Testi / N. 13
COMITATO SCIENTIFICO
L’ORDINE DISCONTINUO
Una genealogia foucaultiana
MIMESIS
Pubblicato con fondi PRIN 2010-2011 (c/o Dipartimento di Studi Umanistici -
Università della Calabria)
IMMAGINI FOUCAULTIANE
di Fabrizio Palombi 7
INTRODUZIONE 17
2. ECHI FOUCAULTIANI 37
2.1 La lanterna magica 37
2.2 Attraverso lo specchio 45
2.3 Alla cinese 59
2.4 Somiglianze 65
3. PROVENIENZE 69
3.1 I maestri: Hyppolite, Dumézil, Canguilhem 71
3.2 L’Altro, il Medesimo e il soggetto 83
3.3 Una questione di “etichetta” 90
3.4 Fare storia 100
BIBLIOGRAFIA 129
INDICE DEI NOMI 137
FABRIZIO PALOMBI
IMMAGINI FOUCAULTIANE
1. Generazioni
2. La «ragione analitica»
7 Infra, p. 97.
8 Foucault (2010), p. 414.
9 Foucault (1996b), p. 125.
10 Cfr. infra, p. 97.
11 De Rosa (2014).
12 Foucault (1996b), p. 126.
13 Infra, p. 110.
F. Immagini foucaultiane 11
3. Pittura e psicoanalisi
4. Un montaggio filosofico
Bibliografia
5 Ivi, p. 40.
6 Ivi, p. 71.
7 Ivi, p. 74.
8 Ivi, p. 262.
9 Foucault (1996a), p. 40.
20 L’ordine discontinuo
come più volte è già stato fatto, quanto lavorando nello spazio di quella che
potremmo definire la sua “cornice”; dall’altro, riteniamo che questo metodo
di ricerca possegga tuttora un grande potenziale investigativo. Più definibile
come un’ottica di fondo che come un vero e proprio metodo univoco, ci
sembra che la genealogia abbia molto da offrire agli studi filosofici. Essa è
d’aiuto nel perseguimento di un obiettivo fondamentale per questo campo
del sapere: non tanto dare buone, definitive risposte, ma formulare nel mi-
glior modo efficaci, nuove domande.
CAPITOLO 1
OGGETTI DEL SAPERE
rebbe di ricollocare dei dati editoriali di vendita dalla sfera d’interesse del
marketing, nella quale solitamente vengono presi in considerazione, verso
un ambito d’interesse filosofico.
Non era prevedibile il successo ottenuto da Le parole e le cose: le sue
pagine non sono immediatamente accoglienti, i materiali di cui esso tratta
appartengono a diversi campi del sapere e vengono sottoposti ad analisi che
attraversano tre epoche storiche. Arte, economia, storia naturale, grammatica
e psicoanalisi sono solo alcune tra le regioni della conoscenza tra le quali il
lettore è chiamato a orientarsi, e non senza difficoltà per quanti non posseg-
gano diverse conoscenze specialistiche preliminari. Genera stupore appren-
dere che questo stesso libro, Un’archeologia delle scienze umane complessa
e densa, era talmente diffuso da poter essere visto nelle spiagge e in mostra
tra i tavoli dei bar.5 Un fenomeno inconsueto, che diventa già all’epoca moti-
vo di dibattito; tanto che, sui numerosi articoli e sulle recensioni che accom-
pagnano l’uscita del libro, non si interviene solo a proposito dei contenuti
filosofici in esso proposti, ma anche del fenomeno stesso di questa diffusione
spontanea straordinaria. Come si registra nella Cronologia che apre i Dits et
Ècrits, nel trafiletto relativo all’anno 1966, «la stampa commenta ormai tanto
le vendite quanto il libro. Le prime come sintomo, il secondo come rottura».6
La Quinzaine littéraire, rivista quindicinale dedicata alla letteratura e alla
cultura diretta dallo scrittore Maurice Nadeau (1911-2013), nel 1966 darà
inizio a «una lunga serie di resoconti […] sul lavoro del filosofo». Il primo
di questi sarà un contributo firmato da François Châtelet (1925-1985), filo-
sofo e storico della filosofia, il quale adopera termini ricchi d’entusiasmo per
Le parole e le cose, osservando che «il rigore, l’originalità, l’ispirazione di
Michel Foucault sono tali che immancabilmente, dalla lettura del suo ultimo
libro nascono uno sguardo radicalmente nuovo sul passato della cultura oc-
cidentale e una concezione più lucida della confusione del suo presente».7
Châtelet saluta il volume come foriero dell’«analisi teorica che deve
apportare alle scienze umane la riflessione che così notoriamente a esse
manca»8. Il termine réflexion, utilizzato dall’autore, possiede un etimo simile
all’italiano “riflessione” e ci suggerisce di pensare al movimento di una “fles-
sione”, un “ri-piegamento”: Châtelet auspica che l’archeologia delle scienze
umane possa funzionare da innesco per una futura meta-analisi di queste
su loro stesse. È interessante notare come venga evidenziato un potenziale
5 Ibidem.
6 Foucault (1994a), vol. I, p. 29, traduzione nostra.
7 Châtelet (2009), p. 52, traduzione nostra.
8 Ibidem, traduzione nostra.
Oggetti del sapere 25
1.2 Genealogie
34 Foucault (1999).
35 Cfr. Foucault (1972), p. 50.
36 Ibidem.
37 Foucault (1977b), p. 33.
38 Ivi, p. 30.
39 Ibidem, corsivo dell’autore. Data la complessità dell’argomento, evitiamo
di affrontare la delicata questione della filologia nietzscheana e ci limitiamo a
riportare quanto viene citato da Foucault.
40 Ivi, p. 31.
Oggetti del sapere 31
41 Ivi, p. 30.
42 Ivi, p. 32.
43 Ibidem.
44 Ivi, p. 34, corsivi dell’autore.
45 Ivi, p. 37, corsivi dell’autore.
46 Ivi, p. 34.
47 Ivi, p. 35.
48 Ivi, p. 37.
32 L’ordine discontinuo
49 Ivi, p. 38.
50 Ivi, p. 39.
51 Nell’ordine: Nietzsche (2015a), (2015b), (2012a), (2012b), (2014).
52 Nietzsche (1887), pp. 8-9.
53 Orsucci (2001), p. 33.
Oggetti del sapere 33
fatto che non esiste evento o concetto che possa «restare fermo in se stesso
o sottrarsi al movimento della Storia»54.
«La genealogia è grigia; meticolosa, pazientemente documentaria»55,
scrive Foucault nell’apertura del suo scritto; il colore “grigio” era stato
scelto da Nietzsche come sinonimo del «documentato, l’effettivamente ve-
rificabile, l’effettivamente esistito, insomma tutta la lunga, difficilmente
decifrabile, scrittura geroglifica del passato»56. Nel metodo di lavoro adot-
tato da Foucault vi è una forte traccia dell’insegnamento nietzscheano; essa
è riscontrabile non soltanto dopo il 1971, ma anche in lavori come Nascita
della clinica o Storia della follia nell’età classica, o nello stesso Le parole
e le cose. Questo accade, forse, perché tra archeologia e genealogia non è
riscontrabile tanto una netta separazione, quanto una diversa messa a fuoco
di aspetti differenti dello stesso problema; ci troviamo concordi, dunque,
con gli studiosi Hubert Dreyfus (1929) e Paul Rabinow (1944), i quali
affermano che, di fatto, «non ci sono in Foucault periodi pre- e post- arche-
ologici o genealogici»57. Ci sembra in merito particolarmente appropriata
l’osservazione di Stefano Catucci (1963), il quale nota che la funzione del
saggio Nietzsche, la genealogia, la storia dev’essere letta, nel più ampio
contesto della produzione foucaultiana, in corrispondenza del «riassestarsi
di un sistema di priorità»58.
Se proviamo a definire Le parole e le cose utilizzando un lessico che
Foucault affinerà poco dopo il 1966,59 possiamo vedere questo testo come
una «unità discorsiva»,60 la quale ha potuto circolare sin da subito con un
enorme raggio di diffusione. La proposta teorica che esso contiene viene
accolta con interesse da una certa parte di pubblico, e fatta oggetto di aspre
critiche da altri lettori; in ogni caso, essa si trovava «“nel vero” del discorso
[…] del suo tempo»,61 e solo grazie a questo ha potuto innanzitutto venire
considerata “sensata”, fattore indispensabile per la sua diffusione.
Alla luce di quanto esposto finora, vogliamo provare a rispondere alle
nostre domande iniziali sul caso rappresentato da Le parole e le cose, pro-
vando a isolare qualche linea guida ispirata al metodo genealogico. Ri-
teniamo che in un determinato periodo storico-culturale, corrispondente
all’incirca ai primi tre anni dalla sua uscita, Le parole e le cose si sia con-
figurato come un ragguardevole «oggetto di discorso»62, poiché il discorso
filosofico in esso proposto ha assunto un peso degno di rilievo. Avendo
contribuito ad aprire più fronti di dibattito e avendo costituito uno spunto
importante per autorevoli riflessioni teoriche, ci sembra possibile conside-
rarlo come un «campo di conoscenza»,63 ovvero come un groviglio di fatti
e concetti filosofici dotati del peso di un evento.
Come Foucault stesso ricorda, «nessuno è […] responsabile di un’emer-
genza, nessuno può farsene gloria; essa si produce sempre nell’interstizio».64
Traslando l’osservazione al problema di nostro interesse, possiamo affer-
mare che se Le parole e le cose ha potuto dapprima vedere la luce e suc-
cessivamente arrivare a essere conosciuto e citato nei libri di storia del
pensiero, non si può che cercarne le motivazioni in uno stato di cose com-
plesso, che coinvolge una molteplicità di fattori. Senza avanzare la pretesa
di rintracciarli nella loro totalità, vogliamo provare a individuarne alcuni;
intendiamo partire dalla ricostruzione di alcuni aspetti della sua prima ri-
cezione. Abbiamo già proposto un saggio di certe interviste e recensioni
critiche, allo scopo di dare la misura dell’importanza del problema; ci sem-
bra interessante segnalare e analizzare alcune celebri reazioni al volume.
Si tratta del tentativo di “fotografare”, anche se parzialmente, il momento
di «emergenza», per poi andare retrospettivamente a ragionare sulle intera-
zioni che hanno contribuito a determinarla.
Jean-Paul Sartre sferrò al testo foucaultiano aspre critiche sul piano po-
litico e storico, in un articolo apparso su un numero monografico della
rivista L’Arc dedicato proprio all’autore de L’essere e il nulla.65 Di grande
interesse per gli studi d’intersezione tra filosofia e psicoanalisi sono, inve-
ce, le lezioni che Jacques Lacan (1901-1981) dedica al quadro Las Meni-
nas nel corso del suo XIII Seminario,66 preparate in seguito alla lettura del
volume foucaultiano.
La copertina bianca con scritte bordeaux e verdi, nel tipico stile grafico
dell’editore Gallimard, poteva essere vista in quegli anni anche al cinema.
Jean-Luc Godard (1930), regista di spicco della Nouvelle Vague, sente l’e-
sigenza di esprimere il suo disappunto verso le idee filosofiche proposte nel
saggio riservandogli un posto non lusinghiero in una scena del suo La Chi-
noise. Il pittore René Magritte (1898-1967), inoltre, mostra il suo interesse
62 Foucault (1999), p. 61; cfr. il capitolo La formazione degli oggetti, pp. 55-67.
63 Foucault (1978), p. 7.
64 Foucault (1977b), p. 39.
65 Sartre (2008).
66 Lacan (1965-66).
Oggetti del sapere 35
parete bianca delle figure che si crederebbero avere una specie di vita».3
Grazie a esso, i nostri avi poterono sperimentare l’illusione per la quale
alcune figure inermi, alcuni piccoli quadri dipinti, prendevano per pochi
attimi un magico soffio vitale.
Perché, in questo contesto, una divagazione su un macchinario del Sei-
cento? Il motivo risiede in una tra le critiche più dure subite dal libro del
1966: ad avviso di Sartre, ne Le parole e le cose Foucault avrebbe rimpiaz-
zato «il cinema con la lanterna magica, il movimento con una successione
d’immobilità»,4 fallendo completamente la fondazione del suo metodo.
Nel 1966, Jean-Paul Sartre godeva di enorme fama e prestigio per la
sua attività di intellettuale; la sua militanza nella sinistra francese, inol-
tre, riusciva a consolidare la sua credibilità presso un pubblico ancora
più vasto, fatto anche di numerosi giovani lettori simpatizzanti o attivi
tra le fila del Partito Comunista. Due anni prima, allo scrittore e filosofo
era stato attribuito il Premio Nobel per la letteratura, somma onorificenza
che egli decise di non accettare, motivando le sue ragioni con una lettera
all’Accademia Svedese, pubblicata il 23 Ottobre 1964 su Le Figaro.5 Sar-
tre, all’epoca cinquantanovenne, riteneva che accettare il Premio avrebbe
significato legare irrevocabilmente la sua produzione letteraria alla pre-
stigiosa istituzione che lo offre, e pertanto esserne condizionato quanto
alla sua libertà espressiva. Dichiarandosi convinto dell’inopportunità per
uno scrittore di accogliere onori e tributi ufficiali, Sartre faceva presente
all’Accademia Svedese che la sua storia personale non era priva di prece-
denti in tal senso: egli rifutò di essere decorato con la Légion d’honneur,
alta onorificenza della Repubblica Francese; e, a differenza – tra l’altro –
di Michel Foucault, non volle entrare tra i docenti del Collège de France,
istituto di ricerca d’alta eccellenza in cui diversi celebri studiosi hanno
tenuto e tengono i loro corsi.
Nell’ottobre del 1966, la rivista trimestrale L’Arc sceglie di dedicare a
Sartre il suo trentesimo numero. Il filosofo, che evidentemente non giudi-
cava la rivista sufficientemente prestigiosa per dover rifiutare l’onore d’un
numero monografico, concede a Bernard Pingaud (1923) un’intervista in
cui espone le sue opinioni in merito a temi ed esponenti del panorama
filosofico e culturale di quegli anni. Le parole e le cose era disponibile
nelle librerie già da alcuni mesi, pertanto, per quanto Foucault si dirà con-
3 Ivi, p. 154.
4 Sartre (2009), p. 75, traduzione nostra.
5 È possibile leggere il resoconto della comunicazione di Sartre sul sito ufficiale
www.nobelprize.org.
Echi foucaultiani 39
vinto del contrario,6 vi sono concrete possibilità che Sartre abbia avuto
l’occasione di prendere visione del testo che stava riscuotendo tanto suc-
cesso. Nell’intervista con Pingaud vengono avanzate critiche molto dure e
rimaste famose, segnatamente a proposito di due questioni: la concezione
foucaultiana della storia e le posizioni espresse, più o meno direttamente,
in merito al marxismo.
Il peculiare andamento che Foucault rinviene nella storia è strettamente
connesso con il metodo che sceglie per condurre l’indagine contenuta ne
Le parole e le cose. Come abbiamo avuto modo di constatare nelle pagine
precedenti, nel 1966 questo aspetto era formalmente limitato alla modalità
archeologica e non ancora, almeno non in maniera manifesta, influenzato
dalla genealogia nietzscheana. Tuttavia, della radicale discontinuità del di-
venire, il filosofo di Poitiers era già convinto da diversi anni, e su questo
fondamento aveva basato le sue principali precedenti ricerche e anche il
volume del 1966.
Nella Prefazione, la ricerca viene definita nei termini di un rinvenimento
degli elementi «a partire da cui conoscenze e teorie sono state possibili»,
ovvero dello «spazio d’ordine» sulla base del quale i saperi hanno potu-
to formarsi e organizzarsi. Si tratta, con un’altra fortunata – tanto quanto
contestata – definizione, di una ricerca sull’«a priori storico», come «sfon-
do» sul quale sono venute instaurandosi nei secoli «positività», scienze e
«razionalità».7 Poco catalogabile come una «storia delle idee o delle scien-
ze», questa archeologia delle scienze umane non prevede un capitolo o
un paragrafo in cui ne venga illustrato il metodo, con una scelta di cui, in
parte, l’autore riconoscerà in seguito la scarsa convenienza.8 La questione
viene infatti sbrigata frettolosamente con una nota a piè di pagina, che reci-
ta: «i problemi di metodo posti da una tale “archeologia” saranno esaminati
in una prossima opera»:9 ci si riferisce, naturalmente, a L’archeologia del
sapere, che sarà pubblicato tre anni più tardi. Il problema esula dai compiti
e dagli obiettivi prefissati:
terizzate, classificate e sapute allo stesso modo […] ? Per un’archeologia del
sapere, tale apertura […] potrà essere analizzata, magari minuziosamente, ma
non “spiegata” e nemmeno contenuta in una sola parola.10
Ciò che possiamo fare è «seguire i segni, i sobbalzi, gli effetti», ma non
porre domande di senso o di causa; a un simile risultato potrebbe giungere
«solo il pensiero che potesse recuperare se stesso alla radice della propria
storia».11 Considerata la visione nietzscheana dell’origine che contraddi-
stingue Foucault, il confine sembra quasi di natura ontologica, segnato in
modo da rappresentare un limite invalicabile. A posteriori, sappiamo che
l’archeologia si distingue dalle più tradizionali storie delle idee o delle
scienze, tra altri dettagli operativi, anche perché non mira a ricostruire una
linea evolutiva progressiva e non si basa sull’idea che la conoscenza si
muova secondo una «perfezione crescente»12. Il lavoro archeologico trat-
ta di «mutazioni», «sconvolgimenti topografici», «organizzazioni di spazi
nuovi» nella loro successione cronologica, stratificazioni del «“suolo” sul
quale si esercita il pensiero»13 della cultura occidentale; nonostante questi
obiettivi atipici, essa nasce con l’intenzione di essere riconosciuta a pieno
titolo in quanto forma di ricerca storica.
Proprio a proposito di queste stesse premesse si inserisce la critica di
Sartre: innanzitutto, egli obietta sulla definizione del lavoro in oggetto
come “archeologico”: se tale è il progetto volto al rinvenimento dei resti
materiali di un popolo del passato per tentare di metterne in piedi un qua-
dro più fedele possibile, allora questa etichetta non risulterebbe consona
all’impresa foucaultiana. Configurandosi come uno scavo nella «serie di
strati successivi che formano il nostro “suolo”», l’opera di Foucault sareb-
be, secondo Sartre, meglio paragonabile al lavoro del geologo.14
Ma veniamo al problema definito tramite la pittoresca immagine della
lanterna magica, che possiamo così sintetizzare: ne Le parole e le cose
vengono presentate e studiate tre epoche successive, marcate attraverso
due importanti rotture; tuttavia, non c’è traccia del tentativo di fornire una
spiegazione o un’ipotesi sulle cause che hanno permesso l’avvicendarsi
dei diversi momenti o l’insorgere delle fratture. Similmente alle proiezioni
eseguite attraverso la lanterna magica, secondo Sartre il libro di Foucault
presenterebbe tre quadri immobili, tre “vetrini dipinti”, che si muovono a
10 Ivi, p. 235.
11 Ivi, p. 236.
12 Ivi, p. 12.
13 Deleuze (2009), p. 70, traduzione nostra.
14 Sartre (2009), p. 75, traduzione nostra.
Echi foucaultiani 41
illustra alcune «istruzioni per l’uso»21 della sua indagine sulle epistemi, in-
quadrandola nei termini di una descrizione condotta su un «modello di tra-
sformazione» e non «d’evoluzione»22: «ho tentato di costituire due modelli
teorici capaci di descrivere lo stato A e lo stato B da una parte e dall’altra
di questa rottura. Questi due modelli permettono inoltre di definire in cosa
consistano le “trasformazioni” che permettono di passare dallo stato A allo
stato B».23 Analisi di differenti equilibri, con attenzione volta a cogliere e sot-
tolineare i “sintomi” che rendono conclamato il passaggio, attraverso i quali
poter approntare un sorta di «regola» per «una discontinuità empirica».24 È
il modello evolutivo a richiedere che si spieghi il perché dei cambiamenti,
sembra dire Foucault, mentre quello descrittivo non avanza simili pretese,
limitandosi a segnare i dati ed evidenziare le ricorrenze traducibili in regole.
Un’ulteriore precisazione ci proviene da un’intervista rilasciata nello stes-
so anno; si tratta, per poter sostenere questa impostazione, di riconoscere
che «discipline non formalizzate come la storia» possano «intraprendere
anch’esse i compiti primi della descrizione»25.
Tuttavia, per Sartre i problemi non finiscono qui: gli stessi strumenti
descrittivi utilizzati da Foucault, a suo parere, non risultano efficaci né lon-
tanamente congeniali a un’analisi del divenire. Egli non ha dubbi nel col-
locare Foucault all’interno della «giovane generazione» di filosofi e pensa-
tori che ha dato origine allo strutturalismo, movimento che avrebbe tra le
sue implicazioni teoriche un netto «rifiuto della storia».26 A suo avviso, gli
strutturalisti fonderebbero la propria lettura dei fenomeni sul «concetto»,
che il filosofo definisce «a-temporale»; sarebbe più adatta la «nozione»,
che è definita invece «come lo sforzo sintetico di produrre un’idea che si
sviluppa essa stessa, attraverso contraddizioni e superamenti successivi, e
che è dunque omogenea allo sviluppo delle cose».27
Un esempio del problema è costituito da Louis Althusser (1918-1990),
noto artefice di una lettura del pensiero marxiano in chiave strutturalista: il
suo limite, che è anche quello di Foucault, consisterebbe nell’utilizzo di una
«struttura pratico-inerte», senza tenere in considerazione la «contraddizione
permanente» che questa genera con «l’uomo che si scopre condizionato da
credo che la storia si sia trovata ad essere oggetto di una strana sacralizzazio-
ne […] per alcuni la storia come disciplina costituiva l’ultimo rifugio dell’or-
dine dialettico: lì si poteva salvare il regno della contraddizione razionale […]
questa storia […] per alcuni è diventata intoccabile: rifiutare una simile forma
di dire storico sarebbe come attaccare la grande causa della rivoluzione.31
38 Ivi, p. 195.
39 Ibidem.
40 D’Amico (2006), pp. 12-13.
46 L’ordine discontinuo
dell’arte: il pittore Diego Velázquez. Sono diversi i ritratti che il pittore de-
dicò all’Infanta; uno, in particolare, godette da subito di una fama talmente
grande da rendere immortale la piccola Margherita. Non si teme di esage-
rare, infatti, se si afferma che Las meninas (1656, fig. 1) è una tra le opere
più apprezzate, commentate, ammirate e discusse nella storia della pittura.
L’accostamento tra la piccola Alice Liddell e l’Infanta Margherita non
è una nostra idea: è Jacques Lacan a proporre questo paragone, come affa-
scinante espediente per chiarire alcuni aspetti della relazione tra soggetto e
superficie speculare. L’occasione è data da alcune lezioni tenute nel corso
del suo XIII Seminario (1965-1966),41 durante le quali lo psicoanalista uti-
lizza e discute il primo capitolo de Le parole e le cose, intitolato Le dami-
gelle d’onore e dedicato a un’analisi strumentale di Las meninas. Per poter
addentrarci nella questione, facciamo un passo indietro e soffermiamoci un
attimo sul quadro.
L’opera di Velàzquez raffigura l’Infanta circondata da servitori, al cen-
tro di un’ampia sala ornata da molti altri quadri; alla sua destra si trova un
elemento del tutto insolito: un autoritratto del pittore, munito di pennello
e tavolozza, in posizione frontale rispetto a un’enorme tela della quale è
possibile vedere soltanto il retro. La sua postura sembra suggerire che il
pittore stia lavorando, ma non siamo in grado di conoscere il soggetto del
suo dipinto; inoltre, sul muro di sfondo, un rettangolo illuminato sembra
ospita il riflesso dei mezzibusti di re e regina di Spagna.
In passato, il Museo del Prado aveva riservato un’intera stanza a
quest’opera di Velázquez; il dipinto vi troneggiava in esposizione solita-
ria, accompagnato da una targa che lo descriveva come «l’opera culmine
della pittura universale».42 La definitiva inaccessibilità che Velázquez ha
attribuito a questo “quadro nel quadro” costituisce, ormai da secoli, motivo
di svariate congetture e di accesi dibattiti artistici e filosofici. La posizione
dello specchio, frontale allo spettatore, rinnova il suo tiro mancino a chiun-
que passi di fronte al capolavoro esposto al Prado, regalando l’illusione di
un’esperienza decisamente anormale: quella di vedere su una superficie
speculare un volto altro dal proprio. Come nota lo psicoanalista Jacques
41 Il XIII Seminario di Lacan, sul quale verte gran parte di questo paragrafo, risulta
inedito nel momento in cui scriviamo; ci avvaliamo, pertanto, della trascrizione
redatta dall’Associazione Lacaniana Internazionale. Traiamo, invece, alcune
immagini che ci sembrano particolarmente esplicative da uno dei documenti
disponibili sul sito www.gaogoa.free.fr, la cui trascrizione incrocia la versione
messa a disposizione da Pascal Gaonac’h, quella di Michel Roussan e la
trascrizione a cura della E.L.P.
42 Portus (2009), p. 121, traduzione nostra.
Echi foucaultiani 47
sopra. Si tratta del posto dello specchio, o meglio, del «posto del re»:50
questi, come già ricordato, campeggia insieme alla sua consorte come
immagine in quello che sembrerebbe uno specchio; tuttavia, non c’è
traccia nella scena dei corpi dei sovrani che avrebbero dovuto costituire
la “sorgente” reale del riflesso.
50 Ivi, p. 332.
Echi foucaultiani 49
51 Ivi, p. 30.
50 L’ordine discontinuo
52 Ibidem.
53 Canguilhem (2010), p. 418.
54 Lacan (1965-66), lezione del 27 aprile 1966, traduzione nostra.
Echi foucaultiani 51
pur non appartenendo a essa poiché non fa parte del suo spazio. Foucault lo
definisce «luogo perfettamente inaccessibile in quando esterno al quadro,
ma imposto da tutte le linee della sua composizione»;58 Lacan lo considera
in quanto sorgente della costruzione prospettica e, per permettere agli stu-
denti di seguire correttamente il percorso che intende delineare, fornisce
delle lunghe e complesse istruzioni per far sì che essi familiarizzino con le
nozioni di base della geometria proiettiva.59
«La prospettiva è il modo – “in un certo tempo, in una certa epoca”,
come direbbe lei – attraverso il quale il pittore come soggetto si mette
nel quadro»;60 l’inciso viene rivolto proprio a Foucault, che era presen-
te alla seduta del 18 maggio 1966. La definizione suesposta non vuole
semplicemente mettere in rilievo il fatto che la costruzione prospettica
avviene tramite una scelta arbitraria del punto di vista da parte dell’arti-
sta, il quale, senz’altro, gioca un ruolo simile a quello del regista nell’in-
dividuazione dell’inquadratura. Trattandosi di Lacan, non vi è dubbio
sul fatto che il termine “soggetto” sia da intendersi in senso psicoana-
litico; nel caso pittorico in oggetto, l’entrata nel quadro suggerisce una
questione complessa e affascinante, che trova il suo punto di partenza
nella considerazione dell’intera scena come «campo percepito»61 dallo
sguardo dello spettatore. È importante sottolineare che, con questo ter-
mine, non ci si sta riferendo al solo «campo della visione» ma, attraver-
so di esso, all’intera «struttura del soggetto scopico»:62 in quanto forma
dell’oggetto a, lo sguardo è parte della complessa dinamica per la quale
si forma una «storia della soggettività». Tra l’altro, questa definizio-
ne fornisce a Lacan l’occasione di una battuta, attraverso la quale egli
mostra non poca lungimiranza nei riguardi di quello che sarebbe stato
il prosieguo delle ricerche foucaultiane. Riferendosi alla «storia della
soggettività» come problema da affrontare, lo psicoanalista aggiunge
rivolgendosi a Le parole e le cose: «è un titolo che lei accetterebbe, non
come sotto-titolo perché credo che ve ne sia già uno, ma come sotto-
sotto-titolo».63 In effetti, anche se nel 1966 non lo si poteva immagi-
nare, Foucault avrebbe dedicato gli ultimi anni della sua vita proprio a
cercare di definire i modi in cui i soggetti possono costruire loro stessi.
Fig. 2
Fig. 3
suo stesso «metodo riguardo ciò che ha insegnato Freud» è definibile allo
stesso modo, ossia nei termini «d’una lunga esplorazione, quella di tutta
la sua carriera, verso un punto originale – in senso completamente trasfor-
mato», precisando che, pertanto, tale operazione «non ha assolutamente il
senso d’un puro e semplice raddoppiamento».70
Las meninas non permette di guardare a esso senza immergervisi: su
questo anche Foucault concorda, evidenziando come il posto dello spet-
tatore sia il vero focus della scena; Lacan arricchisce l’interpretazione,
affermando che la struttura del dipinto ci convoca al suo interno per far-
ci compiere «un doppio giro». Durante il primo tour l’orientamento sarà
invertito, esattamente come lo erano tutte le cose nel mondo attraverso lo
specchio visitato da Alice nel racconto di Lewis Carroll. Bisogna ricordare
che la superficie del nastro di Mœbius è topologicamente non orientabile:
ciò significa che solo dopo aver compiuto il percorso intero, e dunque dopo
il secondo giro, avremo ritrovato il nostro orientamento iniziale: «bisogna
fare due giri pulsionali per compiere qualcosa che ci permetta di cogliere
cosa è davvero la scissione del soggetto».71
A parere di Lacan, ci risulta facilmente immaginabile che l’Infanta Mar-
gherita, nella situazione in cui è stata ritratta, potesse voler pronunciare a
gran voce la seguente richiesta: «Fa’ vedere!».72 La piccola protagonista
non rivolge lo sguardo verso il quadro e quindi, nella posizione in cui è
fissata dall’immutabilità della traccia pittorica, è destinata tanto quanto noi
a ignorare cosa il pittore stia dipingendo:
Per dire il suo «Fa’ vedere!», dal nostro lato, non evochiamo, a suo proposi-
to, la stessa immagine, la stessa favola del salto di Alice, che ci raggiungerebbe,
[…] secondo un artificio di cui la letteratura carrolliana […] ha il suo uso e
abuso: l’attraversamento dello specchio? […] la via che, dopo tutto ci sembra
aperta e ci chiede d’entrare, noi, nel quadro: non c’è.73
Fig. 4
80 Lacan (1965-66), lezione del 18 maggio 1966, traduzione nostra, corsivo nostro.
81 Godard (1967), traduzione nostra.
82 Mao Tse-tung (2010).
83 Ivi, p. 55.
60 L’ordine discontinuo
87 Ibidem.
88 Ibidem, traduzione nostra.
89 Flanagan (2009), pp. 156-157, traduzione nostra.
90 Brody (2008), p. 232, traduzione nostra.
91 Artières, Bert, Chevallier, Michon, Potte-Boneville, Revel, Zancarini (eds.)
(2009), pp. 10-11, traduzione nostra.
62 L’ordine discontinuo
i futuri Foucault non possano affermare tali cose con tanta presunzione».94
Il regista, dunque, non soltanto si colloca in netto contrasto con Foucault,
ma sembra suggerire anche che i suoi film potrebbero mettere in difficol-
tà l’individuazione di una episteme. Egli sembrerebbe volersi qualifica-
re come autore anticonvenzionale, lasciando intendere che film come La
chinoise non sarebbero compatibili con i codici a cui obbedirebbe il resto
dell’«archivio» dell’epoca.
È interessante notare come Godard sostenga che «neanche Sartre sfugge
a questo rimprovero», ovvero al problema di voler sentenziare sulla società
senza tema di incorrere in errore. Questo doppio attacco direzionato ai due
filosofi francesi sembrerebbe emergere durante una scena de La Chinoise
incentrata su una particolarissima parete “militante”, che viene chiamata il
muro dei «Nemici pubblici». Su di esso è dipinta la figura di un uomo in
giacca e cravatta, che porta sparse su di sé foto, scritte e copertine di libri;
un vero e proprio «muro della vergogna»95 sul quale, in mezzo ai supposti
simboli del conservatorismo e del revisionismo, compare la copertina di Le
parole e le cose, ma anche una copertina con su scritto «Descartes par J.-P.
Sartre», che ci sembra di poter identificare come il testo Descartes di Sartre.96
Foucault è sulla lista dei “Nemici Pubblici”, il suo libro sulla parete
dell’infamia, parte di un collage che funge da bersaglio per i componen-
ti del “Nucleo Aden Arabie”: Guillaume, uno dei protagonisti, è ripreso
mentre mira alla parete munito di un arco e una freccia che porta alla sua
estremità una ventosa. Più simile a un giocattolo che a un’arma, la freccia
assume una valenza simbolica: mentre mira, il giovane afferma che «unire
la teoria alla pratica» è come «sparare a un obiettivo», e che «così come si
punta un bersaglio, il marxismo-leninismo deve mirare alla rivoluzione».
Nella sezione Cronologia dei Dits et Écrits (1954-1988), importante
raccolta di testi foucaultiani parzialmente tradotti in italiano con il titolo di
Archivio Foucault, i curatori scrivono che nel film di Godard il personag-
gio di Veronique lancerebbe «dei pomodori contro Les Mots et les choses,
libro simbolo della negazione della storia».97 Non siamo riusciti a trovare
questa scena nelle edizioni del film a nostra disposizione, e non sappiamo
se essa sia stata tagliata in seguito.
Come la ginnastica marxista-leninista, anche il tiro con l’arco è un eser-
cizio pratico studiato per convertire la teoria in azione; tra l’altro, non è
l’unica scena del film in cui dei gesti violenti vengono mimati con l’ausilio
di giocattoli. Nel film compaiono modellini di aerei da guerra, finte armi,
carri armati in plastica che vengono annientati con un lancio massiccio
di copie del Libretto Rosso di Mao. Ciò che vediamo è un gruppetto di
ragazzi che agisce come se fosse seriamente convinto di potersi preparare
alla rivoluzione simulandola al chiuso d’un appartamento e con l’ausilio
di strumenti ludici; per questo motivo, negli ambienti legati alla sinistra
estremista il film fu percepito piuttosto come espressione di un intento pa-
rodistico, che come un racconto onesto della gioventù francese maoista.98
Per di più, il finale del film risulta particolarmente scoraggiante: i frutti
dell’esperimento rivoluzionario si riducono a un suicidio, un abbandono
della causa per la scoperta di una vocazione teatrale, un rientro nel PCF,
l’assassinio erroneo d’un innocente e la pulizia dell’appartamento alla fine
delle “vacanze”.
Godard è consapevole di essere responsabile, almeno parzialmente, del
fraintendimento del suo film. Nel corso dell’intervista per i Cahiers du
Cinéma, egli si rammarica di non aver chiarito a sufficienza il fatto che i
«personaggi non facevano parte d’un vero gruppo marxista-leninista».99
Nondimeno, il regista crede che esistano difficoltà di comunicazione ine-
liminabili, dovute ad alcuni limiti che il pubblico mediamente mostrava
in quegli anni: «non si è ancora in grado di ascoltare e guardare un film»,
afferma. Egli aggiunge un giudizio molto severo verso i militanti e gli atti-
visti politici, sostenendo che «le persone formate politicamente di rado lo
sono cinematograficamente e viceversa».100
Godard si schermisce quando si tratta di letteratura e saggistica: «io non
so leggere»,101 dice, sottolineando la differenza radicale tra la forma espres-
siva propria del cinema e quella scritta, dalla quale si ritiene distante. Il
regista racconta di aver avuto difficoltà a leggere per intero Le parole e le
cose e di essersi limitato al primo capitolo, dedicato all’analisi critica del
quadro Las meninas di Velázquez, e a poco altro. Non sappiamo se questo
corrisponda a verità, in ogni caso il giudizio che ne dà è quello di un testo
«bello» ma inutile: il regista non ne comprende «la necessità», lo trova
«discutibile», riduce la questione delle scienze umane a una «moda» del
momento fomentata dalla stampa; alla risolutezza con cui Foucault propo-
ne le sue ipotesi, poi, egli obietta che, in fondo, anche «altre cose sarebbero
ugualmente vere».102
Per sintetizzare la posizione critica di Godard nei confronti di Foucault,
prendiamo in prestito una frase che venne utilizzata per l’apertura del nu-
mero 18 della rivista cinematografica Trafic, in cui veniva dedicato a Go-
dard più d’un articolo. Essa, letta retrospettivamente, ci sembra suoni come
un monito all’audacia foucaultiana; per di più, strano scherzo del destino,
è firmata dal suo caro amico Gilles Deleuze (1925-1995): «non è facile
sapere ciò che ci appartiene, e per quanto tempo».103
2.4 Somiglianze
caso, egli allega alla missiva le copie di alcuni suoi quadri premurandosi
di specificare che questi sono stati dipinti senza preoccupazione «di una
ricerca pittorica originale»; questa scelta artistica deriva dalla convinzione
per cui l’immagine dipinta non potrebbe non essere determinata da una
«coincidenza che risulta dalla descrizione del mondo visibile».112
L’opera di Magritte risulta profondamente segnata da una profonda atti-
vità di riflessione teorica; come osserva Joseph Tanke (1978), non sembra
peregrino definire «il suo stesso lavoro […] filosofico, nel porre in un lin-
guaggio visivo alcune delle questioni profonde del pensiero moderno: […]
Cos’è il significato? Quali sono i limiti della rappresentazione?». La sua
commistione tra concetti e immagini, che potremmo definire “tra parole
e cose”, lo rende un instancabile ricercatore capace di integrare strumenti
eterogenei, allo scopo di «risolvere problemi visivi».113
La lettera a Foucault propone un ulteriore spunto teorico, che ci sembra
particolarmente legato al commento su Las meninas; Magritte scrive: «è
evidente che un’immagine dipinta – che per sua natura è intangibile – non
nasconde nulla, mentre il visibile tangibile nasconde immancabilmente un
altro visibile – se prestiamo fede alla nostra esperienza».114 Iniziamo con
l’osservare che, anche in questo caso, si tratta di una questione sulla quale il
pittore doveva avere già a lungo meditato: infatti è possibile trovare traccia
di analoghe riflessioni già nel celebre articolo del 1929 intitolato Les mots
et les images. In questo scritto particolarmente suggestivo che fonde dise-
gni e parole, Magritte abbina alla raffigurazione di un muro fatto di mattoni
questa frase: «un oggetto fa supporre che ve ne siano altri dietro di sé».115
Scrivendo a Foucault, 37 anni più tardi, egli prosegue le sue considera-
zioni aggiungendo l’osservazione più sopra citata, dotata di aspetti ontolo-
gici, con la quale specifica che un disegno non è un oggetto e pertanto non
può adombrare misteri o oggetti nascosti. Una figura dipinta si presenta già
da subito in tutta la sua verità, mostrando senza riserve tutto ciò che ha da
dire. Ci sovvengono, in proposito, le numerose occorrenze in cui Foucault
utilizza la dicotomia visibile/invisibile nel primo capitolo de Le parole e
le cose, esaminando il ruolo dell’alta tela su cui lavora Velázquez e fatto
che non ci sia concesso di vederne altro che il retro. La descrizione di Las
meninas proposta dal filosofo sfrutta ampiamente il concetto di una con-
vivenza tra luce e ombra, rispettivamente tra tutto ciò che ci è consegnato
stile. Raccogliamo, dunque, qualcuno tra questi fattori che potrebbero aver
contribuito a determinare alcune idee poi sviluppate ne Le parole e le cose.
Uno di questi viene riferito da Didier Eribon (1953), studioso e bio-
grafo di Foucault, e riguarda il periodo trascorso a Uppsala, in Svezia;
trasferitosi per lavoro come professore universitario, il filosofo era so-
lito organizzare delle gite fuori porta. Pare che, diverse volte, la meta
di questi brevi viaggi sia stata l’abitazione di Carl von Linné, in Italia
meglio noto come Linneo (1707-1778), naturalista e medico svedese.
Egli riveste il ruolo di iniziatore, e in qualche maniera anche di em-
blema, della ratio che avrebbe caratterizzato la disciplina della storia
naturale nel corso dell’età classica. Il soggiorno svedese risale alla fine
degli anni Cinquanta, e dunque la cronologia ci permette d’ipotizzare
che le passeggiate fino a casa di Linneo possano essere aver costituito
una fonte d’ispirazione.2
Un altro evento, del tutto casuale, sembra essere stato determinante per
la costruzione del capitolo de Le damigelle d’onore. Durante un’intervista3
concessa al critico letterario Claude Bonnefoy, Foucault racconta il suo
primo incontro con Las meninas a Madrid, presso il Museo del Prado:
Avevo guardato questo quadro molto a lungo, così, senza pensare di par-
larne un giorno, né tantomeno di descriverlo, cosa che mi sarebbe sembrata
derisoria e ridicola. E poi un giorno, non so più bene come, senza averlo rivisto,
senza nemmeno averne osservato una riproduzione, mi è venuta voglia di par-
lare a memoria di questo quadro, di descrivere cosa conteneva. Dal momento in
cui ho cercato di descriverlo, ecco che allora un certo colore del linguaggio, un
certo ritmo, una certa forma di analisi soprattutto mi hanno dato l’impressione,
la quasi-certezza, forse errata, di poter trovare proprio lì il discorso attraverso
il quale potesse sorgere e misurarsi la distanza che ci separa dalla filosofia
classica della rappresentazione e dal pensiero classico dell’ordine e della somi-
glianza. È così che ho cominciato a scrivere Le parole e le cose.4
6 Ivi, p. 38.
7 Foucault (1994c), p. 783, traduzione nostra.
8 Ivi, p. 784, traduzione nostra.
Provenienze 73
[…] della nostra esperienza del mondo vissuto»,14 in cui entrambi conside-
rerebbero imprescindibile il confronto con il divenire storico.
Altri studi propongono un’interpretazione del lavoro di Hyppolite come
espressione di una sorta di anti-umanesimo, per cui egli si sarebbe impe-
gnato a difendere l’immagine di uno Hegel ostile all’antropocentrismo;15
tuttavia crediamo si tratti di una lettura non priva di rischi. In questa inda-
gine sui fattori genealogici de Le parole e le cose, preferiamo considerare
l’apporto di Hyppolite tramite questa raccolta di tracce lasciate dallo stesso
Foucault, ricordando un ultimo, significativo episodio riportato da Eribon:
dopo la sua morte, egli inviò alla moglie del suo maestro, insieme a una
copia in dono di Sorvegliare e punire, un bigliettino con su scritto: «A ma-
dame Hyppolite, in ricordo di colui a cui devo tutto».16.
20 Ibidem.
21 Ibidem.
22 Cfr. Couliano, Eliade (a cura di) (1992), p. 63; Ries (2009), p. 97.
23 Foucault (1994e), traduzione nostra.
24 Cfr. Dumézil (2001).
25 Cfr. Foucault (1994e), pp. 273-274.
76 L’ordine discontinuo
26 Ivi, p. 274.
27 Cfr. Saussure (2005), in particolare il capitolo Il valore linguistico, pp. 136-148.
28 Deleuze (2011), pp. 25-38.
29 Foucault (1994e), p. 275, traduzione nostra.
30 Ivi, p. 276, traduzione nostra.
31 Ibidem, traduzione nostra.
32 Ivi, p. 277, traduzione nostra.
33 Ivi, p. 281, traduzione nostra.
34 Ivi, p. 280, traduzione nostra.
35 Ibidem, traduzione nostra.
Provenienze 77
suo debitore per un nodo teorico che costituirà uno dei segni distintivi del
suo modo di fare ricerca. Egli infatti afferma:
devo a lui d’aver capito che la storia delle scienze non è necessariamente
irretita nella alternativa: cronaca delle scoperte, o descrizione delle idee e opi-
nioni […] ma che si poteva, che si doveva, fare la storia della scienza come
d’un insieme, coerente e trasformabile ad un tempo, di modelli teorici e di
strumenti concettuali.47
studi.49 Ci interessa per i nostri scopi mettere sulla bilancia queste di-
chiarazioni di Foucault su Canguilhem, e considerare il peso che questi
nodi concettuali possono aver avuto nella fase ideativa di Le parole e
le cose. Questo volume infatti pensa la storia della cultura occidentale
come una successione di configurazioni epistemiche, tra esse eteroge-
nee e non disposte in linea evolutiva; i codici culturali di ciascuna età
vengono colti attraverso un’indagine genealogica che si pone il fine di
mostrare retrospettivamente la linea di eventi e rotture che avrebbe pre-
ceduto il sorgere delle scienze umane. A tale scopo vengono interrogate
alcune discipline, segnatamente quelle relative ai campi della vita, del
lavoro e del linguaggio, tra le quali Foucault evidenzia punti di contatto
sincronici nel corso delle tre epistemi considerate. Di questi campi del
sapere, inoltre, egli mostra i periodi di formazione e trasformazione
tracciando un quadro diacronico che non presuppone alcun principio
evolutivo o di progresso. È evidente che questa modalità operativa è
basata su una precisa idea del concetto di conoscenza e, ancora più a
fondo, del problema della verità. In quest’ottica, il dispiegamento delle
varie forme assunte dalle scienze non può, costitutivamente, celare o
ostacolare verità che attendono di essere svelate, poiché il vero non ha
una forma definitiva, ma è sempre soltanto in un determinato rapporto
con il falso.
Per avvicinarci a tali questioni ci sarebbe da interrogare un altro illustre
nome, quello di Nietzsche; tuttavia, la rielaborazione foucaultiana del suo
concetto di conoscenza è oggetto di una conferenza del 1973,50 e non ab-
biamo certezza che Foucault si sia soffermato a riflettere sulla questione
prima del 1966. Ci limitiamo a proporre, come suggestione, una conside-
razione foucaultiana, ancora più tarda ma emblematica, in cui il filosofo
tedesco viene accomunato al maestro francese: «Nietzsche diceva della ve-
rità che era la più profonda menzogna. Canguilhem direbbe forse, lui che
è insieme lontano e vicino a Nietzsche, che essa è, sull’enorme calendario
della vita, il più recente errore».51
La citazione si conclude con una parola chiave, un concetto che detiene
un ruolo di primo piano nella riformulazione canguilhemiana della teo-
ria della discontinuità nelle scienze. L’errore, per Canguilhem, possiede
il medesimo statuto e la stessa potenza di sconvolgimento dell’evento; lo
tuali che arrivano a riflettere sul soggetto proprio in conseguenza di una me-
ditazione preventiva sul concetto. Foucault prende atto di una simile «linea
di separazione»57 confrontando i già citati Bachelard e Canguilhem con la
filosofia di Sartre e Merleau-Ponty (1908-1961): la doppia ramificazione cor-
risponde, a suo avviso, alle due diverse letture della fenomenologia husser-
liana, penetrata in Francia attraverso le Meditazioni cartesiane.
Secondo Foucault, esistenzialismo e filosofia della scienza avrebbero
un genitore comune, eppure sarebbero iniziatori di due stirpi quanto mai
differenti: proseguendo il pensiero fenomenologico, il primo avrebbe pre-
ferito intraprendere l’indagine del senso, dell’esperienza e del soggetto,
mentre la seconda avrebbe deciso d’indagare i problemi relativi al sapere,
alla razionalità e al concetto.58 È da questa seconda famiglia che Foucault
prende i natali, e già nel 1965 confida la scelta a Canguilhem: in una lettera
egli spiega al suo maestro che l’aver letto i suoi libri ha reso possibile il
suo lavoro, il quale «porta la sua impronta», e che «la Clinica e ciò che se-
gue vengono proprio da lì e forse vi sono interamente compresi».59 Questa
dichiarazione è per noi particolarmente interessante, poiché nel 1965 Fou-
cault aveva già terminato di scrivere Le parole e le cose, quello chiamava
all’epoca il suo «libro sui segni»;60 sappiamo, pertanto, che già all’epoca
egli riconosceva l’importanza e il peso dell’eredità canguilhemiana.
mentre nella Storia della follia si ricercava il modo in cui una cultura può
porre in forma generale e massiccia la diversità che la limita, si tratta ora di
osservare il modo in cui essa sperimenta l’affinità delle cose, il modo in cui
si instaura il quadro delle parentele e l’ordine in cui bisogna seguirle. Si tratta
insomma di una storia della somiglianza.75
Le parole e le cose viene presentato dallo stesso autore come una sor-
ta di conseguenza dei suoi precedenti studi, o meglio come una ricerca
concomitante e integrativa, che doveva essere affrontata per non lasciare
incompleto il sentiero ormai inaugurato. La follia è la grande Alterità che
da sempre abita la società, ricoprendo di volta in volta in essa un diverso
ruolo; la sua nascita è da ricercarsi in seguito a una «partizione», ossia un
gesto divisorio. L’«Altro» sorge insieme e in relazione a un «Medesimo»,
uno “stesso” che consiste in tutto ciò che viene percepito come lo stato
di “normalità” delle cose. È possibile, pertanto, affermare che senza una
Storia della follia non ci sarebbe stata neanche una «storia della somiglian-
za»: se Foucault non avesse lavorato durante gli anni del dottorato a quella
ambiziosa e monumentale ricerca, con buona probabilità i suoi studi non
avrebbero preso la direzione che conosciamo. L’idea di follia come «Al-
tro» della ragione costituirebbe, dunque, a pieno titolo una condizione di
possibilità per la nascita de Le parole e le cose.
Cosa può aver condotto Foucault a pensare alla follia nei termini di una
radicale differenza? Può essere utile considerare alcuni dati biografici ca-
paci di gettare una qualche luce sui possibili motivi dell’interesse foucaul-
tiano verso la malattia mentale e sul problema della diversità.
Il giovane Foucault viene affascinato dalla psicologia nel 1947, quando
era studente dell’École Normale Supérieure: le lezioni tenute da Maurice
Merleau-Ponty lo ispirano a progettare una tesi «sulla nascita della psico-
logia nei postcartesiani»; nella stessa scuola, nel 1951, avrebbe tenuto a sua
volta un corso sulla stessa materia, nel ruolo di assistente.76 Il 1947 è anche
l’anno dell’istituzione, in Francia, della licence di psicologia, che Foucault
deciderà di conseguire nel 1949, aggiungendola a quella di filosofia; ai suoi
titoli si sommerà nel 1952 anche un diploma in psicopatologia.
75 Ibidem.
76 Foucault (1996a), p. 27.
Provenienze 87
77 Ivi, p. 28.
78 Ivi, pp- 27-29.
79 Ivi, p. 29.
80 Trombadori (2005), p. 54.
81 Eribon (1989), p. 104
88 L’ordine discontinuo
abbozzo sembra avvicinarsi alla risposta che, a questa seconda parte del
problema, dà Jacques Derrida (1930-2004) nel far presente la necessità,
posta dallo stesso Foucault, di essere giusti con Freud.82 Il filosofo franco-
algerino sostiene che l’«età della psicoanalisi» non costituirebbe soltanto
uno degli oggetti di cui Foucault si occupa, ma, molto più in profondità, il
suo stesso punto di partenza, come condizione sicuramente non sufficiente,
eppure imprescindibile. Per Derrida, il discorso foucaultiano intorno alla
follia non avrebbe potuto prendere forma se non dall’interno di uno spazio
culturale e scientifico che iniziava a guardare alla psiche in maniera inedi-
ta, instaurando un «regime di visibilità che permette a Foucault di vedere
quello che vede».83
In ogni caso, l’aspetto che ci interessa in questa sede non è tanto quel-
lo di una presunta giustizia dovuta a Freud e non resa, per cui Foucault
avrebbe sottostimato il debito nei confronti del padre della psicoanalisi.
Oltretutto, in un’ottica foucaultiana, ci sembra un fenomeno eventual-
mente anche comprensibile, dal momento che non è scontato che gli at-
tori appartenenti a un’epoca possano individuare i codici culturali da cui
dipendono, o l’influenza subita da quest’opera o da quell’idea. Non ci
sono motivi per cui Foucault dovrebbe poter essere immune da questa
condizione, che egli stesso definisce nei termini di una «duplice articola-
zione della storia degli individui sull’inconscio delle culture, e della sto-
ria di queste sull’inconscio degli individui»84. D’altra parte, il filosofo di
Poitiers non ignorava che, «nel pensare il sistema», egli era «già costretto
da un sistema dietro il sistema», i cui caratteri fondamentali non gli si
sarebbero rivelati prima di un certo tempo e di una certa distanza.85 L’a-
spetto della questione che maggiormente ci preme evidenziare è di carat-
tere epistemico, poiché «“l’età della psicoanalisi” è anche quella stessa
che ci permette di porgere l’orecchio per ascoltare le voci della follia».86
Intendiamo sottolineare il nodo teorico portato alla luce da Derrida non
per riscontrare, come il filosofo franco-algerino, un limite d’autoanalisi
in Foucault, ma per poter raccogliere un importante elemento in più nella
nostra ricostruzione genealogica.
Sin qui, abbiamo provato a definire quale possa essere stato il ruolo della
Ragione e del suo «Altro» nell’economia generale della ricerca presentata
ne Le parole e le cose. I due concetti possono essere visti come vertici di
82 Derrida (1994).
83 Rovatti (1994).
84 Foucault (2010a), p. 406.
85 Foucault, Chapsal (1996c), p. 119.
86 Rovatti (1994), p. 12.
Provenienze 89
una triangolazione, che trova nella questione del “soggetto” il suo terzo
elemento, il quale emerge in seguito a una complessa dinamica che vede
protagonisti il Medesimo e la sua relativa Alterità.
La questione è senz’altro annosa e delicata; come ricorda Pio Colon-
nello (1951) «vale la pena ricordare che la ricerca filosofica si è sempre
misurata, con diversi esiti, dalla fenomenologia all’ermeneutica, alla filo-
sofia dell’esistenza – con aperture sulle psicologie del profondo in dialogo
con la filosofia – nel tentativo di pensare la soggettività con particolare
attenzione alla prospettiva critico-genealogica».87 Foucault si accostava a
questo problema filosofico parallelamente alla Storia della follia, duran-
te la stesura della sua tesi complementare come previsto dal modello di
dottorato francese. Questo lavoro era costituito dalla traduzione in lingua
francese dell’Antropologia dal punto di vista pragmatico di Kant, corre-
data da un corposo apparato di note e da un saggio introduttivo. Come
riportato nella Presentazione alla pubblicazione dell’opera, curata dopo di-
versi anni da Daniel Defert (1937), François Ewald (1946) e Frédéric Gros
(1965), sembra che Jean Hyppolite e Maurice de Gandillac (1906-2006),
nella veste di commissari per la tesi complementare durante la seduta di
dottorato di Foucault, abbiano visto nel lavoro del giovane «l’abbozzo di
un saggio autonomo da sviluppare».88 I tre curatori dell’edizione di questo
lavoro foucaultiano, che fino a non molti anni era fa poco conosciuto poi-
ché ancora inedito, ritengono che il saggio in questione sarebbe poi stato
proprio Le parole e le cose: quei primi passi contenevano già in nuce una
precisa fotografia del pensiero a lui contemporaneo, che egli già vedeva
contrassegnato da un processo di «crescente antropologizzazione».89 Il pri-
mato dell’uomo, inteso nei termini kantiani, diventerà il nome più adatto
a indicare un’età del pensiero scambiata per eterna, ma condannata, come
tutte le altre, a lasciare il proprio posto ad altri sistemi di pensiero. Nella
sua tesi dottorale secondaria, Foucault scorgeva già la possibilità, se non
la necessità, di sancire la fine dell’uomo come centro del sapere ed esclu-
siva «anima della verità».90 Non si tratta ancora del proclama della «morte
dell’uomo», che verrà lanciato nel 1966 con ben altra certezza: in questa
fase Foucault non tenta predizioni sul futuro della conoscenza, ma si limita
a notare come già Nietzsche abbia prospettato una via per fuggire all’«illu-
sione antropologica».91
98 Foucault (1977c), p. 8.
99 Foucault (1994b), p. 603, traduzione nostra.
100 Ibidem, traduzione nostra.
101 Foucault (1996h), p. 194.
Provenienze 93
Eco, sembra che l’autodifesa di Foucault non fosse così efficace; inoltre,
bisogna notare che il problema non veniva sollevato solo da eventuali de-
trattori. Si pensi, per esempio, a Deleuze, suo grande amico e anche soste-
nitore delle sue idee filosofiche: nel suo saggio intitolato Da che cosa si
riconosce lo strutturalismo? scritto per la Storia della filosofia a cura di
Châtelet, non esita a collocare Foucault tra i casi esemplari del variegato
movimento culturale.114
Bisogna riconoscere, in ogni caso, che se il pubblico francese avvertiva
una spiacevole sensazione di beffa, forse poteva non essere considerato to-
talmente in torto. Sarebbe sufficiente andare a ripescare un’intervista pub-
blicata nel 1961 su Le Monde,115 all’indomani della pubblicazione di Storia
della follia, per leggere un’interessante dichiarazione di Foucault in merito
alle “strutture”. In merito a una domanda circa gli aspetti teorici da cui si ri-
tenesse principalmente influenzato, il filosofo cita la letteratura di Blanchot
e Raymond Roussel (1877-1933), la psicoanalisi di Lacan come autore di
«un’esistenza seconda e prestigiosa» 116per la teoria freudiana, e l’opera
di Dumézil «per la sua idea di struttura».117 All’epoca, Foucault ammet-
teva, senza porsi problemi, di aver escogitato un’applicazione del metodo
proprio dello storico delle religioni al fine di rintracciare uno «schema»
funzionante su più livelli, capace di rendere conto del funzionamento della
struttura «della segregazione sociale» o «dell’esclusione».118
Un ulteriore documento problematico è costituito dalla conferenza
Tornare alla storia, pronunciata il 9 ottobre 1970 all’Università Keio, a
Tokyo.119 In questa occasione il pubblico giapponese assiste a una dife-
sa dello strutturalismo dalle accuse avanzate da marxisti e fenomenologi,
accompagnata dalla precisazione volta a far presente che esso, «almeno
nella sua forma iniziale, è stato un’impresa il cui proposito era di conferire
un metodo più preciso e più rigoroso alle ricerche storiche».120 Il filosofo
propone l’accostamento tra lo strutturalismo e un «nuovo» modo di fare
storia, che definisce «seriale»121 e nel quale risulta riconoscibile il suo me-
todo di ricerca: esso funzionerebbe attraverso l’utilizzo di documenti al
114 Deleuze (2011), solo per citare alcune occorrenze: pp. 11, 57, 61.
115 Foucault (1961).
116 Ivi, p. 168.
117 Ibidem.
118 Ibidem.
119 Foucault (1994e).
120 Ivi, p. 268.
121 Ivi, p. 276.
96 L’ordine discontinuo
Forse il concetto di episteme, così come presentato nel libro del 1966, e
ribadito più o meno direttamente nell’analisi dei discorsi proposta nel suc-
cessivo saggio metodologico del 1969 L’archeologia del sapere, non era
così peregrino rispetto all’orizzonte strutturalista tanto in voga. Per parte
nostra, ci limitiamo a prendere atto delle dichiarazioni di Foucault in me-
rito alla questione, ritenendo comunque significativo il fatto che egli non
desiderasse essere chiamato strutturalista.
Proseguendo nella nostra raccolta delle occasioni in cui il pensatore ri-
flette sul proprio lavoro, ci soffermiamo su di un’altra intervista, di poco
successiva all’uscita de Le parole e le cose, la quale rivela una prospettiva
teorica alternativa: quella della «ragione analitica contemporanea».126 Con
122 Ibidem.
123 Ivi, p. 277.
124 Ivi, p. 281.
125 Revel (1996), p. 15.
126 Foucault (1996b), p. 124.
Provenienze 97
mi sembra che il pensiero non dialettico che si costituisce adesso non metta
in gioco la natura o l’esistenza, ma ciò che vuol dire sapere. Il suo oggetto
specifico sarà il sapere […] Dovrà interrogarsi, da una parte sui rapporti che
possono esistere fra i differenti campi del sapere e, dall’altra, fra sapere e non-
sapere. 136
Col cambiare delle epoche muta la posta in gioco della conoscenza: non
più una «consolante […] riconciliazione dell’uomo con se stesso in una to-
tale illuminazione», ma l’obiettivo, forse «meno accattivante», di chiarire
la natura «del sapere e dei suoi isomorfismi», perché «dopotutto, il ruolo
della filosofia non è necessariamente quello di addolcire l’esistenza degli
uomini e di promettere loro qualche cosa come la felicità».137
È una bella sfida quella che ci consegna Foucault, proponendoci un
elenco di nomi tanto eterogeneo e lontano dalle classificazioni a cui siamo
di causalità»:153 non più solo una catena di cause ed effetti, ma una confi-
gurazione frastagliata e discontinua che emergerebbe in tutta la sua com-
plessità.
Come nel caso della «ragione analitica», il pensatore suffraga la propria
tesi fornendo alcuni nomi, tra cui compare anche quello di Louis Althusser.
La prima parte di Leggere il Capitale154 contiene infatti alcune riflessioni
sulla nuova direzione anti-continuista imboccata dalla storia della scienza,
che l’autore definisce «ancor oggi profondamente compenetrata dell’ideo-
logia della filosofia dei Lumi, cioè di un razionalismo teleologico e dunque
idealista».155 In effetti, tra i due filosofi si instaura un particolare rimando di
citazioni: i passaggi di Leggere il Capitale in cui si discute questo aspetto
sono dichiaratamente ispirati allo stesso Foucault e alla sua Storia della
follia. Althusser descrive lo scarto tra Adam Smith (1723-1790) e Marx
avvalendosi della dinamica tra visibile e invisibile «in termini che ripren-
dono fondamentali passaggi della prefazione di Michel Foucault alla sua
Histoire de la folie».156 L’economia politica non è soggetta a uno sviluppo
lineare e continuo; se lo fosse, non riusciremmo a spiegarci quali cause
impedissero a Smith di vedere determinati problemi che invece Marx riu-
scì a individuare. Ogni «campo visibile» possiede un suo «invisibile», uno
spazio logico in cui risiede la «proibizione di vedere» dettata dal visibile
stesso; secondo questa dinamica, a un certo punto l’economia politica ha
prodotto «una nuova risposta priva di domanda e, al tempo stesso, […] una
nuova domanda allo stato latente portata in seno dalla nuova risposta».157
Finché essa cercava di abbinare «la nuova risposta alla vecchia domanda»,
non poteva fare altro che rimanere «cieca».158 Althusser cita Foucault, ma
anche Canguilhem, tra i pensatori meritevoli di aver gettato luce su questi
meccanismi e aver reso esplicito ciò che era implicito.
Altri studiosi evocati spesso da Foucault, in merito alla questione del-
la storia, sono Fernand Braudel (1902-1985), François Furet (1927-1997),
Denis Richet (1928-1989), Emmanuel Le Roy Ladurie (1929), quelli ap-
partenenti alla «scuola sovietica e di Cambridge»,159 Marc Bloch (1886-
1944) e Lucien Febvre (1878-1956). Si tratta della scuola storiografica
conosciuta come École des Annales, affermatasi in Francia dagli anni
153 Ibidem.
154 Althusser, Balibar (1971).
155 Ivi, p. 45.
156 Ivi, p. 27.
157 Ivi, p. 25.
158 Ibidem.
159 Foucault (1996e), p. 153.
Provenienze 103
Venti del Novecento e giunta, negli anni Sessanta, alla terza generazione
di studiosi.160 Le caratteristiche metodologiche introdotte dal movimento
delle Annales miravano a offrire una concezione della ricerca storica non
più basata sulla mera successione cronologica degli eventi e sull’attenzio-
ne, quasi esclusiva, verso il racconto di accadimenti di natura politica. Gli
annalistes lavorano in direzione di una storia impostata come una rete di
questioni e grandi problemi, come importanti nodi da sciogliere utilizzan-
do dati provenienti dai più diversi campi d’attività umani.161
Quella di abbattere i confini tra discipline è di certo una lezione che Fou-
cault apprese, oltre che dall’influenza dei maestri Canguilhem e Bachelard,
anche dall’École des Annales; in particolare, sembra degno d’interesse un
filone di ricerca dovuto a Febvre e conosciuto come «storia delle mentali-
tà». Questa impostazione metodologica gode di una parentela importante
con l’antropologia di Lucien Lévy-Bruhl (1857-1939) e viene definita at-
traverso il concetto di «“attrezzatura mentale” (outillage mental), cioè di
bagaglio concettuale proprio di un’epoca».162 La «storia delle mentalità»
continuò a essere indagata, dopo Febvre, dai più giovani allievi come Jac-
ques Le Goff (1924-2014), il quale era coevo e quasi coetaneo di Foucault;
questo orientamento di ricerca sembra basarsi su un postulato molto vicino
al sostrato teorico che permise la formulazione della teoria delle epistemi.
Si tratta, infatti, di distanziarsi da una concezione che guarda a personaggi,
eventi e opere solo in quanto individui o singolarità semplicemente sta-
gliati su un «contesto micro e macrostorico». Le «mentalità» riguardano
«il sostrato comune, automatico e inconsapevole da cui è animato» il pen-
siero; in altre parole «ciò che quel pensiero e le abitudini di vita che sono
alle sue spalle […] hanno in comune con modi e abitudini di più ampio
raggio, ossia di cospicue fette di popolazione di un dato periodo e di una
data epoca».163
4.1 Altrove
“fuori” ma non è uno spazio che l’uomo può abitare; non si tratta di una
via di fuga dall’ordine ma di un limite esterno del pensiero che ancora gli
appartiene, l’habitat della legge in sé, mutevole anch’essa, che dall’esterno
permea e modella di volta in volta i confini della nostra episteme.
di tracce lasciate da una persona dopo la sua morte»,37 cosa poter definire
«opera» e cosa, invece, poter trascurare. La proposta foucaultiana consiste
nell’abbandonare l’idea di un’ermeneutica fondata sul nome proprio, e nel
pensare, invece, a colui che dà vita all’opera attraverso il concetto di «fun-
zione-autore».38 Considerato non più come soggetto ma in quanto «funzio-
ne», l’autore perderebbe il ruolo di focus principale della critica e con esso
il carattere di necessità che gli è solitamente attribuito, rivelandosi in quan-
to formazione emergente da un determinato assetto discorsivo. «Si può
immaginare una cultura dove i discorsi circolerebbero e sarebbero ricevuti
senza che la funzione-autore apparisse mai»,39 osserva il filosofo: allora
l’uso del nome «autore» non è necessario ma contingente, «probabilmente
soltanto una delle specificazioni possibili della funzione-soggetto».40
Tale prospettiva di analisi si colloca in continuità con il più ampio in-
quadramento teorico pensato da Foucault per indagare il funzionamento
e la circolazione di enunciati e discorsi, considerati nella loro «esistenza
materiale».41 L’autore, così come il soggetto parlante, non viene visto in
quanto entità che conferisce origine e senso al discorso, bensì come una
sorta di proprietà emergente da alcune configurazioni culturali, particola-
ri e transitorie. Il filosofo sintetizza la questione nei seguenti termini: «si
tratta di togliere al soggetto […] il suo ruolo di fondamento originario, e di
analizzarlo come una funzione variabile e complessa del discorso».42
Passiamo ora a un altro filone di ricerca che ci sembra strettamente con-
nesso all’ipotesi sulla morte dell’uomo, e dunque collocabile in un orizzon-
te aperto in seguito a Le parole e le cose, ovvero la riflessione etica sulla
«soggettivazione».43 In diverse occasioni44 Foucault ha affermato l’inten-
zione di conferire alla sua ricerca una sorta di partizione in tre momenti,
che definisce «assi»; questi sarebbero sintetizzabili attraverso i tre campi di
sapere, potere e soggetto. Queste fasi non devono essere considerate come
compartimenti stagni, privi di connessioni o legami; si tratta piuttosto di
una denominazione efficace a evidenziare quello che è stato, di volta in
37 Ivi, p. 65.
38 Ivi, p. 78.
39 Ibidem.
40 Ibidem.
41 Foucault (1999), p. 72.
42 Foucault (2008b), p. 78.
43 Il termine compare anche in altre occasioni, ma rimandiamo in particolare a
Foucault (1998e), p. 271.
44 Citiamo a esempio Foucault (1996i), p. 84-85, e (1998f), p. 250.
Alcuni effetti 113
60 Foucault (1975).
61 Foucault (1994g), p. 707, traduzione nostra.
62 Foucault (1975), p. 710, traduzione nostra.
Alcuni effetti 117
come Rue de la saison des pluies (1974) o Boulevard des Italiens (1971), in
cui i soggetti sono sostituiti dalle loro sagome colorate con una campitura
a tinte piatte: non è possibile attribuire a esse un nome o riconoscervi delle
persone, sono pure figure che sfuggono al meccanismo dell’identificazio-
ne. Anche Fromanger, come il regista tedesco, propone un’arte capace di
fare a meno di etichette stabili e di categorie, senza suggerire o pretendere
griglie interpretative; la «circolazione indefinita delle immagini», sogno e
gioco dei primi esperimenti fotografici della storia, torna a trovare una re-
alizzazione attraverso le sue opere. Foucault descrive questa pratica come
un «giocare», attribuendole un sentimento di gioia che risulta dalla poten-
zialità di reazione e risposta creativa alle spinte disciplinari e normative.
La questione possiede senz’altro una connotazione politica, correlabile alle
riflessioni foucaultiane sulle pratiche di libertà come esercizi di resistenza
al potere.63 Ci sembra possibile e utile applicare la considerazione pro-
posta da Roberto De Gaetano (1965) nel suo Politica delle immagini. Su
Jacques Rancière:64 «l’opera d’arte non comporta nessun processo sogget-
tivante, ma […] ne costituisce la precondizione, perché senza la possibilità
di immaginare altrimenti l’ordine sensibile, spazio-temporale, delle cose,
finanche la loro trama molecolare, non è possibile alcuna nuova soggetti-
vazione, nessun nuovo enunciato collettivo».65 La pura immagine evita che
si fossilizzi il significato, in un moto perpetuo che impedisce l’ermeneu-
tica ed è capace di rinnovare costantemente il rapporto con lo spettatore.
L’individuo acquisisce in tal modo una sorta d’indipendenza inventiva e
produttiva, che gli permette di allenarsi nelle «arti del sé».
4.3 Calligrammi
Nelle genealogie gli eventi si intrecciano, spesso, per puro caso: è così
che ha origine il rapporto tra Foucault e René Magritte; un incontro che
si sarebbe rivelato particolarmente fruttuoso ma che si svolse e proseguì
soltanto a distanza, poiché i due non ebbero mai modo di incontrarsi. Ab-
biamo già avuto modo di ricordare che tutto ebbe inizio quando il pittore,
colpito dalla lettura de Le parole e le cose, indirizzò al filosofo una lettera.
Ci addentriamo, ora, nella vicenda considerando le copie dei quadri che
Magritte accluse alla sua missiva: tra queste, vi era il celeberrimo Questa
non è una pipa, dipinto nel 1926. Riprendiamo, a questo punto, la discus-
sione su Magritte poiché il fortuito caso della missiva si deve a Le parole e
le cose e di conseguenza, in un’ottica genealogica, possiamo dire lo stesso
del successivo volume foucaultiano intitolato Questo non è una pipa.
Il filosofo francese utilizza lo straniante accostamento tra l’immagine
e la didascalia, entrambe raffigurate sulla tela, per proporre uno sguardo
a Magritte come pensatore dei linguaggi. Utilizziamo il termine al plurale
poiché è di due sistemi comunicativi che si parla: quello del «visibile»
e quello del «dicibile», cioè il segnico e il plastico, i quali di frequente
convivono nei quadri dell’artista secondo modalità che non esiteremmo a
definire contraddittorie. Si pensi, ad esempio, a La chiave dei sogni (1930),
in cui, come nota Foucault, «ciò che somiglia esattamente a un uovo si
chiama l’acacia, a una scarpa la luna, a una bombetta la neve, a una cande-
la il soffitto»;66 o alla discrepanza tra i disegni e i loro titoli, come nel caso
dei giganteschi blocchi di pietra del quadro che prende il nome de L’arte
della conversazione (1950).
Anche la discrepanza tra alcuni dipinti e i relativi titoli s’inscrive in
questa sorta di progetto di sovversione delle comuni regole che organiz-
zano la convivenza e la separazione tra parole e figure. Foucault raccoglie
in proposito una significativa affermazione dell’artista: «I titoli sono scelti
in modo da impedire che i miei quadri vengano situati in una regione fa-
miliare, che l’automatismo del pensiero non mancherebbe di evocare per
sottrarsi all’inquietudine».67
Foucault immagina che alla base della creazione dell’opera di Magritte
vi sarebbe un «calligramma» costruito e successivamente «disfatto».68 Il
calligramma è, per eccellenza, la figura della convivenza tra parole e im-
magini: si tratta di quel gioco raffigurativo nel quale un testo subisce una
disposizione spaziale diversa da quella lineare da sinistra a destra alla quale
siamo abituati in occidente, per essere riorganizzato di modo da formare
il disegno di una figura. La forma comunicativa verbale innesca una spe-
ciale sinergia con quella figurativa, dando vita a una potenzialità speciale,
mediante la quale il calligramma «scongiura l’invincibile assenza che le
parole non riescono a vincere imponendo loro […] la forma visibile del
loro referente».69 Il filosofo legge nei quadri del pittore belga un «passato
70 Ivi, p. 29.
71 Ivi, p. 30.
72 Ivi, pp. 90-91.
120 L’ordine discontinuo
modo diverso».73 È evidente che, per quanto simile a questo esso sia stato
tratteggiato, un disegno non può essere un oggetto; eppure, dice Foucault,
a renderci contraddetti e perplessi è quella «vecchia abitudine di linguag-
gio» che ci porta immediatamente a parlare del disegno, ad esempio, di un
albero come di un albero tout court e ad affermare, di fronte al disegno di
una pipa, che ciò abbiamo dinanzi “è” una pipa.
Foucault nota come quest’abitudine riposi sulla lunga tradizione della
pittura classica, il cui primo principio egli enuncia nei seguenti termini:
«equivalenza tra il fatto della somiglianza e l’affermazione di un legame
rappresentativo. Basta che una figura somigli a una cosa (o a qualche altra
figura) perché nel gioco della pittura si inserisca un enunciato evidente,
banale, ripetuto mille volte e tuttavia quasi sempre silenzioso […] :“Ciò
che vedete è questo”». Il secondo e ultimo principio a fondamento della
pittura classica consisterebbe, invece, nella «separazione tra segni lingui-
stici e elementi plastici», per il quale «si fa vedere mediante la somiglianza,
si parla attraverso la differenza. Così che i due sistemi non possono inter-
secarsi né fondersi». Opere come Questa non è una pipa sarebbero capaci
di smontare entrambi i principi enunciati, mettendo in crisi la deissi74 e
imponendo una surreale convivenza a linguaggi eterogenei, portatori di
significati contrastanti. L’ingegnosa, tanto semplice quanto rivoluzionaria,
trovata di disegnare le sue didascalie, colloca insieme con un colpo disin-
volto il verbo e la figura, segnando un momento a partire dal quale la sepa-
razione non sarà più l’unica possibilità per il visibile e il dicibile.
Per capire Magritte, Foucault si avvale degli studi sui rapporti tra se-
gno linguistico e raffigurazione plastica su cui il pittore aveva lavorato per
molti anni. Dall’articolo del 1929 Le parole e le immagini75 egli estrapola
due citazioni: la prima afferma che «in un quadro le parole sono della stes-
sa sostanza delle immagini», mentre la seconda recita: «in un quadro le
immagini e le parole si vedono diversamente». Questi due principi risulte-
rebbero capaci di gettare una luce esplicativa su diversi quadri di Magritte,
e costituirebbero il fondamento concettuale della sua pratica caratteristica
consistente nel presentare le parole sotto forma di disegno. In che senso è
possibile affermare che due elementi formati dalla stessa sostanza «si vedo-
no diversamente»? Ci sembra di poter sintetizzare la questione nei seguenti
termini: parole e immagini sono immancabilmente soggette a due diversi
regimi dello sguardo. Nonostante esse compaiano su una tela composte da
73 Ivi, p. 91, n. 1.
74 Cfr. Cometa (2007), pp. 51-53.
75 Magritte (1929).
Alcuni effetti 121
una stessa sostanza materiale, cioè il colore utilizzato per dipingere, e ven-
gano poste l’una in compagnia dell’altra nello stesso spazio raffigurativo,
esse avvieranno sempre due meccanismi di lettura separati e distinti. Come
nota Michele Cometa (1959) a proposito del quadro in quanto calligramma
disfatto, «se lo guardiamo esso è muto, se lo leggiamo esso scompare alla
vista»:76 non c’è contemporaneità possibile per questa lettura. Questo ac-
costamento “impossibile” non produce un fallimento comunicativo; anzi,
spezzando uno dei principi su cui si basava la pittura classica, esso inaugu-
ra una nuova possibilità espressiva. Prima di Magritte, «la pittura classica
parlava – e parlava molto – pur costituendosi fuori del linguaggio; da qui
il fatto che essa poggiava silenziosamente su uno spazio discorsivo; […]
si procurava, sotto di sé, una sorta di luogo comune dove poteva restaurare
i rapporti tra l’immagine e i segni».77 L’operazione magrittiana, ben più
di una cifra stilistica, apre a un regime in cui la «rete inestricabile delle
immagini e delle parole», che pure sussiste, si staglia su una condizione di
«assenza di un luogo comune che possa sostenerle».78
Fig. 5
81 Ibidem.
82 Ivi, p. 40.
83 Ibidem.
84 Ivi, p. 41.
85 Ivi, p. 37.
86 Ivi, p. 38 e cfr. l’intero Cometa, Vaccaro (2007).
87 Foucault (1998i).
88 Kant (2013).
89 Foucault (1998i), p. 255.
Alcuni effetti 123
«Pare che Michel Foucault non sia stato una persona – piuttosto un
campo di forze in contrasto, un commutatore di eventi senza nome, un
movimento di estroflessione dolce e violento»;93 così Roberto Esposito
(1950) descrive la definizione del filosofo francese che emerge dagli scritti
di Blanchot e Deleuze. Il volume Terza persona è dedicato all’«imperso-
nale», statuto che distingue la terza dalla prima e dalla seconda persona,
collocandola in una dimensione radicalmente estranea alla dialettica io-tu.
90 Ibidem.
91 Iacomini (2008), p. 55.
92 Cometa (2007).
93 Esposito (2007), p. 163.
124 L’ordine discontinuo
94 Ivi, p. 21.
95 Ivi, p. 22.
96 Ivi, p. 164.
97 Ivi, p. 130.
98 Foucault (2010a), p. 347.
99 Esposito (2007), p. 164.
100 Ibidem.
Alcuni effetti 125
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341-376.
Trombadori, D. (2005), Colloqui con Foucault. Pensieri, opere, omissioni dell’ul-
timo maître-à-penser, Castelvecchi, Roma.
Veyne P. (1970), Comment on écrit l’histoire: essai d’epistémologie, Seuil, Paris;
seconda edizione 1978.
Veyne, P. (2010), Foucault. Il pensiero e l’uomo, trad. it. a cura di L. Xella, Gar-
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Wilkins, J. (2011), An essay towards a real character, and a philosophical lan-
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Wittgenstein, L. (2009), Ricerche filosofiche, trad. it. a cura di R. Piovesan, M.
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Zarader, M. (1997), Heidegger e le parole dell’origine, trad. it. a cura di S. Delfino,
Vita e Pensiero, Milano.
INDICE DEI NOMI
Lacan J., 13, 26, 34, 46-47, 50-53, 55- Rabinow P., 33, 93
59, 91, 95, 111, 114 Rancière J., 64n, 117
Lagache D., 57 Revault d’Allonnes O., 27-28
Lautréamont, 85 Revel J., 96, 25n, 61n
Le Goff J., 103 Ricardo D., 44, 77
Le Roy Ladurie E., 102 Richet D., 102
Lévy-Bruhl L., 103 Roussel R., 95
Lévi-Strauss C., 10, 26, 91, 93, 98-99 Russell B., 9-10, 35, 97-99, 125
Linneo, 70, 77 Sartre J.-P., 25-26, 28, 34, 38-45, 63,
83
Magritte R., 13, 27, 34, 36, 65-68, 105, Saussure F. de, 76
117-123 Schroeter W., 13, 36, 115-116
Mallarmé S., 108
Manet È., 11, 122 Tarski A., 125n
Mao Tse-tung, 59-60, 64 Trombadori D., 29n, 69, 77-78, 82n,
Margolin J.-C., 27 87n, 91
Marx K., 44, 98, 102
Merleau-Ponty M., 25-26, 83, 86 Velázquez D., 7, 11-13, 46, 48, 50-51,
55, 58-59, 64, 67, 70, 111
Nadeau M., 24 Veyne P., 41, 90-91
Nietzsche F., 8-10, 12n, 17, 20, 26, 29-
30, 32-33, 73, 81, 89, 98-99, 109 Wahl J., 111
Nizan P., 60 Whitehead A.N., 125
Wiazemsky A., 62
Odifreddi P., 125n, 126 Wilkins J., 83-84
Ormesson J. d., 111 Wittgenstein L., 9-10, 35, 97-99
PERCORSI DI CONFINE
Collana diretta da Pio Colonnello