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contos

storie in viaggio

Dagli archivi alla scena

FIABE A MERENDA
Si racconta si ascolta e si mangia

LA STORIA DI DONNA FRANCESCA ZATRILLAS


La ricostruzione di un giallo storico
tra fonti ufficiali e memoria popolare

CARTOLINE SONORE
Paesaggio, suono, archivio
Dicembre 2008 - n° 8
INDICE

p. 7 I. Fiabe a merenda

9 I.a La storia di Pauleddu

18 I.b La leggenda del lievito

21 I.c Sant’Antonio e il fuoco

26 II. La storia di Donna Francesca Zatrillas

31 III. Cartoline sonore


Il progetto Dagli archivi alla scena
la memoria orale nell’era digitale

Il progetto Dagli Archivi alla Sce- zione che fa capo al Ministero dei
na è stato avviato già da due anni Beni Culturali, si prosegue con gli
all’interno dell’attività di ricer- archivi audio-visivi e mediateche,
ca di Archivi del Sud. Da sempre sempre più numerosi e importan-
l’associazione ha nella sua mission ti, ma dove già le metodologie di
la diffusione e divulgazione del catalogazione e salvaguardia di-
patrimonio di tradizione orale. vergono e sfuggono all’istituzione
Si tratta di beni culturali dal ca- centrale, per arrivare agli “archi-
rattere particolare, “intangibili”, vi viventi”, coloro che l’etnolo-
dice l’Unesco, o “volatili”, come gia chiama con termine neutro
ama definirli Alberto Mario Cire- “informatori” e che sono maestri
se, e gli archivi che li custodisco- della memoria, che nell’antichità
no e proteggono dall’oblio sono era un’arte, l’ars memorandi, a cui
anch’essi di natura diversa. Cer- era preposta la divinità madre di
chiamo perciò di definire innan- tutte le Muse, Mnemosine. Nel ra-
zitutto il primo termine in cui si pidissimo cambiamento dei tempi
articola il progetto: “archivi”. moderni, coloro che con volontà,
non per caso, conservano e voglio-
Diamo a questa parola l’acce- no trasmettere il proprio patrimo-
zione più ampia possibile, inten- nio personale di storie, di saperi,
dendo qualsiasi contenitore entro di ricordi, sono preziosi archivi di
il quale dei supporti di diverso memoria.
genere conservano documenti
ascrivibili alla “tradizione orale”, Condurre la ricerca attraver-
il nostro campo d’indagine. Si va so elementi tanto diversi tra loro
dagli archivi storici e le bibliote- comporta problemi metodologici,
che, istituzioni ben definite e ri- che in un certo senso il continuo e
conoscibili nell’attuale organizza- rapidissimo divenire tecnologico

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continua a complicare. Pensiamo tecnici sempre più giovani a sce-


solo alla questione dei supporti gliere che cosa e come conservare
che consentono la conservazione, per i posteri, un impegno ormai
avevamo appena finito di incan- titanico.
tarci sulle meraviglie del DAT che
spunta il DVD, che si appresta ad Il secondo termine del nostro
essere sostituito dal Blu-Ray… una progetto ci indirizza sul campo del-
le “performing arts”, a cui in realtà
follia incantatoria per gli archivi-
sti moderni, continuamente pro- appartengono anche i materiali del
tesi nella quest del mezzo magico. nostro campo di ricerca: “volatili”,
per tornare alla definizione di Ci-
I più grandi archivi del mon- rese, sono quei beni culturali che
do, la Bibliothèque Nationale de trovano espressione nel momento
France, l’INA francese, la BBC, la stesso della loro performance, perciò
Biblioteca del Congresso statuni- sono in sé degli eventi unici e irri-
tense, si affannano con schiere di petibili e sfuggono a qualsiasi tenta-

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tivo di scrittura. Si pensi al proble- rienze che riteniamo dei modelli
ma della trascrizione musicale del ripercorribili e abbiamo adattato le
repertorio di origine popolare. Se il nostre proposte all’uditorio, all’oc-
luogo della performance è la scena, casione e anche al budget.
il nostro raggio di interesse si esten-
de alle arti dello spettacolo dal vivo. Le esperienze che vi illustria-
La scena è lo spazio che qualcuno mo in questo numero della rivista
occupa nel tempo presente per co- “Contos” sono tre: Le Fiabe a me-
municare con un pubblico anche renda, dove si racconta si ascolta e
questo presente, non virtuale. si mangia; La storia di Donna Fran-
cesca Zatrillas, la ricostruzione di
La riflessione sulla quale ci siamo un giallo storico tra fonti ufficiali
concentrati è in quale maniera sia e memoria popolare; Le Cartoline
possibile far uscire dall’archivio il sonore, ovvero paesaggio, suono,
patrimonio culturale e fare in modo archivio.
che raggiunga il più ampio pubblico
possibile. Il rischio è, infatti, quello
di spendere una quantità enorme
di energia per salvaguardare, digi-
talizzare, catalogare una serie pra-
ticamente infinita e multiforme di
contenuti, spesso preziosissimi, dei
veri e propri tesori, destinati però
a rimanere nascosti o accessibili ad
una ristretta cerchia di studiosi che
possiede le chiavi di accesso al sa-
pere.

Noi abbiamo provato a proporre


dei percorsi, certo con i mezzi mo-
destissimi di cui attualmente dispo-
niamo. Abbiamo guardato ad espe-

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I. Fiabe a merenda

Le fiabe con la merenda c’en- nomi con cui, nella variante lo-
trano più o meno quanto i cavoli. cale del sardo, si indicano i pasti
Perché non era certo l’ora in cui si della giornata: immulzare, bustare,
raccontavano le storie, quella del- chenare. Si verifica che la merenda
la merenda. Una volta, quando si non c’è. Molti dicono: «non ci ave-
usava raccontare le storie ci si riu- vo mai pensato»)
niva alla fine della giornata di duro
lavoro, le sere d’estate fuori dalla La parola non c’è, e se non c’è
la parola non c’è neanche la cosa.
porta, in sa carrela, e d’inverno in-
torno al camino, in sa tziminea o Nel senso che la merenda è un’in-
venzione moderna, del benessere,
su ‘ochile. O nelle stalle delle gran-
di case coloniche, quando il fred- del baby boom. Prima non si aveva
do della lunga notte invernale era l’abitudine di mangiare tanto, an-
attenuato dal calore degli animali, che perché non sempre ce n’era,
come si può vedere ne l’albero deglidi che mangiare. A volte era già
zoccoli di Ermanno Olmi. tanto riuscire a fare due pasti, si
era fortunati se c’era qualcosa a
Ora che le fiabe non si racconta- bustare e a chenare.
no più - tutt’al più si leggono, ma
soprattutto si vedono alla tv e nel Del resto anche le fiabe molto
dvd al computer - possiamo anche spesso parlano di questa situazione
permetterci di raccontarle all’ora di mancanza di cibo: quante storie
della merenda. Che prima non esi- iniziano con la povera famiglia che
steva, la merenda. Infatti, come si non può sfamare i figli, e quante
dice in sardo “merenda”? si concludono con il banchetto nu-
ziale, dove la più grande felicità è
(gli ascoltatori riflettono, non l’abbondanza di cibo. E la più gran-
trovano la parola, ripassiamo i de tristezza è la tavola vuota.

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In effetti, una volta, c’era uno sentite, questo pane suona come
spettro che si aggirava per i pae- un tamburo (lo accosto al microfo-
si, ed era uno spettro che faceva no e tamburello sotto la sfoglia con
paura a tutti, grandi e piccoli. Non i polpastrelli), non solo, ma suona
era Mommoti, non era sa mama de quando lo spezzate e quando lo
su sole, ma quello più terribile di mangiate. Perché? Come è questo
tutti era Mastru Juanne, quando si pane a differenza dell’altro pane
infilava nelle case tutto era per- rotondo che conosciamo, che fac-
duto. Perché Mastru Juanne era ciamo noi in Sardegna? (prendo
la fame. E la stagione più dura era una spianata tra le mani e mostro
l’inverno. la diversa consistenza, più morbi-
da). (I bambini elencano una serie
Ora, per fortuna quei tempi di aggettivi: duro, rigido, croccan-
sono passati, almeno dalle nostre te…). E perché è così?
parti. E il pane sulle nostre tavole
non manca mai. Ecco, a proposito
del pane…

(mostro una bella forma rotonda


di pane carasau, lo faccio ruotare
o mimo il movimento del sole che
nasce e che tramonta)

Lo conoscete tutti questo (mol-


ti dicono «pane carasau»), sapete
come lo chiamano nel Continente?
Quando lascia l’isola tutto impac-
chettato per finire nei supermer-
cati del continente allora cambia
nome, lo chiamano … (qualcuno
mi precede «carta da musica»).
Perché carta da musica? In effetti

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I.a La storia di Pauleddu

A questo punto inizia la narrazione di una leggenda popolare sulla fata


del telaio d’oro. Una versione intitolata “Il tesoro di Arrole” si può leggere
in Dolores Turchi, Leggende e racconti popolari della Sardegna, Newton
Compton ed., pag. 125. Questa versione costituisce il canovaccio sul qua-
le ho costruito il mio racconto, che si è pian piano definito e caratterizza-
to nel corso dei diversi incontri)

Pauleddu era un bambino che aveva più o meno la vostra età, tu quanti
anni hai? Ecco come te, più o meno 9 o 10 anni. Soltanto che non andava
a scuola, la famiglia aveva bisogno di lui per governare il piccolo gregge di
capre. Sapete, una volta la vita era dura e spesso i bambini erano mandati
a lavorare molto presto. Nelle famiglie di pastori succedeva così, i bambi-
ni andavano a badare al bestiame nei pascoli, e non era proprio una vita
da Heidi (la conoscete Heidi?...) no, era una vita dura, stavano lontano
da casa per giorni e giorni, a volte per settimane. Allora la mamma gli
preparava il pane, il pane carasau (spiego la doppia cottura per tostarlo)
che durava anche mesi dentro lo zaino di cuoio che i pastori portavano
con sé nella montagna. Ecco perché è così, duro e croccante per la dop-
pia cottura, che lo fa durare a lungo dentro gli zaini di cuoio del pastore.

Ora Pauleddu era un pastorello dell’Ogliastra. Sapete dove si trova


l’Ogliastra? Quella regione dove ci sono paesi che si chiamano Baunei…
Lanusei… Urzulei… Arbatax… (molti la conoscono, continuano menzio-
nando altri paesi)

(Proseguo con la descrizione della montagna aspra e selvaggia


dell’Ogliastra, il tacco di Perda Liana “che Pauleddu conosceva bene, per-
ché gli serviva per orientarsi…”)

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Pauleddu dunque stava per giorni e giorni lontano da casa, da solo
nel suo ovile, su cuile, di ginepro (spiego brevemente come è fatto
l’ovile, il cerchio di pietre e il tetto di grossi rami di ginepro) e un po’ si
annoiava a stare da solo in montagna con le capre. Per lui la montagna
non aveva segreti, conosceva tutti i sentieri come le capre, e conosce-
va tutti i suoni. Il fruscio del vento tra gli alberi, il verso degli uccelli
e di altre bestie selvatiche, come il grugnito del cinghiale, il suono dei
campanacci delle sue capre, era capace di riconoscere ogni singola
capra dal suono della sua campanella. (ecc. ecc., il mondo dei rumori
può essere solo evocato dal narratore, invitando i bambini a comple-
tare e descrivere quali suoni si possono udire in questo ambiente, il
verso degli animali, il soffio del vento, e così via).

Ma, un bel giorno, Pauleddu sente un suono nuovo, che non aveva
mai sentito prima, tende l’orecchio e non ha dubbi: è una ragazza che
canta, con una voce così melodiosa che non aveva mai sentito una
cosa così bella, ma una ragazza da quelle parti non s’era mai vista!
Ascolta ancora meglio e riesce anche a capire da dove proveniva il suo-
no, veniva da una vecchia catapecchia, su una collinetta poco distante
dal suo ovile, ma messa in un punto che non ci si poteva arrivare,
tanto era fitta la boscaglia che la circondava, infatti nessuno andava lì
da molto tempo, il sentiero per arrivarci era sparito, ingoiato da un
intrico di rovi e arbusti.

Il giorno dopo arriva il babbo, per portargli le provviste, un po’ di


carasau, il formaggio, e controllare che tutto andasse bene. Pauleddu si
confida con il padre: “Ba’ – gli dice – lo sai che ho sentito una voce, la
voce di una ragazza che canta, e sembrava proprio venire da …”. Ma il
babbo lo interrompe: “Cosa sono queste fantasie, custos machines, non
c’è nessuna ragazza che canta qui, ci sei solo tu con le capre, e bada che
non te ne manchi qualcuna. Quello che hai sentito sarà stato il vento, il
vento quando si infila nei muretti a secco fischia, e a volte sembra una

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persona che canta, ma qui non c’è nessuno”. Il padre era severo, non
voleva che Pauleddu si distraesse dal suo lavoro con chissà quali pen-
sieri. E se ne va, se ne torna al paese dove aveva le sue cose da fare. E
Pauleddu, di nuovo solo, quella voce continua a sentirla il giorno dopo,
e il giorno dopo ancora e nella sua testa comincia una battaglia: ci vado
o non ci vado, bi ando o no bi ando. Era piccolo, un po’ aveva paura,
ma era anche molto curioso di vedere chi cantava con quella voce così
bella. E quindi, ci va o non ci va? Secondo voi … (lascio che siano i bam-
bini a scegliere, di solito prevalgono i “ci va!”, e certo, rispondo io, “ci va,
anche perché se no la storia finirebbe qui”).

Dunque Pauleddu decide di andare e incomincia a salire verso la ca-


supola abbandonata, si aiuta con un falcetto per aprirsi la strada, perché
come vi ho detto nessuno passava lì da tempo e il sentiero non c’era
più. E lui, Pauleddu, sale, aiutandosi con il falcetto per passare tra i rovi,
che gli strappavano i vestiti. Ma lui non si ferma, continua a salire, e più
sale e più si sente grande, senza paura, sempre guidato da quella voce
che canta dentro la casa. Arriva davanti alla porta, che non c’è più la
porta, al suo posto c’è una ragnatela spessa così, sapete quelle ragnatele
grosse che brrr! Che brividi. Pauleddu alza il falcetto e squarcia con un
gesto bello deciso la ragnatela e come cerca di guardare dentro viene
abbagliato da una luce fortissima, che gli fa stringere gli occhi, poi pian
piano li riapre e fa in tempo a vedere dentro la stanza, e vede una ra-
gazza bellissima con lunghi capelli d’oro che tesse seduta davanti ad un
telaio tutto d’oro.

Ma la ragazza subito si accorge che c’è un estraneo e prende tutto e


scappa, no, non scappa, sparisce. Pauleddu entra dentro la stanza, cerca
ancora di capire, ma sarà vero quello che ho visto, si dice, quando vede
che, per terra, la ragazza, nella fretta, ha lasciato la spola (la spola è un
piccolo oggetto del telaio che serve per far passare il filo della trama – lo
dico facendo il gesto delle tessitrici, mentre mi rendo conto che i bam-

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bini non hanno familiarità con questo lavoro femminile e spesso non
hanno mai visto un telaio).

Una spola tutta d’oro. Subito Pauleddu pensa di prendere quella cosa
meravigliosa e portarla dal babbo, per fargli vedere che aveva ragione
lui. Afferra la spola e si precipita fuori dalla casupola per correre verso
il paese, verso casa.

Ma ha fatto appena in tempo a fare dieci passi che si scatena tutta la


furia degli elementi. Era una bella giornata, quando improvvisamente
si alza il vento, un vento fortissimo, impetuoso che scuote gli alberi e
solleva intorno a lui un vortice che sembra lo alzi per aria. Ma lui non si
ferma, corre corre a perdifiato giù nel sentiero che scende verso il paese.
Poi arrivano i tuoni e i fulmini e una pioggia fortissima che in due secon-
di è bagnato fradicio, ma lui non si ferma. Arriva davanti a quello che era
un torrentello che lui attraversava sempre con le sue capre saltellando
sulle pietre. Ma ora è diventato un fiume in piena che trascina tutto,
rami, tronchi. Ma Pauleddu dietro di lui ha una tempesta e il vortice di
vento e terra che sembra lo voglia inghiottire. Allora si getta nel fiume,
pensando di poter raggiungere in fretta l’altra sponda, sono solo un paio
di metri, ma la corrente impetuosa è più forte delle sue piccole braccia,
lui cerca di nuotare, sempre con la spola stretta in pugno, ma la corrente
lo trascina giù, Pauleddu non ce la fa, ma proprio in quel momento vede
un ramo. Un ramo di oleandro che si protende sull’acqua, la sua salvez-
za. Subito Pauleddu si aggrappa a quel ramo e riesce a tirarsi su e arrivare
sull’altra riva. Si salva, ma facendo così ha perso … (mimo il gesto della
mano che si aggrappa al ramo e ripeto “ha perso…” lasciando che siano
gli ascoltatori a completare: “la spola!” dicono subito i più attenti).

Giusto. La spola. E non appena la spola tocca l’acqua, tutto si pla-


ca. Il vento diventa una brezza leggera, la pioggia cessa, le nubi se ne
vanno e ricompare il cielo azzurro come prima. Pauleddu, bagnato

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fradicio, spaventato, e quasi in lacrime arriva a casa. Il babbo se lo


vede arrivare così davanti e subito lo rimprovera: Pauleddu! Cosa ci fai
tu qui! Perché hai lasciato sole le capre sulla montagna. E poi, perché
sei tutto bagnato? E Pauleddu risponde: Eh bà, la tempesta, i tuoni, la
pioggia, il torrente in piena…. Ma il babbo lo interrompe: La pioggia? Il
torrente in piena? Ma se sono mesi che non piove, che c’ è una siccità
da far spavento, magari piovesse…

E così Pauleddu ha capito che la ragazza che cantava e tesseva sul


telaio d’oro era una fata, e alle fate non si può mai prendere niente
per cercare di portarlo nel nostro mondo. E da quel giorno Pauleddu
raccontò agli altri pastori la storia della fata del telaio d’oro, fin quando
diventò vecchio e continuò a raccontarla ai suoi nipotini.

E così, se vi capita di andare sulla montagna dell’Ogliastra e sentire


una voce che canta, sappiate che quella è una fata e che non bisogna
disturbarla.

A questo punto dico: “Bene, visto che siete stati così bravi ad ascolta-
re questa storia, ora vi preparo una merenda” e durante la preparazio-
ne descrivo gli ingredienti)

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Prima merenda
Crepes di pane carasau
con formaggio
grattugiato pecorino

Prima di iniziare l’incontro preparo il


pane carasau: bagno la sfoglia di pane
sotto l’acqua del rubinetto e la depon-
go su un cesto avvolta da teli di cucina
inumiditi (importante che i teli siano
stati lavati solo con acqua, perché altri-
menti il pane sa di detersivo), preparo
diversi strati di sfoglie divise dai teli.
Dopo circa 15 minuti il pane diventa
morbido come una crepe.

Prendo le sfoglie, le stendo su un piat-


to e ci spargo sopra il formaggio pe-
corino grattugiato, quindi avvolgo in
modo da ottenere un rotolo che taglie-
rò a fette per distribuire la merenda.
Questa era la merenda dei pastori come
Pauleddu, si faceva con quello che c’era
a disposizione.

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Mentre i bambini gustano la merenda, faccio delle domande sulle


fate. Le fate della Sardegna, che si chiamano Janas, voi le avete mai
sentite nominare? Vivono nelle domus de janas, d’accordo, ma poi,
come sono? Mi volete aiutare a descrivere come sono, perché poi ogni
paese ha le sue Janas, non è detto che siano tutte uguali.

Insieme ai bambini ricostruisco le caratteristiche: si dice che siano


prima di tutto “BELLISSIME”, e lo abbiamo appena sentito nella storia
del pastorello, sono belle e hanno lunghi capelli d’oro. Poi? Si dice che
siano piccole, MOLTO PICCOLE, ma quanto esattamente? I bambini
misurano con le mani, chi mostra la misura di un palmo, chi fa “così”
con le due mani appena distanti, chi usa il pollice, oppure verbaliz-
zano, indicando le misure più diverse. Un giorno un bambino mi fa:
erano alte quanto il pollice di un bambino che ha compiuto nove anni!

Eh, sì erano piccole, tanto che si potevano infilare nelle case, di not-
te, quando la gente dormiva, attraverso il buco della serratura … ma
questa storia ve la racconto dopo. Piuttosto, continuiamo nella descri-
zione: un’altra cosa si sa di certo delle fate, che erano “ricchissime”,
beh, l’abbiamo visto, tessevano in telai tutti d’oro, e indossavano dei
BELLISSIMI COSTUMI, fatti con le stoffe che loro stesse creavano con
quei fantastici telai. Erano tessuti magnifici, sete e broccati con fili
d’oro e d’argento, che andavano di notte a lavare al fiume e poi sten-
devano ad asciugare sotto i raggi della luna. Perché le janas temono
il sole, si muovono solo con la LUCE DELLA LUNA, del resto il loro
stesso nome sembra derivare dalla divinità lunare, la dea Diana.

Ma torniamo al nostro racconto. Vi avevo detto che si potevano in-


filare nella serratura della chiave, stiamo parlando delle porte di una
volta, quelle grandi chiavi di ferro battuto … comunque sia, a Pozzo-
maggiore si racconta che le fate di Monte Oe, di notte, ogni tanto scen-
devano nel paese e si infilavano nelle case. E se vedevano un bambino

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che gli piaceva, lo chiamavano per tre volte, così: Antoneddu, Antoné,
oh Antoné. E quello si svegliava e le seguiva, loro lo guidavano lungo
il sentiero che conduce a Monte Oe, illuminando il cammino con la
luce che emanava dal loro corpo. E quando arrivavano al loro palazzo
gli spalancavano le porte e lo facevano entrare per mostrargli tutti i
loro tesori nascosti, su siddadu, s’iscusorgiu , su pòsidu. C’erano stanze
piene di forzieri e bauli che custodivano pietre preziose, gioielli, sete e
broccati, marenghi d’oro … Ma il tesoro delle fate non si poteva tocca-
re, se qualcuno cercava di prenderlo si trasformava subito in … (lascio
che siano i bambini a terminare, in cenere, in carbone, in polvere …).

Insomma, le fate erano belle, erano ricche, possedevano tutto, erano


magiche, ma… una cosa non conoscevano, non possedevano le janas,
una cosa che erano costrette ad andare a chiedere alle donne, alle
“donne di malomondo”, dicevano loro. E questa cosa è un ingrediente
del pane. Dunque adesso vorrei sapere da voi quali sono gli ingredien-
ti per fare il pane:

1. Farina (o grano)

2. Acqua

3. Sale

4. Lievito

E’ divertente lasciare che siano i bambini ad enumerare questi ele-


menti, anche gli errori aiutano a definire di che cosa è fatto il pane:
spesso ci mettono le uova…

Vedete, il pane è quanto di più semplice ci sia: farina, acqua, sale (a


volte aggiungo qualche battuta per richiamare l’attenzione su un’ali-
mentazione genuina: provate a leggere gli ingredienti di una merendi-

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na, e poi mi dite, ma questo è un messaggio più che altro rivolto agli
adulti presenti) e il lievito.

Come si dice “lievito” in sardo? (I bambini non lo sanno, lascio che


siano gli adulti a menzionare la parola, che avrà diverse forme secon-
do la località: fremmentalzu nel logudorese, frammentu più a Sud, e
così via, alcuni conoscono solo la parola madrighe, ma secondo la mia
esperienza sa madrighe è la pasta madre, e fremmentalzu è proprio il
lievito, la piccola palla di pasta che veniva conservata tra una panifi-
cazione e l’altra).

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I.b La leggenda del lievito

Le fate dunque non conoscevano il segreto del lievito ed erano co-


strette ad andare a chiederlo in prestito alle “donne di malomondo”,
che glielo prestavano, perché il lievito, come l’acqua e il fuoco, non si
deve negare mai.

Ma c’è stato un tempo che neanche le donne conoscevano il segre-


to del lievito, lo conosceva solo una donna, vecchia vecchia vecchia
quanto il mondo. Si chiamava Sa Sabia Sibilla e viveva in una grotta
ad Ozieri. All’origine del mondo, Dio le aveva dato il dono di conosce-
re tutte le cose del mondo e quindi, come dicevano ad Ozieri, “fudi
una grande sapientona”, e allora, siccome sapeva tante cose, le donne
mandavano le bambine a scuola da Sa Sabia Sibilla. Ora, in quei tem-
pi, le bambine a scuola imparavano a cucire, ricamare, tessere, filare,
cucinare e fare il pane. E come spesso accade anche oggi, ogni tanto le
bambine tornavano a casa portando i lavoretti fatti a scuola. Quando
facevano il pane, le mamme rimanevano tutte meravigliate, perché il
pane di Sa Sabia Sibilla era bello, morbido, gonfio, fragrante, mentre il
loro rimaneva piatto, arido, secco.

Allora, in questa scuola, andava anche Mariedda, che era la figlia di


sant’Anna, e la madre un giorno le dice: “Marie’, fai attenzione un po’ e
cerca di capire com’è che la tua maestra riesce a fare questo pane così
bello”. Mariedda era una bambina molto curiosa e quando voleva vera-
mente imparare qualcosa, non faceva tante domande, ma osservava,
in silenzio osservava tutto attentamente.

E così vede che Sa Sabia Sibilla prende il tavolo per fare il pane, sa
mesa, poi prende il recipiente di terracotta per versarvi la farina, su

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contos storie in viaggio

tianu, sa conchedda, su conculu …. E quindi con il setaccio, sedattu, ci


versa dentro la farina, sa podda, facendo in modo che formi una spe-
cie di collina conica e con la mano crea una sorta di cratere dove poi
verserà l’acqua. Quindi fa intiepidire un po’ d’acqua ma, prima di ver-
sarla dentro la farina, Mariedda osserva Sa Sabia Sibilla che va verso
la credenza e tira fuori una tazzina, una ciccheredda, coperta con un
piattino, e da questa tazzina tira fuori una palla di pasta cruda. Quindi
la fa sciogliere nell’acqua e versa il tutto nella farina. E a questo punto
inizia quell’operazione che a voi bambini piace tanto, infilare le mani
nella farina e incominciare a impastare, suighere, e poi lavorare per
bene, fuori dal recipiente, cummassare e infine cariare a forza di brac-
cia. Era un lavoro lungo che richiedeva fatica, podda proprio la stessa
parola per indicare la farina! E alla fine si dava forma al pane, poteva
essere la bella spianata rotonda, su poddine, o il pane morbido e sof-
fice, …

Ma intanto, Mariedda non si era mica distratta, aveva seguito tutte


le operazioni della Sabia Sibilla con grande attenzione e si era accorta
che era la pallina di pasta cruda l’ingrediente che mancava a sua mam-
ma Sant’Anna, era lì il segreto della Sabia Sibilla. E allora, sapete cosa
fa? Vede che erano rimasti sopra sa mesa dei rimasugli di quella pasta,
li prende e se li mette sotto l’ascella. Proprio così dice la storia. Ed è in
questo modo che riesce a trasportare l’ingrediente magico fino a casa,
dove spiega alla mamma per filo e per segno come deve fare. Non di-
menticando di conservare un pezzo di pasta cruda nella credenza per
la prossima panificazione.

E’ così che il segreto del lievito fu carpito da Mariedda alla Sabia


Sibilla, e da Sant’Anna passò a tutte le donne, così che tutte sapevano
fare il pane bello come quello della Sabia Sibilla. Quella quando ha
saputo ciò, le ha preso una tale gelosia che non è più riuscita a farlo
bene come una volta.

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Seconda merenda
Fette di pane con olio,
pomodoro, sale

Per il secondo assaggio vi propongo la


“merenda dei contadini”. Il principio
era: si mangia quello che c’è. E nelle
case dei contadini c’era il grano da cui
si ottiene la farina per fare il pane, l’olio
che si ottiene dalla coltivazione degli
olivi e i pomodori dell’orto. Il pane cam-
bia secondo le zone, in Sardegna c’è una
grande varietà di tipi di pane, se siamo
nel Campidano useremo su civraxiu, se
siamo nel Logudoro possiamo utilizzare
su pane ammoddigadu (focaccia) oppu-
re su poddine, altrimenti detto spianata.
In ogni località cerco il pane migliore
e rigorosamente a lievitazione naturale.
Tagliamo i pomodori a metà e li strofi-
niamo sulle fette di pane, un filo di olio
e pochissimo sale iodato di Sardegna.
Ecco una merenda gustosissima che i
bambini si divertono tanto a preparare
quanto a consumare.

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I.c Sant’Antonio e il fuoco

Bene, continuiamo ora con un’altra storia che ha a che fare con un
altro elemento magico, necessario alla vita, di cui oggi non potremmo
fare a meno. E’ qualcosa che serve anche per fare il pane … (invito i
bambini ad indovinare che cosa può essere, non ci vuol molto a scopri-
re che si tratta del FUOCO).

Bene, c’è stato un tempo in cui gli uomini non conoscevano il fuo-
co, o meglio lo conoscevano, ma non lo possedevano. Vi immaginate
che razza di vita? (con la collaborazione dei bambini elenchiamo le
cose che mancavano agli uomini primitivi senza il fuoco: il calore per
riscaldarsi, per illuminare, per scacciare le belve, per cuocere gli ali-
menti …). Così gli uomini, stanchi di questa vita così triste, decidono
di andare a chiedere aiuto a Sant’Antonio abate (da non confondere
con quello di Padova, che viene molti secoli dopo).

Sant’Antonio viveva da eremita in una grotta e gli uomini vanno a


cercarlo, lo chiamano e lui esce dalla sua grotta, accompagnato da
un maialino. Perché dovete sapere che Sant’Antonio, prima di essere
santo, era porcaro, allevava maiali e quando aveva deciso di ritirarsi in
preghiera aveva preso con sé un maialino che lo seguiva dappertutto
come un cucciolo. Allora, quando gli uomini lo vedono arrivare, gli si
rivolgono così: “Sant’Antonio, facci la carità, siamo uomini della terra,
siamo stanchi, abbiamo freddo, fame, procuraci il fuoco”. Il santo pro-
va compassione per quegli uomini e dice: “Sì, velo procuro il fuoco, so
io dove trovarlo”.

Dove va Sant’Antonio a cercare il fuoco, dove ce n’è tanto, che bru-


cia eterno … (nel vulcano! dicono subito i bambini di oggi con il loro

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razionalismo scientifico, che poco o nulla sanno dell’inferno con cui
una volta ci impaurivano al catechismo). Ebbene, va a cercarlo all’IN-
FERNO, là dove brucia sempre in gran quantità.

E parte, Sant’Antonio, seguito dal suo fedele maialino che scodinzola


come un cane felice dell’escursione, e con in mano un lungo bastone
di ferula. Ora la ferula è una pianta dall’alto fusto, molto comune an-
che in Sardegna nei terreni a pascolo, e questa pianta ha un legno che
all’interno è spugnoso, e questo come vedremo ha la sua importanza
per questa storia.

Sant’Antonio arriva al grande portale dell’inferno e con il suo ba-


stone bussa. TOC TOC, toc toc toc toc si sente l’eco dentro l’inferno
che si ripete nei gironi che scendono giù verso il centro della terra. I
diavoli non aspettano visite, chi è, gridano. “Sono un uomo della terra
– fa Sant’Antonio – fatemi entrare un poco a scaldarmi”. Ma i diavoli
capiscono subito che quello è un santo e non può entrare nell’inferno.
Cercano di cacciarlo via, ma Sant’Antonio riprende a bussare, TOC
TOC, toc toc toc toc … i diavoli allora iniziano a preoccuparsi che tutto
quel bussare non finisca per svegliare il grande capo, Lucifero, che
dorme negli abissi dell’inferno. Allora uno di loro si decide ad aprire
il portone, ma solo per dire a Sant’Antonio di andarsene. Ebbene, non
fa neanche in tempo perché il maialino non appena vede schiudersi
il portone, si infila dentro e incomincia a correre, a gettare uno scom-
piglio che non si era mai visto tanto confusione nell’inferno. I diavoli
lo inseguono, cercano di acchiapparlo, ma niente, lui sguscia via, e
grugnisce, grufola, tutto eccitato per tutte quelle scintille, il fumo, e
le fiamme. Insomma, alla fine i diavoli si vedono costretti a tornare al
portone dove avevano lasciato Sant’Antonio e lasciarlo entrare con l’or-
dine che riprenda il suo maialino e riporti la calma nell’inferno. Detto
fatto: basta che il maialino sia toccato dal bastone di ferula che ritorna
quieto ai piedi del santo. Ma ormai Sant’Antonio era entrato nell’in-

22
contos storie in viaggio

ferno e così prega i diavoli di lasciarlo lì per un po’, giusto il tempo di


scaldarsi un po’ i piedi. I diavoli acconsentono, ora non hanno tempo
di occuparsi di lui, gli dicono di mettersi in un angolo e di non fargli
perdere altro tempo, ché ora devono rimettere tutto in ordine e recu-
perare il tempo perso, sapete i diavoli tengono sempre tutto in ordine
e hanno tutto il loro tempo organizzato, non perdono un secondo.

Insomma, mentre i diavoli sono distratti dal loro lavoro, Sant’Anto-


nio sapete cosa fa? Prende il suo bastone di ferula1 e lo accosta alle
braci ardenti. Una scintilla entra dentro il bastone cavo e il legno spu-
gnoso incomincia a bruciare dentro, senza che si veda niente all’ester-
no. Una volta che Sant’Antonio capisce che il fuoco è entrato dentro il
suo bastone, incomincia ad allontanarsi e si dirige verso l’uscita salu-
tando e ringraziando i diavoli, che lo accompagnano subito al portone
ben contenti che se ne vada.

Sant’Antonio riprende il cammino per salire sulla terra, dove arriva


in una notte fredda e stellata, ci sono gli uomini che lo aspettano, e
quando li vede agita nell’aria il bastone che sprizza scintille e allora il
santo dice:

Fogu fogu peri su logu peru su mundu fogu iucundu.

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Terza merenda
Ricotta e miele

Per la terza merenda


ritorniamo nell’ovile
del pastorello Pauleddu.
Si mangia quello che c’è.
Nell’ovile dei pastori, oltre
al formaggio cosa c’è? La
ricotta. Bella morbida bianca
come la neve. Eccola qui. C’è an-
che il pane carasau. E un’altra cosa
che i pastori potevano trovare in cam-
pagna, il prodotto delle api, il miele.

Ecco qui un abbinamento che non tut-


ti conoscono: un pezzetto di ricotta sul
pane carasau e sopra il miele versato in
modo da formare tanti ghirigori, come
un ricamo prezioso. Ora lo servono
come un raffinato dessert nei migliori
ristoranti e non sanno che era solo una
delle merende di Pauleddu. Accanto alla
ricotta fresca si propone anche la ricotta
affumicata, su regottu mustiu. è un sapo-
re forte, ma spesso piace anche questo.

24
contos storie in viaggio

Accanto alla ricotta fresca si propone anche la ricotta affumicata, su


regottu mustiu. E’ un sapore forte, ma spesso piace anche questo.

Infine, si invitano i bambini ad accostarsi alla tavola e sperimentare


diverse combinazioni di sapori o fare il bis con la merenda che hanno
gradito di più.

Per terminare e salutare, chiudo con la formula di chiusura tipica


dei racconti di magia in Sardegna:

m’appo fattu unu paiu de iscarpas de taula


su chi appo nadu no isco né si est beru né si est faula

mi son fatta un paio di scarpe di tavola


ciò che ho detto non so se è vero o se è favola.

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II. La storia di Donna Francesca Zatrillas
Spettacolo per voce narrante

di Enedina Sanna

Come racconto nel prologo, ho ricostruito questa vicenda storica dopo


che questa, a più riprese, mi si è presentata nel corso delle mie ricerche
sulla memoria orale. Era come se la storia mi chiedesse di essere racconta-
ta, così mi sono decisa ad indagare. Le fonti ufficiali non mancano e sono
state ben studiate e confrontate dallo studioso Dionigi Scano che nel 1946
ha dedicato un saggio a questa storia. Tra le fonti scritte, ho trovato molto
interessante la lettura della Historia Cronologica y verdadera de todos los
sucessos y casos particulares sucedidos en la Isla y Reyno de Sardena del
ano 1637 al ano 1672 del padre cappuccino Giorgio Aleo che fu testimone
oculare dei fatti. Le fonti orali da me direttamente raccolte si riferiscono a
testimonianze ascoltate a Cuglieri, dove si conserva memoria della spen-
sierata e scandalosa condotta della Zatrillas, e a Gadoni, dove gli anziani
raccontano come il sicario Marcantonio Ghiani, tiratore infallibile, fu man-
dato ad uccidere il viceré e come si costruì l’alibi.

Come spesso accade, non sempre vi è concordanza tra le fonti orali e i


documenti d’archivio.

Questa è la storia in estrema sintesi: Donna Francesca Zatrillas, giovane


contessa di Cuglieri, andò in sposa a suo zio, Marchese di Laconi. Costui,
primo rappresentante dei nobili sardi, entrò in forte contrasto con il Vice-
ré spagnolo il marchese di Camarassa. Una notte Don Agostino marchese
di Laconi viene ucciso poco lontano dalla sua casa nel Castello di Cagliari.
Neanche un mese dopo, poco distante dal luogo del primo delitto, è il Vi-
ceré a cadere sotto i colpi d’archibugio dei sicari. Si scatena una stagione
di veleni e di ritorsioni da parte della Spagna contro i nobili sardi. La giova-

26
contos storie in viaggio

ne vedova Zatrillas, a soli due mesi dalla morte del marito, il giovane capi-
tano Silvestro Aymerich. La cosa viene sfruttata dal nuovo viceré inviato
dalla Spagna che ribalta il risultato delle indagini condotte fino ad allora e
accusa la Zatrillas di essere la mandante dell’omicidio del marito. E sulla
stessa famiglia dei Castelvì cade l’accusa di aver combinato l’assassinio del
Viceré. L’intrigo come l’epilogo sono degli di una tragedia shakespiriana.

Lo spettacolo è stato allestito per la manifestazione “Un’isola in festival”


promossa dalla Regione Sardegna e la Fondazione Teatro Lirico di Caglia-
ri. Sono state effettuate tre repliche a Cuglieri, Carbonia e Fonni con la
partecipazione di Enzo Favata, che ha composto le musiche originali, e
dei cori di Cuglieri “Su cuncordu” e “Sos Cantores”. Lo spettacolo era ar-
ricchito dalla proiezione di un filmato con immagini dei luoghi in cui si
svolge la vicenda, tra Cuglieri e Cagliari.

Qui di seguito si pubblica solo la parte iniziale dello spettacolo, ovvero


il prologo fino all’entrata in scena dei personaggi. Le prossime repliche
dello spettacolo saranno rese note attraverso il sito www.archividelsud.it

— Prologo

Per cominciare, perché raccontare questa storia ormai lontana nel tem-
po. Per la verità, non sono stata io a deciderlo. Il fatto è che questa vicenda
mi si è presentata più volte, mentre andavo in cerca di innocue leggende
popolari, mi si presentava ogni tanto sotto forma di frammento, di ricordo,
di aneddoto, nelle situazioni più diverse, mentre frugavo a caso tra i libri
di una biblioteca. Alla fine ho pensato: questa storia chiede di essere rac-
contata. E va bene, ho detto, la raccontiamo, così come fanno i cantastorie
siciliani con la Barunissa di Carini.

— Musica

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Questa è una tragedia perfettamente secentesca, così come noi siamo
abituati a guardare al Seicento, questo secolo buio e dorato, il tempo del
barocco e dell’Inquisizione, di grandi tragedie e quindi di grandi dramma-
turghi, come Shakespeare.

Ebbene, questa vicenda avrebbe ben potuto interessare Shakespeare


per quell’intreccio drammatico tra passione e potere, tra un destino infe-
lice e semplici, umani desideri di felicità, sentimenti che mettono subito
tutti sullo stesso piano, grandi re e poveri contadini, signore marchese e
umili venditrici di lumache.

Già, una venditrice di lumache è il primo personaggio che incontria-


mo in questa fosca vicenda. Al mercato di Sant’Avendrace a Cagliari quel
mattino la donna era arrivata presto dalla campagna per vendere il suo
povero raccolto. A proposito, gridava “lumache”? ,certo che no, sizigor-
rus o caragols, dipende, ma siccome al mercato ci andavano i servitori
e non i signori, io penso che la venditrice gridasse proprio sizigorrus,
aggiungendovi forse muy bonitos, e qualche altro straccio di parola nella
lingua dei dominatori. Perché all’epoca siamo sotto gli spagnoli, che siano
catalani, aragonesi o castigliani, ci dominano da tre secoli e la lingua uffi-
ciale è lo spagnolo. E anche i nostri personaggi, negli atti ufficiali, hanno
nomi in castigliano, Dona Francisca, Agustìn, Jaime, Jorge,…. Ma noi qui
per comodità useremo i nomi tradotti in italiano, così come li troviamo
nell’opera di Dionigi Scano, ingegnere e insigne studioso di cose sarde
che nel 1946 dedica alla vicenda una monografia sulla quale principal-
mente si basa questa mia ricostruzione.

Perché di questa storia ci sono molte varianti, un’unica verità forse non
la si ricostruirà mai, ammesso che si possa mai stabilire una sola verità
per le vicende umane, tanto più se queste sono alterate, inquinate da
sentimenti e ragioni di natura diversa.

28
contos storie in viaggio

Dunque, la nostra venditrice di lumache venuta dalla campagna ave-


va solo poche ore per poter vendere il suo raccolto, ma quel giorno, un
bel mattino di giugno, nel mercato di Sant’Avendrace, allora sobborgo
fuori dalle mura del Castell de Caller, gli affari andavano particolar-
mente bene, c’era movimento, molto più del solito, la donna si chiede la
ragione di quel brulichio nervoso di passanti, correre di miliziani da una
parte e cavalcare di gran signori dall’altra. Allora si fa spazio, la donna,
tra due ali di folla che si assiepano lungo la strada maestra e vede che
è in arrivo un corteo, è un corteo imponente che aveva percorso tutta
la Sardegna da Nord a Sud e che quel giorno giungeva a Cagliari, è una
sfilata molto particolare ed è il tristissimo epilogo della storia che stia-
mo per raccontarvi.

— Musica — Entrano i personaggi

Donna Francesca Zatrillas (1642-1671), IV Contessa di Cuglieri e III°


Marchesa di Sietefuentes, protagonista suo malgrado di questa fosca tra-
gedia.

Don Agostino di Castelvì (1610-1668), zio di Donna Francesca e suo


marito, 5° marchese di Laconi e prima voce dello stamento militare

Don Silvestro Aymerich (1647-1671), cadetto della famiglia dei conti


di Villamar, secondo marito della Zatrillas, nonché suo cugino, all’epo-
ca dei fatti ventenne; e sua madre la contessa di Villamar

Il Viceré spagnolo Don Emanuele Gomez de los Cobos, marchese di


Camarassa, e la sua consorte, donna Isabella di Portocarrero

Don Jaime Artal di Castelvì (1606-1671), Marchese di Cea, zio di


Donna Francesca e cugino di don Agostino

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Don Artal, giovane figlio della famiglia Alagon, marchesi di Villasor,
e sua madre donna Teresa Pimentel

Nobiluomini fedeli a Donna Francesca: Don Francesco Cao, Don


Francesco Portugues, Don Antonio Brondo e Don Gavino Grixoni, tutti
fedeli fino alla morte

Il gesuita Padre Salaris e Fra Giuseppe, padre cappuccino

Il nuovo Viceré, il Duca di S. Germano Don Francesco di Tutavilla

Marcantonio Ghiani, abile tiratore assoldato come sicario

Don Giacomo Alivesi, bandito, di nobile famiglia sassarese, il traditore

Servitori, donne e uomini, che nella vicenda non ebbero un ruolo di


poco conto

30
contos storie in viaggio

III. Le cartoline sonore

Realizzate dal musicista Enzo Favata, le cartoline sonore vanno ad


arricchire la sezione dei Paesaggi Sonori del sito www.archividelsud.it

Il materiale con cui sono composte è di natura eterogenea: vi sono


suoni d’ambiente, suoni prodotti dal lavoro artigianale, suoni ricon-
ducibili a situazioni di festa con canti e musiche tradizionali, voci di
uomini e donne che raccontano, spiegano, conversano tra loro.

Enzo Favata ha collaborato con Archivi del Sud fin dagli inizi della
sua attività e ha condotto negli anni innumerevoli indagini sul campo,
a partire dal 1992 con un’inchiesta sulle benas, l’antico strumento a
fiato precursore delle launeddas. Successivamente ha registrato e con-
tinua a registrare i suoni della Sardegna, nelle più diverse occasioni e
località, dalla Settimana Santa al Carnevale, dalle feste religiose della
primavera ai luoghi di lavoro artigianale. In questo modo, nel corso
degli anni, si è creato un prezioso archivio sonoro, una banca dati di
suoni che serve a documentare un patrimonio intangibile degno di
essere salvaguardato.

Le cartoline sonore sono l’opera artistica del musicista-ricercatore


che invita a visitare i luoghi attraverso l’ascolto del “paesaggio sono-
ro”. Visitiamo così Isili, il paese dei ramai e delle tessitrici; Gavoi nel
momento del suo carnevale con i Tumbarinos; Cabras nel giorno della
festa di Santu Srabadoi; la preghiera del mattino con i monaci nell’ab-
bazia benedettina di San Pietro di Sorres; la strada 131 con i camionisti
che la percorrono ogni giorno; il Venerdì Santo a Cuglieri; il rosario
cantato nel novenario di San Serafino di Ghilarza.

31
1. Preghiera del mattino nell’abbazia benedettina
di San Pietro di Sorres (SS).

2. La strada 131. Cartolina sonora dedicata ai camionisti.

3. Il racconto orale una voce femminile racconta


nel dialetto di Terralba (OR).

4. Il Carnevale di Gavoi (NU).

5. Le tessitrici di Isili (CA).

6. I ramai di Isili (CA).

7. Rosario cantato nel novenario di San Serafino a Ghilarza (OR).

8. La corsa degli scalzi nel villaggio di San Salvatore a Cabras (OR).

9. La faradda dei Candelieri di Sassari.

10. Venerdì Santo a Cuglieri.

32
contos storie in viaggio

Bibliografia / Discogafia

Fiabe a merenda

Dolores Turchi, Leggende e racconti popolari della Sardegna, Roma, Newton


Compton, 1984.

Chiarella Addari Rapallo, Fiabe di magia, leggende racconti formulari nella


narrativa popolare sarda, Cagliari, AM&D, 2005.

Chiarella Addari Rapallo, La leggenda del lievito, in In nome del pane: forme,
tecniche, occasioni della panificazione tradizionale in Sardegna, Nuoro, I.S.R.E.,
1991, pp. 23-25.

Enedina Sanna (a cura di), Contami unu Contu CD + libretto, vol. I Lo-
gudoro, traccia 8, Su contadu de sa Sabia Sibilla (Ozieri, narratrice Bonaria
Manca, raccolta da Maria Manunta).

Fonti orali inedite:


Sa sabia Sibebia, Uras, raccontata da Maria Orrù, raccolta da Rita Marras
(tesi di laurea Università di Cagliari).
Su contadu de Sant’Antoni de su fogu, Nughedu San Nicolò, raccontato da
Salvatore Secchi, raccolto da Maria Manunta (tesi di laurea Università
di Cagliari).
Sant’Antoni de su fogu, Busachi, raccontato da Francesca Scanu, raccolto
da Virginia Tatti (tesi di laurea Università di Cagliari).

Ricostruzione della storia di Donna Francesca Zatrillas

AA.VV., Fonti orali: istruzioni per l’uso, Venezia, Società di Mutuo Soccorso
Ernesto De Martino, 2008

Dionigi Scano, Donna Francesca di Zatrillas : marchesa di Laconi e di Siete-


fuentes : notizie sugli avvenimenti che nel 1668 culminarono con gli omicidi
del marchese di Laconi don Agostino di Castelvi e del marchese di Cama-

33
rassa don Manuele Gomez De Los Cobos, vicere di Sardegna, Cagliari,
Società editoriale italiana, 1942.

Giorgio Aleo, Historia cronologica y verdadera de todos los successos y co-


sas particolares succedidas en la Isla y Regno de Sardena del ano 1637 al
ano 1672 (in C. Thermes, Il “mio” Giorgio Aleo e la sua “Historia”, Ca-
gliari, Artigianarte, 2003.

Fonti orali inedite:


Registrazioni sul campo effettuate da Enedina Sanna a Cuglieri, 2001, e a
Gadoni, 2008.

Link

Archivi sonori nel web

BBC Sound Archives UK


- www.bbc.co.uk/archive/sound_archive

National Library of Congress U.S.A.


- www.loc.gov/library/libarch-digital.html

INA Francia
- www.ina.fr

Phonothèque de la Maison Méditérranéenne des Sciences de L’Homme


- phonotheque.mmsh.univ-aix.fr

34
associazione

www.archividelsud.it | archividelsud@tiscali.it

Contos storie in viaggio Testi


è il periodico del’associazione Archivi Enedina Sanna
del Sud. Ha lo scopo di divulgare
l’attività di ricerca che l’associazione
Con la collaborazione di
porta avanti dal 1992 nel campo della
letteratura di tradizione orale, con
particolare riferimento a quella della Redazione ed editing
Sardegna e dei paesi del Mediterraneo.
Antonella Sanna

La rivista è un mezzo per continuare Grafica


a tramandare le storie delle tradizioni Michele Rando
popolari di tutto il mondo con l’auspi-
cio che, attraverso la scrittura, pos-
Disegno di copertina
sano rientrare nel solco dell’oralità e
Gennaro Vallifuoco
ritornare ad essere raccontate. Perciò
si rivolge non solo agli studiosi, ma
anche a genitori, maestri, biblio-
tecari, e a tutti coloro che abbiano
piacere di ritrovare i racconti nella
forma il più vicina possibile a quella
della narrazione orale. Pubblicato online nel dicembre 2008
cossolou
grafica:
Dicembre 2008 - n° 8

Rivista realizzata con il contributo di

provincia
di sassari

Registrazione Tribunale di Sassari n. 388 del 29/01/2002

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