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Lezione n° 7 del 21/03/2017

Materia: Immunologia
Revisore: Ditto no pago afitto
Argomenti: Interazione linfociti T-cellule che presentano l’antigene, cellule dendritiche, MHC di classe I e II

Nella scorsa lezione sono state analizzate la struttura delle MHC di classe I e II e la struttura dei T-cell receptors
(TCR). È stato definito il processo di differenziamento della linea linfoide del timo, con analisi dei processi di
selezione positiva e negativa. Infine è stato effettuato un ripasso sulle vie di trasduzione del segnale.

ORGANI LINFOIDI SECONDARI


Le superfici epiteliali rivestono tutto il nostro corpo e
costituiscono l’interfaccia con il mondo esterno: pelle, mucose
respiratorie e mucose gastrointestinali. Ciò implica che tutte le
pareti del nostro corpo sono a contatto con i microbi presenti
nell’ambiente esterno. Queste, di conseguenza, saranno le
superfici che entreranno in massima parte a contatto con gli
antigeni.
I linfociti T, invece, sono presenti in circolo e nel timo, nel quale
maturano.

Se i microbi entrano attraverso gli epiteli e le cellule che devono


riconoscerli si trovano nel circolo ematico, i due non avranno
modo di incontrarsi. Inoltre, le probabilità che avvenga un
incontro casuale tra antigene e il TCR in grado di riconoscerlo
sono estremamente basse. Man mano che è subentrata la
capacità, evolutivamente parlando, di generare TCR (cioè recettori altamente specifici), sono anche comparsi
alcuni organi, definiti linfoidi secondari.
Il funzionamento dei linfociti T richiede, infatti, la presenza di questi organi, la cui funzione è creare un punto
di incontro tra i linfociti T naïve (quelli che non hanno ancora incontrato l'antigene) e gli antigeni.

L’incontro avviene in questo modo: gli antigeni sono portati all’ingresso di tali organi, che sono un luogo di
passaggio dei linfociti T, qui sia l'antigene che le cellule che devono riconoscere tale antigene si concentrano
nello stesso posto e questo aumenterà notevolmente le probabilità dell'incontro.

Gli organi linfoidi secondari sono i linfonodi e la milza. I primi concentrano gli antigeni che penetrano le
barriere epiteliali, a qualsiasi livello, mentre la seconda concentra quelli presenti a livello sistemico (nel
sangue). I linfonodi non sono dispersi in modo casuale, ma sono stazioni intermedie del circolo linfatico. Esso
è un sistema molto differente dal circolo ematico, non solo per il contenuto, ma anche per l’organizzazione
dei vasi. I vasi linfatici infatti, scoperti successivamente a quelli ematici, non sono dotati di muscolatura
(appaiono come tubicini schiacciati difficili a vedersi, che si ingrossano solo quando drenano il liquido
linfatico).

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Gli antigeni penetrano dalla pelle al circolo linfatico, vengono drenati ai linfonodi regionali, si distribuiscono
nella zona sub-capsulare e penetrano nella zona corticale. Nella zona midollare troviamo, oltre che gli
antigeni, le cellule specializzate a presentare gli antigeni, ovvero le cellule dendritiche. Queste presenteranno
l’antigene ai linfociti T naïve, che entreranno selettivamente nel linfonodo (questo argomento verrà trattato
più avanti).

A lato possiamo notare delle immagini ottenute grazie ad un microscopio


confocale (strumento che permette di analizzare differenti sezioni parallele di
tessuto, mettendo a fuoco singoli piani). Esse evidenziano che la presenza di
antigeni, marcati in verde con immunofluorescenza, è unicamente distribuita a
livello sub-capsulare, senza penetrare nella corticale e senza quindi raggiungere
la midollare; di conseguenza non possono venire a contatto con le cellule
dendritiche e non possono essere presentati al linfocita. Alcuni di essi, quindi,
non riescono ad incontrare i linfociti T e fuoriescono mediante il dotto efferente.
Questo avviene se gli antigeni interessati hanno un peso molecolare elevato
(sopra i 70-80 kDA) e risultano quindi di grandi dimensioni. Le trabecole
attraverso cui migrano gli antigeni a livello della corticale del linfonodo, infatti, funzionano come un filtro
dimensionale.
Per permettere agli antigeni di dimensioni maggiori di incontrare i linfociti T, si utilizza un sistema diverso: le
cellule dendritiche, infatti, hanno la caratteristica di essere ubiquitarie (presenti in qualsiasi tessuto,
superficiale o profondo), e se un antigene è troppo grande per essere riconosciuto dalle cellule dendritiche
di un linfonodo, potrà essere riconosciuto ad esempio dalle cellule di Langerhans che non sono altro che
cellule dendritiche presenti a livello della cute.

Quando queste cellule riconoscono elementi estranei (ad esempio se esprimono PAMP o DAMP), li catturano,
lasciano l’epidermide, penetrano nel derma e cercano l’ingresso del primo vaso linfatico disponibile (questi
vasi sono chiusi da un sistema recentemente definito “a foglia d’acero” che, grazie a due lembi, evita la
fuoriuscita di liquido). Il vaso, dunque, drena il fluido e porta ciò che è presente nella linfa fino al linfonodo.
In condizioni infiammatorie si ha la formazione di essudato, che viene drenato tramite la linfa negli organi
periferici. Il ruolo di quest’organo è cruciale: in soggetti in cui è asportato un linfonodo ascellare, una delle
complicazioni è il rigonfiamento delle braccia, che devono essere tenute sotto allenamento muscolare.
Le cellule dendritiche epiteliali quindi formano una sorta di “setaccio” con i propri dendriti, che permette di
controllare se qualcosa di non-self penetra all’interno dell’organismo.

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CELLULE DENDRITICHE
Le cellule dendritiche sono cellule professioniste a presentare l’antigene. Compongono circa il 3% del tessuto
epiteliale e formano una fitta rete di controllo. Risiedono in tutti i tessuti periferici, originano da precursori
mieloidi che cominciano a differenziare verso un precursore comune a tutte le cellule dendritiche, per poi
specializzarsi.

CELLULE DI LANGERHANS
Le cellule di Langerhans migrano verso i tessuti della cute durante il periodo fetale e, per tutto il resto della
vita dopo la nascita, continuano a essere presenti proliferando a livello periferico (grazie alla presenza in loco
del precursore mieloide che si moltiplica e si differenzia in continuazione). In condizioni infiammatorie altri
precursori giungono dal circolo ematico per aumentarne ulteriormente la proliferazione. Si tratta di un
sistema comune anche ai macrofagi tissutali, ad esempio a livello epatico e polmonare.

Quando queste cellule vengono attivate catturano l’elemento estraneo, entrano nel circolo
linfatico, arrivano al linfonodo attraverso il dotto afferente, attraversano la zona corticale e
giungono fino alla midollare. Esistono vari segnali che mediano questa attivazione: il
riconoscimento di un PRR, la stimolazione tramite sostanze come IL-1 e TNF, caratteristiche
della risposta infiammatoria, e il riconoscimento di segnali che derivano da linfociti T, attivi
e in circolo.

Si tratta di una via complessa. Grazie a dei veri e propri veli che fanno un “sampling”, le cellule dendritiche
riconoscono e catturano antigeni, portandoli al loro interno. Quando una cellula di Langerhans riconosce
qualcosa, si attiva e deve muoversi per trovare l’ingresso di un dotto linfatico. Essa emette degli pseudopodi
che aderiscono con molecole di adesione a fibre della matrice extracellulare e producono grandi quantità di
proteasi, che permettono loro di farsi strada fino al vaso linfatico.

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Il viaggio fino al linfonodo non è semplicemente un trasporto, ma è un momento cruciale della vita delle
cellule dendritiche. In questa fase, infatti, si ha la sua maturazione: la cellula dendritica a livello tissutale è
immatura, mentre a livello linfonodale è matura. Il trasporto varia in base alla lunghezza del tragitto periferia-
linfonodo: dopo 4-6 ore di tragitto arrivano le prime cellule dendritiche, mentre il picco massimo si ha dopo
12 ore.
Ciò permette alla cellula di cambiare il suo stato di attivazione. Essa per prima cosa varia l’esposizione dei
recettori chemiotattici: la cellula dendritica periferica esprime recettori chemiotattici sia per elementi
presenti in fase omeostatica che per elementi presenti in fase infiammatoria; troviamo quindi tutte le famiglie
di recettori per chemochine (recettori CC, CXC, CX3C e C). Abbiamo poi CCR1, CCR4, CCR5, CCR6 e CXCR4 (uno
dei due recettori coinvolti nell’infezione da HIV) fedele per SDF1, una chemochina espressa in tutti i tessuti
(costitutiva).
La variazione del corredo recettoriale consiste nella scomparsa di tutti questi elementi per permettere la
migrazione dal tessuto (altrimenti la cellula resterebbe ancorata ad esso, reagendo con le chemochine
presenti). Comincia invece ad esprimere CCR7, cruciale per giungere fino ai linfonodi: esso, infatti, riconosce
le chemochine prodotte nel linfonodo, causando un’attrazione verso tale organo.

La cellula dendritica immatura è una macchina fatta per trovare antigeni, estremamente specializzata nel
filtrare i liquidi extracellulare: ogni ora raccoglie liquido pari al proprio volume, alla ricerca di antigeni, per poi
espellerlo. Maturando perde anche la capacità di filtrare in questo modo, acquisendo invece una serie di
proteine di membrana utili per dialogare con i linfociti T.

D.D.S.: se il filtro della zona corticale va a grandezza, come può la cellula dendritica attivata passare? C’è una
differenza: il passaggio di corpuscoli antigenici è passivo, quello delle dendritiche è attivo, sfrutta pseudopodi
e proteasi che le permettono di farsi spazio.

La cellula dendritica immatura è specializzata nel catturare antigeni e riconoscere segnali di attivazione che
inducono il processo di maturazione. Queste cellule esprimono un ampio repertorio di PRR e TLR (la varietà
più elevata), recettori per citochine come IL-1, TNF e per segnali dei linfociti T.

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ESPOSIZIONE DEL PEPTIDE SU MHC-I E MHC-II
Su MHC-II la cattura di un antigene può essere basata su un processo di fagocitosi recettore-dipendente (o,
meglio, endocitosi, poiché il processo non è fine all’eliminazione dell’agente estraneo), mediante
invaginazione membranaria e internalizzazione, con formazione di un endosoma; può altrimenti penetrare
tramite una serie di strategie non mediate da recettori (pinocitosi, macropinocitosi, micropinocitosi).

La missione di queste cellule non è quella di uccidere il microbo, come avviene per i fagociti classici, ma di
presentare l’antigene ai linfociti T. In parte questo processo è simile a quello attuato dai fagociti: l’endosoma
si fonde con il lisosoma, ricco di enzimi che digeriscono ciò che è stato internalizzato, formando quindi dei
frammenti. Allo stesso tempo, la cellula dendritica che si sta attivando mette in atto la sintesi di MHC-II,
formato da una catena α e una β. Le due catene, non stabili in membrana essendo prive di segmento
peptidico, sono provviste di una catena, detta catena invariante, fornita a livello del reticolo endoplasmatico,
con il compito di sostituire il peptide, stabilizzando la molecola di MHC. Si formano quindi delle vescicole
contenenti MHC che dal Golgi, per gemmazione, raggiungono e si fondono alle vescicole endolisosomiali. Si
forma quindi un ampio compartimento (vescicola specializzata multi-lamellare) contenente sia MHC sia
antigeni. Gli enzimi proteasi rompono il legame tra MHC e catena invariante, lasciando unicamente un peptide
detto peptide CLIP, montato nella tasca. Una proteina HLA-DM (invariante) rimuove questo peptide CLIP
grazie alla sua affinità per esso, lasciando lo spazio al frammento antigenico. Si forma quindi il complesso
MHC-peptide antigenico, che migra da una micro-vescicola derivata dal maxi-compartimento fino alla
membrana. Questo meccanismo viene utilizzato per fissare i peptidi su MHC-II, stimolando una risposta di
linfociti T-CD4+.

Su MHC-I, invece, finiscono i peptidi che derivano da proteine intracellulari. Tutte le proteine hanno
un’emivita relativamente breve (da qualche ora a qualche giorno). I sistemi di degradazione, attivati
riconoscendo la deformazione di proteine “vecchie” (marcate mediante ubiquitinazione), consistono di
complessi enzimatici (proteasomi) che digeriscono le proteine ubiquitinate, rilasciando peptidi. Le proteine
TAP1 e TAP2 (proteine chaperon) legano tali peptidi digeriti e li portano a livello del reticolo endoplasmatico,

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dove sta avvenendo la sintesi di MHC-I. A questo punto avviene il riconoscimento e il legame tra peptidi e
MHC-I, che vengono poi portati alla membrana, sempre per gemmazione. Questo processo avviene solo per
MHC-I; le MHC-II non sono caricate di questi peptidi. Ciò avviene sì per ragioni fisiche (il proteasoma,
specializzato a fare peptidi particolarmente piccoli, forma frammenti più adatti alle tasche piccole di MHC-I
che alle tasche grandi di MHC-II), ma soprattutto per la presenza della catena invariante, che si lega a MHC-
II, impedendo quindi a questi frammenti di legarsi alla loro tasca.

La conseguenza logica dei procedimenti sopra descritti consiste nel fatto che il montaggio di peptidi su un
MHC-I o su un MHC-II non è casuale: se il frammento ha origine intracellulare viene esposto su MHC-I
(antigeni virali, antigeni tumorali), se ha origine extracellulare viene esposto su MHC-II (antigeni
microbatterici e simili). Il T-CD8, riconoscendo MHC-I, elimina una cellula infetta (CD8 è citotossico), mentre
il T-CD4 attiva una risposta (ad esempio anticorpale) per eliminare un agente esterno alla cellula (CD4 è
helper).

D.D.S.: essendo il proteasoma presente su tutte le cellule come sistema di degradazione, non stimola una
risposta autoimmune? MHC non discrimina tra self e non-self; tale responsabilità è affidata esclusivamente
al linfocita T. Questo processo di degradazione avviene normalmente, ma i linfociti T sono istruiti (tra le altre
cose anche mediante la selezione positiva e negativa) per evitare di scatenare una risposta autoimmune. La
situazione in realtà è più complessa, ma sarà affrontata in maniera più chiara in seguito.

Per questo la risposta immunitaria è definita non solo specifica, ma anche adattativa: in base alla natura
dell’infezione (e quindi del tipo di antigene) viene prodotta una risposta adatta.

Una caratteristica delle cellule che presentano l’antigene è quella di avere sia MHC-I che MHC-II. Il fatto che
tutte le cellule abbiano MHC-I assume il significato di identità dell’individuo (concetto legato al rigetto
d’organo nei trapianti), mentre le MHC-II è presente nei sistemi importanti nella difesa immunitaria. Le cellule
di Langerhans presentano quindi MHC-I e MHC-II, mentre i cheratinociti con cui convivono presentano solo
MHC-I.

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Quando una cellula dendritica comincia il processo di maturazione, in un tempo estremamente breve
comincia a esprimere MHC-II in maniera più massiccia. Una cellula matura che arriva al linfonodo ha MHC-II
con emivita più lunga del normale. Queste molecole di MHC portate sulla membrana, infatti, ci restano a
lungo (100 ore circa). Ciò da un punto di vista biologico è molto importante: su MHC-II troviamo antigeni di
microbi presenti su un tessuto periferico, catturati da cellule che poi migrano. Se il tempo di degradazione
fosse regolare (10-12 ore), gli antigeni verrebbero degradati prima di giungere ai linfonodi. Stabilizzare il
complesso sulla membrana dà alla cellula il tempo necessario per migrare nel linfonodo e presentare
l’antigene.

Diversa è la condizione per MHC-I: quando una cellula dendritica matura, comincia a sintetizzare anche molte
più molecole MHC-I. Tuttavia, questo processo non è associato a nessun cambiamento di emivita della
molecola. Anche questo ha un significato biologico: per cominciare, la fonte dell’antigene, interno alla cellula,
è sempre disponibile all’interno di essa e quindi non rischia di essere “perso”. Ma soprattutto la fase virale
comprende continue mutazioni durante il ciclo replicativo. Continuando a rinnovare MHC, si mantiene un
costante aggiornamento dello stato di infezione.

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INTERAZIONE TRA LINFOCITI T E APC
A livello del timo avviene l’interazione tra linfocita T e cellule che presentano l’antigene (APC). Questa
interazione non è semplicemente un riconoscimento tra TCR e MHC, ma è un’interazione duratura e stabile
(6-7 ore affinché il linfocita T si attivi). L’interazione con un linfocita T naïve è molto più lunga dell’interazione
con linfocita T della memoria (basta circa 1 ora e mezza a questi, dato che sono più “pronti”). Questo tempo
è necessario perché esistono una serie di molecole espresse su entrambe le membrane che devono entrare
in contatto.

CD4, con il suo TCR, interagisce con MHC-II. Esistono molecole che stabilizzano il legame (molecole di
adesione, tra cui l’integrina LFA 1 e il contro-recettore ICAM-1), e molecole con un ruolo funzionale, dette co-
stimolatorie (che saranno meglio definite più avanti; per ora si introduce la nozione che esse sono il bersaglio
farmacologico degli inibitori dei checkpoint immunologici, farmaci antitumorali). Queste mandano segnali
accessori ma indispensabili: la loro assenza comporta la mancata attivazione.

[Visione di due filmati; sono effettuati con microscopia multi-fotoni, una tecnica simile per certi versi al
microscopio confocale. Permette di avere una visione interna dell’organo, ma i fotoni non bruciano il tessuto
(mentre il microscopio confocale può essere usato solo su tessuti fissati, perché l’esposizione dopo pochi
secondi brucia il tessuto). Si ha così la possibilità di agire in vivo su animali addormentati (cosa che riduce gli
artefatti sperimentali). Avviene sempre con marker immunofluorescenti. I filmati mostrano l’interazione tra
cellule dendritiche e linfociti T, i concetti importanti sono riportati di seguito].

La cellula dendritica in continuo movimento cerca di esporre al maggior numero di linfociti T i propri antigeni.
Essa quindi interagisce con il maggior numero di linfociti possibili, ed anche se ha un legame stabile e
un’interazione duratura con uno di questi, continuerà a relazionarsi anche con altri grazie alla presenza
dell’antigene su tutta la sua superficie. Il legame, però, avviene solo se la cellula dendritica è matura.
Esponendo infatti delle cellule dendritiche immature che presentano l’antigene a linfociti T atti a riconoscere
tali antigeni, si formano legami rapidi, saltuari e decisamente non stabili. Ciò avviene per la mancanza di
molecole co-stimolatorie, senza le quali il riconoscimento dell’antigene fallisce.

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Questo meccanismo ha un significato biologico. Non solo non stimola una risposta infiammatoria, ma media
un meccanismo di tolleranza, evitando risposte di autoimmunità: le cellule self, che degradano elementi
proteici di routine, espongono spesso l’antigene su MHC-I, ma non le molecole co-stimolatorie (il concetto
verrà comunque approfondito in futuro). Esponendo cellule dendritiche mature prive di MHC (non codificate
in topi knock-out) ma comunque dotate di molecole co-stimolatorie, abbiamo comunque contatti rapidi ma
inefficaci. Quindi, affinché l’adesione sia stabile, sono necessari entrambi i riconoscimenti.

Durante l’interazione prolungata per ore tra


cellule dendritiche che presentano antigeni
su MHC-II e linfociti T-CD4, c’è produzione di
citochine che vanno a costituire un ulteriore
segnale, il quale indirizza il linfocita T verso
due differenziamenti, tipo 1 o tipo 2, che
definiscono quindi linfociti TH1 e TH2.

Il tipo di citochine che indirizza questo


fenomeno dipende a sua volta dal tipo di
PRR che viene attivato, in modo da generare
una risposta a valle adatta a combattere
quello che è stato riconosciuto.

D.D.S.: nel caso in cui l’antigene sia endogeno e non esogeno, si attivano altri segnali di riconoscimento? Anche
all’interno della cellula esistono PRR diversi: abbiamo recettori a livello di membrane endosomiali (ad esempio
TLR3, TLR7, TLR9) e recettori citosolici (ad esempio MDE), i quali possono a loro volta attivare risposte diverse
tra loro. È anche vero che un antigene endogeno attiva un CD8-citotossico e non un CD4-helper. Un linfocita
T-citotossico ha una funzione limitata alla distruzione della cellula che presenta l’antigene e non ha uno
spettro di funzione vasto come quello di un linfocita T-helper. Esiste comunque una diversificazione (TC1, TC2,
TC3), ma è più limitata e meno soggetta a studi.

Le citochine prodotte dalle cellule dendritiche sono rilasciate in momenti diversi e con cinetiche di produzione
molto diverse tra loro. Questo comporta che una cellula T viene influenzata anche dal periodo in cui la cellula
dendritica si trova: una cellula dendritica nuova rilascia un cocktail di citochine diverso da una cellula
dendritica in circolo da più tempo. Addirittura una cellula dendritica “vecchia” (magari una cellula refrattaria
che ha ricatturato un antigene già esposto in precedenza) smette di secernere citochine, e quindi non stimola
il linfocita T. Anche questo ha significato biologico: se un linfocita T incontra solo cellule dendritiche vecchie
e non ne arrivano di nuove, significa che l’agente infettante è stato debellato in periferia.

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Infine va considerato che le cellule dendritiche non sono solo di un tipo cellulare, ma sono una famiglia.
Principalmente sono divise in cellule plasmacitoidi e mieloidi: entrambe sono di derivazione mieloide, ma
hanno ruoli molto diversi. La base della diversità di funzione si basa sulla diversa produzione di citochine. Le
mieloidi producono principalmente IL-12 e IL-10; le plasmacitoidi invece producono IFN-1 (classica risposta a
un’infezione virale, possibile grazie a PRR specifiche). IFN-1 ha un ruolo fondamentale in molte risposte
autoimmuni, ed è quindi bersaglio di molti farmaci che combattono tali patologie.

Fotografia di Olivier Schwartz, colorata artificialmente, che raffigura


l’interazione tra cellula dendritica (in azzurro) e linfocita T (giallo).

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