Materia: Fisiologia
Appunti di: Cristian Pilotti
Argomenti: Contrazione muscolare: scossa semplice, sommazione tetanica, principio della dimensione;
Morfologia della fibra muscolare: miofibrille, proteine dei filamenti spessi e sottili; Ruolo del calcio nella
contrazione
CONTRAZIONE MUSCOLARE
La contrazione muscolare è una trasformazione di energia chimica in energia meccanica: il muscolo idrolizza
ATP (molecola di scambio energetico all’interno della cellula), liberando energia chimica che viene utilizzata per
far contrarre i sarcomeri e generare una forza muscolare che, se di sufficiente intensità, determina un
accorciamento del muscolo.
Noi vedremo nel dettaglio come questa trasformazione avviene all’interno del muscolo e quali sono le
caratteristiche biomeccaniche della contrazione muscolare, attraverso la quale si può produrre o meno del lavoro
meccanico; a tal proposito bisogna tener presente che contrazione muscolare e accorciamento muscolare non
sonno la stessa cosa: il muscolo si contrae quando viene attivato, generando forza; mentre l’accorciamento del
sarcomero, e quindi l’esecuzione di un lavoro, dello spostamento di un carico, avviene soltanto se la forza
generata è superiore al carico applicato. Il muscolo si può quindi contrarre senza accorciarsi, senza compiere
lavoro meccanico, oppure può fare un lavoro quando alla contrazione segue un accorciamento del muscolo
stesso.
nel primo grafico si confronta il profilo temporale della scossa semplice nel muscolo scheletrico, nel muscolo
cardiaco e nel muscolo liscio
- innanzitutto si può notare come il tempo di potenziale del muscolo scheletrico è il più breve di tutti,
nonostante il picco di tensione venga raggiunto, nei muscoli scheletrici più rapidi, solo dopo 40-50ms
- nel muscolo cardiaco il picco tensione è raggiunto molto dopo, all’incirca dopo 100-150ms (a differenza
di quale parte del cuore viene considerata) e la durata della scossa semplice è quindi più o meno simile
a quella dei muscoli scheletrici più lenti
- nei muscoli lisci, invece, i tempi di contrazione sono molto più lenti, e necessitano di circa 1s, ma anche
di più, prima di raggiungere il picco di tensione; anche l’ampiezza della scossa semplice è decisamente
più bassa rispetto a quella dei muscoli striati (aspetto che non è tenuto in considerazione nel grafico, nel
quale si vuole unicamente mostrare il profilo temporale)
nel secondo grafico si mostra invece come varia la scossa semplice in diversi muscoli scheletrici (G. sta per
gastrocnemio e S. sta per soleo, mentre L.R. sta per retto laterale)
- il soleo, con un picco di forza dopo 90-100ms dopo l’insorgenza del potenziale d’azione, è un muscolo
scheletrico decisamente lento
- il gastrocnemio, che raggiunge il picco di tensione dopo 40ms, è invece considerato un muscolo
scheletrico molto rapido
- alcuni muscoli del nostro sono particolarmente veloci, come ad esempio i muscoli extraoculari (è
rappresentato il profilo temporale della scossa semplice del retto laterale) e il muscolo tensore del
timpano; questi hanno una durata di scossa semplice molto breve, addirittura minore di 10ms
Il tempo necessario ai muscoli scheletrici per raggiungere il picco di tensione varia, in generale (tranne che per
le eccezioni viste), dai 40 ai 90ms, con una durata complessiva della scossa semplice che ovviamente si protrae
più a lungo, arrivando a circa 200-300ms: sono tempi decisamente più lunghi di quelli del potenziale d’azione, il
quale ha durata di circa 5ms.
Questa marcata differenza di durate tra potenziale d’azione e scossa semplice ha un importante implicazione
funzionale: se il muscolo viene eccitato da un secondo potenziale d’azione prima che l’evento meccanico del
potenziale d’azione precedente sia terminato, si avrà una sommazione degli effetti meccanici.
A sinistra si hanno due potenziali d’azione abbastanza distanziati (100-200ms) e si possono distinguere due scosse
semplici identiche.
Se il secondo potenziale d’azione interviene prima (immagine a destra), il che è tranquillamente possibile nella
fibra muscolare visto che dopo 5ms la cellula è nuovamente eccitabile, si nota che il secondo evento meccanico
va a sommarsi all’evento meccanico precedente, determinando un aumento della forza generata dal muscolo,
cioè una sommazione della forza.
Questo fenomeno prende il nome di sommazione tetanica del muscolo (che non ha nulla a che vedere con il
tetano patologico): quando un motoneurone viene reclutato (attivato), la sua frequenza di scarica comincia
subito a valori di frequenza del potenziale d’azione che si aggirano attorno agli 8Hz, già sufficiente per
determinare un livello, seppur basso, di sommazione tetanica. È quindi un fenomeno che avviene normalmente
nella contrazione fisiologica del muscolo; anzi, si può affermare che la scossa semplice data da un potenziale
d’azione isolato che nasce dalla fibra motoria è un evento non fisiologico, che praticamente non si osserva mai:
il motoneurone o è silente, o inizia a scaricare a una frequenza di 7-8-9 potenziali d’azione al secondo.
La sommazione tetanica può essere a sua volta di due tipi:
- se la frequenza non è sufficientemente alta, nel profilo di tensione vediamo comunque un’oscillazione
determinata dagli effetti delle singole scosse semplici che si sommano in quel determinato tipo di
contrazione: si parla in questo caso di tetano non fuso o incompleto (immagine a sinistra)
- se invece la frequenza di scariche del motoneurone è sufficientemente elevata, si avrà una contrazione
tetanica fusa o completa nella quale non si riconosce, nel profilo di tensione, il contributo delle singole
scosse semplici, in quanto sono talmente vicine che avviene una generazione di tensione continua
(immagine a destra)
Si nota che, nelle fibre lente, già a 25 potenziali d’azione al secondo si ha già una percentuale molto elevata (più
del 50%) della forza totale che l’unità motoria in questione è in grado di generare.
La stessa percentuale è raggiunta dalle unità motorie composte da fibre rapide solo ad una frequenza di 60
potenziali d’azione al secondo.
Si vede come varia il picco di forza prodotta dall’unità motoria lenta e da quella rapida in funzione della frequenza:
già a 20-30 potenziali d’azione al secondo si raggiunge il massimo valore che l’unità lenta è in grado di generare,
mentre nell’unità veloce per frequenze tra 80 e 100 potenziali d’azione al secondo non si è ancora raggiunto il
massimo della forza che quell’unità motoria è in grado di sviluppare.
Le unità motorie lente generano poca forza, ma raggiungono il massimo della forza che possono generare già a
basse frequenze tetaniche; le unità rapide invece generano molta più forza, ma per raggiungere il massimo della
forza di contrazione richiedono frequenze di attivazione nettamente superiori.
Abbiamo già detto che i muscoli possono essere classificati come muscoli più rapidi o muscoli più lenti; a questo
parametro di distinzione se ne associa anche un altro, cioè il diverso numero di innervazione. Infatti il numero
medio di fibre muscolari innervate da un singolo motoneurone varia molto nei diversi muscoli: il gastrocnemio,
muscolo piuttosto rapido, ha rapporto di innervazione di 1:2'000 (cioè 1 motoneurone innerva mediamente
2'000 fibre muscolari), quindi ha unità motorie molto grosse; i muscoli lombricali, che sono muscoli interossei
della mano, quindi molto piccoli, hanno un rapporto di innervazione di 1:100.
Questa grande diversità è correlata alla capacità di coordinazione fine del muscolo: ovviamente le capacità di
coordinazione fine dei grossi muscoli della gamba sono nettamente inferiori rispetto a quelle dei muscoli
lombricali della mano, dove abbiamo bisogno di una capacità di manipolazione molto coordinata e precisa,
ottenuta grazie alla presenza di tante unità motorie di piccole dimensioni.
Dal punto di vista anatomico il pool motoneuronale che innerva un singolo muscolo nasce dalle corna ventrali
del midollo spinale, con i motoneuroni che sono disposti in colonne, le quali normalmente (nel caso di grossi
muscoli) interessano più di un metamero del midollo spinale, e che spesso nascono da più radici ventrali che poi
si uniscono per formare il nervo specifico per quel muscolo.
Non tutte le unità motorie di un muscolo solo uguali dal punto di vista meccanico: in un singolo muscolo ci sono
unità motorie più lente o più rapide; unità motorie più piccole, con numero di innervazione basso, o più grosse,
con un numero maggiore di fibre muscolari innervate da un singolo motoneurone.
Per esempio, prendendo il tibiale anteriore (che ha azione flessoria sull’articolazione della caviglia), possiamo
studiarne (tramite un istogramma) il numero di unità motorie in funzione della forza di torsione che sono in grado
di generare: notiamo che il numero maggiore di unità motorie sono quelle che producono poca forza di torsione,
e sono le unità motorie più lente e più piccole; mentre, man mano che ci si sposta a destra nel grafico, notiamo
che il numero di unità motorie in grado di generare maggiore quantità di forza di torsione diminuisce in maniera
notevole, quasi in modo esponenziale.
Qui abbiamo il numero di unità motorie (espresse in percentuale sul totale) in funzione del tempo al picco: si può
vedere che si hanno unità motorie molto rapide (quelle più a sinistra), la maggior parte ha invece un tempo al
picco di 40ms (valore tipico di un muscolo rapido in toto), mentre abbiamo poi altre unità motorie in cui il tempo
al picco aumenta fino a superare anche gli 80ms.
Tutte queste unità motorie (della parte destra del grafico) sono unità motorie lente, piccole, con un basso
numero di fibre innervate da un singolo motoneurone e sono le prime ad essere reclutate durante una
contrazione; infatti, la forza muscolare è sicuramente regolata dalla frequenza di scarica del motoneurone, ma è
regolata anche da un altro meccanismo, definito meccanismo del reclutamento: mano a mano che occorre
generare maggiore quantità forza, il numero di unità motorie reclutate cresce. Inoltre, l’ordine con la quale
vengono reclutate le unità motorie per generare quantità crescenti di forza dipende dalle dimensioni dell’unità
motoria stessa: inizialmente vengono reclutate le unità motorie più piccole, che sono anche quelle lente, che
producono poca forza; mano a mano che aumenta la forza richiesta, non soltanto queste unità motorie vengono
attivate con una frequenza maggiore, in modo da produrre una fusione tetanica superiore, ma vengono anche
reclutate, a diverse soglie di reclutamento, altre unità motorie più grosse e più rapide.
Qui vediamo come vengono reclutate 4 unità motorie all’aumentare della forza muscolare da 0 fino al 50% del
valore totale (che si ottiene dopo circa 6 secondi); si notano i momenti in cui vengono attivate queste unità
motorie, che mano a mano che la forza richiesta aumenta, aumenta anche il numero di unità motorie attivate e
che contemporaneamente si ha un aumento della frequenza di scarica fino al valore massimo. Si nota anche come
le unità motorie sono inizialmente silenti, ma quando vengono reclutate iniziano subito a scaricare ad una
frequenza discreta che genera già una parziale fusione tetanica.
In definitiva, ciascun muscolo contiene unità motorie di diverse dimensioni e, correlato a queste, con una diversa
capacità di generazione di forza e una diversa velocità di contrazione: vengono prima attivate le unità motorie
piccole, più lente e che quindi raggiungono la fusione tetanica a frequenze inferiori, e mano a mano che la forza
che deve essere generata aumenta vengono reclutate anche le unità motorie di dimensioni maggiori, che
interessano un numero maggiore di fibre e che raggiungono la fusione tetanica completa a frequenze più elevate.
Esiste anche una correlazione tra la dimensione delle fibre muscolari e il tipo di unità motoria alla quale esse
appartengono: unità motorie piccole (quelle che vengono attivate per prime), non solo sono più lente, ma hanno
anche delle fibre muscolari più piccole e che generano quindi poca forza; da questo consegue che mano a mano
che si prosegue con il reclutamento vengono reclutate unità motorie sempre più grosse, non soltanto per il
numero di fibre innervate ma anche per le dimensioni delle fibre muscolari stesse: da questo consegue che,
mano a mano che vengono reclutate unità motorie di dimensione maggiori, anche la forza generata andrà
crescendo in maniera considerevole.
Alla base di questa sequenza di reclutamento c’è il principio della dimensione: le unità motorie piccole sono tali
perché hanno poche e piccole fibre motorie, ma anche il motoneurone che le innerva è piccolo; mano a mano
che aumenta la dimensione dell’unità motoria, saranno maggiori anche le dimensioni delle fibre motorie che la
compongono e del motoneurone che la innerva.
Il meccanismo elettrofisiologico di base è molto banale e permette di spiegare perché, quando un pool
motoneuronale viene attivato a intensità crescenti, vengono prima reclutati motoneuroni piccoli che innervano
unità motorie di dimensioni analoghe, e solo successivamente vengono reclutati motoneuroni di dimensioni
sempre maggiori che innervano unità motorie sempre più grandi e in grado di generare maggiore forza.
Supponiamo che vi sia un input sinaptico costante per un pool motoneuronale che innerva un certo muscolo e
che le correnti sinaptiche siano simili sia per motoneuroni grossi e piccoli (in realtà si è visto sperimentalmente
che è effettivamente così), si nota allora che la variazione di potenziale indotta dalle correnti sinaptiche sul
motoneurone piccolo è nettamente superiore a quella che si osserva sul motoneurone grosso: per spiegare
questo fenomeno basta applicare la legge di Ohm: ∆𝑉𝑚 = 𝐼𝑠𝑖𝑛𝑎𝑝𝑡𝑖𝑐𝑎 × 𝑅𝑖𝑛𝑔𝑟𝑒𝑠𝑠𝑜
La sinapsi determina una corrente locale e la variazione di potenziale dipende dalla resistenza di ingresso del
neurone (in questo caso del motoneurone), la quale dipende a sua volta dalla resistenza complessiva di
membrana del determinato neurone: se il neurone è piccolo, la sua superficie di membrana è ridotta e quindi,
supponendo una densità di canali ionici simile nel motoneurone piccolo e in quello grosso, avremo una resistenza
complessiva di membrana che incontra la corrente (misurata in un punto specifico del neurone) che nel
motoneurone piccolo sarà nettamente più elevata che nel motoneurone grosso, dove si ha una grande superficie
di membrana e quindi una resistenza di membrana nettamente inferiore grazie al numero più elevato di canali
ionici.
Ovviamente, una volta che il motoneurone grosso inizierà a scaricare avrà una frequenza di potenziali d’azione
abbastanza bassa, mentre il motoneurone piccolo avrà ormai raggiunto frequenze di scariche nettamente
superiori.
Anticipiamo un concetto che poi riprenderemo abbondantemente nel prossimo semestre, quando faremo il cuore.
Ricordiamo che, parlando di muscolo striato (lasciando perdere quello liscio), le caratteristiche del potenziale
d’azione nel muscolo scheletrico son nettamente diverse da quelle nel muscolo cardiaco. Ad esempio, nel
muscolo cardiaco la durata del potenziale d’azione è di molto più elevata rispetto a quella che riscontriamo nei
muscoli scheletrici (5ms): in particolar modo, nei ventricoli la durata del potenziale d’azione può arrivare a 200-
250m, mentre negli atrii si hanno durate di 100-150ms.
Abbiamo già visto come la durata della scossa semplice del muscolo cardiaco è invece molto simile, di poco
superiore, alla durata della scossa semplice di un’unità motoria lenta di un muscolo scheletrico.
La situazione è quindi ben diversa: a livello del muscolo cardiaco si ha una durata della scossa semplice,
dell’evento meccanico, che corrisponde all’incirca alla durata del potenziale d’azione, mentre a livello del
muscolo scheletrico la durata del potenziale d’azione è decisamente più breve rispetto a quella della scossa
semplice, quindi la cellula torna ad essere eccitabile molto prima che venga esaurito l’evento meccanico. Questa
è la ragione principale per cui nel muscolo cardiaco non è possibile una contrazione di tipo tetanico; questa è
una caratteristica peculiare, nonché funzionalmente importante, del muscolo cardiaco, ed è dovuta (come già
detto) dalla durata enorme del potenziale d’azione che fa sì che la cellula non possa tornare ad essere
nuovamente eccitabile prima della fine dell’evento meccanico, prima che sia esaurita completamente la
generazione di forza.
Ogni fibra muscolare è formata da un numero elevato di miofibrille, le quali hanno le seguenti caratteristiche:
- hanno un diametro di circa 1 micron e proseguono per tutta la lunghezza della fibra muscolare
- ogni miofibrilla ha una struttura interna nella quale si trovano le proteine contrattili, le proteine
regolatorie e le proteine strutturali
- ogni miofibrilla è circondata completamente da un sistema di vescicole e tubuli: il reticolo
sarcoplasmatico, la cui membrana è completamente distaccata dal sarcolemma, senza alcun tipo di
continuità; e i tubuli T, che invece sono invaginazioni della membrana plasmatica la quale si introflette
ed entra all’interno della cellula; questi tubuli vanno ad avvolgere tutte le miofibrille ad intervalli regolari,
più precisamente trovandosi nel punto di passaggio tra la banda A (scura) e la banda I (chiara) (per ogni
sarcomero si hanno quindi due sistemi di tubuli trasversi).
Il fatto che i tubuli T rappresentino un’estensione della membrana sarcoplasmatica, essendo una sua
invaginazione, determina un aumento notevole della capacità di membrana della fibra muscolare: a differenza
dei neuroni, la cui capacità di membrana tipica è di 1μF/cm2, la capacità di membrana di una fibra muscolare
arriva anche a 10μF/cm2, grazie proprio ad una maggiore superficie di membrana.
Nel muscolo scheletrico (e non in quello cardiaco) sono presenti triadi ben sviluppate: il reticolo sarcoplasmatico,
in corrispondenza dei tubuli T (trasversi), forma delle cisterne che avvolgono il tubulo trasverso stesso. C’è quindi
una grande ed importante interazione tra reticolo sarcoplasmatico e tubuli T, le cui membrane rimangono
comunque separate. Questa caratteristica è molto meno sviluppata nel muscolo cardiaco in quanto i meccanismi
di accoppiamento elettromeccanico (cioè il meccanismo attraverso il quale il potenziale d’azione che viaggia
lungo la fibra muscolare determina il rilascio di calcio all’interno della cellula e quindi la sua contrazione) sono
molto diversi.
Quando la fibra si contrae avremo l’evento contrario: le bande Z si avvicinano l’una all’altra, lo scivolamento fa
sì che anche le bande I si riducano, come anche la banda H che arriverà a scomparire grazie ad una
sovrapposizione progressiva dei filamenti sottili su quelli spessi; la banda A, ancora una volta, non cambia
dimensioni.
Proteine regolatrici
Lungo il filamento di actina F abbiamo le due proteine regolatrici, che non partecipano direttamente alla
generazione di forza (nel senso che non fanno parte dell’interazione tra actina e miosina che determina la
produzione di forza da parte del sarcomero), ma sono importanti perché fungono da interruttore: impediscono
ad actina e miosina di interagire tra di loro fino a che il calcio aumenta all’interno della cellula, spostandosi, a
questo punto, in modo da permettere l’interazione tra le teste globulari della miosina con i siti attivi dell’actina.
- tropomiosina: proteina filamentosa, lunga 40nm circa
- troponina: complesso costituito da tre unità (unità C lega il calcio, unità I è inibitoria e unità T che si lega
alla tropomiosina); se ne trovano a intervalli regolari, distanziati da poco meno di 40nm; essendo che
per ogni troponina c’è una tropomiosina, si intuisce che le tropomiosine si trovano coda contro coda
Più precisamente, la distanza tra due troponine, così come anche la lunghezza di una tropomiosina, è di 38,5nm.
In realtà anche la subunità I della troponina ha un ruolo nell’inibizione dei legami tra actina e miosina a intervalli
regolari, ma i meccanismi principali sono quelli spiegati sopra.
Proteine strutturali
Sono importanti non tanto per permettere la contrazione, ma per mantenere l’integrità strutturale del
sarcomero: la loro assenza più portare a disfunzioni quali i vari tipi di distrofia muscolare.
Le più grandi, nonché le più importanti, sono la titina e la nebulina, ma ci sono anche actinina, miomesina,
creatin-chinasi e proteina C.
- Titina: è la proteina più grande codificata dal nostro genoma (3milioni di Dalton); è una proteina
filamentosa lunga circa 1micron: si ancora, da una parte, al disco Z, e dall’altra al centro del sarcomero,
alla linea M, non direttamente ma attraverso la miomesina. Presenta una parte centrale che sta
all’interno del filamento spesso ed una parte che sta tra la fine del filamento spesso e il disco Z, la quale
è particolarmente importante in quanto è in grado di cambiare conformazione, funzionando da
elemento elastico, allungandosi ed accorciandosi seguendo i movimenti del sarcomero: la sua funzione
è quella di mantenere in registro nel sarcomero il filamento spesso nonostante l’energia meccanica
presente a questo livello; questo avviene grazie alle varie componenti che mantengono il filamento
spesso in una posizione centrale del sarcomero e che lo aiutano a tornare alla lunghezza iniziale dopo
una contrazione o un allungamento (che è sempre passivo, in cui sono importanti anche tendini e tessuto
connettivo che circonda le fibre).
- Nebulina: è ancorata al disco Z, dove è presente anche l’α-actinina, altra proteina strutturale che lega
tutti i filamenti sottili e le molecole di titina tenendo tutto in registro. Sta all’interno dei filamenti sottili
e si suppone abbia anche un ruolo nel determinarne la lunghezza, visto che, come proprio i filamenti
sottili, misura 1micron.
La linea M presenta, oltre alla miomesina, anche la creatin-chinasi, enzima alla base del meccanismo di pronto
intervento di ricostituzione di ATP, a partire dal creatin-fosfato, mano a mano che viene idrolizzato: nelle fasi
iniziali della contrazione, la perdita di ATP viene reintegrata rapidamente spostando il gruppo fosfato dal creatin-
fosfato all’ADP.
La proteina c è situata sempre nella parte centrale del sarcomero, lungo e intorno la linea M; importante per
mantenere il collegamento tra le proteine contrattili; inoltre, nel cuore sembra avere anche funzione regolatrice
della forza contrattile.
In corrispondenza dei dischi Z c’è un’altra proteina, la desmina, la quale entra a far parte di quei complessi
proteici, presenti a intervalli regolari in corrispondenza proprio dei dischi Z, definiti costameri, importanti per
l’integrità strutturale non solo della miofibrilla, ma dell’intera fibra muscolare: dal punto di vista meccanico, il
continuo lavoro che avviene all’interno delle fibre muscolari è estremamente usurante a causa dei continui
spostamenti; i vari costameri presenti sui dischi Z permettono un’interazione tra sarcolemma e sarcomeri che
aiuta a mantenere integrità strutturale. In assenza di queste strutture si avrebbe degenerazione del sarcolemma
stesso, che ad un certo punto non riuscirebbe più ad essere mantenuto nel tempo, il che provocherebeb una
disgregazione dell’intera fibra muscolare; una non corretta espressione di queste proteine è alla base di malattie
genetiche come le varie distrofie.
Una delle proteine più studiate a questo proposito è la distrofina (altra proteina enorme, seconda solo alla titina),
la quale ha una forma a bastoncello ed ha la funzione di mettere in relazione la membrana sarcoplasmatica con
i filamenti di actina: lega da un lato la desmina e dall’altro proteine di membrana come sarcoglicani e
distroglicani, le quali sono a loro volta legate a laminine della matrice extracellulare. La mancanza di distrofina
prodotta correttamente provoca la distrofia di Duchenne.
Altre proteine dello spazio extracellulare che intervengono nella stabilizzazione delle fibre muscolari sono le
integrine, che interagiscono con altri costameri.
La fukutina è un’altra proteina che interviene in queste interazioni; se questa non viene prodotta in modo
corretto determina la distrofia dei cingoli.
C’è un’altra proteine di membrana, la disferlina, che è importante nei processi di guarigione del muscolo in
seguito a lesione; questi processi di guarigione interessano la produzione di ossido nitrico da parte di un’ossido
nitrico sintetasi (uguale a quella che si trova nei neuroni ma diversa da quella a livello endoteliale), la quale è in
interazione con la caveolina (presente anche nelle cellule endoteliali dei vasi), proteina che inibisce la produzione
di ossido nitrico.
Ruolo del calcio
Confronto tra muscolo scheletrico e muscolo cardiaco
Per iniziare a capire come il potenziale d’azione generato sulla membrana del muscolo, il quale si propaga senza
decremento per tutta la lunghezza della fibra muscolare, determina un aumento della concentrazione di calcio
intracellulare e quindi l’inizio della contrazione, osserviamo una differenza anatomica importante tra muscolo
scheletrico e muscolo cardiaco.
Possiamo già vedere come l’interazione tra tubuli T e reticolo sarcoplasmatico è molto meno sviluppata nel
muscolo cardiaco: non abbiamo le cisterne del reticolo sarcoplasmatico che si accoppiano con i tubuli T a formare
la triade; abbiamo, invece, un reticolo sarcoplasmatico molto meno sviluppato, con un’interazione modesta con
le introflessioni del sarcolemma che vanno a formare i tubuli trasversi: si parla quindi di diadi in quanto abbiamo
la sovrapposizione, e mai la fusione, di un tubulo T sul reticolo sarcoplasmatico.
Inoltre, anche il numero di tubuli T è diverso: notiamo che nel muscolo scheletrico i tubuli T si trovano nel punto
di passaggio tra banda A e banda I e sono quindi 2 per sarcomero, mentre nel muscolo cardiaco si trovano in
corrispondenza dei dischi Z e ce n’è soltanto 1 per sarcomero.
Ricordiamo anche che le fibre del muscolo cardiaco sono molto più piccole di quelle del muscolo scheletrico,
arrivando ad un massimo diametro di 15micron.
Questo implica necessità diverse: bisogna ora capire qual è il meccanismo attraverso il quale un potenziale
d’azione determinato sul sarcolemma è in grado di determinare un rilascio di calcio nell’intero spessore della
fibra muscolare. Ovviamente, per una fibra cardiaca il problema che si riscontra è minore date le dimensioni
ridotte, mentre per quanto riguarda le fibre scheletriche bisogna effettivamente capire in che modo,
rapidamente, il potenziale d’azione generato che si propaga lungo il plasmalemma è in grado di attivare il rilascio,
da parte del reticolo sarcoplasmatico, del calcio necessario per permettere la contrazione per l’intero spessore
della fibra.
Il calcio necessario per attivare la contrazione del muscolo scheletrico viene, circa per la totalità, dal reticolo
sarcoplasmatico: è vero che anche sul sarcolemma ci sono canali per il calcio voltaggio dipendenti che
permettono l’entrata di calcio dall’esterno, ma questo tipo di muscolo, pur rimuovendo completamente il calcio
dall’ambiente extracellulare, in presenza di un potenziale d’azione è in grado di contrarsi in modo del tutto
normale. Pur essendo in piccola parte presente del calcio proveniente dall’esterno, questo non è assolutamente
necessario per indurre la contrazione del muscolo scheletrico, come è invece assolutamente indispensabile la
liberazione di calcio da parte del reticolo sarcoplasmatico che sta all’interno.
Questo rappresenta una differenza fondamentale con il muscolo cardiaco: in questo, l’entrata di calcio
dall’esterno della cellula è indispensabile per promuovere la contrazione; se quindi viene rimosso il calcio
extracellulare della cellula cardiaca, questa non è in grado di contrarsi.