Introducción
I Iniciadores o Precursores
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Introducción
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La storia della filosofia moderna fa parte della storia umana, essa va dalla fine del
medioevo (1453 caduta di Bisanzio e la scoperta dell’America) fino alla Rivoluzione
francese (1789), che potrebbe corrispondere con Kant o como dicen muchos hasta la
muerte de Hegel.
La prima dimensione è critica e soggettiva che non è una novità perchè la filosofia
socratica (conosci te stesso) aristotelica e quella di Agostino e Tommaso hanno questa
dimensione.
La dimensione critica e soggettiva riguarda il centramento della filosofia sul soggetto che
richiede il proprio oggetto di conoscenza.
NICOLO’ CUSANO
Nicolò Cusano è una figura del tutto particolare che si trova a fare da ponte tra la
fine del Medioevo e l’inizio dei tempi moderni, nato nel 1401 nel sud della Germania, non è
per niente conosciuto con il proprio cognome, ma sotto il suo luogo d’origine.
Cusano comincia a studiare legge prima in Germania e poi a Padova, la sua prima
formazione è da giurista, ed anche da canonista, cosa che sarà importante perchè sarà
esperto come canonista nel concilio di Basilea.
In quel momento Cusano appare come conciliarista moderato cioè difende la tesi,
secondo la quale, è il concilio che rappresenta al meglio l’unità di tutta la Chiesa nella sua
diversità, su questo argomento cambierà parere abbastanza radicalmente, ma in quel
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momento pensa di sostenere la tesi molto in voga allora della supremazia del Concilio sulla
Santa Sede, già in quel tempo c’era un certo parallelismo tra la Chiesa e l’impero; l’impero
è una federazione di popoli diversi e la Chiesa sarebbe l’armonia della diversità di tutte le
Chiese.
Cusano osserva che il concilio crea sempre più divisione e che è incapace di
realizzare l’unità della chiesa, che però vorrebbe.
Il viaggio di Cusano a Bisanzio è del tutto significativo, lo scopo era quello di realizzare
l’unità cristiana, addirittura vuole realizzare anche una forma di unità della diversità con gli
stessi musulmani dicendo che abbiamo lo stesso Dio, è in anticipo di 5 ó 6 secoli.
Nel 1448 fu eletto cardinale, e nel 1450 fu eletto vescovo di Bressanone, ma lì entra
in conflitto con il potere politico del duca Gismondo, perchè vuole assicurare l’indipendenza
del suo vescovado e vuole prendere sul serio il suo ruolo di vescovo contro il potere politico
temporale del duca, è un conflitto così vivo che viene arrestato per alcuni mesi e durante il
periodo in carcere scrive alcune delle sue opere filosofiche matematiche più importanti.
Dopo l’intervento del Papa, viene scarcerato e nel 1451 viene inviato come delegato
pontificio in Germania per stabilire l’unità cattolica, ma capisce che il concilio che ha voluto
fare tutto da solo senza il Papa è riuscito soltanto a creare nuove divisioni, non è per niente
riuscito a creare l’unità con gli ortodossi, e si rende conto che il vero legame dell’unità
cattolica è il Papa.
Egli diviene il campione della Santa Sede; nel frattempo non ha cambiato parere sul
fondamento politico della società civile perchè anche lì Cusano ha un concetto sulla
sovranità popolare: il vero sovrano è il popolo.
Sarà vicario generale di Pio II, e nello stesso tempo governatore dell’Urbe;
nonostante tutto alte funzioni,conduce una vita molto semplice per costruire al suo paese
natale un ospizio, che serve ancora, ancora oggi ci sono degli anziani molto poveri che sono
ricoverati lì gratuitamente, i soldi per mandare avanti l’ospizio vengono dai fondi della
famiglia di Cusano, ad esso allegò la biblioteca personale con i propri manoscritti di
grandissimo valore, anche questo indica la vera e semplice umile carità di quell’uomo.
Muore tranquillamente nel 1464.
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La base e il modello di ogni vera conoscenza sarà la matematica, non ancora nel
senso moderno cioè non si applica all’esperienza (si deve aspettare Galilei), appare anche
per la prima volta la dialettica molto sottile del Cusano.
In Cusano possiamo distinguere tre gradi essenziali della conoscenza umana:
La ratio che è la ragione discorsiva, paragona le cose, ci dice del più e del meno,
l’affermazione e la negazione, ci sono rapporti di uguaglianza, ma anche rapporti di
disuguaglianza, essa è retta dal principio di non-contraddizione.
Questa conoscenza anche se mira a qualcosa sarà soltanto approssimativa, perchè
se si cerca qualcosa di nuovo non si tratta di comparare l’ignoto all’ignoto, o il noto al
noto, perchè questo non accresce la nostra conoscenza.
Dunque ogni conoscenza razionale umana è sempre imperfettibile, non è mai esatta
e questo si potrà vedere nella sua opera “De consectures”, ogni scienza è concettura.
La verità in se stessa per ipotesi deve essere una, necessaria, assoluta, perfetta, tra
la verità e la nostra conoscenza approssimativa possibile, progressiva, mai esatta, c’è
lo stesso rapporto tra un cerchio e il poligono inscritto nel cerchio, nonostante che si
moltiplichino i lati del poligono, non si avrà mai la coincidenza dei lati del poligono con
la circonferenza del cerchio: così noi possiamo avvicinarci alla verità, ma non alla verità
assoluta.
La verità in se stessa e il Massimo assoluto non si possono mai conoscere, essi sono
attributi di Dio, come non si può conoscere nemmeno il minimo assoluto, dunque per la
ratio Dio, come la verità non si possono conoscere, questo vale soltanto per la ratio,
calcolatrice discorsiva che è incapace di capire Dio.
L’agnosticismo della ragione nel senso stretto della ratio matematica viene dalla
disproporzione infinita che c’è tra la ratio sempre finita e la verità infinita.
Questi due gradi rappresentano l’inizio della conoscenza.
Per l’uomo c’è una conoscenza sicura assoluta, rigorosa, perfetta è una sola, evidente: è
la conoscenza della nostra ignoranza, che è il principio della vera conoscenza: so di non
sapere, più si conosce qualcosa più ci si accorge che c’è sempre più da conoscere,
conoscendo la nostra ignoranza ci rendiamo conto della sproporzione tra la verità infinita e
la nostra mente infinita.
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questa ignoranza non è rozza, ma è dotta, è la forma più alta della conoscenza per l’uomo,
anzi è l’unica vera conoscenza che ci apre il dominio di una conoscenza che potrebbe
essere adeguata al suo oggetto, tramite il dono di Dio; la consapevolezza di questa
ignoranza, è, secondo Cusano, il dono della verità stessa, cioè di Dio.
Nella verità in Dio, tutti i contrari coincidono, non c’è più l’alterità; la coincidenza
oppositorum sarà il concetto stesso di Dio, che è il Massimo Assoluto e Minimo Assoluto,
però questa conciliazione dei contrari vale soltanto in Dio che solo può rivelarsi all’uomo,
non soltanto in modo soprannaturale attraverso le sacre Scritture, ma anche in modo
naturale tramite la creazione e la ragione stessa dell’uomo che è creata ad immagine di
Dio, nella sua stessa finitezza, è consapevole della sua finitezza, la ragione stessa è finita,
ma il fatto di saperlo ci apre in qualche modo all’infinito.
I tre gradi della dialettica cusaniana annuncia in qualche modo quella di Hegel, 4
secoli dopo.
Per Cusano il Massimo Assoluto è identico con il Minimo Assoluto, perchè non si può
pensare nemmeno il più piccolo perchè è presente dappertutto, dunque nell’assoluto il più
grande e il più piccolo si raggiungono, Dio stesso nella sua coincidentia oppositorum è in se
stesso l’unica verità assoluta di tutte le cose finite,le quali non hanno verita’fuori di
Dio.Dunque di tutte le cose finite Dio è la complicatio oppositorum et eorum coincidentia:
Dio comprende eminentemente tutto ciò che esiste, e senza Dio niente può esistere e
niente si può pensare, è la verità intrinseca di tutte le cose, per di più nulla si può opporre
a Dio; in Dio non c’è nessuna alterità, di qui tutti i contrari si ritrovano nell’identità, per
questo che Dio è l’identità assoluta.
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creatore di tutto ciò che è, e provoca lo sviluppo di tutte le cose.Cusano dice che la
Sorgente di tutta la molteplicità delle cose viene da Dio, qui c’è un rapporto di
immanenza di Dio nel creato e allo stesso tempo c’è anche la trascendenza assoluta perchè
l’unità, la semplicità divina che e l’origine assoluta di tutto è infinitamente diversa dalla
molteplicità del creato, dove non c’è nessuna confusione possibile tra la semplicità divina e
la molteplicità delle cose create.
Dire che Dio è il centro del mondo vuol dire che è onnipresente, immanente al
mondo, e dire che è la circonferenza vuol dire che è trascendente al mondo.
Il primo ad affermare l’infinità del mondo è Giordano Bruno (un secolo dopo).
Per Cusano infatti solo Dio è infinito, e tutta la Docta Ignorantia si fonda sulla
disproporzione infinita tra l’infinità divina e la finitezza del creato, però sappiamo anche che
l’universo è come l’immagine contratta dell’infinità divina, infinità contratta.
Dal punto di vista della cosmologia Cusano rompe con tutta la tradizione che
precede, (la rottura tra il pensiero antico e medievale), con un mondo centrato e finito che
va verso l’infinità.
La novità non è di sostituire un centro con un altro, è di dire che tutti i punti
dell’universo sono ugualmente centro perchè Dio è dappertutto.
Cusano, per la prima volta, respinge la concezione tradizionale del cosmo ed apre
quella della modernità; infatti nega il carattere limitato del mondo, cioè limitato
geograficamente anche se è sempre limitato di fronte a Dio, non c’è una frontiera
nell’universo, solo Dio è la circonferenza del mondo.
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Non c’è più quindi la chiusura del mondo dalle sfere delle stelle fisse, con tutta la
gerarchia celeste, di cui il punto più basso meno nobile era la terra, e il punto più alto, più
nobile era la sfera delle stelle fisse, questo non esiste più con Cusano.
Invece Cusano non afferma mai l’infinità del mondo, comunque l’universo è illimitato,
indefinito senza fine, è finito in un altro senso, visto che è creato, è indeterminato piuttosto
che infinito.
L’universo essendo indeterminato, secondo Cusano, non può essere oggetto di una
scienza esatta, ma soltanto di una scienza approssimativa, congetturale.
La grande rivoluzione cosmologica di Cusano è che non c’è nessun centro privilegiato
dell’universo, nè la terra, nè il sole, nè qualsiasi altro punto, ciò vuol dire che la terra non è
inferiore nè al Sole, nè alle stelle, lo spazio non è più gerarchizzato ma omogeneo, e la
grandezza immensa non misurabile dell’universo è come un riflesso dell’infinità divina, per
di più, la terra si muove, per Cusano, come dirà più tardi Galilei, come si muovono tutte le
cose dell’universo.
Nell’universo non vi sono due cose singole esattemente identiche, questo sarà un
principio che qualche secolo dopo diverrà il Principio dell’indiscernibile di Leibniz.
Leibniz dice: Ciascuna cosa del mondo è come uno specchio di Dio, di tutto
l’universo.
Cusano stesso dice questo nella Docta ignorantia: ogni cosa esistente è differente da
tutte le altre cose, così che l’universo esiste contratto in tutte le cose finite.
Sembra che qui, in qualche modo, c’è un rapporto analogico fra Dio e l’universo e poi
tra l’universo e ogni cosa, lo stesso rapporto di contrazione che c’è tra Dio e l’universo lo
ritroviamo fra l’universo e ogni cosa.
Questo è vero per ogni cosa, però è particolarmente vero per l’uomo perchè egli
riunisce in sè la materia, la vita organica, la vita sensitiva e la razionalità spirituale.
Cristologia:
Si può concepire il Massimo Concreto (Cristo) che unisce il Massimo Assoluto divino
(Dio) con il contratto massimo, che è l’universo, che unisce la stessa divinità insieme con la
natura creata dell’uomo, quindi vediamo Dio, l’universo e l’uomo come microcosmo.
É chiaro che questa unione eccede la nostra intelligenza, ma è vero anche che nella
fede cristiana la vediamo realizzata.
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Tutto ciò viene espresso nelle Scritture e precisamente nell’epistola ai Colossesi
1,17: “Cristo è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono”; 2,29 “in Cristo abita
corporealmente la pienezza della divinità”.
Noi uomini possiamo attingere la nostra finitezza solo per l’incorporazione a Cristo,
che si fa attraverso la Chiesa, che è il suo corpo.
Conclusioni
Vuole invece unificare tutto come Pitagora e Plotino, Dionigi e San Agostino e vuole
unificare anche la filosofia, la matematica e la teologia.
Sul piano della cosmologia introduce la rivoluzione fondamentale: è la fine del mondo
chiuso, centrato, gerarchizzato della rappresentazione tradizionale sia antica che
medievale, è l’inizio di un mondo aperto, illimitato però non ancora infinito,ma omogeneo,
un mondo che si può studiare matematicamente, con una sola fisica: è veramente l’inizio
del mondo moderno dal punto di vista della rappresentazione cosmologica.
Con Cusano, per di più, dal punto di vista epistemologico, il modello matematico
comincia a diventare il modello razionale, non è che si applichi subito all’esperienza
(Bacone e Galilei), però la matematica appare come il modello della conoscenza.
Per Cusano, in qualche modo, si ottiene anzi la differenza che è abbastanza radicale
fra l’idealità della conoscenza puramente matematica e poi il carattere sempre
approssimativo congetturale di tutto quello che tocca la realtà fisica, l’unica scelta esatta è
la matematica stessa, ma non appena la si vuole applicare all’esperienza entriamo
nell’approsimazione.
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vero perchè il pensiero di Cusano pur essendo geniale era tutto fatto di umiltà, di
conoscenza della docta ignorantia, era un uomo di grandissima umiltà.
Il pensiero di Cusano è tutto rispettoso della realtà, del mistero di Dio, del mondo,
invece il pensiero di Bruno, è un’esaltazione, un grido di giubilo davanti all’infinità del
mondo.
Altri influssi importanti più diretti di Cusano sono sui grandi umanisti del
Rinascimento cioè essenzialmente Pico della Mirandola (1463-1494) e Charles de Bavelles
(1475-1553).
MACCHIAVELLI
Realismo di Macchiavelli.
Cominciamo a situare l’opera di Macchiavelli nel suo contesto storico, che è molto
importante per capire l’intervento di Macchiavelli.
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Macchiavelli è nato nel 1469, un pò dopo la morte di Cusano, appartiene alla
borghesia fiorentina.
È un uomo d’azione, diventerà poi teorico della politica con “Il Principe”, infatti è
stato per 14 anni Segretario della Seconda Sezione della Cancelleria di Firenze
(1498-1512), cioè era il braccio destro di Ganfalonieri Pier Soderini che era il dittatore di
Firenze in quel tempo.
Quindi ha avuto un ruolo politico di primo piano a Firenze che era una delle
Repubbliche più prospere in quel tempo.
È da questa esperienza politica che ha fatto la sua teoria quando era esiliato,
incarcerato, quando non ha avuto più un ruolo politico.
È un’opera che ha avuto e che ancora oggi ha un influsso incredibile (tutti i grandi
politici sicuramente lo avranno letto, e lo considerano come la Bibbia).
Un’altra opera molto importante e molto più lunga l’ha scritta nel 1513-1520 che sono i
suoi “Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio” sono delle riflessioni in cui oppone
chiaramente le virtù degli antichi romani pagani come il coraggio, la forza alla debolezza
introdotta, secondo lui, dal Cristianesimo.
È un atto molto audace sopratutto in quei tempi, all’inizio del 500, ma è un aspetto
naturalmente del Rinascimento, dell’Umanesimo, anticristiano, e in questo senso si
presenta anche come un precursore lontano di Nietcke.
Muore nel 1527, in una situazione difficile cioè quando i Medici vengono cacciati
nuovamente da Firenze.
Cusano crede giustamente nella legge naturale, il male esiste ed è frutto della libertà
umana e non è insuperabile, lo si può superare al terzo livello, quello dell’intellectus, con la
conciliazione dei contrari, dunque la visione di Cusano rimane fondamentalmente del tutto
cristiana e pacifica.
Invece Macchiavelli introduce una rottura drammatica, che avrà delle conseguenze
incalcolabili.
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È un realista, nel senso più comune della parola, cioè lontano da ogni ideale che
sarebbe irraggiungibile.
Inoltre intende, come dice lui stesso, prendere gli uomini non come dovrebbero
essere, ma come sono realmente.
Vuol dire che la politica non dipende più dalla morale, perchè per Macchiavelli non
c’è più la legge naturale, non c’è più il diritto naturale, questa definizione è
esattamente l’opposto del giusnaturalismo, che verrà subito dopo.
Dunque l’ordine umano sarà soltanto quello che la forza del Principe ne farà, che poi
il Principe sia monarca oppure Repubblica non cambia nulla; il Principe è la forma dello
Stato.
Visto che gli uomini sono generalmente cattivi, bisogna fondare la città o lo stato
sulla forza, ma questa forza non deve essere brutale, ma è piuttosto fondata sull’astuzia
del Principe.
L’astuzia del Principe, il quale ha più interesse politico a sembrare onesto che non
ad esserlo, consiste nel fatto che non importa che sia onesto, l’importante che sembri
onesto.
Secondo l’interesse dello Stato il Principe dovrà essere fedele alla sua parola.
Non c’è verità nel campo politico, non c’è la moralità, conta soltanto il risultato
ottenuto secondo lo scopo conseguito.
Così il famoso detto che “il fine giustifica i mezzi” anche se Macchiavelli non ha detto
così, ma questo è il senso della ragione di Stato, che infine per il bene comune giustifica
tutti mezzi usati per conseguirlo anche i mezzi più immondi.
Dunque la rottura capitale introdotta qui che costituisce una delle dimensioni del
pensiero moderno è che l’uomo non ha più una sua natura etico-politica, l’uomo non è
più un animale politico come diceva Aristotele con le sue leggi naturali e politiche. L’uomo
si fa politico, l’uomo si fa quello che vuole.
Quindi non c’è più una natura umana creata da Dio, con le sue leggi; invece l’uomo,
lo Stato diviene quello che fa stesso; anticipando così l’esistenzialismo (l’uomo che diviene
quello che si fa).
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Però, secondo Macchiavelli, e in questo rimane molto realista, il vero potere umano
rimane sempre limitato dalla fortuna, dal caso, che sono sempre delle minacce per lui; non
è la fortuna volitiva.
Dunque per Macchiavelli non c’è quell’esaltazione del potere umano che abbiamo,
invece, per esempio, in Giordano Bruno.
Non c’è quell’esaltazione davanti all’infinità del mondo e dello spirito umano, ma
piuttosto una forma di cinismo che è anche una componente importante della stessa
modernità.
Anche Macchiavelli vorrebbe che gli uomini sarebbero meglio di quello che sono,
purtroppo sono quello che sono e l’unica cosa da fare sarà di organizzare la società, la città
di conseguenza.
La politica è per Macchiavelli “la realtà prima della vita umana, l’unico scopo
che l’uomo debba sempre perseguire e al quale debba essere coerentemente
disposto a sacrifare ogni attività, ogni convinzione, la sua stessa anima”.
Però Macchiavelli fa una teoria più radicale, perchè qui non c’è bisogno neanche
dell’intervento divino, lo Stato è la sua propria giustificazione, non c’è nient’altro, in
qualche modo la monarchia assoluta francese è limitata ancora dalla sua fondazione divina,
c’è quindi ancora un diritto divino più fondamentale di quello dello Stato che lo giustifica.
Qui non c’è più neanche questa giustificazione, lo Stato è la propria giustificazione.
Per Macchiavelli la politica è la forma più alta, anzi assoluta dell’azione umana contro
il caso e la fortuna; la verità eterna non c’è più, è la politica che è il fondamento ultimo
della nostra conoscenza, della realtà.
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Non c’è più una natura umana, l’uomo è quello che si fa da sè, tramite la sua azione
politica.
Dunque l’azione del Principe deve dominare la fortuna ed anche la libertà degli
uomini cattivi che vogliono distruggere lo Stato.
Dunque l’azione politica è senza moralità. È amorale, ma è l’azione politica che fonda
ogni moralità, perchè il Principe ha bisogno della moralita’ per costringere i cattivi a
comportarsi bene.
L’azione politica è l’unica che può restaurare una continuità del tempo dell’uomo,
secondo Macchiavelli, cioè una continuità tra il passato e il presente, senza la quale l’uomo
non potrebbe neanche agire.
Dunque è l’azione politica che realizza l’unità del pensiero stesso, l’unità della vita
umana che il pensiero sarebbe incapace di produrre o di scoprire.
Macchiavelli riconduce tutto all’efficacia, all’utilità politica ciò vuol dire che lo Stato
non è più un semplice mezzo della vita in società, ma il fine assoluto.
Questo non è, però, l’unica caratteristica della modernità nel campo politico; ce n’è
un altro ugualmente importante che sembra addirittura opposto a questa dimensione: è
l’Utopia di Tommaso Moro, l’ideale di una città perfetta creata da Tommaso Moro,
grande cancelliere di Inghilterra (Nacio en 1478 y murio en 1535).
È un comtemporeneo di Macchiavelli.
Nel 600 lo sviluppo della filosofia politica avrà come erede più Macchiavelli.
Il realismo di Macchiavelli è del tutto imcompleto perchè non tiene in conto di tutte le
dimensioni della vita umana e per essere completo il realismo dovrebbe tenere in conto la
dimensione utopica che è fondamentale, però viene dopo con Moro.
Questo lo farà, cioè prendere in conto tutte le dimensioni dell’essere umano, Pascal
ma non nel senso politico ma nel pensiero fondamentale (miseria e grandezza dell’uomo);
invece Macchiavelli tiene in conto quasi soltanto la miseria.
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Lo stesso Moro non è solo utopico, ma si può dire che è il vero realista, tiene in
conto infatti la situazione drammatica del proprio tempo e da questo punto di vista è più
realista di Macchiavelli. Giusnaturalismo
Tommaso Moro
Nato a Londra nel 1478 in una famiglia di giuristi, anche lui è stato giurista, ma
dall’inizio ha fatto parte del circolo degli umanisti, è lui stesso un grande umanista,
probabilmente l’unico che sia stato santificato.
Tommaso era un cristiano molto impegnato, è stato attirato dalla vita monastica, già
da giovane, ha tradotto in inglese “La città di Dio” di Agostino che è uno dei fondamenti del
pensiero storico di tutta la cristianità occidentale.
Nel 1505 si sposa e diviene un ottimo padre di famiglia, diventa discepolo di Pico della
Mirandola, il quale era un discepolo di Cusano.
Abbastanza giovane, nel 1504, entra nella vita politica per il bene comune e non per
il proprio interesse, e sarà deputato, e farà parte dell’opposizione reale sotto il re Enrico
VIII; in quel periodo c’erano condizioni sociali ed economiche tremende per i poveri.
Nel 1516 pubblica per la prima volta in Belgio la sua opera politica fondamentale cioè
l’Utopia, in latino.
Nel 1518 diviene ministro del re Enrico VIII che all’inizio era un re umanista, amico
della Chiesa poi sarà l’autore dello scisma anglicano e poi diviene dal 1529 al 1532 il
cancelliere di Inghilterra, cioè primo Ministro, anche qui ha fatto un’esperienza politica
ancora più forte di quella del Macchiavelli, il suo posto è veramente di primo piano.
Nel 1532-1533 vi fu il divorzio tra Enrico VII e Caterina d’Aragona. Quando il papa
Clemente VII rifiuta l’annullamento di questo matrimonio che era il secondo (il primo già
era stato annullato dalla Chiesa) Tommaso Moro non vuole seguire la via dello scisma e per
questo si dimette dalle sue funzioni di cancelliere di Inghilterra nel 1532, e in quel
momento Crowell, che ha spinto il re verso lo scisma prende il suo posto.
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imparare a tutti i cittadini, sudditi del regno di Inghilterra il giuramento di fedeltà all’atto di
supremazia promulgato dal re Enrico VIII per imporre così il potere assoluto; questa è la
via per il totalitarismo, Crowell sapeva che Moro non avrebbe mai accettato il quale
appunto rifiutò e per questo venne condannato a morte.
Invece, la logica di Moro è quella cristiana e va fino al martirio, perchè non vuole
accettare l’inaccettabile e che vuole rimanere fino in fondo fedele alla sua coscienza.
L’Utopia è l’opera fondamentale di Moro nel 1516, l’Utopia : città reale e citta ideale
perchè Moro non è per niente un utopista nel senso comune della parola cioè uno che non
saprebbe la realtà, anzi la conosce meglio di tutti dal momento che è stato cancelliere di
Inghilterra e Capo dell’opposizione.
Però Moro rifà qualcosa che assomiglia alla Repubblica, ma è molto diverso, lo rifà
coscientemente nel contesto della modernità, cioè l’Utopia è raccontata come una storia
affascinante, di progresso, con un dinamismo che appunto l’Utopia introduce nella storia,
cosa che non ha fatto Platone; infatti non c’è alcun elemento di dinamismo utopico nella
Repubblica di Platone.
Inventa questa nuova isola Utopia che significa “in nessun luogo” e “in nessun
tempo” quindi si vive in un’epoca fuori dal tempo. Non ha la minima intenzione di farla
diventare realtà, ma diviene un motore per la riflessione e anche per la storia.
L’Utopia consta di due libri: il primo libro è la critica precisa e tremenda dei sistemi
esistenti e in particolare di un’altra isola che non è l’Utopia, ma che è l’Inghilterra di Enrico
VII.
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Utopia è la città ideale, ma non è perfetta perchè Moro sa molto bene che la città perfetta è
quella celeste, quella di Dio.
La città ideale vuol dire che è concepita con l’idea della ragione, ma non è perfetta, ci
sono delle prigioni, quindi ci sono i ladri e gli assassini; si sa che gli uomini sono quello che
sono; per questo che Moro non è un utopista nel senso comune, ma è forse più realista di
Macchiavelli.
Questo capitale terriero per aumentare ancora i propri profitti converte in modo
sistematico i terreni sia comuni che privati fino allora agricoli in pascoli per l’allevamento di
montoni e delle pecore per l’industria nascente dalla lana riducendo così in miseria migliaia
e migliaia di contadini che non avevano più niente da coltivare ed erano costretti a
mendicare o a rubare.
In quel periodo la mendacità era proibita dal Governo sotto Enrico VII e il furto
veniva punito con la morte.
Moro denuncia, in modo molto chiaro e molto preciso con una conoscenza tremenda
che solo un ministro del governo poteva avere, lo scandalo della miseria provocata dai
ricchi, i quali poi mettono in prigione i mendicanti e impiccano i ladri.
Per Moro, l’origine di tutti questi disagi si triva nel monopolio della ricchezza, nel
denaro che sta nelle mani di pochi potenti sia civili che ecclesiastici e dice che l’essenza
della ricchezza è di essere abusiva.
Dunque bisogna affrontare la radice di ogni male cioè la proprietà privata, infatti
abolendola si riuscirà a distribuire i beni con equità, con giustizia e a costituire la felicità del
genere umano.
Nell’isola Utopia è tutto il contrario della città reale in positivo; non c’è la proprietà
privata, non esiste il denaro, ciascuno può usare liberamente i beni secondo i propri
bisogni.
Tutti si devono istruire quindi l’istruzione è obbligatoria, non ci sono analfabeti e tutti
i magistrati sono eletti dai cittadini; infine c’è la tolleranza religiosa, tema fondamentale per
Moro, quindi tutte le religioni devono essere tolleranti, mentre l’intolleranza e il paganesimo
sono puniti con l’esilio o con la schiavitù.
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Non dimentichiamo che la chiave principale dell’Utopia è che tutti gli uomini che la
compongono usano la propria ragione, c’è un fondo comune di religione naturale, è la
ragione bendata dagli abitanti, che indica loro che c’è un Dio unico, creatore e provvidente
e che c’è la vita eterna, il giudizio finale.
Questo fondo di religione naturale appartiene al fondamento stesso della città ideale
e quelli che non condividono questo fondamento di religione naturale non possono
divulgare le loro idee, quindi possono essere atei per conto proprio, ma non possono
divulgare le loro idee; perchè sarebbe la rovina del fondamento dello Stato.
Se però divulgano le loro idee, gli atei non possono avere cariche pubbliche, sono
tollerati però non possono avere diritti pubblici.
Però gli abitanti di Utopia che hanno questa religione naturale, pronti ad accogliere
ogni religione particolare, trovano nel Cristianesimo la religione che si accorda
perfettamente con i propri principi cioè con la religione naturale, non fa che perfezionare
quello che dalla ragione hanno trovato da se stessi.
... dice che Moro di cui le idee hanno servito da fondamento a tutta la filosofia
politica moderna, è colui che ha risuscitato la filosofia politica mostrando contro
Macchiavelli che il pensiero politico è sempre il pensiero dell’Utopia perchè è il pensiero del
possibile e non il pensiero del necessario.
Tutto questo suppone che c’è un diritto naturale che è fondamento razionale di ogni diritto
positivo.
Diritto naturale di cui ogni uomo, in quanto uomo, è pinamente soggetto e che fonda
la città.
Dunque ogni uomo è soggetto di diritto dai più poveri ai più ricchi, è un’anticipazione
dei diritti umani.
MONTAIGNE
Non è che uno dei più grandi filosofi, ma è veramente un innovatore nel modo suo di
filosofare, è il primo che scrive in francese e non in latino.
È nato nel 1533 e morto nel 1592 nel castello di Montaigne, faceva parte dell’alta
borghesia, riceve un’educazione umanistica molto raffinata interamente in latino, e seguiva
fedelmente il programma umanistico tracciato da Erasmo, il più grande dotto degli
umanisti, amico personale di Tommaso Moro.
Studia giurisprudenza ed avrà qualche carica pubblica, che però non gli piace tanto,
sono cariche importanti a livello locale però non di primo piano; dal 1548 al 1554 non si sa
esattamente cosa ha fatto.
Nel ’54 inizia una carriera da magistrato, sarà consigliere nel Parlamento di Bordeaux
fino al 1571, quando incomincia a scrivere i saggi si dimette.
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Nel 71-72 inizia la redazione dei suoi saggi, nell’80-81 farà una grande viaggio in
Svizzera-Germania-Italia, e da qui che viene il suo quaderno di viaggio, che sarà pubblicato
soltanto nel 1574.
Nel 1581 viene eletto sindaco di Bordeaux, era anche amico personale di Enrico
Navarra, cioè il futuro Enrico IV, il re protestante convertito al cattolicesimo e che ristabilì
la pace religiosa in Francia.
Ha condotto una vita tranquilla, equilibrata, ordinata, è l’uomo della misura in ogni
cosa.
Questi saggi che sono l’unica opera filosofica di Montaigne (oggi saggi vuol dire
“tentativi”, nel senso della lingua classica vuol dire “esperienze”). L’oggetto della sua
filosofia è la propria vita, l’uomo e la sua opera sono appunto un’unica cosa , e
così la centralità del soggetto è radicale in Montaigne, è il suo proprio oggetto di
riflessione; studia se stesso non per vanità, ma per metodo, è l’unico oggetto di
esperienza di cui dispone per conoscere l’uomo e poi nella sua singolarità individuale mira
non alla sua particolarità che non interessa a nessuno, ma all’universalità umana, e questo
è molto interessante perchè attraverso lo studio della propria singolarità mira di
raggiungere l’universalità umana.
Nei suoi saggi le sue esperienze personali sono comparate con gli scritti degli antichi.
Il suo modo di filosofare partendo dal soggetto è veramente moderno, lo farà poi
Cartesio nel “Discorso sul metodo”.
La ratio dunque per Montaigne è sempre incerta, quindi dei tre gradi della
conoscenza di Cusano, egli prediligerà il primo cioè la conoscenza sensibile, empirica e per
questo realizza una forma di empirismo.
Anche, però, le sensazioni in se stesse non ci danno nessuna certezza sul loro
oggetto (se si vedono dei colori, non si sa a quali oggetti corrispondono) non si può sapere
come sono le cose, dunque si deve partire dall’esperienza personale che è l’unica sicura;
però anche l’uomo cambia e dunque, non si potrà mai conoscere perfettamente, quindi non
c’è mai una conoscenza perfetta neanche in noi stessi.
Dice che tutte le tradizioni sono relative, diverse, contradditorie: è l’epoca che segue
da poco la scoperta dell’America ed anche il periodo delle guerre religiose.
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Si oppone ad ogni forma di intolleranza e di dogmatismo; anche per questo appare
molto moderno, vicino a noi e sarà preso come modello da tutto l’empirismo del 700 e dallo
stesso Voltaire.
Scetticismo e fideismo
La critica di Montaigne non mira ad una certezza chiara, fondatrice, ma è una critica
che rimane in qualche modo su se stesso, l’unico oggetto di conoscenza è su se stesso e
questo lo porta naturalmente allo scetticismo.
Sembra che lo stesso Montaigne non vede nessuna contraddizione tra il fideismo e il
suo cattolicesimo, (il fideismo è stato chiaramente vietato dalla Chiesa), il suo scetticismo
non è coerente fino in fondo, perchè se si porta fino in fondo e si pone come un’unica
verità, lo scetticismo diviene contradditorio.
Posizione socratica
Senza nessun eccesso c’è anche una forma di grandezza morale, in questo
atteggiamento, però dal punto di vista del pensiero rimane veramente limitato: apre nuove
strade che saranno percorse da altri., ma è vero che non crea un grande pernsiero.
BACONE
Bacone è nato a Londra nel 1561, figlio del Lord Guardiasigilli di Elisabetta I, studia
giurisprudenza a Cambrindge nel famossissimo collegio Trinity College.
È stato molto contestato nel nostro secolo sia come filosofo che come scienziato.
Lui stesso si definisce l’araldo dell’era nuova, scientifica ed anche il primo teorico del
metodo sperimentale, in particolare dell’induzione scientifica.
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È chiaro che avrà un influsso enorme su tutte le filosofie della scienza, su tutte la
corrente empirica britannica.
Aveva un’ambizione smisurata come uomo di Stato senza scrupoli, ed anche come
istauratore della nuova scienza.
Nel 1584 entra nel Parlamento, diventa avvocato generale, poi procuratore
generale , nel 1617 guardasigilli come il padre e poi Lord Cancelliere, diventa Barone di
Verulanio e poi visconte di S. Albano nel 1621, ma incolpato di corruzione, viene nello
stesso anno escluso da ogni incarico pubblico e da quel momento continua la sua carriera
da filosofo, realizzerà sicuramente un’opera molto importante, ma incompiuta e che ha
chiamato “Imstauratio Magna” ch’è composta di due parti, di cui la seconda che è stata
scritta prima della parte prima è la piu’ importante del Novum Organum del 1620.
Nel “De dignitate et argumentis scientiarum” farà una classificazione delle scienze
secondo le facoltà umane distinte da Agostino (memoria, immaginazione, la fantasia e la
ragione) e poi scrive la sua ultima opera molto interessante New Atlantis, la Nuova
Atlantide.
Bacone dice che la scienza che sta per nascere grazie al suo novum organum apre
un avvenire di felicità a tutta l’umanità, ed è al servizio della potenza umana, quindi
dell’utilità, la scienza per il potere per dominare la natura: questa è una rottura radicale
con la tradizione.
In questa isola dunque tutti gli abitanti si dedicano alla scoperta delle opere e delle
creature di Dio.
È veramente l’araldo di una nuova era, quella della filosofia sperimentale, con il
grande difetto, pero’, di aver sottovalutato l’importanza della matematica e a causa di
questo non ha avuto immediatamente l’efficacia che pretendeva di raggiungere, ha
mostrato molto bene invece l’importanza dell’ipotesi della scienza, la necessità anche della
verificazione.
Apre nuove prospettive dal momento che elimina completamente dalla fisica le cause
finali perchè non servono a niente; dunque le cose fisiche e vere sono quelle che possono
essere in potere dell’uomo, la sua concezione della filosofia è sotto ogni punto di vista
naturalistica e materialistica, tutto orientata verso il dominio umano sulla natura e
sull’utilita’ pratica.
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Dice di credere in Dio e nelle realtà spirituali però sarebbero allora completamente
fuoti dalla fisica, al di là della ratio.
L’attitudine pre-scientifica
Fa una critica dell’attitudine prescientifica e degli idoli del vero spirito. La teoria degli
idoli dello spirito si vede chiaramente nel Novum Organum, (Sive Inditio di interpretatione
naturae), in cui dice che la conoscenza e il potere umano arrivano allo stesso punto; dice
che la natura non può essere dominata se non obbedendole, dunque si devono conoscere
le leggi della natura e così dominarla, ma le scienze del suo tempo non consentono di
raggiungere risultati pratici e la logica in vigore serve più a mantenere gli errori fondati su
concezioni comuni che a trovare la verità, perciò l’attitudine pre-scientifica è più dannosa
che utile.
È vero che il sillogismo anche quando è giusto non può dare conclusioni corrette che
da premesse corrette.
La domanda di Bacone è questa: da dove vengono tali premesse? Egli risponde che
le premesse prime possono venire soltanto dall’induzione, ma quale induzione? Quella
aristotelica non serve a nulla, può servire soltanto quando c’è un numero limitato di casi,
ma il più delle volte ce ne sono un’infinità.
L’intelligenza, dice, procede dai sensi e dalla percezione del particolare fino agli
assiomi più generali dell’induzione aristotelica e poi da questi produce le proposizioni meno
generali.
Quindi Aristotele e gli Scolastici hanno trattato l’induzione troppo in fretta e si sono
concentrati sulla logica deduttiva, così gli antichi, secondo Bacone, sono rimasti sotto
l’influsso dei pregiudizi, che Bacone li chiama idoli dello spirito.
Bacone dice che quattro sono i generi di idoli che assediano la mente umana: gli
idoli della tribù (la tribù è l’umanità stessa) che sono fondati sulla natura umana stessa e
sulla razza umana.
Crediamo, per esempio, che le cose sono così come le vediamo, ma non è vero; i
sensi in se stessi sono deboli e ingannevoli, per cui bisogna partire dai sensi, ma bisogna
correggere la loro debolezza con il rigore della sperimentazione scientifica.
Dunque non ci si può fidare delle apparenze, nè credere vero quello che ci
piacerebbe fosse vero.
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Ci sono poi gli idoli della caverna (qui è un riferimento molto chiaro a Platone) che
sono quelli dell’individuo singolo.
Ciascuno ha una sua caverna particolare che rompe e corrompe la luce della natura,
questo viene dalle particolarità di ciascuno, dall’educazione, dall’eredità, dunque è il luogo
del condizionamento anche psicologico.
Ci sono poi gli idoli del foro o del commercio (il foro è il luogo dove la gente
parla) che sono gli idoli del linguaggio che è il veicolo dei pregiudizi, per esempio ci sono
parole senza significato come la fortuna, e poi è molto difficile esprimere un metodo nuovo
come il suo, con il linguaggio comune.
Infine ci sono gli idoli del teatro che sono quelli di tutti i sistemi filosofici
precedenti (cioè Platone, Aristotele, Agostino, tutti quelli che lo hanno preceduto); tutti i
sistemi filosofici della storia che sono soltanto commedie in cui sono rappresentati mondi
irreali creati dall’uomo stesso.
Ci saranno allora due stadi: il primo deve ricavare gli assiomi dall’esperienza, il
secondo dedurre o derivare nuovi esperimenti dagli assiomi per verificarli, dunque l’ipotesi
e la verificazione.
La prima cosa da fare sarebbe di preparare una storia naturale e sperimentale valida
basata sui fatti; c’è allora la necessità di tre tavole:
1. la Tavola della presenza, dove vengono raccolti tutti i casi in cui il fenomeno in
esame si presenta
2. tavola dell’assenza, dove si indicano tutti i casi in cui lo stesso fenomeno non è
presente anche se le circostanze lo farebbero presupporre .
3. Tavola dei gradi o dei paragoni, dove si registrano tutti i casi in cui il fenomeno si
presenta con diversi gradi di intensità.
La ricerca delle cause finali è sterile perchè esse servono alla pura contemplazione e
non al dominio della natura che era l’unico scopo di bacone.
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Le cause materiali ed efficienti, secondo Bacone, sono superficiali, sono inutili per la
scienza vera ed attiva.
Le vere cause sono quelle formali, che invece Leibniz chiamerà cause efficienti.
I predecessori di Galilei
l’ambiente intellettuale, filosofico e scientifico
L’origine della scienza moderna è di primaria importanza, non solo per tutta la storia
moderna, ma anche per la filosofia moderna.
Già all’inizio possiamo constatare che c’è un influsso reciproco tra le fondazioni della
scienza e il movimento stesso della filosofia del Rinascimento che in quel momento sta per
concludersi, però fino a Cartesio c’è una certa confusione: la scienza appare come la
filosofia e viceversa, il disaccoppoamento chiaro sarà fatto con Leibniz.
Si può già notare che la dimensione soggettiva che è apparsa molto chiaramente con
Mointaigne con le scienze, viene progressivamente contraddistinta dalla dimensione
oggettiva.
È chiaro che nella costituzione stessa delle scienze come tali, l’esperienza di
oggettività misurabile è un elemento di primo piano; Abbagnano parla della riduzione
della natura a pura oggettività misurabile, questa riduzione della natura sarà oggetto del
neopositivismo, cioè del circolo di Vienna nel pieno ventesimo secolo, che sarà purificata da
ogni connessione metafisico-teologica.
Quel processo che sta per iniziare adesso, è fondamentalmente ambiguo, in quanto
può avere un aspetto del tutto positivo come la pura elaborazione progressiva della
metodologia scientifica, ma nello stesso tempo può essere visto come un’interpretazione
“naturalistica” della natura e questo è riduttivo; in questo caso prepara la via al
meccanicismo.
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Leonardo si oppone ad ogni argomento dedotto, ogni conoscenza deve avere un
fondamento nell’esperienza e un’interpretazione oggettiva di questa esperienza tramite la
matematica, tutto questo viene detto chiaramente da Leonardo.
La natura, però, appare come cosmos, come bellezza, come agoniae Leonardo ne è
consapevole visto che è il pittore della bellezza, sia umana che naturale, dell’agonia, del
cosmos; nella pittura c’è la bellezza, ci sono le proporzioni matematiche, la prospettiva, la
geometria; dunque essa è per Leonardo parallela alla meccanica razionale, la pittura che è
la somma ci insegna la superficie delle cose, che è matematica.
Una delle leggi fondamentali che poi ritroviamo in Leibinz è che nessuno effetto è
in natura senza ragione.
Invece i principi fondamentali della meccanica non sono ancora compresi in questo
trattato; ci sono poi delle note personali di Leonardo pubblicate soltanto a partire dal 1881,
lì troviamo la legge dell’inerzia, il principio dell’azione e della reazione, e il parallelogramma
delle forze cioè la combinazione delle forze.
In qualche modo Leonardo potrebbe apparire come un anello importante tra Cusano
e Galilei, però non è necessariamente da concepire come un anello, una catena causale,
visto che è impossibile misurare l’effetto immediato di Leonardo.
È più di tutti gli altri un geniale anticipatore, anche come ingegnere. Cusano e
Leonardo sono i predecessori di Galilei dal punto di vista delle idee.
Gli scienziati veri e propri che sono i predecessori di Galilei, molto notevoli sono
Copernico e Tycho Brohe, con essi l’osservazione scientifica e astronomica diventa
precisa, prende un posto molto importante.
Il problema è che Copernico ha pensato che questo, fosse l’unico modo possibile di
salvare i fenomeni; dunque Ossiader con questa sua prefazione al libro di Copernico
presenta l’eliocentrismo come un’ipotesi matematica possibile per salvare i femoneni.
Il libro di Copernico sicuramente grazie alla prefazione di Ossider è stato molto ben
ricevuto dalla Chiesa di quel tempo, non ha suscitato nessuna polemica nella chiesa
cattolica per 50 anni cioè fino a Galilei.
Invece nella seconda metà del 500 appaiono delle importanti controversie con i
cattolici protestanti, in particolare luterani, il primo è Lutero stesso, con degli argomenti
che saranno ripresi 80 anni dopo contro Galilei; Lutero si oppone violentemente a
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Copernico in nome della Sacra Scrittura: la terra non può girare intorno al Sole altrimenti
Giosuè non avrebbe potuto fermare il Sole (preghiera di Giosuè).
Abbiamo poi Tycho Brahe, geniale astronomo, osservatore danese che farà delle
osservazoni molto più precise di tutti i suoi predecessori e che permetterà al suo assistente
Keplero di formulare le sue tre famose leggi della fisica.
Le prime due leggi vengono pubblicate nel 1609, mentre la terza nel 1619, quindi
Galilei ha avuto tutto il tempo di conoscerle, Galilei avrebbe potuto integrarle, ma non l’ha
fatto, soltanto Newton, il vero fondatore della fisica, farà l’integrazione completa.
Lo stesso Keplero avrà delle controversie molto importanti con i teologi protestanti
esattamente come Galilei con quelli cattolici.
Per Keplero la scienza dice la realtà, non è una semplice ipotesi, crede anche
nell’oggettività del mondo e nella sua struttura matematica fatta dall’armonia, da
proporzioni, da bellezza, da cosmos, ma tutto questo all’interno di una visione religiosa.
Però diceva che la proporzione matematica è anche applicata in ogni cosa, come
immagine di Dio, dunque da buon protestante cristiano Keplero vuole armonizzare il suo
eliocentrismo con la Sacra Scrittura.
Un’ellisse è il luogo geometrico dei punti di un piano per i quali la somma delle
distanze da due punti fissi, detti fuochi è costante.
Nelle ellissi che descrivono i pianeti il Sole si trova in uno dei due fuochi (se i due fuochi si
avvicinano fino a coincidere in un solo punto, l’ellisse si trasforma in una circonferenza).
La seconda legge dice che LE AREE DESCRITTE DAL RAGGIO VETTORE TRACCIATO
DAL SOLE AI PIANETI SONO PROPORZIONALI AI TEMPI IMPIEGATI A DESCRIVERLE. Ciò
sta a indicare quindi che il moto dei pianeti è uniforme. Il raggio vettore è il segmento che
congiunge il Sole con la posizione in cui si trova il pianeta
GALILEI
È nato a Pisa il 15 febbraio 1564, farà gli studi di medicina ma non li terminerà, però
già all’inizio della sua formazione dei suoi primi studi in medicina è attirato
dall’osservazione diretta dei fenomeni naturali che gli interessa di più, avrà anche una
formazione meccanica e matematica che gli sarà di prima importanza.
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Dal 1589 al 1591 sarà professore di matematica a Pisa e poi per 18 anni a Padova.
Nel 1609 perfeziona l’invenzione del cannocchiale e così nel 1610 scopre delle cose
straordinarie: i satelliti di Giove, questa scoperta è molto importante perchè vuol dire che
sono dei pianeti che girano sicuramente non attorno alla terra, ma attorno ad un altro
pianeta, poi i satelliti di Saturno e le macchie solari.
Tutto questo sta a dimostrare che le intuizioni ondamentali del Cusano cioè che tutto
l’universo è della stessa nobiltà e non c’è una differenza fondamentale tra il cielo e la terra
dal punto di vista fisico erano finite; dopo tutte queste scoperte straordinarie è nominato
Mathematicus primarius del franduca di Toscana a Firenze nel 1610.
A causa del suo realismo e dei sospetti dell’Inquisizione sotto il papa Paolo V ci sarà
nel 1612 un’ammonizione ufficiale del cardinale Bellarmino, ma Galilei viene protetto da un
altro cardinale ancora più importante Barberini, il futuro Urbano VIII, nel 1623 a Barberini
dedica il “Saggiatore”, è un saggio molto famoso in cui Galilei descrive la sua visione della
fisica matematica moderna.
Nel 1633 ci sarà la condanna e poi la ritrattazione di Galilei; nel 1638 pubblica i
“discorsi e dimostrazioni matematiche, intorno a due scienze nuove” cioè alla matematica,
alla meccanica e ai movimenti locali.
Dal 1637 comincia una cecità progressiva di Galilei e dunque l’osservazione non gli è
più permessa, però continuerà a scrivere, e a pubblicare.
Galilei appare come il primo grande teorico della meccanica sia celeste che terrestre.
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tendenza realista di Galilei perchè c’è una necessità della matematica, poi sembra che sia
anche la necessità dell’esperienza.
Lui pensa che la matematica non è una costruzione umana, ma sia già al’interno
delle cose stesse, basta scoprirle, allora la verità di una proposizione implica la verità di
tutte le altre. Quindi la scienza è necessaria.
A proposito di questo, caldo-freddo ecc. Galilei vorrà per oggettività ridurre tutte
queste nozioni allo stesso movimento dei corpi, introduce qui una dimensione molto
importante per tutto il seguito della storia fino al 700, la distinzione tra le qualità
primarie e le qualità secondarie.
La realtà oggettiva si limita alle qualità primarie, che sono quelle attaccate ai corpi
stessi, nella concezione realista di Galilei i corpi stessi hanno le qualità primarie di
movimento, di riposo, di dimensione geometrica ecc. è già quello che troviamo in Cartesio.
D’altra parte e questo viene direttamente da Cusano, l’infinità relativa del mondo
per Galilei rispecchia l’infinità assoluta del Creatore, con l’ordine matematico imposto da
Dio all’universo, però a differenza di Cusano, la nostra mente fatta a immagine
dell’intelletto divino, tramite la matematica può avere una certezza assoluta nel suo campo
limitato.
Forse a causa della fiducia troppo forte del potere della ragione umana, che andrà
oltre i limiti della logica verso il suo famoso realismo.
Il realismo di Copernico- Keplero e Galilei: tutti i tre sono i più grandi scienziati del
tempo, ma forse non così forti dal punto di vista filosofico e logico.
Per tutti e tre l’uomo può conoscere con certezza la verità del diverso, mediate la
critica matematica, quindi la congiunzione tra l’esperienza e la matematica, sarebbe la
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congiunzione di due necessità, quindi è una congiunzione anche necessaria, però una
giovane scienza com’era quella di allora tende sempre ad essere assoluta, si dimentica che
questa congiunzione è sempre la nostra opera limitata; questo spiega il realismo ingenuo di
Galilei che si lascia portare dalla forza della sua evidenza personale, quindi diviene
irreversibilmente realista al di là di tutte le esigenze della logica ricordate da Clavius,
Bellarnino, Urbano VIII oltre in precedenza da Ossiader nella sua prefazione a Copernico.
Nell’esporre le sue tesi Galilei è convinto che esse siano “vere”, cioè che esprimano
come veramente accadono i fenomeni osservati. In altri termini Galilei (come aveva già
fatto Copernico) non intende parlare come un “astronomo”, che elabora ipotesi come puri
strumenti di calcolo (pur essendo coinvinto che la dottrina copernicana è superiore anche
da questo punto di vista a quella tolemaica), ma come un “fisico” che pretende di dire
come stanno realmente le cose.
In un brano del “Saggiatore” del 1623 dedicato a Urbano VIII Galilei dice che “la
natura è come un immenso libro che ci sta davanti e per cui la filosofia è scritta in caratteri
matematici (triangoli, cerchi e altre figure geometriche) e la prima cosa da fare e che si
imparino a leggere questi caratteri, dunque l’universo è incomprensibile per quelli che non
conoscono l’alfabeto, ma l’alfabeto è matematico, una volta conosciuto, io posso leggere
tutto il libro del mondo e così conoscendo la rivelazione naturale che Dio mi vuole fare
tramite l’universo; quest’interpretazione della natura è di un’ingenuità incredibile, ma è
molto interessante perchè è una via, nella quale la filosofia si farà scienza e viceversa, qui
non c’è la minima traccia della dotta ignoranza.
Questo comporterà naturalmente la reazione dei filosofi e dei teologi perchè ci sarà
chiaramente il conflitto di due universali assoluti: quello della Bibbia per i teologi e quello
dell’universo stesso fisico-matematico per Galilei.
CARTESIO
Lo scopo di Cartesio
Per Cartesio, la tradizione filosofica, soprattutto quella scolastica, come l’ha imparata
nel collegio di La Flechè, non è una fonte di conoscenza vera: è troppo incerta, piena di
contraddizioni e di pregiudizi, senza rigore razionale; perciò, bisogna rompere con questa
tradizione, in modo da comunicare tutto da capo, come intendeva fare Bacone (Instauratio
magna).
Cartesio vuole fare tabula rasa di tutto quello che prende in modo da edificare una
nuova filosofia, completamente critica e vuole partire dal pensiero stesso, che è l’unica
cosa sicura.
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Hegel dirà che Cartesio è il vero promotore della filosofia moderna, è un eroe che ha
ripreso interamente tutto dall’inizio. Ciò non vuol dire che Cartesio non fu influenzato dalla
tradizione, però la volontà di una rottura radicale c’è sicuramente per segnare un inizio
assoluto tramite l’uso sistematico della ragione: ci sarà anche l’esperienza che però sarà
tutto sottomessa completamente dalla ragione (si tratta quindi di razionalismo e non di
empirismo).
Cartesio è stato colpito da due cose: l’incertezza della tradizione filosofica, ma nello
stesso tempo dalla certezza, e rigore delle dimostrazioni matematiche, quelle che intende
seguire nella filosofia stessa.
Cartesio è anche tra l’altro inventore della geometria analitica, è uno dei grandi matematici
di tutta la storia.
Ogni modello matematico ha una sua costruzione, non si può conoscere realmente se
non ciò che si può costruire secondo un determinato processo, fino a quando non c’è un
processo di costruzione non possiamo sapere per esempio se una proposizione è vera o è
falsa.
Cartesio vuole ricostruire tutto il sapere umano nell’unità della ragione per
permettere all’uomo di dominare la natura; dunque il suo scopo ultimo ,che è stato anche
quello di Bacone è di permettere all’uomo di dominare la natura.
Come diceva Bacone, che poi è stato ripreso da Cartesio, la natura non può essere
dominata se non obbedendole, bisogna dunque conoscrere razionalmente,
matematicamente le leggi della natura per poterla dominare.
Manca bibliografia: libri: Discurso del metodoper conocere la razone e la verità
LE FONTI PRINCIPALI
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Cartesio nei suoi vaggi da militare portava con sè la Somma Teologica di Tommaso
d’Aquino e le Disputazioni metafisiche di Suarez.
Per queste due questioni fondamentali, quella degli universali e la separazione tra la
filosofia e teologia, Cartesio è chiaramente nominalista e quindi l’influsso di Occam è molto
chiaro.
L’influsso di Occam si vede anche nel volontarismo cartesiano che è molto forte;
per Cartesio la volontà ha un’ampiezza infinita al di là dell’intelligenza, c’è un volontarismo
cartesiano che è rapportato a Dio, cioè la volontà di Dio potrebbe cambiare addirittura lo
stesso principio di non-contraddizione.
Se Cartesio apprezza molto Cusano, invece disprezza apertamente sia Bruno che
Campanella (1568-1639) quest’ultimo annuncia alcune delle tesi cartesiane, come la
conoscenza primordiale dell’anima da se stessa o l’innatismo; è vero, però, che questi temi
appartengono all’agostinismo.
Dal punto di vista scientifico è chiaro l’influsso di Bacone e di Galilei che sono, in
qualche modo, al di là del Rinascimento. L’influsso di Bacone sarà profondo per le
preoccupazioni di metodo, il disegno di un’Instauratio Magna a carattere filosofico e anche
lo scopo pratico della conoscenza per dominare la natura.
Però, Cartesio da a questa sua ricerca una forma matematica che non è presente in
Bacone, ma che è presente in Galilei.
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Dunque la critica cartesiana è radicata nella metafisica vera e propria, questo non è il
caso di Galilei, perchè per lui la natura stessa è scritta in caratteri matematici, quindi basta
conoscere l’alfabeto e subito si può conoscere il disegno di Dio, quindi in Gallei non c’è
posto per una vera metafisica, invece per Cartesio sì; Galilei è infatti uno scienziato
geniale, ma non è per niente un filosofo geniale.
Tutto incomincia dal dubbio metodico. Sia nel “Discorso sul metodo” sia nelle
“Meditazioni” cartesio che vuole fare à rasa di ogni certezza previa, mette in opera un
dubbio metodico, sistematico, rivolto al sapere, alla certezza acquisita per vedere se
contengono qualche verità; si rifà così, generalizzando, al progetto di Agostino, che
all’inizio del II libro “De libero arbitrio” dice “anche se noi sappiamo con la fede che Dio
esiste, non lo sappiamo però, con la ragione allora “cerchiamo come se tutto fosse
incerto”: questa è l’espressione stessa del dubbio metodico.
Questo era tutto chiaro nel dialogo di Agostino, e intende costruire su questo, tutta
la propria filosofia, non soltanto la prova di Dio, come voleva fare Agostino anche se
vedremo che la prova di Dio è centrale nel pensiero di Cartesio.
Dunque Cartesio accentua al massimo il dubbio che diviene anche iperbolico per
rafforzare la certezza che cerca.
Cartesio mette le percezioni sensibili sullo stesso piano delle illusioni, poichè a volte
ci inganniamo su di esse.
È chiaro che vuole radicare la metafisica in questo fondamento incrollabile che sta
cercando con il dubbio metodico; la metafisica deve servire a radicare le scienze e le
scienze a fondare le tecniche e le tecniche devono servire a dominare la natura.
Il risultato più immediato di questo dubbio metodico, che è la prima verità certa di
Cartesio, è il cogito ergo sum che è il punto fisso, cercato dal dubbio metodico e che esce
dal dubbio stesso.
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Cartesio riprende l’argomento agostiniano: il dubbio stesso implica la certezza di
colui che dubita; chi dubita esiste e non ci si può sbagliare sulla propria esistenza,
senza essere.
Dice Cartesio nel Discorso sul metodo, al momento stesso in cui voleva pensare che
tutto era falso: “subito dopo, però,mi accorsi che mentre volevo pensare che tutto fosse
falso, era necessario che io fossi qualcosa e notando che questa verità “io penso dunque
sono” era così salda e certa che tutte le più stravaganti supposizioni degli scettici non
avrebbero potuto smuoverla, pensai che avrei potuto accetterla senza timore come primo
principio della filosofia che andavo cercando”.
Arriva così al punto fisso, che sarà poi ripreso nella seconda Meditazione.
Dunque, senza dubbio sono, esisto, visto che penso e dubito, ma che cosa sono? Si chiede
Cartesio.
A questo punto Cartesio introduce una radicale distinzione tra l’io pensante, il
cogito che è l’anima che è assolutamente sicura e tutto il resto , compreso il proprio
corpo, che rimane ancora dubbio, incerto.
Cartesio, quindi, dice di essere sicuro del proprio pensiero, ma non può essere così
sicuro del proprio corpo che potrebbe essere anche un sogno. In Agostino c’era il triplice
punto di partenza che era critico e realista, perchè una volta che nel dialogo , (invece
Cartesio è tutto solo, parla con se stesso), viene accertata l’esistenza certa del soggetto,
era un’esistenza molto realista “tu sei, tu vivi e tu capisci” invece in Cartesio il punto di
partenza è ridotto al pensiero puro.
Cartesio nella IV parte del Discorso continua dicendo “Da ciò conobbi di essere una
sostanza, la cui essenza tutta non sta che nel pensare; e che per essere non ha necessità
di luogo alcuno, nè dipende da alcuna cosa materiale; in tal modo questo “io” cioè l’anima
per cui sono ciò che sono, è assolutamente dstinta dal corpo”.
L’essenza del cogito è: “Sono una sotanza, la cui essenza sta solo nel
pensare”.
Dunque abbiamo un punto di partenza che si pone in modo critico e non più realista,
come in Agostino; si riduce all’io pensante, fatta astrazione del mondo naturale e
addirittura del proprio corpo.
Quindi qualsiasi sia la fonte dell’errore: o sono io che mi sbaglio o, invece, è il genio
maligno che mi inganna, il fatto che io esisto, è certo.
Il Dubbio implica il pensiero che a sua volta implica l’esistenza, questa è un’evidenza
immediata.
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La proprosizione cogito ergo sum (penso, sono) è un’intuizione necessaria,
immediatamente evidente non è per niente una conclusione di un ragionamento che non
sarebbe valido, perchè non è ancora comprovato, visto il dubbio metodico stesso.
Cartesio, come tutti i grandi filosofi, (Aristotele, Agostino, Tommaso), vuole partire
da un punto fisso che sia il vero punto di partenza della conoscenza, per Aristotele era il
principio di non-contraddizione, per Agostino era già il “cogito”.
La risposta di Cartesio è nelle idee chiare e distinte che sono nello stesso tempo
idee innate.
Già nel Discorso sul Metodo subito dopo che ha trovato la prima certezza “cogito
ergo sum” vuole generalizzare e allora dice “dopo considerai, in generale, cio che si
richiede in una proposizione perchè sia vera e certa; infatti dato che ne avevo scoperta una
che sapevo essere tale; stimai di poter sapere in che cosa consiste tale certezza”.
Cartesio sembra più preoccupato della nostra certezza della verità che non della
verità intrinseca in se stessa: lo sguardo è rivolto verso il soggetto conoscente, il suo
dubbio e la sua certezza piuttosto che verso l’oggetto della sua conoscenza.
Il problema forse più importante di tutti è che Cartesio cerca quel criterio di certezza
non nella necessità obiettiva, almeno non come fonte primaria della certezza, ma
nell’evidenza nostra, dunque soggettiva.
Nella parte quarta del Discorso, continua Cartesio: E avendo poi notato che nella
proposizione io penso dunque sono ciò che mi fa certo che non mi inganno
consiste soltanto nel fatto che intendo con gran chiarezza che per pensare
bisogna essere, pensai di poter assumere come regola generale che sono tutte
vere le nozioni che concepiamo, in modo del tutto chiaro e distinto, ma che sorge
qualche difficoltà quando si deve determinare quali sono in effetti quelle che
concepiamo distintamente”.
Il criterio, la regola generale della verità è la certezza che viene dall’evidenza delle
idee chiare e distinte: chiare cioè totalmente autotrasparenti, e distinte cioè separabili da
qualsiasi altra idea, però occorre un metodo per arrivare a quella chiarezza e distinzione.
Per Cartesio il cogito ergo sum è un’idea chiara e distinta, è quel punto fisso che
cercava, ma per sollevare il mondo gli ci vuole la leva, e la certezza che il mondo esiste
realmente, che non è un semplice sogno dell’io pensante: il rischio del solipsismo è
senz’altro reale poichè il cogito mi dà soltanto la certezza della mia propria esistenza e
anche solo della mia anima.
Tutto il resto potrebbe essere soltanto illusioni, miraggi, provocati dal genio maligno.
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Ci vuole una seconda certezza che sia altrettanto sicura, di un’altra esistenza come la
mia.
È qui che viene quello che Blondel chiama la chiave di volta di tutto il sistema
cartesiano, cioè la sua prova dell’esistenza di Dio.
Il cogito è il punto fisso, ma gli manca la leva per sollevare il mondo, e la leva sarà
appunto Dio.
Dalla sua prima certezza, Cartesio ha estratto l’unico criterio universale, di verità,
l’evidenza dell’idea chiara e distinta, tale criterio lo deve applicare ad un altro essere;
l'idea’di Dio deve essere come il cogito, un’idea chiara e distinta perfettamente evidente ad
uno sguardo attento.
Nella IV Meditazione, Cartesio dice “tuttavia, quando si presti più diligente attenzione
appar manifesto che l’esistenza non può essere separata dall’essenza di Dio più di quanto
dall’essenza del triangolo [non si possa separare] l’ampiezza dei suoi tre angoli uguali a
due retti o dall’idea di monte quella di valle; in tal modo pensare Dio (un ente
sommamente perfetto), privo dell’esistenza (cioè di qualche perfezione), è tanto
ripugnante quanto concepire un monte privo della valle. Dal fatto di non poter pensare Dio
che come esistente consegue che l’esistenza è inseparabile da Dio, e quindi che egli
esiste veramente”.
L’idea di Dio è innata, perchè noi siamo imperfetti e non possiamo creare un’idea
che ci superi completamente e quindi in qualche modo deve venire da Dio stesso.
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Una volta stabilito che Dio c’è, è Dio che garantisce tutto, compreso il cogito.
Cronologicamente è bene cominciare dal cogito, però il punto più saldo è Dio e non il
cogito.
Per uscire da questa aporia si dovrebbe passare alla realtà dell’atto di affermare,
fondando la possibilità della ritorsione aristotelica, ma questo Cartesio non lo fa.
A partire dalla prova dell’esistenza di Dio, Cartesio invece può fondare tutta la sua
metafisica, e anche le scienze della natura, poichè tra le perfezioni divine figura anche la
verità assoluta.
Dio è veritiero, non può nè ingannarsi, nè ingannare gli altri, perchè fa parte della
perfezione assoluta di Dio.
Quindi viene finalmente scartata razionalmente l’ipotesi del genio maligno, il Dio
veritiero garantisce adesso la validità delle idee chiare e distinte, quella dei ragionamenti
portati avanti con ordine e metodo, e anche quella delle nostre percezioni convergenti. Per
questa ragione, come lo crediamo spontaneamente, abbiamo un corpo, il mondo esterno
esiste e, attraverso la scienza, possiamo agire su di esso.
1. IL CRITERIO DELL’EVIDENZA
Il primo problema è il criterio stesso della verità, cioè il famoso criterio dell’evidenza
delle idee chiare e distinte.
Le prime due certezze e quindi i due punti di partenza, sui quali costruirà tutto il suo
sistema sono: il cogito e la prova dell’esistenza di Dio che è la chiave di volta del sistema
cartesiano.
Nei due casi, Cartesio riprende argomenti tradizionali, ricavati da Agostino per il
cogito e da Anselmo soprattutto per l’argomento ontologico, ma è chiaro che alla fine del
doppio punto di partenza costruisce una filosofia del tutto particolare in una direzione
soggettiva.
Qui il paradosso è profondo: cartesio cerca una certezza realista, su cui impiantare
saldamente le scienze e poi le tecniche per dominare il mondo, dunque cerca un risultato
pratico per l’azione, come già in qualche modo era chiaro per Bacone, prendendo per
criterio di verità, l’evidenza, che è soggettiva e quindi prepara, suo malgrado la deriva che
si potrebbe definire idealista di gran parte della filosofia moderna, che sarà sempre
centrata sull’io pensante, fino a fare praticamente scomparire tutte le realtà oggettive.
Ci troviamo qui ad un crocevia principale della filosofia moderna: Cartesio non vuole
accettare nulla se non ciò che è necessariamente certo; ma le certezze non si possono
avere con l’evidenza perchè non è un criterio universale: ciò che è evidente per lui, può
non esserlo per me; per Cartesio ogni uomo deve vedere chiaramente come vede lui.
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Occorre quindi un criterio obiettivo di questa necessità, ed è quello che per obiettare
contro un’intuizione necessaria, occorre utilizzarla, anche se non è un’evidenza soggettiva,
in questo modo la si conferma credendo di negarla; è il metodo della ritorsione, ad esempio
non è possibile parlare senza usare il principio di non-contraddizione, è una necessità
oggettiva e di qui può scaturire anche l’evidenza, perchè il sofista non può essere cosciente
del principio di non-contraddizione, però lo usa, e non ne può fare a meno, non è l’evidenza
che abbiamo dei fatti chiari e distinti come se fosse possibile per tutti, è il fatto che non è
possibile parlare senza usare la non-contraddizione, questa è una necessità oggettiva e di
qui può o meno scaturire un’evidenza.
Cartesio sa che c’è l’atto di conoscere, però vuole ridurre tale atto all’idea dell’atto:
cerca di identificare l’azione all’idea dell’azione, come se l’idea che noi abbiamo fosse
equivalente all’azione. Questo è falso perchè l’azione è sempre al di là dell’idea che ne
possiamo avere.
Qui forse è interessante vedere che per Cartesio la prima fonte dell’errore è la
precipitazione cioè l’eccesso della volontà sull’intelligenza; la volontà che va al di là di
quello che si capisce veramente. Questo è giusto.
Cartesio nel Discorso dice: “il primo precetto del Metodo è quello di non accettare
mai per vera nessuna cosa che non conoscessi con evidenza essere tale: evitare cioè
accuratamente la precipitazione e la prevenzione e non comprendere nei miei giudizi se
non ciò che si fosse presentato alla mia mente con tale chiarezza e distinzione da non aver
nessun motivo di metterlo in dubbio”.
Vediamo che nel criterio stesso già c’è qualcosa di contraddittorio, perchè
presuppone che possiamo vedere le cose fino in fondo; questo potrebbe essere visto come
una forma di precipitazione che non basta come criterio.
Non è veramente un criterio universale; infatti subito dopo Cartesio, per secoli, tanti
filosofi cercheranno di applicare lo stesso criterio ma con una forma sempre diversa, con un
contenuto sempre diverso.
Questo dualismo deriva dal problema precedente, perchè è dall’evidenza del cogito
chiaro e trasparente che scaturisce la differenza di natura radicale tra l’anima cioè l’io
pensante che è autotrasparente e il corpo che rimane confuso, del quale l’unica cosa chiara
e distinta è l’estensione geometrica, ma questa non fa il corpo.
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Abbiamo una sostanza perfettamente autotrasparente come l’io pensante e un’altra
che rimane completamente confusa, incerta fino a quando non c’è la garanzia divina
dell’esistenza dei corpi, in questo modo non si può evitare una separazione radicale tra
l’anima e il corpo perchè sono due nature opposte in questa concezione.
Questa conseguenza, per esempio, non veniva per niente dal cogito di S. Agostino,
perchè anche se il punto di partenza era formalmente lo stesso, in Agostino, il criterio non
era lo stesso, non era un criterio dell’evidenza, ma un criterio di necessità.
Cartesio dice che c’è un’unione di fatto, che si manifesta nell’uomo nella sua azione,
perchè per agire dobbiamo usare il nostro corpo, e anche nella conoscenza perchè
conosciamo attraverso i sensi; però Cartesio non spiega mai veramente come il corpo che è
così inferiore all’anima può veramente agire sull’anima della conoscenza, della sensazione e
nemmeno come l’anima può agire sul corpo.
L’ultimo tentativo di Cartesio per risolverlo appunto, l’ha fatto nel Trattato “le
passioni dell’anima”, dedicato alla principessa Elisabetta, diceva che c’è una piccola
ghiandola del cervello nella quale l’anima esercita le sue funzioni più particolarmente che
non nelle altre parti.
Sarebbe la ghiandola pineale che è di forma sferica, al centro del cervello, che
permette il punto di contatto, il punto di interazione tra il corpo e l’anima; questo è
puramente a priori, fisiologicamente Cartesio si è sbagliato, ma il problema dell’interazione
del pensiero con il cervello non è affatto immaginario.
Il problema è rimasto insoluto, perchè ha fatto dell’anima e del corpo due sostanze
complete che sembrano autosufficienti, non riuscendo poi a farne una vera unità
complessa, quella che costituisce l’uomo.
Questo è un problema che ritroveremo in tutta la filosofia moderna, non soltanto nel
razionalismo, ma anche all’inizio dell’empirismo.
Tutta la conoscenza viene subordinata all’agire più utilitario cioè alla possibilità
dell’uomo di dominare la natura.
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Abbiamo visto abbastanza bene come il punto più centrale della filosofia cartesiana
cioè l’esistenza stessa di Dio che è usata come un mezzo per fondare le tecniche.
Questo è un coinvolgimento incredibile: servirsi di Dio per provare che il mondo c’è e
che lo possiamo dominare con la tecnica.
In Cartesio sembra che ci sia un’inversione dei fini e dei mezzi. Tutto quello che
propone per l’uomo è buono in sè, cioè dominare la natura, fondare le scienze e le tecniche
però sono i mezzi; il fine dovrebbe essere stabilito in modo diverso.
La ragione, nel senso di Cusano, ha preso tutto il posto nella conoscenza umana, non
c’è più il posto dell’intellectus, è vero che Cartesio mantiene la fede, ma è una pura fede
senza ragione, dunque è fideismo.
C’è una giusta posizione tra il dominio puramente razionale, matematico e il dominio
della volontà.
Dunque la volontà di Dio eccede anche la propria intelligenza divina, questo viene da
Guiglielmo di Occam.
4. La filosofia separata
L’ultima aporia del cartesianesimo è la filosofia separata dalla religione e non dalle
scienze.
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È vero anche che il concetto stesso di filosofia separata come concetto, risale solo al
‘900, però i concetti fondamentali e originali sono qui, in Cartesio; se da una parte la
ragione diventa sovrana nel proprio dominio anche se è limitato, e se dall’altra parte la
religione ha il suo dominio al di fuori della ragione, allora la separazione è inevitabile.
È chiaro che il dominio della ragione non è uguale a quello della religione però non è
una separazione così radicale, perchè questo farebbe perdere sia alla ragione e sia alla
religione la loro pretesa universale, diventando settoriali.
Va bene che la ragione sia tecnica, utilitaria; ma una ragione che vuole raggiungere
la sua pienezza ha sempre un’ambizione universale e allora togliere dalla ragione il dominio
religioso vuol dire far cadere quel dominio nell’irrazionalità e nello stesso tempo si toglie
alla religione la sua pretesa di essere una spiegazione universale anche per l’esistenza.
Dunque ci saranno dei conflitti tra questi due universali, nella posterità cartesiana
una delle conseguenze sarà quella di dire che la religione è completamente fuori dalla
ragione, è irrazionale, nascerà così l’ateismo, mentre in Cartesio non c’è la minima traccia
di ateismo, però da questi presupposti può anche scaturire questo.
5. La prueba di dio
Qui c’è un paradosso importante, come fa a separare la religione dalla filosofia,
quando ha poi messo la prova di Dio al centro della sua filosofia, e che è addirittura la
chiave di volta del suo sistema?
Il problema l’ha visto Pascal, il quale ha detto che il Dio di Cartesio, è un concetto
filosofico e che non ha niente a che vedere con la religione. Questo è un grave problema,
normalmente tutto si dovrebbe unificare in Dio; infatti Pascal, nel suo Memoriale, dice che
il Dio di Abramo, di Giacobbe e di Isacco non è il Dio dei filosofi e dei sapienti.
BLAISE PASCAL
Vita e opere
Nei primi anni di vita vive a Clermont, poi a 8 anni si trasferisce con il padre a Parigi
e poi nel 1640 a Rouen; qui scrive le prime opere matematiche, inventa la macchina
aritmetica per calcolare (la pascalina).
Nel 1647 ritorna a Parigi dove fa le sue esperienze più importanti sulla fisica del
vuoto. In quel tempo in Francia c’erano due movimenti intellettuali: i giansenisti e i gesuiti.
All’inizio Pascal era della parte dei giansenisti, infatti difende gli amici di Port-Royal
contro gli attacchi dei gesuiti, scrivendo un’opera “Les Provinciales”: i gesuiti difendevano
molto il libero arbitrio e non insistevano molto sulla grazia, mentre i giansenisti insistevano
molto sulla grazia da far svanire il libero arbitrio.
C’è poi la sua esperienza religiosa, mistica e si ritira nel silenzio, nella preghiera, ed
anche nell'obbedienza.
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C’è poi la seconda conversione avvenuta nella notte famosa del Memoriale, il 23
Novembre 1654, e qui parlerà del Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, è una vera
illuminizione, dalla quale sembra uscire il progetto di scrivere una grande apologia della
fede cristiana: i “Pensieri”, un’apologetica filosofica che mostra i limiti della ragione e il
sorpasso di essa in una nuova intelligenza che somiglia tanto all’intellectus, è l’intelligenza
del cuore.
I “Pensieri” è l’opera più bella della lingua francese.
In tutti i campi c’è la sottomissione della ragione all’esperienza e dato che Pascal è
un fisico, uno sperimentatore, in qualche modo pratica quello che insegnava Bacone, per
esempio gli esperimenti sul vuoto, li riprende, li approfondisce, però è chiaro che la via
sperimentale qui serve a superare gli a-priori sia cartesiani che aristotelici, dimostrando
che il vuoto esiste; non soltanto c’è la ragione e l’esperienza, ma si potrebbe dire che c’è
anche il cuore e lo spirito, oppure il cuore e l’intelligenza discorsiva: nel campo razionale
stesso la semplice ratio non è l’unica fonte , non può fare niente senza il cuore che è
sempre legato alla volontà.
Pascal dice che “li cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce”.
Già nell’ordine della conoscenza, Pascal dice che la ragione pura è importante di fronte ai
primi principi perchè dipende completamente da esso.
I primi principi, dice Pascal, saranno sentiti dal cuore, oltre la volontà dunque c’è la
percezione intuitiva dei principi fondamentali della conoscenza, non è la volontà di fare
come in Cartesio, non è una volontà senza intelligenza, anzi è l’intelligenza più profonda.
Non c’è soltanto il cuore e lo spirito, ma ci sono anche delle forme diverse di spirito,
per esempio ciò che Pascal chiama lo spirito di finezza e lo spirito di geometria:
secondo Pascal il metodo deve essere adatto all’oggetto proprio, Pascal che è un
grandissimo matematico, sa che il metodo geometrico vale in geometria, in matematica,
non per le questioni utili, per il destino umano, e rimprovera Cartesio di usare questo
stesso metodo geometrico per le questioni più sottili che non sono di quest’ordine.
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È chiaro che anche per Pascal la scienza, la tecnica sono molto importanti, però sono
soltanto mezzi, molto utili, subordinati all’ordine del fine, non sono il fine ultimo al quale la
prova stessa dell’esistenza di Dio è subordinata come semplice mezzo; in questo modo
Pascal supera sia l’utilitarismo cartesiano che il razionalismo.
FILOSOFIA E RELIGIONE
Pascal nutre solo disprezzo per la filosofia scolare, cioè quella di tutte le scuole,
compresa quella cartesiana.
Per quanto riguarda la religione, la ragione assume quindi per Pascal un doppio
ruolo: il primo ruolo è quello di dimostrare tramite la ragione, l’insufficienza della ragione,
cioè i suoi limiti; il secondo ruolo non più prettamente razionale, nasce dall’incontro storico
tra il pensiero filosofico e il cristianesimo: si tratta di mostrare, sempre attraverso la
ragione, la superiore coerenza di quest’ultimo che risponde profondamente alle attese
essenziali dell’uomo rischiarandolo sulla propria condizione.
LA DIALETTICA PASCALIANA
Pascal ha un suo metodo che è molto preciso, ben adatto ad ogni oggetto, ha un
carattere dialettico che in un senso si ispira a Cusano e che in un altro senso forse
prefigura la dialettica hegeliana anche se non ha in Pascal la sistematicità che avrà in
Hegel.
La tesi e l’antitesi saranno sempre molto corte, si annullano a vicenda esigendo così
un superamento su un piano superiore, che non è una pura sintesi concettuale, ma è
sempre il passaggio al di là della semplice ratio, la quale, come per Cusano, è quella che va
per antitesi (affermazione-negazione),
l’unica conciliazione possibile sarà di essere costretti a passare sul piano del cuore; lo
vedremo nel tema centrale della grandezza e miseria dell’uomo, ed anche nell’opposizione
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che fa tra pirronismo (scetticismo) e dogmatismo: le due concezioni si annullano a
vicenda.
Per Pascal, per comprendere il senso di un autore bisogna accordare i passi che
sembrano più contrari tra di loro, addirittura è una chiave di interpretazione per la Bibbia e
per il Vangelo.
Questo è il senso e il punto centrale che si sta sempre cercando, ma che non si può
trovare immediatamente, si può trovare appunto attraverso questo capovolgimento
continuo cioè partendo dall’estremità dei lati più divergenti e trovare il centro dove tutto
converge.
Per Pascal, l’unico senso centrale di tutta la Scrittura sarà l’amore, la carità: Dio è
nell’uomo. C’è dunque come una traccia della concidentia oppositorum che è divina per
Cusano, e che lo sarebbe anche per Pascal, ma l’espressione stessa non appare in Pascal,
però l’idea c’è, vediamo che c’è come una conciliazione dei contrari in Dio.
Pirronismo e dogmatismo
Le due grandi attitudini dello Spirito sono: il pirronismo o scetticismo da una parte
e il pragmatismo dall’altra.
A questo proposito Pascal dice: “ecco la guerra aperta tra gli uomini nella quale
ognuno deve scegliere e schierarsi necessariamente o per il dogmatismo o per il
pirronismo. Infatti chi pensasse di restare neutrale sarebbe un pirroniano per eccellenza”.
Se la neutralità è impossibile rimane comunque una terza via, che Pascal non
esplicita e che suppone il sorpasso della semplice ratio, che rimane impotente, chiusa nei
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suoi paradossi: alla ragione semplice subentra la conoscenza del cuore (Intellectus), e alla
conoscenza del cuore che Pascal collega la certezza, e la conoscenza dei primi principi,
fondamenti di ogni conoscenza, che sono invincibili di fronte al pirronismo; i primi principi
sono findamentali per poter permettere alla ragione di funzionare normalmente, si
impongono da se stessi, sono conosciuti non dalla ragione ma dal cuore, cioè dall’intuito.
A questo proposito Pascal dice: “ Conosciamo la verità non solo con la ragione, ma
anche col cuore, ed è questo secondo modo che conosciamo i primi principi, e inutilmente il
ragionamento, che non vi ha parte, s’industria di combatterli. I pirroniani, che hanno solo
questo scopo, vi si affaticano inutilmente, infatti la conoscenza dei primi principi è più salda
di qualunque altra che viene dai nostri ragionamenti. E proprio su tali conoscenze del cuore
e dell’istinto la ragione deve appoggiarsi e su di esse fondare tutto il suo ragionamento”.
Questo sapere originario che precede per intuito, conoscenza immediata, originaria,
previa di ogni ragionemento che potrebbe essere giustificato attaverso la ritorsione.
È così si esce dall’ordine prettamente razionale, visto che c’è qualcosa che precede la
ragione e che gli permette di funzionare normalmente.
Digressione e convergenza
Pascal intende nei Pensieri segire quello che chiama “l’ordine delle cose” che sarebbe
quello di S.Paolo e di S.Agostino, non quello di Cartesio. Pascal dice: “questo ordine
consiste, principalmente nella digressione su ciascun punto che viene rapportato al fine,
per mostrarlo presente ovunque”.
Pascal dice che se vogliamo vedere direttamente il centro, che è poco percettibile,
non vedremo nulla, invece se guardiamo un pò accanto, deviamo lo sguardo, vedremo
tutto, si deve fare questa digressione.
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Se non ci si colloca in questo centro invisibile, seguendo il movimento che Pascal
vuole imporre al pensiero, allora si può andare in ogni direzione, si può infatti dire che
Pascal è un pirroviano, un pre-marxista, qualsiasi cosa e cio è assurdo.
Il metodo dell’immanenza
Si tratta di partire da tutto ciò che è immanente all’uomo, per mostrare quello che,
nell’uomo, supera l’uomo e lo apre, dall’interno, alla verità trascendente; infatti, questo
metodo di immanenza è senz’altro agli antipodi dell’immanentismo chiuso su se stesso, non
è una dottrina di immanenza, ma è un metodo di immanenza: partire dall’immanenza e
aprire così l’uomo a ciò che lo supererà.
Percorrendo l’integralità della strada umana, non si può essere riportati al centro
invisibile dove tutto tende, al cuore stesso del “paradosso dell’uomo ignorato dai
Gentili”.
“Riconoscete dunque, o superbi, che siete un paradosso per voi stessi. Umiliati,
ragione imponente; taci natura imbecille, impara che l’uomo sorpassa infinitamente
l’uomo, e impara dal tuo maestro la tua vera condizione che ignori. Ascolta Dio”.
L’antropologia di Pascal
l’aspetto più evidente dell’antropologia pascaliana sta nel fatto che manifesta quanto
l’uomo è allo stesso tempo grandezza e miseria; secondo il piano originario della sua
“Apologia”, si tratta essenzialmente della “miseria dell’uomo senza Dio” e della “grandezza
o felicità con Dio”; ma è il fondo stesso della natura umana che Pascal intende svelarci, così
la presenza o l’assenza di Dio, per Pascal, è la chiave interpretativa di questo paradosso
umano.
Ma subito dopo, dato che Pascal non è un’ottimista ingenuo, nè un pessimista come i
suoi amici giansenisti, sottolinea l’altro aspetto: la stessa consapevolezza della sua miseria
fa la grandezza dell’uomo; qui abbiamo di nuovo il capovolgimento dialettico dal pro al
contro:
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“ La grandezza dell’uomo è grande in questo: che si riconosce miserabile. Un albero
non sa di essere miserabile. – E’ dunque miseria sapersi miserabile; ma è pura grandezza il
sapere della sua miseria”.
Infatti noi non potremmo avere la consapevolezza della propria miseria, se non
sapessimo in qualche modo di essere destinati ad altro, e se non avessimo almeno il
presentimento confuso di una felicità senza limiti che è il desiderio più profondo del cuore
umano.
La grandezza della sua condizione primaria pure indebolita nell’uomo che è caduto
nel peccato originale, permane attraverso il miracolo del pensiero: attraverso il pensiero
l’uomo può esercitare la propria regalità sull’universo;
Pascal dice: “l’uomo non è una canna, la più debole della natura; ma è una canna
pensante. Non c’è bisogna che tutto l’universo s’ami per schiacciarlo: un vapore, una
goccia d’acqua basta ad ucciderlo. Ma, anche se l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe
ancor più nobile di chi lo uccide, perchè sa di morire e conosce la priorità dell’universo su di
lui; l’universo invece non ne sa niente. Tutta la nostra dignità consiste dunque nel
pensiero. È con questo che dobbiamo mobilitarci e non già con lo spazio e il tempo che non
potremmo riempire. Studiandoci dunque di pensare bene: questo è il principio della
morale.”
Quindi il pensiero fa la grandezza dell’uomo, però non sarà l’ultima tappa, e questo
lo differenzierà da Cusano; al di là del pensiero ci sarà la carità che darà il senso a tutto, o
il fine ultimo.
Il paradosso dell’uomo che costituisce l’uomo per se stesso, Pascal aggiunge, che è
ignorato dai Gentili, cioè dai pagani, ciò vuol dire che le luci della ragione naturale non
bastano per capire e per comprendere quel paradosso che siamo noi stessi.
Pascal insiste sul fatto che l’uomo è compreso tra due infiniti: l’infinitamente grande
e l’infinitamente piccolo che gli sfuggono da ogni parte. Dal punto di vista morale si può
dire che l’uomo scopre in se stesso un infinito di bene e un infinito di male: in ogni uomo
c’è il meglio e il peggio, c’è un santo e una canaglia, come lo diceva già Terenzio
nell’antichità:
“Nulla di quello che è umano mi è estraneo”.
Per Pascal solo il cristianesimo potrà affidare all’uomo la chiave di questo mistero che
l’uomo costituisce per se stesso: la miseria dell’uomo sarebbe, in chiave agostiniana quella
di un essere capace di Dio, però anche spodestato per colpa sua a causa del peccato
originale; la sua grandezza è di ricordarsi la sua condizione primaria, di essere creato ad
immagine di Dio; ma per essere nella verità è indispensabile conoscere tanto la sua miseria
che la grandezza che Dio può renderci: la conoscenza di Dio senza la conoscenza della
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propria miseria genera l’orgoglio, la conoscenza della propria miseria senza quella di Dio
genera la disperazione.
Per Pascal la nostra condizione paradossale si chiarisce solo in Cristo, perchè in lui
c’è tutto, sia la miseria dell’uomo sia la grandezza infinita di Dio.
Il paradosso dell’uomo ignorato dai Gentili si rischiara radicalmente nell’incontro storico
della religione che incarna il paradosso allo stato puro: Dio si fa uomo per salvare gli
uomini, ha assunto la condizione di schiavo per salvarci dalla miseria e dalla morte.
Per noi non ci sono idee chiare e distinte in senso cartesiano e l’esistenza di Dio in
particolare, non è per noi immediatamente evidente.
Pascal, non dimentichiamolo, è l’inventore del calcolo delle probabilità; stando alla
nostra condizione Pascal presuppone che non ci sia alcun mezzo per determinare le
probabilità presenti cioè noi non abbiamo nessun mezzo per determinare con certezza se
Dio c’è oppure no.
Allora l’interesse di giocare pro o contro Dio va legato non alle probabilità che
ignoriamo, ma all’importanza del guadagno o della perdita.
Se Dio c’è, e se scommettiamo sulla sua esistenza, il guadagno è infinito, per ipotesi; se
Dio non esiste, non abbiamo nulla da perdere, quindi da una parte posso guadagnare
l’infinito, dall’altra parte non perdo assolutamente nulla, dunque bisogna scommettere
su Dio.
Ma non basta scommettere per Dio e poi incrociare le braccia, in realtà non si tratta
di una scelta puramente teorica, poichè l’agnostico potrebbe ancora ribattere che la
scommessa in se non basta per dargli la fede, a farlo credere realmente nell’esistenza di
Dio.
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nostra condizione attuale, e che l’amore interessato è un grado necessario per giungere
finalmente attraverso la grazia, all’amore puro nella sua gratuità.
s. Bernardo nel suo trattato sull’amore di Dio indica alcuni gradi dell’amore di Dio;
primo grado: l’amore di sè per sè, è l’egoismo assoluto che non porta lontano e
quindi bisogna andare oltre, ma per fare questo bisogna servirsi di Dio.
Terzo grado: l’amore di Dio per Dio, che è la vera carità, che è un dono di Dio, è
una grazia.
Cuarto grado: l’amore di se per dio
Se la scommessa viene fatta nel modo giusto, allora si potrà capire il senso di questa
intuizione fontamentale che è quella dei tre ordini di realtà; siamo al vertice
dell’antropologia pascaliana.
Questi tre gradi sono come tre cerchi concentrici, il cerchio più esterno è quello
delle grandezze della carne, le più visibili, quelle degli imperi, del potere, della
ricchezza; il secondo cerchio è più interiore, si trovano le grandezze dello spirito, del
pensiero, propri all’uomo, è il campo dei sapienti; ma questi due primi ordini che
corrispondono più o meno all’estensione e al pensiero di Cartesio, non bastano, al centro,
c’è l’ordine della carità, della sapienza, quello dei Santi che cercano la giustizia di Dio,
cioè la perfezione dell’amore e della volontà.
Questo terzo ordine per Pascal, è soprannaturale: non ci si può accedere che con la
grazia.
C’è una distanza infinita tra un ordine e un altro; l’unica e vera superiorità è quella
della carità.
Senza l’ordine della carità tutto l’ordine del pensiero sarebbe inutile, assurdo, è la
carità che dà senso al pensiero, come il pensiero dà senso al corpo.
Al centro invisibile del triplice cerchio, infinitamente al di là della ragione, troviamo l’unico
mediatore tra Dio e gli uomini, che dà coerenza a tutto: “Gesù Cristo è l’oggetto di tutto, è
il centro a cui tutto tende. Chi lo conosce, conosce la ragione di tutte le cose”.
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NICOLAS MALEBRANCHE
Tale corrente si colloca nella posterità cristiana di Cartesio, accanto alla corrente
giansenista di Portoreale, i cui due massimi esponenti sono Arnould 1612-1694 e il grande
logico Pierre Nicole 1625-1695 che è il principale autore della grande logica di Portoreale.
E per questa ragione, Abbagnano e altri pensatori non cristiani parlano di una
scolastica cartesiana cioè ammettendo come definizione che la scolastica sarebbe usata da
tale filosofia a scopo di difendere la fede cristiana, ma questa definizione è abbastanza
discutibile; infatti suppone una scuola di pensiero molto bene organizzata come era la
scuola tomista.
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(1666); il discernimento è una separazione, vuole discernere l’uno dall’altra, perchè non c’è
nessun riflesso reciproco.
Nello stesso tempo, uno che è morto molto giovane, è Louis De La Forge (1632-
1666), che ha fatto due cose molto importanti: ha pubblicato nello stesso anno cioè nel
1666 il suo “Trattato dell’anima umana”, e due anni dopo la pubblicazione postuma, curata
da lui stesso nel 1664 “il Trattato dell’uomo” di Cartesio che era stato scritto nel 1633, ma
mai pubblicato perchè c’era stata la condanna di Galilei; nel 1664 De La Forge ne ha
estratto l’antropologia, lasciando da parte la cosmologia e ha pubblicato quella parte di
antropologia che avrà un influsso molto considerevole; infatti è questo il trattato che ha
deciso della vocazione filosofica di Malebranche.
Ha pubblicato molti libri di una certa importanza che riprendono l’insieme della
filosofia.Si puo’ riassumere cosi’l’occasionalismo di geulinex:l’unica vera causa dei
movimenti corporei come pure delle sensazioni che proviamo nell’anima ma che sembrano
che avvengono nel corpo, è Dio solo: solo Dio agisce.
Che ci sia un legame molto stretto tra la conoscenza e l’azione, è vero, ma forse l’ha
impostato in maniera sbagliata infatti nel secolo successivo Gianbattista Vico dira’: si
conosce solo quello che si fa; fra l’altro c’è un legame stretto anche tra Malebrance e
Vico.Pero’ non sappiamo,dice Geulinex,come l’anima possa agire sul corpo, ecc ecc; quindi
la mia volonta, la quale sembra seguire il movimento del mio corpo,in realta’non è che
l’occasione cioe’ la causa occasionale di una azione di Dio che agisce simultaneamente sulla
mia mente, sulla mia anima, e sul mio corpo, reciprocamente l’affezione corporea di cui
sembra seguire la mia
Questo occasionalismo di Gulinex chiaramente legato con Spinoza, sara’ poi ripreso e
sviluppato con grandissima sottigliezza da Malebranche,che intende,infatti, nello stesso
modo superare il dualismo cartesiano,il problema insoluto dell’anima e del corpo in
Cartesio.
Malebranche nacque a Parigi nel 1638 è esatto contemporaneo del re Sole Luigi
quattordicesimo (morto e nato lo stesso anno 1638-1715)
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Fu ordinato nel 1664 (anno stesso in cui viene pubblicato da La forge il trattato
dell’uomo di Cartesio) Berulle era amico personale di Cartesio,quindi era presente l’influsso
di Cartesio sull’oratorio.
La prima opera, pubblicata da Malebranche, si chiama “la ricerca della verita” del
1674-1675, e in quest’opera sembra molto vicino a Cartesio.Ma la sua opera è stata mal
interpretata, in un senso quasi esclusivamente cartesiano; nel 1678 ha pubblicato “le
chiarificazioni sulla ricerca della verita’ “ e in quest’opera prende chiaramente distanza da
Cartesio, dicendo che prende solo il metodo cartesiano per costruire una filosofia agli
antipodi di Cartesio.
Importante dal punto di vista filosofico è che Malebranche ci ha dato l’insieme del
suo sistema metafisico nei suoi famosi “Colloqui sulla metafisica” del 1688 dove si vede
molto chiaramente che il fine di Malebranche è proprio religioso,e si oppone all’utilitarismo
cartesiano e alla filosofia separata di Cartesio; infatti per Malebranche,al contrario di
Cartesio, tutta la filosofia deve servire la gloria di Dio;muore nel 1715.
Malebrance intende conciliare Agostino e Cartesio che sono le sue due fonti
essenziali,cosi’come vuole unificare la fede e la ragione laddove Cartesio le aveva separate
in una forma di “estrinsecismo”, all’apposto Mallebranche realizza in qualche modo un
“intrensecismo” (sono entrambi espressioni di Blondel) in cui la differenza tra natura e
soprannaturale rischia addirittura di svanire con l’assunzione della fede nella ragione.
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Qui in Malebranche la ratio non appare più come limitata ma piuttosto come
l’immagine adeguata dell’intelletto divino, infinito. E dice nel suo trattato della morale nel
1684 “la ragione di cui io parlo è infallibile, immutabile,incorrutibile,essa deve essere
sempre la padrona,Dio stesso la segue”.
Anche qui si cerca l’idea chiara e distinta, che è l’idea innata, immediatamente
evidente.
Però, Malebranche non ritiene, al contrario di Cartesio, che il cogito sia un’idea chiara
e distinta, manca di chiarezza e di distinzione.
Secondo Malebranche abbiamo una solo idea chiara e distinta è l’idea dell’estensione
intelligibile, come lo spazio intelligibile, che è “eterna, immensa, necessaria” e questa
estensione intelligibile appare come un attributo divino, l’unico che possiamo coglere con
evidenza.
Da cui viene la visione in Dio di tutte le cose create, Dio che appare come luogo degli
spiriti, così come lo spazio è il luogo dei corpi.
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Ora l’idea dell’essere perfetto implica la propria esistenza, Malebranche fa suo
l’argomento ontologico di Cartesio, derivato da Anselmo. Però tutto il resto rimane ancora
dubbioso per la ragione; in particolare l’esistenza stessa dell’universo materiale, che già era
una difficoltà per Cartesio, ma qui si raddoppia in qualche modo perchè c’è la sola un’idea
chiara e distinta.
Quindi, tutto ciò che esiste, come l’unione dell’anima e del corpo, è solo il frutto di un
decreto divino, eterno ed immutabile.
Il limite del razionalismo di Malebranche si trova qui, abbiamo bisogno ancora della
fede non per Dio, non per Gesù, ma per l’universo materiale, altrimenti potrebbe non
esistere, è un’ultra-cartesianesimo.
Non è più la volontà di Dio che “garantisce all’uomo la verità dei principi e delle
verità eterne, ma piuttosta le verità eterne rivelano all’uomo la volontà divina nelle sue
regole necessarie”.
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possiamo partecipare anche noi nell’idea chiara e distinta cioè nell’estensione intelligibile,
infinita e nella visione in Dio di tutte le cose.
A questa ragione divina, infinita, noi possiamo partecipare in un modo, quasi diretto,
non è più tramite il simbolismo matematico come per Galieli, qui è quasi immediato,
possiamo partecipare all’intelligenza divina tramite la visione in Dio.
Di fatti, se è Dio che fa tutto “il bene come il male” (anche se nell’ordine morale il
male sembra risultare da una resistenza della nostra natura all’azione divina), non ci resta
che consentire umilmente all’azione divina, alla necessità, direbbe Spinoza.
Malebranche intende mantenere infatti una distinzione rigorosa tra Dio e le creature,
dicendo che solo Dio agisce veramente e le creature sono puramente passive, ma come
evitare che le creature appaiono come modi passivi dell’unica Sostanza divina, che sarà la
soluzione spinozista al problema cartesiano, ci sono soltanto dei modi dell’unica Sostanza
con due attributi: l’estensione e il pensiero, e così rivolve il problema del dualismo
cartesiano; tale soluzione è puramente coerente.
C’era soltanto una via per scampare Spinoza che era tramite l’assimilazione
dell’essere creata alla pura percezione che fa svanire la realtà dei corpi; il problema allora
sarebbe che non ci sono più i corpi: questo lo farebbe cadere da Spinoza in Berkeley, dove i
corpi materiali non esistono.
Ora Malebranche ha ben visto che questo era un’altra sua tentazione, forse questo
spiega un pò la crisi finale della sua vita; il proprio pensiero, così sottile, portava quasi
inevitalbimente sia a Spinoza o Leibinz, sia Berkeley.
Sulla via dell’empirismo, non solo verso Berkeley, ma verso Hume, il quale non ha
niente di cristiano, lo porta anche la sua concezione della fisica: cioè negando la casualità
reale, efficiente di una cosa sull’altra, Malebranche prepara la via dell’empirismo più
radicale, giacchè nelle scienze, non c’è più una vera legge casuale, ma solo delle
concatenazioni irreversibili dei fenomeni, che la fisica si accontenta di registrare.
Questa sarà la soluzione di Hume, e poi del neoempirismo, fino a Karl Popper.
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SPINOZA
Vita e opere
Spinoza è nato nella comunità ebraica di Amsterdam nel 1632; i suoi antenati erano
ebrei usciti dalla Spagna per andare prima in Portogallo e poi nei Paesi Bassi, dove è nato.
Ha avuto una formazione ebraica classica, impara il Talmud, la tradizione ufficiale del
giudaismo ed anche la Cabala, che sarà una delle sue fonti principali, si prepara per anni
per diventare rabbino, ma non lo diventerà mai.
Il dottor Fraus Van Den Eude, un gesuita cartesiano, lo introduce nell’universo della
modernità completamente diverso da quello ebraico e neoplatonico che aveva finora
conosciuto.
Oltre alla scomunica ha una situazione familiare alquanto drammatica: aveva sei
anni quando gli muore la madre (la stessa situazione di Cartesio e Pascal), nel 1654 gli
muore anche il padre, a causa di questo si era avventurato nel cemmercio con il fratello,
ma un commercio con un decreto di scomunica era impossibili.
Spinoza condurrà una vita ritirata e molto semplice e povera, però mai nella miseria.
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Sappiamo cha ha fatto l’ottico, aveva un sapere anche nelle nmani: le mani e la
mente sono sempre legate e sono molto importanti anche per la sua dottrina.
Non volle mai insegnare pubblicamente, avrà qualche discepolo a titolo privato.
La sua prima opera è del 1658-1660 il “Tractatus brevis de Deo et Homine eiusque
felicitate”, nel 1661 scrive il “Tractatus de intellectus emendatione”; è un trattato sulla
riforma dell’intelletto, rimasto incompiuto e pubblicato postumo, è importante per capire la
sua epistemologia; nel 1663 Spinoza pubblica l’unica opera sotto il suo nome che si chiama
“Renati des Cartes Principia Philosophiae, Cogitata metaphisica” quest’ultima è
un’appendice personale cioè i principi metafisici che sono completamente opposti a quelli di
Cartesio.
Nel 1670 scrive per un suo amico Jau de Witt, primo ministro repubblicano di Paesi
Bassi, il “Tractatus theologico politicus” Trattato di grandissimo rilievo, dove c’è tutta la
concezione politica di Spinoza molto influenzato da Hobbes e da Macchiavelli; la politica di
Spinoza è democratica-repubblicana, separata dalla teologia e dalla religione.
Nel 1677 scrive il “Tractatus politicus” che è rimasto incompiuto a causa della sua
morte avvenuta il 21.02.1677 per tubercolosi a l’Aia, in Olanda.
Le fonti principali
Le fonti principali sono ben determinate e si possono unire in due gruppi: da una
parte l’ispirazione fondamentale che verrà dalla sua formazione rabbinica, la cui origine
essenziale è Filone d’Alessandria e Plotino (neoplatonismo ebraico); l’altra fonte essenziale
sarà il pensiero moderno soprattutto il metodo cartesiano e Hobbes.
Durante i suoi studi ebraici c’è stata essenzialmente la Cabbala, con le sue riflessioni
neoplatoniche sull’unità divina del mondo, qui si trova per la prima volta l’influsso
determinante di Plotino e di Filone d’Alessandria.
L’opera maggiore della Cabbala è il “Libro dello splendore” in cui si possono scoprire
alcune tesi fondamentali dell’Ethica: “non ci sono due sostanze dallo stesso attributo”; “A
rigore, c’è solo una sostanza con proprietà infinite”; “ questa sostanza si determina
secondo una pluralità di essenze finite, che ne sono solo le modifiche”; “ tutto è uno in Dio”
(neoplatonismo mistico, ebraico).
Ci sono poi i filosofi ebrei del Medioevo, come Gabirol con la sua opera “Fonte di vita”
e poi Maimonide con la “Guida dei perplessi”; entrambi combattono ufficialmente il
neoplatonismo, ma ne sono molto influenzati e hanno contribuito a diffonderlo.
Ci sono poi altri teologi ebrei posteriori che riprendono l’idea dell’estensione infinita e
di natura divina; da questa fonte potrebbe venire l’idea dell’estensione infinita, eterna, di
cui Spinoza farà un attributo divino; ma si trova già, in un senso in Filone: “Dio, il luogo di
tutte le cose”.
Poi c’è il neoplatonismo del Rinascimento con Cusano che ha influenzato Spinoza
tramite Bruno, non solo per l’infinità del mondo, ma per il rapporto tra la natura naturans
e natura naturata che sarà un tema essenziale in Spinoza.
Cartesio e Hobbes
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Gli influssi più determinanti, dopo la sua formazione ebraica, vengono in parte da
Thomas Hobbes per la sua teoria politica – e anche, tramite Hobbes, da Macchiavelli, lodato
da Spinoza -, ma soprattutto da Cartesio.
L’epistemologia
L’epistemologia si trova in gran parte nel “Trattato sulla riforma dell’intelletto” e nella
stessa Ethica dove viene esposta una delle teorie più famose di Spinoza: i tre generi di
conoscenza.
Questo ci fa pensare a Cartesio, però, non si tratta qui di dominare la natura, anzi di
raggiungere, per quanto è possibile, la perfezione stessa della Natura originaria, cioè Dio.
Spinoza aggiunge: “Attingere alla più grande perfezione umana, cioè alla conoscenza
dell’unione che lo spirito ha con tutta la natura”; è la conoscenza di questa unione che fa la
perfezione umana.
Lo scopo di Spinoza è più vicino a Plotino che non a Cartesio. Ciò implica la
realizzazione non soltanto personale, ma anche sociale, politica, della beatitudine, che per
Spinoza non è una cosa di uno, ma è tutta la natura umana cioè di tutta l’umanità.
Tutto questo richiede non solo una metafisica o un’etica, ma anche una filosofia
politica, una dottrina dell’educazione, e anche scienze mediche e meccaniche, ma solo
come mezzi per aiutare l’uomo a raggiungere il suo fine.
Ora questo richiede anzitutto una vera e propria riforma dell’intelletto, che risulta
essere lo scopo immediato dell’Ethica: tramite questa riforma l’uomo potrà accedere alla
vera libertà e partecipare in qualche modo all’eternità divina, quindi è un cammino
dell’umanità dalla schiavitù alla libertà.
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Ma è chiaro che il metodo sia dell’uno che dell’altro non crea la verità, deve soltanto
riconoscerla, coglierla, discernela, perchè è già presente nel nostro spirito.
Queste idee vere sono in noi insieme ad altre idee false e quindi bisogna distinguerle.
La percezione sensibile di per sè, quando non è entrata ancora la ragione, rimane
indistinta, incompleta, e il dominio della fantasia è sempre contrapposta a quella della
ragione.
Per di più questo dominio della “conoscenza del primo genere” della sensazione e
della fantasia è anche il dominio delle passioni umane, per questa è il dominio della
schiavitù umana che rappresenta la condizione iniziale dell’uomo, da cui dovrà liberarsi
tramite il metodo.
Fino a quando rimane la deduzione anche precisissima, matematica, noi siamo nel
secondo genere, invece la conoscenza del terzo genere chiede una deduzione immediata
della totalità, quasi mistica.
Per arrivarci, bisogna purificare lo sguardo dell’intelletto, per giungere a questa vista
beatificante, che ci assicura l’unica libertà possibile per noi.
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La conoscenza delle idee vere.
Un’idea vera è , per Spinoza, un’idea chiara e ditinta che esprime adeguatamente
la realtà; si coglie nella conoscenza del II o III genere.
Dunque l’evidenza delle idee vere, nella loro dipendenza immediata dall’idea di Dio,
corrisponde in ultima analisi alla conoscenza del III genere, sub quadam specie
aeternitatis.
Però il criterio decisivo a livello discorsivo (II genere) sarà proprio la possibilità di
dedurre razionalmente,more geometrico, cioè in modo geometrico, queste idee vere,
dall’idea di Dio: ciò è tutto l’oggetto dell’Ethica; questa deduzione elimina tutte le idee
confuse o fittizie.
L’errore
Ma per Spinoza, l’errore non è, come per Cartesio, il risultato della volontà che
eccede la propria intelligenza; per Spinoza la volontà che eccede la propria intelligenza è
un’idea confusa ed è completamente irrazionale, quindi egli rifiuta chiaramente questo
volontarismo cartesiano.
Invece ogni idea che viene dalla ragione è necessariamente chiara e distinta e
dunque vera, di conseguenza tutta la conoscenza è vera.
Fuori dall’idea chiara e distinta non c’è che confusione e fonte di ogni errore.
Quindi la ragione è infinita, è la ragione stessa di Dio alla quale possiamo partecipare
nel secondo e soprattutto nel terzo genere di conoscenza, tramite la riforma dell’intelletto e
accedendo così alla vera libertà nell’amore di Dio che sarà il grado supremo.
Metafisica
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La metafisica di Spinoza viene esposta essenzialmente nelle due prime parti
dell’Ethica, il titolo indica la prospettiva fondamentale dell’opera, l’etica vera e propria sarà
nelle ultime parti dell’opera.
a) Definizioni fondamentali
La prima parte “Dio”, comincia, con 8 definizioni e 7 assiomi, evidenti per Spinoza, solo
tre delle definizioni saranno seguite, ma non precedute, da qualche definizione per chiarire
il senso, però sembrano tutte le definizioni chiare e distinte, cioè si impongono dalla prorpia
evidenza e qui troviamo dall’inizio il criterio cartesiano “dell’evidenza delle idee chiare e
distinte”.
Quindi possiamo veramente dire che accettare i punti di partenza cioè le 8 definizioni e i
7 assiomi, significa accettare tutto lo spinozismo, visto che tutto segue con un rigore
perfetto, non c’è la minima incoerenza e per questo la posizione di partenza è
fondamentale.
1. Per causa di sè intendo ciò, la cui essenza implica l’esistenza: ossia ciò, la cui natura
non si può concepire se non esistente.
Questa definizione sta a significare che quello che è causa di sè, non è causato da
nessun altro, ha in sè tutte le ragioni necessarie alla propria esistenza.
2. Dicesi nel suo genere finita, quella cosa che può essere delimitata da un’altra della
medesima natura.
Quindi diciamo che un corpo è finito perchè ne concepiamo sempre un altro più grande,
così pure il pensiero è limitato da un altro pensiero, ma nè un corpo può essere limitato da
un pensiero, nè un pensiero da un corpo.
3. Per sostanza intendo ciò, che è in sè, ed è concepito per sè: vale a dire ciò, il cui
concetto non ha bisogno del concetto di un’altra cosa, da cui debba essere formato.
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Questa è la definizione classica della sostanza, che è soggetta a tutti gli accidenti ed
esiste in sè e per sè.
4. Per attributo intendo ciò, che l’intelletto percepisce della sostanza, come costituente la
sua essenza
5. Per modo intendo le affezioni della sostanza, ossia ciò, che è in atto, per cui anche
viene concepito.
6. Per Dio intendo l’ente assolutamente infinito, cioè la sostanza che consta di infiniti
attributi, di cui ognuno esprime eterna e infinita essenza.
Dio, nella definizione classica, è la perfezione assoluta; però Spinoza aggiunge qualcosa
di più, cioè Dio è assoluto non soltanto nel suo genere, ma è assolutamente infinito cioè a
Lui appartiene tutto ciò che esprime essenza e non contiene alcuna negazione.
7. Si dice libera quella cosa, che esiste per la sola necessità della sua natura, e si
determina ad agire da sè sola: mentre necessaria, o piuttosto coatta, quella che è
determinata da alro ad esistere ed operare secondo una certa e detrminata ragione.
Qui cogliamo il concetto essenziale di libertà vera, cioè è libero quello che esiste
secondo la propria natura, essere libero significa essere se stesso, senza essere necessitato
da qualsiasi altra cosa.
2. Ciò, che non si può concepire per altro, deve concepirsi per sè
4. Cose che non hanno niente in comune fra loro, neanche possono intendersi l’una per
mezzo dell’altra, ossia il concetto dell’una implica il concetto dell’altra.
Significa, se per ipotesi, le cose non hanno niente in comune fra loro, è chiaro che non
possono essere complete l’una con l’altra.
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E’ la definizione più classica che ci sia della verità, cioè l’idea vera corrisponde all’oggetto
che si pensa
7. L’essenza di tutto ciò, che si può concepire come non esistente, non implica l’essenza.
Vediamo che non si patre più dal cogito cartesiano e dalla sua soggettività, ma da
definizioni generali, astratte, universali, come la definizione della causa sui che è Dio,
seguita da quella contrastante delle cose finite, poi della sostanza ecc.
9. Dunque fuori di Dio, non c’è niente “Prop. 15 Tutto ciò che è, è in Dio, e niente può
essere nè essere concepito senza Dio”.
La necessità universale
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Questa necessità, non è che un corollario inevitabile del monismo di Spinoza, visto che Dio
è l’unica sostanza, che è la causa universale e immanente, e logicamente la ragione
intellegibile di tutto ciò che esiste, non c’è posto per l’universo per nessuna contigenza o a
fortiori, indeterminazione.
1. In Dio, in quanto natura naturans, natura attiva o creatrice, c’è libertà e necessità:
“Dio agisce per le sole legge della sua natura divina, e non costretto da alcuno”
, dunque è libero. Ne segue il corrolario 2: “Solo è causa libera, perchè solo Dio esiste
per la sola necessità della sua natura e per la sola necessità della sua natura agisce
perchè solo Dio è sostanza.
2. Nelle cose finite, invece, in quanto natura naturata, passiva, cioè nei modi della
sostanza, che siamo noi, c’è sola necessità, senza libertà, lameno all’inizio, però l’Ethica
sarà un cammino verso la libertà: seguono passivamente dalla casualità divina. “Dalla
necessità della divina natura devono seguire infinite cose in infiniti modi (cioè tutte
quelle cose che possono cadere sotto un intelletto infinito)”.
3. Dunque la passività delle cose finite impedisce ogni libertà, mentre l’attività divina,
secondo le proprie leggi, è identica alla sua libertà.
Ma non c’è libertà di scelta , neanche in Dio; dunque non esiste la contigenza nella natura,
tutto è necessario. Prop29: “ Nella natura delle cose non c’è niente di contigente; ma tutte
le cose sono determinate dalla necessità della divina natura ad esistere e ad operare in
qualche modo”.
4. Il monismo spinozista corrisponde dunque ad un determinismo assoluto. La stretta
necessità della creazione, così come esiste de facto, è cheiaramente espressa nella
proposizione 33: “le cose non poterono essere prodotte da Dio in nessun’altra maniera,
nè in un ordine diverso da come sono state prodotte.” Ne segue anche la scolio 2: “le
cose sono state prodotte da Dio con la massima perfezione, perchè sono derivate di
necessità da una data natura perfettissima.” Troviamo qui, col determinismo ( Abbiamo
l’espressione di un ottimismo metafisico radicale, vicino a quello di Leibniz, più tardi, o
di Malebranche, infatti concettualmente Malebranche, Spinoza e Leibniz sono molto
vicini).
Per Spinoza tutte le cose che esistono sono prodotte necessariamente da Dio, e con la
stessa necessità che ci fa dedurre nell’Etica, dalla nozione di Dio, tutto il sistema della
natura fino alla nostra esistenza, con la massima perfezione concepibile: nel quadro del
realismo metafisico delle idee vere, il determinismo assoluto esprime nella realtà la stessa
necessità logica che è quella di tutto il sistema dell’Etica, more geometrico. (il
determinismo assoluto di Spinoza: tutto è assolutamente determinato da Dio e niente può
essere diverso da quello che è).
C’è una corrispondenza rigorosa tra i modi dei due attributi, cioè l’estensione e il
pensiero.
Il parallelismo dei modi dei due attributi viene dal fatto che la sostanza è una e
indivisibile e “l’emanazione modale” e la modificazione è necassaria; (la sostanza rimane
sempre la stessa ma produce vari modi). L’emanazione modale riflette la natura stessa
della sostanza, secondo ciascun attributo.
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Tra le infinità degli attributi di Dio, noi possiamo conoscerne solo due: l’estensione e
il pensiero. Il parallelismo stretto di questi due attributi sarà la soluzione spinozista,
rigorosa, del dualismo dell’anima e del corpo di Cartesio.
Ecco la soluzione del problema cartesiano, ci sono due attributi essenziali nell’unica
sostanza divina.
Così si può capire il senso profondo della famosa prop. 7 della II parte: L’ordine e la
connessione delle idee è identico all’ordine e alla connessione delle cose”.
A questo Spinoza aggiunge questo corollario: “Ne segue, che la potenza di pensare
di Dio è uguale alla sua potenza attuale di agire. Ciò significa, che tutto quello che segue
formalmente dall’infinita natura di Dio segue obiettivamente in Dio dall’idea di Dio nello
stesso ordine e nella stessa connessione”.
Dall’unica sostanza divina, che costituisce la natura naturans, coi suoi attributi, di
cui solo due sono conoscibili per noi, emanano successivamente i vari modi secondo
ciascun attributo, che costituiscono la natura naturata.
Emanano, in primo luogo, i modi infiniti immediati, che sono l’espressione di Dio,
come natura naturans di ciascun attributo: da una parte “l’intelletto infinito” che
comprende tutti gli intelletti possibili e dall’altra la “quantità infinita del riposo e del
movimento”.
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La sostanza, che si è così “modificata”, produce allora i modi infiniti mediati che
appartengono alla natura naturata, sono gli archetipi dei modi finiti nella loro
concatenazione infinita, illimitata, rimanendo sempre secondo un dato attributo cioè sia
nell’ordine del pensiero che in quello dell’estensione.
È chiaro, che in virtù degli assiomi originari, ogni casualità necessariamente si colloca
all’interno di ciascuna serie e non può andare da un attributo ad un altro cioè o rimane
interno al pensiero, oppure all’interno dell’estensione, per poi risalire ultimamente a Dio,
secondo questo o quell’altro attributo.
L’anima e il corpo
C’è, dunque, una corrispondenza naturale tra il corpo umano e la realtà formale di
un’idea.
L’idea deve essere rappresentativa del suo oggetto, cioè il corpo, come enunciato
dalla prop, 13 “L’oggetto dell’idea costituente la mente umana è il corpo, ossia un certo
modo, esistente in atto, dell’estensione; e nient’altro”.
Dunque l’idea originaria che costituisce la mia anima è l’idea del corpo, da
qui Spinoza trae subito il Corollario: “Ne segue che l’uomo consta di mente e di corpo, e
che il corpo umano, così come lo sentiamo, esiste”.
Non c’è bisogno, come per Cartesio, di invocare la veracità divina, perchè il corpo
non è un’illusione, ma il corpo come lo sentiamo esiste, perchè è il modo
dell’estensione, che corrisponde all’idea che abbiamo.
La diversità di perfezione delle varie anime riflette soltanto la diversità correlativa dei
corpi dei quali sono le idee rappresentative, perchè non esiste un corpo che non abbia la
sua idea nell’intelletto divino.
D’altronde, c’è ancora in noi l’idea riflessa, l’idea dell’idea, l’idea dell’anima o l’idea
che costituisce lo spirito, l’idea mentis, cioè la conoscenza divina della nostra anima che è
l’idea corporis.
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Tramite l’idea mentis, noi possiamo accedere alla conoscenza del secondo e terzo
genere e arrivare a Dio.
Ciascuna di queste due idee, cioè l’idea corporis e l’idea mentis non conosce il
proprio oggetto se non tramite le idee degli affetti del corpo nel caso dell’idea corporis, e
tramite le idee degli affetti dell’anima nel caso dell’idea mentis.
Questo non rappresenta che la condizione iniziale della schiavitù umana, dalla quale
l’Ethica intende liberarci.
La terza parte dell’Ethica comincia con una prefazione molto breve, dove indica lo scopo
di trattare matematicamente le passioni, gli affetti umani per poter dopo sviluppare il
cammino verso la libertà umana.
Dopo questa breve prefazione, vengono elencate tre nuove definizioni, seguite da due
brevi postulati.
Definizioni:
1) Chiamo causa edeguata quella, il cui effetto può essere percepito chiaramente e
distintamente mediante essa, e dico invece inadeguata, o parziale, quella, il cui effetto
non può essere inteso mediante essa sola.
2) Dico che noi agiamo, quando avviene, in noi o fuori di noi, qualcosa di cui siamo causa
adeguata, cioè quando segue dalla nostra qualcosa in noi o fuori di noi, che può essere
inteso chiaramente e distintamente soltanto per mezzo di essa. Dico viceversa che noi
patiamo, quando in noi avviene qualcosa, o qualcosa segue dalla nostra natura, di cui
noi non siamo se non causa parziale.
3) Per affetto intendo la affezioni del corpo, da cui la potenza di agire del corpo stesso
viene aumentata o diminuita, aiutata o impedita, e insieme le idee di queste affezioni.
Se perciò possiamo essere la causa adeguata di qualcuna di queste affezioni, allora
intendo per affetto un’azione, altrimenti una passione.
1) Il corpo umano può essere affetto in molti modi, dai quali la sua potenza di agire viene
aumentata o diminuita e anche in altri modi che non rendono la sua potenza di agire nè
maggiore, nè minore
Dunque il corpo umano può essere affetto in tanti modi, sia positivi (aumentano la sua
potenza di agire), sia negativi (che la diminuiscono) sia neutrali (che non la cambiano).
Spinoza dice nella prop. 3: “le azioni della mente sorgono dalle sole idee adeguate;
le passioni dipendono invece dalle sole inadeguate”.
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Alla radice degli affetti, c’è quello che Spinoza chiama il conatus cioè lo “sforzo” ontologico
di ogni individuo “per perseverare nel suo essere” cioè basta che sia per avere quel
conatus: questa è una nozione fondamentale, che ritoveremo in Leibniz, con un senso un
pò modificato.
La nozione del conatus appare nella prop. 6 sotto una forma verbale, poi nella prop.
7 sotto forma di sostantivo.
Prop 6 dice: “ogni cosa, per quanto è in essa, si sforza (conatur) di perseverare nel
suo essere” – La Prop.7 dice: “Lo sforzo (conatus), col quale ogni cosa tende a
perseverare nel suo essere, non è altro che l’essenza attuale della cosa stessa”.
Il conatus che definisce l’essenza di ogni cosa finita, creata, si specifica per noi
uomini in volontà e in appettito, come precisa lo scolio della prop. 9: “Questo sforzo, se
lo si riferisce alla sola mente, si chiama volontà; se invece lo si riferisce insieme alla
mente e al corpo, si chiama appettito, che dunque non è altro che la stessa essenza
dell’uomo, dalla natura della quale seguono necessariamente le cose che servono alla sua
conservazione; e quindi l’uomo è determinato a farle”.
Così la volontà, per Spinoza, non è una cosa misteriosa come per Cartesio, ma è il
conatus della mente; mentre l’appetito è quello del “composto” umano (anima+corpo).
Qui non c’è posto, almeno all’inizio, per nessuna libertà di scelta.
Inoltre Spinoza dice che “il desiderio (cupiditas) è l’appetito con la consapevolezza di
esso”, da ciò segue la confutazione radicale del volontarismo cartesiano, infatti secondo la
prop. 7 “la volontà, conatus della mente, è la sua essenza attuale, la quale consiste
anche nell’intelletto” proposizione che avevamo già ritrovato nella seconda parte
dell’Ethica , prima che venisse sviluppata la teoria degli affetti, quando diceva che “volontà
e intelletto sono una sola e medesima cosa”.
Alla fine della terza parte, dopo le 48 definizioni di tutti gli affetti particolari
dell’uomo, Spinoza ci dà la definizione generale degli affetti:
“L’affetto, che viene detto passività dell’anima, è un’idea confusa, con cui la mente
afferma una forza di esistere del suo corpo, o di qualche parte di esso, maggiore o minore
di prima, e data la quale, la mente stessa è determinata a pensare a una cosa più che ad
un’altra”.
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C’è una polarità degli affetti: se tutti esprimono una passività fondamentale
dell’anima (conoscenza del I genere) , però gli affetti positivi, sempre accompagnati dalla
“letizia” , producono un aumento della vis existendi (forza vitale) del corpo, dunque
dell’azione, con una più grande chiarezza della sua idea nell’anima; invece gli affetti
“negativi”, sempre accompagnati dalla “tristezza”, aumentano la nostra passività, dunque
indeboliscono il corpo e diminuiscono la chiarezza delle idee, di conseguenza diventano
sempre più confuse.
Nella dinamica degli affetti, l’immaginazione ha un ruolo speciale: “la mente, per
qunato può, si sforza (conatur) di immaginare quelle cose che aumentano o aiutano la
potenza d’agire del corpo”.
La parola “utile” indica quello che ci porta ad aumentare la perfezione del nostro
essere, con più chiarezza e distinzione delle idee.
Definizione 1): “Intenderò per bene ciò che sappiamo con certezza che ci è utile”.
Tutto questo segue logicamente dall’analisi degli affetti realizzata nella terza parte.
Adesso partiamo alla quinta parte dell’Ethica, che tratta lo scopo dell’Ethica e di tutto
lo sforzo filosofico di Spinoza.
L’ultima parte dell’Ethica comincia con una prefazione dove Spinoza indica il suo
oggetto, “che riguarda il modo o la via che conduce alla libertà”.
Tratterà così “della potenza della ragione, mostrando che cosa la ragione stessa possa
sugli effetti, e poi che cosa sia la libertà della mente, cioè la beatitudine”.
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In seguito, Spinoza respinge la soluzione volontarista degli stoici e di Cartesio,
mostrando l’incoerenza di Cartesio, rispetto al problema dell’unione dell’anima e del corpo,
specialmente nelle Passioni dell’anima, dove viene invocata invano la così famosa “ghindola
pineale” di cui Spinoza intende denunciare l’assurdità.
Questa quinta parte però non introduce nuove definizioni, ma comporta, dopo la
prefazione due assiomi nuovi:
La nostra liberazione si farà, dunque, nella misura del nostro accesso a questo punto
di vista e si ottiene attraverso la “riforma dell’intelletto”.
Il passaggio essenziale dalla passività all’ azione, o dalla sciavitù alla libertà, è
espresso da Spinoza nella prop. 3: “un affettto che è passione, cessa di essere passione
appena ci formiami di esso un’idea chiara e distinta.” Ora questo suppone di portare ogni
cosa, specialmente gli affetti, all’idea di Dio come alla loro fonte ultima, e dunque di
riconoscere la loro stretta necessità in quanto elementi nella totalità del sistema della
natura; ciò facendo, la mente si sottrae al loro dominio in quanto cose particolari. “in
quanto la mente intende tuttu le cose come necessarie”.
La libertà umana consiste così nella conoscenza esatta, divina, della necessità
universale e si identifica con l’amore intellettuale di Dio, che ci fa condividere il punto di
vista divino.
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se stesso, non in quanto è infinito, ma in quanto può essere manifestato attraverso
l’essenza della mente umana, considerata sotto specie di eternità; ossia l’amore
intellettuale della mente per Dio è parte dell’infinito amore con cui Dio ama se stesso.”
Conclusioni
Spinoza ha costituito il primo grande sistema del razionalismo assoluto, che porta
alle ultime conseguenze i presupposti di Cartesio. Questo sistema ha un rigore e una
coerenza quasi perfetti, come la matematica della natura e particolarmente quella della
mente umana; poi è eccezionale il fatto che tale sistema viene espresso in un solo libro
formalmente perfetto: l’Etica appare eterna e necessaria, ad immagine della sostanza
spinozista che vi si riflette.
L’amore concettuale di Dio non è un puro concetto astratto, c’è invece una
dimensione mistica, amorosa, che non si lascia ridurre, anche se il metodo è tutto
geometrico.
Dio, come natura naturans, abita, come dice la Scrittura, una luce inaccessibile al
nostro intelletto limitato: la Sostanza ha un’infinità di attributi infiniti, di cui, noi
conosciamo imperfettamente solo due: il pensiero e l’estensione.
In tal modo il razionalismo assoluto di Spinoza è solo in Dio, nel suo intelletto
infinito, al quale possiamo partecipare in qualche modo attraverso il terzo genere di
conoscenza; la perfetta coerenza del sistema suppone logicamente l’infinità divina che è
infinitivamente al di là della natura naturata (è tutto il creato) e degli spiriti finiti.
La necessità razionale dello spinozismo è cosi forte e assoluta che sembra che sia
l’unico sistema della ragione è quindi tutti i filosofi dovrebbere essere spinozisti e in
questao modo la storia della filosofia si sarebbe fermata con lui. In realtà la necessità
spinozista rimane interna al sistema, se ne accettiamo i punti di partenza, che sono
evidenti e perfettamente razionali, ma non sono criticamente giustificati. Cambiando
leggermente i punti di partenza, Leibniz realizzerà un’altro grande sistema razionalista,
diverso, ma abbastanza vicino a quello di Spinoza; in seguito verrà la critica cantina, che
discuterà molto con Spinoza e poi l’idealismo assoluto, entrambe le correnti riconoscono
Spinoza come uno dei più grandi filosofi di tutti i tempi.
Leibniz
Profilo d’insieme
a) Leibniz e Spinoza
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Con Leibniz entriamo in un universo nuovo, che al primo sguardo sembra del tutto
opposto a quello di Spinoza;
Spinoza non è mai uscito dai Paesi Bassi e fa una vita del tutto ritirata, invece Leibniz è
conosciuto in tutte le corti europee e fa una vita brillante e pubblica;
Spinoza vuole una sola unica sostanza, invece Leibniz ne fa un’infinità di “monadi” di
sostanze semplici;
per Spinoza c’è un unico sistema, un unico universo possibile, il mondo necessario,
assoluto, invece Leibniz immagina parecchi sistemi, c’è un’infinità di mondi possibili tra i
quali Dio sceglie il migliore;
Spinoza scrive un’opera fondamentale l’Ethica, in cui si trova tutto, invece Leibniz scrive
tante opere diverse, parziali, frammentarie, in cui si riflette il suo sistema multiforme,
comprendendo carteggi innumerevoli con tutta l’Europa sapiente.
Entrambi sono eredi di Cartesio, però ciascuno ha realizzato una forma molto diversa
del razionalismo assoluto e pre-kantiano.
Comunque, la distanza tra i due esponenti del razionalismo assoluto prekantiano non è
forse così grande, quanto sembra; infatti i punti in comune con Spinoza sono i seguenti:
1) Come il suo predecessore, Leibniz vuole rendere ragione in modo rigoroso di tutto ciò
che esiste, in un sistema comprensivo che unifica tutto il sapere; ma più di Spinoza farà la
sintesi del pensiero occidentale che lo precede, dalla filosofia antica alle più moderne
scoperte della scienza.
2) Anche lui segue un modello matematico, ma non è più quello della geometria cartesiana,
usato da Spinoza, ma è un modello molto più sottile, dell’analisi infinitesimale da lui
stesso inventata.
3) Anche per lui un’idea parziale, particolare, separata dal tutto è sbagliata; invece nel
contesto diventa adeguata e vera, infine sostiene anche che “tutto il reale è
razionale, e tutto il razionale è reale”.
Il filosofo di Hannover
Nonostante sia nato a Lipsia nel 1646 da una famiglia luterana di origine slava,
G.W.Leibniz è conosciuto come il filosofo di Hannover, dove morì nel 1716, dopo aver
vissuto alla corte dei duchi di Brumswick, divetati grandi elettori e poi re d’Inghilterra a
partire da Giorgio I.
Dopo Pascal, è forse l’ultimo genio universale della nostra storia. A 15 anni, aveva
già letto i testi dei principali autori greci e latini, dopo di che si mise a leggere i moderni:
Cartesio, Galileo, Keplero, Bacone, ecc.
È anche un diplomatico importante; infatti sarà mandato a Parigi, dove rimarrà per
alcuni anni (1672-1676), questo è un periodo molto importante perchè non solo è in
contatto con i migliori spiriti del tempo, ma anche perchè scrive un’altra opera importante
“Confessio philosophi” (1673-1678).
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Intorno al 1676 risale la scoperta, da parte di Leibniz, del calcolo infinitesimal, cui
Newton era già pervenuto da alcuni anni: quando Leibniz ne dette notizia, nel 1684,
nacque una accesa polemica, che i seguaci di Newton aggravarono con l’accusa di plagio, e
che amareggiò gli ultimi anni della vita di Leibniz.
Oggi sappiamo con certezza che Leibniz pervenne a quella scoperta dopo, ma in
modo del tutto indipendente da Newton.
Nel 1686 scrive l’opera più importante “Il Discorso di Metafisica” che verrà pubblicata
solo due secoli dopo, e inizia uno scambio epistolare con Arnould, personaggio già
conosciuto da Cartesio, Pascal, e Malembranche.
Nel 1695 scrive il “Nuovo sistema della natura e della comunicazione delle sostanza”
in cui elabora la teoria dell’armonia prestabilita.
Nel 1700 fonda la società delle scienze di Berlino, diventando l’Accademia prussiana,
e che esiste ancora oggi: il suo scopo era quello di creare una grande organizzazione
scientifica, cui potessero partecipare gli scienziati di tutta l’Europa attraverso le loro
accademie nazionali.
Nel 1704 termina la composizione dei Nuovi saggi sull’intelletto umano, una replica
sotto forma di dialogo al Saggio sull’intelletto umano di Locke, il massimo esponente
dell’empirismo; però a causa della morte di quest’ultimo Leibniz rinuncia alla pubblicazione
della propria opera.
Nel 1710 pubblica i famosi Saggi di Teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo e
l’origine del male, il cui fine è la giustificazione della presenza del male.
Negli ultimi anni della sua vita è stato impegnato in diverse corrispondenze tra cui i
più celebri, oltre quella con Arnuold, è quella con Samuel Clarke, amico di Newton, sul
problema della spazio e del tempo; infatti Leibniz non ammetteva l’esistenza nè di uno
spazio assoluto nè di un tempo assoluto, a differenza di Clarke, perchè essendo la monade,
unica vera realtà metafisica, immateriale e unità discrete e molteplici, allora lo spazio non
può avere alcuna realtà oggettiva, perchè le monadi sono immateriali; e il tempo non è
altro che l’ordine di successione delle rappresentazioni e dei fenomeni.
Infine tenne una lunga corripondenza con Bousset, che rea il traduttore in latino
della “Teodicea” e con questo epistolario che nasce l’ultima ipotesi di Leibniz, che lo fa
passare ad un nuovo sistema almeno ipoteticamente e parzialmente: l’ipotesi del Vincolo
Sostanziale, che sarà il punto di partenza di Blondel, due secoli dopo.
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In tutti i campi, Leibniz sogna un’unificazione universale: unificazione politica
dell’Europa, in tale contesto si inserisce il programma antifrancese che Leibniz, come
diplomatico, sostenne per contenere l’aggressività politico-militare della Francia o almeno
indirizzarla lontano dalla Germania; e l’unificazione religiosa delle Chiese cristiane,
unificazione del sapere universale e della filosofia secondo il modello matematico del
calcolo integrale e differenziale di cui è l’inventore.
Similmente in Leibniz ogni elemento del suo sistema rimanda a tutti gli altri; infatti le
monadi sono come questi specchi, che rinviano tutte le percezioni possibili e tutte sono in
corrispondenza, ma ciascuna è diversa dall’altra.
Leibniz, pur essendo un genio incredibile in tutti i campi, non ha saputo conciliare i due
versanti fondamentali della sua mente, già presenti in Cartesio:
Questi due versanti antagonisti saranno presenti dappertutto in Leibniz, al punto tale
che si parla dell’architettonica disgiuntiva che sarebbe il processo sistematico di
costruire sempre delle disgiunzioni aut...aut, dando sempre due possibilità sistematiche.
In fisica, la sua tendenza realista lo porta all’analisi delle forze vive, nel cuore della
dinamica, dietro alle quali la sua inclinazione idealista lo spingerà a cercare “forze
primitive” di cui le forze vive sono derivative, sperimentali; invece le forze primitive sono
puramente ideali, intelligibili, al di là di qualsiasi fenomeno.
Farà di tutto per mantenere il parallelismo tra i due tipi di spiegazioni, ma non fino in
fondo, non riuscirà mai a unificarle completamente.
In metafisica, il razionalismo leibniziano procede in piena autonomia rispetto
all’esperienza, non ha niente di sperimentale, è solamente una concezione intelligibile: qui
il versante idealista regna sovrano, col rischio di apparire un puro gioco di concetti e di
astrazioni.
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del Legame Sostanziale, volto, verso la fine della sua vita, a riunificare il tutto su un
piano superiore.
Questo sforzo di riunificare il tutto, però, è destinato a fallire in quanto non farà che
accentuare maggiormente le divisioni irriducibili, ed rimarrà una semplice e pura ipotesi.
Ciò spiega quella specie di fascino che esercita su tanti scienziati nonostante la sua
proverbiale oscurità.
Cartesio, infatti, sosteneva che la legge fondamentale della fisica era la conservazione
della quantità di movimento (massa x velocità) e non teneva conto del carattere
vettoriale di questa legge; infatti Cartesio pensava che con la sua legge scalare di salvare
la libertà umana perchè diceva “L’uomo non può niente sulla grandezza totale della
quantità del movimento, però può cambiare la direzione”.
Invece per Leibniz, questo non ha senso, la libertà umana non può influire nemmeno
sulla direzione della quantità di movimento, di colpo Leibniz diventa più determinista di
Spinoza, visto che non è possibile che possa esserci la libertà di scelta fondamentale, che
invece è presenta ancora in Spinoza.
Rimproverà Cartesio per aver identificato la “forza” con la quantità di movimento; per
Leibniz la vera forza è la forza viva, cioè il prodotto della massa per la velocità al
quadrato.
La forza viva è l’epicentro della fisica leibniziana, poichè essa rende conto del carattere
mutevole del mondo materiale, e non statico o immabile come per Cartesio.
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Fin qui l’aspetto scentifico, ma la sua mente razionalista e critica non tarderà a
manifestarsi, perchè tutti questi fenomeni sensibili descritti anche con una precisione
rigorosa dalla fisica-matematica potrebbero essere soltanto un teatro di ombre, un gioco di
apparenze e non la realtà.
Cosa può esserci di reale nella forza, qual’è la fonte nascosta dell’azione che definisce la
sostanza vera?
Le forze vive sembrano di per sè troppo legate alle contigenze del tempo e dello spazio,
affidate ad una molteplicità initellegibile, ad un divenire evanescente; allore dove trovare la
vera sostanza?
Per soddisfare questo bisogno di intelligibilità, Leibniz considera le forze vive della fisica
come semplici forze derivative, dietro alle quali pone forze primitive che ne sarebbero le
cause a livello metafisico, al di là delle contigenze locali e temporali; queste forze primitive
sono quelle sostanze vere, semplici, indivisibili naturalmente imperiture, a cui dà il nome di
monadi.
In realtà le monadi sono come dei punti metafisici dotati di forza che è appunto il
conatus, che non è soltanto la tendenza a perseverare nel proprio essere, ma è sopratutto
lo sforzo per migliorare la situazione nell’insieme delle sostanze che costituiscono il mondo,
in realtà queste sostanze sono così legate fra di loro come gli specchi che si rimandono
l’immagine uno all’altro, che l’insieme del sistema della natura è molto simile all’unica
sostanza di Spinoza.
Il gioco delle forze fisiche è solo la sua traduzione fenomenale di questo rapporto reale e
sostanziale fra le monadi: la realtà fondamentale è costituita dai giochi degli specchi infiniti
delle monadi, come nel castello di Versailles.
Si pone quindi la domanda: come conciliare le cause meccaniche che appaiono nel
mondo fisico con la finalità sul piano mentafisico?
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come aveva già fatto Aristotele: una spiegazione meccanica e una spiegazione finalistica
che si completano a vicenda, questo è ripresa anche da Leibniz, ma su piani diversi.
Sul piano dell’analisi dei meccanicismi, a livello scientifico, qualsiasi fenomeno può
essere in principio spiegato in funzione delle sue “cause efficienti”, cioè dimostrando
come tale disposizione antecedente degli elementi di un sistema abbia prodotto un dato
effetto.
Questa analisi meccanica, spesso considerata una caratteristica delle scienze positive,
tende a scomporre un sistema nei suoi elementi, per edeterminare le loro azioni.
Si tratta di fatto del piano fenomenale delle forze derivative, al centro della dinamica,
però ad un livello più profondo, più metafisico, gli stessi fenomeni possono essere
considerati in funzione del fine perseguito e si possono affrontare tutti i meccanicismi che
permettono di arrivarci come altrettanti mezzi subordinati a questa finalità più
comprensiva.
Si parlerà qui di “istinto di conservazione”; si tratta però anche di una vera e propria
finalità, sebbene non deliberata.
Per quanto riguarda le cause finali, più interiori, la seconda (?) spiegazione
corrisponde, secondo Leibniz, alle “forze primitive” o al conatus delle sostanze semplici,
le monadi su cui è fondato il suo sistema metafisico.
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4. Il razionalismo leibniziano
Dice Leibniz, in un brano, molto famoso, presente in una lettera del 14/7/1686:
“Deve sempre esserci un qualche fondamento della connessione dei termini di una
proposizione che deve trovarsi nelle loro nozioni. Questo è il mio grande principio a
cui tutti i filosofi credo debbano trovarsi d’accordo e di cui uno dei corollari è questo
assioma comune che niente accade senza ragion, che si può sempre rendere, di perchè le
cose sono andate così e non altrimenti”.
Questo è vero anche per le verità contigenti-storiche, per esempio “Socrate è stato
ucciso dal concilio della città di Atene”.
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Le verità necessarie sono quelle governate dal principio di non-contraddizione, come
era stato definito da Aristotele; una verità necessaria, per definizione è una verità che non
si può negare senza contraddirsi (per esempio: tutti i principi primi della conoscenza,
tutte le verità ontologiche, una definizione geometrica); per Leibniz tutte le verità
matematiche sono di quest’ordine (questo lo contesterà Kant) analitico-necessario.
Leibniz dice che le verità necessarie non sono quelle di cui la negazione implica la
non-contraddizione, sono rette dal principio di non-contraddizione e ciò vuol dire che noi
con la nostra mente finita per una verità necessaria possiamo dedurre il predicato dal
soggetto.
Dio nella sua bontà, non potrà impedire la creazione di ciò, poichè egli calcola a priori
i possibili che sono infiniti.
Qui si devono agganciare due principi connessi, derivati dal principio di ragione :
il principio della semplicità delle vie: cioè Dio produce sempre il massimo
perfezione, di realtà possibile, con le vie più semplici che si possono concepire, cioè con
una grande economia di mezzi e questo sarà per noi un principio euristico, in scienza per
esempio, per scoprire le leggi attuali della creazione divina.
Così dice Leibniz, non ci sono due foglie di albero assolutamente identiche, ci sarà
sempre qualche differenza formale, anche infinitesimale.
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Una conseguenza diretta del principio di ragione è che il nostro mondo reale è il
migliore dei mondi possibili, non è perfetto, poichè solo Dio è perfetto. In Dio, la sua
possibilità intrinseca implica la sua esistenza necessaria poichè la perfezione stessa della
sua essenza implica l’esistenza, come prima condizione.
Ma come dice Leibniz, bisogna provare questa possibilità intrinseca, ciò che Cartesio non
ha fatto.
Leibniz lo fa a modo suo, dicendo che la nozione di Dio non può involgere
contraddizione, poichè è pura positività e che in Dio non c’è alcuna forma di negazione, non
c’è alcun limite nè interno nè esterno; per cui Dio esiste necessariamente unico e eterno.
Tra le perfezioni divine figurano, non sola la verità, ma anche l’onniscenza : Dio sa
tutto e calcola, senza sforzo e senza errore, l’infinità dei possibili; Leibniz lo apparire un pò
come un super-computer: Deus calculat et mundis fit: Dio calcola e il mondo avviene.
Poichè Dio è inoltre necessariamente buono e onnipotente, egli non può che volere e
creare il meglio tra tutti i possibili, ma deve rispettare il principio di non-contraddizione:
non può creare l’impossibile, il contraddittorio.
Dio calcola quindi tutte le serie di compossibili e tra queste serie, egli crea la
migliore, che poi è il nostro mondo reale.
Così nella Teodicea, Leibniz giustifica Dio al cospetto del problema del male.
Ma in un mondo del genere, dove tutto appare predeterminato dai calcoli divini,
sembra che non ci sia spazio per le libertà umane.
Leibniz risponde che nel campo del contigente, del non necessario, l’uomo sceglie
spontaneamente quello che gli appare essere il meglio possibile, e in questo è “libero”.
Tutto questo è previsto da Dio onniscente e onnipotente, non c’è realtà fuori dalle
sole sostanze semplici, nessuna delle quali agisce veramente sulle altre, in quanto si
rispecchiano soltanto le une nelle altre all’infinito nell’armonia prestabilita, tutto è
preordinato da Dio, ma non è Dio che deve intervenire in ciascun momento, però ha
regolato tutto sin dall’origine.
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È chiaro che in quel mondo la libertà individuale è fittizia, perchè sembra che sono io
che la produco spontaneamente, come la voglio, però tutto questo è prestabilito secondo il
calcolo divino.
L’individuo infelice è sacrificato alla totalità del mondo, che esige la sua personale
infinità per essere “il migliore dei mondi possibili”: l’uomo non è in grado di vero e proprio
arbitrio, egli non è capace di volere se non quello che vuole in realtà, spesso
autocondannandosi, quando si sbaglia, questo dipende solo dalla sua situazione nella
piramide degli esseri.
Credendo così di aver giustificato l’esistenza del male, Leibniz ne dà solo apparenza a
costo della peggiore delle ingiustizie, visto che l’uomo viene punito per una colpa in realtà
non poteva evitare.
Dio stesso, che ordina, in sommo modo, tutte le cose, non possiede nessuna libertà
di scelta: in un mondo in cui è tutto calcolato per rendimento ottimale non rimane alcun
posto alla libera e umile generosità; perciò, l’ammirevole sistema leibniziano si rivela alla
fin fine come una macchina soffocante.
Vedremo più avanti che questo ottimismo assoluto in cui “tutto è per il meglio nel
migliore dei mondi possibili” si capovolge dialetticamente, attraverso la critica Kantiana,
nell’implacabile pessimismo di Schopenhauer.
L’analisi razionale della nozione di sostanza non farà che confermare questa impressione
nonostante gli incontestabili vantaggi del vigore di questo pensiero.
Poichè il nostro spirito è limitato, noi possiamo sapere solo a cose fatte, a posteriori, che
Alessandro ha vinto questa battaglia; ma l’intelligenza divina essendo infinita, può
prevedere dalla nozione di Alessandro tutto quello che vi è storicamente accaduto.
Dio può dedurre dalla nozione di ciascuno di noi, tutto quello che gli accadrà fino alla
fine e anche quello che produce, e non poteva produrre altra cosa, Dio onnipotente fa il
migliore dei possibili, ma tutto risulta immediato dal calcolo divino del migliore possibile.
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come Arlecchino, innumerevoli abiti corporali senza consistenza, cambiando continuamente
aspetto materiale senza cambiare natura.
Possiamo notare che questa nozione leibniziana di sostanza, è a suo modo interessante,
perchè la sostanza è quella che rimane sotto la varietà dei suoi accidenti; l’esempio più
classico è quello del bruco, della crisalide e della farfalla che costituiscono le diverse
modifiche di uno stesso e unico individuo; questo è interessante perchè vuol dire che ogni
individuo biologico, se non è una monade immutabile, forma veramente un’unità che non
si riduce alla somma delle sue parti, e soprattutto occorre considerarlo in tutta la sua
durata indivisibile della sua esistenza, dalla concezione alla morte, più che nella diverse
forme successive che può rivestire a tale o tal’altro momento.
Questo è vero per ogni individuo biologico, e quindi anche per noi, non c’è alcuna
discontinuità, lo sviluppo è continuo: l’uomo forma uno stesso individuo dal suo
concepimento alla sua morte, sotto tutte le forme da lui successivamente
rivestite.
Qui appare un limite del sistema leibniziano che è quello di voler ridurre ogni sostanza
alla pura semplicità: ogni essere vivente, uomo compreso, possiede un corpo complesso e
quindi scomponibile dalla morte, che non è soltanto un vestito esterno che si può prendere
o lasciare; quindi il concetto di indiviso non significa indivisibile, visto che da un solo
individuo se ne possono far nascere diversi, artificialmente attraverso la clonazione su
tessuti embrionali, naturalmente nel caso di gemelli univitellini.
Ora questa molteplicità fa sì che l’individuo biologico, contrariamente a Dio e agli angeli,
può nascere e morire oppure dividersi in due o diversi individui.
A causa del limite , precedentemente esposto, il sistema di Leibniz che sembrava quasi
perfetto, esplode e lo stesso Leibniz, negli ultimi anni della sua vita (1712-1716) formulerà
una misteriosa ipotesi quella di un legame sostanziale, vinculum substatiale, suscettibile
di “realizzare” i fenomeni per farne vere e proprie sostanze composte.
Questa ipotesi appare soltanto nel carteggio con un gesuita belga, il padre Des Bosses.
In assenza di questo vinculum, i corpi organici non sarebbero che apparenze, come
l’arcobaleno, o puri aggregati, come un mucchio di sassi.
Infatti, secondo la dottrina classica di Leibniz, non c’è sostanza vera che non sia
semplice, e questa è una monade.
Giovanbattista Vico
Siamo alla fine della corrente di indirizzo Cartesiano, e anche Vico puo’definirsi come
un anticartesiano; pero’Vico inzia una dimensione nuova che è quella della filosofia della
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storia in quanto precursore delle grandi filosofie della storia che nasceranno in Germania
sopratutto dopo Kant.
Vico ha condotto una vita molto semplice, è nato a Napoli nel 1668, in una famiglia
modesta, non ha mai lasciato il sud dell’ Italia, è un autodidatta, ha studiato filosofia
scolastica e diritto.Sara’precettore nella famiglia del Marchese Rocca dal 1686 al 1695 nel
Cilento,poi sara’nominato professore di retorica all’universita’di Napoli per 45 anni;pubblica
opere di grande importanza.
Nell’1710 appare la sua prima opera in latino molto importante che è il “de
Antiquissima è l’epistemologia di Vico; nel 1720 gli viene l’idea di una scienza nuova che è
quella della filosofia della storia e l’opera fondamentale “Principi di una scienza nuova
intorno alla comune natura delle nazioni”.
Vico, come quasi tutti, da Pascal a Leibniz, parte dalla polemica anticartesiana e dice
che la conoscenza umana non si puo’ ridurre all’evidenza razionale del modo geometrico; ci
sono delle certezze umane che sono di un altro genere,ma non è l’evidenza razionale
geometrica di Cartesio o di Spiunoza, perche’ tra il vero assoluto e il falso c’è il posto per il
verosimile, che è veramente vero, pero’ a volte puo’ essere anche falso, c’e’ quindi il
dominio del rinnovabile.
Nel 1710 per Vico il vero è l’incenso dei matematici, l’unica scienza vera è la
matematica, mentre la filosofia ha soltanto il probabile.
Di fronte alla pura ragione cartesiana Vico pone l’ingegno,la facolta’ di scoprire il
nuovo che è diverso secondo lui dalla semplice ragione.
In Cartesio c’era soltanto una diversita’di grado tra la conoscenza divina e quella
umana; in Vico c’è una diversita’qualitativa, un antitesi tra l’intelletto divino e il cogitare
umano.
Secondo Vico il primo assioma della conoscenza è “verum esse ipsum factum” il vero
è il fatto, factum è il participio passivo del vero fare, è il risultato di un’azione è quello che
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è stato fatto,c’è un legame molto stretto tra la conoscenza e l’azione, per l’occasionalismo,
secondo Guelins e Malebranche si fa soltanto quello che si conosce,invece Vico fa un
capovolgimento molto giusto:bisogna partire da quello che facciamo e da quello che
possiamo, c’è un rapporto molto stretto tra il fare e il conoscere, cio’ non vuol dire che il
conoscere ideale limita il mio fare ma il mio fare è necessario conoscerlo.
Noi conosciamo quello che facciamo e quello che conosciamo ma non possiamo
conoscere, ne’ la natura, meno ancora Dio, ne’l’uomo perche’ il suo creatore è Dio, solo Dio
ci conosce perche’ci ha creati; per questo motivo il campo della filosofia è nell’ ordine del
probabile, del verosimile, non del certo , della scienza.
La scienza nuova
Vico ha scoperto la scienza nuova dieci anni dopo il “De Antiquissima”; pero’ è nella
stessa logica.In quel momento si accorge subito che noi facciamo qualcosa di piu’che non
soltanto la matematica astratta, formale, siamo anche noi gli autori della storia e quindi la
possiamo conoscere; e questo è nuovo; fino a quel momento si diceva che la storia era
congetturale, non è una scienza esatta, naturalmente, Vico fa entrare la storia nella vera
conoscenza, ma in un modo del tutto specifico.
Noi siamo gli attori della storia umana e quindi abbiamo le cause in noi e percio’ la
possiamo conoscere come una vera scienza, visto che la facciamo.
La storia è soltanto contingente altrimenti non se ne potrebbe dare una scienza vera,
ma come dice Abbagnano la storia deve avere in se’ un ordine fondamentale che bisogna
scoprire, senza il quale non ci sarebbe scienza storica.
Vico vuole essere il Bacone della monade della storia e compiere cio’ che Bacone
aveva intrapreso rispetto al mondo della natura.
Si vede fra l’altro nell’ autobiografia che i suoi maestri sono Platone Tacito e Bacone,
Platone per la struttura fondamentale del suo pensiero,Vico è in qualche modo un filosofo
platonico, Platone indica nella Repubblica il mondo ideale che la storia umana dovrebbe
raggiungere; Tacito che era uno storicoi insegna come gli uomini sono effettivamente;
Bacone per la scienza della natura e per il rigore del metodo sperimentale.
La scienza nuova significa che Vico vuole scoprire l’ordine e le leggi fondamentali
della storia attraverso la riflessione postfactum, cioe' dopo il fatto sulla storia che è
costituita da fatti.
La scienza nuova rivela la sapienza originaria dalla quale venivano tutte le scienze
delle arti che formano l’umanità, cioe’la storia umana è cosciente di se’.
Ci sono, secondo Vico, delle fasi nella storia umana e queste fasi corrispondono al
grado di chiarezza e di distinzione ottenuto dal pensare umano sulla storia( qui ritroviamo il
criterio cartesiano).
Le varie fasi della storia umana corrispondono al grado di chiarezza ottenuto dallo
stesso pensare umano che deriva da quella sapienza originaria sulla storia stessa.
Qui viene la storia ideale eterna: Il punto di partenza si trova nella situazione
originaria reale dell’ uomo , Vico nella “Scienza Nuova dice che l’uomo che è caduto nella
disperazione di tutti i soccorsi della natura, desidera una cosa superiore che lo salvi.Sopra
di noi nella natura c’è soltanto Dio, ma qui si trova ancora il conatus che abbiamo trovato
in Spinoza e in Leibniz, questa volta pero’ con un senso tutto religioso.
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L’uomo tende di uscire dal suo stato di caduta per muovere verso un ordine divino
attraverso un conatus, uno sforzo, per sollevarsi dal disordine degli impulsi primitivi cioe’
(dalla miseria inziale tende verso un ordine divino) quindi c’è un continuo conatus che
prendera’forme diverse.
Qui la filosofia come nella Repubblica di Platone indica all’ uomo quello che deve fare
ma soprattutto quello che deve essere, cioe’ il telos; il fine di una societa’ perfetta in
amicizia con Dio.
La storia come scienza nuova sara’ una teoria civile e ragionata della provvidenza
divina, con Vico la provvidenza divina per la prima volta diviene un tema filosofico vero e
proprio,Quindi c’è un ordine provvidenziale in via di realizzazione progressiva nello sforzo
stesso(il conatus) dell’ uomo per uscire dalla miseria primitiva,(c’è un idea che noi usciamo
da una situazione di caos che ci minaccia sempre,in quanto possiamo anche ritornarci nel
caos, c’era qualcosa di simile anche in Macchiavelli, che il caos minaccia sempre la societa’
umana).
Quando societa’intere o nazioni cadono nella miseria, in qualche modo c’è un ritorno
a questa miseria primitiva cioe’ al caos, nella miseria vera e propria non c’e’ nessuna
regola, c’è solo la pura sopravvivenza.
Abbagnano dice : “la storia ideale ed eterna che è l’ordine e il significato universale
della storia non si identifica mai con la storia temporale, empirica. L’origine di tutte le
filosofie della storia è il Civitate Dei di Agostino: c’è la citta’ di Dio fondata da Dio stesso a
partire da Abele e quella terrena che comincia con Caino, le due citta’ definiscono una
storia ideale, la storia empirica risulta nel perpetuo confronto delle due citta’ spirituali.
In Vico la storia empirica non si puo’ mai ridurre ad una storia ideale, pero’la storia
ideale giudica quella empirica e noi dobbiamo sempre sforzarci tramite il conatus (lo sforzo)
di raggiungere l’ordine ideale per sfuggirer al caos, alla miseria originaria.
D’altra parte nella storia empirica, effettiva ci sono anche delle decadenze, delle
regressioni, non vi è un progresso unilaterale (anche questo è un concetto agostiniano).
La storia ideale eterna è come uno schema sul quale corrono nel tempo le storie
particolari di tutte le nazioni con le loro decadenze, progressi e fini, percio’si puo’dire che la
storia ideale eterna è come la sostanza nascosta che regge la storia temporale, pero’ la
regge moralmente perche’ si indirizza sempre verso la liberta’, in Vico c’è una vera
liberta’umana.
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Lidea fondamentale è che nell’immensa varieta’della storia, che non è per niente
ideale, c’è l’unita’ ideale della provvidenza divina: Dio, nella sua provvidenza è quello che
mi permette di cogliere l’unita’in tutto questo
sviluppo, cioe’ c’è una grande molteplicita’, pero’se fosse soltanto quella, la storia sarebbe
intellegibile, quasi irrazionale, ma c’è un intellegibilita’ della storia e questo suppone che ci
sia un’ unita’ che è l’unita’ideale della provvidenza divina immanente e trascendente alla
storia.
Questa unita’ideale della provvidenza divina si sta svilupopando nelle tre eta’
successive, individuate’ da Vico.
Esse sono l’eta’degli dei, l’eta’ degli eroi, ed infine l’eta degli uomini.
Per Vico i livelli sono perfettamente distinti tra la storia ideale eterna della providenza
divina e la storia empirica umana, che deve incarnare in qualche modo la storia ideale,
pero’che non è mai la pura e semplice trascrizione in quanto la storia ideale eterna non
conosce le regressioni.
In queste tre’ eta’ c’è la sapienza originaria data all’ uomo che si sviluppa
progressivamente(la sapienza originaria significa che l’uomo partecipa della ragione
creatrice di Dio), e prendera’ forme diverse attraverso questi tre stadi; all’inizio non è
riflessiva ne’ ragionata, ma immediata e istintiva, soltanto nelle terza eta’ sara’una
sapienza filosofica.
Nella prima eta’ c’è gia’questa sapienza primitiva che è la certezza immediata,
sentita da tutti i popoli.
Si puo’ dire che è il senso religioso che si manifesta con l’uomo primitivo: le forze
naturali sono viste come delle divinita’terribili e vendicative per timore delle quali
incominciano a tremare gli impulsi bestiali creando le famiglie e i primi ordini civili, sono
fondate sulla potesta’paterna e sul timore di Dio, sono le cosiddette repubbliche
monastiche, cioe’ stati in cui il sacro ancora primitivo domina tutto.
La terza eta’( riflessione filosofica) che eè quella platonica; quindi si passa dalla
metafisica sentita o fantasticata a quella ragionata.
Qui c’e un rapporto della storia empirica con quella eterna, che prende finalmente la
forma della riflessione; questa è l’eta’ degli uomini ed è la manifestazione piu’ matura della
sapienza originaria.
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Attraverso queste tre eta’ l’analisi di Vico verte sul rapporto tra la storia ideale
eterna(la provvidenza divina)e quella empirica e tale rapporto che cambia attraverso le
eta’(-sentito- -fantasicato- -riflettuto-).
Pero’ anche nell’ eta’ della riflessione si puo’ ricadere nella barbaria e in particolare in
una nuova barbarie che e’ quella della riflessione, che nasce con lo scetticismo filosofico;
per scampare al caos originario occorrono sia la filosofia che la religione che sono
complementari.
Per Vico soltanto gli uomini hanno creato il mondo delle nazioni, cioe’ quello
empirico, pero’ tale mondo non si capisce se non in rapporto all’ ordine provvidenziale, alla
storia ideale eterna.
Ora per Vico non c’è storia umana senza ordine e liberta’: il caso esclude l’ordine ed
fato esclude la liberta’, invece la Provvidenza divina garantisce sia l’ordine che la liberta’,
infatti la provvidenza fa uscire dagli impulsi piu’ primitivi le leggi e la liberta’ necessaria per
fondare la citta’, dagli uomini.
Nella storia empirica temporale ci sono dei corsi e dei ricorsi, cioe’ si va avanti e
indietro, non è un progresso unilineare e c’è anche un elemento ciclico, ma non e’ l’eterno
ritorno (la storia non passa mai due volte dallo stesso punto).
Quando le filosofie decadono nello scetticismo, non c’è piu’ la verita’ e percio’ gli stati
popolari che si fondono su di esse, si corrompono, le guerre civili sommuovono le
Repubbliche e le mandano a un totale disordine: l’influsso della filosofia è notevole, non c’è
soltanto la provvidenza divina , c’è la liberta’ umana e ci sono i sistemi filosofici.,allora la
storia ricomincia il suo ciclo.
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Per Vico l’uomo puo’ essere, il il piu’ delle volte, sia la materia passiva della storia
,cioe’ si lascia usare da altri uomini, sia raramente la sua forma attiva; e pre questo le
nazioni si trovano in ciascuna epoca di fronte al bivio di Ercole, cioe’ fanno la scelta tra una
forma di abbandono e forze distruttive, oppure possono costruire una citta’ nuova e quindi
andare nel senso della storia, cioe’ nella costruzione della citta’di Dio.
L’empirismo britannico
Hobbes (1588-1679)
Inizia la corrente empiristica, per la quale ogni conoscenza viene esclusivamente sai
sensi, pero’ la ragione avra’ ancora un ruolo importante, non è ancora l’empirismo puro. In
Hobbes troviamo due campi distinti e ben articolati:da una parte un’ epistemologia ed
un’antropologia meccanicistiche e dall’altra una filosofia politica, influenzata da
Macchiavelli, molto sviluppata, che crea un meccanicismo sociale e che avra’ un ruolo
determinante.
Il ruolo di Hobbes nella storian della filosofia è doppiamente fondamentale sia per
quanto riguarda l’epistemologia e l’antropologia e sia per quanto riguarda la filosofia
politica.
Tra l’altro ha avuto un influsso determinante su Spinoza e su Vico nella teoria del
fare all’ origine della conoscenza e che l’unica vera scienza è la matematica che noi
facciamo, prima della scienza nuova.
Vita e opere
Tutta la sua lunga vita(91 anni) l’ha vissuta sotto il segno della paura, importante
per la filosofia politica, infatti egli dira’ “la paura è stata l’unica grande passione della sua
vita”.
Ci troviamo in un periodo di crisi della societa’ inglese, come anche nei fondamenti
del sapere: Cartesio rinnova tutto da una parte, Hobbes lo fara’ per conto suo, è un
instabilita’ fatta di crisi a tutti i livelli.
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E’ un periodo molto violento soprattutto in Inghilterra per le guerre civili ed in
particolare è il periodo della lotta feroce per la sovranita’ tra il re e il parlamento; in quel
momento Hobbes si era esiliato a Parigi, ma non e’stato mai cacciato personalmente.
Egli ha una doppia eredita’: nel campo politico è erede di Macchiavelli e nel campo
epistemologico di Bacone.
Dall’altra parter c’è la linea empiristica e scientifica che viene da Bacone e da Galilei
con un certo influsso di Cartesio per il meccanicismo in particolare.
Ma c’è anche l’importanza della deduzione matematica che non c’era in Bacone; e
questo viene dalla scoperta degli elementi di Euclide.
Realizza la prima sintesi filosofica potente dell’empirismo, che culmina in una filosofia
politica molto articolata e che si ritrova almeno parzialmente in spinoza.
Sara’ precettore del figlio di Lord Cavendish, e realizzera’ molti viaggi in Europa, in
particolare in Italia, a Firenze e a Venezia, dove incontra Galilei, e in Francia a Parigi dove
incontra Gasserdi’ e padre Mersenne, di cui diviene un amico fedele, e grazie a lui Hobbes
scopre di Cartesio.
Nel 1630 scrive un primo saggio in inglese “A short tract on first principles”,un breve
trattato sui primi principi, è un opera di epistemologia, e qui descrive molto bene il suo
punto di vista materialista radicale, a cui aggiunge la deduzione razionale della linea
geometrica di Euclide.
Nel 1640 scrive “gli elementi di legge naturale e politiche” poi nel 1642 scrive in
latino l’opera fondamentale “ De Cive, Elementorum philosophiae Sectio tertia”, è la terza
parte, pero’ è la prima che ha scritto perche’ il piano della sua opera maggiore è stato
concepito gia’ nel 1637, poi scrive per prima la terza parte, cioe’ quella politica che è la
fine, ma viene pubblicata per prima.
Quest’opera verra’ completata parecchi anni dopo con la prima parte.
Il “De Corpore” che sara’ il punto di partenza strettamente materialista della sua
epistemologia, e poi la seconda parte il “de Homine”, la sua antropologia che avra’ un
influsso importante su Vico.
Gnoseologia o Epistemologia
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Per Hobbes lo scopo della conoscenza è unicamente l’azione, l’efficacia, nessuna
teoria ne’ contemplazione ed in questo è seguace di Bacone, la scienza per il potere.
I concetti non toccano il reale in se, con questo nominalismo c’è un empierismo che
si sta sviluppando, cioe’ tutta la conoscenza viene dall pura percezione sensibile,
materiale,prodotta dai movimenti dei veri corpi(l’atomismo di Gassendi); quindi non c’è
posto per una vera induzione come in Bacone.
In Hobbes c’e una filosofia prima , che non è l’ontologia, questo viene da Bacone:c’è
l’altra filosofia prima che è quella della Fisica fondamentale; la filosofia prima, secondo,
dimostra i corollari delle definizioni piu’universali ed elabora per astrazione e calcalo logico
un sistema generale di nomi,o simboli collettivi, per organizzare i fantasmi che sono i
residui dell esperienza sensibile, quindi l’esperienza sensibile tutta materiale e di qui
risultano fantasmi organizzati sotto simboli matematici, sui quali la ragione fara’ calcoli
matematici, questo è il fondamento della conoscenza,è l’unica atrazione possibile a partire
dalla nostra esperienza poi tutto il sapere si dimostra matematicamente, ma cosa si
dimostra?
Il conatus è sostenuto dall’ impetus che è la forza inerziale di Galilei, che sara’
chiamato la quantita di movimenti, leggi fondamentali di Cartesio.
L’estrazione del movimento come tale a partire dal fantasma trattato poi come
grandezza matermatica, è l’opera soggettiva, costruttiva nostra, della religione, è una pura
ipotesi che deve essere poi confermata dall’esperienza.
Pero’ tra gli uomini c’è anche il conflitto continuo delle passioni che si puo’ risolvere
mediante una potenza superiore, che è il potere politico.
Per Hobbes “la liberta’ è l’armonia di ogni impedimento all’ azione, tranne quelli
implicati dalla natura e la qualita’ intrinseca della gente”, cioe’nessun ostacolo esterno per
cio’ non vuol dire che io non sia determinato ineramente.
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Con tale epistemologia Hobbes sembra perfettamente ateo, invece egli non solo dice
di credere in Dio, ma che Dio è un oggetto di una dredenza razionale, certa, e il suo
pensiero porta direttamente all’ ateismo, è l’unica cosa cge non è coerente nel sistema di
Hobbes, egli dice che Dio onnipotente è causa motrice del mondo e origine di un codice di
doveri interni ed esterni.
Le sole rivelazioni possibili di Dio sono quelli della ragione e della natura(deismo
ante litteram); a causa di questo sostiene che la ragione e la natura hanno un valore
impegnativo.
Nonostante quello che dice di Dio egli appare in Inghilterra come “libero pensatore”,
il movimento costituito dai liberi pensatori sara’ Locke, ma Hobbes è il precursore, quindi
tutta la conoscenza, la morale e la politica non hanno niente a che fare con la religione
rivelata, anzi la religione stessa deve essere sottomessa al potere politico assoluto.
Hobbes, pero’,-è un ipotesi-ha visto il bisogno sociale e politico della religione , per la
coerenza sociale della citta’ e per questo non si dichiara mai ateo: anche se il suo pensiero
è fondamentalmente ateistico; Dio c’è , ma non si puo’ dire nulla su di esso, pero’serve da
garanzia a tutte le esigenze della ragione e della natura.
Filosofia politica
Tutta la sua esistenza l’ha vissuta sotto il segno della paura che nella filosofia politica
avra’ un ‘importanza determinante.
In questa concezione lo stato risulta non dalla natura,ma dalla rottura con la natura
umana (una rottura originaria)esso, nasce da un artificio, da un fatto sociale –civile che
unisce gli uomini nella loro soggezione volontaria al sovrano; pero’ prima della fondazione
dello Stato, prima del patto sociale che fonda la citta’, c’era lo stato di natura”dove si trova
l’uomo astratto; se si intende l’uomo astratto in quanto, astratto dalla societa’, dalla sua
dimensione politica interiore, vuol dire che è un tempo mitico non è reale, dove c’era la
guerra di tutti contro tutti, ma non fa parte della storia, è uno stato originario che è
esattamente l’opposto del paradiso perduto dei cristiani, è uno stato infernale,questa è
l’origine con cui si deve rompere per entrare nello stato civile, politico.L’uomo astratto era
“un essere dotato di facolta’, di appetiti e di passioni personali,illimitati”; questo annuncia
la barbarie originaria di Vico.
L’uscita da quello stato di natura fara’ entrare l’uomo nella storia, cioe’nello Stato
politico-storico che comincia con il contratto sociale.
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Si deve uscire dallo Stato di natura perche’ esso è uno stato di guerra perpetua, di
tutti contro tutti e di fatti l’analisi dell’ uomo astratto mosstra che gli uomini all’origine sono
divorati da due passioni fondamentali che sono i due postulati certissimi della natura
umana: la prima passione è l’ambizione illimitata, cioe’ un desiderio potente di dominare
tutto( cupiditas naturalis)caratteristica esclusiva dell’uomo, poi l’altra passione
fondamentale è la paura(rationaturalis): l’uomo nello stato di natura è continuamente
tormentato dalla paura di morire di morte violenta perche’ in quello stato ogni uomo che
rappresenta un otacolo al mio desiderio di onnipotenza viene eliminato.
Accanto alla cupiditas naturalis nasce la ratio naturalis, che sembra l’istinto di
conservazione; per scappare al pericolo costante bisogna diventare il maestro,il dominatore
di tutti e dominare con la forza e l’astuzia non soltanto per il desiderio spontaneo di
dominare, ma per evitare di essere ucciso.
Hobbes dice “ogni individuo nello stato di natura, ha un diritto sovrano su tutto
quello che sta in suo potere, pero’subito viene il secondo postulato certissimo della natura
umana , cioe’ la paura di morire , l’istinto di conservazione, questa avra’un ruolo regolatore
per impedire di massacrarsi a vicenda.
Nel “De Cive” Hobbes dice “ogni uomo desidera quello che gli sembra buono e fugge
quello che gli sembra cattivo, ma quello che fugge di piu'’è il peggio di tutti i mali naturali,
cioe’la morte da cui traggo questa conclusione che il primo fondamento del diritto di natura
è che ciascuno protegga la sua vita e le sue membra per quanto è possibile.
Vediamo che la ragione politica nasce dalla passione della paura, perche’ bisogna
accantonare i rischi, ivantaggi,il paradosso della ragione che nasce dalla passione.
passaggio dallo stato di natura a quello civile obbedisce ad una forma di rivela zione
razionale; all’origine tutti gli uomini sono nemici: i nemici scoprono grazie alla natura di
avere un nemico comune che è la morte e quindi bisogna allearsi contro un nemico il piu’
potente di tutti, questo è l’inizio dello stato civile, quindi rivelazione razionale della morte
come condizione comune dell’umanita’, nello stesso tempo scoperta di se’ come essere
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finito di fronte alla morte, quindi bisogna sviluppare una strategia comune contro il nemico
comune, questa è la fondazione dello Stato.
Nel “De Cive” hobbes dice:”gli spiriti degli uomini sono tali che se non sono ritenuti
dalla paura di qualche comune potenza, avranno paura gli uni degli altri”.
Cosi’ definisce Hobbes la nascita dello Stato nel “Levithan”, parla in prima persona ,
esprime la volonta’ di ogni uomo di entrare in questo contratto sociale, per
necessita:”Autorizzo il Sovrano o questa assemblea di abbandonare il mio diritto di
gogovernare da me stesso a condizione che tu(l’altro uomo) riabbandoni il tuo diritto e
autorizzi tutte le sue azioni nello stesso modo.Quindi è un atto condizionato: io trasferisco
tutto il mio potere, tutto il mio diritto che è infinito sul sovrano a condizione che tu , l’altro
uomo della citta’,faccia lo stesso, tuttu insieme per necessita’ abbandonino i nostri diritti
personali, i nostri poteri e li trasferiamo sullo stato,rappresentato dal sovrano; è uno stato
assoluto in quanto ha tutti i diritti e tutti i poteri di tutti gli individui e li potra usare a modo
suo.
Qui appaiono due nozioni fondamentali della realta’ politica moderna:il concetto di
autorizzazione o leggittimazione del potere del sovrano da parte della volonta’ popolare;c’è
poi l’idea di rappresentazione, cioe’ il Sovrano rappresenta lo Stato.
Lo stato deve assicurare la sicurezza dei cittadini, quaesto è il suo compito; lo stato
come il sovrano che lo incarna è sottomesso soltanto alla legge naturale, di ragionare, di
cercare la pace civile, anche con imezzi della guerra.
Hobbes ha ridotto l’uomo allo stato di macchina, la meccanizzazione del corpo umano
si prolunga nella meccanizzazione sociale, il meccanismo del corpo umano si ritrova a
livello politico.Carl Smitt dice: la meccanizzazione dell’ idea dello stato ha portato al
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culmine la meccanizzazione dell’ immagine antropologica dell’ uomo, l’uomo è una
meccanica e la societa’ è una grande meccanica.
JOHN LOCKE
Avrà un influsso enorme su tutto l’Illuminismo sia inglese che francese, è all’origine
del deismo del settecento, (forma di deismo semirazionalista); era considerato quasi come
un dio da Voltaire e da tanti illuministi.
Locke si ferma sempre a metà strada, cioè sarà un semi-empirista, ma con tanti
elementi ancora razionalisti, ha uno scopo pratico essenzialmente politico della conoscenza;
ha una formazione da medico che interverrà nella sua teoria della conoscenza.
Nato in Inghilterra nel 1632, ed è destinato alla carriera ecclesiasitica nella chiesa
anglicana, ma non ha mai preso gli ordini perchè si è dedicato alla politica.
È rimasto per 15 anni ad Oxford nel Christ Church College, come studente, poi tutor
(assistente).
Dal 1668 in poi, entra al servizio di Lord Ashley, il primo conte di Shafteshury,
cancelliere di Inghilterra , poi caduto in disgrazia (questo è importante per l’impegno di
Locke nella politica).
È tornato in Inghilterra nel 1689 sotto Guglielmo d’Orange, che istituisce una
monarchia costituzionale, di cui Locke è il teorico.
Nella stesso anno, dato che ha un grande interesse per la politica religiosa, pubblica
la sua famosa “Lettera sulla tolleranza”, che avrà un influsso enorme e che è un pò la
Bibbia illuministica.
L’anno seguente (1690) pubblica il suo famosissimo “An Essay concerning Human
Understanding” cioè “Saggio sull’intelletto umano”, che subito gli dà una celebrità
universale; altre opere importanti sono: “Due trattati sul governo civile” “Pensieri
sull’educazione” e “La ragionevolezza del cristianesimo”.
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Locke vuole la certezza della conoscenza con uno scopo pratico (di medico, di
politico) e per questo vuole fare da medico una vera fisiologia dell’intelletto, che avrà un
grande influsso su Kant.
Locke fa l’analisi descrittiva dei contenuti e delle operazioni dello spirito, e decide
metodicamente di fare completamente astrazione delle questioni metafisiche.
Contro Cartesio (questo è il punto di partenza) intende mostrare che non ci sono in
noi delle idee innate, nessun principio ci è connaturato, nemmeno i primi principi della
logica; dall’inizio l’anima è tabula rasa, una carta bianca sulla quale la sensazione può
scrivere qualsiasi cosa, quindi all’inizio c’è una pura passività dello spirito, però l’esperienza
che avviene è sia esterna che interna: l’esperienza esterna è la pura sensazione passiva e
l’esperienza interna è la riflessione sulle operazioni esercitate sulle sensazioni, quindi le
sensazioni che saranno come atomiche all’inizio, saranno associate fra di loro dallo spirito
che li diviene attivo; cioè tutte le operazioni che lo spirito esercita sulle diverse sensazioni
saranno l’attività dello spirito e ciò definisce il senso interno che è proprio una riflessione.
Dalla riflessione così definita vengono, tutte le idee, per cominciare le idee semplici,
che sono idee elementari, è un atomismo delle idee, cioè le idee elementari sono come
atomi di idee indivisibili, da cui veranno le idee complesse che sono come molecole di
idee (questo viene dall’atomismo corpuscolare di Gasseudi, la materia si riduce in atomi di
materia).
Nel suo empirismo, Locke (questo è poco coerente) ammette senza discussione e
riprende completamente la distinzione galileiana delle qualità primarie e secondarie;
infatti l’espressione stessa di “qualità primaria” o “secondaria” viene data non da Galilei,
ma dal chimico Boyle, che era un amico di Locke: le qualità primarie appartengono
all’oggetto stesso, (questo non è per niente empirico) al corpo materiale, cioè la solidità,
l’estensione, la forma e il movimento, il numero; tutto questo appartiene alla struttura
corporale che influisce sulla sensazione e lì la sensazione umana è puramente passiva e poi
lo spirito ricostituirà le qualità secondarie, cioè i colori, i suoni, gli odori sono secondari
perchè dipendono dalla nostra percezione.
Per Locke lo spirito diviene attivo nell’associazione delle idee semplici per formare le
idee complesse, poi comparandole per elaborare le idee di relazione anche tra le idee
complesse, astraendo dai complessi così formati le idee generali, quindi abbiamo le idee
semplici, complesse, di relazione, astrazione dai complessi per le idee generali.
L’idea complessa più importante per Locke è la sostanza che è soltanto il risultato
psicologico dell’associazione costante del raggruppamento di idee semplici.
Locke dice “Se noi possiamo sapere psicologicamente ciò che è tale sostanza , non
abbiamo nessuna idea della sostanza in genere”.
Dopo l’idea della sostanza viene l’idea della casualità, di relazione ; Locke
conosce soltanto la casualità efficiente di Leibniz.
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Noi siamo capaci di conoscere certamente che c’è un Dio, perchè l’uomo conosce con
certezza che egli stesso esiste e che c’è qualcosa, e conosce anche per una certezza
intuitiva che il nulla non può produrre un essere reale, perchè io sono, perciò è un’evidenza
matematica che qualcosa esiste da sempre, quindi tutto quello che ha un inizio deve essere
stato prodotto da qualche altra cosa, ma deve essere eterno, principio e causa di tutti gli
esseri, deve essere onnipotente e onnintelligente e dunque è Dio (espressione del deismo
razionalista).
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Morale e religione
Locke dice che la morale non è meno suscettibile di dimostrazione della matematica;
questo definisce un’etica astratta; locke non crede nel libero arbitrio, non c’è una Vera
Libertà in noi, è un paradosso, perchè sarà il campione del liberalismo politico; siamo liberi
soltanto nel senso che possiamo agire senza impedimento esterno, ma non abbiamo
nessun potere sulla volontà.
Locke dice “Lo spirito non ha, rispetto alla volontà, il potere di agire o di non agire,
nel quale consiste la libertà, esso non ha il potere di impedire la volontà, non può evitare la
determinazione interna all’azione”.
Quindi l’obbligazione morale sarà efficace soltanto quando coincide con una necessità
interna, che si impone naturalmente alla volontà; e la legge naturale della nostra volontà
non è infatti di cercare il bene maggiore, ma di fuggire il male più grande; e tutto questo
determina una meccanixa psicologica, non una morale fondata sulla libertà di scegliere il
bene.
Religione
Per Locke l’utilità della religione sembra essenzialmente quella di servire a rafforzare
la morale.
La religione viene giudicata dalla ragione sulla ragionevolezza, sul suo carattere
ragionevole, e anche sulla sua utilità sociale, ma nel resto è una cosa completamente
privata, individuale, senza nessuna certezza razionale e nemmeno nessuna probavilità
razionale, è puramente soggettiva; invece l’esistenza di Dio, secondo Locke, è assicurata
dalla ragione, ma la fede è fondata soltanto sulla Rivelazione, quindi uno può credere per
conto suo che Dio si sia rivelato, dato che non c’è nessuna prova, rimane una questione
personale: visto che è una cosa personale, indimostrabile, si impone la tolleranza, che
consiste non soltanto a sopportare le credenze altrui, ma che è necessitata dal fatto che
nessuno può essere assolutamente certo di aver ragione.
La chiesa, però, essendo una libera società di uomini riuniti spontaneamente per
servire Dio in pubblico, deve essere fondata sulla tolleranza, senza nessuna forza coercitiva
(qui troviamo “La lettera sulla tolleranza”); l’intolleranza distrugge se stessa perchè il
principio dell’intolleranza si rivolge contro coloro stesso che la professano.
Secondo Locke, ogni entusiasmo religioso, ogni volontà di far convivere agli altri la
propria fede, tutto questo viene associato al fanatismo, che è da condannare, in quanto
esso fa credere di avere in possesso la verità assoluta.
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In tutti i campi, Locke appare come un moderato, è il campione dei moderati, in
ogni dominio, infatti Locke sembra incapace di andare fino in fondo, salvo forse per la
politica, perchè essa essendo il dominio del possibile umano, lì il fatto di essere moderato è
molto utile.
Qui troviamo sia il parlamentarismo che il liberalismo politico, di cui Locke è il grande
teorico.
Per Hobbes il diritto naturale dell’uomo era illimitato, e a causa di questo lo stato di
natura era uno stato di guerra perpetua, quindi il potere contrattuale dello Stato e del
sovrano che risulta dal trasferimento di tutti i poteri individuali sulla persona del sovrano,
quel potere, per Hobbes era necessariamente assoluto; invece per Locke, prima del
contratto sociale, il diritto naturale di ciascuno, viene limitato dall’uguale diritto degli altri
uomini, (non è più un diritto assoluto ed infinito, come per Hobbes).
Abbagnao dice: “Locke vede già nello stato di natura, la possibilità di una convivenza
ordinata e pacifica”; Locke politicamente è molto più ottimista di Hobbes.
Visto che all’inizio i diritti sono già limitati, il trasferimento dei diritti, secondo la
stessa logica di Hobbes, condurrà ad un potere politico limitato.
Nel suo trattato del governo civile Locke dice: “Lo stato di natura ha una legge di
natura che obbliga ognuno e la ragione, la quale è questa legge, insegna essendo tutti
uguali e indipendenti, nessuno deve danneggiare l’altro nella sua vita, nella sua salute,
nella sua libertà e nella sua proprietà”.
Questo diritto è limitato, quindi anche il diritto di punire il tragressore, che verrà
arrestato, deve essere proporzionato alla tragressione.
Per rendere questi diritti più effettivi, ci sarà in Locke un contratto sociale che fonda
lo Stato, però tale contratto sarà limitato, è ben determinato e controllato dai contrattanti
(in Hobbes i contrattanti, una volta che firmavano il contratto, perdevano ogni diritto)
quindi hanno un diritto di controllo permanente, con il potere sempre limitato dal governo.
La novità è che per Locke, il governo è sottomesso al contratto (in Hobbes il sovrano
era sopra il contratto, doveva far solo regnare la pace civile) e deve eseguire le regole
molto precise di tale contratto, questo è l’inizio della monarchia costituzionale, o più
generalmente del parlamentarismo, del liberalismo politico.
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Abbagnano dice: “La società politica o civile nasce quando gli uomini rinunciano ad
essere ognuno per suo conto gli esecutori della legge di natura e rassegnano questo diritto
nelle mani della comunità”.
Così facendo si definiscono leggi universali (per il paese) uguali per tutti; tutto deve
essere ordinato al bene del popolo, anche le tasse non possono essere impostate senza il
consenso del popolo.
In questa distinzione dei poteri manca la distinzione tra il potere esecutivo e quello
giudiziario, cioè la facoltà di giudicare fa parte dell’esecutivo.
Nella distinzione dei poteri, fatta da Locke c’è un potere federativo (federativo è il
ministrero degli Esteri e della difesa) che non può essere separato dall’esecutivo.
C’è John Toland che è il vero precettore del panteismo, voleva confutare il
panteismo di Spinoza, ma non c’è riuscito, il risultato è che lui stesso è diventato panteista.
Poi c’è poi Anthony Collins con il suo sensismo; è un deismo che non è cristiano
per niente, poi c’è Bolingbroke che è un materialista assoluto, ed è violentamente
anticristiano, sarà un maestro diretto di Voltaire.
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Seminario Mayor San José de Cúcuta
Di fronte a questa triplice posterità di Locke c’è una triplice reazione contro il deismo
e i liberi pensatori, che è una posterità indiretta di Locke: c’è Clarke amico di Newton,
corrispondente di Leibniz, c’è la reazione idealista di Collier e soprattutto uno solo, che
sarà l’unico veramente importante, di primo piano, nella reazione contro il deismo e
l’illuminismo è Berckeley, che è un vero cristiano.
GEORGE BERKELEY
Vita e opere
Berkeley è un grande filosofo cristiano, che occupa un posto assolutamente singolare
nella storia della filosofia, ed occupa anche nell’ordine logico e cronologico dello sviluppo
dell’empirismo, il terzo posto dopo Hobbes e Locke.
Egli prepara direttamente l’empirismo stretto di Hume, però lo fa in modo del tutto
diverso, del tutto coerente; è l’unico in tutta questa serie dell’empirismo veramente
cristiano, veramente spiritualista.
In Berkeley c’è una coerenza perfetta tra la vita e le opere; riesce a mettere insieme
un immaterialismo dottrinale che è molto importante come punto di riferimento nel campo
della filosofia, con un profondo zelo religioso e una vera e propria filantropia, una grande
generosità umana e sociale.
È nato nel 1685 in Irlanda, in una famiglia anglicana di origine inglese; si rivela
straordinariamente precoce, già nel 1700 studia nel Trinity College di Dublino, ci rimane 20
anni, prima come studente e poi come professore di greco e di teologia, ha una formazione
clericale completa.
Nel 1707 pubblica due opuscoli di matematica, nel 1709 viene ordinato sacerdote
englicano e in quello stesso anno pubblica un’opera di grande importanza che è la “Nuova
teoria della Visione” è molto importante per la psicologia scientifica della percezione e nello
stesso tempo è un abbozzo della sua teoria nominalistica della conoscenza.
L’anno seguente, nel 1710, pubblica la sua opera fondamentale “Il trattato sui
principi della conoscenza umana” è un capolavoro dell’epistemologia critica rigorosa nel
campo nominalistico, con coerenza perfetta.
Tra il 1702 e il 1708 scrive per conto suo, un diario filosofico che è un capolavoro di
giustezza della percezione della sua evoluzione filosofica, del suo itinerario intellettuale
filosofico, e lì si vede la formazione velocissima del suo pensiero, annota giono dopo giorno
i punti acquisiti per conto suo.
La sua orientazione filosofica appare molto presto e si approfondirà sempre fino alla
fine, in modo quasi lineare, anche se ci sarà una nuova scoperta molto dopo che sarà
quella del neoplatonismo e riuscirà ad unire la sua prima formazione nominalista con il neo-
plaonismo.
99
Seminario Mayor San José de Cúcuta
1) Locke con tutta la sua ambiguità
2) Cartesio che è un grande classico
3) Malebranche e Newton, che domina tutto il campo della fisica;
Invece gli avversari dei teologi di Dublino sono:
Hobbes che è il simbolo del materialismo e poi tutti i liberi pensatori, eredi di Locke.
Berkeley si accorge che la realtà sostanziale della materia viene ammessa, senza
nessuna critica, sia dai materialisti che dai suoi avversari idealisti, e attraverso
un’illuminazione capisce l’inconsistenza logica di questa persuasione comune: c’è
un’intelligibilità sul concetto di materia che tutti ammettono; fare della materia ancora
indeterminata, una sostanza, è assolutamente non-critica.
Si deve dire che Berkeley al contrario della maggioranza dei moderni della posterità
di Bacone e di Cartesio, cerca la verità per se stessa, gratuitamente, al contrario di ogni
utilitarismo, pragmatismo; infatti scopre che quella verità gratuita è la più utile che si possa
pensare, che è molto efficace sia per la morale, sia per la religione ed anche nel campo
pratico; lo scopo è la gratuità del vero.
Per raggiungere un pubblico più vasto pubblica “I tre dialoghi tra Hylas e Philonous”
in una forma popolare, rendendo accessibile le tesi fondamentali del suo “Trattato sui
principi della conoscenza umana”; poi nel 1713 al 1720
realizza una serie di viaggi in Francia e in Italia; in quel periodo ha incontrato a Parigi
Malebranche; nel 1720-21 scrive un trattato sulla fisica del movimento “De motu” dove
sostiene la passività radicale dei corpi e formula dei principi di filosofia delle scienze, che si
oppongono a Newton e a Leibniz, ma che saranno usati come base del positivismo logico.
Ne 1728 salpa per L’america allo scopo di fondare, nella colonia inglese di Rhode
Island, un’università che diffondesse la cultura cristiana in tutto il Nuovo Mondo; ma non
avendo ricevuto però i sussidi che aspettava, torna in Inghilterra nel 1731.
Questi tre anni (1728-1731) sono molto importanti per il suo pensiero filosofico,
infatti studia Plotino e Proclo e tutti i neoplatonici, e compose l’Alcifrone,o “il minuto
filosofo” un dialogo polemico contro atei e liberi pensatori.
Nel 1734 viene nominato vescovo anglicano di Cloyle in Irlanda nel 1734, in questa
diocesi che è molto povera si fà pastore di tutti, senza distinzione, e collabora attivamente
con il clero cattolico; nel 1740 scoppia un’epidemia molto grave e Berkeley, da buon
pastore, vuole diffondere le virtù terapeutiche dell’acqua di catrame, rimedio che aveva
imparato dagli indiani d’America, in un’opera che è intitolata “Siris” (catena).
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Seminario Mayor San José de Cúcuta
Qui si vede la parte neoplatonica del suo pensiero più maturo, non si sa l’efficacia di
quest’acqua, però a proposito di questo ha fatto tutta una serie di deduzioni fiosofiche di
grande importanza; cioè approfondisce un tema fondamentale, che quello della presenza
universale di Dio, riconosciuta sotto i vari fenomeni, dell’idea di un colloquio di Dio con
l’uomo, tramite quei segni che sono le cose, e di un’ascesa dell’uomo verso Dio.
Arrivato alla fine della sua vita, lascia l’Irlanda per Oxford, in Inghilterra, dato che
non è stato possibile realizzare il suo progetto dell'Istituto accademico nelle Bermude,
vuole realizzarlo ad Oxford, non per evangelizzare il Nuovo Mondo, ma per arginare la
decadenza morale e religiosa dell’Europa, purtroppo non ha potuto realizzare niente di
questo progetto, perchè morì poco dopo, il 14 gennaio 1753.
Come Locke, Berkeley riconosce come basi necessarie del nostro sapere la
riflessione e la sensazione, anche se interpreta quest’ultima in modo molto diverso e
molto più coerente.
Locke distingueva, all’interno delle idee semplici (idee che l’intelletto riceve, in modo
del tutto passivo, dall’esperienza sia esterna che interna, e che esso non può nè inventare
nè distruggere), le “qualità primarie” (qualità che indicano la realtà stessa dell’oggetto e
che non mutano anche quando gli oggetti si trasformano: solidità, estensione,
movimento, figura, numero) e le “qualità secondarie” ( qualità che non ineriscono
negli oggetti e che risultano dalle varie combinazioni delle qualità primarie in relazione alle
condizioni soggettive della nostra sensibilità: colori, suoni, sapori, odori ).
Proprio perchè le qualità primarie dicono come sono in realtà le cose, c’è una realtà
sostanziale, secondo Locke, che si manifesta attraverso la solidità, la figura e il movimento
e che quindi è possibile conoscere attraverso le qualità primarie .
Berkeley corregge il suo predecessore, dicendo che la distinzione tra le qualità primarie
e secondarie non esiste, perchè in realtà le qualità primarie non esistono fuori dalle
seconde, non possiamo percepire nessuna solidità, o
estensione senza il colore, il suono cioè senza le altre apparenze sensibili e per di più nella
psicologia scientifica della percezione, le cosiddette “qualità primarie” risultano da quelle
“secondarie”; per esempio: la percezione visuale dei rapporti spaziali nasce in realtà dal
concorso attivo delle sensazioni visuali con le sensazioni tattili: non posso vedere nello
spazio se non ho imparato a discernere le cose associando attivamente la visione con il
tatto, questo si può provare nella psicologia sperimentale, come ha fatto Berkeley.
Se è così, allora l’errore capitale di Locke è quello di costruire una realtà sostanziale
sulle astrazioni che costituiscono le cosiddette “qualità primarie”, quindi è una pura
costruzione mentale, astratta; infatti se non c’è alcun privilegio delle cosiddette qualità
primarie su quelle secondarie, allora tutti i fenomeni sensibili richiedono, fuori dalla loro
realtà psicologica, un sostrato esterno, una sostanza materiale.
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Seminario Mayor San José de Cúcuta
Berkeley rimprova Locke di fare dell’idea generale un’immagine concettuale astratta.
Nel nominalismo ogni idea reale è necessariamente singolare, individuale, e le idee generali
sono sempre idee particolari, concrete, che servono per indicare altre idee sensibili; ad
esempio: con il concetto di “un uomo determinato” posso pensare per estensione a tutti gli
uomini possibili, ma non ho l’idea dell’uomo in genere; in altre parole non ci sono idee
generali astratte.
La materia appare come un’idea generale astratta, cioè è una pura illusione, non ha
nessun’esistenza, è una pura nostra immaginazione, la materia è una parola vuota, è un
idolo dello spirito.
Per Berkeley l’essere dei fenomeni non pensanti non è nient’altro che il fatto di
essere percepiti da uno spirito, cioè per tutti gli oggetti sensibili, il loro essere è di essere
percepiti; abbiamo l’essere attivo degli spiriti che è quello di percepire e l’essere
passivo dei fenomeni che è quello di essere percepiti, quindi per Berkeley l’unica sostanza
è lo spirito percepiente; così facendo però si potrebbe pensare che è molto lontano dal
senso comune, ma Berkeley dice che non dubita minimamente che le cose che vede o che
tocca esistono realmente, l’unica cosa che di cui contesta l’esistenza è quella che i filosofi
chiamano “materia” o “sostanza materiale”.
Il nostro spirito non è puramente attivo, ha anche una passività che proviene dalla
percezione sensibile e dalle leggi naturali che lo spirito deve scoprire e non inventarle, in
questo lo spirito è passivo.
Queste leggi naturali non sono proprietà della materia che non esiste, ma sono
combinazione di idee in poste allo spirito dalle leggi fisse, il rapporti tra fenomeni e quindi
questo indica la passività parziale dello spirito nel mondo dei fenomeni; però l’attività
riappare subito, non soltanto nell’associazione dei diversi sensi, ma nella combinazione
volontaria di idee tramite la memoria e l’immaginazione (la fantasia e la memoria ci fa
associare i fenomeni già percepiti).
L’attività e la spiritualità, per Berkeley, sono direttamente legati; però dato che in noi
c’è questa passività verso i fenomeni occorre una causa di tale passività, distinta da noi.
Questa causa non può appartenere alle idee sensibili che sono inerte e passive, non
può essere la sostanza materiale che non esiste, la causa esterna aperta alla mia passività
deve essere di qualche altro spirito.
L’illuminazione neoplatonica
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Seminario Mayor San José de Cúcuta
Al di sopra delle idee sensibili e della riflessione comincia a scoprire idee
trascendenti, meta-empiriche, regolatrici del mondo, senza rapporto con le idee astratte.
Si può ora capire che la natura non è un semplice linguaggio divino da decifrare, ma
è un’immagine, un’espressione formale di Dio, la traccia della sua unità nel nostro spirito.
La natura appare, così, come lo strumento immediato di Dio verso di noi, la natura è
così vicina a Dio che sembra palpitare della vita divina, è l’immanenza divina della natura
che si rivela al nostro spirito.
DAVID HUME
Vita e opere
Hume, nato ad Edimburgo nel 1711, è uno scozzese educato in un ambiente puritano
che l’ha presto sviato dalla fede cristiana; studia Newton, legge i grandi classici latini come
Cicerone e Seneca, gli scettici come Montaigne e Bayle e naturalmente gli empiristi
soprattutto Locke e Berkeley, che sono i suoi immediati predecessori.
Studia anche giurisprudenza, però dopo una crisi spirituale molto profonda decide di
dedicarsi alla ricerca filosofica.
Si reca in Francia, nel collegio di La Fleche, dove rimarrà tre anni (1734-1737).
La sua opera fondamentale è “Trattato sulla natura umana”, che comprende tre
parti: intelletto – passioni – questioni morali; le prime due vengono pubblicate a Londra nel
1739 e la terza nel 1740.
Un’altra opera, scritta tra il 1739 e il 1740 è “I saggi morali e politici”, che gli dettero
quella fama che invano egli si era atteso dal Trattato.
Dal 1761 non scrive più niente e farà una carriera pubblica, sarà segretario di
ambasciata a Parigi e dal 1763 al 1766 frequenta gli enciclopedisti e diventa amico di J.J.
Rosseau, quindi sarà legato molto strettamente all’illuminismo francese.
Tale analisi la ritroviamo nel “trattato sulla natura umana”, Hume incomincia come
Locke con l’analisi critica delle idee, fa un inventario generale e dichiara che tutte le
percezioni dello spirito umano si ritrovano in due categorie distinte: impressioni e idee; la
differenza tra di loro consiste nei gradi di causa e di vivacità con cui colpiscono lo spirito;
quindi le prime si differenziano dalle seconde per la maggior forza, vivacità ed evidenza con
cui impressionano la mente che le percepisce; in tal modo possiamo definire come
“impressioni” tutte le sensazioni, passioni ed emozioni nell’atto in cui esse sono avvertite, e
come “idee” i riflessi secondari, le immagini illanguidite, e le copie sbiadite delle
impressioni.
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Seminario Mayor San José de Cúcuta
In noi, dice esattamente sulla scia di Locke, le percezioni complesse si lasciano
dissociare analiticamente in percezioni più semplici, che costituiscono i dati originari e
invalicabili del nostro conoscere, il punto di partenza di ogni ricerca.
Ci sarebbe comunque un minimo, sotto il quale non c’è più divisione possibile, ma
soltanto annichilazione.
Aggiunge Hume: ogni idea semplice corrisponde ad un’impressione semplice, che gli
è simile, e ogni impressione semplice ha la sua idea corrispondente, questo è la regola
tenuta senza alcuna eccezione.
Le impressioni primitive, secondo Hume, danno origine a due generi di idee, quelle
rapportate alla memoria e sono le più vive, e quelle formate dall’immaginazione creatrice,
che combina liberamente le idee semplici, però essa non ha nessun potere sulle idee
stesse.
Per di più l’immaginazione è anche uno strumento di analisi delle idee complesse,
perchè tramite il giro illimitato delle combinazioni, l’immaginazione consente di separare le
idee semplici, le une dalle altre.
Le idee complesse, come per Locke, sono formate da idee semplici; infatti esiste un
meccanismo per l’associazione delle idee che dipende dalla forza di attrazione fra di loro.
Si constata che ci sono delle regole generali, empiriche, che sono anche dei principi
di associazione, ci sarà la similitudine pura, le impressioni sensibili e quindi tra le idee
corrispondenti la contiguità spaziale o temporale delle impresioni e anche il rapporto di
causa e effetto.
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Seminario Mayor San José de Cúcuta
quest’idea di uomo può designare un numero indefinito di cosiddetti esseri umani, ma da
dove viene l’uso universale di questa idea “uomo”? Per Hume, la spiegazione viene da
Berkeley.
Berkeley, infatti diceva che tutte le idee generali non sono altro che idee particolari,
attaccate, però, ad un certo termine, che le dà un significato più esteso.
Le idee astratte sono in sè stesse individuali, però possono divenire generali nel loro
significato; l’immagine dello spirito è solo quella di un oggetto particolare, benchè la sua
applicazione nel nostro ragionamento sia la stessa che se fosse universale.
Per Hume tutta l’analisi delle idee generali partecipa del valore dell’esperienza
diretta, e questo per via d’identità logica.
I giudizi strettamente analitici non fanno difficoltà, cioè ammette senza discussione i
principi della logica, come il principio d’identità, il principio di non-contraddizione e altri
principi logici, però dice giustamente che la conoscenza vera e propria comporta oltre ai
principi logici, altre sette relazioni fondamentali, che sono presenti nella critica della
scienza.
1) la similitudine
2) 2) la contrarietà,
3) 3) la proporzione quantitativa o rapporto di quantità;
4) 4) il grado qualitativo
5) 5) le relazioni spaziali e temporali;
6) 6) l’identità oggettiva o metafisica cioè la sostanza
7) 7) la casualità.
Per Hume le prime quattro fanno difficoltà perchè sono intrinsecamente legate allle idee
come tali, alle idee semplici, e quindi possiedono lo stesso valore oggettivo delle idee
stesse; da queste prime quattro definizioni dipendono direttamente l’algebra e
l’aritmetica, che sono le scienze del numero e perfettamente esatte perchè fondate
sull’unità universale del numero che si applica a tutte le nostre rappresentazioni possibili.
Invece in geometria, secondo Hume, non c’è una precisazione assoluta perchè non
possiamo sovrapporre esattamente le figure, le une alle atre; la geometria viene
dall’esperienza e si applica ad ogni esperienza.
Tutto questo è specialmente la sua geometria è legato alla critica delle relazioni spaziali
e temporali; la concezione dello spazio, secondo Hume, viene dalla percezione tattile e
visuale, astraendo tutti gli elementi particolari e poi si deve analizzare la relazione.
Secondo Hume, non c’è nessuno spazio o tempo assoluto e in questo si oppone a
Newton.
Però dice che noi pensiamo spontaneamente che l’oggetto sussiste tra le nostre
diverse percezioni sensibili, e rapportiamo tutte le percezioni alla causa oggettiva
preesistente, cioè l’oggetto stesso.
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Seminario Mayor San José de Cúcuta
Marèchal commenta così: “La relazione d’identità (cioè tra le diverse
percezioni successive) forma il nucleo psicologico dell’idea di sostanza e dell’idea
dell’io”.
E qui l’idea dell’io sussistente, che Cartesio coglie nel cogito (oggetto di intuizione
immediata, immediatamente evidente) mentre Hume dice invece che purtroppo
l’esperienza smentisce i cartesiani, invece la coscienza si riduce ad una collezione di varie
percezioni che si succedono con una velocità inconcepibile e che sono in un movimento
perpetuo.
La formazione dell’idea dell’io è ancora, secondo Hume, favorita dalla memoria che
unifica le nostre percezioni secondo le loro similitudini; questo però non basta a fondare la
realtà sostanziale, spirituale dell’anima che oltrepassa la memoria attuale.
Marèchal dice che se l’idea dell’io ha qualche valore lo deve alla relazione d’identità
meta-empirica: l’idea dell’io, secondo Hume, non potrebbe avere un valore, se al di là
dell’unità apparente e illusoria ci fosse un’identità reale, fondamentale, legata alla
casualità: è questa relazione essenziale che sarebbe l’unico fondamento delle conoscenze
che pretendonodi oltrepassare l’esperienza attuale; per Locke e per Berkeley questo
andava da sè; invece per Hume, mette in discussione questo principio di casualità e quindi
anche la sostanzialità.
Finora l’unica nostra certezza è l’esistenza delle percezioni come tali e poi anche la
scienza del numero cioè l’algebra e l’aritmetica, tutto il resto naturalmente cioè l’esistenza
esterna dei corpi, dello spirito percipiente è soltanto oggetto di credenza la cui unica
giustificazione sarebbe nella relazione di casualità e da qui nasce la critica della
casualità.
Nella Critica della casualità troviamo l’empirismo stretto, che sarà necessariamente
scettico ed anche un fenomenismo radicale.
In Hume si deve distinguere il principio metafisico della casualità, che Hume sta per
distruggere dal suo punto di vista e un principio di casualità, che invece ammetterà.
Secondo Hume il principio più generale della casualità al di là del campo empirico si
potrebbe esprimere così: “tutto ciò che comincia ad esistere deve avere una causa
della sua esistenza” ; per Hume, questa proposizione per essere razionale e certa
bisogna che sia intuitiva, evidente oppure dimostrabile.
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Nel campo dell’empirismo Hume ha ragione, perchè il principio di casualità non è nè
dimostrabile, nè evidente.
Per Hume non si esce dalla pura credenza senza fondamento razionale a proposito
della casualità, quindi siamo condannati allo scetticismo radicale.
Dice: “tutte le idee distinte sono separabili le une dalle altre (atomismo delle
idee), le idee di causa e di effetto sono evidentemente distinte, quindi si può
sempre concepire una cosa come inesistente ad un certo tempo, poi esistente
senza aggiungere l’idea della causa; le idee logicamente separabili sono quindi
realmente separabili; dunque l’idea di causa non si può logicamente dimostrare”.
Per Hume la casualità non è imposta dalla ragione ma deve essere suggerita
dall’esperienza.
Questa è la casualità empirica che spesso funziona, ma non è una certezza, è una
credenza, è un trasferimento d’assenso: l’assenso che dò alla mia percezione della fiamma
lo trasferisco al calore che non posso sentire a quella distanza.
Il principio empirico di casualità ha un valore epistemologico, che può essere utile alle
scienze, ma non c’è una giustificazione razionale; è valido soltanto come relazione fra
varie percezioni possibili: infatti la fiamma e il calore, sono due percezioni, una attuale,
l’altra rimane possibile; e mai come relazione tra la percezione e l’oggetto; infatti la
fiamma è soltanto quello che vedo, ma non c’è nessun oggetto reale dietro.
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Seminario Mayor San José de Cúcuta
L’oggetto esterno, come tale, non è mai conoscibile, per di più potrebbe non esistere
(scetticismo radicale).
Hume, che voleva fondare tutta la sua filosofia sulla conoscenza dell’uomo, arriva alla
conclusione che fuori dalla percezione immediata e dalle relazioni tra le diverse
percezioni, non c’è niente; l’uomo non è assolutamente conoscibile e forse non è
niente, l’unità reale del soggetto umano svanisce completamente, restano solo le
percezioni molteplici, un flusso perpetuo di percezione.
Hume non solo ha analizzato gli elementi dello spirito, ma analizza anche tutti gli
elementi che costituiscono il merito personale: le qualità, le abitudini, i sentimenti, le
facoltà, che rendono l’uomo degno di stima o di disprezzo; in tal modo il problema morale
diventa una pura questione di fatto, che può essere analizzata con il metodo sperimentale,
questo si vede soprattutto nelle “Ricerche sui principi della morale” estratti dal terzo libro
del “Trattato sulla natura umana”.
La religione
A proposito della religione, Hume che non crede a nulla, pretende di insegnare ai
credenti cos’è la vera religione.
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Seminario Mayor San José de Cúcuta
Per lui, la vera religione è un acredenza senza nessun fondamento, quindi un puro
fideismo, però ha visto, come Hobbes, che la religione ha una certa utilità sociale e quindi
evita di attaccarla direttamente, ma la riduce a quello che vuole che sia, cioè alla pura
utilità sociale.
Nei dialoghi “Sulla religione naturale” pubblicati postumi, Hume intraprende la ritica
delle prove dell’esistenza di Dio, tale critica verrà ripresa da Kant nella dialettica
trascendentale della Critica della Ragion Pura.
Nel contesto di Hume, questa critica sembra piuttosto inutile, perchè in base ai postulati e
allo sviluppo dell’empirismo con la critica della sostanza, è evidente che nessuna prova di
Dio può valere.
Nella seconda parte di questi dialoghi, Hume dice che niente è dimostrabile senza
che il suo contrario implica una contraddizione, quindi ciò che noi concepiamo come
esistente, possiamo anche concepirlo come non esistente.
Hume dice che si può fare una storia naturale della religione.
Le idee della religione dell’uomo vengono non dalla contemplazione della lettura, ma dalla
paura, dal timore davanti alla morte, alla malattia, alla privazione.
Aggiunge, però, che nel politeismo c’è un’idolatria senza intolleranza, mentre il
monoteismo sarebbe più “civilizzato”, ma con il pericolo dell’intolleranza che sarebbe legata
all’unico Dio, come un dio ha vinto e ha eliminato tutti gli altri, così il monoteismo dovrebbe
vincere ed eliminare tutte le altre religioni e quindi cadrebbe nell’intolleranza.
Alcune sue analisi sono di una coerenza veramente impressionante, come quella
dell’idea generale, anche se la riprende da Berkeley.
Noi sappiamo da Berkeley, che c’è un’attività del soggetto, che lo definisce meglio
della pura percezione passiva e che non è semplicemente un gioco di combinazioni delle
idee semplici.
Hume vuole ridurre la coscienza del soggetto al puro flusso delle sensazioni, se fosse
così saremmo perfettamente incoscienti.
KANT
Kant ha un posto veramente unico nella storia della filosofia, chiude un periodo, che
egli stesso definirà pre-critico e ne apre uno nuovo, che è quello critico.
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Seminario Mayor San José de Cúcuta
L’importanza stessa di Kant nella storia della filosofia si vede dal vocabolario: pre-
kantiano diviene quasi sinonimo di pre-critico, cioè tutto quello che precede Kant, e
filosofia critica è quasi sinonimo di kantiano o post-kantiano.
Con questa sintesi, Kant intende superare le aporie sia dell’una che dell’altra
corrente, riprendendone gli elementi più critici.
Indubbiamente c’è un progresso nella storia delle idee, però Kant non risolve tutto.
Il terzo scopo non corrisponde alla terza critica, cioè alla “critica della facoltà di
giudicare”, ma è quello di giustificare “la religione nei limiti della ragione”, che è
anche una sua opera del 1793, egli vuole preparare le vie per una fede razionale, o almeno
ragionevole per rispondere alla domanda “Cosa posso sperare?”.
Kant, essendo un buon cristiano, protestante e pietista vuole conciliare l’illuminismo con
la sua pietà religiosa e morale; per Kant l’assoluto ultimo della vita umana sta nel bene
morale.
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Per attingere ad una vera conoscenza rigorosa Kant intende fare la sintesi della
ragione e dell’esperienza: la materia della conoscenza viene interamente dalla
percezione sensibile, mentre la forma universale, necessaria della conoscenza
viene dalla struttura razionale a-priori del soggetto conoscente se stesso.
Kant nasce a Konigsberg nella Russia orientale, il 22 Aprile 1724, dove muore
ottanta anni dopo, cioè nel 1804.
La sua prima formazione l’ha avuta nel collegio “Federico” diretto dal pietista Shultz,
discepolo di Leibniz, poi entra nell’università di Konigsberg nel 1740, quando Federico II
diviene re di Prussia, segue le lezioni di Martin Knutzen, anche lui discepolo di Leibniz ed
essendo anche un matematico, è discepolo di Newton, quindi Kant subirà l’influsso sia di
Leibniz che di Newton.
Nel 1743, a 22 anni, scrive la prima opera, “Saggio per introdurre in filosofia il
concetto di grandezza negativa”, opera dimenticata, in cui tenta di conciliare Cartesio e
Leibniz.
Nel 1755 pubblica “Una storia naturale e la teoria del cielo”, opera importante
dal punto di vista della cosmologia fisica perchè anticipa la cosmologia di Laplace e più tardi
nella storia della cosmologia si parlerà della cosmologia di Kant – Laplace: è un universo
statico, eterno, retto dalla fisica newtoniana con un’evoluzione molto lenta.
Nel 1750 scrive un altro saggio significativo di fisica newtoniana, poi nel 1760 lascia
definitivamente la fisica.
Nel 1760 scopre Hume e uscirà dal suo sonno dogmatico, però la maturazione
avviene molto lentamente perchè la prima critica uscirà nel 1781, quasi 20 anni dopo.
“La dissertazione del 1770” è intermediaria perchè da una parte è già critica a
causa della distinzione chiara tra la sensibilità e l’intelletto e poi lo spazio e il tempo
appaiono già come le forme pure della sensibilità, ma il concetto dell’intelletto e della
ragione rimangono pre-critici.
Per 11 anni del periodo critico Kant non pubblica nulla, la prima critica cioè quella
della Ragion pura appare nel 1781, c’è poi una seconda edizione modificante del 1787.
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Qui Kant intende rispondere alla prima domanda “Cosa posso sapere?” fonda il
criticismo istituendo il tribunale della ragione.
“La critica della ragion pura” è un’opera molto difficile e fondamentale, essa
segna la nascita ufficiale della filosofia critica.
Nel 1785 scrive un’altra opera “Fondazione per la metafisica dei costumi”, ed è
la prima opera di Kant nel campo morale, e costituisce un’introduzione della seconda critica
“la critica della ragion pratica” del 1788, con la quale intende rispondere alla seconda
domanda “Cosa devo fare?”.
Nel 1790 scrive la terza critica, che doveva fare da tramite tra le prime due, perchè
uno dei grandi problemi della filosofia kantiana è che l’uso teoretico della ragione della
prima critica e l’uso pratico della seconda sembrano molto diversi a tal punto che non c’è
nessun legame tra di loro e quindi la terza critica “critica della facoltà di giudicare”
costituirà il legame.
Nel 1793 viene pubblicata l’opera chiave, che è anche lo scopo di Kant “La religione
nei limiti della ragione”; nel 1797 scrive “La metafisica dei costumi” che costituisce la
grande morale kantiana.
Studiando la conoscenza scopriamo le sue leggi che saranno quelle del tribunale
della Critica della Ragion Pura; questo tribunale determinerà quando la ragion giudica
legittimamente secondo le leggi e quando è fuori-legge.
Per Kant la conoscenza che è da studiare, consiste in una serie di giudizi che sono di
due tipi, già distinti da Leibniz:
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Seminario Mayor San José de Cúcuta
I giudizi analitici sono sempre giusti, non sono problematici, ma servono poco
perchè non possono estendere la nosrta conoscenza, visto che c’è il solo predicato già
compreso nel soggetto, essi non bastano a fondare la scienza.
Accanto ai giudizi analitici ci sono: i giudizi sintetici, che Leibniz chiamava non
identici; essi possono estendere la nostra conoscenza, ma possono essere anche
problematici.
Nei giudizi sintetici il predicato aggiunge qualcosa alla nozione di soggetto; per essi
la non contraddizione è sempre necessaria, però, non basta a giustificare la verità o la
falsità di tali giudizi; qui Leibniz aggiungeva il principio di ragion sufficiente, che Kant non
ammette come principio di conoscenza perchè esso è pre-critico.
Questa è la vera domanda della “Critica della Ragion Pura”, la risposta sarà molto
semplice: i giudizi sintetici a-priori sono validi nel campo della fisica e della
matematica, ma non nel campo della metafisica.
Secondo Kant, l’oggetto proprio della conoscenza sarà costituito da una serie di
giudizi sintetici a-priori.
Per Kant è evidente che ogni conoscenza comincia con la sensibilità empirica, però
l’unità dell’oggetto non può provenire da essa in quanto è sempre diversa e molteplice,
ma può venire soltanto dal soggetto conoscente, che dà la propria unità formale a
tutta la diversità sensibile, quindi se viene dal soggetto è a-priori.
UNITA’ INTELLIGIBILE
po della scienza, della ragion pura, del
TRASCENDENTALE che è la struttura che
costituisce il soggetto.
Qui il dominio del nenessario,
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L’oggetto vero di conoscenza deve avere una forma a-priori, deve essere
costituito dal soggetto trascendetale e da una materia a-posteriori che viene dalla
sensibilità.
Nella conoscenza umana ci sono tre facoltà pure, a-priori, che sono gerarchizzate:
La seconda facoltà è l’intelletto, che unifica il dato sensibile, già ordinato dallo
spazio e dal tempo, per farne l’oggetto proprio della conoscenza.
La terza facoltà è la ragione, che vuole unificare tutti gli oggetti già costituti
dall’intelletto, sotto le tre idee regolatrici, che non sono oggetto di conoscenza, secondo
Kant: l’io sostanziale, il mondo e Dio.
Visto che non c’è un tempo e uno spazio assoluto, ma è sempre relativo alle diverse
percezioni che abbiamo, a Kant rimane l’ultima possibilità, ed è quella che lo spazio e il
tempo sono forme a-priori, quindi trascendentali della nostra percezione.
Con queste due forme a-priori della sensibilità si possono costruire tutti i giudizi
sintetici a-priori, che formano la matematica: la geometria è fondata sul senso esterno,
lo spazio, e l’aritmetica e l’algebra sono fondate sul senso interno, il tempo.
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Secondo Leibniz, tutti i giudizi matematici erano giudizi identici, cioè analitici, invece
Kant dice che i giudizi matematici possono essere verificati analiticamente post-factum,
cioè prima bisogna costruirli tramite l’attività del soggetto nelle forme pure a-priori della
sensibilità, cioè nel tempo e nello spazio e poi vedere se sono giusti.
C’è una sintesi di un elemento razionale, che sono le 12 categorie dell’intelletto: così
si formano i giudizi sintetici a-priori, che costituiscono il fondamento della scienza.
Kant dice: “I concetti senza contenuti sensibili sono vuoti, le intuizioni senza concetti
sono cieche. È dunque necessario rendere sensibili i propri concetti e rendere intelligibile le
proprie intuizioni, ossia sottoporle a concetti”.
Così Kant costruisce la tavola delle 12 categorie a partire dalle 4 classi del giudizio che
sono:
1) quantità
2) qualità
3) di relazione
4) di modalità
le diverse forme del giudizio, legate alla tradizione aristotelica, si devono applicare alle
percezioni, alla materia sensibile, solo in questo modo costituiscono le vere categorie
dell’intelletto.
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Ciascuna classe di giudizio si divide in tre specie; ad esempio le tre specie del
giudizio di relazione sono: giudizi categorici, ipotetici e disgiuntivi.
ESEMPIO:
giudizio categorico: Socrate è un uomo
Giudizio ipotetico: Se Socrate è un uomo allora è mortale (Se A allora B)
Giudizio disgiuntivo: Socrate è un uomo o no ( A o B)
Da qui deriva la casualità per essere usata bene deve applicarsi ad un dato sensibile,
quindi essa farà parte del campo empirico nella fisica e non nella metafisica.
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L’appercezione trascendentale cioè l’operazione stessa che del soggetto
conoscente, che fa un’unità dell’oggetto a partire dalla diversità sensibile si realizza
mediante queste due categorie.
Dunque c’è una prima unificazione da parte della sensibilità (spazio e tempo) e una
seconda unificazione da parte dell’intelletto, che costituisce l’oggetto proprio della
conoscenza con le 12 categorie.
Questi principi regolatori sono ideali, cioè, non hanno nessuna realizzazione
oggettiva.
Secondo Kant, su questa base, non si può costruire nessuna metafisica legittima, nè per
negare i noumeni, cioè le realtà ontologiche, al di là, dei fenomeni.
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Questi noumeni, corrispondenti alle tre idee sono inconoscibili da parte della ragione
pura teoretica; perciò secondo Kant, siamo condannati all’agnosticismo della ragione pura
teoretica.
Kant, come Cartesio, vuole fare tabula rasa, per costruire una vera metafisica pratica
basandosi sull’esperienza morale.
Kant si oppone al paralogismo della ragione pura teoretica, in cui essa cade quando
vuole oltrepassare i limiti e darsi oggetti che non corrispondono a nessuna percezione
sensibile.
cioè, la ragione pura teoretica potrebbe dimostrare sia la tesi che l’antitesi in modo
equivalente, ciò vuol dire che si contraddice, cioè va contro il principio di non
contraddizione.
La ragion pura può dimostrare ambedue le tesi, che sono ugualmente false, perchè
del mondo non c’è nessuna percezione possibile, in quanto esso è l’orizzonte di tutte le
percezioni possibili.
L’idea del mondo è necessaria come regolatrice, ma non è un oggetto di percezione.
Dunque queste dimostrazioni sono paralogismi perchè non possiamo stabilire con la
ragion teoretica se il mondo ha un inizio o meno, s’è finito o infinito.
b) TESI: ogni sostanza composta nel mondo consta di parti semplici ed esiste
soltanto il semplice (Antinomia dell’Atomismo: che riduce tutti gli elementi del
mondo in atomi)
ANTITESI: nessuna cosa composta del mondo consta di parti semplici e in esso
non esiste niente di semplice.
c) TESI: la casualità, secondo le leggi della natura, non è la sola dalla quale
possono essere derivati tutti i fenomeni del mondo: è necessario ammettere
per la spiegazione di essi anche una casualità di libertà (la libertà propria
dell’uomo) (Antideterminismo).
ANTITESI: non c’è alcuna libertà, ma nel mondo tutto accade unicamente, secondo
le leggi della natura (Determinismo assoluto)
Qui, per Kant, tutte e due le proposizioni sono vere, ma a livelli diversi: la prima
(libertà) è vera solo sul piano delle cose in sè, dei noumeni; la seconda (determinismo) è
valida solo sul piano dei fenomeni, il campo della ragione pura teoretica.
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d) TESI: nel mondo come sua causa c’è un essere assolutamente necessario (Dio-
Teismo)
Qui Dio non appare dei fenomeni, ma solo nel mondo morale dei noumeni.
Così facendo Kant istituisce una divisione irriducibile tra fenomeni e noumeni, tra la
ragione teoretica e la ragion pratica.
Kant rifiuta l’argomento ontologico di Anselmo, ripetendo la critica di Hume, dice che
l’esistenza non appartiene all’essenza di una cosa, ma che l’esistenza si aggiunge
sinteticamente ad ogni essenza, perciò non c’è un essere necessario.
La ragione pure teoretica conosce solo i fenomeni, gli oggetti come noi li conosciamo
e non può conoscere i noumeni, le cose in sé; però c’è una possibilità nella conoscenza
sensibile, per spiegare tale passività Kant dice che c’è necessariamente una cosa in sè, di
cui non possiamo dire niente, tranne che è l’origine della passività della nostra sensibilità.
Per Kant la ragione umana, sempre limitata, al contrario dell’idealismo tedesco, non
si dà il proprio oggetto, cioè non si dà la materia che è passivamente ricevuta, ma si dà
soltanto la forma, necessaria a priori, della costruzione dell’oggetto.
Secondo Kant c’è un’esigenza logica che sia una cosa in sè, di cui non si può dire
nulla, ma soltanto che esiste necessariamente come condizione di possibilità della nostra
conoscenza sensibile.
Dunque siamo sempre nell’agnosticismo della ragione pura; solo la ragione pratica
potrà specificare il contenuto delle cose in sè.
Dall’infanzia hanno sempre colpito Kant: “il cielo stellato sopra di me e la legge
morale in me”.
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L’ordine morale si fonda su un’esigenza assoluta della coscienza morale, quello che
Kant chiama imperativo categorico (assolutezza del dovere), che si oppone all’imperativo
ipotetico (se vuoi.... allora...); quindi l’ordine morale si fonda sul dovere assoluto: il bene è
da fare, senza condizioni, perchè è il bene.
Per Kant il contenuto della moralità non può essere empirico, perchè a posteriori,
mutevole, non necessario; solo la forma razionale universale costituisce la morale
kantiana: l’a-priori della ragion pratica è l’imperativo categorico.
A) Agisci sempre secondo quella massima che al tempo stesso puoi vedere che divenga
una legge universale
B) Agisci come se la massima della tua azione dovesse essere elevata dalla tua volontà a
legge universale della natura
C) Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona, sia in quella di ogni altro,
sempre come fine, mai solo come mezzo; cioè l’uomo non può essere strumentalizzato;
il regno dei fini è inseparabile dalla moralità e si oppone al regno empirico dei mezzi; la
persona umana va sempre rispettata ed h un valore assoluto, che viene dall’universalità
delle sue ragioni.
C’è nell’uomo una tendenza naturale ad agire contro la ragione per un vantaggio
empirico, particolare, egoista cioè preferirmi come soggetto empirico all’universalità
razionale dell’umanità, cioè l’uomo preferisce un vantaggio empirico, personale, alla natura
umana stessa, e questo è il male radicale, cioè il male che c’è alla radice stessa
dell’umanità.
Questo tema viene sviluppato in “La religione nei limiti della semplice ragione”, che è
una forma di razionalizzazione dell’idea cristiana del peccato originale, ma ancora più
radicale, perchè per Kant quel male tocca la radice stessa della natura; è una corruzione
della sostanza ontologica dell’uomo.
A causa di questo male radicale, che è la fonte di tutti i mali possibili, c’è sempre uno
sforzo necessario per raggiungere la purezza razionale dell’intenzione.
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Non possono essere teoricamente dimostrati, però sono indispensabili alla vita
morale, e dunque alla ragion pratica.
Questi due ultimi postulati sono necessari per realizzare all’infinito, in Dio e
nell’eternità, l’accordo, sempre cercato e mai trovato sulla terra, tra la pura moralità e la
felicità.
È questo che muove tutto il dinamismo morale dell’uomo, perchè l’uomo ha due
fini: il fine puramente morale (la purezza assoluta dell’intenzione) e il fine proprio
della sua natura che è la felicità infinita.
Però dal punto di vista pratico (che è molto più importanti per Kant) questi postulati
sono ipotesi necessarie, senza le quali non c’è moralità possibile; dall’esperienza sappiamo
che la moralità c’è, quindi, c’è una certezza rigorosa della ragion pratica e dei suoi
postulati.
Quindi essi sono rigorosamente sicuri, ma sempre nell’ordine pratico della moralità,
non nell’ordine teoretico della conoscenza; il grande problema di Kant è di aventi separati,
come ha separato i fenomeni e i noumeni.
Kant privilegia la pratica sulla teoria ( privilegia la ragion pratica sulla ragion
teoretica).
Blondel cercherà di trovare una via media tra il privilegio aristotelico della teoria e il
privilegio kantiano della pratica: questa via intermedia sarà l’azione, che è insieme
teoretica e pratica.
Religione e storia
Quindi per un certo verso Kant, come Locke, accetta la rivelazione cristiana, perchè
ragionevole, perchè buona per la morale; ma è la ragion pratica che è giudice, in ultima
analisi, della giustezza della stessa rivelazione (allora in che senso può essere una vera
rivelazione? È una rivelazione interna alla ragione, è puramente una gnosi).
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Giudizio determinante e giudizio riflettente
La “Critica della facoltà di giudicare” ha come scopo preciso di ritrovare l’unità della
ragione divisa in ragione teoretica e ragione pratica.
Per ritrovare l’unità Kant comincia da una distinzione ancora più fondamentale, che
provocherà una nuova separazione.
Per non essere in contraddizione con la “Critica della Ragion Pura” Kant deve
distinguere tra giudizio determinante che è costituito dall’oggetto della conoscenza e il
giudizio riflettente che non costituisce l’oggetto della conoscenza, ma riflette su di esso.
Per Kant ogni giudizio consiste nel sussumere (dedurre) il particolare dall’universale.
Se questo universale è dato a-priori ( è già conosciuto) come norma necessaria della
conoscenza, e la facoltà di giudicare indica semplicemente il particolare da sussumere sotto
quell’universale, allora il giudizio è determinante.
Kant scopre nella bellezza una finalità soggettiva interna al soggetto percipiente,
quindi necessaria e universale perchè a priori.: il bello risponde alla nostra attesa di
un’armonia interna di un accordo tra l’immaginazione e l’intelletto.
C’è l’universalità del bello, come finalità soggettiva (armonia delle nostre facoltà,
quindi soggettiva) che però è diversa dall’universale (quello della ragion pura teoretica)
come dal buono (quello della ragion pratica); però consente il passaggio dall’una all’altra;
dal vero al buono.
Dopo il bello (che è l’armonia interna delle facoltà) c’è anche il sentimento del
sublime, che è infinitamente al di là del bello, è di un altro ordine, perchè qui non c’è più
l’armonia interna, ma la spoporzione infinita tra la grandezza e la potenza che provocano
l’ammirazione dell’opera bella, e la nostra finitudine umana, sensibile.
Il sublime dunque rivela l’infinità morale della ragion pratica che supera infinitamente
ogni misura sensibile, empirica.
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La scoperta della finalità oggettiva della natura stessa farebbe l0unità tra le due
critiche, perchè si troverebbe così il mondo dei fini nel mondo naturale.
Questa finalità oggettiva della natura però non si trova nei fenomeni stessi della
conoscenza: il giudizio di finalità non è determinante (cioè costitutivo dei fenomeni,
dell’oggetto) , ma solo un giudizio riflettente: è la nostra esigenza di intelligibilità che
scopre nell’organismo biologico una finalità intrinseca e “oggettiva” tra la subordinazione
delle parti dell’organismo all’insieme di quello; l’organismo biologico è più di un insieme di
parti; ha una propria organizzazione dove le parti sono subordinate all’insieme.
La casualità finale del vivente è parallela a quella meccanica delle parti (tema
leibniziano).
L’intelletto divino appare dunque come una condizione di possibilità della finalità
della natura.
Per rifare l’unità della ragione, cioè la sintesi del mondo sensibile con la sua causalità
e il suo determinismo ed del mondo intelligibile con la sua libertà, occorre realizzare
l’assunzione della natura nella morale.
Questa assunzione non è possibile nè a partire dalla natura perchè non conosce il
mondo intelligibile, ma soltanto la cosa in sè, nè a partire dalla morale perchè non conosce
la costituzione dell’oggetto della conoscenza, ma occorre quel terzo elemento con le radici
in entrambe le parti, nella natura e nella morale e cioè la facoltà di giudicare tra la ragione
teoretica e quella pratica.
E per questo che Kant ha studiato il giudizio riflettente di finalità sia soggettiva che
oggettiva: finalità soggettiva è quella estetica , contemplativa e teoretica per
mostrare nello stesso fenomeno, il rapporto adeguato tra le nostre diverse facoltà di
conoscenza- l’armonia interna.
Nella seconda parte, la finalità oggettiva della natura induce una credenza razionale
el fine oggettivo che organizza le cose della natura e che presuppone l’intelletto intuitivo
divino.
Questa credenza razionale costituisce un’analogia con noi stessi perchè la nostra
azione ha sempre un fine da realizzare e perciò con questa finalità oggettiva siamo vicini
alla causalità finale della ragione pratica.
Quando uno ha cominciato dalla separazione, come ha fatto Kant, (ragion teoretica-
ragion pratica) non può più riunire gli elementi separati.
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CRITICA DELLA CRITICA KANTIANA
1. I DATI ACQUISITI
Dal punto di vista teoretico, cioè della ragione pura, Kant supera le aporie sia
dell’empirismo di Hume, sia quelle del razionalismo dogmatico di Leibniz, realizzando una
sintesi molto potente: da una parte ha mostrato come si opera la costituzione dell’oggetto
della conoscenza tramite i principi a-priori della sensibilità, dell’intelletto e della ragione,
che sono universali e necessari, dall’altra parte ci sono i dati a-posteriori, empirici e
contingenti.
Dal punto di vista intermedio del giudizio di finalità, Kant sottolinea, forse, per la prima
volta, l’importanza e l’universalità del giudizio estetico, della bellezza; poi c’è un’apertura
alla finalità naturale e all’intelletto intuitivo divino, grazie al giudizio teleologico; entrambi i
giudizi, estetico e teleologico, sono riflettenti ed questo è già un limite.
Limiti
Un altro limite è quello che la critica kantiana non è abbastanza radicale, i punti di
partenza sono stati ammessi senza critica come la validità della matematica e della fisica e
di tutti i primi principi non dà una giustificazione critica.
Per quanto riguarda la morale, essa è una morale formale dell’intenzione pura, dove
la realizzazione pratica e le conseguenze non sono prese in considerazione.
Secondo la critica di Blondel, tutto viene dalla perdita dell’unità concreta dell’azione e
quindi dell’uomo stesso e a causa di ciò nascerà il pessimismo di Schopenhauer : è l’azione
che unifica tutto.
Un altro limite è quello che nella critica kantiana non c’è posto per l’articolazione di
natura e soprannaturale, e quindi l’azione che potrà unire fenomeni e noumeni potrà forse
unire anche la natura e il soprannaturale.
Libertà e determinismo
Nell’ordine teoretico della ragione pura che è il mondo dei fenomeni regna il
determinismo assoluto, mentre nell’ordine morale, noumenale regna la libertà.
Nella terza antinomia della critica della Ragion pura abbiamo già visto l’opposizione
tra determinismo per i fenomeni e libertà per i noumeni, che non si possono nè unificare,
nè conciliare.
A causa di questo avremo una ambiguità nella concezione kantiana, della storia
perchè essa appartiene ai due ordini, cioè in quanto storia si scrive nel mondo fenomenale,
però c’è anche l’aspetto nuomenale dell’uomo, che nella sua libertà fa la storia.
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Dunque l’unica volontà vera è la volontà di essere e sostituirla con la volontà dal
nulla.
Il superamento nella via del realismo integrale, è quello di Blondel, che parte
dalla ipotesi leibniziana del vincolo sostanziale; è un superamento anche storico, realizzato.
Però, molto tardi, alla fine dell’800 e nel 900.
Sulla stessa linea vi è il superamento nella via del realismo critico con Marechal,
Scheuer, Isaye; che farà la giustificazione critica, rigorosa dei punti di partenza anteriori ad
ogni dimostrazione possibile.
Il primo superamento storico della critica kantiana è quello che va verso l’idealismo
assoluto con Jacobi, Fichte e Schelling.
L’instabilità della critica kantiana è stata rivelata tramite la critica di Jacobi ( 1743-
1819).
Per Jacobi è importante eliminare l’opacità, l’inintelligibilità delle cose in sé, postulata
da Kant per spiegare la passività della percezione sensibile, ma che è assolutamente
inconoscibile, e poi accusa Kant di aver fatto un uso metempirico della casualità: la
casualità è una categoria dell’intelletto, che è vuota se non c’è una percezione sensibile
corrispondente, la casualità è stata usata all’interno della percezione sensibile per costruire
l’oggetto fisico, che serviva a giustificare la fisica di Newton, ma poi Kant ricorre alla cosa
in sè, che è al di là di ogni percezione sensibile possibile; è chiaro che qui la critica di Jacobi
sembra del tutto valida, è un uso metempirico della casualità.
Jacobi
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Jacobi era un forte avversario dell’idealismo in genere, ma ne profetizza la nascita e
per di più profetizza la deriva successiva dell’idealismo verso il nichilismo di Schopenhauer
e di Nietzsche, egli, suo malgrado, prepara l’idealismo assoluto attraverso la negazione
delle cose in sé, che era l’unico limite dell’idealismo trascendentale kantiana, perchè
istituiva la passività della percezione sensibile, quindi la conoscenza non si dà il proprio
oggetto materiale, ma soltanto quello formale.
Jacobi dice che tramite la dotta ignoranza noi possiamo conoscere in qualche modo
l’incondizionamento, cioè Dio, che fonda ogni condizionamento, ogni conoscenza finita e
dirà: “Bisogna riconoscere evidenze anteriori ad ogni dimostrazione”, cioè i primi principi
della conoscenza, perchè ogni dimostrazione si appoggia su di essi, però bisognerebbe
giustificarli, tramite le ritorsioni, ma questo Jacobi, non lo fa.
Nella via aperta da Jacobi, Ficthe e Schelling edificheranno i primi grandi sistemi
post-kantiani di un idealismo sempre più assoluto.
Con Ficthe scompare la prima parte della ragione pura, l’Estetica Trascendentale con
la sua passività; scomparendo le cose in sé andremo verso l’idealismo assoluto, cioè il
soggetto della conoscenza creerà il proprio oggetto formalmente e materialmente.
HEGEL
Hegel occupa un posto veramente unico nella storia della filosofia, come Cartesio e
Kant: riassume tutta la filosofia moderna Cusano, Bruno, Cartesio; Spinoza; Leibniz, Kant e
ovviamente Jacobi, Fichte e Schelling.
Ha costruito il sistema filosofico post kantiano più coerente e comprensivo che ci sia,
ha un influsso così considerevole che ne dipendiamo ancora così tanto che è molto difficile
giudicare serenamente.
Bisogna capire con simpatia questo sforzo intellettuale senza precedenti, per evitare
le caricature che non servono a nulla, però bisogna anche essere critici nei suoi confronti,
non bisogna divinizzarlo, è chiaro anche lui avrà dei limiti.
Come bisogna essere più critici di Kant per superarlo, così bisogna entrare
nell’intelligenza speculativa di Hegel che cerca di raggiungere il concreto, ma forse
bisognerà essere più concreti della stesso Hegel per avere qualche speranza.
Bio-bibliografia
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Terminati gli studi teologici, non volendo diventare pastore, fa il precettore a Berna
per potersi sostentare. Qui scrive alcune note teologiche e una Vita di Gesù, pubblicati solo
nel 1907 col nome di Scritti teologici giovanili di Hegel.
Pubblica la prima edizione della Enciclopedia delle scienze filosofiche, cui seguiranno
altre edizioni ampliate.
Ha una fede naturale: crede nello spirito umano, nella razionalità, nell’intelligibilità
del mondo.
C’è un progresso nella storia umana, che comprende anche apparenti regressi (ad
esempio il Terrore è apparentemente un regresso rispetto al progresso della Rivoluzione
Francese); ma le regressioni apparenti saranno come le astuzie della ragione che si
nasconde, ma per progredire.
Il giovane Hegel si occupa della cultura del tempo, il romanticismo (dal quale poi si
distanzierà).
Cerca anche la causa dei difetti delle istituzioni del suo tempo si interessa alle
strutture politiche e alle istituzioni religiose.
La religione che lui vede nel suo tempo è per lui troppo oggettiva, estranea alla vita,
al soggetto umano, al cuore, al sentimento.
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Rimprovera al cristianesimo di aver cacciato gli dei fuori dalla natura, considerata
come una semplice macchina.
Hegel sempre in gioventù, sogna uno stato politico simile alla città greca, con l’uomo
libero inserito nell’insieme e non prigioniero dell’oggettività.
Hegel supera così l’ideale romantico della fusione con la natura dialetticamente,
concettualmente poi scopre un senso nelle opposizioni tra l’uomo e la natura e le supera in
un’unità sintetica che salva le opposizioni negandole.(C’è qualcosa di questo in Pascal e
ancora di più in Cusano, ma per Cusano la conciliazione è soltanto in Dio).
Così si forma progressivamente la sua dialettica che è, secondo lui il senso stesso del
progresso storico della coscienza.
Per raggiungere il senso delle cose bisogna avere un metodo “scientifico” come
quello di Kant ma che deve andare molto più avanti, perchè Kant si ferma al formalismo
astratto.
Vuole integrare il problema del senso della storia. Non è il primo ad avere fatto una
filosofia della storia (Vico l’ha preceduto).
Kant nel 1784, nella stessa prospettiva dell’Illuminismo tedesco di Lessing, vedrà la
storia come lo sviluppo delle facoltà dell’uomo e della sua personalità morale, fino
all’apparizione dello Stato moderno.
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Anche Kant stesso vede l’antagonismo sociale come un mezzo dello stesso sviluppo, ciò è
un elemento molto importante della dialettica di Hegel nel campo politico.
C’è l’idea dello stato primitivo dell’uomo che è lo stato d’innocenza, l’istinto, l’unità
semplice e immediata dell’uomo con se stesso; poi viene lo sviluppo culturale, che è come
uno stato contro natura (la cultura introduce una differenziazione nell’identità originaria);
questa opposizione viene superata nello stato finale: l’uomo colto si trova nella piena
coscienza di sé.
Storico e a volte gli stessi conflitti sono risolti da situazioni nuove che essi stessi
permettono.
Dunque ci deve essere una qualche unità tra gli opposti per poterli opporre e questa
unità si deve vedere su un piano superiore (come aveva già pensato Cusano, ma per lui
l’unità degli opposti era solo in Dio).
Secondo Hegel ogni cosa finita è una differenza, perchè è diversa da tutte le altre.
Ogni cosa finita esclude l’altra, ma deve includerla in qualche modo per potersela
opporre ( se dico che il freddo si oppone al caldo, l’idea dell’uno deve essere compresa
nell’idea dell’altro).
La cosa finita include idealmente nell’idea, nel concetto, quello che esclude
realmente, nella realtà oggettiva esterna.
I- il primo livello è l’identità semplice, immediata di una cosa finita che è identica a
se stessa; è il livello del principio di non-contraddizione.
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O la differenza di questa cosa con tutte le altre.
Questa dialettica riproduce ovunque il movimento stesso della realtà, senza imporle
categorie estrinseche (formalismo combattuto da Hegel).
Contrariamente a una leggenda molto diffusa, Hegel non ha mai parlato di “tesi,
antitesi, sintesi”; questa triade viene da Marx.
Il metodo di Hegel è spesso capito come un automatismo che invece non c’è (lo
stesso Heidegger accusa Hegel di meccanica concettuale).
L’unità dialettica per Hegel in realtà è soprattutto il rapporto del particolare con la
totalità.
L’assoluto nel senso buono, per Hegel, è totalmente determinato dall’interno e non
dall’esterno, è quindi l’incondizionato, il libero; saranno le caratteristiche dello spirito,
quello assoluto che corrisponde anche alla “buona unità” che è il contrario dell’isolamento,
che impedisce di pensare che tale unità si possa verificare; è l’universale concreto che
contiene i suoi inferiori, i particolari in cui si realizza.
Possiamo ritrovare tre termini che riprendono tutto questo: il primo quello
dell’identità immediata e che Hegel chiamerà an sich cioè in sé; il secondo livello
corrisponderà a fur sich che è l’uscita da sé opponendosi a tutto ciò che non è e poi c’è
la sintesi del terzo livello an und fur sich che è il ritorno a sé.
Per Hegel l’intelletto è il pensiero finito delle cose come tali (come per Jacobi).
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Logico che è soltanto in sé contraddizione c’è un movimento continuo dell’infinito nel
finito all’inizio il cristianesimo era visto come alienazione dell’uomo rispetto all’ideale greco
dell’unità civile e religiosa.
Poi Hegel vede sempre più nel cristianesimo una conciliazione veramente speculativa
(terzo momento): l’infinito passa nel finito e sono uniti nel Cristo (incarnazione), nella
comunità cristiana, dove abita lo Spirito Santo che parla allo spirito umano dove Dio si
riflette.
Hegel vede l’apparizione di Cristo che è il centro della storia: Cristo è fine e origine
della storia.
Se si può pensare che siamo alla fine della storia, sarebbe soltanto perchè se ne è
capito il fine e il senso della storia.
Per evitare questa illusione di aver raggiunto il concetto della scienza, forse era
necessario situarsi in un’altra prospettiva concreta che è quella dell’agire e non quella
puramente speculativa dello spirito, così si potrà evitare l’ideolatria.
Questo si vede molto meglio nella prospettiva concreta dell’agire, piuttosto che in
quella del concetto; così si può evitare l’illusione dell’ideolatria, praticamente inevitabile in
Hegel partendo dalla sua prospettiva del concetto.
Nella struttura stessa della natura, c’è un’analogia profonda con lo spirito – ciò che si
trovava già in Schelling - , però senza nessuna coscienza di sè. Ma ci sono relazioni
dialettiche, rapporti da irreale e reale, da interno ad esterno, da universale a singolare, ecc.
“la natura è così come la prima tappa del ritorno dello spirito a se stesso. Ma è anche
il risultato di un’uscita da sè.
Ma quest’alterità è una relazione intelligibile, cioè c’è una relazione tra la natura e lo
spirito, che è capace di capirla.
Ora questa filosofia della natura deve servirsi dei risultati maggiori della scienza
sperimentale, la quale si situa a livello dell’intelletto e non della ragione, la filosofia della
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natura si deve servire dei risultati della scienza sperimentale per poter tradurre questa
universalità inferiore dell’intelletto nell’universalità più alta della ragione. Spirito del Mondo
Regnier dice che lo Stato è il momento supremo dello spirito oggettivo, ma non dello
spirito assoluto; esso è la piena realizzazione dello spirito oggettivo e quindi in caso di
guerra il cittadino deve sacrificare i prorpi interessi individuali e addirittura la propria vita.
Ciò significa che lo Stato sta sopra la stessa società civile e perciò alcuni hanno
accusato Hegel di totalitarismo, però tale conseguenza non è possibile perchè al di sopra
dello spirito oggettivo c’è lo spirito assoluto che è lo scopo di Hegel .
Anzi, l’esistenza dello spirito assoluto nelle sue tre dimensioni (artistica, religiosa e
filosofica) relativizza radicalmente lo spirito oggettivo e quindi lo Stato che ne è
l’espressione più completa.
Al livello intermedio dello spirito oggettivo, lo Stato è vero perchè è “il tutto” in
questo ordine di realtà subordinato allo spirito assoluto. Tuttavia, anche a questo livello, “il
grado di realtà del tutto è in proporzione diretta, e non inversa, del grado di realtà e di
autonomia delle parti”, cioè il tutto non nega le parti, il tutto dipende direttamente dalle
parti.
Gli uomini politici e altri cittadini nella loro azione politica realizzano, forse loro
malgrado, i fini oggettivi dello spirito universale, e non i propri fini che non importano al
movimento della storia – anche se si ingannano se stessi a proposito perchè uno può
pensare di realizzare egoisticamente i propri interessi invece attraverso di loro passa lo
spirito universale.
solo la fede è affidabile,la lettera del dogma, la lettera della pratica, la lettera dei
sacramenti.
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