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LE DOMUS ROMANE DI PALAZZO VALENTINI: UN ESEMPIO DI SCAVO URBANO E DI

VALORIZZAZIONE ATTRAVERSO UN PERCORSO MULTIMEDIALE


Progetto di: Paola Baldassarri; Piero Angela; Paco Lanciano (2005)
Nel caso della Provincia di Roma non si tratta di un complesso museale, ma piuttosto di un progetto nato per
valorizzare le Domus Romane scoperte in questi ultimi anni sotto Palazzo Valentini, sede della Provincia. Il
progetto è stato promosso dalla Provincia di Roma in collaborazione con la Sovrintendenza archeologica. I
reperti portati alla luce durante gli scavi sono stati esposti in una struttura in plexiglass collocata nel cortile di
Palazzo Valentini, mentre attraverso un software per la ricostruzione virtuale viene riproposto, al fruitore, il
modello tridimensionale della villa romana, occultata nel Rinascimento dalla costruzione dell’attuale palazzo.
Le indagini archeologiche in corso avviate nel 2005 in una serie di ambienti sotterranei di palazzo Valentini 1
, sono strettamente collegate a uno studio storico e architettonico dell’edificio, le cui complesse vicende
edilizie, anch’esse in corso di studio, si snodano a partire dalla metà del ’500 fino a tutto l’Ottocento.
Altrettanto complesse sono state la progettazione e la realizzazione del percorso di visita, che dovevano
rispondere al criterio di massima visibilità delle strutture archeologiche messe in luce e, al tempo stesso,
soddisfare le esigenze di sicurezza e accessibilità ai locali da parte di un’utenza allargata e permettere lo
svolgimento, almeno in alcuni settori, anche di eventi artistici e culturali di altro tipo. Il percorso quindi è stato
realizzato con l’inserimento di pavimenti e passerelle vetrate, fissati a una quota variabile che rispetta i diversi
livelli pavimentali delle cantine del Palazzo; un tale allestimento da un lato permette di leggere appieno la
volumetria dei resti archeologici, dall’altro rispetta il contenitore, agganciandosi esclusivamente alle
fondazioni o a muri privi di rivestimento o con intonaco non decorato.
L’indagine archeologica nei cinque ambienti scavati tra il 2005 e il 2007 ha rivelato una frequentazione
continuativa dell’area tra la fine del I e il V sec. d.C., articolata in una serie di fasi edilizie, le cui emergenze
maggiori sono relative ai resti di due Domus signorili di età medio e tardo imperiale – le c.d. Domus A e B.
Frigidarium. Ricostruzione con tecniche

multimediali
Domus A, di cui restano solo due ambienti, ma la cui estensione è sicura sia verso Sud che verso Est, dove
forse è da collocare l’ingresso. Quanto ora visibile della sistemazione interna risale alla fase di ristrutturazione
tardoantica, quando è sicuramente identificabile come Domus.
mosaico del tricliinium della
Domus A. Parzialmente
ricostruito virtualmente.
attraverso una soglia in marmo
proconnesio si accede forse a
un piccolo triclinio, come fa
riferimento la presenza, nella
decorazione musiva del
pavimento, di un kantharos
circondato da foglie di vite.
Allestimento e progetto museale
L’elemento multimediale coadiuva e diventa strumento di lettura imprescindibile per il visitatore. Una volta
entrato nel palazzo e sceso nei sotterranei potrai accedere alla domus, rendendoti subito conto che si tratta di
un sito archeologico piuttosto insolito. Il percorso non mostra solo rovine, ma grazie a tecnologie multimediali
come proiezioni grafiche e giochi di luce è stato possibile ricostruire ambienti, mosaici, statue, piscine,
giardini e molto altro. Non mancano neanche effetti speciali come pioggia o addirittura il terremoto. Tutto ciò
non è frutto della fantasia ma di attenti studi da parte di archeologi e storici dell’arte. Una voce celebre, quella
di Piero Angela, guida il percorso illustrando gli ambienti e le abitudini della ricca famiglia patrizia che un
tempo abitava in questa casa e che l’abbellì con dipinti, decorazioni, marmi pregiati, intonaci colorati, colonne,
capitelli.
Grazie agli effetti multimediali portai visitare i vari ambienti della domus: il triclinium dove veniva servito
il pranzo sulla tavola a raggiera, l’atrio con l’impluvium per raccogliere l’acqua piovana, la Sala delle Absidi
dove venivano accolti gli ospiti, la biblioteca, gli ambienti di servizio come la cucina, i depositi, i magazzini,
le stalle. E poi ancora il piano superiore con le piccole stanze da letto che si affacciavano sull’esterno
mostrando il panorama della città.
Le tecnologie multimediali sono uno strumento di grande efficacia al servizio della comunicazione museale.
Ma la loro utilizzazione è stata spesso motivo di contrasto tra gli esperti. Nei primi anni ’90 si era diffusa la
convinzione, almeno in alcuni ambienti, che le tecnologie dovessero invadere il mondo dei musei. Fino al
punto che qualcuno aveva previsto che le visite virtuali avrebbero sostituito le visite reali. Questo entusiasmo
iniziale ha lasciato il posto, nel corso del tempo, ad analisi meno ingenue, più caute e articolate, che hanno
messo in luce quanto sia delicata la questione relativa alla presenza degli strumenti multimediali e della realtà
virtuale all’interno di percorsi museali, in sostituzione o a supporto delle opere esposte.
L’idea particolare di questo progetto è stata quella di mettere le tecnologie al servizio della realtà, per
esaltarla e non per sostituirla, attraverso una nuova tecnica, credo sviluppata per la prima volta almeno in
Italia. La tecnica è quella di “raccontare” i reperti con l’aiuto di particolari effetti di luce proiettati sui reperti
stessi, che servono ad apprezzare i particolari e a ricostruire le lacune.
Un aiuto a capire meglio l’esistente e quindi ad apprezzarne il valore, sottolineando l’unicità e la sacralità
dell’autentico. Abbiamo fatto attenzione a “calmierare” la presenza delle tecnologie e delle immagini virtuali
per non rovinare la magia del luogo, anzi per esaltarla: abbiamo, in un certo senso, dovuto proteggere i reperti
dalla nostra invasione, che infatti è stata trasparente al massimo grado. Quando si accendono tutte le luci, non
appare nessun elemento tecnologico a disturbare i luoghi. Abbiamo numerosi segnali che indicano che il
risultato è di soddisfazione per i visitatori. Questa bellissima esperienza ci ha insegnato che è necessario uno
studio attento delle specificità del luogo per individuare la migliore strategia narrativa che non stravolga il
contesto. Si tratta di rendere “soft” l’utilizzo delle tecnologie multimediali che, solo in questo modo, possono
contribuire all’arricchimento dell’esperienza del visitatore, fornendogli le chiavi di lettura e di
contestualizzazione che rendono la visita più efficace, significativa e, perché no, più piacevole e divertente
Ci sono una serie di effetti immersivi, suoni, voci, rumori, che portano a vivere un’atmosfera coeva a quando
le domus erano abitate. La ricostruzione, dove è documentata (siamo in un ambiente termale) con tutta la
stesura pittorica ricostruita e integrata è suggestiva e il pubblico ha mostrato di gradire; la visita si fa su
prenotazione, con una guida e sono 7 le lingue di riferimento. L’informazione è data dalla voce di Piero
Angela. C’è una notevole attenzione all’uso di espressioni.
Critiche gli impianti, pur essendo abbattuto il costo, sono molto costosi e hanno bisogno di manutenzione e
tecnici. Dopo c’è l’operatore e il custode del museo, ma quasi mai sanno come intervenire. Lo scenario di
blackout, dove tutto si perde, e col tempo non si conserverà mette molta angoscia.
MUSEO ACROPOLI DI ATENE
Il partenone non è ancora completamente greco. Fin dalle incursioni turche e venete, è stato bimbardato
attaccato e ancora prima divenuto Chiesa e Moschea. Solo con la fine della turcocrazia, nel 1830, la Grecia ha
potuto pensare a costruire di nuovo la propria individualità, e lo ha fatto selezionando opere, eventi, tradizioni
dalle radici del passato, della Grecia Classica, innalzando come totem sacri le immagini di opere di quella
cultura. Un passato che non ancora del tutto è tornato a casa, perché i British Museum ha ancora una 80ina di
metri di fregio e una 15 di metope, acquistate dal museo, quindi per gli inglesi non rubate. Almeno però, dal
2009 , sepur in ritardo di 5 anni, un degno contenitore per questo grande passato c’è. Il museo dell’acropoli
costruito da Bernard Tschumi. Nel nuovo clima repubblicano, la voglia di avvicinarsi ai modelli delle città
europee era notevole: ecco che viene aperto un concorso internazionale per un progetto museale per il nuovo
museo dell’acropoli. I primi 3 concorsi, fatti nel 76, 79, 89 vengono invalidati; L’area era già stata selezionata,
a 300 m di distanza dal partenone, alle pendici dell’Acropoli. Viene selezionato nel 200 Tschumi, che crea su
100 pilastri un’enorme costruzione galleggiante sulle rovine e gli scavi sottostanti. I materiali più usati sono
acciaio, vetro e cemento.
Una delle iniziative più rilevanti in campo archeologico, che si attendeva da molti anni. E’ completamente
nuovo. Finalmente Atene raduna un contesto spettacolare, incentrato sui monumenti dell’acropoli; è un evento
di grosso richiamo dal punto di vista della musealizzazione e dei criteri adottato. I finanziamenti speciali ci
sono anche per i beni culturali, per le olimpiadi di Atene, dando una cifra ben superiore al normale.
L’Olimpiadi del 2004 ha portato una ventata di innovazione e rinnovamento anche per Olimpia, Delfi e
Corinto. C’è stato una risistemazione dell’agorà di Atene e del museo del Pireo. Nel 2004 il museo non era
ancora finito e nel 2009 viene inaugurato. Il vecchio museo era incassato nella rupe, con la base in un taglio
nella roccia. Chi visitava i monumenti dell’acropoli vedeva un piccolo sentiero e entrava nel museo. Si poteva
anche non vedere, perché non era segnalato: c’era solo un architrave con scritto MOUSEION. La vecchia sede
risale al 1863 e completata nel 1874. La costruzione
era piccola: occupava il lato corto dell’acropoli; non
potevano ingrandirlo perché dopo c’era il dirupo. Si
pensò, in un’ottica coerente, di collocare lì tutto ciò
che era dell’acropoli, ma in situ non ci poteva stare. I
materiali più utilizzati sono vetro, acciaio e cemento.
Il museo organizza mostre temporanee, visite guidate
ed attività didattiche, e comprende
un auditorium, un negozio, una caffetteria ed un
ristorante con vista sull’Acropoli.
Il Museo dell’Acropoli è completamente accessibile
ai disabili.

L’edificio è a pianta quadrangolare. C’è un area di


scavo archeologico lasciata a vista, su cui si innalza
il museo. Il museo sorge su un quartiere abbastanza
popoloso, che è vicino alla rupe dell’acropoli e del
partenone, ma a un livello abbassato. Era difficile
trovare una zona non lontana dal centro dove
collocare il museo. Sono
stati necessari degli
abbattimenti, delle
polemiche. L’ingresso è
davanti alla salita per
l’acropoli. Giuseppe
Pucci, professore a
Siena, ha scritto sul
museo, muovendo anche
delle critiche: “arte antica e disgiunzione” (la prof non concorda). L’area degli scavi è pervasiva in tutto
l’ambiente del museo. Per procedere allo scavo delle fondazioni, sono stati fatti scavi e sondaggi preventivi e
sono venuti fuori evidenze che sono case con mosaici romani e bizantini, di epoca medievale, un fitto
intrecciarsi di testimonianze materiali che si è deciso di lasciare a vista, che ha fatto sì che si conti di questa
cosa nel progetto. Grosse colonne sostengono l’edificio, che sembra sospeso.
Rapporto tra la posizione del museo e dell’acropoli, da cui dista 300 metri.
L’elemento di disturbo, lo scavo, è diventato il punto di forza.  Il museo non è situato sull’Acropoli, ma alla
sua base, sul lato sud-est della collina; tuttavia un rilevante insediamento risalente all’età del Bronzo è stato
rinvenuto nel luogo previsto per il nuovo museo. La necessità di integrare correttamente tali ritrovamenti ha
profondamente condizionato, ma anche ispirato, il progetto di Tschumi e del suo team: infatti l’architetto ha
dovuto ripensare totalmente il museo, inserendo grandi colonne cementate antisismiche, sollevando tutto
l’edificio e il basamento con 100 colonne in cemento. L’edificio del museo, formato da tre livelli e da un
mezzanino è letteralmente sospeso sopra il luogo degli scavi, appoggiato a pilastri accuratamente disposti in
modo da non interferire con i ritrovamenti; in un certo senso il livello degli scavi, che non è attualmente
visitabile, costituisce un ulteriore piano dell’edificio e può essere percepito attraverso le grandi aperture di
vetro presenti a livello del percorso d’ingresso. Il piano d’ingresso ospita la
lobby, spazi per mostre temporanee, servizi per i visitatori e un auditorium.Il
Museo dell’Acropoli possiede una straordinaria collezione di sculture,
realizzate dal Periodo Greco Arcaico all’Epoca Romana nel corso di oltre
quindici secoli, suddivise in cinque sezioni cronologiche.
Dall’atrio del museo, attraverso una grande rampa in cristallo che domina gli
scavi sottostanti, delimitata da reperti rinvenuti sulle pendici dell’Acropoli, i
visitatori possono raggiungere un livello a doppia altezza dove una prima
galleria, dedicata al periodo “arcaico”, testimonia le origini dell’Acropoli
come centro religioso.
1. Prima di salire le scale per arrivare all’hekatompedon e al bosco di
statue, vi è una sezione con i reperti arcaici con vasi, statue e reperti
come oggetti votivi dalle pendici dell’acropoli.
2. Salite le scale abbiamo tutti i reperti preclassici trovati sull’acropoli:
con hekatompedon e la galleria di statue votive.
3. Salendo ancora di più: ecco l’acropoli classica, con il partenone e le
cariatidi ( ben allestite, mentre quella sola al British Museum è
costretta in uno spazio angusto).
Il percorso sale poi attraverso una scala al livello più alto del museo, che ospita
la Galleria del Partenone. Il volume della galleria è ruotato (23 gradi)
rispetto al livello inferiore in modo da replicare l’orientamento del Partenone stesso così da mostrare i reperti
provenienti dal tempio secondo il loro orientamento originario, come si evince dalla immagine di confronto.
Inoltre il parallelepipedo che è il secondo piano coincide anche per dimensioni con il partenone; si crea un
dialogo tra le due strutture. In questo modo i reperti all’interno, che erano nel Partenone in Antichità, sarebbero
stati collocati e percepiti in un ambiente perfettamente simile a quello di partenza.
Il fatto che la parte più alta sia ruotata, oltre ad essere la disgiunzione più evidente nell’opera di Tschumi
(Pucci) fa sì che uno spicchio del primo piano sia libero dalla costruzione soprastante orientata come il
partenone (secondo piano), che è visibile dalle vetrate ; ecco che questo spicchio diviene coperto di lastre di
vetro, così da fare passare, come in un lucernario, luce solare naturale pur essendo al primo piano.
(in giallo la parte in vetro)
Ecco che abbiamo la luce naturale nel “bosco di
statue”, come si vede da tanti piccoli lucernari
soprastanti schermati, per proteggere dal calore le
opere. L’uso della luce naturale è uno degli
aspetti più rilevanti del progetto di Tschumi.
Dato che il Museo dell’Acropoli è in larga parte un museo di sculture,
una particolare attenzione alla luce era essenziale per una percezione
ottimale dei reperti, anche in considerazione del fatto che le opere
scultoree dovevano essere viste da ogni direzione. In questo modo la luce cambierà nelle varie ore del giorno,
creando un’esperienza il più realistica possibile per il visitatore, che vedrà le statue a 360 gradi come le vedeva
un antico.

Appena arrivati all’ingresso, siamo accolti da una grande scalinata che ci porta dritti alla visione
dell’Hecatompedon, il frontone del primo tempio sull’Acropoli.
Caratteristica del primo piano, all’ingresso , prima delle scale che danno
l’accesso all’hekatompedon, la parete: tutta in cemento, con dei fori
fonoassorbenti, che non sono piaciuti molto alla critica, definite da alcuni
“simili a tessere del domino”
Il pavimento è in pianta di cristallo, con grosse travi, con puntolini scuri,
che danno sì che la gente abbia capogiri perché cammina su una lastra
trasparente. Il vetro riflette il monumento in un gioco di riflessi. Il
percorso espositivo è spiraliforme, a salire. Concetto traslato di salire
verso la perfezione, punta massima.
L’accesso ha i varchi elettronici. Uno mette il
biglietto e entra. Il percorso iniziale è
concepito in salire, con una grande rampa di
accesso, all’inizio leggera; poi prevede una
gradinata che accede al frontone del
partenone, e deve dare l’impressione del
percorso che va a salire e che culmina nelle
parti alte dell’edificio. Le vetrine sono
incassate mentre i reperti di spicco, come
rilievi funerari, sculture in terracotta, korai.
Le didascalie sono fatte con placchette di
acciaio molto sintetiche e scarne.

0 PIANO  scavo archeologico


1 PIANO –> Resti dalle pendici dell’acropoli
1a . Santuari  Le pendici, le grotte e gli
altipiani della collina dell'Acropoli erano le
postazioni in cui si veneravano divinità, eroi
e ninfe. Le pendici sud ospitavano i più
importanti santuari della città, quelli di
Dionysos Eleutereus e Asklepios, di Ninphe. Fu anche il sito di altri templi di dimensioni minori, ma
di grande importanza per gli ateniesi. Nymphe, che era la protettrice dei matrimoni e delle cerimonie
di nozze. Lì, gli ateniesi dedicavano i vasi da bagno nuziali o loutrophoroi, così come altre offerte
votive (bottiglie di profumo, cosmetici e contenitori di gioielli, mandrini, vasi di simposio, figurine,
protomi femminili e placche dipinte). Il santuario di Asclepio era un vero e proprio ricovero per malati;
abbiamo numerose testimonianze di offerte votive, spesso con raffigurazioni delle parti del corpo che
il dio doveva guarire. Il santuario di Dioniso invece era un punto di snodo per le Dionisie.
1 b. Tra i santuari o, a un livello leggermente inferiore, gli scavi archeologici hanno portato alla luce
parti del tessuto urbano dell'antica Atene e hanno fornito la prova della sua abitazione quasi ininterrotta
dalla fine del periodo neolitico (circa 3000 aC) fino all'antichità tarda (VI sec d.C). Case e laboratori,
strade e piazze, pozzi e serbatoi, così come migliaia di oggetti lasciati dalle persone locali nell'antichità
forniscono una visione del passato. La maggior parte dei reperti sono fatti di argilla, perché sono stati
persi oggetti di altri materiali deperibili, mentre gli oggetti più preziosi sono stati saccheggiati. I reperti
comprendono vasellame e vassoi, piatti da cucina, detersivi di profumo, cosmetici e contenitori di
gioielli, giocattoli per bambini e altri.

2 PIANO  Resti dall’acropoli arcaica (periodo durante il VII secolo aC, fino alla fine delle guerre persiane
(480/79 aC).)
2.1 Hekatompedon Il primo edificio sull'Acropoli era conosciuto con il nome di Hekatompedon o
Hekatompedos neos - che significa 100 piedi di lunghezza,
2.2 il bosco delle statue: korai, cavalieri e offerte votive  Nel lato sud della Galleria, le
raffigurazioni delle giovani donne (Korai), dei cavalieri (gli Hippeis) e molti altri forniscono un quadro
impressionante dell'Acropoli nel periodo arcaico. Fin dal tempo di Pisistrato in poi, il sito dell'Acropoli
ha cominciato a riempire di offerte votive, dedicate alla Dea, sia come segni di pietà che come marchi
di sviluppo finanziario e artistico. Queste importanti offerte erano per lo più statue destinate a
soddisfare la Dea. Le offerte votive furono utilizzate dagli antichi greci per ringraziare gli dei per
averle concesso un desiderio e includevano frequentemente un riferimento al costo relativo. Il tipo, il
materiale e la dimensione delle dediche riflettevano il periodo, lo stato sociale e lo stato finanziario
del devoto. Insomma, compromesso dalla guerra persiana e dalla grande colmata la possibilità di
conoscere la reale posizione delle opere poste come offerta votiva, almeno in questo modo si restituisce
ai fruitori l’immediata suggestione del bosco di statue che doveva esserci in quel periodo. I pilastri
sono tutti in cemento bianco.

3 PIANO  Sculture dell’acropoli  In cima al nuovo museo è ubicata la galleria del Partenone, posta
attorno ad una corte scoperta e progettata per contenere i marmi che si potranno così vedere dall'Acropoli;
questo piano è condannato ad impolverarsi vuoto.
Come si può evincere dalle foto, fregio, frontone, metope, sono tutte collocate in maniera ottimale per la
visione del fruitore, cambiando la posizione originale in antico. Inoltre, le metope o le parti di fregio non
presenti, sono sostituite da calchi in gesso.
3.1 Il fregio  l fregio era costituito da 115 blocchi. Ha una lunghezza totale di 160 metri ed era alto
1,02 metri. Nel processo vengono presentate circa 378 figure umane e divinità e più di 200 animali,
principalmente cavalli. Gru di cavalli e carri occupano gran parte dello spazio sul fregio. La
processione sacrificale segue, con animali e gruppi di uomini e donne che trasportano cerimonie e
offerte. La processione si conclude con il dono del peplo, il dono del popolo ateniese alla statua culto
della dea, un xoanon (statua di legno antico). A sinistra ea destra della scena siedono i dodici dèi del
monte Olympos. Dell'intero fregio che sopravvive oggi, 50 metri si trovano nel Museo dell'Acropoli,
a 80 metri nel British Museum, un blocco isolato nel
Louvre, mentre altri frammenti sono sparsi nei musei
di Palermo, Vaticano, Würzburg, Vienna, Monaco e
Copenaghen .

3.2 Le metope  Delle 92 metope del partenone (32


sud e nord, 14 est e ovest), poche non sono andate
distrutte: 15 della parete sud sono al British Museum,
mentre 14 della parete nord sono all’Acropoli). Il lato
nord illustra il sacco di Troia (Iliou Persis).

3.3 Il frontone  diviso tra frontone est e ovest.


Quello orientale, al British Museum, rappresenta la
nascita di Atena; quello occidentale, all’Acropoli,
rappresenta la lotta per Atene tra Atena e Poseidone.

Si noti la volontà di riprodurre il tempio: colonne


alternate da metope, il frontone, il fregio, e anche i
gocciolatoi alle estremità con protome leonina.
Nella sala, una serie di grandi finestre permette una
relazione visiva diretta tra le opere in mostra da un
lato e l’Acropoli ed il Partenone dall’altro.
Pucci Arte antica e disgiunzione
Il nuovo museo dell’Acropoli è stato inaugurato il 20 giugno 2009, e è stato progettato dalla archistar
Bernard Tschumi, di formazione franco-svizzera nel 68, seguace della filosofia decostruttista ispirata a
Derrier. Egli si definisce più un architetto che ama la disgiunzione, in quanto più rappresentativa della realtà:
è impossibile infatti creare un’architettura coerente col mondo, che è infatti disgiuntivo, nella continua lotta
tra forma, funzione/uso e valore sociale. Ecco che egli vuole costruire architetture disgiunte. La sua carriera
inizia con un cubo decostruito nel 1982 a Parigi, il suo trampolino di lancio. Egli tuttavia, non aveva mai
avuto un museo da progettare, mai ne aveva vinto un concorso, anche se si era candidato portando un
progetto sia per il MOMA sia per il museo di arte africana a New York. Ecco che la sua scelta fa paura: è
giusto usare un architetto decostruttista all’avanguardia per un museo di archeologia arcaica e classica greca,
in un contesto come quello ateniese dell’acropoli?. Il progetto iniziale prevedeva di radere al suolo l’intero
quartiere, ma determinate case erano protette come monumenti nazionali perché si tratta di un quartiere
ottocentesco e inoltre le case di due uomini, Vangelis, un noto musicista, e Vassili kouremenos, l’architetto
che ha costruito nel 1930 il primo museo dell’acropoli, abitavano lì e si sono opposti alla perdita della loro
dimora, vincendo la causa. Tuttavia, il museo nuovo è una grave incombenza su questo quartiere e la
convivenza sembra dura. Il problema del contesto, per Pucci, c’è. Il progetto si basa sulla creazione di un
percorso ascensionale che imiti l’ingresso al Partenone. La struttura, in modo contrastante al pensiero e
alla filosofia di Derrier (il museo dell’acropoli è l’opera di Tschumi meno disgiuntiva), è divisa in 3 blocchi
sovrapposti: lo scavo, il piano principale, e quello superiore. Nella prima parte abbiamo i materiali delle
pendici, nella seconda i materiali dell’acropoli (hekatompedon e bosco di statue), nell’ultima le sculture del
Partenone. L’ingresso è caratterizzato da una rampa inclinata con pavimento di vetro che rende visibile lo
scavo di età bizantina, avvenuto durante lo scavo delle fondamenta. L’architetto non aveva considerato la
possibilità di uno scavo per le fondamenta, e i lavori si sono protratti 5 anni più del previsto, mentre l’opera
sarebbe dovuta essere pronta per il 2004, in concomitanza con le olimpiadi. Per quanto riguarda la parte
superiore, quella imitante il Partenone, è quella più acclamata dalla critica, o la meno criticata. Questa era
pensata per accogliere altre opere mai arrivate: i marmi del Partenone, ancora al British museum di Londra,
che dovevano essere recuperate e ritornare in sede, ma così non è stato, anche se la Corte Europea aveva
esplicitamente dato ragione alla Grecia nel 1999. Ecco che, per Pucci, quella sala del Partenone , è , più
che il trionfo del classicismo, “ l’esibizione di una piaga ancora aperta”. Le critiche vanno soprattutto per
l’allestimento e il rapporto con il visitatore medio e la storia. In che senso? In primis il visitatore, dalle
misere didascalie che trova, per di più scritte in un gergo per lui incomprensibile (nikai, efebo, Pittore
dell’Acropoli 606), è assai non sufficiente; inoltre, c’è una grossa lacuna nel museo: c’è solo l’area classica,
pochissimo di romana, zero di storia bizantina e turca. Cosa inspiegabile, per un museo del XXI secolo.
Anche per quanto riguarda il fattore multimediale, c’è molto poco: solo uno scarno video al terzo piano .
Ridicolo anche il plastico abbandonato a se stesso del Partenone.
Il dibattito sui marmi
Tutto ebbe inizio nel 1798 quando Lord Thomas Bruce, conte di Elgin, ambasciatore presso il governo
ottomano, ottenne uno speciale permesso (il firman) per effettuari calchi e disegni dei resti archeologici
presenti sull’Acropoli di Atene.
Grazie al firman nell’estate del 1801 inizia così il prelevamento di iscrizioni, e successivamente, di
metope e statue dall’Acropoli, che proseguirà fino al 1811: nel frattempo, Elgin riesce ad ottenere
un secondo firman (1810) dove si consente ai reperti raccolti di lasciare la Grecia.
Lord Elgin portò così via dalla Grecia, 48 casse che contevevano 39 metope, 83 mq di fregio (56
pannelli), 17 statue e una cariatide dell’Eretteo. Non tutte le navi arrivano a destinazione. A Londra,
Elgin provò a vendere i reperti al Governo inglese ma la vicenda fece abbastanza scalpore , ma Elgin fu
scagionato da ogni sospetto. Così, nel 1816, il Parlamento acquistò i Marmi che vennero collocati
nel British Museum, dove ancora oggi occupano un posto d’onore. Trascorsi un paio di secoli, negli anni
’80 del 1900, la Grecia iniziò una campagna ufficiale per chiedere la restituzione dei Marmi del
Partenone: Melina Mercouri, ministro della cultura greca, ne fu una delle più fervide sostenitrici e
la Fondazione creata dopo la sua morte porta avanti il suo lavoro. Nello specifico, la contesa riguarda 15
metope, 56 bassorilievi di marmo, 12 statue, oltre a gran parte del frontone ovest del Partenone e
ad una delle sei Cariatidi dell’Eretteo. La Grecia richiede la restituzione dei Marmi del Partenone
contestando in primis il modo in cui sono stati acquisiti: secondo questa tesi infatti il firman non
autorizzava Elgin a portare via i marmi e lo testimonierebbe anche gli atti di corruzione ammessi dallo
stesso Elgin per tale scopo. Secondo la Grecia, che sul sito del Ministero della Cultura ha una sezione
dedicata alla vicenda, la restituzione sarebbe doverosa perché permetterebbe di ricomporre un
patrimonio smembrato, e per questo non costituirebbe un precedente pericoloso per la richiesta di altre
restituzioni. Il Governo inglese pur riconoscendo l’importanza della cultura greca è contrario alla
restituzione, in quanto ritiene che i marmi furono legalmente acquistati. Secondo Londra la restituzione
di beni acquisiti legalmente costituirebbe un precedente troppo pericoloso: molti altri paesi potrebbero
infatti richiedere restituzioni di beni portati via dai loro territori. Non tutti però la pensano allo stesso
modo in Inghilterra: dal 1983 esiste anche qui un movimento a favore della restituzione: si tratta
del British Committe for the Reunification of the Partenon Marbles. Studiando un po’ il contesto storico
però ho dovuto in parte ricredermi: per quanto esecrabile, infatti, il gesto di Elgin ha forse permesso a
questi reperti di giungere fino a noi. Non dimentichiamoci che Atene in quel periodo era spesso un campo
di battaglia (nel 1687 i turchi adibirono a Santa Barbara il Partenone, che, per questo, venne colpito da
un colpo di mortaio della flotta veneziana, guidata da Francesco Morosini…fu in quell’occasione che
crollò il tetto!). C’è poi la questione del precedente: se Londra restituisse i marmi, niente impedirebbe ad
altri paesi di richiedere a grandi musei opere da loro conservate da secoli (vedi, tanto per fare un esempio,
la richiesta che serpeggia in alcuni ambienti per la restituzione da parte del British Museum del Moai
dell’isola di pasqua)….insomma dovrebbe essere rimesso in discussione tutto!

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