchio registrato tale che il pubblico interessato può credere che i pro-
dotti provengano dalla stessa impresa o, eventualmente, da imprese collegate
economicamente.
35. Nella fattispecie, occorrerà valutare se il consumatore medio, allorché
percepisce capi di abbigliamento sportivo e casual sui quali sono apposti motivi
a bande negli stessi punti e con le stesse caratteristiche del motivo a bande regi-
strato su domanda dell’Adidas, con la sola differenza che essi sono composti da
due e non da tre bande, possa essere tratto in inganno sull’origine di tale pro-
dotto, credendo che questo venga commercializzato dalla Adidas AG, dalla Adi-
das Benelux BV o da un’impresa collegata economicamente ad esse.
36. Come risulta dal decimo “considerando” della direttiva, questa valuta-
zione non dipende unicamente dal grado di somiglianza tra il marchio e il segno,
ma anche dalla facilità con cui il segno può essere associato al marchio in consi-
derazione, in particolare, della notorietà di quest’ultimo sul mercato. Infatti, più
il marchio è noto, maggiore sarà il numero di operatori che vorranno utilizzare
segni simili. La presenza sul mercato di una grande quantità di prodotti coperti
da segni simili potrebbe ledere il marchio in quanto rischia di diminuire il suo
534 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

carattere distintivo e di mettere in pericolo la sua funzione essenziale, che è di


garantire ai consumatori la provenienza dei prodotti di cui trattasi.

Sull’interpretazione dell’art. 5, n. 2, della direttiva. — 37. Ev pacifico tra le


parti nella causa principale che il motivo a tre bande registrato su domanda Del-
l’Adidas costituisce un marchio che gode di notorietà. Inoltre, è pacifico che la
normativa vigente nei Paesi Bassi contiene la regola di cui all’art. 5, n. 2, della
direttiva. Del resto, la Corte ha precisato che l’art. 5, n. 2, della direttiva si ap-
plica anche in relazione ai prodotti e ai servizi identici o simili a quelli per i quali
il marchio è registrato (v., in tal senso, sentenze 9 gennaio 2003, causa C-292/00,
Davidoff, Racc., pag. I-389, punto 30, nonché 23 ottobre 2003, causa C-408/01,
Adidas-Salomon e Adidas Benelux, Racc., pag. I-12537, punti 18-22).
38. Il motivo a tre bande registrato su domanda dell’Adidas beneficia quindi
sia della protezione conferita dall’art. 5, n. 1, della direttiva sia di quella raffor-
zata, stabilita al n. 2, dello stesso articolo (v., par analogia, sentenza Davidoff,
cit., punti 18 e 19).
39. In tale contesto occorre risolvere la domanda di pronuncia pregiudiziale
anche dal punto di vista di quest’ultima disposizione, che riguarda specifica-
mente la protezione dei marchi che godono di notorietà.
40. L’art. 5, n. 2, della direttiva introduce, a favore dei marchi che godono
di notorietà, una protezione la cui attuazione non richiede l’esistenza di un ri-
schio di confusione. Infatti, questa disposizione si applica a situazioni in cui la
condizione specifica della tutela è costituita da un uso immotivato del segno con-
troverso che consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo
o dalla notorietà del marchio oppure arreca loro pregiudizio (sentenze sopra ci-
tate Marca Mode, punto 36, nonché Adidas-Salomon e Adidas Benelux, punto
27).
41. I pregiudizi di cui all’art. 5, n. 2, della direttiva, allorché si verificano,
sono la conseguenza di un certo grado di somiglianza tra il marchio e il segno, a
causa del quale il pubblico interessato mette in relazione il segno e il marchio,
vale a dire stabilisce un nesso tra gli stessi, pur non confondendoli. Non è dun-
que richiesto che il grado di somiglianza tra il marchio notorio e il segno utiliz-
zato dal terzo sia tale da generare, nel pubblico interessato, un rischio di confu-
sione. Ev sufficiente che il grado di somiglianza tra il marchio notorio e il segno
abbia come effetto che il pubblico interessato stabilisca un nesso tra il segno e il
marchio (v. sentenza Adidas-Salomon e Adidas Benelux, cit., punti 29 e 31).
42. L’esistenza di un tale nesso deve essere oggetto di valutazione globale,
tenendo conto di tutti i fattori pertinenti (sentenza Adidas-Salomon e Adidas
Benelux, cit., punto 30).
43. Si deve constatare che l’imperativo di disponibilità è estraneo sia alla
valutazione del grado di somiglianza tra il marchio notorio ed il segno utilizzato
dal terzo sia al nesso che potrebbe essere stabilito dal pubblico interessato tra il
detto marchio e il detto segno. Non può quindi costituire un elemento pertinente
per verificare se l’uso del segno tragga indebitamente vantaggio dal carattere di-
stintivo o dalla notorietà del marchio oppure arrechi loro pregiudizio.

Sull’interpretazione dell’art. 6, n. 1, lett. b), della direttiva. — 44. L’art. 6, n.


II. - Giurisprudenza comunitaria e dell’ufficio europeo dei brevetti 535

1, lett. b), della direttiva stabilisce che il titolare di un marchio non può vietare
ai terzi l’uso, nel commercio, di indicazioni relative alla specie, alla qualità, alla
quantità, alla destinazione, al valore, alla provenienza geografica, all’epoca di
fabbricazione del prodotto o di prestazione del servizio o ad altre caratteristiche
del prodotto o del servizio, purché l’uso sia conforme agli usi consueti di lealtà in
campo industriale e commerciale.
45. Limitando cosı̀ gli effetti del diritto esclusivo del titolare del marchio,
l’art. 6 della direttiva mira a conciliare gli interessi fondamentali della tutela dei
diritti di marchio con quelli della libera circolazione delle merci nonché della li-
bera prestazione dei servizi nel mercato comune, in modo tale che il diritto di
marchio possa svolgere la sua funzione di elemento essenziale del sistema di con-
correnza non falsato che il Trattato CE intende introdurre e conservare (v. sen-
tenza 17 marzo 2005, causa C-228/03, Gillette Company e Gillette Group Fin-
land, Racc., pag. I-2337, punto 29 e giurisprudenza ivi citata).
46. Più specificamente, l’art. 6, n. 1, lett. b), della direttiva mira a salva-
guardare la possibilità per tutti gli operatori economici di utilizzare indicazioni
descrittive. Questa disposizione costituisce quindi, come ha rilevato l’avvocato
generale ai paragrafi 75 e 78 delle sue conclusioni, un’espressione dell’imperativo
di disponibilità.
47. Tuttavia, l’imperativo di disponibilità non può in alcun caso costituire
una limitazione autonoma degli effetti del marchio che si aggiunge a quelle espli-
citamente previste all’art. 6, n. 1, lett. b), della direttiva. Occorre a tal riguardo
sottolineare che, affinché un terzo possa far valere le limitazioni degli effetti del
marchio contenute all’art. 6, n. 1, lett. b), della direttiva e avvalersi in tale con-
testo dell’imperativo di disponibilità che è alla base di tale disposizione, occorre
che l’indicazione da esso utilizzata sia, come richiede tale disposizione, relativa a
una delle caratteristiche del prodotto commercializzato o del servizio fornito da
questo terzo (v., in tal senso, sentenze Windsurfing Chiemsee, cit., punto 28, e 25
gennaio 2007, causa C-48/05, Adam Opel, Racc., pag. I-1017, punti 42-44).
48. Nella fattispecie, dalla decisione di rinvio e dalle osservazioni presentate
dai concorrenti dell’Adidas dinanzi alla Corte risulta che questi ultimi fanno va-
lere come giustificazione dell’utilizzo dei motivi a due bande controversi il carat-
tere puramente decorativo di questi ultimi. Ne deriva che l’apposizione, da parte
di questi concorrenti, di motivi a bande su capi di abbigliamento non mira a for-
nire un’indicazione relativa a una delle caratteristiche di questi prodotti.
49. Sulla base di tutte le considerazioni che precedono occorre rispondere
alla domanda di pronuncia pregiudiziale dichiarando che la direttiva deve essere
interpretata nel senso che non si può tener conto dell’imperativo di disponibilità
all’atto della valutazione dell’estensione del diritto esclusivo del titolare d’un
marchio, salvo nella misura in cui trova applicazione la limitazione degli effetti
del marchio definita all’art. 6, n. 1, lett. b), della detta direttiva.

Sulle spese. — 50. Nei confronti delle parti nella causa principale il presente
procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui
spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presen-
tare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
536 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

P.Q.M., la Corte (Prima Sezione) dichiara:


La prima direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/104/CEE, sul ravvi-
cinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa,
deve essere interpretata nel senso che non si può tener conto dell’imperativo di
disponibilità all’atto della valutazione dell’estensione del diritto esclusivo del ti-
tolare d’un marchio, salvo nella misura in cui trova applicazione la limitazione
degli effetti del marchio definita all’art. 6, n. 1, lett. b), della detta direttiva.

L’interesse generale alla libera disponibilità dei segni nella giurisprudenza


comunitaria.

Con la sentenza in commento la Corte di Giustizia si pronuncia in via


pregiudiziale sull’interpretazione della direttiva comunitaria 89/104/CE in
materia di marchi di impresa, alla luce dell’esistenza di un interesse ge-
nerale alla libera disponibilità di certi segni in sede di accertamento
della contraffazione.
La questione della rilevanza da attribuire a tale interesse nell’am-
bito della disciplina dei marchi era già stata sottoposta alla Corte in al-
tre occasioni, ma solo quale eventuale criterio interpretativo delle dispo-
sizioni relative agli impedimenti alla registrazione e ai motivi di nullità
del marchio (1).
Le domande formulate dalla Hoge Raad der Nederlanden (Corte
Suprema olandese) vertono invece sulla possibilità di limitare l’ambito di
tutela di un marchio validamente registrato rispetto all’uso non autoriz-
zato di segni identici o simili da parte di terzi, in presenza di particolari
circostanze. Circostanze che ricorrerebbero, come nel caso di specie, qua-
lora un segno, originariamente privo di capacità distintiva, venga regi-
strato come marchio successivamente all’acquisto di un secondary mea-
ning ai sensi del terzo comma dell’art. 3 della direttiva, e sussistano ra-
gioni di interesse generale volte a non restringere eccessivamente l’uti-
lizzo di segni simili da parte di altri imprenditori.
La controversia pendente davanti ai giudici nazionali aveva ad og-
getto, ancora una volta (2), un’azione di contraffazione promossa dalla
Adidas nei confronti di alcune imprese concorrenti che commercializza-

(1) Si vedano, in tal senso, sentenza 4 maggio 1999, cause C-108/97 e C-109/
97, Windsurfing Chimesee Produktions — und Vertriebs GmbH c. Boots — und Se-
gelzubehor Walter Huber, in GADI, 1999, 4043; sentenza 8 aprile 2003, cause C-53/
01, C-54/01 e C-55/01, Linde AG, Winward Industries Inc e Rado Uhren AG, in GADI,
2003, 4606; sentenza 6 maggio 2003, causa C-104/01, Libertel Groep BV c. Benelux
— Mrkenbureau, in questa Rivista, 2003, II, p. 228 ss., con nota di CUSUMANO; sen-
tenza 12 febbraio 2004, causa C-363/99, Koninklijke KPN Nederland NV c. Benelux-
Merkenbureau, in Racc., 2004, p. I-1619 (caso Postkantoor).
(2) La Corte di Giustizia è già stata interpellata due volte in via pregiudiziale
nell’ambito di procedimenti promossi dalla Adidas a tutela del suo marchio a tre stri-
sce, pronunciandosi con sentenza 22 giugno 2000, causa C-425/98, Marca Mode CV c.
Adidas Ag e Adidas Benelux BV, Racc., 2000, p. I-4861 e sentenza 23 ottobre 2003,
II. - Giurisprudenza comunitaria e dell’ufficio europeo dei brevetti 537

vano capi di abbigliamento sportivo caratterizzati da due strisce paral-


lele longitudinali applicate sui lati, di colore contrastante con quello de-
gli indumenti. Adidas è titolare di un marchio costituito da tre strisce
parallele con le stesse caratteristiche, che è stato ammesso alla registra-
zione sulla base del secondary meaning acquistato dal segno in seguito al-
l’uso intenso e prolungato e agli investimenti pubblicitari della società. Ev
stato inoltre riconosciuto che si tratta di un marchio che gode di rino-
manza, la cui tutela si estende pertanto contro qualsiasi uso immotivato
che possa recare pregiudizio al carattere distintivo o alla notorietà del
marchio, o che consenta di trarne indebito vantaggio, a prescindere dal
rischio di confusione (3).
Sulla base di questi rilievi è verosimile ritenere che il consumatore
informato e di media avvedutezza (4) sia automaticamente indotto a pen-
sare alla Adidas ogni qual volta si trovi di fronte a un capo di abbiglia-
mento sportivo che presenta due strisce parallele, anziché tre, con le
stesse caratteristiche del noto marchio.
Il giudice olandese, tuttavia, ha ritenuto di dover escludere la con-
traffazione del marchio in questione da parte dei concorrenti che utiliz-
zavano due strisce parallele, in ragione del fatto che si tratta di meri ele-
menti decorativi che devono poter essere utilizzati da tutti.
Secondo un’interpretazione coerente con le disposizioni della diret-
tiva, la Corte di Giustizia ha invece stabilito che, sebbene simili conside-
razioni di interesse generale siano sottese a talune disposizioni in mate-
ria di marchi (5), l’imperativo di disponibilità non può in alcun modo li-
mitare i diritti conferiti dal marchio di impresa ai sensi dell’art. 5 della
direttiva, se non nei limiti degli usi espressamente consentiti dalla legge
stessa e, in particolare, dall’art. 6 della direttiva.
La Corte non si discosta quindi dalla consolidata interpretazione
delle disposizioni contenute negli articoli 5, n. 1, lett. b) e 5, n. 2, della

causa C-408/01, Adidas-Salomon AG e Adidas Benelux c. Fitnessworld Trading Ltd,


in questa Rivista, 2004, II, p. 130 ss. con nota di GALLI.
(3) Cfr. paragrafi 17 e 37 della sentenza in commento.
(4) Nel quale la Corte ha individuato il parametro di riferimento per accertare
il carattere distintivo di un marchio. In tal senso, sentenza 22 giugno 1999, causa
C-342/97, Lloyd Schuhfabrik Meyer, in Racc., 1999, p. I-3819, punto 26 e sentenza 6
maggio 2003, causa C-104/01, Libertel, cit., punto 46.
(5) Secondo i punti 22, 23 e 24 della sentenza in commento, si tratterebbe di
alcuni impedimenti alla registrazione di cui all’art. 3 della direttiva e della disposi-
zione che prevede la decadenza del marchio in caso di perdita della capacità distin-
tiva ai sensi dell’art. 12 della direttiva. Con riguardo all’art. 3 si tratterebbe, più pre-
cisamente, degli impedimenti alla registrazione di segni e indicazioni descrittivi di cui
alla lettera c) del primo comma dell’art. 3, nonché delle forme funzionali di cui alla
lettera e) dello stesso articolo. La Corte infatti richiama le sentenze 4 maggio 1999,
cause riunite C-108/97 e C-109/97, Windsurfing Chiemsee, cit., punto 25; 8 aprile 2003,
cause da C-53/01 a C-55/01, Linde, cit., punto 73, e 6 maggio 2003, causa C-104/01,
Libertel, cit., punto 53. Con riguardo all’art. 12, invece, la Corte ricorda la sentenza
27 aprile 2006, causa C-145/05, Levi Strauss, in Racc., p. I-3703, punto 19, che ha
ravvisato nell’istituto della volgarizzazione « il contemperamento degli interessi del tito-
lare di un marchio e di quelli dei suoi concorrenti connessi alla disponibilità dei segni ».
538 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

direttiva (6), diretti a tutelare il titolare di un marchio registrato contro


usi di segni identici o simili idonei, rispettivamente, a creare confusione
circa l’origine dei prodotti o servizi, ovvero, nel caso del marchio che
gode di rinomanza, a lederne la capacità distintiva e la notorietà o a
trarne indebito vantaggio.
L’imperativo di disponibilità è dunque estraneo all’accertamento
della confondibilità, nonché alla valutazione del grado di somiglianza tra
segni idonea a ledere il marchio che gode di rinomanza.
Diverso è il caso in cui trovi applicazione l’art. 6 della direttiva che,
come la Corte ha avuto modo di rilevare in altre occasioni, « limitando gli
effetti dei diritti di cui il titolare di un marchio gode ai sensi dell’art. 5 della
direttiva 89/104, [...] mira a conciliare gli interessi fondamentali della tu-
tela dei diritti di marchio con quelli della libera circolazione delle merci
nonché della libera prestazione dei servizi nel mercato comune, in modo tale
che il diritto di marchio possa svolgere la sua funzione di elemento essenziale
del sistema di concorrenza non falsato che il Trattato CE intende introdurre
e conservare » (7).
Con particolare riguardo al limite di cui alla lettera b) del primo
comma dell’articolo 6, la Corte chiarisce l’interesse sotteso a tale dispo-
sizione, specificando che essa mira a salvaguardare la possibilità per tutti
gli operatori economici di utilizzare indicazioni descrittive. Tuttavia,
prosegue la Corte, l’imperativo di disponibilità non può in alcun caso co-
stituire una limitazione autonoma degli effetti del marchio che si ag-
giunge a quelle esplicitamente previste all’art. 6, n. 1, lett. b) della diret-
tiva (8).
Se la decisione della corte appare certamente condivisibile alla luce
dell’attuale sistema normativo, può essere utile interrogarsi sulle ragioni
che hanno spinto il giudice del rinvio a sottoporre una simile questione
a distanza di quasi vent’anni dall’entrata in vigore della direttiva comu-
nitaria.
La preoccupazione per i risvolti anticompetitivi che possono sorgere
dall’uso esclusivo di determinati segni da parte di un unico soggetto, in-
fatti, ha spesso costituito un criterio impiegato dalla giurisprudenza di

(6) Con riguardo all’accertamento del rischio di confusione si vedano le sen-


tenze richiamate dalla Corte ai punti 28 e 29 e, in particolare, sentenza 11 novembre,
causa C-251/95, Sabel, in Racc., p. I-6191, punto 22; sentenza 22 giugno 2000, causa
C-425/98, Marca Mode, cit., punto 40 e sentenza 6 ottobre 2005, causa C-120/04 Me-
dion, in Racc., pag. I-8551, punti 24 e 26. Sull’interpretazione del secondo comma
dell’art. 5 relativo alla tutela del marchio che gode di rinomanza, si vedano invece le
sentenze 9 gennaio 2003, causa C-292/00, Davidoff, Racc., p. I-389, punto 30, nonché
23 ottobre, causa C-408/01, Adidas-Salomon, cit., punti 18-22.
(7) Sentenza 7 gennaio 2004, causa C-100/02, Gerolsteiner Brunner GmbH &
Co. c. Putsch GmbH, in GADI, 2004, 4768, punto 27. Nello stesso senso, sentenza 23
febbraio 1999, causa C-63/97, BMW, in Racc., 1999, p. I-905, punto 62 e sentenza 17
marzo 2005, causa C-288/0, Gilette Company e Gillette Group Finland, in Racc., 2005,
p. I-2337, punto 29.
(8) Cfr. punto 47 della decisione.
II. - Giurisprudenza comunitaria e dell’ufficio europeo dei brevetti 539

alcuni stati membri per escluderne la validità come marchio o, comun-


que, limitarne la tutela rispetto all’uso del segno da parte di terzi (9).
A ciò si aggiunga che la decisione in commento costituisce l’evolu-
zione di un orientamento che si è andato consolidando, non senza incer-
tezze, in seno alla giurisprudenza comunitaria e che ha contribuito a de-
stare perplessità all’interno della dottrina e della giurisprudenza di al-
cuni paesi membri (10).
In linea di principio, infatti, si dovrebbe ritenere che l’interesse alla
libera disponibilità di certi segni rilevi solo quale ratio sottesa a talune
disposizioni normative (11), senza costituire un autonomo criterio di va-

(9) Il principio della libera disponibilità dei segni trova origine nell’ordina-
mento tedesco anteriormente al recepimento della direttiva comunitaria. Tale princi-
pio, detto “Freihaltebedurfnis”, era stato elaborato dalla giurisprudenza per limitare
la registrazione di segni che dovevano poter essere utilizzati anche da altri operatori
economici. In particolare, secondo la ricostruzione operata dall’Avvocato Generale
RUIZ-JARABO COLOMER (opinioni generali del 16 gennaio 2008, disponibili sul sito inter-
net http://curia.europa.eu, punti 33-45), tale principio sarebbe stato elaborato per ov-
viare alle lacune legislative della normativa nazionale, contenente un elenco ristretto
di impedimenti alla registrazione che non teneva conto dell’interesse generale alla li-
bera utilizzabilità di certi segni. Sull’evoluzione del Freihaltebedurfnis tedesco si veda
FEZER, K.-H., Markenrecht, C.H. Beck, II ed., Munich, 1999, p. 402. Non a caso, i
giudici tedeschi sono stati i primi a sottoporre alla Corte di Giustizia il problema della
rilevanza dell’imperativo di disponibilità nell’ambito dell’interpretazione della diret-
tiva in materia di marchi, con particolare riferimento alle denominazioni geografiche
di cui all’art. 3, comma 1, lett. c) della direttiva (caso Windsurfing Chiemsee, cit.).
(10) Come si vedrà, ciò che lascia particolarmente perplessi della posizione
della Corte sull’imperativo di disponibilità è la distinzione tra l’impedimento alla re-
gistrazione di segni privi di capacità distintiva di cui all’art. 3, n. 1, lett. b) e il suc-
cessivo impedimento relativo ai segni descrittivi di cui alla lett. c). Si vedano, in dot-
trina, PHILLIPS, « Trade Mark and the Need to Keep Free », in IIC, vol. 36, n. 4/2005, p.
389 ss.; KEELING, « About Kinetic Watches, Easy Banking and Nappies that Keep a Baby
Dry: a Review of Recent European Case Law on Absolute Grounds for Refusal to Regi-
ster Trade Marks », in I.P.Q. 2003, 2, p. 131 ss.; HANDLER, « The Distintive Problem of
European Trade Mark Law », in EIPR 2005, 27(9), p. 306 ss.; SIMON, « What’s Cooking
at the CFI? More Guidance on Descriptive and Non Distinctive Trade Marks », in EIPR
2003, 25(7), p. 322 ss. Il tema della libera disponibilità di certi segni non sembra in-
vece aver suscitato particolare interesse nell’ambito della dottrina italiana. L’unico a
essersene occupato sembra essere SARTI con particolare riferimento alla forma del
prodotto in « I marchi di forma fra secondary meaning e funzionalità », in Studi di di-
ritto industriale in onore di Adriano Vanzetti. Proprietà intellettuale e concorrenza, vol.
II, Giuffrè, 2004, p. 1412 ss.
(11) Si tratta delle disposizioni richiamate dalla stessa Corte e contenute ne-
gli art. 3.1. lett. c), 3.1. lett. e) e 12. Con particolare riguardo all’art. 3, comma 1 lett.
e) si ricorda che la Corte ha infatti avuto modo di rilevare che la ratio di tale impedi-
mento « consiste nel fatto di evitare che la tutela del diritto di marchio sfoci nel conferi-
mento al suo titolare di un monopolio su soluzioni tecniche o caratteristiche utilitarie di
un prodotto, che possono essere ricercate dall’utilizzatore nei prodotti dei concorrenti. In
tal modo, l’art. 3, n. 1, lett. e), intende evitare che la tutela conferita dal diritto di marchio
si estenda, oltre i segni che permettono di distinguere un prodotto o servizio da quelli of-
ferti dai concorrenti, erigendosi in ostacolo a che questi ultimi possano offrire liberamente
prodotti che incorporano dette soluzioni tecniche o dette caratteristiche utilitarie in concor-
540 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

lutazione del relativo ambito di tutela. Cosı̀ la Corte ha riscontrato il ri-


flesso di tale interesse nell’art. 3, n. 1, lett. c) della direttiva rilevando
che tale disposizione « persegue una finalità di interesse generale, la quale
impone che i segni e le indicazioni descrittivi delle categorie di prodotti o
servizi per le quali si chiede la registrazione possano essere liberamente uti-
lizzati da tutti, anche come marchi collettivi o all’interno di marchi com-
plessi o grafici. Tale disposizione osta quindi a che siffatti segni o indica-
zioni siano riservati a una sola impresa » (12). Tuttavia, in un caso avente
ad oggetto l’accertamento del carattere distintivo del marchio comunita-
rio « Doublemint » per gomme da masticare, la Corte ha rinviato la causa
davanti al Tribunale di Primo Grado, sostenendo che quest’ultimo non
aveva verificato « se il sintagma controverso potesse essere utilizzato da al-
tri operatori economici per designare una caratteristica dei loro prodotti e
servizi » (13). Cosı̀ facendo, è stato rilevato che la Corte ha attribuito al-
l’interesse generale sotteso all’art. 7, n. 1, lett. c) del Regolamento 40/
94/CE (corrispondente all’art. 3, n. 1, lett. c) della direttiva) il ruolo di
criterio interpretativo della norma, idoneo a limitare la registrazione di
segni descrittivi che è opportuno mantenere in pubblico dominio (14).
Ulteriori perplessità si riscontrano nelle affermazioni della Corte che
differenziano la ratio sottesa alla disposizione contenuta nell’art. 3, n. 1,
lett. c) da quella relativa all’impedimento alla registrazione di segni privi
di capacità distintiva di cui alla lettera b) del medesimo articolo.
Ev infatti pacifico in dottrina che le indicazioni e i segni descrittivi
sono una mera sottocategoria di segni privi di capacità distintiva (15).
Eppure la Corte sembra essersi cristallizzata su affermazioni di principio
che negano rilevanza all’imperativo di disponibilità quale ratio sottesa

renza con il titolare del marchio ». (sentenza 18 giugno 2002, causa C-299/99, Ko-
ninklijke Philips Electronics NV v. Remington Consumer Products Ltd, in Racc.,
2002, p. I-5475, punto 78). Oltre alle disposizioni appena richiamate, si deve ritenere
che l’interesse alla libera disponibilità di segni rilevi anche con riferimento all’art. 3,
n. 1, lett. d). La Corte, infatti, non ha mai avuto occasione di pronunciarsi sull’inter-
pretazione di tale disposizione, ma è certamente corretto estendere all’impedimento
alla registrazione di segni generici la stessa ratio sottesa all’impedimento alla registra-
zione delle indicazioni descrittive. Stando alla sentenza in commento, infine, deve ri-
tenersi ispirata alla medesima ratio anche la disposizione di cui al’art. 6, n. 1, lett. b)
che, di fatto, riflette le ragioni dell’impedimento di cui all’art. 3, n. 1, lett. c).
(12) Sentenza Windsurfing, cit., punto 25. La Corte si è espressa in senso ana-
logo anche in Linde, cit., punti 73 e 74 e in Postkantoor, cit., punto 54.
(13) Sentenza 23 ottobre 2003, causa C-191/01P, UAMI c. Wrigley Jr. Com-
pany, in GADI, 2003, 4607, punto 35.
(14) Cfr. BENTLY SHERMAN, Intellectual Property Law, II ed., Oxford 2001, p.
805-807.
(15) In passato in Italia si riteneva addirittura che il divieto di registrazione
di indicazioni generiche e descrittive esaurisse le ipotesi di mancanza di capacità di-
stintiva. In tal senso si veda VANZETTI DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, V
ed., Giuffrè, 2005, p. 156. Sebbene la categoria dei segni privi di capacità distintiva si
sia estesa fino a ricomprendere anche segni che non sono generici o descrittivi, è tut-
tavia inopinabile il fatto che un segno generico o descrittivo è anche privo, in origine,
di carattere distintivo.
II. - Giurisprudenza comunitaria e dell’ufficio europeo dei brevetti 541

all’impedimento alla registrazione di segni privi di capacità distintiva,


sostenendo che l’unico scopo della relativa disposizione sarebbe quello di
« impedire la registrazione dei marchi privi del carattere distintivo che è
l’unica a renderli idonei ad assolvere la funzione essenziale del marchio, che
consiste nel garantire al consumatore o all’utilizzatore finale l’identità di
origine del prodotto o del servizio contrassegnato dal marchio consentendogli
di distinguere senza confusione possibile questo prodotto o questo servizio da
quelli di provenienza diversa » (16).
Tuttavia, quando si tratta di valutare il carattere distintivo di un
determinato colore in relazione al quale viene chiesta la registrazione, la
Corte si rende conto che, dato il numero ridotto di colori effettivamente
disponibili, la loro registrazione come marchi per gli stessi prodotti o
servizi potrebbe esaurire tutta la gamma di colori disponibili e, un mo-
nopolio cosı̀ esteso, rischierebbe di creare uno svantaggio concorrenziale
illegittimo a favore di un solo operatore economico (17). E v stato quindi
riconosciuto « l’interesse generale a non restringere indebitamente la dispo-
nibilità di colori per gli altri operatori che offrano prodotti o servizi del ge-
nere di quelli oggetto della domanda di registrazione » (caso Libertel) (18).
Tornando al nostro caso, se la decisione del giudice di merito può
dirsi frutto di alcune resistenze applicative che hanno origine nella giu-
risprudenza nazionale anteriore al recepimento della direttiva, è tuttavia
alla luce delle contraddizioni in seno alla giurisprudenza comunitaria che
si possono comprendere le ragioni delle questioni pregiudiziali sollevate
dal giudice del rinvio.
Ev vero che la Corte ha avuto modo di rilevare che l’interesse gene-
rale alla libera disponibilità di un segno perde comunque rilievo nel mo-
mento dell’acquisto della capacità distintiva ai sensi dell’art. 3, n. 3 della
direttiva (19). Ed è anche vero che il caso di specie non riguarda l’accer-
tamento della capacità distintiva di un segno, ma attiene all’estensione
della tutela di un marchio già validamente registrato contro l’uso non
autorizzato da parte di terzi.
Tuttavia, considerata l’incertezza generata dalla Corte di Giustizia
sull’elemento dell’imperativo di disponibilità, e posto che anche segni
non distintivi o descrittivi possono, in seguito all’uso, essere registrati
come marchi in forza dell’art. 3, n. 3, la Corte Suprema olandese vuole

(16) Sentenza 12 gennaio, causa C-173/04P, in Racc., 2006, p. I-551, Deutsche


SiSi-Werke GmbH & Co. Betriebs KG, punto 60; SAT.1, cit., punto 23; sentenza 23
maggio 1978, causa 102/77, Hoffmann-La Roche, in Racc., p. 1139, punto 7.
(17) Caso Libertel, cit., punto 54.
(18) Ibid., punto 55.
(19) E v stato infatti rilevato che « [...] le questioni relative all’interpretazione
dell’art. 3, n. 3, prima frase della direttiva devono essere risolte nel senso che [...] esso
non ammette che la nozione di carattere distintivo differisca a seconda dell’interesse
percepito a mantenere il nome geografico disponibile per l’uso di altre imprese »
(Windsurfing, cit., punto 54). Anche se il caso riguardava le indicazioni geografiche
tale affermazione può tranquillamente estendersi a tutti i segni originariamente privi
di capacità distintiva di cui alle lettere b), c) e d) richiamate dall’art. 3, n. 3.
542 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

sapere se la tutela di tali marchi può essere condizionata dalla sussi-


stenza di un interesse generale a utilizzarli liberamente.
La Corte sembra fornire una risposta affermativa solo nel caso di se-
gni descrittivi e solo nei limiti di quanto previsto dalla legge all’art. 6, n.
1, lett. b) della direttiva che riflette tale interesse.
Poiché le tre strisce della Adidas difficilmente possono ritenersi se-
gni o indicazioni descrittivi dei capi di abbigliamento che contraddistin-
guono, non esistono ragioni di interesse generale che consentano di limi-
tarne la tutela contro l’uso da parte di terzi; tutela che dovrà dunque es-
sere valutata alla stregua dell’art. 5 della direttiva.
Questa interpretazione, che è sicuramente in linea con il sistema
normativo comunitario, lascia comunque spazio a qualche spunto di ri-
flessione.
Si riscontra infatti una tendenza diffusa a cercare la registrazione di
segni ornamentali come marchi (si pensi ad esempio alle particolari cu-
citure delle tasche dei jeans) (20). L’unica barriera alla registrazione in
questi casi è costituita dalla mancanza di capacità distintiva. Difficil-
mente, infatti, tali segni potranno inizialmente essere percepiti come se-
gni distintivi. Tuttavia, nulla osta che, come nel caso di specie, gli stessi
acquistino un secondary meaning rispetto a quello di mero ornamento e
vengano percepiti dal pubblico come segni distintivi dei prodotti che
contraddistinguono. Ciò si verifica in particolare quando i segni vengono
utilizzati da imprese di grandi dimensioni che possono, attraverso la loro
capillare presenza sui mercati anche di più paesi, e attraverso una mas-
siccia campagna pubblicitaria, accreditare il segno presso il pubblico e
registrarlo come marchio, creando un monopolio che si estende all’uso di
qualsiasi segno simile da parte di terzi. Indumenti con due strisce paral-
lele, di colore contrastante e che corrono lungo i fianchi, sono in commer-
cio da molti anni e probabilmente da prima che la Adidas registrasse il
proprio marchio a tre strisce (21). Il fatto che la Adidas sia riuscita ad
accreditare il proprio marchio a tre strisce in relazione a capi di abbiglia-
mento sportivo comporta che, salvo per coloro che possono vantare un
preuso, nessuno potrà più utilizzare due strisce — e verosimilmente
neanche una — con le stesse caratteristiche.
Nonostante possano esistere ragioni di interesse generale alla libera
disponibilità di strisce parallele lateralmente applicate a indumenti spor-
tivi, infatti, queste non sembrano trovare spazio nella normativa comu-
nitaria. Una volta che un segno ha acquistato capacità distintiva, il legi-
slatore comunitario — e con esso i giudici della Corte — hanno deciso di
far prevalere l’interesse del titolare alla sua tutela come marchio piutto-

(20) Come la cucitura a « gabbiano » oggetto della decisione Levi Strauss, cit.,
o come quella raffigurata in un articolo di MORRI, in questa Rivista, 2006, I, p. 276,
oggetto di registrazione come marchio comunitario.
(21) Ciò è quanto sostengono le concorrenti di Adidas. In ogni caso è da tempo
immemore che motivi simili vengono applicati sugli indumenti (si pensi ad esempio
alle divise di alcuni pubblici ufficiali).
II. - Giurisprudenza comunitaria e dell’ufficio europeo dei brevetti 543

sto che l’interesse generale alla libera utilizzabilità di segni uguali o si-
mili.
Resta da chiedersi se tale sistema normativo, nel tracciare un bilan-
ciamento tra interessi contrapposti, abbia effettivamente tenuto conto
del notevole incremento di registrazioni per tutti i segni diversi da quelli
denominativi contenuti nell’elenco di cui all’art. 2 della direttiva, e della
realtà imprenditoriale contemporanea. Se è vero che la giurisprudenza
comunitaria ha limitato la registrazione dei segni atipici, in particolare
costituiti dalla forma del prodotto, richiedendo che gli stessi vengano
percepiti dal pubblico in funzione distintiva, è anche vero che le grandi
imprese dispongono dei mezzi economici necessari per ottenere tale risul-
tato attraverso l’uso del segno idoneo a conferirgli capacità distintiva. E v
stato non a caso rilevato (22) che il problema del monopolio conferito
dalla registrazione come marchio è oggi più attuale che mai e dipende da
un insieme di fattori: in primo luogo perché il concetto di ciò che può
costituire valido marchio si è esteso alle forme, ai colori, alle lettere, ai
numeri e perfino ai suoni e agli odori; in secondo luogo perché la possi-
bilità di registrare un marchio comunitario valido in tutto il territorio
dell’Unione Europea aumenta i potenziali rischi legati alla indisponibi-
lità dei segni da parte di altri operatori; in terzo luogo per via delle di-
sparità tra le multinazionali e le piccole e medie imprese e, infine, per via
dei costi della giustizia che operano come deterrente per molte imprese
che, nell’incertezza sul legittimo uso di un determinato segno, preferi-
scono non correre il rischio di sfruttarlo per evitare l’azione del titolare
di un marchio simile.
GAIA SALOM
Dottore in giurisprudenza

(22) KEELING, op. cit., p. 147-148.


544 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

DECISION OF THE ENLARGED BOARD OF APPEAL


25 November 2008

Brevetto europeo - Interpretazione - Liceità dell’invenzione - Direttiva CE sulla


protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche - Rapporti tra le camere di
ricorso dell’ufficio europeo dei brevetti e la Corte di Giustizia - Uso di cellule sta-
minali derivate dall’embrione umano.

Le camere di ricorso dell’ufficio europeo dei brevetti non costituiscono una giu-
risdizione nazionale ma fanno parte di una organizzazione internazionale chiamata
ad applicare le regole della Convenzione di Monaco che le ha istituite.
Le camere di ricorso non hanno il potere di rimettere questioni pregiudiziali
alla Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 134 del Trattato CE, anche se debbono inter-
pretare norme convenzionali che recepiscono il diritto comunitario (quale la Diret-
tiva 98/44/CE sulla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche).
Quando si debba valutare della liceità dell’invenzione, la domanda di brevetto
europeo va interpretata nel suo insieme e per il modo in cui verrà attuata allorché
sia coinvolto lo sfruttamento di tecnonologie per fini non eticamente accettabili.
La domanda di brevetto che — pur senza far menzione del metodo — presup-
ponga per l’ottenimento del prodotto rivendicato (cultura cellulare) l’utilizzo come
materiale di partenza di cellule staminali embrionali umane implicandone la distru-
zione, contravviene alla “moral clause” contenuta nell’art. 53 della Convenzione di
Monaco ed alla regola 23 D sub C del regolamento di esecuzione (28 sub C EPC
2000) che della prima costituisce specificazione e si applica anche ai casi pendenti
prima dela sua entrata in vigore (1o settembre 1999).
I progressi tecnici divenuti pubblicamente disponibili dopo la data di deposito
della domanda e che prevedano l’impiego di metodi innocui non possono essere presi
in considerazione nella procedura di rilascio per le ragioni di certezza del diritto e di
affidamento dei terzi (*).

SUMMARY OF FACTS AND SUBMISSIONS

I. In its decision T 1374/04 (OJ EPO 2007, 313) Stem cells/WARF, Tech-
nical Board of Appeal 3.3.08 referred the following points of law to the Enlarged
Board of Appeal:

(*) Pubblichiamo qui questa importante decisione della Enlarged Board of


Appeal dell’Ufficio brevetti di Monaco sulla (non) brevettabilità delle cellule stami-
nali. Il caso Warf (Wisconsin Alumni Research Foundation) ha avuto ampio eco nella
stampa quotidiana. La domanda di brevetto esaminata riguardava la preparazione di
una cultura di cellule staminali embrionali. Siamo lieti di pubblicare il testo integrale
della decisione, accompagnandola con una nota del dott. Massimo Scuffi.
Massimo Scuffi ha altresì curato la redazione delle massime, e anche per questo
lo ringraziamo.
II. - Giurisprudenza comunitaria e dell’ufficio europeo dei brevetti 545

1. Does Rule 23d(c) [now 28(c)] EPC apply to an application filed before the
entry into force , of the rule?
2. If the answer to question 1 is yes, does Rule 23d(c) [now 28(c)] EPC for-
bid the patenting of claims directed to products (here: human embryonic stem cell;
cultures) which — as described in the application — at the filing date could be pre-
pared exclusively by a method which necessarily involved the destruçtion, of the hu-
man embryos from which the said products are derived, if the said method is not part
of the claims?
3. If the answer to question 1 or 2 is no, does Article 53(a) EPC forbid paten-
ting such claims?
4. In the context of questions 2 and 3, is it of relevance that after the filing
date the same products could be obtained without having to recur to a.method
necessarily involving the destruction of human embryos (here: eg derivation
from available human embryonic cell lines)?
(To facilitate understanding, hereinafter the Rules of the Implementing Re-
gulations to the European Patent Convention are cited as numbered according
to the amended Implementing Regulations to the European Patent Convention
which entered into force on 13 December 2007, with the old numbering given in
brackets, except when quoting decisions, legislation or the referral questions).

II. The appeal pending before the referring Board 3.3.08 is against the de-
cision of 13 July 2004 of the Examining Division, refusing European patent ap-
plication No. 96 903 521.1. This decision related to a set of claims 1 to 10 of
which Claim 1 reads:
« 1. A cell culture comprising primate embryonic stem cells which (i) are ca-
pable of proliferation in vitro [sic] culture for over one year, (ii) maintain a
karyotype in which all chromosomes normally characteristic of the primate species
are present and are not noticeably altered through culture for. over one year, (iii)
maintain the potential to differentiate to derivatives of endoderm, mesoderm, and
ectoderm tissues throughout the culture, and (iv) are prevented from differentiating
when cultured on a fibroblast feeder layer ».

III. The Examining Division refused the application under Article 97(1)
EPC 1973 for the reason that claims 1 to 7, 9 and 10 did not comply with the
requirements of Article 53(a) EPC 1973 in conjunction with Rule 23d(c) [now
28(c)] EPC, because, as regards the generation of human embryonic stem cell
cultures, the use of human embryos as starting material was described in the ap-
plication as originally filed as being indispensable. The use of a human embryo
as starting material for the generation of a product of industrial application (ie
the claimed embryonic stem cell cultures) meant a use thereof for industrial pur-
poses within the meaning of Rule 23d(c) [now 28(c)] EPC and was thus prohibi-
ted under the said provision in conjunction with Article 53(a) EPC 1973: The
provisions of Rule 23d(c) [now 28(c)] EPC in conjunction with Article 53(a) EPC
1973 were not directed exclusively to the claimed subject-matter but rather con-
cerned inventions, thus including all aspects that made the claimed subject-mat-
ter available to the public. The description provided only one source of starting
cells, namely a pre-implantation embryo. It was therefore irrelevant that the
546 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

claimed subject-matter related to cell cultures and not to a method of produc-


tion of said cultures.

IV. Board of Appeal 3.3.08 considered the question of the patentability of


human embryonic stem cells and of the conditions therefor as being an outstan-
dingly important point of law within the meaning of Article 112(1)(a) EPC for
which a decision by the Enlarged Board of Appeal is required.

V. The Enlarged Board of Appeal asked the President of the European


Patent Office (hereinafter “EPO”) to comment on the case, and also issued an
invitation for third parties to file comments. On 20 March 2008 the Enlarged
Board of Appeal sent a summons to attend oral proceedings accompanied by a
communication drawing attention to some legal issues that seemed of potential
significance.

VI. The main points submitted by the Appellant in written submissions of


31 October 2006 and 22 May 2008, and at the oral proceedings on 24 June 2008
can be summarized as follows:

Introductory comment:

— In 1998 the named inventor using the methods suggested in the applica-
tion was the first to successfully isolate and culture human embryonic stem cells
that can grow in vitro. The provision of these is a major scientific breakthrough
and pioneering invention opening up a new and very exciting field of research
having great potential. for promising medical therapies and other . applications,
and worthy of patent protection.

Relating to a reference to the European Court of justice (hereinafter Ear):

— Since Rule 28(c) (formerly 23d(c)) EPC repeats the wording of Article
6(2)(c) of the Directive 98/44/EC of 6 July 1998 (hereinafter “the Directive”), the
Enlarged Board of Appeal in interpreting Rule 28(c) (formerly 23d(c)) EPC is in-
terpreting the law of the European Union (hereinafter “EU”) and is required by
Article 234 of the Consolidated Version of the Treaty establishing the European
Community in force since 1 February 2003 under the Treaty of Nice signed 26
February 2001 (hereinafter “EC Treaty”), as a court or tribunal of a member
state against whose decision there is no judicial remedy to ask for a ruling by the
ECJ, in the present situation where the interpretation of Article 6(2)(c) of the
Directive is not free of doubt (i.e. not acte clair).
— The Enlarged Board of Appeal meets the ECJ criteria of being a court
or tribunal, and ECJ Case C-337/95, (“Dior v. Dvora”) is a precedent for a court
under an: international treaty and having jurisdiction for more than a single EU
member state asking for a ruling: Further the vast majority of EPC states are.
Member States of the EU and the Enlarged Board of Appeal sits in such a state.
II. - Giurisprudenza comunitaria e dell’ufficio europeo dei brevetti 547

— Not asking the ECJ for a ruling now, bears the risk that national courts
will subsequently apply (and be obliged to apply) an interpretation of Article 6
of the Directive which does not accord with that applied by the EPO.

Relating to question 1:

— Rule 28(c) (formerly 23d(c)) EPC applies to pending European patent


applications filed before its entry into force. It does not change the law, nor ren-
der immoral that which formerly was not, nor seek to define new classes of acts
which are contrary to ordre public.

Relating to questions 2 and 3:

— The prohibition of Rule 28(c) (formerly 23d(c)) EPC must be interpre-


ted in the context of Article 53(a) EPC and Article 27(2) of the Agreement on
Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights (hereinafter “TRIPS
Agreement”) as only applicable where the commercial exploitation of the inven-
tion is contrary to ordre public or morality. The forbidden exploitation must be
something contravening the underlying legal principles of all contracting states.
— The correct approach to Rule 28(c) (formerly 23d(c)) EPC is to identify
the claimed monopoly and ask whether that monopoly embraces the “use of an
embryo for an industrial or commercial purpose”. A claim to an embryonic stem
cell is not a monopoly to “the use of an embryo” still less to “the Use of an em-
bryo for an industrial or commercial purpose”. At most an embryonic stem cell
is a product which ultimately was derived from an embryo. As there is no con-
stitutional tradition common to member states that a pre-14 day embryo should
not be used for stem cell research (which itself is not contrary to such unitary
values, nor outlawed by international treaty) there is no reason to forbid paten-
ting of a use involving extracting some cells from a pre-embryo (that is one less
than 14 days old in accordance with usage in the medical field) as suggested in
the application. The obtaining of a cell from the inner cell mass of an embryo to
start a stem cell line with which to embark upon pioneering therapy is not in any
real sense performing an industrial or commercial act.
— Had the Directive sought to exclude acts which fall outside the mono-
poly claimed but which may be preparatory to working an invention alternative
words could and would have been used. In particular if the Directive was inten-
ded, to exclude from patentability products derived from human embryos it
would have explicitly said so. Thus some uses of embryos, for example in patents
which were not directly aimed at industrial and commercial purposes but were
directed at pioneering therapies, are not to be excluded from patentability. Such
a construction of Rule 28(c) (formerly 23d(c)) EPC is consistent with the mi-
schief to which objection is taken; being the commercialisation of embryos them-
selves, in distinction to tissues or cells derived from embryos.
— The question of the patentability of processes relating to embryos was
first raised in the Opinion No 9 of the Group of Advisers on, the Ethical Impli-
cations of Biotechnology to the European Commission (GAEIB) in a report of
548 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

28 May 1997 who expressed concern about human cloning, but no desire to ham-
per therapeutic stem cell research. In the light of this opinion it was proposed
there should be a prohibition against the patenting of “methods in which human
embryos are used”. This provision was modified by the Council of Ministers to its
present wording relating to prohibiting patenting of “uses of human embryos for
industrial or commercial purposes”. The change was influenced by UK govern-
ment submissions based on UK legislative provision for licences to be granted for
the use of pre-14 day embryos for research or the treatment of disease. The
words “uses of human embryos for industrial and commercial purposes” in the
Directive are, in the light of the UK’s position, seeking to identify a class of
unacceptable uses on the one hand which contrasts with a class of acceptable
uses on the other. That negotiations at highest level within the EU were invol-
ved, means that the use of the words “industrial and commercial” in Article
6(2)(c) of the Directive cannot be treated merely as a reference to the pre-requi-
site for any patent of there being “industrial applicability”.

Relating to question 4:

— That technical developments after the date of application might allow


the claimed subject matter to be made by a method not involving the use of any
embryos is irrelevant. The use of embryos in the present case is anyway outside
the prohibition of Rule 28(c) (formerly 23d(c)) EPC.

VII. The main points made on behalf of the President of the European
Patent Office in writing and at the oral proceedings can be summarized as fol-
lows.

Relating to a reference to the ECJ:

— The Boards of Appeal of the EPO are not courts or tribunals of a mem-
ber state of the EU, and there is no power under the EPC for a Board of Appeal
to refer questions to the ECJ.

Relating to question 1:

— Rule 28(c) (formerly 23d(c)) EPC has immediate effect and applies to
European patent applications filed before its entry into force. The principle of
legitimate expectations and/or acquired rights cannot be extended to the point
of preventing this rule from applying to the future effects of situations which
arose under earlier rules.

Relating to question 2:

— The ratio legis of Rule 28(c) (formerly 23d(c)) EPC is the prohibition of
misuses or the commodification of embryos.
II. - Giurisprudenza comunitaria e dell’ufficio europeo dei brevetti 549

— The relevant question for the patenting prohibition enshrined in Rule


28(c) (formerly 23d(c)) EPC is whether the technical contribution to the prior
art, which is to be determined on the basis of the relevant disclosure, amounts
to uses of human embryos for industrial or commercial purposes. The claim ca-
tegory per se is irrelevant. Hence, where the skilled person wishing to perform or
reproduce the invention cannot succeed unless he follows the steps of some spe-
cific technical means or methods disclosed in the application which form an in-
tegral part of the technical contribution to the prior art, those technical means
or methods are to be taken into consideration for the purposes of Rule 28(c)
(formerly 23d(c))EPC.
— The exception to Rule 28(c) (formerly 23d(c)) EPC, stipulated in Reci-
tal 42 of the Directive should apply in any case where it can be established from
the relevant invention that it serves a therapeutic or diagnostic purpose for the
used embryo. Usefulness to the individual embryo presupposes that the used
embryo is still in existence and is not irreversibly destroyed.
— That the legislator used the term “embryo” without giving any Precise
definition of it, was deliberate, and means that “embryo” should not be interpre-
ted in any specially restricted sense.

Relating to question 3:

— In situations where Rule 28(c) (formerly 23d(c)) EPC is applicable, the


legislator has predetermined a genuine European ordre public and morality, in
substance and in time, falling under Article 53(a) EPC, which is binding on’the
relevant departments of the EPO.

VIII. Numerous submissions were made by third parties, of which some


were made in identical form by hundreds of individuals. Points made therein in-
cluded the following:

Relating to question 1:

— The large majority considered that Rule 28(c) (formerly 23d(c)) EPC
was applicable also to applications pending at the date of its introduction, but
the opinion was also expressed that it amounted to a change in law which should
only be applicable to applications filed after its. introduction.

Relating to question 2:

In favour of patenting it was submitted:


— that there should be no prohibition of patenting if the use of a human
embryo was not mentioned in the claims.
— that the potential benefit to humanity should lead to a restrictive inter-
pretation of Rule 28(c) (formerly 23d(c)) EPC, so that patenting should be pos-
sible in this case.
550 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

Against patenting it was submitted


— that it was not relevant that the use of a human embryo was not expli-
citly in the claim: if the use of human embryos was necessary to put into prac-
tice a claimed invention such a claim fell within the prohibition, otherwise a cir-
cumvention of the prohibition would be easy.
— that the clear intention of the legislator was to prevent the commercia-
lization of embryos. Both the clear intention of the legislator and general moral
and ethical considerations prohibited patenting of uses of embryos which would
lead to their commercial exploitation.

IX. Oral proceedings took place on 24 June 2008. For the Appellant the
representatives requested to answer
question 1 of the referral with: yes;
question 2 of the referral with: no;
question 3 of the referral with: no;
question 4 of the referral with: no.
It was also requested that the Enlarged Board refer to the European Court
of Justice the following questions:
1. Under Article 6(2)(c) of Directive 98/44/EC of 6th July 1998 is a Member
State permitted to forbid the patenting of claims directed to products (here: hu-
man embryonic stem cell cultures) which — as described in the application — at
the filing date could be prepared exclusively by a method which necessarily in-
volved the destruction of the human embryos from which the said products are
derived, if the said method is not part of the claims?
2. If the answer to question 1 is no, does Article 6(1) of the Directive mean
a Member State is permitted to forbid patenting such claims?

X. At the end of the oral proceedings, the Chairman closed the debate and
announced that the decision would be given in writing.

REASONS FOR THE DECISION

Admissibility

1. The Enlarged Board of Appeal is satisfied that answers to at least refer-


red Questions l and 2 are necessary for the referring Board to dispose of the ap-
peal before it on the correct legal basis. The referral is thus admissible.

Referral for a preliminary ruling by the European Court of Justice

2. Since the Appellant is seeking referral of questions to the ECJ on the


argument that since. Rule 28(c) (formerly 23d(c)) EPC repeats the wording of
Article 6(2)(c).of the Directive, the Enlarged’Board of Appeal in interpreting
Rule 28(c) (formerly 23d(c)) EPC is interpreting European Union law and should
II. - Giurisprudenza comunitaria e dell’ufficio europeo dei brevetti 551

refer the question of interpretation to the ECJ; it is convenient to deal with this
as a preliminary point.
3. Neither the EPC nor the Implementing Regulations thereto make any
provision for a referral by any instance of the EPO of questions of law to the
ECJ. The Boards of Appeal are a creation of the EPC, and their powers are limi-
ted to those given in the EPC. Prima facie the conclusion must be that the ab-
sence of any provision enabling such a referral makes such referral impossible.
4. Nor does Article 234 of the EC Treaty giving the ECJ jurisdiction to
give preliminary rulings concerning inter alia the validity and interpretation of
acts of the institutions of the European Community, such as the Directive, ap-
pear to provide any basis for a Board of Appeal of the EPO to request the’ECJ
to give a ruling on any questions before such Board of Appeal.
Article 234 of the EC Treaty requires the question to be raised in a case
pending before a court or tribunal of an EU member state. Whereas EPO Boards
of Appeal have been recognized as being courts or tribunals, they are not courts
or tribunals of an EU member state but of an international organization whose
contracting states are not all members of the EU:
5. The Administrative Council of the EPO as legislator responsible for the
Implementing Regulations found it necessary to introduce what are now Rules
26 to 29 (formerly 23b to 23e) EPC so that the provisions of the EPC correspond
to those of the Directive. Thereby all Contracting States to the E u PC, even those
not members of the EU, have indicated their will that these rules be used to in-
terpret the EPC when considering whether or not a European patent should be
granted. But this cannot be taken as conferring some new power or imposing
some new obligation on the Boards of Appeal to ask for an interpretation by the
ECJ of the EPC or its Implementing Regulations. Certainly the Contracting
States to the EPC which are not member states of the EU cannot be presumed
to have conferred jurisdiction on the ECJ.
6. The mere identity of the wording of Rule 28(c) (formerly 23d(c)) EPC
and of Article 6(2)(c) of the Directive cannot lead to the conclusion that the ECJ
now has jurisdiction to.decide matters for the EPO under the EPC. The Boards
of Appeal apply the provision because it is law under a specific Rule of the Im-
plementing Regulations to the EPC, and not because the Directive is a source of
law to be applied directly. This is corroborated by the fact that Rule 26(1) (for-
merly 23b(1)). EPC only states that the Directive shall be used as a supplemen-
tary means of interpretation of Rules 26 to 29 formerly 23b to 23e) EPC.
7. Article 23(3) EPC provides that in their decisions the members of the
Boards shall not be bound by any instructions and shall comply only with the
provisions. of this Convention. While Article 23(3) EPC is in its present form, the
Enlarged Board concludes that neither it, nor any Board of Appeal of the EPO,
has the power to bind itself to follow a ruling of the ECJ on the interpretation of
Article 6(2)(c) of the Directive and apply this to Rule 28(c) (formerly 23d(c))
EPC.
8. The Enlarged Board has not been made aware of any precedent for
asking the ECJ for a consultative opinion and it must be questionable whether
the ECJ would entertain such a request in a situation where it would be unclear
as to who would be entitled to make submissions to the ECJ on any questions
submitted.
552 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

9. The Appellant seeks to rely on ECJ Case C-337/95 (“Dior v. Evora”) on


the basis that the situation of the Benelux Court being allowed to make referen-
ces to the ECJ in relation to matters referred to it by the highest courts of Bel-
gium, the Netherlands and Luxembourg suggested a precedent for a referral by
the Enlarged Board to the ECJ. Closer consideration destroys this as a suitable
precedent. If the Enlarged Board can make a referral under Article 234 of the
EC Treaty to the ECJ, then this possibility would also have to apply to each of
the EPO Boards of Appeal, because against their decisions too there is no appeal,
and a referral to the Enlarged Board by them is optional. The position of a
Board of Appeal cannot be compared to that of one of the highest courts of Bel-
gium, the Netherlands and Luxembourg, each of which is clearly a national court
of an EU member state entitled to make a referral to the ECJ. The referral in
Dior v. Evora was by the Netherlands Hoge Raad, which took it as a premise
that either it or the Benelux Court could make a reference to the ECJ but
wished to know whether it was obliged itself to make a reference or could leave
it to the Benelux Court as the highest court for matters governed by the Bene-
lux treaty. Further the latter is a special treaty set up with permission of the
European Community authorities as a regional treaty. The Benelux Court is
composed of three judges from each of the highest courts of Belgium, the
Netherlands and Luxembourg, and this position as a national judge is a require-
ment for being a member of the Benelux Court. The Benelux Court can thus be
considered in relation to matters for which it has jurisdiction under the Benelux
treaty as the highest national court of each of these three EU states. In contrast
to this, some or possibly even all the members of a Board of Appeal might not
even be nationals of an EU state. The Enlarged Board of Appeal is unable to de-
duce from Dior v. Evora anything suggesting that the ECJ Would regard a refe-
rence by an EPO Board of Appeal as permissible under Article 234 of the EC
Treaty.
10. That the seat of the EPO Boards of Appeal is in a member state of the
EU, Germany, cannot alter their status as part of an international organisation
with jurisdiction conferred under the EPC. The EPO Boards of Appeal, are not
and have never been treated as courts or tribunals of their host country.
11. For the above reasons the Enlarged Board concludes that it has no
power to ask the ECJ for a preliminary ruling under the existing provisions of
the EPC, so that the request for referral of the questions for a preliminary ru-
ling by the European Court of Justice must be refused as inadmissible.

Q1. Does Rule 23d (c) [now 28(c)]. EPC apply to an application filed be-
fore the entry into force of the rule?

12. By its decision of 16 June 1999, the Administrative Council of the EPO
inserted a new Chapter VI (now V) entitled “Biotechnological inventions” into
Part II of the EPC Implementing Regulations. These new provisions entered
into force on 1 September 1999, thus transposing the Directive on the legal pro-
tection of biotechnological inventions into the European Patent law Rule 26(1)
(formerly 23b(1)) EPC expressly provides that the relevant provisions of the
Convention shall be applied to European patent applications and patents concer-
II. - Giurisprudenza comunitaria e dell’ufficio europeo dei brevetti 553

ning biotechnological inventions in accordance with the provision of this new


chapter, and that the. Directive shall be used as a supplementary means of in-
terpretation. No transitional provisions for pending cases were adopted. Rule 28
(formerly 23d) EPC on “Exceptions to patentability” expressly refers to Article
53(a) EPC.
13. The introduction of this new chapter without any transitional provi-
sions, can only betaken as meaning that this detailed guidance on what was pa-
tentable and unpatentable, was to be applied as a whole to all then pending ap-
plications. It has not been argued that Rule 28 (formerly 23d) EPC took away
the possibility to patent anything which had previously been regarded as paten-
table under Article 53(a) EPC, nor that the Directive did so (see in this respect
the reference in Art. 6(1) to what is contained in Article 53(a) EPC as Well as the
reference to the TRIPS Agreement in Article 1(2)). Already by 1984 (see Dolder,
Mitteilungen der Deutschen Patentanwälte, 1984, 1, “Barriers to patentability of
biotechnological inventions under the EPC”), instrumentalization of the human
body (as opposed to parts of it), thus degrading it to an object of technology, had
been considered as a barrier to patentability. There is no indication that the
commercial exploitation of human embryos was ever regarded as patentable.
14. In view of the above, the answer to referred Question 1 must be that
Rule 28(c)(formerly 23d(c)) EPC applies to all pending applications, even those
filed before the entry into force of the rule. As the Appellant itself agrees with
this answer, as does the President of the EPO and the vast majority of the ami-
cus curiae briefs, nothing more need be said.

Q2. If the answer to question 1 is yes, does Rule 23d(c) [now 28(c)] EPC
forbid the patenting of claims directed to products (here: human embryonic stem cell
cultures) which — as described in the; application — at the filing date could be pre-
pared exclusively by a method which necessarily involved the destruction of the hu-
man embryos, from which the said products are derived, if the said method is not part
of the claims?

15. The present invention concerns inter alia human embryonic stem cell
cultures which at the filing date could be prepared exclusively by a method
which, necessarily involved the destruction of the human embryos from which
they are derived, said method not being part of the claims. Rule 28 (formerly
23d) EPC provides, inter alia: “Under Article 53(a), European patents shall not
be granted in respect of biotechnological inventions which, in particular, concern
... (c) uses of human embryos for industrial or commercial purposes”. The que-
stion thus is whether the present invention falls under the prohibition of this
provision.
16. When looking at the travaux préparatoires relating to the introduction
of Rules 26 to 29 (formerly 23b to e) EPC, it becomes apparent that the aim was
to align the EPC to the Directive. This follows from the Notice dated 1 July 1999
concerning the amendment of the Implementing Regulations to the European
Patent Convention (OJ 1999, 575) and is also evidenced by the fact that, accor-
ding to Rule 26(1) (formerly 23b(1)) EPC, the Directive shall be used as a sup-
plementary means of interpretation. Therefore, the Enlarged Board of Appeal
554 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

turns to the interpretation of Article 6(2) of the Directive, which corresponds to


Rule 28 (formerly 23d) EPC. Although the Directive is not a treaty, the Enlar-
ged Board of Appeal will, in view of the reference in Rule 26(1) EPC just men-
tioned and in line, with the established case law (see eg G 5/83, OJ EPO 1985,
064, G 1/84, OJ 1985, 299, J 16/96, OJ 1998, 347) apply mutatis mutandis the ge-
neral rules laid down in the Vienna Convention on the Law of Treaties. It will
thus look at the ordinary meaning to be given to the terms of a provision in its
context and in the light of its object and purpose, including the preparatory do-
cuments.
17. The first drafts of the Directive did not contain any specific prohibi-
tion relating to the use of human embryos. In the Opinion by the Economic and
Social Committee of the European Parliament adopted on 11 July 1996 (Official
Journal of the EC of 7.10.96, pages C295/11-18) proposals were made to specifi-
cally exclude the human embryo from patentability (see section 4.3.2) and to in-
dicate the committee’s total opposition to practices involving the misuse of hu-
man embryos (see section 4.7.2). In the amended proposal for the Directive sub-
mitted by the Commission in 1997 (Official, Journal of the EC of 11.10.97 pages
C 311/12-30) there appears the following text:
Article 6
1. Inventions shall be considered unpatentable where their commercial
exploitation would be contrary to public policy or morality; however, exploita-
tion shall not be deemed contrary merely because it is prohibited by law or re-
gulation.
2. On the basis of paragraph 1, the following shall be considered unpaten-
table:
(a) ...
(b) ...
(c) methods in which human embryos are used;
(d) ...
Finally in the Common Position EC No 19/98 adopted by the Council on 26
February 1998 (Official Journal of the EC 8.4.98 C110/17), the text of Article
6(2)c was amended to read “uses of human embryos for industrial or commercial
purposes”. This is also the text of Article 6(2)(c) of the final version of the Direc-
tive that was adopted on,6 July 1998.
18. On its face, the provision of Article 6(2)(c) of the Directive and thus
also of Rule 28(c) (formerly 23d(c)) EPC is straightforward and prohibits the pa-
tenting if a human embryo is used for industrial or commercial purposes. Such a
reading is also in line with the concern of the legislator to prevent a misuse in
the sense of a commodification of human embryos (see the decision of the Ger-
man Bundespatentgericht (BPatG) of 5 December 2006, 3 Ni 42/04, point IV 2.2
i.f.) and with one of the essential objectives of the whole Directive to protect hu-
man dignity. This concern is also evidenced by the selective policy of the Com-
munity in funding stem cell research. The Appellant argues that the very fact
that the Community funds such research shows that the legislator did not want
to exclude activities such as those underlying the present invention and which
include the use (and destruction) of human embryos. However, Council press re-
lease 11554/06 (Presse 215) of 24 July 2006, states on page 7 that as regards, Re-
search “... the Commission confirmed that it will continue the current practice
II. - Giurisprudenza comunitaria e dell’ufficio europeo dei brevetti 555

and will not submit to the Regulatory Committee proposals for projects, which
include research activities which destroy human embryos, including for the pro-
curement of stem cells. The exclusion of funding for this step of research will not
prevent the Community funding of subsequent steps involving human embryo-
nic stem cells”. This selective funding in no way supports the Appellant’s posi-
tion.
19. Against a reading of Rule 28(c) (formerly 23d(c)) EPC being applica-
ble to the invention in this case, the Appellant has put forward several argu-
ments. Firstly it argues for a very specific meaning of embryo, as being embryos
of 14 days or older, in accordance with usage in the medical field.
20. Neither the EU legislator nor the EPC legislator have chosen to define
the term “embryo”, as used in the Directive or now in Rule 28 (formerly 23d)
EPC. This contrasts with the German law (Gesetz zum Schutz von Embryonen
of 13 December 1990, § 8) where embryo is defined as including a fertilized egg,
or the UK law (Human Fertilisation and Embryology Act 1990, Section 1(1))
where embryo includes the two cell zygote and an egg in the process of fertilisa-
tion. The EU and the EPC legislators must presumably have been aware of the
definitions used in national laws on regulating embryos, and yet chose to leave
the term undefined. Given the purpose to protect human dignity and prevent the
commercialization of embryos, the Enlarged Board can only presume that “em-
bryo” was not to be given any restrictive meaning in Rule 28 (formerly 23d)
EPC, as to do so would undermine the intention of the legislator, and that what
is an embryo is a question of fact in the context of any particular patent appli-
cation.
21. Secondly the Appellant contends that, in order to fall under the prohi-
bition of Rule 28(c) (formerly 23d(c)) EPC, the use of human embryos must be
claimed.
22. However, this Rule (as well as the corresponding provision of the Di-
rective) does not mention claims, but refers to “invention” in the context of its
exploitation. What needs to be looked at is not just the explicit wording of the
claims but the technical teaching of the application as a whole as to how the in-
vention is to be performed. Before human embryonic stem cell cultures can be
used they have to be made. Since in the case referred to the Enlarged Board the
only teaching of how to perform the invention to make human embryonic stem
cell cultures is the use (involving their destruction) of human embryos, this in-
vention falls under the prohibition of Rule 28(c) (formerly 23d(c)) EPC (compare
also the decision of the BPatG of 5 December 2006, loc. cit., points IV 2.1 to 2.3).
To restrict the application of Rule 28(c) (formerly 23d(c)) EPC to what an ap-
plicant chooses explicitly to, put in his claim would have the undesirable conse-
quence of making avoidance of the patenting prohibition merely a matter of cle-
ver and skilful drafting of such claim.
23. In a case like the present one, where the teaching to obtain the em-
bryonic human stem cells claimed is confined to the use (involving their destruc-
tion) of human embryos, the argument raised by the Appellant, namely that the
exclusion from patentability would go much too far if one would consideròall the
steps preceding an invention for the purposes of Rule 28(c) (formerly 23d(c))
EPC, is not relevant.
24. The Appellant further argues that the use of human embryos to make
556 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

the claimed human embryonic stem cell cultures is not a use “for industrial or
commercial purposes”, as required by Rule 28(c) (formerly 23d(c)) EPC, but
some other form of use not prohibited by this Rule.
25. A claimed new and inventive product must first be made before it can
be used. Such making is the ordinary way commercially to exploit the claimed
invention and falls within the monopoly granted, as someone having a patent
application with a claim directed to this product has on the grant of the patent
the right to exclude others from making or using such product. Making the clai-
med product remains commercial or industrial exploitation of the invention even
where there is an intention to use that product for further research. On the facts
which this Board must assume in answering the referred question 2, making the
claimed product involves the destruction of human embryos. This use involving
destruction is thus an integral and essential part of the industrial or commercial
exploitation of the claimed invention, and thus violates the prohibition of Rule
28(c).(formerly 23d(c)) EPC.
26. In the context of the terms “for industrial or commercial purposes”
used in Rule 28 (formerly 23d) EPC and Article 6(2)c) of the Directive, the Ap-
pellant has also pointed to the legislative history of the Directive and argued.that
the replacement, of the terms “methods in which human embryos are used” by
“uses of human embryos for industrial, or commercial purposes” meant a nar-
rowing of the provision, excluding inventions such as the present one from its
scope.
27. However, this Board cannot detect such a narrowing. The reason given
in Point 37 of the Common Position for this amendment is that a distinction was
wanted between the uses of human embryos for industrial or commercial purpo-
ses, which were excluded from patentability, and inventions for therapeutic or
diagnostic purposes applied to the human embryo and useful to it, the latter not
being excluded from patentability. To clarify this exception from the exception,
a new Recital 42 was introduced into the Directive. Thus, if anything, these rea-
sons point in the direction of the opinion of this Board that in the present case
human embryos are used for industrial or commercial purposes, since patentabi-
lity was only considered if the invention was to the benefit of the embryo itself
(compare also decision of the BPatG of 5 December 2006, loc. cit., point IV 3).
That this is not the case here is evident, since the embryos used to perform the
invention are destroyed.
28. Addressing the relationship of Rule 28(c) (formerly 23d(c)) EPC to Ar-
ticle 53(a) EPC, the Appellant argues that, if the Rule is read to exclude inven-
tions such as the one underlying this case, the Rule would go beyond Article
53(a) EPC and thus be ultra vires (Article 164(2) EPC). By the same token, it
would also contravene Article 27 of the TRIPS Agreement, which in this area al-
lows only an exception to patentability within the scope of Article 53(a) EPC.
29. The Enlarged Board of Appeal does not share the opinion that such a
reading makes Rule 28(c) (formerly 23d(c)) EPC ultra vires. Article 53(a) EPC
excludes inventions from patentability if their commercial exploitation is against
ordre public or morality. Reference is made to points 25 to 27 where it has been
explained why this Board considers the performing of this invention as commer-
cial exploitation. In this context, it is important to point out that it is not the
fact of the patenting itself that is considered to be against ordre public or mora-
II. - Giurisprudenza comunitaria e dell’ufficio europeo dei brevetti 557

lity, but it is the performing of the invention, which includes a step (the use in-
volving its destruction of a human embryo) that has to be considered to contra-
vene those concepts.
30. It should be noted that the wording of Article 53(a) EPC now differs
slightly from the wording of Article 53(a) EPC 1973. Its text now reads « inven-
tions the commercial exploitation of which would be contrary to “ordre public”
or morality; such exploitation shall not to be deemed to be so contrary merely
because it is prohibited by law or regulation in some or all of the Contracting
States » with deletions compared to the EPC 1973 shown struck through and ad-
ditions in italics. The changes are not relevant to the issues considered in this
decision.
31. For the reasons given above, the Enlarged Board of Appeal comes to
the conclusion that the legislators (both the legislator of the Implementing Re-
gulations to the EPC and of the Directive) wanted to exclude inventions such as
the one underlying this referral from patentability and that in doing so, they
have remained: within the scope of Article 53(a) EPC and of the TRIPS Agree-
ment. In view of this result, it is not necessary nor indeed appropriate to discuss
further arguments and points of view put forward in these-proceedings such as
whether the standard of ordre public or morality should be a European one or
not, whether it matters if research in certain European countries involving the
destruction of human embryos to obtain stem cells is permitted, whether the be-
nefits of the invention for humanity should be balanced against the prejudice to
the embryo, or what the point in time is to assess ordre public or morality under
Article 53a EPC. The legislators have decided, remaining within the ambit of Ar-
ticle 53(a) EPC, and there is no room for manoeuvre.

Q3. If the answer to question 1 or 2 is no, does Article 53(a) EPC forbid pa-
tenting such claims?

32. Question 3 does not need answering, since the Enlarged Board has
held that Rule 28(c) (formerly 23d(c)) EPC is applicable, that it is within the
scope of Article 53(a) EPC, and that it forbids the patenting of products which
at the filing date could be prepared exclusively by a method necessarily involving
the destruction of human embryos from which said products are derived, so that
the answers to questions 1 and 2 is yes.

Q4. In the context of questions 2 and 3, is it of relevance that after the filing
date the same products could be obtained without having to recur to, a method neces-
sarily involving the destruction of human embryos (here: eg derivation from availa-
ble human embryonic cell lines)?

33. When assessing whether a claim contravenes Rule 28(c) (formerly


23d(c)) EPC, technical developments which became publicly available only after
the filing date cannot be taken into consideration. It cannot be relevant whether
later either the applicant himself or others made something further available
that would then have allowed the product to be made in an innocuous manner.
Similarly to the case of an invention which is insufficiently described in the ap-
558 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

plication as filed to be carried out, lack of any disclosure in the application as


filed putting the skilled person in possession of a way to carry out the invention
complying with Rule 28(c) (formerly 23d(c)) EPC cannot be cured by the occur-
rence of subsequent technical developments. Any other conclusion would lead to
legal uncertainty, and risk being to the detriment of any third party who later
provided an innocuous way to carry. out the invention.
34. Thus question 4 must be answered to the effect that it is not of rele-
vance that after the filing date the same products could be obtained without ha-
ving to recur to a method necessarily involving the destruction of human em-
bryos.
35. In view of the questions referred, this decision is not concerned with
the patentability in general of inventions relating to human stem cells or human
stem cell cultures. It holds unpatentable inventions concerning products (here:
human stem cell cultures) which can only be obtained’by the use involving their
destruction of human embryos.

ORDER

For thes reasons it is decided that:


1. The request for a preliminary ruling by the European Court of Justice on
the questions suggested is rejected as inadmissible.
2. The questions referred to the Enlarged Board of Appeal are answered as
follows:
Question 1: Rule 28(c) EPC (formerly Rule 23d(c) EPC) applies to all pen-
ding applications, including those filed before the entry into force of the rule.
Question 2: Rule 28(c) EPC (formerly Rule 23d(c) EPC) forbids the paten-
ting of claims directed to products which — as described in the application — at
the filing date could be prepared exclusively by a method which necessarily in-
volved the destruction of the human embryos from which the said products are
derived, even if the said method is not part of the claims.
Question 3: No answer is required since Questions 1 and 2 have been answe-
red with yes.
Question 4: In the context of the answer to Question 2 it is not of relevance
that after the filing date the same products could be obtained without having to
recur to a method necessarily involving the destruction of human embryos.

Il caso WARF e la tutela dell’embrione umano.

SOMMARIO: 1. La decisione della divisione d’esame dell’UEB. — 2. La


pronunzia interlocutoria della Technical Board. — 3. La decisione
dell’Enlarged Board: i rapporti con la Corte di giustizia. — 4. L’em-
brione umano ed il metodo di derivazione delle cellule staminali. —
5. Conclusioni.

1. La decisione della divisione d’esame dell’UEB.

In un momento in cui su discute in Italia di diritto all’eutanasia in


relazione a stati vegetativi permanenti e si aprono nuovi scenari nella ri-
II. - Giurisprudenza comunitaria e dell’ufficio europeo dei brevetti 559

cerca sulle staminali in USA, sul versante del diritto europeo dei brevetti
una importante decisione riafferma il divieto di manipolazione della vita
umana fin dal momento del concepimento.
La Wisconsin Alumni Resarch Foundation (WARF) a metà degli
anni 90 presentava domanda di brevetto europeo avente ad oggetto una
cultura cellulare comprendente cellule staminali embrionali di primate.
Come è noto, chi intende ottenere la privativa sui diritti derivanti
dalla propria scoperta su tutto il territorio dei paesi europei aderenti alla
Convenzione sul brevetto europeo (attualmente 34) deve ottenere dal-
l’Ufficio di Monaco il relativo brevetto che viene rilasciato dopo un at-
tento esame di novità e liceità dell’invenzione cui può seguire una fase
contenziosa avanti ad organi d’appello interni (Camere di ricorso) ad ini-
ziativa di chi si veda rigettare la domanda.
La ricerca nel campo delle biotecnologie richiede enormi investi-
menti che l’industria è in grado di affrontare solo ove possa vantare lo ius
excludendi alios grazie al brevetto ottenuto su quel trovato (prodotto o
procedimento) protetto da ogni possibile imitazione onde si spiega la ra-
gione per cui l’ottenimento della privativa sia obbiettivo perseguito con
grande tenacia dalle multinazionali di settore.
La divisione esaminatrice rifiutava il brevetto accertando che il tro-
vato permetteva la creazione anche di culture cellulari staminali embrio-
nali umane per ottenere le quali si rivelava indispensabile l’uso dell’em-
brione umano (fertilizzato in vitro) destinato ad essere impiegato come
materiale di partenza per la generazione di un prodotto di applicazione
industriale (appunto le culture cellulari rivendicate). E ciò era vietato
dall’art. 53 a della Convenzione escludente dalla brevettabilità le inven-
zioni la cui attuazione risulti contraria all’ordine pubblico od al buon costu-
me (1) e dalla regola 23d sub c del Regolamento di esecuzione (oggi 28 sub
c EPC 2000) indicante tra le eccezioni alla brevettabilità gli usi degli em-
brioni umani per finalità industriali o commerciali (2).
Gli esaminatori in particolare rimarcavano che il combinato dispo-
sto delle due norme non era rivolto esclusivamente all’oggetto rivendi-
cato ma all’invenzione nel suo complesso, inclusi tutti gli aspetti che la
rendevano disponibile al pubblico, restando cosı̀ irrilevante che non fosse
stato rivendicato il metodo di produzione.
Negavano inoltre che potesse applicarsi la “deroga” all’eccezione di
brevettabilità formulata nel considerando 42 della Direttiva sulla biotec-
nologie riguardante le invenzioni con finalità terapeutiche o diagnostiche
per l’utilità dell’embrione stesso, quella condizione non realizzandosi nella
fattispecie nonostante il potenziale beneficio che tali manipolazioni

(1) Analoga previsione è contenuta nell’art. 27.2 dell’Accordo TRIPs e nel-


l’art. 6.1 della Direttiva 98/44/CE del 6 luglio 1998 sulla protezione giuridica delle in-
venzioni biotecnologiche (inserita come nuovo capitolo nel regolamento di esecuzione
della CBE con decisione del Consiglio di amministrazione del 16 giugno 1999 in vigore
dal1o settembre 1999).
(2) Ibidem art. 6.2 lett. c della Direttiva sulle biotecnologie, cit.
560 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

avrebbero potuto portare allo sviluppo di sostanze per il trattamento


dell’infertilità.

2. La pronunzia interlocutoria della Technical Board.

Il provvedimento negativo degli esaminatori dell’Ufficio veniva im-


pugnato da WARF avanti alla Technical Board che — dopo aver preso
atto di alcune precisazioni emerse nella discussione orale ed in partico-
lare che alla data di deposito della domanda (filing date) la creazione
delle culture cellulari implicava necessariamente tecniche di distruzione
degli embrioni utilizzati nel processo — emetteva una pronunzia interlo-
cutoria.
Le Camere infatti — ove siano coinvolti important points of law —
possono rimettere la questione (d’ufficio o su richiesta di una delle parti
della procedura) ad una Camera “ampliata” (Enlarged Board of appeal)
costituita da membri tecnici e membri giuridici (3), chiamata a rendere
una decisione “vincolante” per la Camera che l’ha richiesta e « prece-
dente » destinato ad imporsi per l’avvenire.
Con decisione del 18 novembre 2005 (T 1374/04) venivano dunque
rivolti 4 quesiti alla Camera ampliata:
1. Se la regola 23d sub c era applicabile anche alle domande presen-
tate prima della sua entrata in vigore (1o settembre 1999);
2. Se tale regola impediva la brevettazione di rivendicazioni di pro-
dotti che per quanto descritto potevano essere ottenuti solo con la di-
struzione di embrioni umani anche se quel metodo non era rivendicato;
3. Se comunque la brevettabilità era da ritenersi esclusa alla luce
dell’art. 53 a della Convenzione sul brevetto europeo;
4. Se assumeva rilevanza il fatto dopo il deposito della domanda
fosse possibile ottenere le culture con metodi non necessariamente impli-
canti la distruzione degli embrioni umani.

3. La decisione dell’Enlarged Board: i rapporti con la Corte di giustizia.

A queste domande ha fornito risposta l’articolata decisione emessa


dalla Camera ampliata di ricorso il 25 novembre 2008 (G 2/06) che ha af-
frontato problematiche etiche di grande importanza e punti rilevanti an-
che sul piano ordinamentale e giurisdizionale.

(3) I membri dell’Enlarged Board sono designati per un periodo di 5 anni tra
i componenti delle singole Camere ma è prevista la partecipazione anche di giuristi
non permanenti (legally qualified members) provenienti dalle giurisdizioni e dalle au-
torità para-giurisdizionali degli Stati contraenti, nominati dal Consiglio di ammini-
strazione dell’UEB per un periodo rinnovabile di 3 anni e chiamati (a rotazione) ad
esprimere la loro opinione (pur continuando a svolgere il servizio nazionale) onde con-
tribuire all’armonizzazione del diritto brevettuale europeo (art. 11 EPC 2000 che ha
sostituito in via definitiva la norma « transitoria » dell’art. 160.2 della CBE).
II. - Giurisprudenza comunitaria e dell’ufficio europeo dei brevetti 561

Durante la discussione orale la difesa WARF aveva suggerito di ri-


mettere alla Corte di Giustizia tramite rinvio ex art. 234 del Trattato CE
la interpretazione sulla portata dell’art. 6.2 lett. c della Direttiva comu-
nitaria (priva di effetto “diretto”) la cui formulazione era ripetuta nel
regola 23d sub c del Regolamento CBE.
La richiesta è stata ritenuta inammissibile sul rilievo che le Camere
di ricorso dell’Ufficio Europeo non sono una “giurisdizione nazionale”
(ancorché abbiano sede in un paese comunitario) ma fanno parte di una
organizzazione internazionale partecipata anche da Stati contraenti non
membri dell’UE: di conseguenza non correva alcun obbligo o facoltà di
rivolgersi alla Corte di Giustizia tanto meno per richiedere — come nel
caso — una mera “consultative opinion” (4).
Né appariva pertinente la equiparazione delle Camere con la Corte
di giustizia del Benelux che — pur sovraordinata alle Corti nazionali de-
gli Stati partecipanti a quel Trattato regionale (Belgio, Olanda e Lussem-
burgo) — si trovava in posizione ad esse Corti comune essendo composta
dai giudici di più alto grado di ciascuno dei tre Stati e dunque fungendo
da organo di ultima istanza delle medesime Corti nazionali come tale
abilitato al rinvio pregiudiziale (5).
La situazione è profondamente diversa nell’organizzazione europea
del brevetti che presenta requisiti di “autonomia” dei suoi componenti
ed elementi di “estraneità ” rispetto all’Unione europea donde la risolu-
zione di eventuali questioni pregiudiziali demandata ai giudici del Lus-
semburgo non potrebbe sortire effetto “vincolante” per i paesi non co-
munitari.
Le Camere, del resto, non applicano il diritto comunitario ma uni-
camente il diritto della Convenzione di Monaco che le ha istituite ancor-
ché le sue regole siano da interpretare in linea con quelle comunitarie
colà recepite che non costituiscono — peraltro — fonte legislativa di ap-
plicazione diretta: tanto è vero che l’art. 23b del Regolamento (oggi 26
EPC 2000) stabilisce che la direttiva sulle biotecnologie vada utilizzata
solo come “mezzo integrativo” di interpretazione (supplementary mea-
nings of interpretation).

4. L’embrione umano ed il metodo di derivazione delle cellule staminali.

Dopo questa premessa la Camera allargata è passata a decidere la Ia


questione deliberando che — in difetto di disposizioni transitorie conte-
nute nel nuovo capitolo di Regolamento dedicato alle invenzioni biotec-
nologiche in vigore dal 1o settembre 1999 — le regole su ciò che fosse

(4) In termini sul legal status delle Camere di ricorso non identificabili in Corti
o Tribunali degli Stati membri già si era pronunzita — prima facie — la Technical
Board (T 276/99).
(5) Corte di Giustizia C-337/95 (Dior-Evora).
562 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

brevettabile e non in questo particolare settore andavano applicate a


tutte le domande pendenti anche precedenti a quella data (6).
Ma è nella risposta alla IIa questione che si rinviene il punto nodale
(e più atteso) della decisione.
La Camera ampliata — facendo richiamo alla Convenzione di
Vienna sulla legge dei trattati (che impone una lettura della norma nel
contesto in cui si inserisce ed alla luce degli obbiettivi che si propone) (7)
— ha inteso interpretare la voluntas del legislatore comunitario (ripresa
nel corpus normativo della CBE e del suo Regolamento) nel senso di
proibire qualsiasi “commodification” strumentale dell’embrione umano.
E
v stata ritenuta essere questa la filosofia di base ispirante la intera di-
rettiva sulle biotecnologie allorché nei “considerando” impone il rispetto
della dignità e integrità umana cui debbono sottostare le leggi brevet-
tuali nazionali e richiamando a sostegno la politica “selettiva” del-
l’Unione europea nel finanziamento della ricerca con riferimento al poli-
tical agreement raggiunto nel 2006 dal Consiglio UE secondo il quale non
sarebbero stati avallati progetti ove l’impiego di cellule staminali avesse
comportato la distruzione dell’embrione (8).
Non è stato operato alcun distinguo sulle fasi di sviluppo dell’em-
brione umano (termine questo rimasto “indefinito” sia nella direttiva sia
nel Regolamento ma insuscettibile di ricevere un significato “riduttivo”
visto il rilevato scopo di proteggere la dignità umana in ogni stadio con-
tro abusi e rischi di “mercificazione”) né sono state prese in considera-
zione quelle teorie volte a bypassare il “moral dilemma” sul rilievo che
solo ove fossero state coinvolte nel procedimento cellule staminali “fre-
sche” ed indifferenziate che si formano nei primi 14 giorni dal concepi-
mento (totipotenti) in grado di svilupparsi in qualsiasi tessuto si sarebbe
incontrato il generale divieto stabilito dall’art. 23e par. 1 del Regola-
mento (oggi art. 29 EPC 2000) che esclude dalla brevettabilità i vari
stadi di formazione e sviluppo del corpo umano; non invece l’utilizzo di
cellule più mature (pluripotenti) in grado di svilupparsi non nella tota-
lità dei tessuti o comunque solo in taluni di essi (multipotenti) e dunque
in teoria brevettabili come elementi isolati del corpo umano secondo la
regola dell’art. 23e par. 2 (9).

(6) Il principio affermato non è nuovo essendo già stato deciso che il “pac-
chetto” di regole sulle invenzioni biotecnologiche nella parte in cui si riferiva all’art.
53 a della CBE aveva natura interpretativa (Technical Board T 272/95) e comunque
che l’art. 23d del Regolamento andava applicato senza condizioni (Technical Board T
315/03).
(7) E v pacifico nella giurisprudenza delle Camere che le regole sulla interpreta-
zione dei trattati possono fornire una guida in questioni pertinenti l’interpretazione
della CBE (Enlarged Board G 2/02 e G 3/02).
(8) Anche il Parlamento europeo nell’Ottobre del 2005 aveva adottato una ri-
soluzione secondo la quale la creazione di cellule staminali implicante distruzione de-
gli embrioni umani costituiva violazione della direttiva.
(9) Cosı̀ GERMINARIO, The value of life: are human ESC patentable?, in Patent
World, June 2004.
II. - Giurisprudenza comunitaria e dell’ufficio europeo dei brevetti 563

E
v stato invece sottolineato che sia la regola 23d sub c sia la corri-
spondente disposizione della direttiva non facevano menzione di rivendi-
cazioni di sorta ma si riferivano all’invenzione nell’ambito del suo sfrut-
tamento, rimandando all’insegnamento tecnico contenuto nella domanda
di brevetto nel suo complesso e dunque anche al modo di sua realizza-
zione.
Da tanto derivando che — essendo l’uso (comportante la distru-
zione) dell’embrione umano l’unico insegnamento di come eseguire l’in-
venzione — essa inevitabilmente ricadeva nei divieto benché non fosse
stato rivendicato il metodo di produzione, posto che non era il fatto della
brevettabilità in se stessa a contravvenire alla “moral clause” quanto
piuttosto il compimento dell’invenzione medesima che includeva una
fase contraria ai principi dell’ordine pubblico e del buon costume.
Non è stata perciò ricercata alcuna scriminante tra uso “accetta-
bile” ed uso “inaccettabile” degli embrioni umani quale sarebbe stato —
nell’un caso — l’utilizzo dell’embrione per la derivazione di linee cellu-
lari al fine di ritrarre dalla sperimentazione terapie benefiche per alle-
viare le sofferenze umane; nell’altro la mera commercializzazione di or-
gani del corpo umano (ivi compresi gli embrioni).
La soluzione adottata sul punto è radicale, basandosi sulla distin-
zione normativa tra usi degli embrioni umani per scopi industriali e
commerciali (esclusi dalla brevettabilità) ed usi a fini terapeutici e dia-
gnostici a beneficio degli embrioni stessi (ammessi alla brevettabilità),
non necessitando tale conclusione la verifica di uno standard europeo in
tema di morale o se la ricerca implicante la distruzione degli embrioni
sia permessa o meno negli Stati dell’UE (10).
Rispondendo poi sulla IVa questione (non necessitando risposta la
a
III domanda stante la ritenuta applicabilità alla fattispecie della regola
23d sub c del Regolamento quale “specificazione” dell’art. 53a della Con-
venzione) la Camera ha ritenuto irrilevanti gli eventuali progressi tecnici
intervenuti dopo la presentazione della domanda che non potevano an-
dare né a danno né a beneficio del richiedente, diversamente creandosi
una situazione di incertezza giuridica in pregiudizio di terzi che avessero
proposto un metodo innocuo.

5. Conclusioni.

La decisione annotata — come si vede — rifiuta una interpretazione


“restrittiva” della regola 23d sub c o comunque tesa a contenere la por-
tata del divieto alle sole rivendicazioni sı̀ da lasciar fuori dall’ambito del

(10) Mentre in Germania ed in Italia l’estrazione di cellule staminali dall’em-


brione umano è vietata, tale pratica è consentita nel Regno unito su licenza concessa
dal Human Fertilisation and Embryology Authority per specifici progetti di ricerca
come pure in Francia a certe condizioni (sopranumerarietà degli embrioni e progresso
terapeutico).
564 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

brevetto (e quindi esentato) quanto non sia in esse incluso (claims sy-
stem): questo tutte le volte in cui la Convenzione conservi — nel proibire
la brevettabilità — obiezioni etiche contro lo sfruttamento della tecnolo-
gia coinvolta nell’oggetto rivendicato.
Se è vero infatti che il brevetto da diritto di vietare ai terzi di fare
od usare ciò che è rivendicato a scopi industriali o commerciali, il modo
in cui viene descritto come farlo od usarlo non può essere considerato ir-
rilevante nell’economia dell’invenzione a prescindere dal tenore letterale
delle rivendicazioni (11).
Né va sottaciuto che la formulazione del principio espresso nell’art.
6.2 sub c della Direttiva (da cui deriva la corrispondente norma del Re-
golamento) è frutto di corpi legislativi responsabili politicamente che si
presume non stessero pensando in termini di categorie di rivendicazioni
brevettuali ma piuttosto all’“essenza” dell’invenzione con riferimento a
tecnologie facenti uso di embrioni umani per fini non eticamente accet-
tabili.
Va comunque soggiunto — nonostante la Camera ampliata non ab-
bia inteso ergersi a moral arbiter — che la risposta negativa fornita sul-
l’impiego delle cellule staminali embrionali umane quale limite invalica-
bile alla brevettabilità dei procedimenti che quell’uso implicano con pre-
giudizio per l’embrione stesso sottende — pur senza nominarlo — il
principio che l’embrione costituisce sempre l’inizio di una vita umana
che contiene tutte le informazioni genetiche e la potenziale capacità di
differenziarsi e svilupparsi in individuo per cui non può essere neutraliz-
zato come un oggetto a discapito dello status di cui gode.
Ciò emerge nel dictum finale della decisione dove è precisato che non
tanto è vietata la brevettabilità di invenzioni che facciano impiego di
cellule staminali o delle loro culture quanto piuttosto brevettare prodotti
ottenibili con un uso degli embrioni umani che implichi la loro distru-
zione.
Il principio della dignità umana rende perciò inappagante il c.d. be-
lancing approach (utilitaristico) essendo inaccettabile, discutendosi ap-
punto di vita umana, assumere una decisione che soppesi gli interessi
degli esseri viventi che potenzialmente potrebbero trarre benefici dalla
sviluppo di siffatte tecnologie contro il diritto dell’embrione di arrivare
alla vita e non essere sacrificato a beneficio di altri (12).
Il caso WARF ricalca nella sostanza quello sul c.d. brevetto di
Edimburgo (riguardante un procedimento per propagare selettivamente
cellule staminali transgeniche) concesso nel 1999 e ridotto in sede di op-

(11) La giurisprudenza dell’UEB, benché abbia ripetutamente affermato che


le clausole di esclusione della brevettabilità devono essere interpretate in senso “ri-
duttivo”, ha da ultimo precisato che tale regola non è — comunque — applicabile
senza eccezioni (Enlarged Board G 1/04).
(12) Il test di bilanciamento (tra sofferenza prodotta e beneficio terapeutico
auspicato) è stato ritenuto appropriato solo nell’ambito delle manipolazioni di ani-
mali (Enlarged Board, T 19/90).
II. - Giurisprudenza comunitaria e dell’ufficio europeo dei brevetti 565

posizione nei limiti della sola richiesta ausiliaria riferita alla utilizzazione
di cellule staminali “adulte” (isolate da tessuti adulti, dal cordone om-
belicale, da tessuti fetali al termine della gravidanza) e dunque non pre-
supponente la distruzione dell’embrione (quale implicata dalla richiesta
principale come tale respinta).
L’uomo deve porsi limiti inviolabili. Oltre un certo limite non può
andare perché esiste una linea di confine tra scienza e vita che non va
sacrificata alle esigenze della ricerca destinata a transitare da interventi
non manipolativi dell’embrione o comunque non comportanti la sua di-
struzione (13): via questa che sembra al momento l’unica esente da pro-
blemi etici.
MASSIMO SCUFFI
Consigliere della Corte di cassazione
Membro giuridico della Camera ampliata di ricorso
dell’Ufficio europeo dei brevetti

(13) Nell’agosto del 2006 Robert Lanza, biologo della advanced cell techno-
logy (act) aveva annunciato la possibilità di derivare una cultura di cellule staminali
senza distruggere l’embrione ma in realtà l’operazione sarebbe consistita nel dividere
l’embrione in una coppia gemellare distruggendone uno per creare la cultura.
IV. - MASSIMARIO DELLE SENTENZE DELLA
CASSAZIONE IN MATERIA DI DIRITTO INDUSTRIALE

MASSIMARIO
GENNAIO/GIUGNO 2008 (*)

DITTA

— divieto di adottare come ditta il marchio altrui: 1.

1. Cass. civ., sez. I, 12 marzo 2008 n. 6720 — Pres. CARNEVALE — Rel. PICCI-
NINNI — P.M. UCCELLA (Conf.) — Caiazzo Industria Detergenti s.r.l. c. To-
massi.
Ditta - Art. 13 del d.lgs. n. 480 del 1992 - Divieto di adozione come segno di-
stintivo del marchio altrui - Applicabilità - Presupposto - Rischio di confondi-
bilità - Accertamento - Giudizio di comparazione - Modalità.

Ai sensi dell’art. 13 del r.d. 21 giugno 1942, n. 929, come modificato dal d.lgs.
4 dicembre 1992, n. 480, il divieto di adozione come ditta, insegna, denominazione o
ragione sociale, di un segno uguale o simile al marchio altrui, trova applicazione
quando, a causa dell’identità od affinità tra l’attività d’impresa dei due titolari dei
segni distintivi ed i prodotti o i servizi per i quali è stato adottato il marchio, si possa
verificare un rischio di confusione per il pubblico, identificabile anche con la possi-
bilità di associazione tra i segni. Ne consegue che il giudizio di comparazione sul
quale si fonda la confondibilità non deve essere formulato in riferimento ai prodotti
delle due imprese o alla violazione della correttezza professionale o commerciale, ma
esclusivamente in riferimento all’attività svolta dall’impresa che ha assunto il mar-
chio come segno distintivo della propria ditta e i prodotti, protetti dal marchio regi-
strato, commercializzati dall’altra.

MARCHIO

— complesso: 8.
— contraffazione: 3, 12, 13.
— debole o forte: 2.
— di colore: 6.
— di fatto: 11.

(*) A cura di Giorgia Tassoni.


IV. - Massimario 567

— di forma: 5.
— secondary meaning: 9.
— tutela penale: 1, 4, 7, 10.

1. Cass. pen., sez. III, 7 gennaio 2008 n. 166 (Ud. 28 settembre 2007) — Pres.
GRASSI — Rel. FRANCO — P.M. SALZANO (Conf.) — Imp. Parentini.
Marchio - Tutela penale - Tutela del “made in Italy” - Indicazione del luogo
di fabbricazione del prodotto - Falsità della stessa - Integrazione del reato di
cui all’art. 517 cod. pen. - Sussistenza - Fattispecie.

In tema di reato di vendita di prodotti industriali con segni mendaci di cui al-
l’art. 517 cod. pen., l’imprenditore non ha l’obbligo di indicare sull’oggetto quale sia
il luogo di fabbricazione dello stesso, ma qualora tale indicazione sia apposta, la fal-
sità della stessa è idonea di per sé sola a trarre in inganno sull’origine del prodotto.

2. Cass. civ., sez. I, 7 marzo 2008 n. 6193 — Pres. DE MUSIS — Rel. NAPPI —
P.M. PRATIS (Conf.) — Mattel inc. e Mattel s.r.l. c. Edigamma s.r.l.
Marchio - Debole o forte - Confondibilità - Accertamento - Criteri - Valuta-
zione globale e sintetica - Necessità - Esame separato dei singoli elementi - In-
sufficienza - Esame della natura “forte” o “debole” del marchio - Necessità -
Fattispecie.

In tema di tutela del marchio, l’accertamento sulla confondibilità dei segni, in


caso di affinità dei prodotti, non deve essere compiuto in via analitica, attraverso la
separata considerazione dei singoli elementi di valutazione, ma, al contrario, in via
globale e sintetica, con riguardo all’insieme degli elementi grafici e visivi complessi-
vamente dotati di efficacia individualizzante e senza omettere l’esame relativo alla
natura “forte” o “debole” del marchio esaminato. (Nella fattispecie, l’impresa tito-
lare di un marchio registrato relativo ad una pubblicazione per bambine, che ne ca-
ratterizzava in via esclusiva la rappresentazione grafica e il contenuto, in quanto cor-
rispondente ad una bambola tra le più diffuse nel mercato, aveva denunciato l’utiliz-
zazione in un periodico concorrente di una denominazione e di segni distintivi for-
temente confusivi. La S.C., in riforma della sentenza di secondo grado, ha censurato
l’omessa indagine sulla natura del marchio come “forte” o “debole” e la carente va-
lutazione sintetica e globale di tutti gli elementi individuanti i prodotti).

3. (continua)
Marchio - Azione di contraffazione - Natura giuridica - Reale - Accertamento
- Confondibilità tra marchi - Estensione alla confondibilità tra prodotti -
Esclusione.
568 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

L’azione di contraffazione del marchio d’impresa ha natura reale e tutela il di-


ritto assoluto all’uso esclusivo del segno distintivo come bene autonomo sulla base del
riscontro della confondibilità dei marchi mentre prescinde dall’accertamento relativo
alla confondibilità dei prodotti e dalle concrete modalità di uso del segno, riservato,
invece, all’azione di concorrenza sleale.

4. Cass. pen., sez. V, 13 marzo 2008 n. 11240 (Ud. 14 febbraio 2008) — Pres.
CALABRESE — Rel. FERRUA — P.M. FEBBRARO (Conf.) — Imp. Ady Baye.
Marchio - Tutela penale - Detenzione a fini di vendita di prodotti con marchio
contraffatto - Scadente qualità dei materiali utilizzati e particolari modalità di
vendita - Rilevanza ai fini del bene protetto - Esclusione - Ragioni.

Il reato di introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi (art.
474 cod. pen.) tutela la fede pubblica - intesa come affidamento nei marchi o nei se-
gni distintivi - e non gli acquirenti; ai fini della sua configurabilità, pertanto, è del
tutto irrilevante che l’acquirente sia in grado, avuto riguardo alla qualità del pro-
dotto, al prezzo, al luogo dell’esposizione nonché alla figura del venditore, di escludere
la genuinità del prodotto, in quanto ciò che rileva è esclusivamente la possibilità di
confusione tra i marchi — per la cui individuazione è sufficiente ma imprescindi-
bile un raffronto tra i segni — e non già quella tra i prodotti.

5. Cass. civ., sez. I, 18 marzo 2008 n. 7254 — Pres. LOSAVIO — Rel. RAGONESI
— P.M. RUSSO (Conf.) — Louis Vuitton Malletier S.A. c. Robert Diffusione
srl, Giorgia srl ed a.
Marchio - Marchio cosiddetto “di forma” - Legittimità - Condizioni e limiti -
Forme frutto di lavorazioni non “standardizzate” - Carattere distintivo - Sus-
sistenza - Fattispecie.

In tema di marchio, per il quale l’art. 18, primo comma, lettera c), del r.d. 21
giugno 1942, n. 929 (nel testo risultante dalla sostituzione operata con l’art. 18 del
d.lgs. 4 dicembre 1992, n. 480), preclude che possano costituire oggetto di registra-
zione i segni costituiti dalla forma imposta dalla natura stessa del prodotto, dalla
forma del prodotto necessaria per ottenere un risultato tecnico, o dalla forma che dà
un valore sostanziale al prodotto, il segno costituito dalla forma di un prodotto, che
ne consente la registrazione come marchio, deve rivestire un carattere ornamentale o
funzionale inferiore a quello necessario per rendere la forma brevettabile come mo-
dello, ma che tuttavia goda di un autonomo carattere distintivo. Tali possono essere
considerate le forme frutto di lavorazioni non “standardizzate”, suscettibili per ciò di
assumere un proprio carattere di distintività. (Nella specie la S. C. ha confermato la
statuizione della corte territoriale laddove aveva negato il carattere di segno registra-
bile come marchio della lavorazione del cuoio c.d. “a granopaglia”, ritenendo, con
motivazione adeguata, il carattere “standardizzato” della relativa lavorazione).
IV. - Massimario 569

6. (continua)
Marchio - Indicativo - Di colore - Brevettabilità - Limiti - Valutazione in con-
creto - Necessità - Fattispecie.

La possibilità di registrare come marchio il singolo colore monocromo trova un


limite nell’interesse generale a non restringere indebitamente la disponibilità di co-
lori per gli altri operatori che offrono prodotti o servizi analoghi, sicché può ricono-
scersi il carattere distintivo solo allorché i colori abbiano tonalità molto particolari o
siano del tutto inusuali rispetto al prodotto cui sono applicati, secondo una valuta-
zione che deve essere effettuata non in astratto ma in concreto, tenendo conto della pe-
culiarità del caso specifico. (Nella specie, la S.C., dopo aver affermato tale princi-
pio, ha confermato la decisione impugnata, la quale aveva rilevato che alcuni colori
di cui la Louis Vuitton S.A. vantava la registrazione erano quelli più frequentemente
usati in pelletteria e che proprio per questo non avevano alcuna funzione distintiva).

7. Cass. pen., sez. II, 20 marzo 2008 n. 12452 (Ud. 4 marzo 2008) — Pres.
RIZZO — Rel. FIANDANESE — P.M. GALASSO (Conf.) — Imp. Altobello.
Marchio - Tutela penale - Introduzione nello Stato e commercio di prodotti
con segni falsi - Ricettazione - Concorso - Configurabilità - Fondamento.

Il delitto di ricettazione (art. 648 cod. pen.) e quello di commercio di prodotti


con segni falsi (art. 474 cod. pen.) possono concorrere, atteso che le fattispecie incri-
minatrici descrivono condotte diverse sotto il profilo strutturale e cronologico, tra le
quali non può configurarsi un rapporto di specialità, e che non risulta dal sistema
una diversa volontà espressa o implicita del legislatore.

8. Cass. civ., sez. I, 16 aprile 2008 n. 10071 — Pres. CARNEVALE — Rel. RAGO-
NESI — P.M. GOLIA (Conf.) — Havana Club Holding S.A., Havana Club In-
ternational S.A., Distillerie F.lli Ramazzotti S.p.A c. Distillerie Bagnoli di
Bagnoli Giovanni & C. snc ed a.
Marchio - Complesso - Caratteristiche - Combinazione di più componenti -
Efficacia distintiva - Accertamento della natura forte o debole dei singoli mar-
chi - Necessità - Fattispecie.

Il marchio complesso che consiste nella composizione di più elementi, ciascuno


dotato di capacità caratterizzante e suscettibile di essere autonomamente tutelabile,
non è di per sé un marchio forte, essendo comunque necessario verificare se i singoli
segni che lo compongono o quanto meno uno di essi o almeno la loro combinazione
rivestano un particolare carattere distintivo in ragione dell’originalità e della fanta-
sia nell’accostamento. Pertanto, anche quando i singoli segni siano dotati di capacità
distintiva, ma la loro combinazione sia priva di una particolare forza individualiz-
zante, il marchio deve essere qualificato debole. (Nella fattispecie, la Corte ha riget-
570 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

tato il ricorso avverso la sentenza di secondo grado che aveva escluso la natura forte
sia del primo componente del marchio complesso “Havana Club”, avente ad oggetto
un nome geografico, in quanto meramente indicativo del luogo di provenienza della
bevanda alcolica cosı̀ denominata, sia del secondo componente, relativo al luogo di
abituale di consumo del prodotto stesso).

9. (continua)
Marchio - Capacità distintiva derivante dal “secondary meaning” - Caratte-
ristiche - Notorietà interna ed internazionale del marchio - Accertamento -
Presenza del prodotto sul mercato - Insufficienza - Rilevante diffusione e pro-
mozione pubblicitaria - Necessità.

In tema di tutela del marchio forte, la capacità distintiva derivante dal “secon-
dary meaning”, cioè dalla notorietà assunta a causa dell’uso o del carattere interna-
zionale del segno distintivo, deve essere accertata con riferimento alla fase temporale
anteriore alla registrazione del marchio di cui si denuncia la contraffazione, non ri-
levando, al riguardo, la mera presenza del prodotto nel mercato, se non accompagnata
dalla prova della rilevante diffusione e promozione dello stesso.

10. Cass. pen., sez. II, 23 aprile 2008 n. 16821 (Ud. 3 aprile 2008) — Pres. RIZZO
— Rel. NUZZO — P.M. CEDRANGOLO (Conf.) — Imp. Diop Mamadou Lamine.
Marchio - Tutela penale - Introduzione nello Stato e commercio di prodotti
con segni falsi - Falso grossolano - Reato impossibile - Condizioni.

In tema di commercio di prodotti con segni falsi, perché il falso possa essere
considerato innocuo e grossolano, e dunque, perché il reato possa essere ritenuto im-
possibile, occorre che le caratteristiche intrinseche del prodotto e del marchio che con
esso si identifica siano tali da escludere immediatamente la possibilità che una per-
sona di comune avvedutezza e discernimento possa essere tratta in inganno: tale giu-
dizio va formulato con criteri che consentano una valutazione “ex ante” della ricono-
scibilità “ictu oculi” della grossolanità della falsificazione.

11. Cass. civ., sez. I, 21 maggio 2008 n. 13067 — Pres. CARNEVALE — Rel. RAGO-
NESI — P.M. GOLIA (Conf.) — Scifoni Renata di Scifoni Carlo e C. sas c. Sci-
foni Fratelli organizzazione internazionale per le onoranze funebri di Scifoni
Patrizia sas.
Marchio - Nominativo - Personale - Ragione sociale - Marchio di fatto, per
prodotti dello stesso genere, di altro imprenditore - Pregresso utilizzo - Con-
seguenze - Divieto di impiego come marchio ulteriore - Fondamento.

In tema di utilizzo delle ragioni sociali da parte di due concorrenti alla stregua
IV. - Massimario 571

di marchi, ai sensi del secondo comma dell’art. 13 del r.d. 21 giugno 1942, n. 929,
come modificato dalla legge 21 marzo 1967 n. 158, applicabile “ratione temporis”, si
applica il principio per cui l’uso del proprio nome patronimico come marchio, an-
corché accompagnato da elementi differenziatori, è vietato quando tale nome già co-
stituisca marchio, anche di fatto, di altro imprenditore per prodotti dello stesso ge-
nere; tale anteriorità conferendo invero al primo utilizzatore l’esclusività dell’uso.

12. Cass. civ., sez. I, 19 giugno 2008 n. 16647 — Pres. PROTO — Rel. TAVASSI —
P.M. RUSSO (Parz. Diff.) — Ghercu c. HB Brditschka Gmbh & Co KG.
Marchio - Contraffazione - Giudizio di contraffazione - Azione di concorrenza
sleale - Introduzione con le memorie ex art. 183 cod. proc. civ. - Esigenza sorta
dalle difese del convenuto - Ammissibilità - Fattispecie.

Sebbene la domanda volta ad ottenere l’inibitoria dell’abuso del marchio sia di-
versa rispetto a quella volta ad ottenere l’inibitoria di atti di concorrenza sleale, essa
può essere formulata per la prima volta con le memorie di cui all’art. 183 cod. proc.
civ., se la relativa esigenza sia sorta dalle difese del convenuto. (In applicazione di
tale giudizio, la S.C. ha ritenuto ammissibile la domanda di inibizione dell’uso della
ditta, proposta dall’attore a seguito dell’eccezione sollevata dal convenuto, il quale si
era difeso dall’azione di contraffazione sostenendo di aver fatto uso del marchio solo
come ditta).

13. (continua)
Marchio - Contraffazione - Uso di segni distintivi identici o simili a quelli le-
gittimamente usati dall’imprenditore concorrente - Appropriazione o contraf-
fazione del marchio - Configurabilità - Tutela del marchio e repressione della
concorrenza sleale - Cumulabilità - Sussistenza.

L’attività illecita, consistente nell’appropriazione o nella contraffazione di un


marchio, mediante l’uso di segni distintivi identici o simili a quelli legittimamente
usati dall’imprenditore concorrente, può essere da quest’ultimo dedotta a fondamento
non soltanto di un’azione reale, a tutela dei propri diritti di esclusiva sul marchio,
ma anche, e congiuntamente, di un’azione personale per concorrenza sleale, ove quel
comportamento abbia creato confondibilità fra i rispettivi prodotti.

DIRITTO D’AUTORE

— illecita pubblicazione dell’immagine altrui: 11.


— opera cinematografica: 1.
— tutela penale: 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 12, 13.

1. Cass. civ., sez. III, 12 febbraio 2008 n. 3267 — Pres. DI NANNI — Rel. FRA-
SCA — P.M. SCHIAVON (Conf.) — Ferrara c. Clemi Cinematografica, Balducci
ed a.
572 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

Diritti d’autore - Opera cinematografica - Coautori ex art. 44 legge n. 633 del


1941 - Danno arrecato da un’opera cinematografica - Responsabilità solidale
di tutti i coautori - Sussistenza - Fondamento.

Ove un’opera cinematografica abbia arrecato ad un terzo un danno illecito, tutti


i soggetti che, ai sensi dell’art. 44 della legge 22 aprile 1941, n. 633, vanno conside-
rati coautori di detta opera, sono solidalmente tenuti al risarcimento del danno, in
considerazione del precetto specifico emergente, in tema di responsabilità extracon-
trattuale, dall’art. 2055 cod. civ., valutato in correlazione con il principio fondamen-
tale dell’imputazione soggettiva del fatto illecito stabilito dalla norma generale di cui
all’art. 2043 cod. civ..

2. Cass. pen., sez. III, 12 marzo 2008 n. 11096 (Ud. 17 gennaio 2008) — Pres.
VITALONE — Rel. ONORATO — P.M. CIAMPOLI (Parz. diff.) — Imp. Governa-
tori.
Diritti d’autore - Tutela penale - Opere d’arte - Autenticazione di opere d’arte
false - Reato originariamente previsto dalla l. n. 1062 del 1971, successiva-
mente punito dal d.lgs. n. 490 del 1999 e, attualmente, dal d.lgs. n. 42 del 2004
- Continuità normativa - Sussistenza.

In tema di tutela penale delle opere d’arte, sussiste continuità normativa tra il
reato prima previsto dall’art. 4 l. 20 novembre 1971, n. 1062, poi sostituito dall’art.
127 d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490 ed attualmente sanzionato dall’art. 178 d.lgs. 22
gennaio 2004, n. 42, in quanto tutte le fattispecie puniscono la medesima condotta
consistente nell’autenticazione di opere false, conoscendone la falsità.

3. Cass. pen., sez. III, 2 aprile 2008 n. 13810 (Ud. 12 febbraio 2008) — Pres.
LUPO — Rel. PETTI — P.M. MONTAGNA (Diff.) — Imp. Diop Elhadji Yanda.
Diritti d’autore - Tutela penale - Sentenza della Corte di Giustizia CE d’inter-
pretazione del diritto comunitario - Natura vincolante nei giudizi nazionali -
Sussistenza - Fattispecie.

Le sentenze della Corte di giustizia CE, quale interprete qualificato del diritto
comunitario, di cui definisce autoritativamente il significato a norma dell’art. 164
del Trattato CE, hanno efficacia vincolante, anche “ultra partes”, nei procedimenti
dinanzi alle autorità, giurisdizionali o amministrative, dei singoli Stati membri. (Fat-
tispecie relativa a sentenza della Corte di giustizia che ha qualificato come “regola
tecnica”, da notificare alla Commissione europea, in base alle direttive 83/189/CE e
98/34/CE, l’apposizione del contrassegno Siae sui supporti non cartacei con conse-
guente obbligo, per i giudici nazionali, di disapplicazione, nelle fattispecie di reato
di cui agli artt. 171-bis, commi primo e secondo, e 171-ter, comma primo, lett. d),
della l. n. 633 del 1941, della relativa normativa ove non notificata).
IV. - Massimario 573

4. Cass. pen., sez. III, 2 aprile 2008 n. 13812 (Ud. 12 febbraio 2008) — Pres.
LUPO — Rel. PETTI — P.M. MONTAGNA (Conf.) — Imp. Giacometti.
Diritti d’autore - Tutela penale - Ricezione di programma criptato mediante
utilizzo di “smart card” legittimamente detenuta - Diffusione in pubblico
senza accordo col distributore - Reato di cui all’art. 171-ter, comma primo,
lett. e) l. n. 633 del 1941 - Configurabilità.

Integra il reato di cui all’art. 171-ter, comma primo, lett. e), l. n. 633 del 1941
e non già il reato di cui all’art. 171-octies stessa legge, la condotta di chi, utilizzando
una “smart card”, legittimamente detenuta in base al contratto ed idonea a consen-
tire la ricezione di programmi televisivi a pagamento per uso esclusivamente privato,
diffonda in pubblico i programmi stessi in assenza di accordo con il distributore.

5. Cass. pen., sez. III, 2 aprile 2008 n. 13816 (Ud. 12 febbraio 2008) — Pres.
LUPO — Rel. ONORATO — P.M. MONTAGNA (Conf.) — Imp. Valentino.
Diritti d’autore - Tutela penale - Integrazione dei reati relativi a supporti privi
di contrassegno Siae - Anteriorità del contrassegno rispetto alla direttiva co-
munitaria 83/189/CE ovvero, se successivo, sua comunicazione alla Commis-
sione Europea - Necessità - Sussistenza - Fattispecie - Normativa comunitaria
ad effetto diretto.

Ai fini dell’integrazione dei reati per i quali l’elemento costitutivo è la man-


canza del contrassegno Siae (legge n. 633 del 1941), è richiesta la prova, incombente
sul pubblico ministero, che l’obbligo d’apposizione del predetto contrassegno, da qua-
lificare come “regola tecnica” ai sensi della normativa comunitaria nell’interpreta-
zione della Corte di giustizia CE, sia stato introdotto dal legislatore nazionale ante-
riormente alla data del 31 marzo 1983, quale data di entrata in vigore della direttiva
83/189/CE, ovvero che, se introdotto successivamente, sia stato, in adempimento di
detta direttiva, previamente comunicato dallo Stato italiano alla Commissione del-
l’Unione Europea; la mancanza di detta prova comporta l’assoluzione dell’imputato
perché il fatto non sussiste. (Nella specie, relativa al reato di cui all’art. 171-ter,
comma primo lett. d), la Corte, sul presupposto che l’obbligo di apposizione del con-
trassegno Siae sui supporti rappresentati da musicassette, fonogrammi, videogrammi
o sequenze di immagini in movimento è stato introdotto, per la prima volta, dal d.lgs.
n. 685 del 1994, e quindi successivamente all’entrata in vigore della predetta diret-
tiva comunitaria, senza che ne sia stata fatta comunicazione alla Commissione, ha
annullato senza rinvio in parte qua la sentenza di condanna, assolvendo con la for-
mula predetta, e affermando che la Direttiva 83/189/CE fa parte della normativa co-
munitaria “ad effetto diretto”, in quanto contenente disposizioni precise e determi-
nate, e trova perciò applicazione nel territorio dello Stato senza necessità d’ulteriori
interventi normativi dell’autorità nazionale).

6. Cass. pen., sez. III, 2 aprile 2008 n. 13819 (Ud. 12 febbraio 2008) — Pres.
LUPO — Rel. ONORATO — P.M. MONTAGNA (Conf.) — imp. Kane.
574 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

Diritti d’autore - Tutela penale - Detenzione di supporti in numero superiore


a cinquanta unità - Attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità -
Incompatibilità.

La circostanza attenuante del danno patrimoniale o del lucro di speciale tenuità


è incompatibile con la fattispecie di reato prevista dall’art. 171-ter, comma secondo,
lett. a), della l. n. 633 del 1941, ivi contemplandosi infatti una pena più grave
quando il numero dei supporti abusivamente detenuti per il commercio è superiore
alle cinquanta unità.

7. Cass. pen., sez. III, 2 aprile 2008 n. 13822 (Ud. 12 febbraio 2008) — Pres.
LUPO — Rel. PETTI — P.M. MONTAGNA (Conf.) — Imp. Maggiola.
Diritti d’autore - Tutela penale - Proiezione in pubblico di opera destinata ad
uso privato - Reato di cui all’art. 171-ter lett. b) l. n. 633 del 1941 - Sussistenza
- Limiti.

Integra il reato di cui all’art. 171-ter, comma primo, lett. b), l. n. 633 del 1941
la diffusione, senza autorizzazione, in una pubblica proiezione, di opera cinemato-
grafica contenuta in dvd e destinata esclusivamente ad uso privato salvo che detta
diffusione avvenga entro la cerchia ordinaria della famiglia, del convitto, della scuola
o dell’istituto di ricovero, purché non effettuata a scopo di lucro.

8. Cass. pen., sez. III, 2 aprile 2008 n. 13839 (Ud. 12 febbraio 2008) — Pres.
LUPO — Rel. SQUASSONI — P.M. (Diff.) — Imp. Cipriani.
Diritti d’autore - Tutela penale - Utilizzazione per uso non privato di apparati
per la decodificazione di trasmissione ad accesso condizionato - Reato ex art.
171-octies, l. n. 633 del 1941 - Sussistenza.

La condotta di cui all’art. 171-octies l. n. 633 del 1941, di utilizzazione, a fini


fraudolenti, per uso pubblico, di apparati o parti di apparati atti alla decodificazione
di trasmissioni audiovisive ad accesso condizionato effettuate via etere, via satellite e
via cavo, in forma sia analogica sia digitale, sanzionata penalmente sin dall’entrata
in vigore della l. n. 248 del 2000, è rimasta tale anche successivamente alla l. n. 373
del 2000, di depenalizzazione delle sole attività di commercializzazione dei suddetti
dispositivi. (La Corte ha specificato in motivazione che tale condotta non è stata in-
cisa neppure dalla sentenza della Corte Cost. n. 426 del 2004, di illegittimità dell’art.
181-octies con riguardo alla sola utilizzazione privata di detti apparati).

9. Cass. pen., sez. III, 2 aprile 2008 n. 13844 (Ud. 12 febbraio 2008) — Pres.
LUPO — Rel. ONORATO — P.M. MONTAGNA (Conf.) — Imp. Di Martino.
Diritti d’autore - Tutela penale - Fattispecie dell’art. 171-ter, comma secondo,
IV. - Massimario 575

lett. a), l. n. 633 del 1941 - Natura di reato autonomo rispetto ai fatti del
comma primo - Sussistenza - Ragioni.

La fattispecie di cui all’art. 171-ter, secondo comma, lett. a), della l. n. 633 del
1941, non configura una circostanza aggravante dei fatti di cui al primo comma dello
stesso articolo, ma integra una figura autonoma di reato, essendo identificata con
elementi materiali e psicologici del tutto diversi e comunque non sovrapponibili con
quelli previsti nelle lettere da a) a h) del predetto primo comma.

10. Cass. pen., sez. III, 8 aprile 2008 n. 14435 (Ud. 4 marzo 2008) — Pres. LUPO
— Rel. SENSINI — P.M. PASSACANTANDO (Diff.) — Imp. Diop Mor.
Diritti d’autore - Tutela penale - Reato di cui all’art. 171-ter, lett. d), l. n. 633
del 1941 - Commercializzazione di oltre cinquanta copie o esemplari di opere
- Automatica qualificazione del fatto a norma dell’art. 171-ter, comma se-
condo, l. n. 633 del 1941 - Esclusione.

In tema di diritto d’autore, la detenzione per la vendita (o, comunque, la com-


mercializzazione) di oltre cinquanta copie o esemplari di opere tutelate dal diritto
d’autore che siano prive del prescritto contrassegno SIAE, non integra il delitto pre-
visto dall’art. 171-ter, comma secondo, lett. a), della l. 22 aprile 1941, n. 633, ma
configura l’autonoma ipotesi di reato prevista dall’art. 171-ter, comma primo, lett.
d) della citata Legge, in quanto la fattispecie contemplata nel comma secondo non ri-
chiama quella di detenzione per la vendita o di commercializzazione a qualsiasi ti-
tolo di opere musicali prive del predetto contrassegno, fattispecie autonomamente ed
espressamente prevista dal comma primo, lett. d) della richiamata disposizione.

11. Cass. civ., sez. III, 16 maggio 2008 n. 12433 — Pres. FANTACCHIOTTI — Rel.
LANZILLO — P.M. FUZIO (Diff.) — Zannotti c. Cesco Capanna Editore srl.
Diritti d’autore - Diritti relativi al ritratto - Violazione del diritto all’imma-
gine - Danni patrimoniali conseguenti - Liquidazione - Criteri - Individua-
zione - Parametri di valutazione equitativa - Riferibilità agli indici previsti
dall’art. 128, comma secondo, della legge n. 633 del 1941 - Ammissibilità.

L’illecita pubblicazione dell’immagine altrui obbliga al risarcimento anche dei


danni patrimoniali, che consistono nel pregiudizio economico di cui la persona dan-
neggiata abbia risentito per effetto della predetta pubblicazione e di cui abbia fornito
la prova. In ogni caso, qualora non possano essere dimostrate specifiche voci di
danno patrimoniale, la parte lesa può far valere il diritto al pagamento di una
somma corrispondente al compenso che avrebbe presumibilmente richiesto per conce-
dere il suo consenso alla pubblicazione, determinandosi tale importo in via equita-
tiva, avuto riguardo al vantaggio economico conseguito dell’autore dell’illecita pub-
blicazione e ad ogni altra circostanza congruente con lo scopo della liquidazione, te-
576 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

nendo conto, in particolare, dei criteri enunciati dall’art. 128, comma secondo, della
legge n. 633 del 1941 sulla protezione del diritto di autore.

12. Cass. pen., sez. VII, 29 maggio 2008 n. 21579 (Cc 6 marzo 2008) — Pres.
ROSSI — Rel. FRANCO — P.M. (Diff.) — Imp. Boujlaib.
Diritti d’autore - Tutela penale - Integrazione dei reati relativi a supporti privi
di contrassegno Siae - Anteriorità del contrassegno rispetto alla direttiva co-
munitaria ovvero, se successivo, sua comunicazione alla Commissione Euro-
pea - Necessità - Sussistenza - Fattispecie.

Ai fini dell’integrazione dei reati di cui alla l. n. 633 del 1941, e successive mo-
difiche, che prevedono, tra gli elementi costitutivi della condotta, quello della man-
canza del contrassegno Siae, è richiesta la prova, incombente sul pubblico ministero,
che l’obbligo di apposizione del predetto contrassegno, da qualificare come “regola
tecnica” ai sensi della normativa comunitaria come interpretata dalla Corte di giu-
stizia CE, sia stato introdotto dal legislatore nazionale anteriormente alla data del 31
marzo 1983, quale data di entrata in vigore della direttiva 83/189/CE, ovvero che, se
introdotto successivamente, sia stato, in adempimento di detta direttiva, previamente
comunicato dallo Stato italiano alla Commissione dell’Unione Europea; la man-
canza di tale prova comporta l’assoluzione dell’imputato perché il fatto non è previ-
sto dalla legge come reato. (Nella specie, relativa al reato di cui all’art. 171-ter,
comma secondo, lett. a), la Corte, sul presupposto che l’obbligo di apposizione del
contrassegno Siae sui supporti rappresentati da videocassette, musicassette, fono-
grammi, videogrammi o sequenze di immagini in movimento è stato introdotto, per
la prima volta, dal d.lgs. n. 685 del 1994, e quindi successivamente all’entrata in vi-
gore della predetta direttiva comunitaria, senza che ne sia stata fatta comunicazione
alla Commissione, ha annullato senza rinvio la sentenza di condanna assolvendo con
la formula predetta).

13. (continua)
Diritti d’autore - Tutela penale - Reati di detenzione o commercializzazione di
supporti illecitamente duplicati o riprodotti - Mancanza del contrassegno Siae
- Prova della duplicazione o riproduzione - Esclusione - Mero indizio - Esclu-
sione - Ragioni - Fattispecie - Interpretazione della Corte di Giustizia CE -
Rilevanza.

In tema di diritto d’autore, relativamente ai reati aventi ad oggetto supporti il-


lecitamente duplicati o riprodotti, la sola mancanza del contrassegno Siae, che non
sia stato comunicato dallo Stato Italiano alla Commissione Europea in adempimento
della normativa comunitaria relativa alle “regole tecniche”, nel senso affermato dalla
Corte di giustizia CE, non può valere neppure come mero indizio della illecita du-
plicazione o riproduzione, essendo ciò inibito dalla inopponibilità ai privati dell’ob-
bligo di apposizione del predetto contrassegno sino ad avvenuta comunicazione. (Fat-
IV. - Massimario 577

tispecie relativa al reato di cui all’art.171-ter, comma primo, lett. c), della l. n. 633
del 1941 e successive modifiche). Le sentenze della Corte di giustizia CE, quale in-
terprete qualificato del diritto comunitario, di cui definisce autoritativamente il si-
gnificato a norma dell’art. 164 del Trattato CE, hanno infatti efficacia vincolante,
anche “ultra partes”, nei procedimenti dinanzi alle autorità, giurisdizionali o am-
ministrative, dei singoli Stati membri. (Fattispecie relativa a sentenza della Corte di
giustizia che ha qualificato come “regola tecnica”, da notificare alla Commissione
europea, in base alle direttive 83/189/CE e 98/34/CE, l’apposizione del contrassegno
Siae sui supporti non cartacei con conseguente obbligo, per i giudici nazionali, di
disapplicazione, nelle fattispecie di reato di cui agli artt. 171-bis, commi primo e se-
condo, e 171-ter della l. n. 633 del 1941, che prevedono la mancanza del contrassegno
quale elemento costitutivo, della relativa normativa ove non notificata).

INVENZIONI INDUSTRIALI

— brevetto europeo: 1.
— iniziativa del P.M.: 2.

1. Cass. civ., SS. UU., 12 marzo 2008 n. 6532 — Pres. VITTORIA — Rel. FORTE
— P.M. CENICCOLA (Conf.) — Medic srl c. Meridian Bioscience Inc. e Meri-
dian Bioscience s.r.l.
Invenzioni industriali - Brevetto europeo - Azione diretta ad ottenere la decla-
ratoria di nullità di una domanda di brevetto - Concessione del brevetto in
corso di causa - Sopravvenuta condizione dell’azione - Giurisdizione del giu-
dice ordinario - Sussistenza - Fondamento.

In tema di brevetto per invenzioni industriali, atteso che con la pubblicazione


del provvedimento di concessione del brevetto europeo sorge il diritto di privativa sul
trovato, il giudice, dinanzi al quale (per essere il prodotto da brevettare privo del re-
quisito della novità), sia stata fatta valere la nullità di una domanda di brevetto eu-
ropeo non ancora concesso, privo di giurisdizione al momento della domanda, ha —
per l’applicazione del principio della perpetuatio jurisdictionis — la giurisdizione
sulla azione proposta qualora venga pubblicata la concessione del brevetto in corso di
causa, che comporta il sopravvenire di una condizione dell’azione, restando irrile-
vante lo stato del procedimento amministrativo di opposizione di terzi al rilascio del
brevetto il cui esito positivo può solo dar luogo alla cessazione della materia del con-
tendere.

2. (continua)
Invenzioni industriali - Azione di nullità della domanda per ottenere il bre-
vetto - Promovimento da parte del P.M. - Esclusione - Conseguenze sul con-
578 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

traddittorio - Ricorso per cassazione - Mancata notificazione al P.M. del me-


rito - Integrazione del contraddittorio - Necessità - Esclusione.

In materia di brevetti, atteso che il P.M. può promuovere l’azione di nullità del
brevetto concesso, ai sensi dell’art. 78 del r.d. n. 1127 del 1939, e non quella tendente
alla nullità della sola domanda per ottenerlo, con la conseguenza che non può quali-
ficarsi interventore necessario nel giudizio relativo alla seconda, la mancata notifica
del ricorso per cassazione al P.G. della Corte d’appello non incide sull’ammissibilità
del ricorso stesso, né rende necessaria l’integrazione del contraddittorio, qualora
(come nel caso di specie) il P.M. sia intervenuto nel giudizio di merito che ha per
oggetto la domanda per ottenere il brevetto.

MODELLI DI UTILITA
v E MODELLI ORNAMENTALI

— novità: 1.

1. Cass. civ., sez. I, 2 aprile 2008 n. 8510 — Pres. MORELLI — Rel. CECCHERINI
— P.M. CENICCOLA (Conf.) — BSH Bosch und Siemens Hausgerate GMBH
c. Candy Elettrodomestici srl.
Modelli di utilità - Brevetto - Requisiti - Diversità rispetto al brevetto per in-
venzione - Esclusione - Novità intrinseca - Necessità - Requisiti.

Ai fini del riconoscimento del brevetto per modello di utilità è richiesto, come
per il brevetto per le invenzioni, oltre al requisito formale della descrizione chiara e
completa, il requisito sostanziale della novità intrinseca od originalità, da ricono-
scersi ogni qual volta sia possibile rinvenire un’idea nuova che incida su un mecca-
nismo od una forma già noti, conferendogli nuova utilità mediante soluzioni ed ac-
corgimenti che vadano oltre la mera applicazione di regole ovvie ed elementari e at-
tribuiscano a macchine, strumenti, utensili ed oggetti, un incremento di efficienza o
di comodità d’impiego.
(Pubblicata in questa Rivista, 2008, II, p. 283 ss., con commenti di A. VAN-
ZETTI e M. FRANZOSI).

CONCORRENZA

— abuso di posizione dominante: 10.


— aiuti di stato: 2.
— consorzi: 1.
— limiti legali: 9.
— sleale: 3, 4, 5, 6, 7, 8, 11, 12, 13, 14 15.

1. Cass. civ., sez. I, 10 gennaio 2008 n. 355 — Pres. PROTO — Rel. SCHIRÒ —
P.M. CARESTIA (Conf.) — Consorzio per la tutela del formaggio Grana Pa-
dano c. Valgrana SpA.
IV. - Massimario 579

Concorrenza - Consorzi - Imprese che svolgono servizi economici di interesse


generale - Riconducibilità all’esercizio privato di funzioni pubbliche - Norma-
tiva antitrust - Inapplicabilità - Limiti - Deviazione dell’attività dallo scopo
istituzionale per cui quelle funzioni sono state conferite - Normativa antitrust
- Applicabilità — Fattispecie (linee-guida recanti contingentamento della pro-
duzione).

Le attività svolte da soggetti privati, quali sono il Consorzio per la tutela del
formaggio “Grana Padano” e la società di Certificazione della qualità alimentare, per
le certificazioni di conformità del prodotto e per i controlli volti a prevenire abusi ri-
spetto alle prescrizioni del regolamento CE n. 2081 del 1992, in quanto rientranti nei
compiti essenziali dello Stato in materia di alimentazione e, quindi, nell’ambito dei
servizi economici di carattere generale, sono riconducibili all’esercizio privato di
pubbliche funzioni e cioè ad attività di diritto pubblico, per le quali si è fuori dal-
l’ambito di applicazione della normativa antitrust, la quale presuppone, ai sensi del-
l’art. 8 primo comma della legge n. 287 del 1990, che l’abuso di posizione dominante
o le intese restrittive della concorrenza avvengano nello svolgimento dell’attività di
impresa. Tuttavia, poiché, secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia, la no-
zione di impresa abbraccia qualsiasi entità che eserciti un’attività economica consi-
stente nell’offerta di beni o servizi sul mercato, indipendentemente dallo statuto giu-
ridico e dalle modalità di finanziamento, l’esenzione prevista dal secondo comma del-
l’art. 8 per le imprese che gestiscono servizi di interesse economico generale, opera li-
mitatamente “a tutto quanto strettamente connesso all’adempimento degli specifici
compiti loro affidati”. Pertanto, qualora le summenzionate attività svolte da soggetti
privati, pur se autoritative, deviino dallo scopo istituzionale per cui quelle pubbliche
funzioni sono state conferite, viene meno il nesso funzionale con il carattere non eco-
nomico dell’attività posta in essere, la quale rientra a pieno titolo nell’ambito dell’at-
tività di impresa, con conseguente applicazione della disciplina a tutela della concor-
renza di cui alla legge n. 287 del 1990. (Nella fattispecie, la S.C. ha cassato la sen-
tenza impugnata per avere omesso di considerare che le determinazioni assunte dal
Consorzio sopra citato attraverso apposite “linee guida”, ritenute da un produttore di
formaggio restrittive alla libertà di concorrenza in quanto limitative alla propria ca-
pacità produttiva, introducevano arbitrariamente standard di qualità non previsti
dal regolamento comunitario citato nonché il contingentamento della produzione che
esulava dalle proprie funzioni di vigilanza e, pertanto, non potevano essere conside-
rate come espressione dell’attività svolta “iure imperii”, ma come attività economica
rientrante nella previsione degli art. 2 e 3 della legge n. 287 del 1990 e costituente
pratica anticoncorrenziale illecita).

2. Cass. civ., sez. V, Ord. 8 febbraio 2008 n. 3030 — Pres. ALTIERI — Rel. MA-
RIGLIANO — P.M. SEPE (Diff.) — Amministrazione delle Finanze c. Paint
graphos scarl.
Concorrenza - Aiuti di Stato - Agevolazioni per la cooperazione - Applicabi-
lità alle società cooperative a mutualità prevalente - Conseguenze - Proporzio-
nalità degli aiuti di Stato rispetto ai fini dell’impresa - Abuso del diritto -
580 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

Configurabilità - Questione interpretativa - Rinvio pregiudiziale alla Corte di


Giustizia CE.

In tema di agevolazioni tributarie per la cooperazione, l’introduzione, ad opera


del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, della nozione di mutualità prevalente, consentendo
alle società cooperative di avvalersi dei benefici fiscali previsti dagli artt. 10-14 del
d.P.R. 29 settembre 1973, n. 601 (applicabili “ratione temporis”) anche laddove
l’apporto personale dei soci non abbia carattere totalitario, con il conseguente venir
meno dell’effettiva funzione mutualistica del soggetto, fa sorgere la seguente questione
interpretativa, da rimettersi alla Corte di Giustizia CE, ai sensi dell’art. 234 del
Trattato CE: a) se tali agevolazioni siano compatibili con la disciplina comunitaria
della concorrenza, ed in particolare se siano configurabili come aiuti di Stato, ai
sensi dell’art. 87 del Trattato, soprattutto in presenza dell’inadeguato sistema di vigi-
lanza e di correzione degli abusi previsto dal d.lgs. C.p.S. 14 dicembre 1947, n. 1577,
b) se tali misure siano proporzionate rispetto ai fini assegnati all’impresa coopera-
tiva, e se il giudizio di proporzionalità possa riguardare, oltre che le singole misure,
il vantaggio attribuito dalle stesse nel loro complesso, c) se l’utilizzazione della forma
cooperativa, anche al di fuori dei casi di frode o simulazione, sia qualificabile come
abuso del diritto, ove il ricorso alla stessa abbia luogo al fine esclusivo o prevalente
di realizzare un risparmio fiscale.

3. Cass. civ., sez. I, 22 febbraio 2008 n. 4531 — Pres. PLENTEDA — Rel. NAPPI
— P.M. VELARDI (Conf.) — Tiranno c. Ramondo Giovanni s.r.l.
Concorrenza sleale - Confusione circa la provenienza dei prodotti - Accerta-
mento in concreto - Censurabilità in cassazione - Esclusione.

L’azione di contraffazione del marchio d’impresa ha natura reale, e tutela il di-


ritto assoluto all’uso esclusivo del segno come bene autonomo, sulla base del riscontro
della confondibilità dei marchi, mentre prescinde dall’accertamento della effettiva
confondibilità tra prodotti e delle concrete modalità di uso del segno, accertamento ri-
servato, invece, al giudizio di concorrenza sleale. Pertanto, nel caso in cui sia propo-
sta azione di concorrenza sleale, occorre accertare se l’uso dei segni distintivi contro-
versi sia idoneo a ingenerare confusione circa la provenienza dei prodotti commer-
cializzati dall’una o dall’altra delle imprese in concorrenza. Ed è indiscusso che tale
accertamento debba essere effettuato in concreto, sulla base di una valutazione unita-
ria e sintetica sia dei segni distintivi utilizzati per contrassegnare i prodotti sia del
contesto in cui essi vengono commercializzati. Sicché, trattandosi di un giudizio di
fatto, la decisione di merito è censurabile in cassazione solo per i vizi della sua giu-
stificazione.

4. Cass. civ., sez. I, 29 febbraio 2008 n. 5437 — Pres. PLENTEDA — Rel. NAPPI
— P.M. VELARDI (Conf.) — Mega Bloks inc. c. Lego System A/S e Lego s.p.a.
Concorrenza sleale - Elementi modulari idonei alla connessione con quelli di
IV. - Massimario 581

impresa concorrente - Produzione successiva alla scadenza del brevetto - In-


sussistenza dell’imitazione servile - Violazione dell’art. 2593 n. 3 cod. civ. per
sottrazione di clientela - Configurabilità - Esclusione.

In tema di concorrenza sleale, quando sia scaduto il diritto di privativa e venga


esclusa l’imitazione servile, la produzione di elementi modulari, idonei alla connes-
sione con quelli prodotti da impresa concorrente, non integra la violazione dell’art.
2598 n. 3 cod. civ., non potendosi qualificare come lesivo della lealtà commerciale un
comportamento che avvantaggia il consumatore dal lato della pluralità dell’offerta,
anche se finalizzato alla contesa e conseguente sottrazione della clientela, quando non
risulti violata alcuna regola di correttezza professionale o commerciale.

5. (continua)
Concorrenza sleale - Elementi modulari compatibili con prodotti commerciati
da impresa concorrente - Interconnettività - Forma necessaria - Confondibi-
lità sulla provenienza - Esclusione.

In tema di concorrenza sleale, la produzione di elementi modulari compatibili


con quelli già in distribuzione da parte di impresa concorrente non integra un com-
portamento idoneo a creare confusione sulla loro provenienza, poiché l’interconnetti-
vità tra sistemi modulari compatibili rappresenta un’utilità che giustifica piena-
mente la concorrenziale e millimetrica riproduzione degli elementi di connessione,
rientrando nella categoria delle forme “necessarie” e funzionali all’uso del prodotto.
(Nella fattispecie, relativa a “mattoncini” per costruzioni destinati a giochi per l’in-
fanzia, la Corte ha riformato la pronuncia di secondo grado, escludendo che l’ele-
mento della compatibilità del prodotto nuovo con quello già nel mercato fosse quali-
ficabile come atto di concorrenza sleale).

6. (continua)
Concorrenza sleale - Fattispecie prevista nell’art. 2598 cod. civ. - Autonomia
della “causa petendi” - Conseguenze - Esclusione da parte del giudice del me-
rito della violazione ex art. 2598 cod. civ. n. 1 - Accoglimento relativo all’art.
2598 n. 3 cod. civ. - Ricorso per cassazione della parte soccombente - Conte-
stazione del rigetto riguardante la violazione ex art. 2598 cod. civ. - Ricorso
incidentale - Necessità.

In tema di concorrenza sleale, ognuna delle ipotesi previste dall’art. 2598 cod.
civ. individua un’autonoma “causa petendi” fondata su accertamenti di fatto speci-
fici ed alternativi. Pertanto, quando il giudice di secondo grado abbia escluso la vio-
lazione dell’art. 2598 n. 1 cod. civ., non ravvisando l’esistenza di comportamenti ido-
nei a trarre in inganno sulla provenienza e sull’identità dei prodotti, ma abbia fon-
dato l’accoglimento della domanda sull’accertamento della violazione della correttezza
professionale secondo il parametro stabilito nell’art. 2598 cod. civ. n. 3, deve essere
582 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

proposto ricorso incidentale per contestare l’accertamento negativo relativo alla fatti-
specie di cui all’art. 2598 n. 1 cod. civ., ed impedire la formazione del giudicato sul
rigetto di tale specifica domanda.
(Pubblicata in questa Rivista, 2008, II, p. 151 ss., con commento di S. PE-
RON, Presupposti soggettivi della concorrenza sleale: brevi note).

7. Cass. civ., sez. I, 7 marzo 2008 n. 6194 — Pres. DE MUSIS — Rel. NAPPI —
P.M. PRATIS (Conf.) — Bonfiglioli Riduttori s.p.a. c. Motovario s.p.a.
Concorrenza sleale - Storno di dipendenti - Sussunzione nella fattispecie di cui
all’art. 2598 n. 3 c.c. - Condizioni.

Non può essere considerata di per se illecita l’assunzione di personale prove-


niente da un’impresa concorrente, se l’operazione non sia condotta in violazione delle
norme di correttezza richiamate dall’art. 2598 c.c., n. 3, ad esempio mediante deni-
grazione del datore di lavoro, e in modo da provocargli danno.

8. Cass. civ., sez. I, Ord. 9 aprile 2008 n. 9167 — Pres. PROTO — Rel. PETITTI
— P.M. FUZIO (Diff.) — Taddia srl c. Leon Infortunistica sas.
Concorrenza sleale - Azione per la repressione della concorrenza - Risarci-
mento del danno - Interferenza con la tutela della proprietà industriale ed in-
tellettuale - Nozione - Rinvio alla connessione e all’accessorietà delle cause -
Necessità - Esclusione - Limiti - Conseguenze.

In tema di controversie aventi ad oggetto fattispecie di concorrenza sleale inter-


ferenti con la tutela della proprietà industriale ed intellettuale, devolute dall’art. 3 del
d.lgs. 27 giugno 2003, n. 168 (applicabile nel testo “ratione temporis” anteriore al-
l’art. 134 del d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30) alla competenza delle sezioni specializ-
zate presso i tribunali, il criterio di attribuzione non coincide con gli istituti della
connessione e dell’accessorietà di cui agli artt. 31 e 40 cod. proc. civ., essendo suffi-
ciente, per affermare la predetta competenza, un collegamento per cui la domanda di
concorrenza sleale o di risarcimento del danno richieda anche solo indirettamente
l’accertamento dell’esistenza di un diritto di proprietà industriale ed intellettuale.
(La S.C., regolando la competenza in favore della sezione specializzata del tribunale
in materia di proprietà industriale ed intellettuale, ha affermato rientrarvi la contro-
versia nella quale la asserita titolare di privativa di un sistema di gestione nel settore
dell’infortunistica aveva chiesto l’inibitoria all’utilizzo, attraverso comportamenti
slealmente concorrenziali, della propria denominazione commerciale protetta).

9. Cass. civ., sez. I, 16 aprile 2008 n. 10062 — Pres. PROTO — Rel. PANEBIANCO
— P.M. (Conf.) — Bazar snc di Pedini e Mezzanotti c. Pedini.
Concorrenza - Limiti legali - Divieto di concorrenza ex art. 2557 I co. c.c. -
IV. - Massimario 583

Natura dispositiva - Conseguenze - Derogabilità - Regime giuridico anteriore


alla legge n. 310 del 1993 - Prova della deroga - Atto scritto - Necessità -
Esclusione.

In tema di cessione d’azienda, il divieto di concorrenza, posto a carico dell’alie-


nante dall’art. 2557, primo comma, cod. civ., non persegue un interesse pubblico,
trattandosi di una norma di natura dispositiva che, prima dell’entrata in vigore della
legge 12 agosto 1993, n. 310, con la quale è stato imposto l’obbligo della forma scritta
ad probationem ai contratti di trasferimento della proprietà o del godimento del-
l’azienda, poteva essere derogata anche mediante un patto tacito, desumibile “per
facta concludentia” dalla condotta delle parti.

10. Cass. civ., sez. I, 21 maggio 2008 n. 13051 — Pres. PROTO — Rel. SALMÈ —
P.M. APICE (Conf.) — Banca Popolare di Milano scarl c. Altroconsumo, Cit-
tadinanzattiva, Associazione bancaria italiana ed a.
Concorrenza - Posizione dominante collettiva - Norme bancarie uniformi -
Elaborazione, diffusione e positiva valutazione di condizioni generali di con-
tratto da parte di un’associazione di categoria delle banche - Assenza di abuso
- Autorevolezza e rappresentatività dell’associazione - Conseguenze.

L’Associazione bancaria italiana (Abi) è una associazione di categoria di ban-


che, che svolge, tra l’altro, l’attività di elaborazione, diffusione e raccomandazione (o
positiva valutazione) di condizioni generali di contratto presso i propri associati:
tale attività è idonea ad influire sul mercato dei servizi bancari con modalità che, se
per un verso non urtano contro il divieto di abuso di posizione dominante (sentenza
Corte Giust. CE 21 gennaio 1999, in cause riunite C-215/96 e C-216/96) per altro
verso rappresentano un indice sicuro della autorevolezza e rappresentatività dell’Abi
al fine del riconoscimento della sua legittimazione passiva nei giudizi promossi a
norma dell’art. 1469-sexies cod. civ. (ora abrogato dal d.lgs. n. 206 del 2005) nel te-
sto vigente anteriormente alla modifica recata con l’art. 6 della legge n. 14 del 2003.

11. Cass. civ., sez. I, 21 maggio 2008 n. 13067 — Pres. CARNEVALE — Rel. RAGO-
NESI — P.M. GOLIA (Conf.) — Scifoni Renata di Scifoni Carlo e C. sas c. Sci-
foni Fratelli organizzazione internazionale per le onoranze funebri di Scifoni
Patrizia sas.
Concorrenza sleale - Azione inibitoria della pubblicità ex art. 2599 cod. civ. -
Pronuncia inibitoria - Oggetto di giudicato - Nuova azione di concorrenza
sleale - Domanda di inibitoria all’utilizzo del medesimo nome nella denomi-
nazione sociale - Ammissibilità - Fondamento - Condizioni - Conseguenze - Fat-
tispecie.

In tema di concorrenza sleale, la funzione dell’azione inibitoria di cui all’art.


2599 cod. civ. mette capo ad una pronuncia che, sebbene non suscettibile di attua-
584 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

zione diretta nelle forme dell’esecuzione forzata, può costituire oggetto di giudicato,
consentendo di “acquisire” ad un eventuale secondo giudizio di cognizione l’accerta-
mento, compiuto nel primo giudizio, dell’illiceità dell’atto ex art. 2598 cod. civ.; i
principi sui limiti oggettivi di tale giudicato sono rispettati se fra i due comporta-
menti (quello considerato nella pronuncia inibitoria e quello successivamente realiz-
zato) sussista un’identità di genere e specie, all’interno della quale le eventuali va-
riazioni meramente estrinseche e non caratterizzanti non possono fare escludere l’ope-
ratività della pronuncia medesima; ne consegue che se oggetto della seconda azione
non è l’accertamento dell’adempimento del giudicato formatosi sulla prima pronun-
cia inibitoria, bensı̀ la verifica di nuovi comportamenti pubblicitari in funzione an-
ticoncorrenziale, la predetta identità non sussiste, né dunque può essere invocato al-
cun giudicato. (Fattispecie decisa con riguardo ad una prima pronuncia che inibiva
ad una società l’uso di una certa denominazione nella pubblicità se non previa ado-
zione di particolari accorgimenti, oggetto di azione ritenuta dalla S.C. diversa ri-
spetto alla successiva azione con cui veniva domandata sia l’inibizione totale all’uti-
lizzo della medesima denominazione altresı̀ nella ragione sociale del concorrente con-
venuto sia l’accertamento dell’usurpazione del marchio).

12. Cass. civ., sez. I, 23 maggio 2008 n. 13424 — Pres. PROTO — Rel. RAGONESI
— P.M. ABBRITTI (Conf.) — Bardazzi c. Facem srl.
Concorrenza sleale - Uso di mezzi non conformi alla correttezza professionale
- Storno di dipendenti - Elementi - Consapevolezza dell’idoneità dell’atto a
danneggiare l’altrui impresa - “Animus nocendi” - Accertamento - Fattispe-
cie.

Affinché lo storno dei dipendenti di un’impresa concorrente possa costituire atto


di concorrenza sleale, sono necessari la consapevolezza nel soggetto agente dell’ido-
neità dell’atto a danneggiare l’altrui impresa ed altresı̀ l’“animus nocendi”, cioè
l’intenzione di conseguire tale risultato, da ritenersi sussistente ogni volta che lo
storno sia stato posto in essere con modalità tali da non potersi giustificare, in rap-
porto ai principi di correttezza professionale, se non supponendo nell’autore l’intento
di recare pregiudizio all’organizzazione ed alla struttura produttiva del concorrente.(Fat-
tispecie in materia di costituzione, da parte del socio di una società in nome collet-
tivo, di una società a responsabilità limitata avente oggetto identico a quello della
prima società, con l’assunzione nella nuova società di cinque dipendenti su undici
già in forze alla vecchia impresa, essendo provato per taluno di essi l’invito a dimet-
tersi e, per gli altri, il rafforzamento della volontà di interrompere il rapporto di la-
voro, quali comportamenti dell’autore dello storno).

13. (continua)
Concorrenza sleale - Storno di dipendenti - Presupposti - Particolare qualifi-
cazione ed utilità per l’impresa concorrente - Necessità.
IV. - Massimario 585

Affinché lo storno di dipendenti altrui possa configurare atto di concorrenza


sleale, si richiede che i dipendenti medesimi siano particolarmente qualificati ed utili
per la gestione dell’impresa concorrente, in relazione all’impiego delle rispettive co-
noscenze tecniche usate presso l’altra impresa e non possedute dal concorrente stesso,
cosı̀ permettendo a quest’ultimo l’ingresso nel mercato prima di quanto sarebbe stato
possibile in base ai propri studi e ricerche.

14. Cass. civ., sez. I, 4 giugno 2008 n. 14793 — Pres. PROTO — Rel. TAVASSI —
P.M. RUSSO (Diff.) — MO.VE. mobiliare veneta SpA c. Ligabue Catering
SpA.
Concorrenza sleale - Uso di mezzi non conformi alla correttezza professionale
- Presupposti e condizioni - Idoneità al danneggiamento dell’altrui azienda -
Effetto di sviamento di clientela anche solo potenziale - Sufficienza - Fattispe-
cie.

L’art. 2598, n. 3, cod. civ. fissa una nozione di concorrenza sleale più ampia di
quella propria dei due precedenti numeri riferendosi all’uso diretto o indiretto di ogni
altro mezzo contrario ai principi della correttezza professionale; l’idoneità di tale uso
a danneggiare l’altrui azienda, per il suo potenziale effetto di sviamento della clien-
tela, rende irrilevante la confondibilità obiettiva e materiale dei prodotti e delle atti-
vità concorrenti. (Principio enunciato dalla S.C. in riferimento alla condotta di un
imprenditore che, gestendo un bar nelle immediate vicinanze di un esercizio concor-
rente, famoso per l’offerta di ristorazione accompagnata da un servizio di orchestra
all’esterno, aveva esposto un cartello con la scritta “nessun supplemento per la mu-
sica”, cosı̀ da indurre il pubblico a ritenere che egli ponesse gratuitamente a dispo-
sizione della clientela un servizio, fornito in realtà da altri).

15. Cass. civ., sez. I, Ord. 19 giugno 2008 n. 16744 — Pres. ADAMO — Rel. CUL-
TRERA — P.M. MARTONE (Conf.) — Italstudio spa c. Posanzini ed a.

Concorrenza sleale — “Mailing list” dei clienti - Informazione aziendale -


Configurabilità- Esclusione - Opera dell’ingegno - Configurabilità - Esclu-
sione - Conseguenze - Sottrazione ad opera di ex dipendente - Concorrenza
sleale - Configurabilità- Domanda di risarcimento dei danni - Interferenza con
diritti di proprietà industriale - Esclusione - Effetti - Competenza delle sezioni
specializzate in materia di proprietà industriale - Esclusione.

Esula dalla competenza delle sezioni specializzate in materia di proprietà indu-


striale, ai sensi dell’art. 134 del d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, la domanda, propo-
sta da una società operante nel settore della fiscalità “on line”, di risarcimento dei
danni derivanti dalla sottrazione, ad opera di un ex dipendente, di alcuni “files”
contenenti un elenco di clienti e “partners” corredato dei rispettivi indirizzi postali
e telefonici, ma privo di qualsiasi riferimento al reddito o alle condizioni patrimo-
niali dei soggetti indicati, e di ogni altra notizia utile all’attività economica eserci-
586 Rivista di Diritto Industriale - 2008 - Parte II

tata dall’attrice: l’assenza di tali elementi impedisce infatti di qualificare tale elenco
come informazione aziendale, tutelata dall’art. 98 del d.lgs. n. 30 cit., rendendo la fat-
tispecie riconducibile alla concorrenza sleale c.d. pura, la quale resta affidata alla
competenza del giudice ordinario, ove, come nella specie, non possa ravvisarsi un’in-
terferenza neppure indiretta con l’esercizio di diritti di proprietà industriale o del di-
ritto d’autore, trattandosi di un documento privo dei caratteri di creatività e novità
propri delle opere dell’ingegno e non emergendo né dall’atto di citazione né dalle di-
fese del convenuto alcun riferimento, neppure in chiave di mera delibazione e nep-
pure incidentale, a diritti titolati dal codice della proprietà industriale.

Potrebbero piacerti anche