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LA CASA MALEDETTA
(The Magic Cottage, 1986)
1.
MAGIA
2.
L'INSERZIONE
Fu Midge che vide l'annuncio economico per prima. Per settimane non
aveva fatto altro che scorrere le inserzioni pubblicitarie sul Sunday Times
cerchiando in rosso le offerte più interessanti, dato che il suo desiderio di
lasciare la sudicia città era più forte del mio. Ogni settimana era venuta a
presentarmi tutta una serie di annunci da esaminare, e li avevamo conside-
rati attentamente uno per uno, discutendo i prò e i contro. Ma finora nes-
suno aveva soddisfatto le nostre aspettative.
Quella domenica vi era solo un cerchio rosso. Un villino. Presso una fo-
resta, in una posizione appartata. Aveva bisogno di qualche restauro.
Che cosa c'è di speciale? pensai.
«Senti un po', Midge!» Lei era nella cucina dell'appartamento che ave-
vamo in affitto a Baron's Court, a Londra - grande, con alti soffitti e una
pigione non meno alta, e un insieme di stanze che permettevano a Midge
di disegnare e a me di occuparmi della mia musica in perfetta tranquillità,
senza doverci urtare a ogni passo. Ma noi volevamo qualche cosa di no-
stro. Avevano in mente entrambi un villino «rustico», sebbene, come ho
detto, Midge lo desiderava più di me.
Lei apparve sulla soglia coi capelli neri sciolti e gli occhi da folletto, un
metro e cinquantacinque di attrattive sottilmente delineate (almeno per me,
e io non sono un tipo facile da accontentare).
lo indicai il giornale. «Uno solo?»
Midge gettò il grembiule verso il lavandino - avevamo finito di fare co-
lazione molto tardi - e si avvicinò a piedi nudi al divano su cui ero seduto.
Vi si rannicchiò tirandosi pudicamente la leggera gonna estiva sulle ginoc-
chia. Quando parlò, guardò direttamente l'avviso, e non me.
«È l'unico interessante.»
Ne fui stupito. «Non dice molto. Mi fa pensare solo a un villino in rovi-
na. E poi dove diavolo è Cantrip?»
«L'ho cercato. È vicino a Bunbury.»
Non potei fare a meno di sorridere. «Ossia?»
«Nell'Hampshire.»
«Questo almeno è a suo favore. Sembrava che ti interessassero soltanto
le zone più remote.»
«Una zona remota dell'Hampshire.»
Un mugolio da parte mia. «Possibile?»
«Hai un'idea di quanto è grande la Nuova Foresta?»
«Più grande di Hyde Park?»
«Molto più grande. E immensa.»
«E Cantrip è nel cuore della foresta?»
«Non proprio, ma quasi.» Sorrise con i suoi occhi da folletto. «Non pre-
occuparti, potrai tornare a Londra a far musica quando vorrai. C'è l'auto-
strada che porta in città».
Non vi ho ancora detto che io faccio il musicista, faccio parte di quella
gente tranquilla che se la cava benino dietro le scene del mondo pop, lavo-
rando negli studi di registrazione e a volte accompagnando in tournée
qualche cantante. Il mio strumento è la chitarra, la mia musica... è rock,
pop, soul, ma anche punk, un po' di jazz e, quando posso, qualche classico
senza pretese. Ma magari ve ne parlerò più a lungo in seguito.
«Non mi hai ancora spiegato perché hai scelto proprio questo,» insistetti.
Lei rimase zitta per un momento limitandosi a studiare il foglio come se
cercasse di trovare una risposta. Poi si voltò verso di me. «Mi sembra che
vada bene,» disse.
Accidenti. Mi sembra che vada bene. Nient'altro.
Sospirai. Sapevo che Midge aveva un grande intuito; ma non ero dispo-
sto ad accettarlo in quel momento. «Midge...» cominciai in tono di ammo-
nimento.
«Mike...» disse lei con la stessa gravita.
«Andiamo, sii seria. Non ho alcuna intenzione di andare a finire a vivere
nell'Hampshire per un capriccio.»
Quel diavoletto mi prese una mano e la baciò sulle nocche. «Mi piaccio-
no le foreste», ebbe il coraggio di dire «E il prezzo è ragionevole.»
«Qui non si parla del prezzo.»
«Si accettano offerte. Sarà un prezzo giusto, vedrai...»
Un tantino esasperato, ribattei: «Probabilmente sarà tutto in rovina.»
«Allora costerà meno.»
«Pensa a tutti i lavori di restauro.»
«Prima di andarci manderemo i muratori.»
«Non correre troppo tesoro.»
Una lieve ombra di incertezza le passò sul volto... o forse un'ansia im-
provvisa.
«Non posso spiegarti, Mike. Lascia che telefoni domani per saperne di
più. Può darsi che sia proprio quello che cerchiamo.
Le sue ultime parole non erano molto convincenti, ma lasciai correre.
Strano, ma quel villino cominciava a piacere anche a me.
3.
GRAMARYE
Tutti abbiamo visto il film o letto il libro, ce ne sono tanti, della giovane
coppia che ha trovato la casa dei suoi sogni: la moglie è in estasi, il marito
è felice ma più controllato; i bambini (di solito un maschio e una femmina)
vagano per le stanze vuote. Ma noi sappiamo che vi è qualche cosa di sini-
stro in quel luogo perché abbiamo comprato il libro e letto il risguardo di
copertina. A poco a poco cominciano a succedere strane cose. Vi è qualche
cosa di maligno nella stanza chiusa in cima alla vecchia scala scricchio-
lante; o qualcuno che sta in agguato nella cantina, che forse è l'anticamera
dell'inferno. Conosciamo la storia. Dapprima Papà non bada alle fantasie
della sua famiglia: non crede al soprannaturale né alle strane cose che ap-
paiono di notte; non crede ai vampiri. Finché non succede qualcosa che gli
fa cambiare idea. E allora si scatena l'inferno. Sapete già tutto come se lo
aveste scritto voi.
Be' la mia storia, è su questo genere, ma al tempo stesso diversa. Vedre-
te.
Andammo in auto a Cantrip il martedì seguente (il nostro lavoro ci per-
mette queste libertà). Midge aveva telefonato, il giorno prima, al numero
indicato nell'avviso e aveva trovato che apparteneva a un agente immobi-
liare. Questi le aveva detto un po' di più sul villino, non molto, ma abba-
stanza per aumentare il suo entusiasmo. Il villino non era occupato perché
la proprietaria era morta qualche mese prima; era stato necessario un po' di
tempo per sistemare gli affari della defunta prima che la proprietà potesse
essere messa in vendita. Midge non aveva fatto che parlare durante il viag-
gio continuando a dirmi che non si aspettava troppo, che probabilmente sa-
rebbe stata una grossa delusione, ma che, dalla descrizione dell'agente, la
cosa si presentava interessante e avrebbe anche potuto essere l'ideale...
Il viaggio durò circa due ore, forse anche tre calcolando il tempo perso
per aver sbagliato due o tre volte la strada. Tuttavia lo scenario, quando
raggiungemmo la Nuova Foresta con i suoi boschi e le sue brughiere, si
mostrò meritevole del lungo viaggio. Incontrammo anche delle mandrie di
pony e, sebbene non vedessimo nemmeno un cervo, una quantità di indizi
ci diedero la certezza che essi erano nelle vicinanze, e, per una persona di
città, questo equivaleva quasi all'averli visti. Era una bella giornata di
maggio, con l'aria frizzante e luminosa... Avevamo tenuto abbassati i vetri
degli sportelli posteriori dopo aver lasciato l'ultima autostrada e, nonostan-
te la sua apprensione appena dissimulata, Midge si era unita a me nel can-
tare Blue Suedes, Mean Woman e simili (quel mattino stavo attraversando
il mio vecchio periodo rock, dato che il mio umore musicale cambia di
giorno in giorno). L'aria fresca mi fece diventare rauco prima che vedessi-
mo il villaggio davanti a noi.
Devo ammetterlo, Cantrip fu un tantino deludente. Ci aspettavamo tetti
di paglia, vecchie osterie, e un villaggio primitivo con rugginose pompe a
mano: qualche cosa da Protezione delle Antichità. Quello che vedevamo
era una strada spaziosa ma del tutto simile a tante altre le cui case e negozi
dovevano essere stati costruiti verso la fine degli anni venti e gli inizi degli
anni trenta. Ma, a un esame più attento, non era poi tanto male: vi erano
alcuni vecchi edifici scrostati fra le costruzioni più recenti, e l'impressione
generale era piuttosto scialba. Sentii indebolirsi l'entusiasmo di Midge.
Varcammo l'arcata di un ponticello ed entrammo nella strada principale
cercando l'ufficio dell'agente e tenendo nascosto il nostro scontento. Tro-
vammo l'agenzia fra un ufficio postale-drogheria e una macelleria, con una
facciata così anonima che l'avrei oltrepassata se Midge non mi avesse bat-
tuto sulla spalla indicandomela.
«Là!» gridò come se avesse scoperto l'anello mancante nell'evoluzione
umana.
Un ciclista sterzò guardandoci storto per la brusca frenata. Gli rivolsi un
gesto amichevole di scusa indicando Midge come colpevole, ma non sentii
la sua risposta stizzita, probabilmente meglio così, perché non sembrava
una persona molto civile.
Dopo una breve retromarcia, scendemmo dall'auto e ci avviammo verso
l'agenzia. Midge era divenuta improvvisamente nervosa come una gattinà,
cosa per me piuttosto nuova. Eravamo vissuti insieme per molto tempo ed
ero abituato a certe sue ombrosità, specialmente quando accettava qualche
nuovo incarico, dovrei avervi già detto che Midge è un'illustratrice molto
brava specializzata in libri per bambini, ma non credevo che si innervosis-
se per un appuntamento con un agente immobiliare. Non tardai a capire
che non si trattava dell'agente, ma dell'ansia di vedere il villino. Diavolo,
quello stato d'animo durava da domenica, e non riuscivo a capire perché.
La feci fermare un momento prima di aprire la porta e lei mi guardò di-
strattamente, facendo più attenzione a quello che c'era dietro il vetro.
«Calmati,» le dissi piano. «Ce ne saranno chissà quanti in vendita, anche
se questo non ci piace.»
Lei tirò un rapido respiro, mi strinse la mano ed entrò davanti a me. Al-
l'interno l'ufficio era meno misero di quanto avrebbe potuto essere, perché,
sebbene stretta, l'unica stanza si stendeva molto sul retro. Fotografìe e
piantine di appartamenti coprivano tutta una parete come una carta da pa-
rati male incollata. Una segretaria corpulenta era vicino alla porta, mentre
più avanti un uomo in abito grigio con grossi occhiali cerchiati di nero, se-
duto davanti a un tavolo in disordine, alzò lo sguardo.
Io mi sporsi sopra la spalla di Midge e chiesi: «Il signor Bickleshift?»
(Naturalmente era lui).
Mi sembrò che non mi avesse sentito.
Parve non badare al suo nome; ma fece un largo sorriso. Credo che ri-
mase colpito da Midge.
«Sì,» disse alzandosi e invitandoci a venire avanti.
Feci un cenno di saluto alla segretaria che ci squadrò da capo a piedi
mentre passavamo, con l'espressione di una balena imbronciata:
«Voi siete il signore e la signora Gudgeon?» chiese Bickleshift sporgen-
dosi attraverso il tavolo per stringere la mano di Midge e poi la mia. Ci in-
dicò due sedie davanti a lui.
«No, Gudgeon è lei, io sono Stringer.» Ci sedemmo, e l'agente volse lo
sguardo dall'uno all'altro di noi prima di proseguire.
«Allora solo lei, signorina Gudgeon, è interessata alla casa.» Non ne so-
no sicuro, ma può avere detto «signorina» per mostrare di accettare la co-
sa.
«Siamo interessati entrambi,» rispose Midge. «E vorremmo vedere il
villino dell'annuncio sull'ultimo Sunday Times. Gliene ho parlato per tele-
fono.»
«Naturalmente. La casa rotonda di Flora Chaldean.»
Entrambi inarcammo le sopracciglia e Bickleshift sorrise.
«Capirete quando avrete visto il luogo,» disse.
«E Flora Chaldean era la proprietaria del villino?» chiese Midge.
«Esatto. Una vecchia signora piuttosto... eccentrica. Molto conosciuta da
queste parti; un personaggio locale, anche se nessuno sapeva molto su di
lei. Conduceva una vita molto ritirata.»
«Ha detto che è morta...» intervenne Midge.
«Sì, alcuni mesi fa. L'unico suo parente è una nipote che vive in Canada.
A quanto sembra non si erano mai incontrate, ma l'avvocato della signora
Chaldean è riuscito a rintracciarla e l'ha avvertita dell'eredità. Immagino
che la Chaldean abbia lasciato anche una certa somma di denaro, ma non
credo granché: so che conduceva un'esistenza molto sobria. La nipote ha
detto all'avvocato di vendere il villino e di mandarle il ricavato.»
«Non ha voluto vederlo prima?» chiesi.
Bickleshift scrollò il capo. «Non le interessava. Comunque Flora Chal-
dean si preoccupava del destino della sua villetta perché ha inserito una
clausola nel testamento che riguarda la vendita.
Midge s'incuriosì. «Che tipo di clausola?»
Il sorriso dell'agente divenne ancora più largo. «Non credo che sia cosa
di cui lei debba preoccuparsi.» Alzò le mani mettendole aperte sul piano
del tavolo così che, per un momento, con i gomiti piegati ai due lati, parve
una cavalletta con gli occhiali. «Adesso,» disse giovialmente, vi suggeri-
sco di andare a dare un'occhiata al villino; discuteremo i particolari in se-
guito, se sarete ancora interessati.»
«Lo siamo già,» rispose Midge, e io la urtai col piede: non c'era bisogno
di apparire troppo entusiasti prima di cominciare a trattare la cosa.
Bickleshift cercò in un cassetto e ne trasse un mazzo di chiavi, tre in tut-
to, vecchie e grandi, legate con un anello e ognuna con una cartellino. «Il
villino è vuoto, naturalmente, così potrete esaminarlo a vostro agio. Io non
vi accompagno, a meno che non lo desideriate. In genere i miei clienti pre-
feriscono far la visita per conto loro e discutere liberamente.»
Midge prese le chiavi e le strinse con tale reverenza da far credere che
fossero le Chiavi del Regno.
«D'accordo,» dissi a Bickleshift. «Ma come facciamo per arrivarci?»
Ci porse una cartina abbastanza semplice, purché, come sottolineò, non
sbagliassimo nelle svolte. E noi c'incamminammo.
«Bene,» dissi mentre guidavo per un sentiero serpeggiante con un tetto
di foglie sulla testa che attenuava la luce e rinfrescava l'aria. «Ancora non
lo vedo.»
Midge mi guardava con curiosità, ma sapeva - oh, se lo sapeva - quello
che intendevo.
«Sembra che tu sia già innamorata del posto.» Battei sul volante col dor-
so della mano. «Andiamo Midge, confessalo. Che cosa ne pensi?»
Le punte delle sue dita affondarono nei miei capelli, sulla nuca, accarez-
zandomi leggermente; tuttavia la sua voce era ancora un poco distante.
«Solo una sensazione, Mike. Sento che andrà tutto bene.»
La lieve pausa non mi passò inosservata. «E allora perché non ho anch'io
questa convinzione?»
Gli occhi le scintillarono di stizza. «Probabilmente perché tutto ciò che
non è a due passi da un bar, da un Big Mac o da un cinema non è abba-
stanza civile per te.»
Mi sentii offeso. «Sai bene che desidero andarmene quanto te.»
Lei ebbe un breve riso. «Forse non proprio quanto me, ma va bene, am-
metto che i tuoi gusti sono cambiati negli ultimi tempi. Non sono sicura,
tuttavia, che le lamentele dei nostri vicini non abbiamo qualche cosa a che
fare con questo.»
«Sì, ammetto che ho bisogno di un posto dove poter suonare quando e
come voglio. Ma non è solo questo. E in ogni caso anch'io sono disturbato
dal loro fracasso.»
«Non piace neppure a me. E nemmeno il traffico, la polvere...
«Il trambusto...»
«Il frastuono...»
«Andiamocene da tutto questo!» gridammo insieme avvicinando le teste.
Quando ebbe smesso di ridere, Midge disse: «E vero. A volte penso che
l'intera città sta per andare a rotoli.»
«Forse hai ragione.» Stavo cercando una svolta a sinistra, una di quelle
che Bickleshift ci aveva avvertito di non lasciarci sfuggire.
«E strano», continuò lei, prendendo i foglietti che l'agente ci aveva dato,
«ma quando ho visto l'inserzione sul giornale di domenica, ho avuto la
senzazione che l'annuncio mi ammiccasse. Non sono riuscita a concen-
trarmi su nessun altro, i miei occhi continuavano a tornare su questo. Tutto
il resto mi sembrava sfocato.»
Emisi un lungo mugolìo. «Midge, Midge, spero che tu non rimanga de-
lusa.»
Lei non rispose e guardò diritto davanti a sé. E improvvisamente sentii il
desiderio di voltar la macchina e ripercorrere tutta la strada verso la città
fumosa. Una premonizione? Credo proprio di sì. Ma queste cose, allora,
erano per me inconsuete, e pensai che la sensazione dipendesse solo per il
trambusto di un trasloco. Forse lei aveva ragione: non ero ancora pronto
per la casetta in campagna.
Naturalmente continuai ad andare avanti. Che razza di pazzo sarei sem-
brato se fossi tornato indietro? Che ragione avrei potuto addurre? Amavo
Midge abbastanza per cambiare le mie abitudini, e sapevo che quello che
andava bene per lei sarebbe infine andato bene anche per me. Avevo fatto
troppe cose piacevoli e non abbastanza cose giuste. Le cose giuste le face-
va lei.
La svolta che tenevo d'occhio si materializzò improvvisamente: l'agente
aveva ragione, era facile lasciarsela sfuggire. Rallentai fin quasi a fermar-
mi per svoltare alla curva a gomito. La nostra Volkswagen occupò quasi
tutta la strada nel riprendere velocità, e ci trovammo ancora in un'area bo-
scosa: gli alberi giungevano fino al margine del sentiero tortuoso che ades-
so era in discesa. Midge si entusiasmava a ogni metro che percorrevamo,
con gli occhi che le brillavano mentre io stavo attento a prendere le curve
giuste e gettando ogni tanto un'occhiata al suo volto felice.
«A quest'ora dovremmo essere arrivati.» Cominciavo a domandarmi se
non avessi sbagliato a voltare.
Midge consultò la cartina. «Non dovrebbe essere lontano...» Frenai bru-
scamente e allungai con gesto istintivo il braccio per sorreggerla sebbene
avesse la cintura di sicurezza. Lei venne sbalzata in avanti e mi guardò
sorpresa.
«Guarda un po' la strafottenza di quel tipo.» E accennai alla strada da-
vanti a noi.
Uno scoiattolo se ne stava seduto con aria baldanzosa in mezzo al sentie-
ro sgranocchiando una ghianda o qualche cosa di simile che teneva fra le
zampette, con la coda rossiccia sollevata. Quel piccolo mascalzone ci ave-
va visti benissimo, perché continuava a voltare la testa arruffata verso di
noi, ma non sembrava darsene alcun pensiero.
«Oh, Mike, è magnifico!» Midge si chinò in avanti per quanto glielo
permetteva la cintura di sicurezza, col naso a pochi centimetri dal para-
brezza. «Che bel pelo rosso! Avevo sentito dire che ce ne sono molti, da
queste parti. È stupendo!»
«Certo, ma ci ingombra la strada.» Stavo per suonare il clacson; ma Mi-
dge dovette leggermi nel pensiero.
«Lascialo star lì per un momento, se ne andrà subito.»
Sospirai, sebbene divertito dalla vista di quel cosino impellicciato che
faceva colazione.
Midge si liberò della cintura e si sporse dal finestrino ridendo. Questo fu
troppo per il nostro amico, che lasciò cadere la ghianda e se la diede a
gambe.
lo non riuscii a trattenere le risa. «Straordinario! Non ha battuto ciglio
davanti a questo grande mostro d'acciaio rombante ed è rimasto sconvolto
dalla tua faccia sorridente.»
Ma dovetti subito rimangiarmi le parole. Lo scoiattolo tornò, riprese la
sua merenda, ci guardò per un secondo e poi saltò verso la macchina dalla
parte di Midge.
«Ciao,» gli disse lei gentilmente.
lo non potevo vedere, ma probabilmente l'animaletto rispose al suo sor-
riso. Mi sporsi e feci in tempo a scorgere uno sfrecciare nel sottobosco
mentre lo scoiattolo fuggiva ancora. Mi aspettavo che Midge mi rivolgesse
uno dei suoi sorrisi canzonatori, ma vi era solo un'immensa e innocente
gioia dipinta sulla sua faccia. Le diedi un bacetto sulla guancia, divertito, e
ripartii «Avanti.» dissi.
Midge tornò a sedersi osservando con attenzione i dintorni mentre ci al-
lontanavamo.
Presto uscimmo dal folto degli alberi; i margini erbosi ai due lati della
strada si aprirono in distese di felci verde cupo e di ginestre gialle respin-
gendo la densa boscaglia come per dire «il troppo è troppo». Adesso il sole
era alto e il cielo era di un azzurro pallido. Avevamo scelto una giornata
perfetta per un viaggio in campagna e il mio entusiasmo si risollevava no-
nostante la delusione di Cantrip.
Midge mi strinse il braccio. «Forse è quello,» disse trattenendo l'eccita-
zione.
Guardai, ma non vidi nulla.
«Non lo vedo più,» disse Midge. Mi è sembrato che ci fosse una mac-
chia bianca più avanti, ma adesso gli alberi la nascondono.»
L'auto stava seguendo una lunga curva, e il bosco tornava ad avvicinarsi
alla strada come per vendetta. In certi punti, bassi rami pieni di foglie sfio-
ravano i finestrini.
«Questa foresta avrebbe bisogno di una potatina,» brontolai; e allora ve-
demmo il villino, di là dalla strada, con un basso steccato in rovina, con
molti pali sghembi o completamente abbattuti, che cingeva il giardino. Il
cancelletto era chiuso, un vecchio cartello scrostato era fissato alle sbarre e
una scritta in caratteri gotici diceva:
GRAMARYE
4.
IL VILLINO
Io ero pronto a entrare, per quanto stupito che Midge fosse riuscita ad
aprire e io no; lei, invece, esitava. Ancora oggi non ne sono sicuro - qual-
che cosa non è ancora chiara nella mia memoria - ma, sembrava ci fosse
una certa trepidanza nei suoi modi, sufficiente per lo meno a impedirle o-
gni espressione di esultanza. Forse non ne sono sicuro perché quell'esita-
zione svanì immediatamente: Midge scomparve all'interno prima ancora
che potessi esprimere la mia apprensione.
Mi avventurai dietro di lei stringendomi nelle spalle, ed ebbi un'improv-
visa sensazione di freddo piuttosto sgradevole considerata l'aria calda all'e-
sterno. Ci trovammo in una stanza piuttosto piccola, non più di tre metri e
mezzo per quattro (la pianta della casa era rimasta nell'automobile), con
una porta aperta davanti a noi e una scala che portava al piano superiore.
Potemmo vedere la cucina attraverso un'apertura sulla nostra destra. Il pa-
vimento, qui e nella stanza oltre la porta, era di piastrelle quadrate, e notai
che la superficie era innaturalmente scura. Mi chinai e toccai la pietra.
«È umida,» dissi, e guardai lo zoccolo. Una grande macchia d'umidità
appariva sul muro opposto a pochi centimetri dal pavimento. «Il muro pe-
netra nel terrapieno e, quando piove, l'acqua filtra nell'interno.»
Midge non parve interessarsene, cosa che mi irritò un tantino; sapevo
che questo genere di umidità può essere serio, e consideravo la cosa in
termini di denaro. Lei era già entrata nella cucina. La seguii scuotendo la
testa esasperato. «Midge, devi tener conto di queste cose,» dissi piagnuco-
lando. «In base a queste dobbiamo decidere se comprare o no la casa.
«Scusami, Mike.» Scivolò verso di me fingendosi pentita e mi tenne per
un momento la testa sul petto. Poi andò a guardare il grande fornello nero
che avevamo visto attraverso la finestra, si abbassò per aprire gli sportelli,
guardandovi dentro con gridolini di piacere, e poi, si alzò con esclamazioni
ancora più acute nel vedere la nicchia sopra il fornello piena di casseruole
e di padelle dal lungo manico, appese ai ganci. A terra, davanti al fornello,
vi era un bollitore di ferro su di un treppiede, che aumentava il fascino del-
l'insieme.
«È come in un vecchio racconto di fate,» gridò Midge.
«Vuoi dire un racconto in cui le streghe bollono rospi e gambe di bam-
bini per fare i loro incantesimi?» chiesi avvicinandomi. Vidi che vi erano
pentole di metallo nero anche nel forno più grande.
«Non intendevo niente di così disgustoso,» mi ammonì Midge. Si chinò
verso la nicchia e sbirciò nel camino. Io mi affrettai a tirarla indietro nel
notare una pericolosa spaccatura nell'architrave sopra il fornello. Lei mi
guardò stupita e io le indicai la fenditura.
«Potrebbe crollare tutto da un momento all'altro,» l'avvertii, e lei ebbe il
buon senso di allontanarsi.
«Stai esagerando.»
«Forse, ma perché correre rischi? Questa è un'altra cosa di cui dobbiamo
prendere nota.»
Midge aggrottò le sopracciglia: non le piaceva l'elenco che stavo già
compilando.
«Dieci a uno che la cappa del camino è chiusa, e non la si potrà aprire
senza prima aver sostituito questa pietra.» Non mi piaceva dover mettere
in evidenza quelle cose, ma bisognava che uno di noi due fosse realistico.
«Forse l'umidità e questo sono gli inconvenienti più gravi,» notò Midge
speranzosa.
Io mi strinsi nelle spalle. Finora avevamo visto solo il pianterreno.
Sotto la finestra da cui avevamo spiato poco prima vi era un grande la-
vandino di pietra, io girai i rubinetti dell'acqua calda e fredda. Entrambi,
dopo vari sbuffi e sussulti fecero correre un'acqua nerastra. Lasciai che
scorresse per circa un minuto, e il colore non cambiò.
«Il serbatoio dev'essere arrugginito,» commentai. «A meno che da que-
ste parti non si beva che questa roba.» Cominciavo a sentirmi un po' pes-
simista.
Intanto Midge stava aprendo gli armadi a muro e i cassetti. Le strutture
di legno erano piuttosto primitive ma non in cattivo stato. Io aprii un'altra
porta aspettandomi di trovare una dispensa o un ripostiglio per le scope, e
invece trovai un gabinetto con uno sciacquone a catena.
«Almeno non dobbiamo servirci di uno sgabuzzino in giardino.» Tirai la
catena e vi fu un gran fracasso mentre veniva giù la solita acqua nerastra
che impiegò un tempo lunghissimo ad andar via gorgogliando, sbuffando e
singhiozzando. «Credo che l'avviso dicesse drenaggio del pozzo nero,»
mormorai chiudendo la porta. «Mi domando quando è stato vuotato per
l'ultima volta, se è stato mai vuotato.»
Midge era in mezzo alla cucina, ed ero sicuro che nulla di tutto ciò che
avevo detto l'aveva spaventata.
«Possiamo andare di sopra, adesso?» chiese.
«Non è il caso di aspettare,» risposi.
«Cerca di essere di vedute un po' più larghe, Mike.»
«Se anche tu farai altrettanto».
Non vi era irritazione nelle nostre parole; avevamo troppa fiducia l'uno
nell'altro per badare a queste piccolezze. Potrei dire che avevamo entrambi
un velo di apprensione; ognuno temeva che l'altro rimanesse deluso. Sape-
vo che Midge desiderava davvero che il posto mi piacesse, e io avrei fatto
quasi qualsiasi cosa per compiacerla. Ma non stavamo parlando solo di una
questione finanziaria: era anche una questione di vivere comune. Se la co-
sa doveva funzionare doveva essere giusta.
Salimmo le scale del secondo piano tenendoci per mano: Midge guidava
quasi tirandomi dietro di sé.
Le scale voltarono in un piccolo vestibolo, la cui porta esterna avevo
cercato di aprire, alla nostra destra e, a sinistra, l'arco che dava sulla stanza
rotonda. I raggi del sole ci colpirono come una leggera esplosione e, per un
incredibile istante, ebbi l'impressione di fluttuare nell'aria. Questa sensa-
zione fu così forte che ebbi un capogiro, e solo Midge, stringendomi la
mano e tenendomi saldamente, mi impedì di cadere all'indietro giù per le
scale. Sbattei gli occhi, accecato dall'improvviso bagliore, e la dolce im-
magine di Midge mi si presentò a lampi come se stessi cadendo in un so-
gnante, vago deliquio. Ricordo di essermi concentrato nei suoi occhi lu-
centi e caldi, con una fiducia che mi avvolgeva e mi rassicurava. La visio-
ne si chiari e io fui vagamente consapevole che, sebbene fossero passati
solo un secondo o due, una grande estensione di tempo si era svolta dinan-
zi a me.
Mi trovai nella stanza rotonda pur non ricordando di esservi entrato.
Fuori il sole abbagliava, e la campagna, attraverso le grandi finestre, sem-
brava microcosmicamente chiara come se potessi vedere ogni singola fo-
glia, ogni filo d'erba come un'entità distinta. Il cielo era del più puro azzur-
ro che avessi mai visto. Mi illusi di capire questa improvvisa e innaturale
lucentezza. Avevo sentito dire che gli effetti di certe droghe possono affio-
rare in noi quando meno ce lo aspettiamo, anche anni dopo averle usate, e
io non trovavo alcun piacere in questo, solo una profonda vergogna. Sup-
posi che l'improvviso cambiamento dall'ombra fredda alla luce fulgente
fosse stato provocato da sostanze chimiche che permanevano nella mia
mente - il bagliore di un lampo può avere talora lo stesso effetto - portan-
domi in un breve viaggio allucinato. Così pensai allora, e ancora oggi non
escludo questa possibilità.
Presto i miei occhi si rimisero a fuoco (o forse sarebbe più esatto dire
che si "sfuocarono") tornando alla normalità. Midge mi teneva il volto fra
le mani e mi studiava con lo stesso interesse di poco prima.
«Ti senti bene?» mi chiese accarezzandomi dolcemente.
«Sì, credo di sì. Sì, sto bene.» E, quanto all'umore, stavo bene, l'improv-
viso venir meno della percezione era svanito lasciando solo un vago ricor-
do di quella sensazione. «Mi sono sentito mancare per un momento, deve
essere stato il cambiamento di altezza dal primo al secondo piano,» scher-
zai.
«Sei sicuro di star bene?»
«Sì, tranquillizzati, sto benissimo.»
Mi guardai attorno, adesso vedevo la stanza e non più la campagna.
«Questa è diversa,» dissi con un breve fischio di approvazione.
«Non è bella, Mike?» Midge sprizzava gioia da tutti i pori. Si allontanò
da me, fece un rapido giro e si fermò davanti a un vecchio caminetto di
rozzi mattoni. Posò un gomito sulla stretta mensola e mi sorrise con gli oc-
chi scintillanti di gioia.
«Da un altro aspetto alle cose, non è vero?» disse.
Era certamente così. Vi era un calore, in questa stanza, dovuto ai raggi
diretti del sole che si riflettevano sulle mura; ma vi era anche qualche cosa
di più, una vivacità, una vitalità, qualche cosa di intangibile ma tuttavia re-
ale. Devi essere aperto a questo, tuttavia, mi sussurrò una vocina dentro di
me. Devi volerlo sentire. A volte sono un cinico, ma ho anche sentimenti
più sottili, e l'atmosfera della stanza, unita all'entusiasmo di Midge, libera-
va in qualche modo questi sentimenti. E tuttavia un'altra parte di me stesso
si chiedeva se sarebbe stato lo stesso d'inverno, quando nubi colme di
pioggia avrebbero nascosto il sole. Questa energia interiore sarebbe rima-
sta? Quella magia: quella parola echeggiò nella mia mente per la prima
volta, si sarebbe dissolta? Ma in quel momento non vi badai. Il presente e
il desiderio improvviso di andare a vivere in quel posto erano tutto ciò che
contava.
Andai da Midge e la strinsi a me così forte da mozzarle il fiato. «Sai,
comincia a operare anche su di me,» le dissi senza capire veramente quello
che dicevo.
Il resto della casa fu una delusione. Trovammo una lunga spaccatura ra-
mificata, che andava dal pavimento al soffitto in una delle stanze, e della
muffa sulle pareti in un'altra.
Il piccolo bagno era funzionale, e la vasca da bagno aveva delle chiazze
giallastre. La scala portava a un semplice attico con stanze di strana forma
ricavate nel tetto, poco rischiarate da piccole finestre. I soffitti, tuttavia, e-
rano ben squadrati, e da una botola si poteva salire nella soffitta. Avrei a-
vuto bisogno di una sedia o di una scala per andare a darvi un'occhiata, co-
sì lasciai correre; ma immaginai che nel tetto dovevano esserci molte aper-
ture giudicando dalle numerose tegole rotte sparse sul terreno esterno. I-
spezionammo il secondo e il terzo piano trovando telai di finestre rotti,
armadi a muro in rovina, porte che non si chiudevano, chiazze d'umidità e
altre crepe nei muri sebbene meno evidenti di quella che andava dal pavi-
mento al soffitto. Anche le scale protestavano sotto il nostro peso e un'asse
si piegò tanto che mi affrettai a saltar via temendo che si spezzasse. E natu-
ralmente tutto era coperto da uno spesso strato di polvere.
Non so perché ma evitammo di tornare nella stanza rotonda: forse senti-
vamo inconsciamente che la sua atmosfera aveva su di noi effetti troppo
intensi per essere sperimentati due volte in un giorno, o forse desiderava-
mo solo mantenere una certa obiettività dopo avere visitato il resto del vil-
lino. Non ebbi difficoltà nel girare la chiave quando chiusi dietro di noi la
porta d'ingresso, e ripercorremmo il sentiero più lentamente che all'andata.
Passato il cancello, Midge e io ci voltammo e ci appoggiammo al cofano
dell'automobile, io con un braccio sulle spalle di lei, entrambi assorti per
un momento nei nostri pensieri. Lo squallore del giardino e le misere con-
dizioni di tutto l'edificio sembravano essersi impressi molto fortemente in
me e, quando guardai Midge, ebbi la certezza di vedere un'ombra di dub-
bio anche nei suoi occhi.
Ero turbato dallo svanire del mio entusiasmo e avrei voluto che lei di-
cesse qualcosa per farmelo ritrovare. La sua incertezza era l'ultima cosa
che mi aspettavo.
Diedi un'occhiata all'orologio e dissi: «Andiamo a discutere la cosa da-
vanti a un bel bicchiere di birra e a un panino.»
I suoi occhi non lasciarono Gramarye mentre salivamo in macchina e,
quando avviai il motore, allungò il collo per dare un ultimo sguardo dal fi-
nestrino posteriore. Non invertii la marcia, ma proseguii nella stessa dire-
zione seguita nel cercare il villino, ricordando che, nel viaggio di andata,
non avevamo incontrato né un bar né un ristorante. Dopo una decina di
minuti buona trovai quello che cercavo e fui molto soddisfatto. Un'osteria
costruita con travi di solida quercia dipinte di un bianco smagliante con un
irsuto tetto di paglia. Rozzi tavoli di legno e panche nel giardino senza
ombrelloni con scritte pubblicitarie che sciupassero il fascino campestre.
L'Osteria della Foresta mi piacque a prima vista.
Nemmeno l'interno fu una delusione: lampioni da carrozza, finimenti da
cavallo di ottone e di cuoio fissati ai muri, un enorme camino nel quale si
sarebbe potuto arrostire un maiale, il distributore delle sigarette discreta-
mente nascosto in un angolo buio. Nessun juke-box, nessun gioco elettro-
nico. Nemmeno il forno a microonde sul banco, sebbene un menù scritto
su una lavagnetta avvertisse che si potevano avere spuntini caldi. L'osteria
aveva parecchi clienti sebbene non si potesse dire affollata, e io ordinai
una pinta di birra per me e un succo d'arancia per Midge al grosso barista
con le guance venate di azzurro e con lunghi ciuffi di capelli incollati ai la-
ti di un cranio peraltro calvo. Aveva il portamento autoritario di un signo-
rotto di campagna.
«Di passaggio?» chiese senza alcuna curiosità mentre riempiva di birra il
boccale.
lo stavo studiando la lista dei cibi e risposi distrattamente: «Più o me-
no.» Poi, rendendomi conto che avrebbe potuto darci qualche informazio-
ne sulla località, se non sul villino, aggiunsi: «Siamo andati a vedere una
casa in vendita non lontano da qui.»
Lui alzò le ciglia. «La casa della vecchia Flora Chaldean, vero?» Arrota-
va un po' la erre.
Assentii: «Sì, Gramarye.»
Lui ebbe un riso soffocato prima di voltarsi a prendere una bottiglia di
succo d'arancia, e Midge e io ci scambiammo uno sguardo stupito.
«Un bel posticino, quella villetta,» suggerii mentre lui versava il succo.
Lui alzò lo sguardo, prima su di me e poi su Midge, sempre versando e
sempre sorridendo, ma si limitò a dirci il prezzo delle consumazioni.
Midge di solito è molto riservata, per non dire schiva, così che rimasi
stupito quando disse fredda e a chiare lettere: «C'è qualche cosa di buffo in
questo?»
Il barista tornò a considerarla e notai che, come molti altri prima di lui,
non era del tutto indifferente al suo aspetto. Quanto a me, mi sentivo un
blocco di cemento nello stomaco. Come ho detto era grosso, e devo ag-
giungere che le sue braccia nude appoggiate sul banco, apparivano forti
come quelle di un muratore. Mandai giù un sorso di birra mentre lui si
sporgeva in avanti.
«Mi scusi, signorina,» disse. «Non volevo essere maleducato.» E poi si
affrettò verso l'altra estremità del banco per servire un altro cliente.
Stacci attento un'altra volta, gli intimai, naturalmente fra me. «L'idea
Midge,» dissi pazientemente, «era quella di fare conoscenza con la gente
del luogo. Non abbiamo ordinato niente da mangiare.»
«Non ho più appetito. Possiamo sederci fuori?»
Nel giardino solo pochi tavoli erano occupati, e noi ci sedemmo a uno
un po' appartato. Posai i bicchieri sulla ruvida superficie e mi sedetti su di
una panca di fronte a Midge (ci è sempre piaciuto guardarci direttamente).
Mi accorsi che era sempre imbronciata con ^barista, così le accarezzai una
mano sorridendo.
«E il modo della gente del luogo per tenere i visitatori al loro posto fa-
cendogli capire che ne sanno più di loro» spiegai.
«Che cosa? Quell'uomo? Oh, no, non ne faccio alcun conto. Flora Chal-
dean era probabilmente l'eccentrica del luogo, una di cui si poteva sorride-
re perché era diversa da loro. Doveva essere una vecchietta solitària, senza
famiglia, che viveva per conto suo. No, io pensavo a Gramarye.» Prese un
sorso di succo d'arancia.
«Non sei più tanto entusiasta, adesso?»
Parve colpita. «Oh, sono più che entusiasta. Ma sembra che in quel villi-
no vi siano degli elementi in contrasto.»
Questa volta fui io a rimanere colpito. «Di che diavolo stai parlando?»
«Quel luogo così vuoto...»
«È rimasto disabitato per molto tempo.»
«Sì, ma non hai notato? Non c'erano ragni né ragnatele, né insetti di
qualsiasi genere. Non vi erano nemmeno tracce di topi. Non vi erano uc-
celli annidati sui cornicioni, sebbene il villino sia circondato da un bosco.
Gramarye è un guscio vuoto.»
Non lo avevo notato, ma aveva ragione: avrebbe dovuto essere un para-
diso per animali striscianti e uccelli nidificatori.
«E tuttavia,» continuò lei, «la stanza rotonda aveva un'atmosfera così
particolare. Tu l'hai sentito: là dentro ti è successo qualche cosa.»
«Sì, ho avuto un capogiro, niente altro. Forse era la fame.» Diedi un'oc-
chiata bramosa all'osteria.
«Solo questo?»
Non volevo entrare nell'argomento. «In che senso?» «Credo che il sole
mi abbia accecato mentre salivo le scale. Il bagliore mi ha un po' annebbia-
to il cervello.»
Mi studiò per un paio di secondi, poi disse: «Bene.» Solo questo. Nessu-
na obiezione, nessuna discussione. Aveva accettato il fatto che non deside-
ravo aggiungere altro. Per questo era così facile vivere con Midge.
Bevvi metà della birra mentre Midge mi guardava. Occhi inclinati, ca-
pelli neri e un delicato mento appuntito. Per questo, a volte, la chiamavo
Folletto.
«E adesso dove andiamo?» chiesi passandomi il dorso della mano sulle
labbra. «Sono preoccupato di quanto ci costerà rimettere in sesto quel luo-
go.»
«Ma a te piace, non è vero?» Si chinò sopra il tavolo con un sussurro di
complicità fissandomi ancora con quel suo sorriso. «Non ti sembra che la
posizione sia ideale? Immagina quanto lavoro potremo fare. I miei disegni,
la tua musica. Mike, potrai far tanto, lo sai. E forse scriverai finalmente
quelle storie per bambini che io illustrerò. Saremo una coppia formidabi-
le!»
lo meditai su tutto questo. A volte Midge fuggiva in un mondo tutto suo,
lontanissimo dalle città soffocanti e dagli avidi mortali, e aveva l'abilità di
attirarvi anche gli altri... se voleva. Io dovevo rimanere per lo più il prag-
matista, sebbene non cessassi di stupirmi di quanto realista e terra terra po-
tesse essere quando era necessario.
«Senti, adesso ti dirò quello che faremo,» dissi. «Torniamo dall'agente e
mettiamo le carte in tavola. Gli facciamo notare tutte le magagne che ci
sono, grandi e piccole, e proponiamo un'offerta più bassa per coprire le
spese. Se Bickleshift ci sta, bene; altrimenti... dovremo affrontare la real-
tà.»
Lei non poté fare obiezioni, ma io non potei fare a meno di rimprove-
rarmi per averla messa in ansia.
E così facemmo. Finimmo di bere e tornammo a Cantrip, io con lo sto-
maco che brontolava e Midge in silenzio. Quando passammo davanti a
Gramarye, voltò lo sguardo verso il villino e ancora una volta tenne il collo
teso finché non lo perse di vista.
Arrivammo al villaggio un bel po' dopo mezzogiorno e trovammo Bi-
ckleshift che si domandava come passare il resto della giornata. Gli spiegai
la situazione dicendogli che il villino ci piaceva, che avremmo voluto ac-
quistarlo, ma che vi erano degli inconvenienti gravi, degni di attenzione
perché avrebbero inciso profondamente sulle nostre finanze. Che ne diceva
di una diminuzione di quattromila sterline sul prezzo stabilito?
Lui fu comprensivo e ci capì perfettamente, ma disse di no.
L'avviso avvertiva che Gramarye richiedeva alcuni restauri, e probabil-
mente sarebbero costati cari. Ma lui non aveva l'autorità di accettare questo
ribasso né, dovette ammetterlo, era professionalmente incline a farlo. Dopo
tutto era una «proprietà desiderabile» in un luogo altrettanto «desiderabi-
le».
Mi accorsi che Midge aveva perso il suo entusiasmo e la delusione assalì
anche me. Sebbene avessi sentimenti contrastanti circa l'affare, l'apprende-
re che non potevamo farvi fronte in alcun modo mi lasciò più frustrato di
quanto credessi. Tentai un ribasso di tremila sterline.
Bickleshift rimase fermo spiegando che gli esecutori del testamento di
Flora Chaldean avevano stabilito un prezzo minimo, senza contare che noi
eravamo solo i primi di una lunga lista di altri possibili acquirenti. Ci disse
questo in modo molto amichevole, ma gli agenti immobiliari non brillano
per generosità.
Il nostro problema era che non solo avremmo dovuto vivere a Gramarye,
ma avremmo anche dovuto lavorarvi, così che le condizioni dovevano es-
sere ragionevoli per entrambi. Inoltre avrei dovuto costruire un sia pur pic-
colissimo studio di registrazione; niente di straordinario, ma anche il mi-
nimo indispensabile avrebbe richiesto una certa quantità di denaro. E non
era facile trovarlo, inutile cercare di illuderci. L'idea era buona ma non at-
tuabile. Addio nido d'amore in campagna.
Ce ne andammo col cuore pesante e con la promessa, da parte di Bickle-
shift, di tenersi in contatto con noi se vi fossero stati ulteriori sviluppi. Mi-
dge non pronunciò parola per tutto il viaggio di ritorno, e io non potei dir
nulla per consolarla.
Quella notte pianse durante il sonno.
6.
TRE COLPI DI FORTUNA
7.
OGBORN
8.
TRASLOCO
Le cinque o sei settimane che seguirono furono una specie di sogno con-
fuso in un veloce susseguirsi di eventi. La tournée degli Everly registrò il
tutto esaurito e io mi divertii un mondo. L'andare in giro per la campagna
dando sei concerti consecutivi in varie città, non mi stancò affatto. Ero in
uno stato di esaltazione che superava tutto. Prima di partire potei vedere il
risultato del febbrile lavoro di Midge e nonostante il mio innato senso cri-
tico, lo trovai BRILLANTE. La campagna pubblicitaria era diretta partico-
larmente ai più piccoli, e il direttore aveva pensato a scene fiabesche, con
castelli bianchi, cupe foreste, elfi danzanti e tutti i motivi tradizionali, a cui
erano sovrapposti fotograficamente elementi moderni. L'abilità del foto-
grafo avrebbe assicurato (si sperava) la giusta armonia. Non ricordo l'effet-
to finale ma so che era un po' grossolano. Non saprei dire se il messaggio
era pacchiano o raffinato, ma sono sicuro che, se ebbero successo, il merito
fu in gran parte del lavoro artistico di Midge.
Grazie alla fama di lei e alla mia capacità di avere un impiego regolare
musicalmente parlando, non fu difficile ottenere un'ipoteca, anche se la
chiedemmo con i nostri nomi congiunti pur essendo solo conviventi. Pro-
babilmente il fatto che ognuno di noi avrebbe potuto far fronte da solo ai
pagamenti influì sull'atteggiamento favorevole della società finanziaria.
Non che chiedessimo molto: avevamo cominciato a depositare i nostri ri-
sparmi in quella società, in vista di questo acquisto, fin da quando eravamo
andati a vivere insieme, e l'ammontare era notevole.
Riuscimmo ad andare al villino solo un paio di volte, nelle settimane che
seguirono, e tutte e due le volte furono giornate nuvolose così che l'im-
pressione non fu la stessa. Il sole dà un senso di calore non soltanto fisico.
Tuttavia fu anche più piacevole perché tutte e due le volte il luogo mi par-
ve più bello.
Mi accordai con una ditta edilizia del luogo perché cominciasse i lavori
non appena fosse stato firmato il contratto definitivo, dando loro un elenco
dei danni che richiedevano un immediato intervento, e un altro di quelli
minori che avrebbero potuto essere riparati in seguito. Le pitture e le deco-
razioni avremmo potuto farle noi, ma tutto quello che richiedeva capacità
tecnica era compito loro. Stabilimmo la data dell'inizio dei lavori, e quel
mattino stesso giunse una strana telefonata.
Midge era uscita con la pioggia per far compere, e io stavo accordando
la mia chitarra, mi sentivo un po' colpevole per aver trascurato il mio stru-
mento, quando O'Malley, il capomastro mi chiamò. Voleva sapere se non
mi ero sbagliato nel fare l'elenco dei danni. Certo in cucina vi era dell'ac-
qua, e il muro addossato al terrapieno doveva essere prosciugato, ma non
aveva trovato traccia di umidità sulle pareti al piano superiore. E che cosa
intendevo per frattura nell'architrave sopra il fornello? La pietra gli sem-
brava perfettamente sana. La crepa dal pavimento al soffitto nella stanza
da letto non era così grave come avevo indicato; poteva essere riparata fa-
cilmente. Vi erano un paio di telai di finestre che dovevano essere sostitui-
ti, ma non era riuscito a trovare alcun gradino pericoloso. Il tetto, certo, ri-
chiedeva un restauro, a meno che non volessi dormire sotto le stelle, ma il
serbatoio dell'acqua non era troppo arrugginito; tuttavia consigliava di so-
stituirlo per evitare problemi più tardi.
Non so se rimasi più stupito nel trovare un capomastro così onesto o per
avere evidentemente esagerato i danni di Gramarye. Comunque erano
buone notizie anche se sconcertanti. Dissi a O'Malley di fare tutto quello
che credeva necessario e tornai alla mia chitarra, disorientato e rallegrato
in eguai misura.
Quando Midge tornò dalle sue compere, bagnata fradicia e con i capelli
incollati sul volto, le raccontai le novità. Lei rimase lì, gocciolante sul tap-
peto, guardandomi sbigottita. Avevamo scritto la lista insieme, in base ad
appunti presi durante una delle nostre visite al villino, così che non si po-
teva pensare a eccessiva immaginazione da parte mia. Ricordo di aver no-
tato allora che i danni non erano così gravi come mi erano parsi la prima
volta, tuttavia erano bene evidenti. Discutemmo il mistero per tutto il po-
meriggio e alla sera, poco prima di andare a letto, non eravamo ancora
giunti a una conclusione soddisfacente. E ci addormentammo ancora per-
plessi.
Il giorno dopo fummo troppo indaffarati per tornare sull'argomento: io
ero impegnato in sedute di registrazione, soprattutto jingle pubblicitari,
molto redditizi; e Midge doveva preparare una serie di illustrazioni per un
nuovo libro, un genere insolito per lei perché si trattava di una raccolta di
ricette culinarie. Dovevamo anche organizzarci per la nostra vita futura:
inviare annunci di cambiamento di indirizzo, far installare l'impianto elet-
trico e il telefono nel villino, firmare assegni per tutti quei lavori e Dio sa
che cos'altro ancora, acquistare nuovi mobili, un fornello elettrico e via di
questo passo.
Bob riuscì a trovarmi, per pochi soldi, un furgone Ford da tre tonnellate,
generalmente usato per trasportare le attrezzature musicali, più un paio di
«gobbi» che sarebbero venuti con esso (i «gobbi» sono quei facchini che
portano grandi amplificatori e altre attrezzature da spettacolo a spettacolo),
così che non era necessario un trasloco fatto da professionisti.
Venne stabilito il giorno del trasloco, e Midge e io rinunciammo a qual-
siasi impegno per un mese. Pensavamo che ci sarebbe voluto tutto questo
tempo, anche facendo in fretta e, sebbene dopo tante spese non avessimo
denaro da buttar via, ne avevamo certo abbastanza per superare il periodo:
gli dèi erano stati benigni, con noi. I manifesti di Midge erano stati accetta-
ti dai negozianti di abiti per ragazzi e, date le clausole finanziarie stabilite
dalla Grossa Val, del 2,25 per cento di interesse in caso di mancato paga-
mento due settimane dopo la consegna, l'onorario era già in banca. Il mio
lavoro fu pagato sulla base di ogni tre ore lavorative, e l'importo fu ricevu-
to con gratitudine alla fine di ogni giornata o mezza giornata.
Il trasloco avvenne in una bella mattina, e noi ci trovavamo nel nostro
appartamento di città, adesso vuoto, dopo avere caricato il furgone che a-
spettava in strada. All'improvviso eravamo un po' amareggiati: avevamo
passato dei bei tempi in quella casa, pur desiderando qualche cosa di più,
qualche cosa di nostro. E il nostro amore si era rafforzato lì.
Ci abbracciammo e demmo un'ultima lunga occhiata in giro. Poi ce ne
andammo.
Ci avviammo verso lo Hampshire la Nuova Foresta e Gramarye coi
"gobbi" nel furgone.
9.
IN CASA NOSTRA
10.
RUMORI
Più tardi, dopo aver indossato un vecchio maglione, dei jeans consunti e
delle scarpe di tela (la mia consueta uniforme), raggiunsi Midge al pianter-
reno e la trovai in vestaglia rannicchiata sul gradino della cucina, intenta a
nutrire la moltitudine. Gli uccelli - scriccioli, cince azzurre, passeri, frin-
guelli, una vera riunione multirazziale - non dimostravano alcun timore,
alcuni di loro prendevano addirittura il cibo dalla sua mano, mentre altri si
avvicinavano fino a toccarla. Notai che a dispetto delle loro dimensioni ri-
dotte avevano un gran coraggio.
Midge li incoraggiava gentilmente con parole che non potevo udire, e mi
misi a ridere quando uno scricciolo le saltò sul polso e le beccò il palmo
col piccolo becco appuntito. Attesi che l'ultima fetta di pane fosse stata
sbriciolata e divorata prima di entrare nella stanza. Una fresca brezza toni-
ficante fluiva nella cucina dalla porta aperta e, sebbene fosse ancora primo
mattino, non faceva affatto freddo.
«Ehi, che cosa è questo?» E indicai il tavolo. La colazione consisteva in
una bottiglia di champagne e una caraffa di succo d'arancia.
Midge si voltò sorridendomi. «Dobbiamo festeggiare. Ieri ho contrab-
bandato la bottiglia in una scatola da imballaggio». Si tolse le briciole dal-
le mani. Fuori gli uccelli continuavano il loro chiacchierìo, forse chiedeva-
no una seconda portata. Io mi avvicinai a Midge e la strinsi così forte da
toglierle il respiro.
«Non c'è nient'altro?» chiesi con voce un po' rauca.
«Gli uccelli si sono mangiati la tua colazione,» mi rispose.
La mia stretta si indebolì. «Dimmi che non è vero.»
Lei confermò gravemente con un cenno della testa, ma non smise di sor-
ridere. «Volevo darti il Buck's Fizz con tartine, ma il pane avanzato dalla
cena di ieri sera se lo sono mangiato i nostri amici pennuti. Erano tanti che
è finito tutto. Spiacente.»
«Ah, sei spiacente.»
«Andrò al negozio non appena aprirà, te lo prometto.»
«La credenza è davvero vuota?»
«E rimasto qualche biscotto stantio.»
«Magnifico» dissi con voce irritata, ma fingevo, e lei lo sapeva.
Si alzò sulla punta dei piedi per baciarmi. «Stappa lo spumante mentre
vado a prendere i biscotti.»
«Sei sicura che i tuoi amici non vogliano anche lo champagne? Forse
potrebbero farci il bagno.»
Mi diede un altro pizzicotto sul naso e corse nella stanza vicina dove
presumibilmente i biscotti stavano andando a male.
La colazione risultò invece eccellente. Anche Midge, che di norma non
beve mai, volle un poco di champagne col succo d'arancia e brindammo al-
la nostra salute, alla nostra felicità e al nostro vigore sessuale e, fra un
brindisi e l'altro, sgranocchiammo i biscotti che non erano cattivi. Il nostro
terzo o quarto brindisi fu per Gramarye, e le nostre tazze - non avevamo
ancora tolto dai pacchi i bicchieri - si scontrarono allegramente. Gli uccelli
rimasti osservarono dalla porta aperta, sicuramente domandandosi che cosa
stavamo facendo.
Dopo la colazione ci fu un gran da fare. Midge fece il bagno e si vestì
mentre io lavavo le tazze e rimettevo il tappo allo champagne avanzato:
non si fa, lo so, ma non volevo buttarlo via. Diedi un'altra occhiata all'ar-
chitrave sopra il vecchio fornello, ancora perplesso per il fatto che la spac-
catura si era apparentemente aggiustata da sola. È strano come il ricordo
possa adattarsi alla mente quando le cose sono illogiche; suppongo che sia
istintivo perché noi abbiamo bisogno di un certo ordine mentale per non
impazzire. Cominciai a pensare che quello che avevamo realmente visto
fosse una ragnatela accartocciata sul piano della pietra, e che ci era sem-
brata una spaccatura per via della scarsa luce.
Parzialmente soddisfatto dalla mia teoria, cominciai a spacchettare quel-
lo che era rimasto negli scatoloni di cartone, e fui contento di trovare la ra-
dio. L'accesi subito, e sobbalzai nel sentire una scarica di staticità. Abbas-
sai subito il volume e cercai una stazione più chiara; quando trovai della
musica, sollevai l'antenna. La ricezione era ancora disturbata. Pensando
che le batterie fossero scariche rovistai nella scatola e trovai l'attacco con
l'impianto elettrico della casa. Lo innestai, ma i disturbi continuarono.
Spensi l'apparecchio brontolando, mentre sentivo provenire un rumore di
passi dalle scale.
«Problemi?» chiese Midge entrando nella stanza.
«Dobbiamo essere in una zona di cattiva ricezione,» le dissi «ma non
capisco perché sia così cattiva. Forse dovremo mettere un'antenna sul tet-
to.»
Lei non parve preoccupata. «Bene, io vado. Hai bisogno di qualche cosa
in paese?»
«Hum, forse me ne ricorderò appena sarai tornata. Guardati dalla gente
del luogo, specialmente da quelli con gli occhi piccoli e la testa calva.»
Mi lanciò un'occhiata di rimprovero, poi mi mandò un bacio e uscì. Io
indugiai sulla porta e la vidi affrettarsi giù per il sentiero e di tanto in tanto
fermarsi per annusare i fiori. Mi salutò ancora dal cancello e poi salì in
macchina e avviò il motore. Dopo aver guidato l'auto fuori dalla zona er-
bosa con una decisa voltata a sinistra, Midge mi diede un ultimo saluto. La
macchina scomparve dietro la curva e io rimasi solo nel villino.
Sostai un poco sulla porta godendomi la chiara freschezza della giornata,
un po' eccitato dallo champagne.
Finora tutto bene, pensai.
11.
LA CASA GRIGIA
12.
UN VISITATORE
Quella sera ci riposammo nella stanza rotonda; Midge sdraiata sul tappe-
to con la testa appoggiata sui cuscini, io sul divano con una chitarra - uno
strumento spagnolo da concerto - sul ventre una bottiglia di vino e un bic-
chiere su di un tavolino che avevo avvicinato a me. Il tordo era in cucina,
in una scatola di cartone rivestita di morbida stoffa; era molto tranquillo,
sebbene un po' abbattuto.
Midge, era riuscita con mille moine a mettergli nel becco un po' di pane
inzuppato nel latte, e aveva messo l'ala spezzata nel modo più comodo
possibile. Adesso l'uccellino doveva cavarsela per conto suo.
Il sole era quasi sceso dietro gli alberi e la stanza era inondata dalla soli-
ta luce calda ma, questa volta, più piena, più riposante. Pizzicai le corde
basse della chitarra e le note risuonarono fra le mura curve riempiendo la
stanza di dolci suoni. Mentre iniziavo un pezzo che per molto tempo mi
era rimasto difficile, la grande Sonata in la di Paganini (non sono solo un
suonatore di rock and roll), Midge non parve solo impressionata ma addi-
rittura affascinata. Come lo ero anch'io. Non ebbi alcuna esitazione, le dita
si mossero senza alcun inciampo. Ero felice della mia abilità, mi sentivo le
mani fiduciose e forti, la difficoltà e la lunghezza della composizione non
mi crearono problemi (come accadeva di solito). Naturalmente commisi
degli errori, ma si persero nel fluire della musica e, quando ebbi finito,
credo che anche il vecchio Segovia mi avrebbe approvato. Allo stato delle
cose, mi bastò il volto meravigliato di Midge.
Mi si avvicinò carponi e mi posò un braccio sulle ginocchia. «Sei sta-
to...» scosse la testa «...fantastico.»
Alzai le mani con le palme rivolte verso di me e le guardai come se fos-
sero quelle di un altro. «Sì», ammisi con un filo di voce. «E stato bello,
non è vero? Accidenti, è incredibile.»
«Ancora,» mi incitò. «Suona ancora».
Ma io posai la chitarra. «Non posso, Midge. E strano ma non posso; è
come se avessi esaurito tutte le mie energie. O forse non voglio rovinare
tutto... è meglio che mi fermi visto che ho raggiunto il massimo, non cre-
di?» In parte era vero: non volevo non riuscire in qualche cosa d'altro; e
poi ero esausto. Il suonare mi aveva prosciugato ogni energia, fisica e
mentale. Mi abbandonai sul divano con gli occhi chiusi sorridendo. Midge
saltò su vicino a me e mi posò la testa sul petto.
«Mike, c'è una magia a Gramarye e ha degli effetti benefici su di noi.»
Aveva detto quelle parole con molta tranquillità, e io non ero sicuro di
averle udite bene. Presi il bicchiere di vino e lo sorseggiai, contento di
starmene lì con Midge e il resto del mondo - se c'era davvero un mondo
fuori di lì - in pace.
Nel frattempo avevo eliminato dalla mia mente la figura nascosta nel bo-
sco considerandola immaginaria e smorzandone il ricordo con la mia ra-
zionalità: perché qualcuno avrebbe dovuto nasconderei dopo che l'avevo
visto? E comunque, come aveva potuto scomparire così in fretta?
Inoltre, un altro evento aveva distratto la mia mente poco dopo, appena
entrati nel villino: la finestra della cucina era rimasta aperta, e scoprimmo
che Gramarye aveva un visitatore.
Lo scoiattolo rosso era sul tavolo e stava finendo le briciole dei pasticci
rimasti nei piatti dopo pranzo. Io avevo spalancato la porta perché Midge
potesse entrare portando il tordo ferito, e lo scoiattolo aveva allungato il
collo guardando nella nostra direzione. Io lo vidi subito e, se gli animali
possono sorridere, questo certamente sorrise. Non vi era alcuna paura in
quel piccolo mendicante, né parve avere alcuna fretta di lasciarci. Riprese
tranquillamente a mangiucchiare briciole.
Solo quando mi avvicinai alla tavola, lo scoiattolo diede segni di inquie-
tudine. Mi lanciò un'occhiata e saltò nella credenza vicina facendo sbattere
i bicchieri e le caraffe fra loro. Io alzai una mano in gesto di pace, ma que-
sto segno universale non significava nulla per lui: saltò sul davanzale della
finestra e, dopo un'ultima occhiata qua e là, fece un balzo nel giardino e
scomparve.
Midge ed io ridemmo, molto divertiti, e lei disse: «Credi che gli scoiat-
toli rossi siano tutti così coraggiosi da queste partì?»
Io ricordai quello che avevamo incontrato sulla strada durante la nostra
prima visita al villino. «Può darsi,» risposi. «A meno che non fosse lo stes-
so di allora.»
Spalancò la bocca come se considerasse realmente questa possibilità.
«Siamo stati fortunati a vederne. Alcuni anni fa sono stati quasi sterminati
da un'epidemia; non ne sono sopravvissuti molti in questa zona. Quelli gri-
gi hanno occupato il loro territorio.»
«La prossima volta faremo meglio ad assicurarci che le finestre siano
chiuse, altrimenti un giorno o l'altro, ci ritroveremo la casa invasa.»
«Sarebbe piacevole.»
«Non tanto, se si trattasse di ratti o di topi.»
«Non essere sempre così pessimista.»
Rimasi serio per un momento. «Almeno uno di noi deve considerare la
realtà.»
Mi guardò con aria interrogativa; poi ci accorgemmo che lei aveva anco-
ra il tordo nelle mani.
Io trovai una scatola di cartone e vi misi dentro un mio vecchio maglio-
ne e una sciarpa di Midge; lei vi adagiò l'animaletto e mise la scatola in un
angolo vicino alla credenza. Dopo di che tentò di dar da mangiare al tordo
rinunciandovi dopo un poco per tentare ancora, più tardi, questa volta con
maggior successo. Il resto del pomeriggio, ma ormai era già tardi, fummo
impegnati a mettere a posto gli abiti e i soprammobili, a trovare una siste-
mazione definitiva agli utensili, le attrezzature e i vari oggetti casalinghi,
ad appendere i quadri, a scopare, pulire e mettere in ordine. O' Malley e i
suoi uomini avevano fatto un buon lavoro aggiustando, dipingendo, asse-
stando tutto. Anche gli armadi a muro erano in ordine e credo che fossero
stati raschiati prima di essere ridipinti. Gli assiti dei pavimenti scricchiola-
vano ancora un poco qua e là, ma non cedevano e non vi erano fessure nel
legno.
Dopo aver cenato a base di "stroganoff", Midge lo aveva preparato con
molta cura perché quella era la nostra prima vera cena a Gramarye - sa-
limmo nella stanza rotonda. Io accesi il televisore, ma poiché l'immagine
era tutta offuscata e nessuno di noi vi prestava un vero interesse, lo spensi
subito. Decisi che il giorno dopo avrei messo un'antenna per la TV e la ra-
dio. Ci ristorammo con un po' di Schmilson di annata, e tirai un respiro
quando accesi lo stereo e sentii che non era disturbato da interferenze. Era-
vamo sereni quella sera; Midge non venne turbata da tristi ricordi e io non
mi lasciai assillare dalle preoccupazioni sul trasloco. Finito l'album dei di-
schi, lei mi aveva pregato di suonare, cosa che facevo spesso le sere in cui
Midge doveva lavorare al suo tavolo da disegno o quando eravamo en-
trambi dell'umore adatto. Io ero andato a prendere la chitarra e Midge ave-
va aperto una bottiglia di vino per me.
Adesso mi ero abbandonato sul divano con i polpastrelli delle mani an-
cora formicolanti per il contatto con le corde e con i tasti della chitarra,
mentre la testa di Midge era posata sul mio petto, e presto il calore si mutò
in desiderio.
Diversamente dall'amplesso gloriosamente frenetico del mattino, questa
volta fu languido e squisito; ogni movimento e ogni momento fu assapora-
to e prolungato, ogni fervore indugiò nella sua pienezza. Mentre la nostra
sensualità prendeva forma nei nostri corpi, la stanza sembrava girare intor-
no a noi e gli ultimi raggi del sole si frangevano in uno spettro di colori pur
sempre influenzati dal sanguigno fluire che macchiava le mura.
A poco a poco l'atto amoroso fra noi divenne qualche cosa di più. Di-
venne un grande espandersi di emozioni che trascendevano il puro piacere
fisico, che non esplose nei nostri spiriti quanto eruppe in un pacato rove-
scio di energie. Immaginate un film al rallentatore di vetri che si frantuma-
no in milioni di frammenti ognuno colpito dalla luce, ciascuno che spri-
giona i suoi riflessi: questo può rappresentare un equivalente fisico alla ri-
sposta sensoria risvegliata in noi, sebbene il paragone non sia esatto perché
questo fragile frantumarsi è in realtà l'opposto della dolce esplosione astra-
le da noi sperimentata. Ci unimmo fondendoci non solo l'uno con l'altro,
ma con l'aria intorno a noi, con le mura, con ogni particella vivente conte-
nuta in esse. In qualche modo avevamo raggiunto un altro livello, un livel-
lo che forse tutti raggiungiamo ogni tanto, ma di cui rimaniamo sempre al-
la periferia, sempre sul margine, profondamente consci della sua esistenza,
ma mai capaci di percepirla chiaramente.
Una faccenda complessa, vero? Ma nel mio modo goffo, sto cercando di
farvi capire ciò che accadde in noi quella sera a Gramarye. E anche di
chiarire le idee a me stesso.
Ci fu di più. Sentimmo lo spirito di Gramarye, qualcosa che non aveva
niente a che fare con Flora Chaldean né con tutti quelli che avevano occu-
pato il villino prima di lei, ma era l'essenza del luogo stesso. La sua natura,
se volete. Nella struttura del villino, nel terreno, nell'atmosfera attorno vi
era un'immensa bontà, un traboccare di purezza terrena.
E come ogni positivo ha il suo negativo, vi era anche un oscuro male na-
scosto. Ma era nelle frange, un'ombra che non poteva essere definita, un
potere assopito che aveva poca energia. E tuttavia esisteva.
Noi sperimentavamo queste cose, ma non erano nette nella nostra mente
e presto la percezione fuggì svanendo rapida con il persistere del nostro
piacere fisico, delle sensazioni, del bisogno primario che ci avevano con-
dotti a quel riconoscimento portandone poi via la consapevolezza nel suo
stesso deflusso. Solo adesso dopo che tante cose hanno avuto luogo, posso
ricordare e in parte spiegare quello che accadde quella sera. E anche così,
tutto è solo la mia interpretazione, molto tempo dopo l'evento.
Fui il primo a parlare: Midge era ancora sconvolta, o esausta o entrambe
le cose. «Hai condito lo stroganoff con qualche cosa di particolare?» Vole-
vo solo scherzare, una frase qualsiasi mentre cercavo di tornare in me, ma
lei non rise. «Midge stai bene?»
Lei si voltò verso di me; ma non mi vide; c'era ancora un sonnolento
stupore nei suoi occhi.
«Midge?»
Trasse un lungo e profondo respiro sollevando le spalle e il petto, e poi
emise l'aria con eguale lentezza. Poi finalmente disse: «Che cosa è succes-
so?» Come se stesse parlando con se stessa.
Sorrisi. «Abbiamo fatto l'amore.» Quelle strane sensazioni stavano già
lasciandomi mentre la realtà prendeva il sopravvento piano piano come
quando ci si sveglia da un sogno.
Midge si mise le mani sugli occhi e quando tornò a guardare lo stupore
di poco prima non aveva lasciato traccia sul suo volto. Poi sbadigliò fa-
cendo sbadigliare anche me. L'aiutai a vestirsi perché non riusciva a infila-
re i bottoni, come un bambino stanco: sembrava distratta e non riusciva a
coordinare i movimenti.
«Non capisco,» mormorò. «Non riesco a pensare, Mike...»
Anche i miei movimenti erano lenti e più goffi di quanto volessi, ma ero
pieno di calore e mi sentivo i sensi piacevolmente assopiti. E non potevo
smettere di sorridere. «Credo, Midge, che abbiamo oltrepassato la barriera
dell'estasi. Mi sembra che per un attimo il tempo si sia fermato. Gesù, non
credevo che fosse possibile provare sensazioni così forti.» Vedete come
funziona il cervello umano e cerca di razionalizzare l'irrazionale per la sua
salvezza? Stavo riducendo tutto a romanzo.
Tuttavia Midge non fu del tutto persuasa. «No, Mike, è stato qualcosa
cosa di più...»
Le impedii di continuare con un bacio: «Siamo tutti e due stanchi, Fol-
letto. Come dicevi, l'aria di campagna ha un effetto benefico su di noi. Per-
ché non vai a letto mentre io vado a chiudere?»
«Ho bisogno di fare un bagno...»
«No, non serve.»
«E di lavarmi i denti...»
«È cosa di un minuto. Ti raggiungerò prima che tu metta la testa sul cu-
scino.»
«Va bene, Mike. Mike...?»
«Sì?»
«Tu mi ami vero?»
«Lo sai che ti amo.»
La tirai in piedi e lei si appoggiò contro di me.
«Dio mio,» mormorò.«Sono stravolta. Mi sento come ubriaca.»
«Vieni, ti accompagno a letto.»
Feci di più. La presi in braccio e la portai nella stanza da letto: sentii ap-
pena il suo peso. La adagiai sul letto e rimasi chinato su di lei.
«Penso che tu possa fare il resto da te mentre io vado a chiudere le porte
e le finestre.»
Assentì. Poi mi stuzzicò: «Ti dà sempre ai nervi la campagna, Mike?»
«Sono tutti i lupi e gli orsi che circolano da queste parti.»
«E i demoni dei boschi. Non dimenticare i demoni dei boschi.» Le sue
parole erano quasi indistinte mentre il sonno la sopraffaceva.
«Sarebbe stato meglio se non avessi menzionato i demoni dei boschi.»
Mi chinai per darle un bacio sulla fronte, poi mi rialzai. Un attimo dopo
aveva già chiuso gli occhi.
Uscii in silenzio dalla camera da letto, mi diressi nel piccolo corridoio in
fondo alle scale, chiusi col catenaccio la porta sul retro e scesi in cucina.
Mi ero innervosito un po' parlando di lupi e di orsi, non che credessi dav-
vero che da quelle parti esistessero tali animali, ma adesso che il sole era
tramontato e fuori era buio pesto, avevo cominciato a rendermi conto di
quanto il villino fosse isolato. E l'accenno ai demoni del bosco non aveva
migliorato la situazione.
Misi il catenaccio alla porta d'ingresso, poi mi avvicinai alla finestra a-
perta della cucina, misi fuori la testa e sentii la brezza fresca sulla pelle.
Non vedevo niente oltre le vaghe forme degli alberi più vicini. Le nubi a-
vevano coperto in fretta le stelle che erano spuntate dopo il tramonto, e
non vi era la luna a mettere in evidenza gli inquietanti contorni della fore-
sta.
Sempre più a disagio, ritirai là testa e chiusi la finestra abbassando il sa-
liscendi. Rimasi per un poco a guardare la mia immagine riflessa nei vetri
e rabbrividii.
«Scemo,» mi dissi e tornai al piano di sopra fischiettando.
13.
SECONDA VISITA
14.
L'OSSERVATORE
15.
PROGRESSI
16.
VIOLENZE
Dopo aver parcheggiato la macchina nel piccolo ma sufficiente parcheg-
gio dietro la strada principale andai al negozio di ferramenta, al paese, per
comprare i chiodi, l'olio per la falciatrice, le spine elettriche, della vernice
bianca e altre cosette. Alcuni volti mi erano divenuti familiari in seguito
alle mie frequenti gite a Cantrip durante le ultime due settimane e qualche
abitante del paese mi salutava addirittura quando entravo nei negozi. Sup-
pongo che, come avviene nelle piccole comunità, si fosse diffusa la voce
che Midge e io eravamo i nuovi abitanti di Gramarye. Io mi ero abituato
alle occhiate curiose e così, adesso, era piacevole essere riconosciuto.
Era metà mattino e nel negozio c'era poca gente. Preso un cestino di me-
tallo dal mucchio presso la porta, girai per le brevi corsie del negozio tra i
vari scaffali prendendo quello che mi occorreva e, naturalmente, anche al-
tri articoli che pensavo mi sarebbero stati utili prima o poi (è strano come
raramente lo siano).
Stavo esaminando alcune «super» colle contenute in bozzoli di plastica e
appese come crisalidi a ganci di metallo, domandandomi se le pupe ne sa-
rebbero uscite mettendo le ali, quando una voce burbera interruppe le mie
fantasticherie.
La cassa era dietro lo scaffale vicino al quale mi trovavo, e io girai incu-
riosito attorno allo scaffale accingendomi a pagare il conto. La voce burbe-
ra era quella del negoziante, un omaccione di nome Hoggs che io avevo
trovato sempre gioviale (ero diventato suo cliente abituale per i miei non
troppo ambiziosi lavori), così che rimasi molto sorpreso che fosse così
sgarbato.
Una ragazza era davanti alla cassa voltandomi il dorso, coi capelli a
treccia, una camicetta scollata e una gonna lunga. Le cinghie dei sandali le
cingevano le gambe oltre le caviglie allacciandosi sotto l'orlo della gonna.
Un cestino di metallo era sulla cassa davanti a lei e il negoziante stava fru-
gando in esso con mosse brusche, scrivendo il costo di ogni articolo sul re-
gistro di cassa. La ragazza gli stava mostrando due oggetti (non potevo ve-
dere quello che c'era nel cestino) chiedendo, credo, quale andasse meglio
per il lavoro che doveva fare. La risposta del negoziante era stata qualche
cosa come «Deve capirlo da sé, non le sembra?» e ne fui meravigliato poi-
ché con me era sempre stato gentile.
La ragazza si limitò a prenderne uno rimettendo l'altro in uno scaffale
vicino.
Hoggs colse il mio sguardo e sollevò rapidamente gli occhi al cielo per
mostrarmi la sua irritazione. Quando la ragazza tornò dallo scaffale, vidi
che era pallida, quasi giallastra, con un'espressione vuota che mascherava
il suo disappunto o era il vero riflesso del suo intimo. Cercò in una borsa di
tela che portava a tracolla e ne trasse un sacchetto, mentre il negoziante to-
glieva dal cestino gli articoli gettandoli alla rinfusa sul piano della cassa
con evidente malumore.
Mi sentii mortificato per la ragazza quando il negoziante le grugnì
1'ammontare del conto e lei gli porse il denaro, mite mise gli acquisti in un
sacchetto di plastica e si affrettò a uscire dandomi un'occhiata di sfuggita.
Posando il mio cestino sul banco, guardai il negoziante con una certa
trepidazione.
«Buon giorno, signor Stringer», mi disse, e io mi sentii rincuorato nel
vedergli rimprendere il tono amichevole.
Accennai con la testa alla porta che si era richiusa, «problemi nel paga-
mento?»
«Eh? Oh, no, nulla di simile,» mi assicurò, con ancora una traccia di irri-
tazione nella voce. «E una di quella congrega, tutto qui.»
«Ah, sì? Quale congrega?»
Smise di togliere gli articoli dal mio cestino per darmi uno sguardo inter-
rogativo. Aveva la faccia larga e rosea, come se non avesse avuto il tempo
di prendere il sole. «Probabilmente non ha ancora saputo nulla di loro, non
è vero?» Scosse la testa e rimase con un dito fermo su una riga del vecchio
registro. «È una del Tempio, una di quei... Sinergisti.» Alzò lo sguardo
verso di me. «Che nome scemo!»
Feci un cenno che poteva essere considerato di approvazione. «Che cosa
significa esattamente?»
«Significa? Significa che sono tutti matti, ecco che cosa significa.» Si
chinò verso di me con un fare da cospiratore. «Non ci piacciono affatto,
signor Stringer. Vogliono portar qui le loro abitudini e le loro idee balorde.
Non li vogliamo.»
«Appartengono a una qualche setta religiosa?» Stavo già facendo dei
collegamenti: la ragazza sarebbe stata bene con Hub.Gillie e Neil.
«Qualche cosa di simile, ma non so bene. Ma non vogliamo che vengano
qui a mendicare denaro.»
«Mendicare?»
«Be', quasi. Vendono delle cose... delle cose di cui nessuno ha bisogno,
cestini di vimini, tovagliette di paglia e simili. E poi cercano di convertire i
nostri giovani, di trascinarli al loro cosiddetto Tempio. C'è qualche cosa
che non va, in quella gente, glielo dico io.»
«E vivono in quella casa isolata nella foresta?»
«Un tempo era chiamata Croughton Hall, ma ora non più. Ne hanno fat-
to una specie di chiesa, il loro maledetto Tempio Sinergista.»
Cercai il portafogli. «Ma mi sembrano abbastanza innocui.»
Il modo in cui Hoggs mi guardò mi fece sentire la persona più scema del
mondo. Mi disse quanto gli dovevo, prese il denaro e si allontanò. «Le cer-
co una scatola per tutta questa roba,» disse andando all'estremità del banco
e cercando qualche cosa sotto di esso.
Con i miei acquisti così raccolti, lo salutai e lasciai il negozio, tenendo
goffamente la scatola sottobraccio.
Dunque la mia sensazione di leggero disagio per quel che riguardava i
tre nuovi amici non era del tutto ingiustificata. Ma anche così, mi sembra-
vano abbastanza innocui e forse solo la scarsa considerazione in cui sono
tenuti questi culti mi rendeva cauto. La ragazza del negozio di ferramenta
era stata un modello di sopportazione pur avendo delle ragioni per risentir-
si della rudezza di Hoggs. Pensavo che fossero necessari degli anni perché
degli estranei venissero accettati e in un villaggio tranquillo e remoto come
Cantrip, un'organizzazione che sembrava imbevuta di una strana religione,
poteva avere dei problemi. Comunque, che diavolo significava sinergista?
C'era una quantità di altre religioni bizzarre un po' dappertutto, ma questa
non la conoscevo. Era genuina o folle? O genuinamente folle? Kinsella e i
suoi compagni sembravano abbastanza sani di mente e assai poco zelanti
come religiosi (sebbene la loro grande sincerità fosse un poco sconcertan-
te).
Ebbene, Midge e io non eravamo più dei giovani impressionabili. Così,
che cosa importava se venivano a fare una capatina ogni tanto? Non aveva
proprio alcuna importanza.
Avevo voltato lo stretto angolo che portava al parcheggio avviandomi
alla Volkswagen parcheggiata all'altra estremità, quando vidi ancora la ra-
gazza. Era vicino alla solita Citroen e non era sola. Lo sportello posteriore
della macchina era aperto e lei e Gillie Slade stavano caricando. Entrambe
parvero spaventate quando tre giovani rivolsero loro un'attenzione non ri-
chiesta.
Nell'avvicinarmi vidi che i ragazzi - potevano avere non più di quindici
o sedici anni - erano dei veri giovinastri: capelli ispidi, jeans consunti e
macchiati, stivali stringati. Anche se faceva caldo, uno indossava un giub-
betto di pelle con le borchie, mentre i suoi due amici portavano lacere ma-
gliette a maniche corte. La vita in campagna è cambiata, pensai.
Giacca-di-pelle saltellava attorno alla ragazza che avevo visto nel nego-
zio tirandole la treccia e ghignando verso i suoi compagni da vero bullo.
Uno degli altri allungava le mani verso il sacchetto di plastica che Gillie
tentava di mettere nell'auto, mentre il terzo punk era in disparte e aveva le
dita nel naso.
Quanto a me, mi tengo lontano dai guai, e le signore in difficoltà mi fan-
no poco effetto. Mi domandavo se non fossero troppo preoccupate per ac-
corgersi di me, o se avessi dimenticato di comprare qualche cosa per avere
una scusa per tornare indietro. Ma questo, anche per me, sarebbe stato un
poco troppo codardo. Proseguii fingendo di non avere visto niente. Il se-
condo giovinastro guastò le cose gettando a terra il contenuto del sacchetto
di Gillie e cercando fra i vari oggetti sparsi qualche cosa che colpisse la
sua fantasia. Gillie lo respinse e lui reagì dandole una spinta più forte che
la fece cadere sul cofano. La ragazza si fece rossa ed era sul punto di scop-
piare a piangere. Sfortunatamente in quel momento mi vide e un senso di
sollievo arrestò le sue lacrime.
Io gemetti dentro di me. Preso. Non c'era via d'uscita. Mi feci avanti con
gran disinvoltura e le ginocchia tremanti. A voce bassa le dissi: «Sta bene,
Gillie?»
I giovinastri mi guardarono; Giacca-di-pelle sempre col suo sorriso idio-
ta sul volto deturpato dai brufoli. Oh Dio, pensai, questa è una scena presa
da un film di ragazzacci.
Mentre Gillie si rialzava, l'altra ragazza mi guardava con interesse.
«Sì, sto bene, Mike,» rispose chinandosi per raccogliere gli oggetti che
erano caduti dal sacchetto. Il secondo giovinastro gliene fece volar via uno
con un calcio mentre stava per prenderlo, dando un grido di allegria.
Io andai verso di lui, felice che fosse più basso di me. «Credo che faresti
meglio a filar via,» gli dissi. «Basta così.»
Il suo riso arrogante si smorzò e lui guardò i suoi compagni per avere un
aiuto. Giacca-di-pelle si avvicinò e il terzo continuò a perlustrarsi il naso.
«Che c'entra lei?» chiese Giacca-di-pelle soffiandomi sul collo (questo
era più alto).
«Non è cosa che ti riguardi,» risposi, rammaricandomi che la voce mi
fosse un po' venuta meno a metà della frase.
Guardando meglio mi ero accorto che erano solo dei ragazzi che posa-
vano a duri, ma non ne erano convinti nemmeno loro. Questo mi diede co-
raggio.
Tuttavia loro erano in tre e io ero solo. Giacca-di-pelle avrebbe voluto
rispondermi, ma sembrava non riuscire a trovare le parole, e forse nemme-
no le idee. Io lo tolsi dall'imbarazzo. «Lasciate stare queste ragazze o vi
stendo.» Feci del mio meglio per sembrare un tipo in gamba.
Con mio spavento, questo parve avere l'effetto opposto su di lui: mi af-
ferrò la camicia e cercò di darmi una testata. Io mi abbassai istintivamente
e lui andò a sbattere con la faccia contro la mia testa. Il suo grido di dolore
mi rianimò notevolmente sebbene tutta una zona del mio cranio restasse
intorpidita. Quando mi rialzai, lui si era portato le mani alla bocca e il san-
gue gli gocciolava dalle dita.
«Se non stai attento ti riduco anche peggio di così,» lo avvertii sbuffan-
do e facendo di tutto per non strofinarmi la testa.
Uno degli altri due ragazzacci, forse un po' più sveglio, probabilmente
capì che la ferita di Giacca-di-pelle era stata più casuale che intenzionale; e
mi caricò lanciando una sorta di grido di guerra che risuonò come un
«luuuucuuuhhh.»
Quando si tratta di evitare un dolore, posso essere piuttosto svelto: schi-
vai il ragazzaccio e gli assestai un pugno nello stomaco. Si fece male più
per colpa sua che per la mia forza e si piegò in due senza fiato. Gli diedi
una spinta e lo feci crollare sul cofano della macchina più vicina e credo
che il metallo, riscaldato dal sole, gli bruciò la guancia, perché lanciò un
guaito e saltò su. lo però non gli diedi tregua, mi avventai su di lui e lo
spinsi sul cofano facendogli premere la guancia sul cofano bollente.
Il terzo punk aveva finito di perlustrarsi il naso e si era messo a grattarsi
un'ascella con un'espressione perplessa che gli conferiva una parvenza di
intelligenza. Giacca-di-pelle stava emettendo ancora rumori soffocati men-
tre si teneva il mento con le dita sanguinanti.
Io ero senza fiato, ma riuscii a controllarmi così da sorridere laconica-
mente. «Non dite che non vi avevo avvertito,» dissi con una certa fierezza
abbassando un po' la voce.
Con mio orrore i due cominciarono a riprendersi, quello ferito balbettò
una sfilza di imprecazioni e quello che avevo inchiodato al cofano della
macchina scalciò per rialzarsi. «Ragazzi, ragazzi che cosa sta succeden-
do?» La voce era quella di un ometto che faceva capolino dal finestrino di
un'automobile che si era fermata. Avrei baciato quella testolina che spun-
tava da un bianco colletto rotondo. Il vicario della parrocchia sembrava
sdegnato come se si fosse imbattuto in una banda di teppisti della categoria
più infima.
«Miles Carver, sei tu?» Stava guardando direttamente Giacca-di-pelle.
Miles? Sorrisi; adesso mi sarei divertito un po'. «Che cosa stai facendo,
ragazzo?» Il prete spense il motore e uscì dalla macchina guardandoci tutti,
stupefatto. Era un uomo basso, con una di quelle facce giovanili e senza
rughe che lo facevano sembrare senza età; l'unico indizio che lasciava sup-
porre che fosse sulla cinquantina erano i capelli bianchi incollati al cranio
come i fili di un ordito, fra i quali appariva la rosea cute. Portava una giac-
ca di tweed sopra la casacca nera col colletto bianco e i suoi calzoni mar-
roni erano arrotolati alle caviglie, come se avesse indossato quelli di suo
fratello maggiore. «Qualcuno vuol dirmi che cos'è successo?» chiese. Mi-
les borbottò qualche cosa che nessuno capì. Il secondo giovinastro aveva
smesso di contorcersi sotto la mia stretta pur tentando di allontanare la fac-
cia dal cofano, mentre il terzo aveva affondato le mani nelle tasche dei cal-
zoni deciso a tenerle lontane dal naso e dalle ascelle.
Gillie parlò per prima : «Questi giovani hanno cercato di derubarci per
fortuna il signor Stringer è intervenuto e li ha fermati.»
Io la guardai sorpreso. «Derubarci» era un po' esagerato.
«Bontà divina!» esclamò il vicario. «È vero, Miles?» Non badò alle pro-
teste dei giovinastri probabilmente abituato a questi dinieghi. «Non impa-
rerai mai? Ultimamente solo perché sono intervenuto io, sei in libertà con-
dizionata, e adesso ci sei ricascato.»
Miles impallidì visibilmente.
«Non è successo niente,» intervenni io. «Le cose sono andate un po' fuo-
ri controllo, tutto qui.»
Il vicario rivolse la sua attenzione a me mostrandomi una certa freddez-
za. «Direi che sarebbe bene lasciare andare quel ragazzo, adesso,» disse
indicando il mio sorvegliato.
«Certo». Io allentai la presa e il ragazzo scattò via guardandomi con ira e
massaggiandosi il collo.
«Thomas Bradley, anche tu!» Il curato scosse la testa tristemente rasse-
gnato.
Il terzo giovinastro chinò la testa con aria vergognosa: probabilmente il
curato conosceva suo padre.
«Posso solo chiedervi di perdonare questi ragazzi,» disse il prete rivol-
gendosi alle ragazze e a me. «Hanno lasciato la scuola l'anno scorso e, con
le difficoltà a trovar lavoro da queste parti...» Non portò a termine la sua
spiegazione lasciando dedurre a noi le ragioni della loro condotta. Mi sfor-
zai di trovare delle plausibili giustificazioni, ma poi lasciai perdere felice
di esserne uscito indenne e di aver fatto una discreta figura.
«1 ragazzi sono spiacenti di avervi dato fastidio, signorine...» (non mi
sembravano affatto così costernati) «.. .e sono sicuro che queste cose non
avverranno più.» Il curato diede uno sguardo accorato ai tre e ordinò loro
di andarsene e presto. Quelli si allontanarono lentamente, con Miles che si
lasciava dietro gocce di sangue.
Mi divertì vedere un omettino come il curato avere un tal dominio su di
loro, e, mi resi conto ancora una volta che la vita di campagna era molto
diversa da quella di città.
Gillie e la sua amica raccolsero i loro acquisti e li misero nel bagagliaio
dell'automobile, e notai che il prete le stava osservando con un disprezzo
appena celato.
«Grazie per l'aiuto,» gli dissi.
Si voltò verso di me e con manifesta ostilità nella voce e nell'espressione
disse: «Sì, questi incidenti sono spiacevoli. Comunque desidero che voi...»
Per la seconda volta la sua frase rimase sospesa.
Gillie, sistemò la sua roba in macchina e poi venne verso di me mentre
la sua amica chiudeva il bagagliaio. «Oh, Mike, come posso ringraziarla?
Sandy e io eravamo così spaventate.»
«Erano solo ragazzi,» dissi modestamente.
«Energumeni,» corresse lei, e io mi strinsi nelle spalle. L'altra ragazza,
Sandy, ci raggiunse e devo dire che era visibilmente sconvolta. «Lei è Mi-
ke?» chiese. «Gli altri mi hanno parlato di lei e di Midge. Spero che siate
riusciti a sistemare Gramarye.»
Improvvisamente mi parve che il curato mi guardasse con uno sguardo
diverso. «Lei è la coppia che si è stabilita nel villino di Flora Chaldean?»
«Una metà della coppia,» ammisi.
Si fece immediatamente avanti con la mano tesa. «Allora lasci che le dia
il benvenuto nella parrocchia e che mi scusi se non sono ancora venuto a
trovare lei e la sua gentile signora. Avevo saputo del vostro arrivo, natu-
ralmente, ma in questi giorni i miei doveri pastorali mi hanno tenuto piut-
tosto occupato. Intendevo...»
Gli strinsi la mano, ormai abituato alle sue frasi lasciate a mezz'aria.
«Benissimo, anche noi siamo stati un po' occupati. Io sono Mike Stringer.»
«Peter Sixsmythe.» Mi strinse la mano con vigore. «Il reverendo Si-
xsmythe.»
«Noi dobbiamo andare, Mike,» interruppe Gillie. «È stato molto gentile:
spero che ci permetterà di ripagare il debito.»
«Nessun problema,» dissi, sentendomi un tantino imbarazzato, ma sod-
disfatto. «Nessun debito da ripagare. Sono lieto di essere passato di qui. Ci
rivedremo presto, eh?»
«Senz'altro.»
Non era mia intenzione estendere un invito alle due ragazze. Con mia
sorpresa, prima di risalire in macchina loro mi baciarono sulla guancia. Il
vicario e io ci facemmo da parte mentre Gillie girava la Citroen per lascia-
re il parcheggio e ci salutava con la mano dal finestrino.
«Signor Stringer,» disse il reverendo Sixsmythe con un'espressione gra-
ve nel suo volto da ragazzine, «lei è, ehm, molto in amicizia con quella
gente?»
Aggrottai la fronte. «Non esattamente. Gillie e un paio dei suoi amici
passano ogni tanto dal villino. Sono buoni vicini.»
«Sì, sì,» disse in fretta come se stesse considerando le possibili conse-
guenze di quell'amicizia. «Scusi, le dispiacerebbe se venissi a trovarvi do-
mani? So che avrei dovuto farlo prima, ma come le ho spiegato...»
Esitai. La religione non era il mio forte, per lo meno la religione ufficia-
le, e non mi vedevo assistere alla funzione domenicale in modo regolare;
Midge forse, ma non certo io. Non che sia un miscredente, tutt'altro, ma la
religione è per me un fatto personale e privato, e il condividerla con altri
mi mette a disagio. Le chiese mi rendono nervoso. Tuttavia, che cosa po-
tevo rispondere a questo prete zelante?
«Certo, con piacere. Avvertirò Midge della sua venuta.»
«La signora Midge è sua moglie?»
«La mia compagna.»
«Ah.» Fu un semplice «ah», senza alcun giudizio implicito del tipo
"peccatori senza fede". «Sono impaziente di conoscervi meglio. Va bene
nel mattino?»
Assentii.
«Buone cose. E spero che il piccolo incidente di oggi non le abbia la-
sciato una cattiva impressione del nostro paese, signor Stringer. Questi e-
pisodi sono molti rari, glielo assicuro.» Aprì lo sportello della sua macchi-
na, ma non salì immediatamente; invece mi chiese: «Sapeva che questi
suoi nuovi amici appartengono a una setta chiamata Sinergista?»
«L'ho saputo stamattina.»
«Capisco. Loro non glielo avevano detto?»
«No. In realtà me l'ha detto il signor Hoggs del negozio di ferramenta.»
«Non le hanno accennato a niente circa Gramarye?»
Strana domanda, pensai. «Ci hanno chiesto come ci trovavamo, ma nien-
te di più. Perché?»
Guardò l'orologio. «Sono in ritardo per un appuntamento: devo parcheg-
giare e andarmene subito. Potremo discutere la cosa domani.» Salì in mac-
china, poi sporse la sua testa dal finestrino aperto e aggiunse: «Nel frat-
tempo un avvertimento: stia attento a quella gente, signor Stringer. Stia
molto attento.»
Lasciai che voltasse nello spazio lasciato libero dalla Citroen di Gillie e
andai alla macchina non sapendo se dovevo prenderlo sul serio. Forse non
amava le religioni non ufficiali. O vi era davvero qualche cosa di sinistro
in quel gruppo?
Ero sicuro che in un modo o nell'altro lo avrei saputo presto.
17.
I SINERGISTI
Kinsella arrivò quella sera stessa sul tardi; era solo, o meglio in compa-
gnia di due bottiglie di vino fatto in casa.
Ero seduto davanti alla porta d'ingresso e gettavo delle briciole di pane a
Rumbo, che le ammucchiava sul lato del sentiero squittendo come un mat-
to per tener lontani gli uccelli. Midge era in casa e preparava la cena.
Questa volta Kinsella arrivò con un'altra macchina, una Escort rossa, e
io la guardai con curiosità quando si fermò presso il cancello. Quando mi
resi conto di chi si trattava, inspiegabilmente mi irrigidii: gli avvertimenti
del curato avevano ovviamente rinforzato le mie riserve circa il visitatore
biondo e i suoi compagni.
Mi salutò con la mano dall'altra parte del cancello e rimase lì come a-
spettando un invito a entrare. Mi ricordai che né lui né i suoi amici aveva-
no mai messo piede a Gramarye e che le nostre conversazioni erano sem-
pre avvenute oltre il cancello. Semplice educazione, pensai, vecchie buone
maniere da parte loro. Mi alzai e percorsi il sentiero verso di lui, mentre
Rumbo mostrava la sua irritazione per l'interruzione del gioco lanciando
rauche strida. Feci cadere l'ultima briciola mentre passavo vicino a lui e
questo lo calmò un poco, sebbene lo sentissi ancora brontolare mentre met-
teva in ordine il suo "tesoro".
«Salve, Mike,» gridò Kinsella mentre mi avvicinavo; aveva una bottiglia
di vino sottobraccio e mi sorrideva con i suoi grandi denti bianchi che
sembravano ancora più bianchi sul volto abbronzato. «Ho portato una co-
setta per mostrarti la mia gratitudine per quanto hai fatto oggi.»
«Oh, parli di quella baruffa in paese?» dissi modestamente fingendo
sorpresa. «Quelli erano solo degli aspiranti teppisti.»
«Non proprio aspiranti, a quanto ho sentito. Gillie mi ha detto che gli hai
dato una lezione. Sandy mi ha mandato a ringraziarti; ti ho portato un po'
di vino.»
«Non era affatto necessario.»
«Invece sì. Senti, perché non apriamo subito la bottiglia? Ti assicuro che
è eccellente.»
Restava lì, tenendo le due bottiglie per il collo e porgendomele al di so-
pra del cancello e sarebbe stato villano da parte mia non invitarlo. Aprii il
cancello e gli feci cenno d'entrare. «Splendida idea,» dissi.
Mi aspettavo che entrasse subito; ma non lo fece; rimase dov'era come
una novella sposa nervosa. Lo fissai, e solo quando tornò ad accorgersi di
me, riprese i suoi modi disinvolti.
«Scusa,» disse in fretta. «Mi stavo chiedendo se non ero troppo indiscre-
to. Avrete molte cose da fare qui».
«In questo momento no. Ti dirò che un bicchierino me lo berrei volen-
tieri.»
Varcò il cancello e mi parve, ho detto mi parve, di vederlo rabbrividire.
«Accidenti avete lavorato un bel po',» osservò mentre gli facevo strada.
«Midge è stata bravissima. Mi sono meravigliato di come ha saputo ca-
varsela con tutte le varietà di fiori. Credo che l'esser venuta qui abbia ri-
svegliato in lei la sua passione per il giardinaggio.»
Rumbo, che nel frattempo doveva aver meditato su come portarsi le bri-
ciole nella sua tana, scosse la testa mentre ci avvicinavamo mostrando al-
larmato i piccoli denti aguzzi. Mi divertii nel vederlo così timoroso degli
estranei quando saltò via come un razzo balzando sul terrapieno a fianco
del villino scomparendo fra il fogliame.
«Molto grazioso,» disse Kinsella con una risata.
«Non è domestico, è un visitatore abituale. Di solito è più amichevole.»
Raggiungemmo la porta d'ingresso e io entrai direttamente mentre Kin-
sella indugiava sulla soglia per ammirare ancora il giardino. «Che colori
fantastici,» esclamò. «Incredibile.»
«Midge!» chiamai. «Abbiamo un ospite.»
Lei uscì tutta sorridente dalla cucina asciugandosi le mani sul grembiule.
Io le feci un cenno e lei guardò oltre la porta.
«Hub, che bella sorpresa.»
«Oh, Midge, sono venuto a ringraziare questo eroe.»
«Eroe. Ah, alludi alle sue prestazioni di questa mattina.»
(Le avevo parlato dell'incidente, ma non le avevo detto nulla degli av-
vertimenti del reverendo Sixsmythe circa i sinergisti; volevo lasciare a lui
questo compito per il mattino dopo, quando avrebbe potuto spiegarsi me-
glio.)
«Certo hai salvato le nostre sorelle da guai seri. Sono tornate sconvolte,
ma piene di ammirazione per Mike.»
«Non restare lì,» dissi sentendomi avvampare. «Entra.»
Lui accettò l'invito, ma mi parve ancora un po' esitante. Forse dovrei dire
cauto perché entrò con movimenti lenti e studiati. Si stava avvicinando il
crepuscolo, la cucina quasi immersa nel buio era in ombra, e lui sbattè gli
occhi per abituarsi all'oscurità.
«Abbiamo pensato di aprire una bottiglia subito,» dissi a Midge che ac-
cettò l'idea di buon grado.
«Vado a prendere dei bicchieri,» disse lei avvicinandosi alla credenza.
Prima aprì un cassetto e mi porse il cavatappi, poi aprì un'anta della cre-
denza e prese due bicchieri.
«Non bevi con noi, Midge?» chiese Kinsella strofinandosi le braccia nu-
de come se avesse freddo.
«Non bevo mai vino. Vi farò compagnia con una coca-cola.»
Ci sedemmo tutti e tre attorno alla tavola della cucina, e io versai il vino
per l'americano e per me, mentre Midge bevve direttamente dalla botti-
glietta.
«Ancora grazie, Mike,» disse Kinsella alzando il bicchiere.
«Oh, conoscete quei tipi: tanto fumo e niente arrosto. Hanno visto due
ragazze sole e hanno creduto di potersi divertire. Non avrebbero dato alcun
disturbo se tu fossi stato con loro.»
«Non lo so. Sembra che non siamo molto ben visti nella zona.»
«Davvero?» chiesi come se lo sentissi per la prima volta.
Lui confermò con un'espressione seria. «Sì tutti pensano che siamo una
setta religiosa di ciarlatani o qualche cosa del genere. Voi sapete com'è in
queste piccole comunità isolate: si sospetta di tutti i forestieri, specialmen-
te se si occupano di qualche cosa che quelli del luogo non capiscono.»
«Il Tempio Sinergista? Devo ammettere che non lo capisco nemmeno io.
Che cosa è? Una nuova religione?»
Lui sorrise e Midge inarcò le sopracciglia.
«Sinergista?» chiese.
«Qualcuno in paese le ha già parlato di noi,» disse Kinsella.
«Sì, il proprietario del negozio di ferramenta.»
«Dunque sa che non siamo ben visti.»
Mi sentii colto a mentire, ma Kinsella, mi sorrideva.
«Sinergista?» ripetè Midge battendo la bottiglia di coca-cola sulla tavola
per richiamare l'attenzione.
Kinsella si voltò verso di lei. «E il nome del nostro ordine.»
«Strano nome, mai sentito. Che cosa significa esattamente?»
Kinsella si mise a sedere sulla punta della sedia. «Prima di tutto non
siamo una setta di fanatici come ce ne sono in giro oggi. Non siamo un'isti-
tuzione di carità, né siamo una congrega religiosa nel vero senso della pa-
rola.» Continuava a sorridere, ma adesso ci guardava in modo rassicurante,
faccia a faccia.
«Lasciatemi dunque spiegare il Sinergismo. Fondamentalmente è la cre-
denza che la volontà umana e lo Spirito Divino sono i due elementi che
possono cooperare nella rigenerazione.»
Né io né Midge capimmo subito cosa intendeva. Lo guardammo stupiti e
il suo sorriso diventò quasi un sogghigno. Nonostante i suoi modi disinvol-
ti, lessi nei suoi occhi una certa serietà.
«Come varie sostanze chimiche agiscono l'una sull'altra,» continuò, «co-
sì crediamo che i processi del pensiero umano, che sono, come sapete, una
serie complessa di reazioni chimiche possano combinarsi con lo Spirito
Divino, o di tutti noi, se preferite, per dar origine a un unico potere.»
Io colpii il piede di Midge sotto la tavola, ma lei non se ne accorse.
«Di che tipo di potere stai parlando?» chiese a Kinsella.
«Oh, e di vari generi. Il potere di curare, di influenzare, il potere di crea-
re... può manifestarsi in tanti modi.»
«Tu hai parlato di rigenerazione...»
«Rigenerazione è una parola che usiamo per riferirci a tutti gli aspetti
della nostra dottrina. Significa la rigenerazione dei nostri spiriti e quella
di...» Si interruppe scusandosi con un sorriso. «Probabilmente penserete
che tutto questo è pazzesco, no?»
Era esattamente quello che pensavo; ma rimasi zitto.
«Tutti i seguaci di una religione pregano la loro particolare divinità: cri-
stiani, musulmani, ebrei... Per lo più pregano per un Intervento Divino,
perché certe cose avvengano o non avvengano. Possono pregare per se
stessi, per i loro cari o anche per il mondo in generale. Comunque cercano
di dirigere il naturale corso degli eventi e il loro dio è l'intermediario, il ca-
talizzatore o addirittura il creatore di questi eventi. La nostra dottrina non è
molto diversa dalla loro.»
Si addossò alla sedia aspettando che assorbissimo la rivelazione.
«Ma c'è una differenza,» osservai.
«Solo in quanto noi, con l'aiuto del nostro fondatore e della nostra guida,
impariamo a combinare e dirigere le nostre energie in un senso più fisico e,
naturalmente, agendo in unione con lo Spirito Divino.»
«Scusa,» insistetti, «Ma non sono ancora d'accordo con te. Questo, ehm,
Spirito Divino, che cos'è?»
«Tu, io, i nostri pensieri.» Fece un gesto comprensivo con le braccia.
«L'aria intorno a noi. La terra stessa, il potere che questa genera.» La sua
voce era divenuta soffocata e mi accorsi che anch'io trattenevo il respiro. Il
suo entusiasmo aveva in qualche modo caricato l'atmosfera.
Per un poco nessuno di noi parve voler rompere il silenzio e io notai che
la cucina era ormai completamente buia. La sera si era anche rinfrescata.
Midge prese la bottiglia della coca-cola senza distogliere lo sguardo da
Kinsella. «E siete... siete in molti nella casa grigia?» chiese prima di porta-
re la bottiglia alle labbra.
«Quaranta o cinquanta, credo. Noi chiamiamo quel luogo il nostro san-
tuario: è la nostra abitazione e insieme il nostro tempio. E diventiamo
sempre più numerosi.» Mise i gomiti sulla tavola, allungando la testa verso
di noi. «Dovreste venire tutti e due a trovarci, credo che sarebbe un'espe-
rienza interessante per voi.»
Risposi prima che Midge potesse aprir bocca. «Dobbiamo fare ancora
parecchie cose qui nel villino...»
Lui rise e si chinò in avanti per toccarmi il braccio. «Non essere nervoso,
Mike, non vogliamo cercare di convertirti. No, non è nel nostro modo di
fare.»
Mi ricordai che Hoggs, avevano detto il contrario quel mattino.
«Incontrereste alcune persone molto interessanti,» continuò Kinsella
cordialmente, «e di varie parti del mondo. Potreste conoscere Mycroft.»
Presi il mio bicchiere di vino con tanta foga che ne versai un po' sul ta-
volo. «Mycroft?»
«Sì, Eldrich P. Mycroft, il nostro fondatore, un uomo davvero unico.»
Kinsella che non aveva ancora toccato il vino, ne mandò giù un lungo sor-
so. «E buono, eh? Noi guadagnamo un po' di denaro vendendolo. Non
chiediamo delle donazioni: noi vendiamo le cose che facciamo.»
«E guadagnate abbastanza da mandare avanti l'organizzazione?» chiese
Midge.
«Il Tempio, Midge, noi lo chiamiamo il Tempio. No, no certo. Ma ab-
biamo dei fondi privati. Fa un po' freddo adesso, no?» Si strofinò forte le
braccia. Stranamente aveva la fronte sudata. «Sì, sì fa proprio freddo.»
Bevve ancora del vino facendo vagare lo sguardo in giro per la stanza.
«Forse dovrei chiudere la porta,» suggerì Midge accennando ad alzarsi.
«No, va bene così,» si affrettò a rispondere guardando la porta aperta. «E
un piacere sentire tutti questi meravigliosi profumi del giardino. Questi
fiori favolosi, Midge. Sì, Mike, sei stato proprio di grande aiuto alle ragaz-
ze, oggi. Tutto bene nel villino? Nessun altro problema? A parte i pipistrel-
li. Sei sempre preoccupato per i pipistrelli? Mike?»
Midge e io ci scambiammo un'occhiata. Quel tipo si stava ubriacando
con un solo bicchiere di vino?
«Non ci hanno ancora dato noia,» risposi. Assaggiai ancora il vino, che
non mi parve molto forte.
«Comunque potrete contare su di noi in caso di bisogno, lo sapete.»
Strinse il bicchiere fra le mani. «Fa buio presto in quest'angolo della fore-
sta,» e rise con un suono acuto nella pace della sera.
«Sembra che si prepari un temporale,» notai.
«Un temporale? Sì, è vero, si avvicina un temporale. » Kinsella aveva
ancora sul volto quel sorriso vacuo, ma sembrava a disagio, quasi preso in
trappola. Cominciava a innervosirmi.
Credo che Midge tentasse di calmarlo quando chiese: «Tutti quelli del
tempio hanno la tua età, Hub?»
«Oh, no, ci sono gruppi di tutte le età. Un paio degli adottivi sono sulla
sessantina. Chiamiamo così i discepoli semplici: adottivi.»
Però, pensai. «E tu sei un adottivo?»
«No, Mike, io sono primo ufficiale.»
«Sembra una carica importante.»
«Be', nel Tempio è piuttosto importante e comporta un mucchio di re-
sponsabilità. Spero che non stia per scoppiare un grosso temporale. Sentite
i tuoni?»
Eccome se li sentivo. Avevo la sensazione che se avessi fatto schioc-
chiare le dita avrebbero sprizzato scintille.
Kinsella mandò giù l'ultimo sorso di vino e io gli porsi la bottiglia, ma
lui la respinse con un gesto. «Devo andare: si sta facendo tardi.»
«Un altro bicchierino prima del viaggio?» dissi.
«Grazie, ma devo andare prima che scoppi il temporale.»
Si alzò, facendo stridere la sedia sulle mattonelle. Midge e io ci alzam-
mo con lui, ma lui era già alla porta prima ancora che noi fossimo in piedi.
«Ricordatevi quello che vi ho detto.» Il suo sorriso, sul lato sinistro, si
contrasse ancora di più. «Venite in qualsiasi momento, sarete sempre i
benvenuti.»
Uscì mentre noi ci avvicinavamo.
«Restate lì,» disse in fretta. «Non uscite, potreste prendere la pioggia.»
Sebbene fosse buio, potei vedere che la sua pelle era tutta sudata; e tut-
tavia rabbrividì come se gli fosse passata una ventata gelida sulla schiena.
Poi si allontanò affrettandosi per il sentiero quasi avesse un appuntamen-
to urgente. Midge e io ci guardammo stupiti.
«Credi che si senta bene?» chiese Midge sinceramente preoccupata.
«Me lo domando anch'io. Forse è stato qualche cosa che abbiamo detto.»
Rabbrividì anche lei. «Era strano, Mike. Molto strano. Avremmo fatto
meglio ad accompagnarlo per assicurarci che fosse in condizioni di guida-
re.»
Mi feci avanti e uscii appena in tempo per vedere il nostro frettoloso o-
spite salire a bordo della Escort lasciando aperto il cancello del giardino.
«Ehi, Hub!» gridai, ma lui non poté sentirmi. L'auto lasciò due profondi
solchi nell'erba tanto si avviò velocemente. Io percorsi il sentiero, ma pri-
ma che fossi giunto al cancello la Escort era scomparsa. «Buona sera,» dis-
si alla strada vuota.
Chiuso il cancello, tornai verso Gramarye e mi accorsi che le nubi nere
erano sparite. Allora mi fermai. C'erano nubi cupe all'orizzonte che copri-
vano gli ultimi raggi del sole al tramonto, ma sopra di esse il cielo era rela-
tivamente libero da ogni nube. Una leggera brezza increspò l'erbetta delle
aiuole e i colori smorzati dal crepuscolo ondeggiarono lievemente. Una
piccola ombra nera fuggì dal tetto del villino: un pipistrello in cerca di cibo
serale, e io rimasi in giardino a riflettere sul perché mai tutti e tre avessimo
pensato che stava per scoppiare un temporale.
E allora quella corrente fredda colse anche me.
Rabbrividii curvando le spalle. Qualche cosa oltre il giardino richiamò la
mia attenzione. Silenzio. Ma ecco di nuovo quella sagoma, che adesso era
lì al limitare della foresta: il volto era solo una macchia scura.
Ma sapevo che mi guardava e sapevo che mi aspettava.
La sagoma si mosse: un solo passo avanti. E io fuggii nel villino.
18.
SlXSMYTHE
A questo punto avrete capito che non sono un eroe. A volte mi capita di
essere particolarmente coraggioso. Solo che la sera della visita di Kinsella
non era una di quelle volte.
Non parlai a Midge di quello che avevo visto non volendo allarmarla, e
provando una certa vergogna per non essere andato a investigare. Appena
entrato nel villino corsi su per le scale e guardai da una finestra della stan-
za rotonda. Anche con la poca luce, riuscii a vedere che la sagoma non c'e-
ra più. Certo non aveva avuto il tempo di attraversare la radura verso il vil-
lino, così poteva solo essere tornata nel folto degli alberi. Quando Midge
mi chiese che cosa ero andato a vedere, risposi che credevo di aver visto
uno dei famosi daini della Nuova Foresta, e fu un errore perché lei si esaltò
e io dovetti dissuaderla dall'uscire per cercarlo. E troppo scuro, le dissi, e
ormai si sarà addentrato nella foresta.
Lei si lasciò convincere con riluttanza, ma continuò a osservare attenta-
mente la radura finché non fu notte completa (io la osservavo pieno di ap-
prensione).
Quando ci ritirammo, più tardi, io ero molto teso, anche se avevo fatto
del mio meglio per razionalizzare per tutta la serata. La lite durante il gior-
no, il cambiamento di Kinsella mentre bevevamo il vino, l'atteso temporale
che si era allontanato: tutte queste cose mi avevano messo fuori sesto ren-
dendomi un po' euforico. Non dubitavo di aver visto qualcuno che mi os-
servava dal bosco, ma i fatti precedenti mi avevano innervosito e questo
nervosismo era aumentato nel vedere ancora una volta il misterioso osser-
vatore. Chiunque, nelle stesse circostanze, avrebbe avuto queste sensazio-
ni.
Dormii male, mi svegliai più volte per ascoltare i rumori notturni, im-
maginando scassinatori che cercavano di forzare le finestre al piano terra e
andando a controllare le porte. Ogni scricchiolio era un rumore di passi e
ogni leggero colpetto lo scambiavo per qualcuno che bussava ai vetri delle
finestre.
Fu un sollievo quando venne mattino.
Avevo appena finito di tagliare l'erba dietro casa e stavo ripulendo le
lame della falciatrice quando arrivò il reverendo Sixsmythe. Midge, in cal-
zoncini e maglietta a maniche corte, stava lavorando in giardino quando il
vicario la salutò. Sebbene colta alla sprovvista (io mi ero dimenticato di in-
formarla della sua visita) lei rispose gentilmente al saluto. Lo condusse
dalla parte del giardino dove io lavoravo e mi fece un cenno mentre lui non
guardava.
«Buon giorno, signor Stringer,» disse giovialmente avvicinandosi con la
mano tesa. Oggi portava un cappello floscio di feltro che lo faceva sembra-
re un ragazzino vestito con gli abiti del padre perché era troppo grande per
lui. «Felice di vederla al lavoro. Spero che lo farà solo un paio di volte la
settimana.»
«Tre volte. L'erba qui cresce presto.»
Si guardò attorno. «Ah, sì, le piante e gli animali non mancano in questa
zona. Credo che Flora Chaldean avesse il suo da fare per tenere tutto in or-
dine. Sono capitato in un momento poco opportuno? Ieri ci eravamo messi
d'accordo.»
«Tutt'altro. Stavo facendo una pausa,» risposi.
«Anch'io,» disse Midge. «Gradirebbe un tè, un caffè, una limonata?»
«Una limonata andrebbe benissimo, signora... signorina...»
«Gudgeon.»
«Gudgeon,» ripetè lui. «Questo nome mi ricorda...»
«Margaret Gudgeon,» dissi io. «Libri per bambini?»
«Sicuro, proprio così!» Era fuori di sé per la sorpresa. «Benvenuta nella
nostra parrocchia, signorina Gudgeon. Bontà divina ! Conosco benissimo
le sue opere perché ho tre figli giovani. La più grande comincia a occupar-
si di altre cose, ma ha ancora una collezione dei suoi libri. E straordinario
che sia venuta a stabilirsi qui. E proprio in questo villino! Lo sa, vero, cosa
significa Gramarye?»
«Sì», rispose lei. «Significa Magia.»
La guardai stupito. Non me lo aveva mai detto.
«E com'è appropriato,» proseguì Sixsmythe. «Veramente appropriato.
Le sue storie non parlano forse di magia?»
«Io illustro solo i libri.»
«Sì, ma i disegni fanno la storia, no? Le parole sono solo al servizio, del-
le illustrazioni vero signorina Gudgeon? Posso chiamarla Margaret? E
questo è Mike, no? I cognomi sono così formali e qui siamo tutti amici.»
Mi domandai se potevo chiamarlo Pete.
«Limonata anche per te, Mike?» Midge mi sorrise lanciandomi uno
sguardo che voleva dire chi è questo tipo?
«Magnifico,» risposi contraccambiando il sorriso.
Avevamo comprato in paese un tavolino da giardino e due sedie di legno
e li avevamo sistemati vicino alla vecchia panca. Feci cenno al curato di
accomodarsi e lui si sedette su una sedia togliendosi il cappello e posando-
lo sul tavolino. Io presi posto di fronte a lui sulla panca. Di lì potevo vede-
re la foresta alle sue spalle e, per la seconda volta quel mattino, la scrutai
attentamente cercando chi sapete voi.
«Devo scusarmi per quello che è avvenuto ieri in paese», disse Si-
xsmythe asciugandosi la fronte con un fazzoletto rosso. «In ogni comunità
c'è sempre qualche elemento indisciplinato, e lei si è imbattuto proprio nel
peggiore. In realtà non sono ragazzi malvagi, ma sono sempre in lotta con
il mondo intero.»
«Non si preoccupi; mi ero quasi già dimenticato dell'incidente» mentii.
È strano come si tenda a mentire soprattutto con la gente di chiesa assu-
mendo un tono di falsa benevolenza. «Comunque non hanno fatto nulla di
grave.»
«Sono contento che la prenda così. La nostra è una comunità pacifica,
Mike, e forse conduciamo uno stile di vita fin troppo tranquillo per i tempi
che corrono. Comunque vanno bene per la gente di qui e non credo che
avverranno cambiamenti drastici ancora per una decina d'anni. A meno che
non decidano di costruire un'autostrada che passa attraverso la foresta, ma
non credo accadrà.»
Ridacchiò, ma io avevo la sgradevole sensazione che mi stesse valutan-
do attentamente. Speravo proprio che non avesse un piccolo attacco isteri-
co come il nostro amico Kinsella il giorno prima.
Parlammo del tempo, della campagna, accennammo alla situazione del
nostro paese, e io avevo l'impressione che aspettasse il ritorno di Midge
per affrontare argomenti più personali.
Lei tornò dopo un periodo che mi parve lungo un'infinità, portando un
vassoio di bicchieri e una caraffa di limonata ghiacciata. Io considerai con
piacere le sue gambe sottili abbronzate e vellutate. Mi accorsi che Si-
xsmythe le lanciava sguardi furtivi, era un uomo anche lui nonostante la
tonaca nera e il colletto bianco.
Midge si sedette accanto a me sulla panca e versò la limonata dalla ca-
raffa. Era un'altra magnifica giornata, quell'estate sarebbe passata alla sto-
ria per il bel tempo, e la bellezza dell'ambiente calmava il mio nervosismo
per la notte insonne. Sentivo sempre quel senso di disagio dentro me, u-
n'inquietudine che non riuscivo a spiegarmi. Sorseggiai la limonata e tentai
di fissare lo sguardo sul prete e non sul bosco dietro di lui.
«Allora, Margaret,» disse Sixsmythe dopo avere inghiottito metà della
sua limonata in un solo sorso, «sta lavorando a qualche nuovo libro in que-
sto momento?»
«Oh, no. Mike e io abbiamo deciso di non accettare nessun lavoro per
almeno un mese, finché non ci saremo messi a posto a Gramarye. E un pe-
riodo di assestamento.»
«Molto saggio. E lei di che cosa si occupa, Mike? È anche lei un arti-
sta?» Era sinceramente interessato, con i suoi occhi chiari da ragazzino at-
tenti e brillanti.
«Io suono la chitarra e scrivo canzoni quando posso.»
Parve deluso. «Capisco, quindi lei non lavora regolarmente.»
Midge e io ridemmo.
«Come no!» rispose Midge, divertita ma anche sdegnata. «Mike suona
soprattutto in sala di registrazione, e ogni tanto all'estero.»
«All'estero?»
«Suono in un complesso e di tanto in tanto facciamo qualche tournée,»
spiegai.
«Ah.»
«E quando non è in tournée, lavora sodo; scrive canzoni. Adesso sta
scrivendo delle canzoni per un musical.
«Midge...» l'avvertii bonariamente.
«Scusa.» Mi premette la gamba, poi, rivolgendosi a Sixsmythe spiegò:
«Preferiamo non parlare mai dei nostri progetti futuri. Mike e io pensiamo
che non porti fortuna.»
«Sì, vi capisco. Forse il parlarne può bloccare la creatività».
«Proprio così, » dissi. «A volte hai una buona idea, ne parli con qualcu-
no, e subito dopo l'idea è morta prima ancora di vedere la luce.»
«Perbacco, che vita intensa dovete avere.»
Sorridemmo.
«Quando viene pubblicato un nuovo libro, o il lavoro va bene, tutto è
molto entusiasmante,» disse Midge. «Per il resto bisogna imporsi una fer-
rea autodisciplina...»
«Comunque immagino che conoscerete persone molto interessanti,» in-
sistè lui. «Spero che non vi annoierete troppo con gente semplice come
noi.»
«Mi creda, una delle ragioni che ci hanno indotto a venire qui è stata
quella di allontanarci da certe persone cosiddette "interessanti". Troviamo
la vita di campagna rigenerante.»
«Sì, forse sono stato un po' duro con me stesso e nei confronti dei miei
parrocchiani. Vi accorgerete che molti di noi non sono così sciocchi come
possono sembrare a prima vista». Annuì come per confermare ciò che ave-
va appena detto. Poi guardò pensoso le mura del villino. «In realtà vi sono
alcuni personaggi interessanti, da queste parti. Per esempio credo che avre-
ste trovato affascinante Flora Chaldean. Una donna davvero straordinaria.»
Midge appoggiò i gomiti sul tavolino e intrecciò le mani davanti a sé.
«La conosceva bene?» chiese.
«Flora? No, credo che nessuno l'abbia conosciuta bene. Era troppo in-
troversa. Ma la gente del luogo si rivolgeva a lei quando si trovava in dif-
ficoltà. » Sorrise con aria pensosa. «Molti di coloro che io non riuscivo ad
aiutare andavano da lei. Flora era per loro di grande conforto, molto più di
quanto lo fossi io. Loro non mi parlavano mai di queste visite le tenevano
segrete. Ma io lo sapevo. Conoscevo le loro abitudini.»
Mi sistemai meglio sulla panca e vidi che Midge era incuriosita.
«Che genere di aiuto dava la signora Chaldean?» chiesi. «Era una di
quelle persone a cui la gente ama confidare i suoi guai?»
«Era molto più di questo» aggrottò le sopracciglia. «Era una grande gua-
ritrice: una guaritrice dello spirito e della carne. Purtroppo io non posso
guarire i malati e solo raramente riesco a guarire lo spirito. Sembra che
Flora avesse un dono antico.»
Gli uccelli ci volavano attorno e ogni tanto qualcuno atterrava ai nostri
piedi. Se Sixsmythe non fosse stato lì, sarebbero volati addirittura sul tavo-
lino a chiedere cibo.
«L'avvocato di Flora ci aveva accennato al fatto che era una guaritrice,»
disse Midge. «Adesso lei ci sta dicendo che era una guaritrice dell'anima?»
«Non esattamente. Oh, sono sicuro che molti dei suoi successi erano do-
vuti alla fiducia che tutti avevano nei suoi poteri. Ma questo non spiega
tutto. Preparava pozioni di quelle che si trovano nei libri di antichi rimedi,
passate di generazione in generazione, ma aveva anche la capacità di cura-
re senza questi farmaci, solo parlando o usando le mani. Non che acco-
gliesse tutti ! Bontà divina, no! V'erano alcuni a cui non avrebbe permesso
di metter piede nel suo giardino!» Scosse la testa e sorrise come il fantoc-
cio di un ventriloquo. «E poi aveva uno straordinario modo di trattare gli
animali. Li poteva guarire quasi dalla sera al mattino, a quanto mi hanno
detto.»
Midge mi lanciò un rapido sguardo.
«Spesso qui si vedevano vacche o cavallini malati, impastoiati, per un
giorno o due, poi quando il padrone veniva a riprenderli erano guariti. Ca-
ni, gatti, a volte veri serragli. Ora, non si può dire che anche gli animali
avevano fede nei suoi poteri, quindi è difficile capire in che modo guaris-
sero. Sì, sì, Flora aveva un meraviglioso dono. Peccato che io l'abbia cono-
sciuta solo poco prima che se ne andasse. Potrei avere un altro bicchiere di
limonata, Margaret? È molto rinfrescante in giornate come questa.»
Lei gliela versò, tutta assorta nella storia dell'ex-proprietaria di Gramar-
ye. «È strano che la sua fama, non fosse più diffusa.»
«Cielo, no! Sono tutti molto chiusi, da queste parti. Sì, svolgeva tutto in
gran segreto. Flora faceva promettere il massimo riserbo a coloro che an-
davano da lei. Tuttavia, come sempre, correvano delle voci, una confiden-
za qui, un accenno là. Credo che la gente pensasse che ammettere aperta-
mente queste cose avrebbe infranto in qualche modo i poteri magici della
vecchia signora.»
«Una strana parola per un curato,» osservai.
Mi guardò vergognandosi un po'. «Sì, lo ammetto, la parola «poteri ma-
gici» ha un sapore di idolatria; ma riferisco solo quello che passava per la
mente della gente. Credo che sia molto affascinante, no?»
«Be',... sì, suppongo di sì. Sono solo sorpreso di sentire un curato parlare
così.»
Rise. «E vero! Posso capire la sua sorpresa. Ma in un certo senso la ma-
gia ha molto a che fare con il mio lavoro, non le pare? Quando noi preti
preghiamo l'onnipotenza e la divina bontà del Signore, dopo tutto chiedia-
mo che si avveri una magia.»
«Io... non consideravo la cosa in questi termini,» ammisi.
«Naturalmente no. E io devo rimproverarla. Per quanto Flora Chaldean
avesse poteri notevoli, temo che questa magia sia passata di moda da qual-
che secolo. Lo studio dei microchip è la nuova magia, non le sembra?»
mandò giù un sorso di limonata, doveva essere assetato. (Seppi poi da Mi-
dge che Sixsmythe era venuto dal villaggio in bicicletta pensando che un
po' di moto, in una giornata così bella, gli avrebbe fatto bene. Il suo cap-
pello floscio troppo largo aveva mantenuto in ordine i suoi capelli, ma non
aveva fatto molto per mantenere giovane il suo corpo).
«Mike,» disse ponendo il bicchiere sul tavolino e dandomi un'occhiata
da levriero. «Questi sinergisti... ieri mi ha detto che sono venuti a trovarvi
varie volte.»
Assentii domandandomi che cosa stesse per dirmi. «Erano soliti anche
far visita a Flora Chaldean.» Non avevo particolari commenti da fare: mi
sembrava una cosa molto naturale.
«Il fatto è che non erano affatto benvenuti. Flora detestava cordialmente
questo gruppo pseudoreligioso. Tanto che se ne lamentò con il capo della
polizia del villaggio. Ma lui poteva fare ben poco per impedire loro di ve-
nire qui.» Accennò al paesaggio dietro di sé. «Questi boschi sono di tutti e
così pure i sentieri attorno al villino; loro avevano il diritto di passare o
soffermarsi quando volevano.»
«Un momento. Vuol dire che molestavano la vecchia signora?»
«Da quanto sono stato indotto a credere, sì, decisamente.»
«Ma perché avrebbero dovuto farlo?» intervenne Midge. «I tre che ab-
biamo incontrato non potevano essere più amichevoli né più innocui. Per-
ché avrebbero dovuto disturbare Flora?»
Alzò lentamente le mani lasciandole cadere sul tavolino. «Chi può dirlo?
Flora era una persona molto riservata, nonostante, o, per meglio dire, pro-
prio a causa dei discreti servigi che offriva a coloro che ne avevano biso-
gno. Era un'eccentrica, per non dire un tantino bisbetica in certe occasioni,
così che può averli presi in antipatia per diverse ragioni personali.»
«Ieri ho avuto l'impressione che ben pochi, qui, li abbiano in simpatia,
così che, da questo punto di vista, non era la sola,» dissi. «Tuttavia non
riesco a capire perché siano così impopolari. Che cosa hanno fatto per pro-
vocare un tale risentimento»
«È gente strana e vive in uno strano modo.»
Sospirai. «Questa non è una ragione...»
«E un'organizzazione sospetta, Mike, non diversa da tante altre molto
diffuse al giorno d'oggi. Sono arrivati qui cinque anni fa, con un certo
Mycroft. Dapprima erano pochi e si stabilirono a Croughton Hall vivendo
per conto loro. Poi però se ne sono aggregati altri da varie parti del mondo,
riunendosi nella tenuta di Croughton come se fosse il punto focale della lo-
ro religione. E non molto tempo dopo cominciarono a reclutare altri segua-
ci, molti da questa regione, soprattutto giovani, allontanandoli dalle loro
famiglie, facendo loro un vero e proprio lavaggio del cervello perché ac-
cettassero i loro sistemi di vita, gli insegnamenti di Mycroft, così che essi
non hanno più voluto lasciarli per quanto le loro famiglie o i loro cari cer-
cassero di persuaderli a tornare nel mondo reale.»
«Certo le autorità sarebbero intervenute se la situazione fosse così pre-
occupante come lei dice.» Lo sguardo di Midge si era fatto acuto per l'inte-
resse.
«Poiché non erano coinvolti dei minorenni e nessuna legge veniva offe-
sa, le autorità giudicarono di non avere ragioni per fare delle indagini. Cul-
ti e religioni antichi non sono rari, in questi giorni, dopotutto. I sinergisti
non sono registrati come associazione di carità, così che nemmeno la loro
posizione finanziaria può essere messa in questione finché mantengono in
ordine i loro registri.»
«Non vi sono leggi contro le sette segrete?» chiesi.
«Il Tempio Sinergista non si può considerare una setta segreta. Vivono
molto appartati, ma non si possono considerare una setta segreta.»
«Non ha mai conosciuto questo Mycroft?» Midge guardò il vicario sopra
l'orlo del suo bicchiere mentre beveva.
«No, mai. Ma sono andato alla loro sede più di una volta. Dovrei chia-
mare quel luogo il tempio, ma è molto difficile per me considerarlo tale.
No, ogni volta che vi sono andato questo Mycroft era indisposto o in viag-
gio per affari. Credo che nessuno l'abbia mai visto.»
«Non ci ha spiegato perché si interessassero a Flora Chaldean,» dissi.
«Era piuttosto anziana per diventare un'adottiva, non le sembra?»
Sixsmythe inarcò le sopracciglia. «Lei sa come chiamano i loro segua-
ci?»
«Uno dei ragazzi della congrega è passato di qui ieri sera per ringra-
ziarmi dell'aiuto che ho dato alle ragazze in paese. E ci ha parlato un po'
dei sinergisti.»
«Capisco.»
Sorrisi. «Non si preoccupi, non cercava di convertirci. Eravamo interes-
sati e abbiamo fatto alcune domande, tutto qui.»
Sixsmythe rimase in silenzio per un momento. Poi disse: «Credo che voi
due dovreste essere molto cauti con questa gente. Sì, mi rendo perfetta-
mente conto che sembrano molto affabili e innocui, e tuttavia non posso
fare a meno di pensare che nascondano qualcosa.
«Tutto questo è molto misterioso.»
«Già.»
«Oh, andiamo, lei avrà certo da dirci qualche cosa di più,» esclamò Mi-
dge in leggero tono canzonatorio.
«No, purtroppo. Lo chiami pure presentimento il mio, condiviso, del re-
sto, da molti miei parrocchiani. Se ne sapessimo qualche cosa di più se riu-
scissimo a scoprire qualche loro brutta azione il nostro consiglio locale po-
trebbe esercitare la sua autorità e opporsi in qualche modo alla loro pre-
senza in questa zona. Ma per il momento vivono per conto loro e non han-
no commesso nulla di male almeno pubblicamente.»
«E allora perché tutto questo chiasso?» Adesso Midge era realmente irri-
tata. «Il solo fatto che non si conformino al modello di vita locale non è
una ragione per metterli al bando.»
«Figlia mia, se fosse così semplice. Come ho detto, lo chiami pure pre-
sentimento, come vuole, ma la gente del luogo è molto sospettosa, e, come
uomo di Dio, lo sono anch'io. Vi è intorno a loro un'atmosfera di segretez-
za che troviamo molto sconcertante»
Midge soffocò una risatina e Sixsmythe si accigliò. «Non intendevo di-
vertirla,» disse con una certa irritazione. «Forse viviamo un po' tagliati
fuori dal mondo in questa zona, ma le assicuro che non siamo degli zotici
campagnoli superstiziosi. Io vi ho dato il mio parere, e non posso fare mol-
to di più.» Prese il suo cappello e si preparò a prender congedo. «Secondo
la mia opinione, questa setta sinergista non è meritevole di fiducia; comun-
que lascio a voi il giudizio.»
Io fui preso alla sprovvista dalla sua irritazione. «No, badi, non stiamo
canzonandola e apprezziamo che sia venuto per parlarci di loro. Li cono-
sciamo appena, ma sembrano buoni vicini, così che è difficile per noi ac-
cettare ciecamente quello che ci ha riferito. Lei ci ha detto il suo parere,
ma non ci ha dato alcuna prova.»
Mitigò la sua espressione imbronciata, ma comunque si alzò. «Sì, capi-
sco come deve apparirle la situazione,» disse. «Immagino che le sembrerò
molto strano, ma le chiedo solo di tenere conto delle mie parole. E se do-
veste avere qualche preoccupazione di qualsiasi genere, mi prometta di te-
lefonarmi, mi dia retta almeno in questo.»
«Senz'altro,» risposi alzandomi assieme a lui.
Midge fu meno cortese e sapevo il perché: il curato aveva scoccato una
prima freccia contro la sua montagna incantata. Midge non voleva sentir
parlare male di persone che le erano simpatiche. Tuttavia si alzò anche lei
educatamente e insieme accompagnammo il curato alla bicicletta. Si-
xsmythe si rese conto del cattivo umore di Midge e probabilmente si sentì
un po' mortificato perché fece del suo meglio per portare la conversazione
su argomenti più piacevoli: la bella posizione di Gramarye, il magnifico
giardino, la piacevolezza della foresta (ancora più bella secondo lui nei
mesi d'autunno quando le chiome degli alberi assumono colori oro rossic-
cio).
Poi ci chiese se ci avrebbe visto in chiesa alla funzione della domenica
(sapevo che sarebbe arrivato a questo). Dei sinergisti non fece più parola.
Aprii il cancello e lui passò, si rimboccò i calzoni alle caviglie e poi tirò
su la bicicletta dal recinto dove l'aveva appoggiata.
«Signor Sixsmythe...» disse Midge mentre lui stava per montare in sella.
Lui si voltò guardandola con aria interrogativa.
«Può dirmi una cosa?»
«Naturalmente.»
«Ebbene, noi... io... io vorrei sapere come è morta Flora Chaldean.»
Rimase per un momento interdetto. «Oh, figlia mia, spero di non averla
turbata con i miei racconti. Mi perdoni se è così.»
«No, sinceramente non mi ha turbata. Era da un po' che volevo saperlo.»
«Flora era molto vecchia, cara Margaret. Nessuno sapeva con esattezza
quanti anni avesse, ma suppongo che avesse raggiunto l'ottantina e forse
fosse vicina ai novanta.» Le sorrise cordialmente. «Credo si possa dire che
Flora sia morta di vecchiaia. Il suo cuore era stanco e lei è passata a mi-
glior vita nella sua amata Gramarye. Purtroppo, vivendo sola, nessuno se
n'è accorto prima che fossero passate alcune settimane, sebbene alcuni as-
sicurino di essere passati dal villino e di averla vista in giardino solo pochi
giorni prima che il suo corpo fosse rinvenuto. Ma la gente fa spesso confu-
sione sulle date; è difficile essere assolutamente sicuri su certe cose.»
«Perché avrebbe dovuto esserci confusione?» chiese Midge.
«Ah,» rispose il curato come se la domanda di Midge fosse pertinente.
«Si da il caso che io sia proprio quello che scoprì il suo corpo. Andavo o-
gni tanto a vedere come stava, come parte di quelli che considero i miei
doveri, sebbene non ricordi di avere mai visto Flora nella mia chiesa. Mi
faccio un dovere di visitare gli anziani della parrocchia non appena ho
tempo, specialmente durante i mesi invernali.»
Si aggiustò il cappello calandoselo bene in testa così che il vento non
glielo portasse via. «La vidi attraverso la finestra della cucina, seduta a ta-
vola, con la tazza e la teiera davanti a sé come se stesse prendendo un buon
tè caldo. Era una giornata nuvolosa e la cucina era in ombra, così che non
potevo vedere chiaramente. Ricordo di aver notato quanto fossero sudici i
vetri, perché mi impedivano di vedere bene. Ma quando battei sul vetro
senza avere risposta, cominciai a insospettirmi. Avevo già cercato di aprire
la porta e l'avevo trovata chiusa a chiave, cosa strana perché Flora non
chiudeva mai né le porte né le finestre. Impensierito corsi a chiamare Mr.
Farnes il capo della polizia.»
Scosse tristemente la testa, come se il ricordo fosse ancora chiarissimo
nella sua mente. «Lo aspettai al villino, scoprendo nel frattempo che anche
la porta del retro era chiusa a chiave. Quando Farnes arrivò, ruppe un vetro
della finesta della cucina. Sollevò il saliscendi ed entrò in casa.
Midge mi si avvicinò. Passò un'automobile e un cagnolino di peluche,
appeso al finestrino posteriore, fece sì con la testa come se conoscesse già
il resto della storia.
«Era molto pallido quando aprì la porta e mi invitò a entrare. Conside-
rando l'espressione sul suo volto e il fetore che proveniva dalla cucina, en-
trai trepidante.»
Sixsmythe stava guardando il villino, non noi. «Come vi ho detto, Flora
Chaldean era al tavolo, come se si fosse appena seduta a prendere il tè. Ma
la tazza era piena di una liquida muffa verde. E il corpo di Flora era ormai
putrefatto e brulicante di larve. Era morta da parecchie settimane.»
Il mio stomaco fece una capriola e il volto abbronzato di Midge perse il
suo colore. Mi si avvicinò e io la sostenni.
Sixsmythe era assorto: tutta la sua attenzione era concentrata sull'enigma
che lui stesso aveva posto. «1 passanti non avevano dunque potuto vederla
in giardino solo qualche giorno prima. Il coroner confermò poi quello che
io già sapevo: le condizioni del corpo di Flora indicavano che era morta da
almeno due o tre settimane, e nessuno se n'era accorto fino al momento del
mio arrivo. Piuttosto triste, non è vero? Sì, piuttosto triste.»
Così dicendo spinse la bicicletta sulla strada erbosa e si avviò pedalando
lungo la strada salutandoci con la mano senza voltarsi indietro.
E fu un bene perché 1'espressione del mio volto avrebbe potuto turbarlo
causando un incidente.
19.
MYCROFT
20.
LA GUARIGIONE
21.
COME IN UN FILM
22.
ACCUSATO
Dapprima la sua voce, e poi lei, Midge, in piedi sul pianerottolo; la porta
sul retro era spalancata, il verde di fuori era mutato per la pioggia fitta e
sottile.
Mi osservava come se fossi un estraneo, un ladro penetrato nel suo ama-
to villino; e anch'io mi sentivo tale.
La scena che era stata più nella mia mente che nel dipinto, mi fu strappa-
ta via come da un vortice la cui radice era il dipinto stesso. Le visioni di
ossa che si tendevano verso di me mi lasciarono, in parte dissolvendosi,
ma per lo più inghiottite, succhiate via. Barcollai all'indietro, improvvisa-
mente liberato dalla spirale delle immagini vorticose e andai a finire contro
la finestra alle mie spalle. Il leggero dolore mi scosse i sensi e la vista mi
tornò a fuoco.
Il disegno di Midge era lì davanti a me, una chiara, assolata campagna
che corrispondeva in sostanza all'originale, ma era anche idealizzata.
Un grazioso villino in un grazioso ambiente. Ma io avevo visto qualche
cosa di oscuro.
«Mike, Mike! Cosa ti è successo?»
Mi voltai verso di lei, ancora appoggiato alla finestra. Ero troppo confu-
so per parlare.
Midge entrò nella stanza con i capelli e il volto umidi di pioggia, la
giacca a vento lucida di gocce d'acqua. Si avvicinò a me e io caddi fra le
sue braccia.
«Sembri spaventato,» disse. «Sei pallido, E i tuoi occhi... oh Dio, i tuoi
occhi!»
«Lascia... lascia che mi sieda.»
Capivo appena le sue parole tanto erano confuse, ma lei si accorse da so-
la che riuscivo appena a stare in piedi. Mi aiutò a raggiungere il divano e a
stendermi. Riconoscente mi abbandonai sui cuscini.
Guardai ancora il disegno di Midge che però non vedevo più bene da
quell'angolazione, mentre lei mi accarezzava le guance con la mano umida
e fredda. Poi mi lasciò e tornò subito dopo con un bicchiere.
«Brandy,» disse avvicinandomelo alle labbra.
Bevvi mentre lei teneva il bicchiere poiché a me tremavano le mani. Il
brandy aveva un gusto sgradevole, ma il suo forte calore mi fece bene.
«Oh, Midge, non hai idea...»
«Hai gli occhi iniettati di sangue, Mike. Quanto hai bevuto ieri notte?»
«Il tuo disegno...»
«Può darsi che non ti piaccia, ma mi sembra una reazione eccessiva.»
«No, Midge, non scherzare...» Bevvi ancora del brandy.
Mi tenne la mano tremante. «Dimmi che cosa è successo,» disse a voce
bassa.
«Gesù, è questo posto, Midge. C'è qualcosa di misterioso qui.»
«Oh, Mike, come puoi dire questo? Qui tutto è perfetto e lo sai.»
«Il tuo disegno si muoveva. Lo guardavo e si muoveva, dannazione!»
Mi fissò come se fossi pazzo.
«È vero, Midge! E animato! Ho visto avvenirci delle cose, ho potuto o-
dorare i fiori, ho potuto sentire la brezza. E nel villino c'era qualcuno, ne
sono sicuro, so che c'era...»
Mi aspettavo stupore, incomprensione. Mi aspettavo preoccupazione o
addirittura allarme per il mio stato mentale. Quello che non mi aspettavo
era la sua furia.
«Che diavolo avete fatto, tu e Bob, questa notte? Me lo avevi promesso,
Mike, lo avevi promesso a te stesso! Basta con quella roba, niente più dro-
ga!» Scoppiò in lacrime di rabbia.
«No, nulla di questo, Midge! Te lo assicuro, abbiamo bevuto e basta. Tu
sai che non avrei...»
«Bugiardo!»
Per poco non lasciai cadere il bicchiere. Mi aveva gridato l'accusa con
gli occhi ardenti dietro un velo di lacrime.
«Abbiamo solo bevuto...»
«I medici ti avevano avvertito l'ultima volta! Ti avevano detto che eri
stato fortunato a essertela cavata! Dio mio, Mike, non ti è servita la lezio-
ne? La ragione principale per cui siamo venuti qui era di allontanarti da
quel gruppo. È bastato lasciarti solo una notte...»
«Non è successo niente. Cosa ti succede, Midge?»
«Cosa mi succede? Sei tu che farnetichi, che vedi muoversi i disegni!
Che cosa hai preso, stanotte? Ancora cocaina? Che altro? Non ricordi
quanto mi disgustava vederti prendere anche le droghe più blande? Non
significa nulla per te?»
In quel momento, naturalmente, non mi resi conto che la sua veemenza
era più una difesa contro qualche cosa che lei stessa non voleva riconosce-
re, che una rabbia diretta contro di me. Solo più tardi mi accorsi che Midge
aveva cominciato a capire molto prima di me, ma non aveva voluto che
l'irrealtà fosse messa in discussione, non aveva voluto che la logica di-
struggesse ciò che stava maturando in lei e si risvegliava in Gramarye. In
quel momento, tuttavia, nessuno di noi capiva nulla di quello che stava
succedendo.
«Midge, puoi chiederlo a Bob. L'ho invitato a passare qui il fine settima-
na.»
«Oh, magnifico, proprio la persona che desideravo vedere qui.»
«Ti comporti in modo irragionevole. Perché, non mi ascolti?»
«Ascoltare la storia delle tue allucinazioni? Credi che mi divertano?»
«Gli animali che vengono qui, l'uccello con l'ala rotta, il modo con cui i
fiori che stavano morendo si sono ripresi... tutto questo non è naturale.»
«Come puoi saperlo? Che cosa ne sai di tutto ciò che oltre le mura della
città, al di là dei bassifondi?»
La guardai stupefatto e lei evitò il mio sguardo.
Midge era inginocchiata davanti a me e il suo petto si sollevava con un
movimento esagerato come se la sua rabbia non potesse essere trattenuta.
Poi si controllò e disse a voce bassa: «Non volevo dire questo. Scusami.»
Si interruppe e si allontanò da me dando libero sfogo alle lacrime. Fuggì
via sbattendo la porta della stanza da letto. E poi sentii i suoi singhiozzi
soffocati in lontananza.
Rimasi lì stordito e confuso. Che diavolo era successo? A me e a Midge.
Che accidenti era successo?
Mi scolai il resto del brandy quasi soffocando per il suo aspro calore, e
posai il bicchiere sul pavimento. Mi asciugai gli occhi e le guance. Mentre
cominciavo a riprendermi e mi rendevo conto che non potevo lasciare Mi-
dge in quello stato, avvertii un fruscìo provenire da sotto il divano.
Restai fermo, timoroso, perché ero ancora disorientato e vulnerabile;
quel pomeriggio non avrei potuto sopportare altri momenti di tensione. Il
rumore si ripetè. Mi avvicinai al divano e guardai in quella fessura buia fra
lo schienale e il muro ricurvo. E mi sentii sollevato nello scoprire quello
che vi era nascosto.
Scostai il divano dalla parete mettendo allo scoperto il piccolo e fremen-
te Rumbo con la coda arruffata e le zampette puntate sul tappeto.
Mi lanciò una rapida occhiata, saltò fuori dal suo nascondiglio, attraver-
sò la stanza, uscì dalla porta ancora aperta e svanì rapido nel fogliame.
Mi domandai perché avevo la sensazione che lo scoiattolo avesse ab-
bandonato una nave che stava affondando.
23.
PIÙ DA VICINO
Più tardi quando mi svegliai era buio. Mi voltai verso Midge; dormiva
profondamente.
Avevo fatto uno sforzo per controllarmi, trattenendo una quantità di cose
che avrei voluto dire su Mycroft e le sue pazze idee. So di aver scelto la
strada della codardia, ma ero ansioso che le cose tornassero come prima fra
noi; il guaio fu che Midge prese il mio silenzio per consenso e si intestardì
ancor di più sull'idea di mettersi in contatto con i suoi genitori attraverso
quelI'illuso sinergista. Cercai di tirare delicatamente le redini, ma lei si era
lasciata subito trasportare, tutta presa dall'idea di poter effettivamente
«parlare» con i suoi, di potere in qualche modo misterioso dar pace ai loro
spiriti. La loro morte era stata violenta, e lei pensava malauguratamente
che le traumatiche circostanze in cui erano morti non avrebbero concesso
loro la pace nell'altra vita.
Rabbrividii e mi tirai le coperte fino al collo; la pioggia caduta durante il
giorno aveva rinfrescato l'aria. E adesso la camera da letto era più umida di
prima. L'orologio digitale sul comodino rotondo vicino al letto segnava le
22,26. Avevamo dormito dal pomeriggio alla sera.
Mentre me ne stavo lì, un'ombra passò rapida davanti alla finestra: un
pipistrello o un gufo nel suo vagabondaggio notturno.
Il battito delle ali venne ingigantito dal silenzio sepolcrale.
Mi sentivo la gola secca e fui tentato di svegliare Midge e chiederle di
scendere in cucina con me, prendere un caffè o un latte caldo, magari an-
che una tartina, e parlare ancora. Sentivo che dovevamo approfondire la
nostra conversazione del pomeriggio e cercare di capirci meglio. Avrei do-
vuto essere cauto perché non l'avevo mai vista così convinta su cose di
questo genere, ma ero sicuro che con un paziente ragionamento sarei riu-
scito prima o poi a farle tornare il lume della ragione.
Mi chinai su di lei e le baciai la spalla scoperta. Lei si mosse e mormorò
qualche cosa di incomprensibile, che probabilmente aveva un senso in re-
lazione al sogno che stava facendo, poi si voltò a pancia in giù e non disse
più niente. Le accarezzai la nuca, ma non si mosse: era nel mondo dei so-
gni. Appoggiato sui gomiti, guardai la finestra, oltre la quale il cielo era di
un blu lucente; ricordai con amarezza l'amore che aveva preceduto il no-
stro sonno; l'amplesso che avrebbbe dovuto esser addolcito dalla riconci-
liazione dopo il litigio, non era stato bello. Non era stato affatto bello. Cre-
do che il nostro sforzo di fare la pace contribuì notevolmente alla nostra
stanchezza; perché subito dopo mi addormentai. Mi scusai mentalmente
con Midge, più per essermi addormentato così presto che per la mia misera
«performance» (eravamo entrambi adulti e abbastanza saggi da saper che a
volte queste cose avvengono anche nelle relazioni migliori).
Gettai indietro le lenzuola, quasi sperando che quel movimento l'avrebbe
svegliata, ma non fu così. Mi infilai la vestaglia e scivolai verso la porta
senza fare rumore poiché non volevo svegliarla. Nell'avvicinarmi alla porta
toccavo la parete con la mano per avere una guida e fui sorpreso quando
mi accorsi di avere il palmo bagnato. Passai la mano sulla parete e le mie
dita scivolarono sulla superfice umida. Una perdita? Impossibile. Una con-
densa di umidità? In estate? E tuttavia doveva essere così: aveva piovuto
gran parte del giorno. Mi domandai che cosa sarebbe successo d'inverno.
Ovviamente c'erano altri lavori da fare, ma avremmo saputo quali solo
quando il tempo fosse peggiorato.
Percorsi il corridoio fino alle scale. Accesi la luce, ma non fu sufficiente
a illuminare tutte le scale. Se devo essere sincero non mi attirava granché
l'idea di scendere in cucina e credo che sappiate perché: mi convinsi di es-
sere un adulto e di non credere a queste cose. Cominciai a scendere ma mi
fermai a mezza strada: la cavità nera della cucina nel fondo, non era affatto
invitante. L'allucinazione del dipinto mi aveva evidentemente snervato più
di quanto pensassi.
Strinsi i denti eroicamente, ripresi a scendere con la mano tesa per trova-
re 1'interruttore che era vicino alla porta. L'immagine - la sensazione - di
invisibili dita fredde e ossute che mi stringevano il polso era insopporta-
bilmente intensa nella mia mente, quasi tanto da costringermi a risalire di
corsa, ma resistetti a quell'impulso.
La luce si accese e fu un sollievo trovare che la stanza era vuota. Passai
oltre in cucina andando dritto al frigorifero (lo stesso interruttore accende-
va la luce delle due parti della cucina) e presi un cartone di latte. C'era un
grande bicchiere ad asciugare sullo scolapiatti; lo riempii di latte fino al-
l'orlo e ne bevvi subito metà, poi lo riempii di nuovo. Cercando ancora nel
frigorifero trovai del prosciutto, e proprio mentre imburravo una fetta di
pane ebbi la sensazione di non essere solo. Mi guardai attorno: la finestra
sopra l'acquaio mi restituì solo un pallido riflesso di me stesso. Da dove
ero non potevo vedere sulla superficie lucida la tavola e le sedie oltre l'arco
della porta che divideva le due parti. Ma la mia mente vide qualcuno sedu-
to là.
Mi voltai lentamente per guardare la parte anteriore, ma in realtà non vo-
levo vedere. Volevo solo battere il soffitto con il mio manico della scopa
perché Midge venisse giù al più presto a farmi compagnia. Naturalmente
non potevo farlo, e naturalmente dovevo spingere la testa oltre l'arco della
porta se non volevo restare lì fino al mattino. Avanzai cautamente verso la
porta come la macchina da ripresa in un film di Hitchcock; l'angolo visivo
cambiava via via che mi avvicinavo rivelando sempre più spazio; un ango-
lo della tavola, la saliera, l'estremità di una sedia...
Il mio stesso movimento lento e deciso mi faceva venire la pelle d'oca, e
la sensazione che qualcuno fosse seduto lì aspettando che io guardassi ol-
tre l'angolo della porta, e sogghignasse, dinanzi a una tazza di tè ammuffi-
to, quasi mi sopraffaceva.
Così feci d'un balzo gli ultimi due passi.
Lei non era lì. La vecchia Flora giaceva nel cimitero del villaggio, non
era seduta al tavolo della cucina di Gramarye. Grazie a Dio.
Mi appoggiai allo stipite della porta per riprendere fiato. Lei non era lì,
ma oh, c'era un'atmosfera in quella stanza. Forse la mia immaginazione
stava ancora correndo, ma ero sicuro di sentire una presenza, qualche cosa
che era quasi tangibile nell'aria. Vi era nella stanza l'odore di una persona
vecchia, capite quello che intendo! Un odore dolciastro, di muffa e di vec-
chio nello stesso tempo. Una volta ho letto da qualche parte che certi pa-
rapsicologi considerano i fantasmi semplici residui dell'aura di una persona
defunta, e adesso pensavo che questa teoria poteva facilmente applicarsi
all'interno del villino: i residui psichici di Flora Chaldean permeavano
1'ambiente, la sua vitalità impregnava il mobilio e le pareti stesse. Sentivo
che lei se n'era andata ma che parte della sua personalità era rimasta chiusa
in Gramarye, forse per svanire nel nulla col tempo.
Rabbrividii a quell'idea, ma per lo meno eliminava ogni ipotesi romanti-
ca di fantasmi e di infestazioni.
Tornai al lavoro cominciato e rapidamente finii di prepararmi un san-
dwich; poi, con quello e il bicchiere di latte mi avviai alle scale senza po-
termi impedire di lanciare un'occhiata alla tavola nel passare. Avevo
1'impressione di potere raggiungere e toccare l'apparizione, tanto forte era
l'immagine eidetica. Dovetti fare un certo sforzo per spegnere la luce.
Salii le scale più rapidamente di quando le avevo scese lasciando accesa
la luce quando entrai nella stanza rotonda. Nonostante il mio nervosismo
non accesi la luce lì, e non lo feci per una semplice ragione: per non di-
sturbare la mia compagna addormentata andavo a mangiare il mio spuntino
fuori della stanza da letto, ma non volevo vedere ancora il disegno in piena
luce, caso mai quei colori vibranti mi facessero di nuovo qualche scherzo.
La luce del corridoio e il riflesso lunare che proveniva dalle finestre mi
permetteva di intravedere appena il disegno. Mi abbandonai sul divano, mi
riempii la bocca di pane e prosciutto e mi posai il bicchiere di latte su una
coscia.
Seduto lì, pensai a Mycroft il quale diceva di poter mettere Midge in
contatto con i suoi defunti genitori, e al fatto che lei ne fosse convinta cre-
dendo davvero che quel buffone fosse una specie di mistico, capace di
conversare con le anime degli scomparsi. Mentre potevo accettare la pos-
sibilità di una vita dopo la morte, non potevo credere all'idea folle di avere
un contatto diretto con l'altra sfera. Tuttavia soffrivo per Midge, perché
una parte di lei era ancora straziata per la morte dei suoi genitori. Credo
che in qualche modo cercasse la pace mentale; non riusciva ad accettare
l'idea della privazione. Un dato momento Midge aveva una famiglia, poco
dopo era completamente sola. Certo era trascorso un breve periodo tra la
morte dell'uno e quella dell'altro, ma non sufficiente a impedire il trauma.
Sua madre era morta a cinquantacinque anni dopo aver sofferto per di-
verso tempo del morbo di Parkinson, e Midge e suo padre l'avevano curata
amorosamente durante tutta la malattia. Purtroppo molti farmaci avevano
su di lei gravi effetti collaterali così da non potere essere tollerati; Midge
diceva che sua madre aveva sofferto enormemente. Tuttavia la donna ma-
lata si preoccupava ugualmente del benessere del marito e della figlia.
Pensava di essere un grave fardello impedendo loro di vivere una vita
normale, specialmente alla giovane figlia che non poteva dedicare maggior
tempo allo sviluppo del suo notevole talento artistico. Ma Midge e suo pa-
dre erano pronti a fare qualsiasi sacrificio per assicurarle il maggior con-
forto possibile e vi riuscivano bene.
Finché il padre di Midge non rimase vittima di un pauroso incidente
stradale.
Riportò una gravissima frattura al cranio e soffrì le pene dell'inferno per
cinque giorni prima di morire. E, nei brevi momenti di lucidità, prima della
morte, le sue preoccupazioni furono tutte per Midge e per sua madre.
La sua morte distrusse le ultime forze della moglie, e con esse il corag-
gio che l'aveva aiutata a resistere alla malattia. Il suo deperimento fu così
rapido nei due giorni che seguirono alla scomparsa del marito che lei non
poté assistere al funerale. Quando Midge tornò a casa dopo il funerale tro-
vò la madre fuori dal letto, completamente vestita, immobile su di una pol-
trona, con la fotografia del defunto marito sulle ginocchia. Ai suoi piedi vi
erano un tubetto di pastiglie vuoto e un bicchier d'acqua rovesciato. Un
sacchetto di plastica trasparente, chiuso stretto da un nastro attorno al col-
lo, le copriva la testa.
Aveva lasciato un biglietto in cui chiedeva perdono alla figlia pregando-
la di capire. La vita era divenuta troppo dura per lei, la morte del marito, si
era aggiunta alle sue pene fìsiche e mentali e, restando in vita, non avrebbe
fatto altro che rovinare l'esistenza della giovane figlia tenendola legata a sé
e privandola della sua libertà. Midge soffriva del fatto che i suoi genitori
non potevano partecipare ai successi artistici dell'amata figlia.
È facile capire perché Midge era stata così sensibile alle false promesse
di Mycroft.
Il suo tavolo da disegno si intravedeva nella semioscurità, con la super-
ficie inclinata e il disegno fissato su di essa. Senza vederlo, sapevo che il
chiaro di luna lo illuminava misteriosamente creando una diversa struttura,
forse un'altra dimensione spettrale. Ma non ero abbastanza curioso da dar-
vi un'occhiata.
Ombre nere passarono sul pavimento facendomi sussultare, ma presto
mi resi conto che si trattava soltanto di alcuni dei nostri amici notturni del-
la soffitta i quali stavano lasciando il loro rifugio e i loro corpi alati svo-
lazzavano nel chiarore lunare gettando le loro ombre nella stanza. Finito il
sandwich, mi alzai dal divano portando il latte con me e mi avvicinai a una
delle grandi finestre rasentando il tavolo da disegno ed evitando con cura
di guardare il dipinto.
Fuori, la campagna era inondata da quella particolare luminosità che non
si associa con il calore ma evoca solo gelo e desolazione. L'erba era così
priva di colore che la distesa appariva gelata, e così profonde erano le om-
bre fra i cespugli e gli alberi da apparire come dei vuoti neri.
Sorseggiai il latte e quel liquido freddo mi penetrò nell'intimo. I miei oc-
chi fissavano lo scuro margine della foresta cercando qualche cosa che non
volevo trovare. Discernere una figura nascosta sarebbe stato comunque
impossibile tanto fitta era 1'oscurità, ma questo non mi impediva di cerca-
re, e il saperlo non impediva nemmeno un sospiro di sollievo quando non
trovavo niente.
Tuttavia quel sollievo fu prematuro. Perché la mia attenzione venne at-
tratta da qualche cosa che stava a metà strada tra la foresta e il villino.
Qualche cosa che non ricordavo di avere visto in precedenza.
Era così immobile che forse si trattava solo di un cespuglio. Ma una
macchia pallida che faceva capolino fra gli arbusti mi incuriosì. Quella che
vedevo era una faccia.
Poi vidi qualche cosa di bianco che si alzava lentamente e che poteva es-
sere solo una mano.
E quella mano mi fece un cenno.
24.
NESSUNO
25.
IN COMPAGNIA
Bob e io eravamo seduti fianco a fianco sulla panca dietro il villino, con
alcune lattine di birra fra noi, mentre il sole cominciava a tingere tutto di
rosso. La sera era calda e i calabroni ronzavano ancora prima di concedersi
il riposo. Le nostre ragazze erano in cucina, affaccendate a preparare l'in-
salata, ad affettare il prosciutto e probabilmente dandosi un gran da fare
per preparare una buona cenetta.
Bob si versò un'altra birra guardando la foresta che si oscurava. Scosse
la testa: «Detesto la campagna!»
Sorrisi per quel che aveva detto. «Domattina ti porterò a fare una pas-
seggiata nei boschi.»
«Nemmeno se mi ci porti al guinzaglio!» Bevette e si lasciò andare con-
tro lo schienale della panca stringendo gli occhi contro il sole e distoglien-
do poi rapidamente lo sguardo. «Non trovi opprimente tutta questa pace e
questo silenzio? Voglio dire, sarà anche bello, ma non ti stanca dopo un
po'?»
«Ci si abitua,» risposi.
«Sì, ma non senti la mancanza di...» cercò la parola giusta «... di vita?»
«Ce n'è un mucchio da queste parti, se guardi bene.»
«No, non questo genere di vita, non la natura. Voglio dire la vita, qual-
che cosa da fare.»
«È strano ma non è un problema per me. Certo, ogni tanto divento in-
quieto - per questo mi è piaciuta tanto la nostra seduta in sala di registra-
zione della settimana scorsa. Ma siamo abbastanza vicini a Londra per sal-
tare in automobile e andare a passar la sera lì.»
«E quante volte lo hai fatto, da quando sei qui?»
«Mi sono appena sistemato, Bob. Non abbiamo ancora avuto il tempo di
sentire il desiderio di mondanità.»
Si asciugò il mento bagnato di birra. «Sì, forse hai ragione. Può darsi che
sia il modo ideale di passare la giornata ascoltare il rumore dell'erba che
cresce e guardare gli uccelli che fanno il nido. E metterti a intrecciare ce-
stini per arrotondare le entrate.»
Risi di questa conclusione. «Se credi che voglia passare un intero fine
settimana così...»
Mi battè una mano sulla coscia, divertito. «Scherzavo, Mike, sul serio.
Per dirti il vero, credo che tu abbia fatto un ottimo cambiamento. Forse un
giorno lo farò anch'io. Aspetto però di avere qualche capello grigio. Oh,
guarda, eccolo ancora qui quel maledetto scoiattolo! Non ha paura, eh?»
Rumbo aveva fatto la sua comparsa all'improvviso, incuriosito dei nostri
ospiti. Era sulla soglia di casa quando Bob e la sua ragazza erano arrivati
un'oretta prima, ed era scappato via mantenendo le distanze, ma senza
scomparire del tutto. Ero contento che avesse superato presto lo choc. Tut-
tavia io non mi ero ancora rimesso dal mio.
Avevo avuto 1'idea di confidare a Bob quello che era successo il giovedì
precedente, ma non riuscivo ad immaginare il mio vecchio amico beone
che mi prendeva sul serio. Sapevo fin troppo bene che mi avrebbe riso in
faccia. Perché non avevo detto a Midge della mia escursione notturna per
affrontare quell'essere sinistro che mi aveva fatto cenno? Perché lei era
troppo occupata a pensare alle promesse di Mycroft.
L'episodio del suo disegno che si muoveva le era già passato di mente, e
i nostri rapporti erano ancora un tantino tesi. Se proprio me lo chiedete, vi
dirò che adesso avevo qualche dubbio sulla mia salute. Non ero più sicuro
di non soffrire qualche forma di allucinazione: chiamatela pure nevrosi da
cambiamento d'ambiente; tutto questo sembrava così irreale e fantasioso
nella fredda luce del giorno. A dir la verità avevo deciso di prender tempo
e vedere quello che sarebbe avvenuto. Comunque c'era poco da scegliere.
Rumbo si avvicinò a noi con lo sguardo fisso su Bob il quale fece
schioccare la lingua come per richiamare l'attenzione di un cane o di un
bambino piccolo, e lo scoiattolo tirò su la testa; guardò per un poco Bob
con una certa curiosità e poi saltò audacemente sul tavolino dove erano ri-
maste due lattine vuote. Guardò nella fessura triangolare di una di queste
facendola quasi cadere e, tenendola con le zampette, succhiò il residuo di
birra con grande divertimento di Bob. «Bellissimo, bellissimo,» gridò. «U-
no scoiattolo che si dà all'alcool! Vedo che hai fatto del tuo meglio per far
fronte a questa infestazione: farli diventare alcolizzati e lasciarli bere fino a
crepare.»
«Rumbo non è un'infestazione: fa parte della famiglia.»
Bob mi diede uno dei suoi soliti sguardi e rise senza fare altri commenti.
Io avevo aspettato con ansia la sua visita, pregustandola ogni giorno: una
sensazione buona, potrei dire. Bob e Kiwi, e la Grossa Val, erano i nostri
primi invitati a Gramayre, e Midge e io (nonostante le sue prime riserve
circa Bob) ne eravamo molto lieti. Adesso cominciavo a rilassarmi: la se-
conda birra e la piacevole compagnia del mio amico mi aiutavano a ritro-
vare l'equilibrio. I conigli selvatici erano riapparsi a giocherellare un po'
prima di andare a letto, sebbene questa sera si tenessero lontani dal villino
come se sentissero che vi erano degli estranei, e pochi uccelli svolazzarono
attorno come clienti serali. La brezza era lieve e calda.
Io bevevo birra e mi godevo l'atmosfera.
Bevemmo ancora nella stanza rotonda prima di cenare, questa volta tutti
insieme: Midge si attenne alla limonata con soda mentre il resto della
compagnia preferì qualche cosa di forte. L'agente di Midge era arrivata
venti minuti prima chiedendomi un gin-tonic che l'aiutasse a rimettersi dal
viaggio. La Grossa Val e Bob si erano incontrati un paio di volte e le loro
reciproche canzonature erano sempre rimaste sulla base di una gioviale o-
stilità. Bob voleva che le donne fossero più femminili e non aggressive, in-
fatti Kiwi era un modello di femminilità, e quindi lui non riusciva a capire
Val. Cominciò a complimentarsi con lei, per i suoi scarponi da campagna,
«adattissimi per camminare in un porcile», come disse. Lei ricambiò il
complimento ammirando la sua cravatta di cuoio rosso, «l'ideale per stran-
golarsi.»
Scambiati questi «complimenti» Midge e io brindammo alla salute dei
nostri primi ospiti ed essi ricambiarono brindando alla nostra futura felicità
a Gramayre. Chiacchierammo per un po' ma ovviamente Val era impazien-
te di vedere l'ultimo lavoro di Midge; gli occhi le si erano illuminati quan-
do entrando aveva visto il cavalietto in fondo alla stanza, e non tardò a fare
un giretto da quella parte. Il disegno del villino era ancora fissato al tavolo,
protetto dalla polvere con un foglio di carta velina. Io non l'avevo guardato
dal giovedì, ma osservai l'agente mentre alzava la velina, curioso della sua
reazione. Non so che cosa mi aspettassi, ma non certo che aggrottasse le
sopracciglia.
Notai quell'espressione perché la osservavo da vicino; ma il cipiglio pas-
sò subito e Val sorrise.
«Splendido,» disse, «assolutamente splendido.»
Per lei, abituata a opere di prim'ordine, quel giudizio era il massimo, e
Midge era raggiante.
«Non è in vendita,» si affrettò a dire. «E una cosa per Mike e per me, un
ricordo delle nostre prime settimane passate qui. Il primo incontro di Gra-
marye con noi, prima che ci fossimo abituati a tutto. Sapete bene come è
facile finire col diventare insensibili anche alle cose più belle che ci cir-
condano.»
Val continuò a studiare il dipinto mentre Bob e Kiwi se ne stavano l'uno
vicino all'altra dietro di lei.
«Oh, questo sì che è qualche cosa di diverso!» Esclamò Bob con entu-
siasmo. «Guarda, cara. Questa è quella che si chiama arte. Non quella ro-
baccia astratta che va di moda adesso.»
«Evidentemente hai le idee chiare in fatto d'arte, Bob,» disse Val secca.
Lui assentì. «Mi piace capire l'opera che guardo», rispose fissando Val in
modo significativo.
«Come andavano i manifesti che ha fatto Midge per quell'agenzia?»
chiesi per cambiare argomento.
Val si allontanò dal tavolo da disegno. «Ho lasciato in macchina i primi
bozzetti con i colori corretti. Ho pensato che potremo vederli domattina,
Midge, e tu potrai apportare i cambiamenti.»
«Bene,» convenne Midge. «Sono ansiosa di vederli.»
«Ricordati che sono solo dei bozzetti. Abbiamo tutto il tempo di perfe-
zionarli.»
«Sembra di cattivo augurio.»
«So quanto sei scrupolosa. Il direttore artistico è contento. Ha in pro-
gramma altro lavoro per te, ma anche di questo parleremo domattina. A
proposito, Hamlyn vuole discutere con te un nuovo libro.»
«Sembra che dovrai lavorare sodo,» osservai.
«È il periodo di maggior lavoro. 1 clienti vogliono avviare il lavoro pri-
ma di andare in vacanza.»
«Non sono ancora pronta ad assumerne troppo,» avvertì Midge.
«Non intendiamo lasciarti godere troppo a lungo la vita di campagna,»
disse Val abbandonandosi sul divano. «Un mucchio di gente ne sarebbe
molto scontenta, specialmente i tuoi piccoli fan.»
«Per non parlare del suo direttore di banca, Dio lo benedica,» commentò
Bob sedendosi accanto a Val cosi che lei dovette scostare il suo volumino-
so sedere. «Suppongo che stiamo per andare a cena, no! O dobbiamo av-
viare un'altra registrazione del Band Aid? E vedo che l'alcool fila via come
acqua.» Mi mostrò il suo bicchiere quasi vuoto.
Con amici invadenti come Bob, i contrasti dovevano essere sempre atte-
nuati. Ma io ci avevo fatto l'abitudine; faceva sempre così e certe abitudini
sono dure a morire. Inoltre sapevo che il suo comportamento era rivolto a
Val: lui cercava sempre di irritare coloro che non sapeva come prendere.
Kiwi lo rimproverò disgustata, mettendosi una ciocca bionda dietro a un
orecchio. «A volte i tuoi modi sono proprio imbarazzanti,» disse ranni-
chiandosi vicino a lui sul pavimento.
«E proprio la mia maleducazione che mi rende così simpatico, non è ve-
ro, Mike?»
Gli presi il bicchiere dicendo: «Sì, sei davvero adorabile. Sempre lo
stesso?»
«Con un po' più di vodka, questa volta. Stanotte non devo guidare.»
«Fa differenza?»
Mise un braccio attorno alla sua ragazza e sorrise soddisfatto come un
gatto che ha avuto del pesce e sa che gliene spetta dell'altro.
Gli inviai un messaggio mentale: Controllati, amico, e non mettermi nei
guai.
In realtà non lo fece. Quello che avvenne poi fu solo in parte colpa sua.
La cena fu un successo.
Più vino si consumava, più la conversazione si faceva accesa. Bob e Val
cominciarono a capirsi: le loro frecciate diventarono più spiritose e meno
polemiche a mano a mano che le ore passavano. Le insalate non erano mai
state il mio piatto preferito, ma, poiché l'agente di Midge era vegetariana,
tutti dovettero accontentarsi del menù; inoltre vi era molta carne fredda per
noi «carnivori.»
Kiwi risultò essere molto più brillante di quanto sembrasse. Rifiutò di
dirci come le era stato appioppato quel soprannome, ma Bob fece capire
pesantemente e un po' lascivamente che aveva a che fare in qualche modo
con quel lucido da scarpe e poi Kiwi non ebbe alcuna inibizione nel rive-
larci che in passato aveva fatto parte di un complesso rock.
Più di una volta, durante la cena, mi trovai ad osservare Midge, con il
suo volto sottile trasformato da folletto in principessa, gli occhi a mandorla
scintillanti e dolci, e una bellezza che veniva dall'intimo. Il vino abbondan-
te può avere influito in un certo modo sul mio giudizio, ma la sensazione
non era nuova; avevo visto in lei le stesse qualità già molte altre volte e in
momenti in cui ero perfettamente sobrio. Così la misi forse su una sorta di
piedistallo (e non fui il solo a farlo), ma la conoscevo da troppo tempo
perché ora apparissero crepe in quel piedistallo. Non prendetemi per un i-
diota: conoscevo i suoi errori e le sue debolezze, ma per me la rendevano
solo più vulnerabile e più umana. Diciamo che portavano la realtà nel so-
gno e la rendevano più accessibile a me. E una delle cose che mi legavano
così forte a lei era il fatto che lei vedesse in me qualche cosa di buono:
questo mi rendeva in certo modo più libero, mi permetteva di esporre i
miei sentimenti più facilmente. Chiamatemi pure un folle romantico.
Fui folle anche sotto un altro aspetto, quella sera, perché Bob, con la sua
vescica d'acciaio, era corso su per le scale al bagno un paio di volte, duran-
te la cena, e solo la seconda volta notai che stava masticando qualche cosa
quando era tornato. Mi venne in mente solo più tardi, nel sentirlo farsi
grandi risate alle battute più sciocche, che era scomparso solo per prendere
piccole dosi di cannabis non volendo farlo davanti alla sua ospite, la cui
avversione alle droghe era nota. Evidentemente sentiva il bisogno di uno
stimolante oltre all'alcool, quindi non c'era da meravigliarsi del suo buon
umore.
Lasciai correre, ansioso che Midge non scoprisse quello che lui stava fa-
cendo: avevo avuto abbastanza noie con le droghe, in quella settimana e
non per colpa mia. Fortunatamente lei non ci fece caso, presumibilmente
attribuendo la giovialità di Bob al buon cibo, al vino e alla compagnia.
Era tardi quando finalmente chiudemmo la porta della cucina per non far
passare l'aria della notte, divenuta più fredda, e salimmo al piano di sopra,
mentre Midge restava giù a preparare il caffè. Quel giorno avevo comprato
del buon brandy in paese e lo versai a Bob, a Val e a me. Non riuscii a
procurare un Malibu a Kiwi, che dovette accontentarsi di vodka con molta
limonata.
Resistetti alla tentazione di portar giù le chitarre, sapendo che una volta
Bob e io avessimo cominciato, avremmo suonato per tutta la notte finché
tutti gli altri non fossero caduti nel più completo stordimento. Misi, invece,
una cassetta tenendo basso il volume per poter udire le nostre voci sopra la
musica.
Perfino Val sembrava addolcita e più graziosa di quanto l'avessi mai vi-
sta, e iniziammo un'allegra discussione sul tema: «Agente: fornitore di la-
voro o parassita?» Credo che lei ne sia uscita a testa alta, e non ne fui scon-
tento.
I primi sbadigli cominciarono verso l'una, e la colpa venne attribuita al-
l'aria tersa della campagna. Bob era pronto a chiacchierare per tutta la not-
te, ma Midge, sempre lucida, informò i nostri ospiti delle disposizioni pre-
se per la notte suggerendo un turno per l'uso del bagno. Bob e Kiwi avreb-
bero dormito nella stanza rotonda, sul divano, che era di quelli che si pos-
sono trasformare a letto, mentre Val sarebbe andata nella stanza accanto
alla nostra, su di un letto pieghevole.
Midge ed io scendemmo in cucina per lavare i piatti mentre gli altri si
preparavano per andare a letto. Risi fra me quando sentii Bob rintanato
nella sua camera imitare Michael Jackson.
Midge e io indugiammo sulla soglia dell'ingresso per guardare le stelle
che sembravano più irreali e più numerose viste attraverso l'aria tersa. In-
dugiammo anche in baci e carezze come adolescenti al loro primo appun-
tamento. Io ero felice però di non dover prendere l'ultimo treno.
Quando tornammo a guardare il cielo, le stelle erano scomparse dietro
nere nubi.
Non ho idea di che ora fosse quando le grida ci svegliarono.
Balzammo entrambi a sedere sul letto come spinti dalla stessa molla.
C'era solo una luce sufficiente per farmi vedere il profilo scuro di Midge, e
sentii le sue mani che si stringevano a me impaurite.
«Dio mio, Mike, che cos'è?»
«Non lo so...»
Le grida si ripeterono alte e terribili: impossibile stabilire se erano di un
uomo o di una donna. Tesi il braccio verso la lampada a fianco del letto fa-
cendola quasi cadere nel cercare l'interruttore. Eravamo entrambi nudi;
Midge si infilò in fretta la camicia da notte e io la vestaglia, tutti e due ci
dirigemmo verso la porta.
Devo ammettere tuttavia che esitai un attimo prima di aprire quella por-
ta. Le grida mi avevano messo addosso un gelo che sembrava attraversar-
mi tutto. Girai la maniglia tremando.
Senza più ostacoli, le grida furono ancora più intense e paurose.
Nella stanza rotonda vi era una lampada e Kiwi era inginocchiata a terra
presso di essa: guardava inorridita una figura raggomitolata in fondo alla
stanza. Quella figura era Bob, con la faccia ancora inorridita, brutta e sfi-
gurata come uno di quei mostri di pietra che si vedono sporgere dalle cat-
tedrali gotiche. Quello che rendeva il suo aspetto ancora più pauroso era il
fatto che era mostruosamente pallido.
Guardava verso la porta spalancata che dava sulle scale con gli occhi
sbarrati. La mascella gli pendeva fin quasi sulla gola, la sua bocca era un
grande buco, e le sue grida, adesso, erano solo un suono rauco.
Corsi da Bob gridando il suo nome come se questo potesse trarlo dalla
follia che era evidente nel suo sguardo, cadendo in ginocchio davanti a lui.
Le sue mani, come rigidi artigli, gli coprivano la faccia quasi per impedir-
gli di vedere una visione di incubo; ma i suoi occhi continuavano a sbircia-
re fra le dita. Tremava, con un movimento rigido e spasmodico che gli
scuoteva il corpo divenuto improvvisamente fragile.
«Bob, che è successo? Calmati e dimmi cosa è accaduto.»
Non sentiva: si rannicchiò contro il muro puntandosi sul tappeto coi pie-
di nudi. Lo presi per i polsi che erano come sbarre d'acciaio vibrante. Da
qualche parte, in fondo alla stanza, sentii un forte singhiozzo e sperai che
Midge si prendesse cura della ragazza di Bob: io ero troppo sconvolto per
poter confortare altri oltre a Bob.
«Bob, per l'amor di Dio, calmati!»
Gli scossi le spalle, sebbene avessi quasi paura a toccarlo: ma lui si ri-
trasse. Cercai di calmarlo opponendomi a lui con la forza. Questa volta gli
afferrai le mani e gliele strinsi avvicinandomi a lui così da costringerlo a
guardarmi.
Forse avrei dovuto capire subito qual era il problema perché, nonostante
la luce smorzata della stanza, le sue pupille erano piccole, contratte come
se colpite dal sole. E il suo sguardo era vitreo e terrorizzato; avevo visto
quello stesso sguardo in parecchie mie conoscenze sotto l'azione della can-
nabis.
Ma l'atmosfera era troppo carica perché io potessi rendermi conto di
questo. Mantenni la voce calma e controllata come se ragionassi con lui.
«Non ti è successo niente, Bob, va tutto bene. Hai fatto un brutto sogno,
tutto qui. O forse hai sentito qualche cosa che ti ha spaventato. Erano i pi-
pistrelli? Non ti abbiamo detto che abbiamo dei pipistrelli nella soffitta. A
volte spaventano maledettamente anche me, che ci sono abituato. Su, Bob,
siamo tutti qui non aver paura.»
Mi sentivo un po' sciocco nel «coccolarlo» così, ma era come se avessi
davanti a me un bambino atterrito.
Per un momento i suoi occhi sembrarono mettersi a fuoco su di me, e
questo parve aiutarlo un poco. Smise di dibattersi e tentò di parlare ma dal-
la sua bocca uscì soltanto un suono rauco. Non riusciva a chiudere la bocca
per formulare le parole.
Voltai gli occhi per un secondo per vedere che cosa facevano gli altri, e
avrei voluto non averlo fatto. La stanza rotonda non era più la stessa. Era
tutto al suo posto, i mobili erano gli stessi, il tappeto era dello stesso colore
e così pure le tende : ma mi trovavo in un altro luogo; e dappertutto c'erano
delle ombre minacciose. Ed ecco ancora nell'aria quell'umido odore di
muffa. Mi parve di veder crescere i funghi sulle pareti, ma le ombre erano
troppo scure perché potessi essere certo di quel che vedevo. E la stanza
stava diventando più piccola, le mura si restringevano, ma così lentamente
che non potevo averne la certezza, anche quando ebbi sbattuto più volte le
palpebre non capii se era frutto della mia immaginazione o realtà. No, do-
veva essere la mia immaginazione! L'odore di muffa mi chiudeva la gola
impedendomi di respirare.
Kiwi gemeva e Midge, inginocchiata accanto a lei, con un braccio attor-
no alle spalle della biondina, faceva del suo meglio per calmarla; ma ot-
tenne quasi lo stesso successo che ottenni io con Bob. Kiwi stava tentando
di dirci qualche cosa, ma riuscii a udire solo qualche frase soffocata.
«... Aveva sete... è sceso... Oh, mio Dio, ho sentito il suo grido... ha visto
qualcuno... laggiù...»
Per me furono più che sufficienti per capire il significato, e mi sembrò di
sentirmi camminare dei millepiedi lungo la spina dorsale. Capii che cosa
aveva visto Bob in cucina.
Delle unghie che mi grattavano il petto richiamarono la mia attenzione
sul mio amico che stava lì contro il muro, e afferrai il suo polso per porre
termine a quel doloroso raspare. La sua testa penzolava come quella di un
paralitico e l'altra sua mano era puntata per lo più verso la finestra aperta.
Ma seguii il suo sguardo piuttosto che il suo dito puntato, ipnotizzato dal
suo sguardo folle.
Il corridoio era immerso nel buio; ma un pallido bagliore proveniva da
in fondo alle scale, dalla cucina forse. Bob doveva aver lasciato la luce ac-
cesa.
La stanza si stava rimpicciolendo e le ombre si facevano più scure, come
se cospirassero a schiacciarci. Il mio subconscio mi diceva che si trattava
solo della mia immaginazione, della mia paura; ma questa spiegazione non
era molto confortante. Stringevo ancora il polso di Bob e adesso tremavo
come lui. La mia bocca rimase aperta, quasi inchiodata mentre osservavo
la porta spalancata.
Un'ombra saliva dalle scale. Una grande ombra confusa, nera come in-
chiostro: veniva dalla cucina.
Saliva, appena illuminata dalla luce della cucina. Era quasi in completa
oscurità mentre saliva ancora e girava la curva delle scale.
Lentamente emerse nella fioca luce della stanza rotonda.
26.
UNA BRUTTA ESPERIENZA
Quasi venni meno dal sollievo quando Val varcò la porta. «Cristo, Val,
mi ha fatto quasi morire di paura!» Battei esasperato il pugno sul pavi-
mento.
Lei era stupefatta. «Buon Dio, perché? Sono scesa per scoprire la causa
di tutto quel trambusto che ha fatto il nostro amico.»
Raggiunse l'interruttore presso la porta e accese la luce centrale. Le pare-
ti tornarono immediatamente al loro posto e le ombre scomparvero. Val
entrò nella stanza con indosso la sua ampia camicia da notte di flanella,
nonostante la stagione. Non era mai apparsa così eccezionale né così rassi-
curante.
«Giù non c'è niente, Bob, assolutamente niente,» disse avvicinandosi a
noi. «Che cosa sono tutte queste assurdità?»
Mi strinsi addosso la vestaglia, sentendomi poco vestito, e mi alzai.
Guardammo insieme Bob e fui felice di notare che un po' di colore gli sta-
va tornando sulle guance. Tuttavia non aveva affatto un bell'aspetto.
«Aiutami a tirarlo su, » dissi a Val e insieme, lo prendemmo per le brac-
cia e lo rimettemmo in piedi. Bob non oppose resistenza era un corpo mor-
to; non potemmo fare altro che portarlo sul divano letto.
«Quando sono uscita, lui strisciava attraverso la stanza,» spiegò Val
mentre lo adagiavamo delicatamente. «Urlava come un pazzo indicando le
scale. Ho pensato che ci fossero dei ladri e mi sono precipitata.»
Avevo sempre saputo che era una donna in gamba, ma non credevo fino
a questo punto.
«In cucina non ho trovato nessuno. La porta e le finestre non sono state
forzate. Penso che Bob abbia avuto un incubo.»
Kiwi singhiozzava ancora, ma riuscì a dire: «No, no, era sveglio. Voleva
un bicchiere d'acqua ed è sceso.»
Io ero ancora troppo scosso per fare eccessiva attenzione alle sue cosce
tornite che la leggera camicia da notte le lasciava scoperte.
«Hai acceso la luce in cucina?» chiesi a Val.
«No, era già accesa. Bene, allora è andato fin laggiù, ma non riesco a
immaginare che cosa abbia provocato tutto questo casino.»
Midge e io aiutammo Kiwi a sedersi sul divano letto: Bob era sdraiato
con gli occhi fissi sul soffitto e mormorava qualcosa frase.
Sollevai il mento a Kiwi per poterla vedere in faccia. «Che cosa ha pre-
so, Bob, stanotte? Durante la serata si è fatto della cannabis, ma quando ci
siamo lasciati ha preso qualche cosa di più forte?»
Sentii gli occhi di Midge su di me e mi arrischiai a rivolgerle uno sguar-
do. Scossi appena la testa come per scusarmi con lei.
«Su, Kiwi, dobbiamo saperlo,» insistei.
«Ha... preso un po' di "cinese".»
Chiusi gli occhi imprecando silenziosamente. Cocaina, eroina e brown
sugar da quattro soldi mischiate con altre schifezze il più delle volte stric-
nina. Maledetto idiota!
«Non... non molto,» si affrettò ad aggiungere. «Ne ha sniffata solo un
po'. Voleva che lo facessi anch'io ma quella roba non fa bene alla mia si-
nusite.»
Bob cominciò a gemere forte e a contorcersi sul letto. Poi si mise a sede-
re con uno scatto e si guardò attorno. Era ancora pallido, ma non aveva più
quel colore spettrale, si agitava meno spasmodicamente di prima, quasi
con un tremito regolare.
«Quel... p-posto...» balbettò.
Midge si fece avanti e gli mise delicatamente una mano sul collo.
«Bob, qui sei al sicuro» gli disse con una voce bassa e gentile come il
suo tocco.
Ci volle un po' di tempo prima che i suoi occhi la mettessero a fuoco, e
quando vi riuscirono Bob si lasciò crollare esausto sul divano. Poi parlò
con voce lacrimosa: «Quel fottuto posto... Sono riuscito a scappare!»
«Zitto, adesso,» disse lei, e vidi la sua mano farsi più ferma su di lui per
rassicurarlo. «Qui non c'è nulla di cui si debba aver paura.»
Quanto a me, ero arrabbiato con lui e avrei quasi voluto prenderlo a pu-
gni. Non aveva il diritto di portare quella roba in casa nostra, nessun dirit-
to, tanto più sapendo come la pensava Midge sulle droghe, leggere o forti
che fossero. Dovetti trattenermi per non strangolarlo.
«Torna in te, Bob,» gli dissi severamente. «Hai annusato qualche merda
di droga e queste sono le conseguenze.» Ma ricordai la minaccia che io
stesso avevo sperimentato.
Lui sembrava più controllato, e credo che Midge avesse fatto molto per
questo con la sua delicatezza. Lei continuò a parlargli con il suo tono paca-
to massaggiandogli il collo teso e le spalle.
Quando riprese a parlare, non era più così isterico. «C'era qualche cosa
giù in cucina...»
«Non c'è nessun altro, nel villino,» lo informai.
«Non qualcuno, qualche cosa. Mi aspettava nell'oscurità, seduta là...
Cristo che odore! Lo sento ancora. Non lo sentite? Sta succedendo qualco-
sa di terribile!» disse alzando di nuovo la voce.
«No, Bob,» rispose Midge con calma. «Gramarye è un posto delizioso,
non c'è nulla di cattivo, qua.»
«Ti sbagli. Qualche cosa... qualche cosa...» aprì la bocca senza trovare le
parole.
Kiwi singhiozzò ancora e Bob si voltò verso di lei, poi verso di me e dis-
se: «Mike, io non resto qui, non posso restare qui...»
«Calmati,» dissi. «È una brutta esperienza. Passerà. Cerca solo di cal-
marti.»
«No, è impossibile... Questa stanza... le pareti...»
Sapevo quello che voleva dire. Non avevo avuto anch'io la certezza che
le pareti si restringessero? Che si formasse della muffa su di esse? O la sua
allucinazione, il suo isterismo, si erano insinuati nella mia mente?
«Non puoi andartene nel cuore della notte,» gli dissi con una gentilezza
forzata. «Prima di tutto non puoi guidare nelle tue condizioni, e poi devi
calmarti e dormirci sopra.»
«Dormire? Sei pazzo se credi che possa dormire in questo posto.» Tornò
a guardarsi intorno con fare agitato.
«Sono quasi le tre del mattino,» intervenne Val, che, in piedi, ci domi-
nava tutti, «Troppo tardi per mettersi in viaggio. Staremo qui con te fino al
mattino, e allora, se vorrai andartene, potrai farlo.»
Sobbalzammo tutti quando Bob urlò:
«Ora! Devo andarmene subito!»
Si dibattè nel letto come un bambino viziato che non ottiene quello che
vuole, lo lo afferrai e lo tirai indietro mentre tentava di alzarsi e lo trattenni
con tutte le mie forze. Mi spaventai quando gli vidi luccicare la bava agli
angoli della bocca.
«Lasciatelo stare!» gridò Kiwi tirandomi per un braccio. «Guiderò io, lo
porterò a casa!»
«Non è in condizioni...»
«Credo che sarà meglio così, Mike.»
Mi volsi stupito verso Midge che era dietro alle mie spalle. «Può essere
pericoloso per entrambi, con Bob in questo stato.»
«Starà meglio quando sarà via di qui,» rispose lei.
«Forse no.»
«È più pericoloso per lui restare.»
Sconcertato, mi voltai verso Bob; adesso le lacrime scorrevano sul suo
volto e cadevano sul cuscino.
«Forse Kiwi ha ragione,» disse Val. «lo lo lascerei andare, Mike.»
Incerto, allentai la stretta, ma non lo lasciai. «Bob, ascoltami.» Gli tenni
il mento perché mi guardasse. «Adesso puoi vestirti e poi ti condurremo
giù alla tua auto. Guiderà Kiwi, va bene? Mi senti?»
«Certo che ti sento, dannazione! Solo lascia che mi alzi. Oh, diavolo,
ho...» Ancora una volta non riuscì a finire la frase.
Lo lasciai e mi alzai dal divano letto. Lui si mise a sedere e Kiwi, spinta
da me, gli mise le braccia attorno alle spalle.
«Aiutalo a vestirsi,» le dissi. «Noi aspetteremo giù.»
Tutti e tre indugiammo ancora un poco per vedere se Bob si riprendeva
ancora un po' e, sebbene i suoi movimenti fossero ancora incerti e lui tre-
masse come se avesse freddo, parve essere un tantino più padrone di sé.
Ma evidentemente era ancora impaurito.
«Vado a fare del caffè,» disse piano Midge, e si avviò con Val verso le
scale, lo colsi l'occasione per tornare nella nostra stanza e infilarmi i jeans
e le scarpe, ma non mi tolsi la vestaglia. Prima di scendere feci un'altra ca-
patina da Bob e trovai Kiwi già vestita che preparava la valigia mentre Bob
si abbottonava lentamente la camicia lasciando vagare per la stanza lo
sguardo impaurito per assicurarsi che le pareti non si muovessero più.
Ero dispiaciuto e preoccupato per lui, ma ero anche arrabbiato. E comin-
ciavo anche ad avere molta paura per Midge e per me.
Kiwi aiutò Bob a infilarsi la giacca mentre io me ne stavo lì pronto ad
afferrarlo in caso gli fosse esplosa di nuovo la paura: avevo la sensazione
che potesse dare in escandescenze da un momento all'altro.
«Bob, avrei preferito che restassi...» dissi.
Lui mi guardò come se fossi io quello che doveva essere curato, con u-
n'espressione agitata; diversa da quella di un uomo sotto l'effetto dell'eroi-
na: un'espressione da incubo.
Improvvisamente mi afferrò le braccia, parlando con parole forzate e in-
distinte. «Che cosa è... questo posto?»
E fu tutto quello che disse.
Mi lasciò e in modo non meno brusco afferrò Kiwi spingendola verso la
porta. Si fermò prima del corridoio e la sua amica dovette sostenerlo per-
ché barcollò. Continuava a scuotere la testa e per un momento credetti che
stesse per svenire.
«Non vuole tornare giù,» disse Kiwi voltandosi verso di me. «Facci u-
scire da questa parte, Mike, presto, ti prego.»
Li oltrepassai e andai ad aprire la porta del corridoio, sopra le scale. U-
scirono prima che potessi fermarli.
«Ehi! È buio, lì. Lasciate che vi faccia strada: questi gradini sono perico-
losi.» L'unica risposta che ebbi fu quella di un gufo in qualche parte della
foresta.
Loro erano già sul primo gradino: Kiwi si sforzava per tenersi il braccio
di Bob attorno alle spalle, mentre col braccio libero si appoggiava al muro
per sorreggersi. Barcollavano pericolosamente e io mi affrettai e raggiun-
gerli prima che cadessero.
Allontanato Bob da lei, mi feci passare il suo braccio attorno al collo
stringendogli forte il polso con una mano e mettendogli l'altro braccio at-
torno alla vita. Cominciammo una goffa discesa e io pensai che era un be-
ne che avessi tolto il muschio dai gradini. Ma anche così la pietra era sci-
volosa.
Quando passai le dita sulla parete di mattoni, sentii che anche quella era
umida e liscia.
Due volte scivolai sui gradini, ma riuscii sempre a tenermi in piedi spin-
gendo Bob contro il muro per sostenerci entrambi. Tirai un sospiro di sol-
lievo quando mettemmo piede in giardino.
La porta d'ingresso si aprì mentre passavamo, proiettando un po' di luce,
e Val apparve all'altro lato di Bob. Mi aiutò a guidarlo lungo il sentiero,
mentre Kiwi ci precedeva per aprire lo sportello dell'automobile. Sul can-
cello mi voltai brevemente e diedi uno sguardo al villino.
Vidi il nero profilo di Midge sulla soglia di casa, così perfettamente im-
mobile che avrebbe potuto far parte della struttura di Gramarye. Fu uno
strano, fuggevole momento.
Sistemammo Bob in macchina; Kiwi si mise rapidamente alla guida e
Bob aveva gli occhi chiusi, lo gli piegai le gambe e prima che mi raddriz-
zassi, mentre avevo la testa vicina alla sua, lui riaprì gli occhi e li fissò an-
cora nei miei. Rabbrividisco ancora quando ricordo quello sguardo (anche
se dovevano seguire eventi peggiori e più memorabili), perché scorsi non
solo la sua paura ma un'intensa e misera disperazione in lui. Guardare in
quegli occhi era come spiare in un pozzo profondo e buio in fondo al quale
qualche cosa di indefinibile si muoveva, si contorceva, si tendeva verso
l'alto in un gesto supplichevole. Le droghe che aveva preso quella notte
avevano chiuso certe porte della sua mente, - avevano aperto un passaggio
diretto verso altri più oscuri meandri. Qualunque cosa avesse visto, qua-
lunque cosa avesse immaginato di vedere nella cucina di Gramarye, era
nata dai suoi più oscuri pensieri.
Mi scostai, chiusi la portiera e mi voltai per non incontrare il suo sguar-
do.
Udii Val che consigliava a Kiwi di guidare con grande cautela, e poi la
macchina si allontanò dal prato aumentando rapidamente la velocità. Non
mi dispiacque vedere le luci rosse dei fanali di coda scomparire dietro la
curva della strada.
27.
LA FESSURA
Credo che nessuno di noi quella notte abbia dormito. Indugiammo per
un po' a bere caffè, ma credo che fossimo troppo scossi per parlare dell'i-
sterismo di Bob e forse ne provavamo un certo imbarazzo. Midge era ri-
masta tranquilla quando Val aveva portato il discorso sui guai e gli impre-
vedibili effetti della droga. Io non aggiunsi molto alla conversazione: la
mia testa era frastornata da altri pensieri.
Ci ritirammo per il resto della notte, e quando Midge e io fummo a letto,
la tenni stretta a me; ma lei non ricambiò il mio abbraccio come se il com-
portamento di Bob fosse in parte colpa mia e dentro di me mi sentivo uno
sciocco per non aver trovato un modo discreto per impedirgli di drogarsi.
Midge, per lo meno, diversamente da me, non si era spaventata.
Dovevo riordinarmi le idee prima di dire a Midge quello che credevo
che Bob avesse visto in cucina, e volevo che lei fosse nel giusto stato d'a-
nimo. Adesso mi rendevo conto che Midge non voleva assolutamente che
si parlasse male di Gramarye. Era penoso stare sdraiato nel buio senza riu-
scire a dormire; devo essermi addormentato poco prima dell'alba, pur sve-
gliandomi un paio di volte nelle ore che seguirono, ma non del tutto finché
non sentii un movimento accanto a me. Midge si stava alzando e io fui lie-
to di vedere la luce del mattino. Scendemmo insieme in cucina.
Val arrivò subito dopo, vestita e pronta a parlare di affari trascurando per
il momento gli eventi della notte. Fu lei a preparare la colazione, io avevo
molta fame mentre Midge toccò appena qualche cosa. La colazione fu tri-
ste anche se Val, Dio la benedica, fece del suo meglio per tener viva la
conversazione con una quantità di argomenti, nessuno dei quali aveva a
che fare con l'episodio che era nelle nostre menti.
Midge si rischiarò solo quando Rumbo apparve sulla soglia mentre gli
uccelli avevano già cominciato a radunarsi dietro di lui trillando la loro
impaziente richiesta di cibo. Il loro arrivo fu in qualche modo rassicurante
per lei.
Val li guardò con un sorriso stupito mentre Midge spezzava il pane e ne
spargeva le briciole fuori della porta, ma l'innocente sfacciataggine di
Rumbo la fece scoppiare in una fragorosa risata. Lo scoiattolo saltò sulla
tavola e mi portò via dal piatto le cotenne di pancetta. Si mise a rosicchiar-
le fermandosi solo ogni tanto per "chiacchierare" con noi, forse spiegando-
ci i suoi progetti per la giornata.
Gli diedi un colpetto col dito. «Non ti sei presentato alla nostra ospite,
ieri sera,» dissi. «Rumbo, questa è Val; Val, questo è Rumbo. Gli piace
mangiare.»
«Non riesco a credere che questo coso sia così domestico,» esclamò Val.
«Ssst,» l'avvertii. «Non parlare di Rumbo come di questo coso: si offen-
de facilmente.» La sua presenza rianimò il mio spirito depresso.
«Come diavolo hai fatto a diventare suo amico?» Val era in piedi con le
mani sui fianchi, scuotendo la testa.
«Non abbiamo avuto bisogno di far nulla,» spiegò Midge dalla porta.
«Ha avuto fiducia in noi fin dal principio. Tutti gli animali, qui, ci sono
amici. Flora Chaldean, la proprietaria di Gramarye prima di noi, si era
conquistata la loro fiducia.»
«Deve essere stata una vera signora.»
«Lo era.»
Midge lo disse con una tale convinzione che mi voltai verso di lei.
«Parlatemi di questa Flora Chaldean,» disse Val raccogliendo le tazze e i
piatti sporchi. Rumbo saltellò sulla tavola stringendosi al petto le cotenne
mezzo rosicchiate come per proteggerle.
«Non ne sappiamo molto» dissi finendo il caffè. «Solo che era molto
vecchia quando morì, che aveva vissuto quasi sempre a Gramarye e che
tutti qui la consideravano una guaritrice. Ci hanno detto che sapeva curare
gli animali e le persone.»
«Curare?»
«Be', credo solo le piccole malattie. Sembra che si servisse di pozioni e
della fede. Non penso che si trattasse di altra medicina.»
«E viveva qui da sola?»
Assentii. «Suo marito morì poco dopo che si erano sposati, ucciso nel-
l'ultima guerra mondiale.»
Val portò le stoviglie nella stanza vicina e le mise nel lavandino. Io la
seguii con la tazza vuota.
«Le lavo io,» disse Midge correndoci dietro e aprendo il rubinetto del-
l'acqua calda.
«Bene, io le asciugherò.» Val le si avvicinò. Poi si voltò verso di me:
«Non dovresti telefonare a Bob per sentire come sta?»
Guardai l'orologio. «Sono le nove appena passate: starà ancora dormen-
do.» Sorrisi malvagio. «Ma mi piacerebbe molto svegliarlo.»
Solo nel salire le scale per andare al telefono, nel corridoio, mi venne in
mente che forse Val voleva restare un po' sola con Midge. Midge non ave-
va contribuito molto alla nostra conversazione sulla vecchia Flora e forse
Val pensava che sarebbe stata più loquace in privato.
Composi il numero di Bob con una certa ansia: volevo sapere se stava
bene.
Il telefono squillò diverse volte prima che mi rispondesse Kiwi. «Chi
parla?» chiese con palese irritazione.
«Sono Mike. Tutto bene? Com'è andato il viaggio?»
«Più o meno. Il mio ufficiale di rotta ha dormito per quasi tutto il tempo,
e così ho sbagliato strada un paio di volte.»
«Come sta?»
«Te lo passo.»
Bob fu quasi subito all'altro capo del telefono. «Scusami, amico,» disse
umilmente.
«Combina guai.»
«Sì, lo so. Però non riesco a capire, Mike, non ne avevo presa molta.»
«Ma avevi anche bevuto. Comunque adesso mi sembri già a posto!»
«Sono stato così male, stanotte?»
«Sì. Non te lo ha detto, Kiwi?» Diedi quasi un pugno sul muro.
«Mi ha detto che ho fatto un po' l'isterico.»
«Chiamalo un poco! Eri fuori di te.»
«Devo aver avuto un incubo.»
«Non hai avuto nessun fottutissimo incubo. Non ricordi nulla?»
«Non molto. Ho avuto paura, eh?»
«Hai visto qualcosa in cucina, ricordi?»
Ci fu una pausa. Poi: «Mike, ho dimenticato tutto... non so che cosa ho
immaginato di vedere, e nemmeno se sono veramente andato in cucina.»
«Kiwi ha detto che ci sei andato.»
«D'accordo, d'accordo, forse ci sono andato. Ho ancora la mente un po'
annebbiata capisci? Mi dispiace proprio di avervi procurato dei grattacapi.
Come... come l'ha presa, Midge?»
«Ha trovato il tutto maledettamente ridicolo.»
«Falle le mie scuse, ti prego.»
«Non preoccuparti» Scossi la testa deluso. «Prova a ricordare, Bob.
Quando eri rannicchiato sul pavimento, contro il muro, e io mi sono avvi-
cinato a te... non ricordi cos'è accaduto? Qualcosa di strano... misterioso?»
«Sei matto? No, non è successo niente. Ho fatto un terribile viaggio, tut-
to qui, non ingigantire le cose. Sto già abbastanza male.»
«È stato qualche cosa di più di una brutta esperienza. Hai visto qualche
cosa che ti ha spaventato a morte in cucina e, quando sei risalito, hai visto
le mura che si restringevano.»
«Non c'è nulla di insolito, in tutto questo, non ti sembra? Cose che esco-
no dai muri, mostri che si nascondono nell'oscurità, sono visioni provocate
dalla droga.»
«Hai detto tu stesso di non averne presa molta.»
«Abbastanza per avere delle allucinazioni.»
«Che cosa?»
Dall'altro capo del telefono ci fu una pausa, questo volta più lunga.
«Devo tornare a letto,» disse poi. «Non mi sento tanto bene come po-
trebbe sembrare. Ti telefonerò in settimana, Mike, così potrò scusarmi per-
sonalmente con Midge. Stammi bene.»
«Aspetta un attimo...»
Bob aveva riagganciato. Pensai di richiamarlo, ma poi decisi di no: pre-
ferivo non tormentarlo. Tornai in cucina.
Val e Midge erano sedute sul primo gradino dell'ingresso, Midge con il
mento appoggiato sulle ginocchia, Val addossata allo stipite, con le grosse
gambe distese davanti a lei. Gli uccelli beccavano le briciole indisturbati.
Le due donne smisero di parlare quando udirono i miei passi e si voltarono
verso di me.
«Coma sta?» chiese Midge ansiosa.
«Non ricorda nulla.»
«Ci credo,» commentò Val. «Era proprio partito, stanotte.»
«Forse non vuole ricordare,» dissi.
Mi guardò con aria interrogativa, ma non aggiunse altro.
Midge si alzò. «Vado a vestirmi.»
«Ti aiuto a portare su le tue cose,» dissi.
«No, resta qui a chiacchierare con Val. Farò in fretta.»
Le presi il braccio prima che si allontanasse. «Bob ti fa le sue scuse.»
Midge si sforzò di sorridere. «Sono contenta che stia bene, Mike, ma
preferirei che non venisse più qui. Tu sai perché.»
La abbracciai per nulla imbarazzato dalla presenza del suo agente.
«Ti chiedo scusa anch'io,» mormorai.
Mi abbracciò anche lei, ma poi si allontanò subito da me. «Tu non pote-
vi saperlo,» disse. «Non ho nulla da rimproverarti, Mike.» Ma i suoi occhi
non avevano la luce di sempre. Si voltò e scomparve su per le scale la-
sciandomi lì come un ebete.
«Qualche problema, Mike?»
Val era sulla soglia coprendo la luce del sole e scuotendosi la polvere dal
dietro della camicia.
Alzai le ciglia domandandomi che cosa Midge le avesse detto.
Lei entrò battendo gli scarponi sulle mattonelle. «La porta accanto,» dis-
se indicando con la testa.
«Che cosa?»
«Non te ne sei accorto? L'ho notato quando il vostro amico scoiattolo è
saltato sul fornello. Adesso è soltanto una fessura sottile; ma può diventare
pericolosa in seguito.»
«Ma di che cosa parli?...»
«Della fessura sull'architrave sopra il fornello. Non è facile vederla a
prima vista, lo so.»
Io entrai senza badare a Rumbo, che era fra le pentole e le padelle della
credenza lasciata aperta per distrazione da qualcuno, e mi diressi al fornel-
lo.
La fessura era lì, bene in evidenza e attraversava tutta la pietra. Toccai
cautamente l'architrave e mi parve abbastanza solido. Stavo scrollando il
capo incredulo, quando una voce alle mie spalle disse:
«Dovresti farla riparare il più presto possibile.» Era Val. «In realtà mi
sorprende che non l'abbiate fatto prima, quando siete venuti qui; se crollas-
se potrebbe ammazzare qualcuno. Mi fa paura pensare a cosa potrebbe
succedere quando la pietra sarà scaldata dal fuoco, d'inverno. Santo cielo,
ti senti male? Sei diventato pallido. L'architrave non cadrà da un momento
all'altro, lo sai; d'altra parte ha tenuto duro a lungo, a quanto pare.»
Mi ripresi e guardai quel donnone che sapevo mi aveva sempre conside-
rato con un po' di disprezzo, anche se non le ero del tutto antipatico - non
c'era mai stato del vero astio fra noi - ma Val non era entusiasta di me.
Tuttavia il mio comportamento doveva averla allarmata, perché vi era
una genuina preoccupazione nella sua voce quando mi disse: «Credo che
tu ti tenga qualcosa dentro, Mike.»
Era vero. Ci sedemmo e le raccontai tutto, dalla prima visita a Gramarye
ai bizzarri eventi della notte precedente.
Poi proseguii aggiungendo particolari, esponendo le mie supposizioni,
mi sentivo sciocco, ma continuai a raccontare tutto.
Solo la ricomparsa di Midge, ai piedi delle scale, mise fine alle mie di-
vagazioni. Il suo volto era alterato da un'intima pena e bagnato di lacrime;
una mano nascosta fra i capelli.
Pensai che avesse sentito tutto quello che avevo detto. Ma l'altra mano
indicava la scala dietro di sé.
28.
UN'OPERA D'ARTE ROVINATA
Non riuscii a farle dire nulla che avesse senso. Tenevo le braccia di Mi-
dge e tentavo di calmarla, ma lei non faceva che scuotere la testa dicendo
poche parole incoerenti fra i singhiozzi.
Così la tirai da parte, il più delicatamente possibile, e feci gli scalini a
due a due finché non fui nella stanza rotonda, guardando a destra e a sini-
stra, guardandomi in giro più volte, cercando che cosa avesse potuto scon-
volgerla così. La stanza era in ordine adesso, il letto era tornato un divano
e restavano poche tracce della notte precedente; i raggi del sole sfavillava-
no attraverso le finestre illuminando le pareti e i mobili.
Potevo vedere la foresta al di fuori, come un complesso mosaico, attra-
verso i vetri, verde e lussureggiante, senza alcun segno di minaccia.
Non trovai nulla fuori posto, nulla che avesse potuto causare la dispera-
zione di Midge.
Corsi nella nostra stanza da letto.
Vuota.
Nel bagno.
Vuoto.
Nella stanza degli ospiti.
Vuota.
E ancora nella stanza rotonda.
Midge era lì; Val la sorreggeva.
Midge indicava una finestra, o meglio il tavolo da disegno davanti alla
finestra. Sembrava riluttante ad avvicinarsi.
Val lasciò Midge, attraversò la stanza, e io la seguii rapidamente, così
che giungemmo insieme al tavolo da disegno.
E insieme guardammo il dipinto di Gramarye, da cui era stato già tolto il
foglio che lo copriva. Sentii Val tirare un sospiro.
Il disegno era ridotto a una confusione di macchie di colore, tutte le for-
me erano distorte e confuse, la bellezza del disegno originale era svanita e
quello che avevamo davanti era un'accozzaglia di colori che creavano per
di più un'atmosfera tetra.
Nemmeno la luce del sole, riflessa sulla sua superficie, riusciva a infon-
dere al disegno un po' di calore.
29.
ADESCAMENTO
Pochi giorni dopo, giusto per aumentare i nostri problemi, Kinsella battè
alla nostra porta.
Non ricordo con precisione l'ora, ma so che si stava avvicinando la notte
e Midge e io avevamo finito un'altra malinconica cena solo alcuni minuti
prima. Ho detto un'altra perché vi era stata ben poca allegria a Gramarye
dopo quel fine di settimana, e potete capire perché.
Dio solo sa 1'idea che Val Harradine doveva essersi fatta di noi durante
quel week-end: prima le stramberie da camicia di forza di Bob, poi il mio
racconto crepuscolare della vita di campagna e infine il crollo drammatico
di Midge, rannicchiata a piangere sul pavimento della stanza rotonda. De-
ve aver pensato che a Gramarye doveva esserci qualche cosa che provoca-
va attacchi di pazzia e di paranoia; e chi poteva darle torto?
Sorvolerò le recriminazioni e le lacrime che Midge e io dovemmo af-
frontare nei giorni seguenti perché vi annoierebbero come depressero me;
basti dire che riuscimmo appena a superare tutto questo mantenendo la no-
stra relazione ancora intatta. Io tentai disperatamente di farle accettare il
fatto che a Gramarye c'erano inesplicabili misteri, e credo che, intimamen-
te, anche lei ne fosse convinta; ma, stranamente, non volle ammetterlo in
modo esplicito, come se il farlo significasse accettare che il villino non era
quel sogno che lei aveva creduto di aver trovato.
Naturalmente accusava Bob di avere distrutto il suo disegno; ma quando
io gli telefonai, lui negò, lo gli credetti, Midge no.
Esaminai tutto ciò che era accaduto fin dal nostro arrivo al villino, spe-
cialmente la rapida guarigione del mio braccio che lei insisteva ad attribui-
re ai magici poteri di Mycroft lo feci infinite volte, ma lei... be', come ho
detto vi annoierei. Il risultato fu che, per il momento, giungemmo a una
non facile tregua, dato che nessuno di noi era disposto a discutere (o ragio-
nare) più a lungo.
Così eravamo lì, l'uno di fronte all'altro al tavolo di cucina, in un mo-
mento di calma prima che calasse la notte, quando sentimmo bussare alla
porta; avevamo cominciato a tenere la porta chiusa non appena cominciava
a farsi buio.
Ci guardammo sorpresi e io mi alzai per andare ad aprire.
Mi trovai davanti Kinsella; aveva le mani ficcate nelle tasche posteriori
dei jeans sbiaditi e un sorriso sereno su una faccia maledettamente bella.
«Felice di rivedervi. » Diede uno sguardo a Midge dietro di me. «Spero
di non disturbarvi.»
Midge parve lieta di vederlo. «Niente affatto, abbiamo finito da pochi
minuti.» Ci raggiunse sulla porta.
«Come va il braccio, Mike?»
Io glielo porsi con riluttanza perché lo esaminasse.
«Eh, sembra bene. Non è rimasto nemmeno il segno.» Esibì un sorriso
da un orecchio all'altro. «Nessun dolore?».
Scossi la testa.
«Davvero straordinario, amico.» Diede un'occhiata al cancello, poi si
voltò verso di noi. «Non vorremmo imporci, ma c'è qualcuno qui che vor-
rebbe vedervi. Sapete di chi parlo?»
Maledizione pensai fra me mentre Midge esclamava: «Mycroft!»
Si alzò in punta di piedi per vedere oltre la spalla di Kinsella. «È venuto
qui?» chiese.
«Sì. Voi due gli piacete. Passavamo di qui e ha pensato che sarebbe stato
bello venire a salutarvi e a vedere come stavate. Credo che voglia visitarti
il braccio, Mike.»
«Uhm... «cominciai.
«Oh, saremo felicissimi di vederlo» disse Midge. «Vallo a chiamare, ti
prego.»
Kinsella rimase imbarazzato per un momento. «Mycroft è un po' all'anti-
ca, sapete? Rispetta molto l'intimità altrui e non vuole imporsi. Sarebbe
gentile se lo invitaste personalmente, se non vi dispiace.»
«Certo che non ci dispiace,» rispose Midge al settimo cielo. «È in mac-
china?»
«Sì, è seduto sul sedile posteriore. Sarà felice di vederti.»
Kinsella si fece da parte perché Midge potesse correre lungo il sentiero,
quando arrivò in fondo aprì il cancello.
«Tua moglie è una vera signora,» disse l'americano, e non so se l'ammi-
razione che era nei suoi occhi fosse per me o per lei. Poi si appoggiò allo
stipite, sempre con le mani in tasca. «Allora, come vanno le cose a Gra-
marye?» chiese, e io mi domandai se la domanda era casuale.
«Magnificamente,» risposi. «Non potrebbero andar meglio.»
«Perfetto.»
Si prendeva gioco di me? Oppure ero io che cominciavo a diventare pa-
ranoico?
Puntò un dito. «Dovresti strappare quelle erbacce in giardino. Se attec-
chiscono invaderanno tutto.»
Seguii la direzione del suo dito e imprecai dentro di me. Non li avevo
notati prima, ma adesso mi accorsi che una quantità di sottili virgulti verdi
si era diffusa nelle aiuole, una confusa rete di invasori, e più guardavo più
ne trovavo.
«Se non la controlliamo la natura può soffocarci,» mi confidò Kinsella
mentre io approvavo la sua filosofia casalinga. «Potrei venir qui quando
vuoi con un paio di aiutanti e darti una mano, Mike. Puliremo tutto in un
momento.»
«Grazie. Comincerò domattina. Almeno avrò qualcosa da fare.»
«Non stai componendo?»
«Uhm, ho avuto altre cose per la testa, ultimamente.»
Midge stava tornando per il sentiero seguita da Mycroft e da altri due. lo
ebbi la sensazione che non si trattasse tanto di una visita amichevole quan-
to di quella di una delegazione. Mycroft agitò una mano nella mia direzio-
ne mentre si avvicinava e io vidi che gli altri due erano Gillie e Neil Joby.
Mentre avanzava verso di me il capo dei sinergisti esaminava il villino:
attentamente, pensai, come un capomastro che cerchi dei difetti. E quando
fu a pochi passi ebbi la sensazione che dentro si sé non fosse così placido
come voleva apparire. V'era qualche cosa di strano nei suoi occhi: erano
troppo vivi, non si fermavano mai a lungo su un oggetto. Anche quando ci
stringemmo la mano, non poté impedirsi di guardare il villino dietro di me.
Poi senza proferire parola mi sollevò la mano sinistra e mi esaminò bene le
dita e l'avambraccio. Il resto di questo piacevole gruppo mi si radunò at-
torno emettendo un'esclamazione di sorpresa.
Mi stavano rendendo così consapevole del debito che avevo verso
Mycroft, che mi stavo domandando se non dovessi pagarlo.
Mycroft fissò il suo sguardo su di me. «La volontà umana unita allo Spi-
rito Divino, Mike» disse come spiegazione del mio braccio guarito.
«Forse è servito anche quel liquido in cui lo ha immerso?» suggerii io.
«Un semplice sterilizzante. Spero che la nostra intrusione non vi abbia
disturbati.»
Scossi la testa per educazione.
«Non volete entrare?» chiese Midge. «È da diversi giorni che non ve-
diamo nessuno e un po' di conversazione ci farebbe bene.»
Fui sbalordito da quell'osservazione pungente nei miei confronti appena
dissimulata: non era da lei.
«Sarebbe molto piacevole,» rispose Mycroft che non aveva nessun biso-
gno di essere incoraggiato. «È stata una cosa improvvisata, altrimenti a-
vremmo portato del vino.»
«Abbiamo ancora quella bottiglia che ci ha portato Hub l'ultima volta
che è venuto qui,» disse Midge. «Possiamo bere quella, a meno che il vo-
stro vino non vi piaccia.»
Il gruppo apprezzò la sua battuta e risero tutti insieme. Io sorrisi fiacco.
Midge passò fra Kinsella e me invitando Mycroft a seguirla, e lui si pre-
parò a farlo. Ma esitò e poi si fermò bruscamente sul primo gradino. Seb-
bene la luce fosse scarsa, sono sicuro che impallidì per un attimo.
«Mi piacerebbe fare un giro attorno al villino prima di entrare,» disse in
fretta, troppo in fretta. «Questi gradini sono affascinanti.»
Affascinanti? Dei gradini di pietra?
«Non si può entrare dal dietro?» chiese e guardò le mura bianche con a-
ria d'apprezzamento. Suonò per scherzo il campanello, e il gruppo scoppiò
di nuovo a ridere.
Midge uscì di casa e, a giudicare dal suo sorriso, tutte le contrarietà della
settimana erano scomparse, lo cominciai a desiderare di avere un po' del
carisma di Mycroft.
«Sono felice che Gramarye le piaccia tanto,» disse arrossendo.
Lui le toccò la spalla per un momento. «È una casa che infonde grande
gioia».
Midge mi rivolse uno sguardo incerto e io tenni la bocca chiusa.
«I gradini sono un po' scivolosi, faccia attenzione,» lo avvertì.
Subito Mycroft prese Midge sotto braccio. «Ci sosterremo a vicenda,»
disse allegramente, ma i suoi occhi erano seri.
«Io prenderò la strada meno suggestiva,» dissi mentre salivano. «Porterò
su il vino e i bicchieri, va bene?» Non mi badarono; Midge era tutta occu-
pata nel mostrare a Mycroft le bellezze di Gramarye. Togliti dai piedi,
brontolai fra me.
«Salve, Mike.» Gillie non aveva seguito gli altri. Era rimasta sul sentiero
con la sua lunga gonna e il suo scialle zingaresco. Portava sandali che la-
sciavano scoperte le dita, allacciati alla caviglia da cinghie sottili. Quando
mi fu più vicina notai che era appena truccata, tanto da ravvivare il suo
grazioso visino. «Posso aiutarti a portare il vino?» mi chiese.
«Certo, se ti va di fare quattro passi.»
«Credo di conoscere già abbastanza bene Gramarye. È il luogo più tran-
quillo che abbia mai visitato...»
«Non ultimamente.» Le parole mi sfuggirono prima che potessi control-
larle.
Lei si accigliò e io le sorrisi.
«Problemi domestici,» le spiegai debolmente.
«Oh, allora attraversi un brutto periodo.»
Sospirai, sempre sorridendo. «No, forse abbiamo bisogno di un po' di
compagnia, in questo momento.» Non aggiunsi che avrei preferito altri a-
mici al posto di Mycroft e del suo gruppo. Comunque Gillie era un po' di-
versa dagli altri: mi piaceva la sua semplice gentilezza. Era un tipo che a-
vrei visto bene all'epoca dei figli dei fiori.
«Vogliamo occuparci del vino?» dissi voltandomi ed entrando in casa.
Gillie mi seguì ma rimase sulla soglia esitante per via del buio della cu-
cina, ora che la notte era così vicina.
«Accenderò la luce,» dissi attraversando la stanza per raggiungere l'in-
terruttore. Rabbividii; una sensazione di freddo accompagnava l'oscurità.
Indicando la credenza, le dissi che i bicchieri erano nello scomparto in-
feriore. Poi andai alla credenza vicino la porta e presi una bottiglia di vino.
Quando tornai, Gillie stava mettendo i bicchieri sulla tavola.
«La stapperò qui,» dissi aprendo un cassetto e prendendo il cavatappi.
«Il vino non è molto freddo, ma credo che non ci baderanno. Ne producete
molto, al Tempio?»
«Abbastanza per noi, ma non per venderlo. Non abbiamo nemmeno la
licenza.»
Mi diedi da fare col turacciolo. «Scusa se te lo chiedo, ma come guada-
gnate il denaro per la vostra organizzazione? I cestini e le altre cose che fa-
te non possono rendervi molto.»
Rispose con disinvoltura, mentre estraevo il tappo. «Mycroft è molto
ricco. Una volta possedeva una grande fabbrica negli Stati Uniti, che aveva
filiali in altri paesi.»
«Sì? Che cosa fabbricava?»
«Giocattoli.»
«Mi prendi in giro?»
Scosse la testa godendosi la mia sorpresa. «La sua compagnia produceva
bambole, puzzle, costruzioni, tutte cose per bambini.»
«Ah, per questo si è interessato a Midge.»
Mi guardò senza capire.
«È illustratrice di libri per bambini,» spiegai. «In un certo senso operano
nello stesso campo.»
Abbozzò un sorriso. «Oh, capisco. Ma Mycroft ha rinunciato a ogni inte-
resse commerciale quando ha fondato il Tempio Sinergista. Gli piace mol-
to raccontarci come i bambini di tutto il mondo lo abbiano aiutato a met-
tersi in contatto con i suoi Figli Prediletti, con i Figli Adottivi, fornendogli
una base finanziaria.»
«Ma il Tempio deve guadagnare denaro per sopravvivere, no? Continua-
te a fare gingilli per poi venderli?»
Questo la divertì. «Non sarebbero sufficienti per vivere, Mike. Ci danno
un piccolo reddito, ma in realtà ci serviamo di queste vendite per avvicina-
re le persone e far conoscere il movimento.»
«E allora come...?»
«Te l'ho detto: Mycroft è ricco e la vendita della fabbrica e delle filiali
ha assicurato tutto. E naturalmente, come Mycroft ha donato al Tempio
tutto quello che aveva, così hanno fatto i suoi seguaci. Tutto quello che ri-
ceviamo è ben accetto e utilizzato, anche se si tratta di poche sterline. I Fi-
gli Adottivi offrono tutti i loro beni per purificarsi dinanzi al nostro Tem-
pio.»
Questo ha l'aria di essere un buon affare per Mycroft, pensai, annusando
il vino per nascondere ogni espressione di cinismo. Tuttavia sembrava che
avesse dato le sue stesse ricchezze alla setta. Era molto strano. «E tu che
cosa hai ceduto, Gillie?»
«Oh, poche sterline, quasi niente. E sono stata accolta come tutti gli al-
tri.»
«No, volevo chiedere a che cosa hai rinunciato? La tua casa? La tua fa-
miglia?»
«Le influenze estranee devono essere respinte, se un Adottivo vuole ab-
bracciare la dottrina.»
Una bella frase fatta, pensai. «Un Adottivo?»
«Veniamo chiamati così al momento dell'iniziazione.»
Il suo dito girò attorno all'orlo di un bicchiere sul tavolo. Sentii dei passi
e delle voci soffocate sopra di noi: gli altri, ovviamente erano entrati in
Gramarye dalla porta del primo piano.
«Non vedi più la tua famiglia?» insistetti.
«Non ce n'è bisogno. Ho lasciato l'università per unirmi ai sinergisti e
credo di non essere mai stata perdonata. Hanno fatto di tutto per impedir-
melo, Mike, e quello che sono riusciti a ottenere è stato di tagliare comple-
tamente i miei legami familiari.»
«Come puoi parlare così dei tuoi genitori? Gesù, devono avere sofferto
molto e probabilmente soffrono ancora.»
Lei parve a disagio, come se la conversazione non avesse preso la piega
che voleva. Questo non mi scoraggiò.
«E Kinsella?» chiesi. «Come è diventato sinergista lui e a cosa ha rinun-
ciato?»
«Non la metterei in questi termini. Noi non rinunciamo a nulla: offriamo
per ricevere in cambio.»
Una frase fatta ancora migliore.
«E allora che cosa ha offerto Kinsella?»
«Non sappiamo quello che gli altri portano al Tempio. Solo Mycroft e i
suoi consiglieri lo sanno.»
«I suoi consiglieri finanziari? Ha dei contabili.»
«Sì, come le altre Chiese. Come qualsiasi altra organizzazione grande o
piccola.»
Se la risposta era stata data come un rimprovero, era molto blando.
Mi si avvicinò e le sue dita mi toccarono il polso. «Ti interessa il nostro
Tempio, Mike? Per questo mi rivolgi tutte queste domande?» Sembrava
sperarlo, le sue dita erano calde.
«Non abbastanza interessato per unirmi a voi,» risposi.
La sua mano scivolò via, ma i suoi occhi fissavano intensamente i miei.
«Noi siamo molto felici,» disse. «Quando si diventa sinergisti si imparano
a capire delle cose che gli altri non hanno il privilegio di capire.»
«Che genere di cose?»
Distolse lo sguardo. «Io sono soltanto un Adottivo. Solo gli Eletti hanno
l'autorità e il diritto di istruire.»
«Kinsella?»
«Lui e altri. Tuttavia posso aiutarti, Mike. Ogni Adottivo può avere un
compagno spirituale.» Le sue dita mi toccarono ancora il polso, ma questa
volta con una pressione più decisa. «Potremmo vederci per parlare di ar-
gomenti che non riguardano la dottrina essenziale. Perché non ci vedia-
mo...»
Non crediate che non fossi tentato. Era una ragazza attraente, e ultima-
mente mi ero sentito una sorta di esiliato con Midge. E la solida ma dolce
fermezza della sua stretta implicava che vi fosse inclusa qualche cosa di
più di una semplice conversazione, e che essere un "compagno spirituale"
significasse che altri aspetti erano compresi in questa particolare relazione.
O era solo una mia immaginazione?
«Tu sei graziosa, Gillie,» dissi dopo una pausa «ma io posso avere solo
una compagna spirituale per volta, e la mia in questo momento è di sopra.
Vuoi prendere un paio di bicchieri?» Presi la bottiglia e tenni tre bicchieri
per lo stelo.
Se si sentì respinta non lo diede a vedere, e ancora una volta mi doman-
dai se non fosse tutta immaginazione.
«Capisco quello che dici,» rispose prendendo un bicchiere in ogni mano,
«ma se mai sentissi il bisogno...»
Lasciò deliberatamente sospesa la frase, e naturalmente la mia immagi-
nazione seguì il suo corso. Lei si voltò, ma non prima di avermi sorriso
con gli occhi, non in modo canzonatorio e nemmeno seducente, ma come
se capisse molte più cose di me. E probabilmente aveva ragione.
«Dimmi un'altra cosa,» dissi fermandola. «Perché siete qui?»
Mi guardò senza capire.
«Perché Mycroft ha fondato qui il suo Tempio? Lui è americano, e, a
quanto ho capito quando sono venuto al Tempio, lo sono anche alcuni dei
suoi seguaci; e allora perché portare la sua organizzazione in Inghilterra?»
«Perché questo è il...»
«Gillie.»
La voce era calma, tuttavia la ragazza si voltò come se fosse stata frusta-
ta.
Kinsella apparve sulle scale, con le mani immancabilmente ficcate in ta-
sca.
Il suo sorriso era gentile, ma io notai un'ombra di irritazione nella sua
espressione.
«Ci stavamo domandando che cosa vi fosse successo,» disse amabilmen-
te.
«Stavamo venendo,» risposi mostrando il vino e i bicchieri. «Gillie stava
appunto finendo di darmi alcune notizie sui sinergisti, ma purtroppo non
sono divenuto molto più saggio.»
«Bene, l'uomo che può farlo è sotto il suo tetto, Mike. Mycroft potrà
spiegarti meglio di noi. Ma, come sai, non abbiamo mai cercato di imporvi
queste cose, non è nel nostro stile.»
«Non sono eccessivamente curioso. Solo per fare conversazione.»
«Certo. Lascia che ti aiuti con questi bicchieri.»
«Posso arrangiarmi. Vai pure avanti.»
Kinsella diede un'occhiata alla stanza come cercando qualche cosa prima
di risalire le scale.
Ancora una volta mi domandai che cosa ci fosse in Gramarye che lo
rendeva così nervoso.
«I limiti della mente umana li poniamo noi.»
Mycroft guardò tutti in faccia osservando gli effetti della sua afferma-
zione sugli iniziati e su Midge e me. Era seduto sull'unica poltrona della
stanza rotonda, mente Midge e Gillie sedevano sul divano, io sul bracciolo
e Kinsella e Joby allungati sul pavimento sorseggiavano vino e guardavano
il loro capo spirituale. Una lampada illuminava la stanza mentre fuori re-
gnava il buio.
«La civiltà non ha fatto che intorpidire le nostre facoltà mentali,» conti-
nuò, «le conoscenze materiali e scientìfiche hanno diminuito sempre più la
conoscenza di noi stessi. Non a caso i bambini hanno una capacità psichica
superiore a quella degli adulti.»
«Capisco quello che intende,» dissi, «e non è del tutto una teoria origina-
le.» (Non volevo essere scortese: eravamo lì da circa venti minuti ad ascol-
tare il proselitismo di Mycroft e io cominciavo a essere stanco). «Ma la
mia conoscenza mi dice che non posso volare: il non crederlo o l'ignorarlo
non altera i fatti.»
«No, Mike,» rispose lui pazientemente. «La conoscenza di sé le dice che
non può volare. Ma anche in questo lei ha imparato a pensare solo in ter-
mini del suo corpo fisico e non della sua coscienza. In definitiva non c'è
nulla che possa limitare la sua psiche. La forza che è in tutti noi -1'energia
psichica, se vuole - non può essere costretta dall'aspetto fisico della nostra
vita. A meno che noi non si voglia altrimenti.»
In qualche modo non appariva più così posato. Forse le ombre proiettate
dalla lampada davano ai suoi lineamenti una profondità che non appariva
prima; o forse era l'intensità dei suoi occhi.
Midge prese a parlare e notai che si stringeva le braccia come se avesse
freddo. «Se questa energia è in ognuno di noi, perché non possiamo rag-
giungerla? Perché non possiamo farne uso?»
«Anzitutto dobbiamo scoprire la capacità in noi stessi. Dobbiamo diven-
tare pienamente consapevoli della sua fonte, dobbiamo renderci conto del-
la sua presenza e accettarla. E dobbiamo imparare a controllare e tenere a
freno ogni conoscenza che non sia rilevante per il nostro io. Per questo ab-
biamo bisogno di una guida.» Sorrise con indulgenza a Midge, mentre a
me rivolse solo il sorriso che un ragno può rivolgere a una mosca. Perché
più guardavo quella gente meno mi piaceva? Forse, pensai, avevo un'inna-
ta ripugnanza per tutto ciò che sapeva di fanatismo. E nonostante i loro
modi tranquilli e amichevoli, i sinergisti erano dei fanatici.
«Il Tempio Sinergista,» continuò Mycroft con un linguaggio che diveni-
va meno pratico e più elevato, «non è altro che una fondazione in cui cer-
chiamo la nostra verità, in cui conscio e subconscio imparano a combinarsi
con lo spirito supremo che ci dirige tutti, lo spirito che esiste in noi e tutta-
via ne è separato, che è individuale e tuttavia è più grande dell'individuo.»
I miei occhi cominciavano a diventare vitrei. Questo era peggio di un
sermone domenicale.
Diedi uno sguardo a Midge; il suo volto era serio e i suoi occhi erano
fissi su Mycroft.
«Come si raggiunge questo?» chiese, e io scivolai goffamente sul brac-
ciolo del divano. «Come si fa per imparare a combinarci con questo spiri-
to?»
Mycroft lasciò vagare il suo sorriso fra i suoi seguaci e loro gli sorrisero
come se condividessero con lui il segreto. «È necessario del tempo,» disse
rivolgendo ancora lo sguardo a Midge, «e richiede molta umiltà. Gli adot-
tivi devono abbandonare i loro pensieri, la loro volontà. Devono lasciare
che il Fondatore abbia la responsabilità di tutto quello che fanno.»
Perfino Midge, nel suo stato attuale di cieca adulazione, impallidì a
quelle parole.
«Mi sembra chiedere molto, no?» notai.
«Le ricompense sono enormi,» rispose lui con calma.
«Quali sarebbero?»
«L'unità dello spirito.»
«Che parolona!»
Il suo guizzo di irritazione fu appena percepibile.
«Una rigenerazione dei poteri della mente.»
Assentii come se controllassi un elenco.
«Un dominio del potere taumaturgico terreno.»
Questo sembrava importante, ma che diavolo significava? Mi sentii in
diritto di chiederlo.
«Se non si assoggetta a ogni stadio dello sviluppo sinergista,» disse co-
me risposta, «non può sperare di capire. Può riconoscere adesso, per esem-
pio, che vaste fonti di potere stanno sotto i nostri piedi?»
Colsi qualche espressione di ansia rivoltagli dagli altri che erano nella
stanza, ma Mycroft rimase impassibile.
«Naturalmente,» risposi. «Tutti accettano che vi siano grandi risorse di
energia nella terra. Non vi è nulla di straordinario in questo.» "
«Mi riferisco a un potere molto meno tangibile, Mike, ma egualmente
reale. Qualche cosa di incorporeo, ma di vaste riserve. E noi, genere uma-
no, abbiamo quasi dimenticato come valerci di questa forza.»
Conoscenza di se stessi, unità, rigenerazione, potere taumaturgico intan-
gibile, incorporeo e adesso, naturalmente, genere umano: tutte queste paro-
le profonde (e convenzionali) si trovano nei libri di religione e di occulti-
smo: sembrano grandi ma ci lasciano a romperci la testa domandandoci
che cosa significhino.
«Non la seguo più» dissi.
Sorrise ancora e credo che la mia ottusa incomprensione sia stata per lui
quasi un sollievo, come se la mia provocazione lo avesse costretto a dar
troppo e adesso potesse ritirarsi. Ovviamente la sua filosofia doveva essere
somministrata a più piccole dosi.
Ma Midge fu più insistente. «Ed e così che ha curato il braccio di Mike,
combinando la sua volontà con questa forza particolare? E questo potere lo
spirito, lo Spirito Divino, a cui ha accennato poco fa?»
Mandò giù un lungo sorso di vino.
«Così giovane e così acuta, » disse con condiscendenza. «Ma non del
tutto esatto. La volontà umana può essere estremamente potente da sola.»
Lei parve confusa e io sentii di dovermi avvicinare a lei. Mi domandai
come avrebbe reagito se avessi invitato il nostro ospite ad andare a fare un
giro in campagna.
Qualche cosa colpì una finestra dal di fuori - probabilmente un uccello o
forse un pipistrello disorientato - e Kinsella si versò del vino. Lui e i suoi
amici si voltarono verso la finestra, mal'attenzione di Midge rimase fissa al
capo sinergista.
«Quando noi... quando noi abbiamo parlato al Tempio, la settimana
scorsa, lei mi disse che il nostro spirito individuale non perde mai il suo
potenziale anche se il corpo muore e anche se lo spirito è stato trascurato
durante la vita corporea.»
Lui assentì lentamente.
«E mi disse che noi stessi potremmo raggiungere gli spiriti dei defunti.»
«Con una guida,» disse Mycroft. «Ma perché così cauta? Perché ha tanta
paura di esprimere le sue speranze? Parlammo dei suoi genitori e io la as-
sicurai che le anime che esistettero in essi possono essere toccate e udite
ancora una volta. Questa parte di noi non muore mai.»
«E allora non vorrebbe aiutarmi...?»
«Midge!» Non volevo che proseguisse.
«No, Mike. Se questo può avvenire, è quello che voglio. Più di ogni altra
cosa.» Si voltò ancora verso Mycroft.
«A che cosa servirà!» chiesi. «Ti prepari solo ad altre sofferenze, non te
ne accorgi?»
«Mi rendo conto che lei si preoccupi per Midge,» mi interruppe
Mycroft.
«E proprio per l'amore che le porta dovrebbe sostenerla in questo. So
che lei si rende conto che ha un profondo bisogno di riconciliarsi con i suoi
genitori.»
«Riconciliarsi?» La fissai stupito e lei abbassò il volto.
Anche Mycroft la osservava. Aprì la bocca in un silenzioso «ah» di
comprensione e poi tornò ad accomodarsi sulla poltrona.
«Di che cosa sta parlando?» Mi chinai e le presi il mento nella mano ob-
bligandola a guardarmi.
«Mike, io...»
Scostò la testa.
«Sarebbe più facile se rispondessi io per lei?» chiese Mycroft. «Non so
quanto si sia confidata con Mike, ma adesso capisco. A volte è più facile
confidarsi con un estraneo comprensivo che con una persona amata.»
«Midge, se c'è qualche cosa che dovrei sapere preferirei saperla da te,»
insistetti. «E preferirei che fossimo soli quando me lo dirai.»
Gillie mise la mano su Midge, e fu Kinsella che parlò. «Sembra più
drammatico di quanto non sia, Mike. A nostro parere la colpa di Midge
non ha fondamento, ma deve essere capita e rimossa prima che provochi
qualche danno. Noi possiamo aiutarla.»
«Colpa? Di che diavolo state parlando?» Li guardai sbigottito ed esaspe-
rato.
Midge si voltò bruscamente verso di me afferrandomi la gamba. «Il
giorno del funerale di mio padre, quando lasciai mia madre sola in casa...
sapevo, Mike, sapevo che si sarebbe tolta la vita! Ne aveva parlato tante
volte, anche prima della morte di lui; diceva che era un peso per noi.
Quando lui morì, l'idea del suicidio entrò sempre più nella sua mente, ne
parlava ogni giorno. Ma con calma, mai istericamente. Era così triste, Mi-
ke, ma non indulgeva mai a commiserarsi. Tutto quello che sperava era
che la sua malattia non rovinasse la mia vita. E quando la lasciai, quella
mattina, sentivo che sarebbe successo qualcosa, ma non tornai indietro.
Non ho tentato di fermarla.!»
Scossi la testa disperato.
«Midge, non potevi sapere che si sarebbe uccisa. Ammetto, potevi te-
merlo perché era così infelice e soffriva tanto, ma non le hai dato tu quelle
pillole, non le hai infilato quel sacchetto in testa! Non sapevo che tu avessi
provato rimorso per tutti questi anni.»
«M'ero resa conto che, se le fosse offerta l'opportunità, mia madre a-
vrebbe potuto...»
«Avrebbe potuto! Questo non significa averne la certezza. È stata una
sua scelta, non ti rendi conto? E che cosa c'era di così brutto, in questo, per
amor di Dio? Non credi che tua madre abbia sofferto abbastanza? Tutto
quello che ha fatto è stato di mostrare un po' di pietà per se stessa.»
«Non è così semplice.»
«Nulla è semplice. Ma anche se ti sentivi così colpevole, perché andare
da queste persone? Perché confidarti con loro? Gesù, Midge, che c'era di
male nel dirlo a me?»
«L'avevo tenuto... l'avevo tenuto nascosto per tanto tempo.» Mi strinse
ancor più la gamba. «Quest'idea non mi è mai pesata tanto come negli ul-
timi tempi, Mike. Solo quando ho parlato con Mycroft ho capito il senso di
colpa che avevo portato con me così a lungo.»
L'amico Mycroft. Lo guardai freddamente.
Ed ebbi qualche soddisfazione nell'osservare che anche lui, adesso, sem-
brava a disagio. Supposi, a torto, che cominciasse a diffidare della mia
rabbia. Tuttavia non rimase a corto di parole. «Io ho cercato solo di capire
la natura del dolore radicato in Midge, e possibilmente di chiarire i suoi
dubbi. Non si accorge che ha bisogno di una guida?»
«Mi accorgo che lei le ha fatto credere questo. Ogni aiuto di cui ha biso-
gno può averlo da me.»
«Non nel modo in cui possiamo aiutarla noi.»
Era turbato, non faceva che guardarsi in giro.
«Che cosa potete fare?» ribattei. «Tenere una seduta? È così che volete
aiutarla?»
«Midge ha un dono unico...»
La sua voce si incrinò quando qualcuno emise un gemito. A terra, Neil
Joby si tirava il colletto della camicia come se l'atmosfera lo soffocasse.
L'atmosfera nella stanza era soffocante, ma non fino a questo punto.
«Mike, tu non li hai capiti.» Midge mi fissava con occhi intenti. «Il Si-
nergismo è una risposta, se viene usato nel modo esatto. Se...»
«Cristo, credi realmente in queste stupidaggini?»
Sussultò come se l'avessi colpita.
Mi affrettai a modificare il mio tono. «Ascoltami: se hai una colpa per la
morte di tua madre, è minima. Gesù, io ti conosco meglio di chiunque al-
tro, e tu non avresti mai potuto nascondermi un tale rimorso. E tutta opera
di questo signore...» puntai un dito contro Mycroft «...ti ha fatto esagerare
la colpa nella tua mente. Non vedi come fa? Non c'è niente di nuovo: la
maggior parte dei fanatici religiosi agisce facendo nascere rimorsi nella
gente.»
Lei continuò a scuotere la testa rifiutandosi di ascoltare le mie parole.
«Hai torto,» disse, «hai torto...»
Qualche cosa mi spinse allora a guardare Mycroft e scorsi un'espressione
di trionfo sul suo viso. Immediatamente quell'espressione si mutò in un
sorriso di schietta amicizia che perdonava la mia follia.
«Ciarlatano,» dissi con calma.
Un bicchiere si rovesciò e il vino si sparse sul tappeto. Kinsella guardò il
liquido che vi penetrava, prima di voltarsi verso il suo capo e consigliere.
Adesso Mycroft non era più così brillante.
Le finestre tremarono rumorosamente. Notai che Joby era cadaverico e
faceva ancora fatica a respirare.
Le travi del soffitto scricchiolarono.
Quel rumore fece sussultare Gillie che sollevò lo sguardo allarmata.
«È il vento» dissi per rassicurarla. «Non preoccuparti, il tetto resisterà.»
Lei parve incerta.
Io indicai Joby e dissi a Mycroft: «Spero che non vomiterà sul tappeto.»
La porta dell'ingresso nel corridoio vibrò.
Mycroft si alzò, andò verso il giovane e gli mise un mano sulla fronte.
Mormorò alcune parole che cercai di sentire, ma erano state pronunciate a
voce troppo bassa.
Joby si schiarì rumorosamente la gola e si riprese abbastanza da mettersi
in ginocchio. Kinsella che sembrava anche lui vacillante, afferrò l'amico
per le spalle e lo aiutò ad alzarsi.
Anche Gillie barcollava.
Mycroft si mise davanti a Midge e la studiò stringendo gli occhi. Avevo
davvero pensato, una volta, che il suo volto fosse comune? Non solo delle
ombre rendevano adesso pauroso quel volto, ma tutta la sua espressione.
Mister Hyde si stava rivelando.
Le sue parole furono lente e penetranti pronunciate a bassa voce. «Si ri-
cordi che posso aiutarla. Creda nella rigenerazione dello spirito, si renda
conto che non vi sono barriere per la volontà umana.»
Non mi sarei meravigliato se le avesse dato il biglietto pubblicitario del-
la sua organizzazione.
Distolse gli occhi da lei e guardò ancora una volta la stanza indugiando
sulle finestre, riprendendo l'esame, annotando tutto.
Ci giunse un rumore diverso, sopra le nostre teste, un battito smorzato,
quasi una morbida vibrazione.
Un battito frenetico di piccole ali.
Sapevo da dove veniva quel rumore e chi lo provocava e cominciai a in-
nervosirmi come i nostri ospiti.
«Mycroft,» disse Kinsella con un tono supplichevole nella voce. «E ora
di andare.»
Joby, visibilmente esausto, sembrava d'accordo. In realtà i tre giovani
sinergisti sembravano allo stremo delle forze. Erano tutti e tre pallidissimi.
Le persiane battevano così forte che io pensai che si spezzassero. Questa
volta fui io a balzare in piedi. Solo Midge rimase seduta.
«Vi accompagno,» dissi ai sinergisti.
Mycroft si voltò verso di me, senza ostilità nello sguardo, solo con un'e-
spressione fredda.
«Non dovrebbe ostacolarla,» mi disse.
«Quello che non capisco,» risposi cominciando a sentirmi anch'io un po'
tremante, «è perché lei sia così interessato a Midge. Si da sempre tanta pe-
na per convertire una nuova persona?»
Esteriormente i suoi modi erano disinvolti; ma l'agitazione era nei suoi
occhi sempre in movimento che scattavano qua e là come quelli di un e-
sploratore della giungla, sempre in attesa di una freccia avvelenata.
Midge era seduta sul divano, le mani strette sulle ginocchia, e disse:
«Potreste smettere di parlare di me come se non fossi nella stanza? Mi-
ke, ci sono delle cose per le quali tu non hai interesse né comprensione, ti
prego dunque di non interferire. Queste persone sono miei amici, nostri
amici, e tutti si preoccupano della mia pace mentale.»
«Non credi che anch'io me ne preoccupi?»
«Loro mi spiegano! Mi aiutano!»
«Ne parleremo quando se ne saranno andati,» dissi con più calma di
quanta ne sentissi.
«Sì, dovrebbe farlo,» disse Mycroft con condiscendenza «Mike ha dirit-
to alla sua opinione. Non è difficile capire il suo scetticismo data la scarsa
notorietà di cui gode la nostra setta. Sebbene sviati, questi pregiudizi sono
accettati e tollerati dai nostri membri. Siamo abituati ad avere pazienza.»
La mia se n'era già andata. Mi avviai alla porta emi fermai con l'aria di
chi aspetta che ospiti poco graditi se ne vadano.
Mycroft sorrise, ma scorsi in quel sorriso un non so che di sinistro. Tese
una mano e toccò Midge sulla fronte come aveva toccato Joby.
Il battito frenetico, anche se smorzato, al piano di sopra stava facendosi
troppo forte per essere trascurato, e l'aria nella stanza sembrava troppo cal-
da nonostante il vento che sferzava le finestre.
Mi voltai di scatto quando la porta del corridoio sussultò contro la serra-
tura e i cardini.
Allarmato indietreggiai, ma, se non altro, si mossero anche i sinergisti. I
tre membri più giovani si raggrupparono e Mycroft indicò che dovevano
seguirlo. Vennero verso di me come un gruppetto disorientato che cerchi la
via di casa: Kinsella e Gillie sostenevano il loro compagno. Notai, non
senza piacere, che anche il capo dei sinergisti cedeva leggermente sotto
l'atmosfera pesante.
I pipistrelli dell'attico erano adesso decisamente frenetici, e io mi do-
mandai se la causa del loro trambusto non fosse il vento violento che pas-
sava fra le travi del soffitto creando lassù una specie di uragano.
Mi parve di udire le loro deboli strida, ma lo attribuii alla mia immagi-
nazione.
Mycroft sostò sulla porta del corridoio, e per un momento pensai che vo-
lesse scendere le scale; invece si voltò verso Midge e disse: «Sono pronto
a essere il suo alleato ogni volta che avrà bisogno di me.»
Lei lo guardò, piccola e sperduta figuretta, con le mani ancora strette
sulle ginocchia, ma non rispose.
Io mi aspettavo che il vento entrasse ululando e mi preparai a sostenere
il colpo. Ma non vi fu nulla, nemmeno la più leggera brezza.
Lui avanzò nella notte, con gli altri raccolti dietro di sé, e io mi affrettai
a chiudere nuovamente la porta. Prima di farlo, li guardai scendere con
passi incerti giù per i gradini di pietra mentre l'oscurità avanzava lenta-
mente. Se non fosse stato pericoloso anche per me, avrei sperato vivamen-
te che almeno uno di loro si rompesse una gamba.
Scomparvero dietro la curva e io mi rilassai un poco, sollevato dal fatto
che se ne fossero andati. Ma sbattei gli occhi nella notte, stupito da come
improvvisamente tutto fosse tornato tranquillo. Per quanto potevo dire,
non un filo d'erba si agitava né una foglia era scossa. L'aria era calma, fre-
sca e piacevole.
Quando rientrai, chiudendo a chiave la porta dietro di me, anche i pipi-
strelli si erano calmati e nessun suono veniva dall'alto.
C'era soltanto un forte, insostenibile odore di muffa.
30.
FANTASMI
31.
NASCITA
32.
PAGINA VENTISETTE
33.
VOCI
34.
LA STANZA A PIRAMIDE
35.
FUGA
La pianura in pendenza che veniva dai boschi non era sembrata forse co-
sì ripida nel discendere, ma il risalirla fu diverso: avevamo l'impressione di
fare una scalata. 1 muscoli delle cosce mi dolevano, e il peso di Midge che
si aggrappava a me rendeva l'ascesa ancora più dura. La prima fila di alberi
sembrava lontanissima.
Ma eravamo spaventati e non vi è niente come la paura per pompare l'a-
drenalina. La nostra fuga può essere mancata di stile, ma non d'impeto.
Midge incespicò una volta, a mezza strada, e, mentre la rimettevo in pie-
di, guardai la casa. Si ergeva come un immenso monolito, grigia fredda
come una tomba, pronta a sradicarsi e a muovere pesantemente dietro di
noi. Sebbene non potessi vedere in quelle buie finestre, sapevo che i siner-
gisti stavano osservandoci di là.
Midge aveva già il fiato grosso, e vi era in lei una fragilità preoccupante.
«Che cosa... che cosa è successo, laggiù Mike?» ansimò.
«Mycroft,» mi limitai a rispondere.
La spingevo avanti stringendole il gomito, tenendola dritta e in moto,
desideroso solo di essere al coperto, lontano da quegli occhi. L'avanzata
sembrava lenta come in un incubo, come se affondassimo i piedi nel fan-
go; e tuttavia il suolo, sotto l'erba, era asciutto e solido. Alla fine dovetti
passare un braccio attorno alla vita di Midge e sostenerla col fianco per
non farla fermare.
La luce era scarsa, il sole non era più che una rossa cupola all'orizzonte.
La notte si avvicinava. E presto la foresta sarebbe stata buia.
Senza fermarmi volsi ancora la testa, e forse mi aspettavo che i sinergisti
(gli iniziati, quali realmente erano) uscissero dal Tempio per darci la cac-
cia. Ma nessuno risaliva la collina dietro di noi, e la casa era grave e ferma
come prima. E allora perché diavolo sentivo qualcuno che mi respirava
dietro il collo?
Raggiungemmo gli alberi con un movimento triste e lento e uno sforzo
esagerato, ma sul ritmo di una colonna sonora di Vangelis. Ma finalmente
ci arrivammo e il sollievo fu immediato: ci togliemmo un peso di dosso, ci
liberammo da un legame che ci tratteneva. Mi dicevo che era il fresco della
foresta, ma sentivo che vi era qualche cosa di più. Eravamo fuori vista dal-
la casa.
Midge si appoggiava a me con un braccio abbandonato sul mio collo,
sollevando il petto come se le mancasse il respiro. Le baciai il sommo del-
la testa affondando una mano nei suoi capelli e tenendola stretta. Le diedi
il tempo di riprendersi e di calmarsi rassicurandola con sussurri. Ma non
volevo restare lì troppo a lungo.
Il crepuscolo ci minacciava, le ombre fra gli alberi infittivano. 1 rami
sopra di noi erano come braccia contorte, agitate dalla nostra intrusione,
alcuni bassi come se pronti ad afferrarci se passavamo a portata, il foglia-
me vicino ondeggiava come se qualche cosa strisciasse nel folto. Vi erano
altri occhi nella foresta, diffidenti e ostili alla nostra presenza.
«È meglio che continuiamo a muoverci,» dissi a Midge accarezzandole
la guancia con un dito, «prima che diventi troppo buio per trovare la via di
casa.»
«Devo capire, Mike. Devo sapere che cosa ci è successo, che cosa è av-
venuto laggiù nel Tempio.»
«Parleremo camminando.»
Si aggrappò a me.
«Perdonami per come mi sono comportata in questi ultimi giorni,» mi
disse piano. «Non posso spiegare perché o a che cosa stessi pensando...
perché ti biasimavo tanto.»
«Non è colpa tua. Credo... credo che altre influenze fossero implicate.
Non so, è tutto così misterioso: tutto quello che è avvenuto da quando ci
siamo stabiliti a Gramarye è stato folle, e in qualche modo lo abbiamo ac-
cettato... o per lo meno non abbiamo discusso troppo la sua follia. Non è
colpa tua, Midge, ma è qualche cosa che ha a che fare con te. Con te e con
il villino.»
La portavo via tenendola per mano, come una bambina, e camminando
parlavo: le dissi dell'illustrazione da lei dipinta per il libro di fiabe anni
prima - quella che la sua stessa mente non le aveva permesso di ricordare
- e di come Gramarye aveva fatto parte di quel disegno molto prima che lei
l'avesse vista; evidentemente era già esistita in qualche modo dentro di lei,
chiusa nel suo inconscio, precognizione di qualche cosa o di qualche luogo
che sarebbe stato. Le ricordai che era stata lei a trovare sul giornale l'avvi-
so di Gramarye e aveva cerchiato di rosso solo quello, ignorando gli altri.
E l'associazione, l'unione, era stata da lei stretta non appena era arrivata là.
Doveva essere così. Il procuratore di Flora Chaldean mi aveva detto delle
istruzioni che la vecchia signora gli aveva lasciato prima di morire: i parti-
colari delle persone che avrebbero potuto acquistare Gramarye e viverci.
Persone giovani, sensibili, di evidente onestà, tipi speciali. Erano questi i
requisiti: nessuna meraviglia se il vecchio procuratore aveva mostrato tan-
to interesse per lei.
«Il villino era destinato a qualcuno come te, Midge.» Scostai un ramo
che ci ostacolava il passaggio. «Non chiedermi perché, non so darti alcuna
risposta ragionevole. Tutto quello che posso supporre è che vi sia in te
qualche cosa che è intonato con ciò che di magico può esservi in Gramar-
ye.»
Mi costrinse a fermarmi.
«Magico?»
Mi strinsi nelle spalle. «Sì, sono imbarazzato. Ma come altrimenti posso
chiamarlo? Ricordi l'uccello con l'ala spezzata? Quando lo trovammo che
volava per la cucina, il giorno dopo, pensammo che non poteva essere feri-
to così gravemente come avevamo creduto. E tutte quelle altre piccole co-
se. I fiori che erano rifioriti, gli animali e gli uccelli che si affollavano da-
vanti alla porta. Questo non è normale: ci eravamo solo adattati a crederlo
tale. Forse qualche tipo di relazione con la vita della foresta potrebbe esse-
re stabilito fra qualche anno... ma frattanto?»
Ripresi a camminare e lei mi tenne dietro.
«Il villino stesso. Guarda tutte le cose che non funzionavano: le porte
deformate, il legno marcio, l'architrave spezzato. O'Malley non le ha ag-
giustate. Si sono aggiustate da sole, perbacco! E per merito tuo.»
La mia voce risuonava nella foresta. Mi fermai ancora a guardarla.
«E sì, il mio braccio. Pensavamo che Mycroft avesse guarito le bruciatu-
re, ma adesso non penso affatto che sia stato lui. Certo ha una qualche sor-
ta di potere, ne abbiamo appena avuta la dimostrazione. Ma è un potere
che viene dalla sua testa, è quello che lui fa credere alle persone. Mi aveva
convinto che il braccio non mi facesse più male - forse il liquido usato ha
aiutato in qualche modo - e qualche cosa ha prevalso sul mio scetticismo.
Ma penso che quella che mi ha realmente guarito sei stata tu. Anzi, tu e
Gramarye. Siete una maledetta coppia! Gesù, non mi meraviglio che
Mycroft avesse tanto interesse per te. Una bella conquista per il movimen-
to sinergista. Volontà umana e Potere Divino: tu ne sei un esempio viven-
te.»
Lei mi guardava scuotendo la testa, ma dai suoi occhi potevo capire che
credeva a quello che dicevo. Un uccello scattò via da un albero sopra di
noi e ci voltammo a guardare nervosamente. Un gruppo di foglie ondeg-
giava e noi restammo lì finché non rimase immobile. La foresta tornò tran-
quilla, e notammo che l'oscurità stava aumentando.
«Siamo sulla strada giusta?» chiesi a Midge guardando da ogni parte.
Per un momento fu incerta; poi assentì. «Fra un momento dovrebbe es-
serci un bivio, e bisogna prendere a destra.»
«Se lo dici tu.»
Riprendemmo il cammino a passo svelto, con le orecchie e gli occhi a-
perti. A volte vi è un silenzio, in una foresta, quando la luce si oscura: è
come in chiesa, dove un colpo di tosse o un sussurro sembrano irriveren-
temente rumorosi. Tenevo la voce bassa, non volendo disturbare nessuno.
«Non posso fare a meno di domandarmi quello che è avvenuto tra la
vecchia Flora e Mycroft, perché lei ha messo nel suo testamento quella
clausola impedendogli di prendere mai possesso di Gramarye? Che cosa
gliene poteva importare, una volta morta? E perché diavolo ci ha mentito
dicendo di non essere mai stato là, se non aveva nulla a che fare con la sua
morte?»
«Credi realmente che abbiano cercato di impaurirla perché vendesse?»
«Credo che siano riusciti ad impaurirla tanto da ucciderla. Abbiamo vi-
sto noi stessi di che cosa siano capaci i poteri mentali di Mycroft. Per lui
fare apparire conigli e ratti è nulla. E il vino? Credo che avrei potuto bere
quella roba senza rendermi conto che era un'illusione. E il farci credere di
poter curvare i raggi di luce! E un asso, Midge, un illusionista di prim'or-
dine. Non voglio pensare a quello che può aver fatto immaginare a quella
povera vecchia. Una tigre sulla soglia? La cucina in fiamme attorno a lei?
Il cuore che le si spezzava in petto? Non aveva bisogno di toccarla con un
dito.»
«Non credo che fosse così in sua balìa, Mike.»
«Sostanzialmente nemmeno io. Deve esservi stata una vera lotta, ma la
sua età era contro di lei. Forse il suo vecchio cuore ha ceduto naturalmen-
te.»
Raggiugemmo il bivio e io mi feci da parte per lasciare che Midge pren-
desse la direzione. «Tocca a te. Tu hai il senso dell'orientamento. Sei sicu-
ra che sia quella giusta?»
«Se non incontriamo un cedro caduto entro un paio di minuti, puoi dire
che ho sbagliato.»
«Ricordo. E a testa in giù in una gola.»
«E quello.»
Andò avanti e io seguii la sua figura sottile nella foresta; camminammo
svelti, desiderosi di uscire al più presto all'aperto. Non mi piaceva l'atmo-
sfera della foresta e il modo con cui Midge si guardava attorno; e non pia-
ceva nemmeno a lei. E sebbene avessimo lasciato i sinergisti da un pezzo,
la sensazione di essere seguiti era ancora in me.
Midge indicò qualche cosa e vidi l'albero sradicato un centinaio di metri
più avanti. Ci mettemmo a trottare come se fosse una meta che doveva es-
sere raggiunta, e i nostri passi avevano un rumore sordo nel silenzio. Vidi
un gufo bruno appollaiato su di un albero, che ci guardava con interesse,
abbassando ogni tanto le palpebre come la chiusura di un obiettivo sui
grandi occhi rotondi.
Midge si abbandonò sul ruvido tronco e io caddi accanto a lei.
«E meglio continuare,» consigliai sedendomi sul tronco.
Lei si passò le mani sul volto e sul collo. «Erano loro, Mike? O era an-
che quello un trucco di Mycroft? Le loro voci... erano così vere...»
Esitai prima di rispondere. «Sono sicuro che è cominciato come un im-
broglio. Ma poi... accidenti, non so cosa sia accaduto poi.»
«Erano davvero i miei genitori. So che erano loro. Il loro calore mi ha
fatto tornare in me. Tutto quello che credevo su Mycroft è scomparso...»
Scivolai lungo il tronco dell'albero e tesi un braccio verso di lei. «Ab-
biamo troppe cose a cui pensare, Midge. Per ora torniamo al villino finché
possiamo vedere la strada.»
Lei saltò in piedi indugiando un attimo a baciarmi la nuca prima di ri-
prendere. Non credo che avrei ritrovato la strada senza di lei perché l'om-
bra diveniva sempre più fitta; ma lei proseguì sicura, soffermandosi solo a
tratti per controllare la direzione o un segno particolare; un mucchio di
funghi rossi sotto un albero caduto, praticamente cavo, fu l'unico ch'io
seppi riconoscere. Avevo il dorso bagnato di sudore e le gambe rigide; da-
vanti a me Midge cominciò a barcollare e il suo passo perse il ritmo.
Nemmeno il nostro nervosismo era stato superato, e quando una grande
forma striata di bianco apparve sul sentiero, per poco non uscimmo di sen-
no. Anche il tasso si spaventò e rapido si nascose fra i cespugli: lo. ve-
demmo e udimmo avanzare mentre si faceva strada nel sottobosco scuo-
tendo il fogliame.
Più avanti misi il piede su di un rettile o su una radice che non avevo vi-
sto evitare da Midge, e caddi disteso a terra. Ansimai mentre lei mi si ingi-
nocchiava a fianco e mi metteva la mano sotto il braccio sforzandosi di
rialzarmi. Mi rimisi in piedi a fatica e rimasi lì, curvo come un vecchio,
con una mano su un ginocchio e l'altra sulla spalla di Midge.
«Quanta strada c'è ancora?» chiesi cercando di riprendere fiato.
I suoi lineamenti, nell'ombra non si distinguevano, e lei ansimava quasi
quanto me. «Non possiamo essere lontani... abbiamo camminato tanto.»
«Sì, abbiamo camminato tantissimo. Tutto be...»
L'ombra che vidi mentre mi rialzavo non era che un cespuglio a forma di
una figura incappucciata che si nascondesse dietro un albero. I sospiri che
sentivamo erano solo una brezza che passava tra le foglie. E i colpi che
sentivo nel petto erano i battiti del mio cuore.
«Cribbio, ho una fifa,» ammisi.
La sua voce suonò dolcemente. «Stai sognando tutto questo?»
«Le mie ginocchia ammaccate mi dicono di no. La mia testa non è sicu-
ra.»
Stretti insieme sotto braccio nell'angusto sentiero, proseguimmo il viag-
gio, senza badare alla goffaggine dei nostri movimenti, cercando un reci-
proco incoraggiamento e la forza di tener lontani i fantasmi del bosco. L'o-
scurità era penetrata nella foresta come fumo in un polmone.
Zoppicavamo tenendoci l'un l'altro, muovendoci più in fretta che pote-
vamo e infine, grazie a Dio, vedemmo dei vani fra gli alberi davanti a noi e
le luci grigie dello spazio aperto. Il sollievo ci rinforzò le membra esauste
e ancora una volta riprendemmo lena affrettandoci, correndo, stretti per
mano, mentre io gridavo per la felicità e Midge rideva delle mie grida.
Uscimmo dal bosco come se inseguiti da un leone.
Il crepuscolo era divenuto notte, ma per lo meno l'aria era molto più
chiara che sotto gli alberi. Ci affrettammo verso Gramarye ansiosi di sen-
tirci dietro finestre chiuse e porte sprangate, e solo quando fummo più vi-
cini cominciammo a renderci conto che qualcosa non andava, che quello
che vedevamo nell'ombra non aveva senso. Rallentammo. Ci mettemmo al
passo. Guardammo Gramarye costernati.
Inciampai in qualche cosa di morbido sull'erba e mi fermai nel vedere un
coniglio morto, un povero coniglietto con una smorfia di terrore sul picco-
lo muso. Un grumo di sangue gli macchiava il collo. Le dita di Midge si ir-
rigidirono fra le mie, e io vidi l'altra forma abbattuta che lei aveva scoper-
to. Questo coniglio era più grande di quello ai nostri piedi, forse la madre,
e il suo corpo era piegato dalla testa alla coda, la pelliccia indurita dal san-
gue secco.
Non parlammo. Pensavamo che una volpe li avesse uccisi, ma non e-
sprimemmo questo pensiero. Intorno a noi c'erano altri corpi. Avanzammo
con cautela.
E non riuscivamo a capire la trasformazione di Gramarye.
Le mura, ridotte al grigio dalla luce fioca, apparivano solo in strane
macchie.
Il colore dominante era il nero.
E tuttavia non riuscivamo a capire.
Finché ci accorgemmo che le mura erano gonfie di vita.
Una vita nera, impellicciata.
Ali che si aprivano e chiudevano.
Corpi, molto più grossi di prima, che pulsavano come quelle creature re-
spiravano.
Potemmo solo fissare storditamente i pipistrelli aggrappati che ricopri-
vano Gramarye.
36.
ANCORA A CASA
37.
INVASIONE
38.
IL POTERE
39.
FLORA
40.
LE COSE SI SCATENANO
41.
FINE?
Così conoscete tutta la storia.
Vi avevo avvertito che non sarebbe stato facile per voi credervi e, se è
difficile per voi, immaginate quanto lo fu per me allora. Ancor oggi a volte
mi chiedo...
Vorrei potervi spiegare meglio e collegare i vari fili come lo psichiatra al
termine del film Psycho, quando ci spiega, seduti nel buio della sala, le ra-
gioni dello strano comportamento di Norman Bates; ma lui aveva a che fa-
re solo con le complessità umane: questo è qualche cosa di diverso. E ma-
gia. Le spiegazioni non possono essere così precise.
Quello che ho imparato, per inciso, è che non esistono una magia buona
e una magia cattiva, una magia bianca e una magia nera. Vi è solo la ma-
gia. Quello che conta è il modo con cui viene usata e da chi. Se abbiamo il
potere, spetta noi dirigerlo.
Avevo sempre supposto che il potere lo avesse Midge, invece risultò che
lo avevo io. Fu un vero e proprio colpo, sebbene rapidamente e con facili-
tà, una volta riconosciuta la cosa, fu accettata, come avrete notato. E come
andare in bicicletta: quando si è imparato si può fare e si fa. Ma questo di-
mostra quanto poco si sappia realmente di noi stessi, e quanto rimanga na-
scosto e probabilmente mai usato. Dimostra anche quanto poco si sappia
delle leggi che governano le cose, se pur vi sono delle leggi.
Midge ha avuto una grande importanza in tutto questo: era servita a por-
tarmi a Gramarye; qualche bagliore nel suo inconscio l'aveva spinta a gui-
darmi là. Fu peculiare - ma questo lo avevo sempre saputo - una vera eletta
del Grande Disegno delle cose. Grande Disegno di chi? Del Grande Dise-
gnatore, ovviamente, chiunque Egli, Ella o Esso sia.
Mycroft, nella tradizione, fu uno di quei malvagi vecchio stile che vo-
gliono governare il mondo: desiderava il potere di Gramarye per i suoi
scopi: e non ho idea quali fossero in definitiva. Scomparve nel villino in-
sieme ai suoi seguaci che non erano riusciti a fuggire prima che le mura
franassero, e tra loro Hub Kinsella (difficile versare una lacrima per lui).
Gramarye non esplose, né solo franò, incidentalmente. Oh no. Implose,
rientrò in se stessa. Divenne solo un mucchio di macerie destinate a con-
sumarsi, prive di sbocco spero per sempre.
Fu piuttosto difficile spiegare questo alla polizia e ai vigili del fuoco
quando incominciarono a investigare. Noi raccontammo loro di non avere
alcuna idea di quello che era successo. Loro finirono col supporre che una
sacca di gas naturale si fosse formata sotto il villino espandendosi per
qualche tempo e scoppiando infine come una pentola a pressione con il
coperchio difettoso. Questo non aveva molto senso per me - probabilmente
neppure per loro - ma sappiamo come le autorità amino incasellare le cose,
renderle bene ordinate, precise e razionali. Fortunatamente per noi, Gillie
Slade si fece avanti mentre le inchieste erano in corso, e dissipò ogni idea
che qualche cosa di anomalo fosse avvenuta fra noi e i sinergisti.
Così, perché avremmo dovuto dire la verità su quello che era avvenuto?
Lo avreste fatto, voi? Pensate che qualcuno con la mente a posto ci a-
vrebbe creduto? No di certo.
Tutti e tre ci attenemmo a una storia di totale ignoranza. I sinergisti ci
erano venuti a trovare e, mentre erano là, era avvenuto il disastro. Che cosa
potevamo dire di più?
Midge e io siamo nuovamente in città, con Val che ci sorveglia con oc-
chio materno. Devo ammettere che mi sono affezionato molto alla Grossa
Val. Dopo alcune discussioni con la compagnia di assicurazioni - in che
cosa consiste esattamente un Atto Divino di cui parlava il contratto? - rice-
vemmo un bell'assegno come risarcimento per la perdita del villino, che ci
ha permesso di metter su nuovamente casa (nel nostro caso un apparta-
mento). Le cose, adesso, ci vanno benino: io ho finito il mio rock musical -
la versione definitiva include una quantità di maghi, di folletti e di magia -
e Midge ha disegnato alcuni scenari belli da togliere il respiro (credo che
abbiano molto contribuito al successo dello spettacolo). In questo momen-
to viene rappresentato a Manchester, e Bob sta pensando di portarlo a
Londra. Io ho scritto un paio di canzoni di successo (grazie soprattutto ai
grossi nomi che le hanno cantate), e sto per iniziare il mio secondo libro di
storie per bambini, che Midge illustrerà. E lei? Passa da una fatica all'altra,
con più lavoro di quanto possa eseguire (sebbene sia arrivata al punto di
poter scegliere), e Val ha organizzato per lei un paio di mostre personali.
Le sono stati dedicati articoli ed è anche apparsa alla TV. È graziosa come
sempre e modesta, lo l'amo più che mai e, quel che importa, la cosa è reci-
proca.
I miei rapporti con la magia? Be', quali che siano i poteri che ho tratto da
Gramarye, non li possiedo sempre. Qualche volta faccio qualche cosa di
geniale con meraviglia di entrambi, ma solo di tanto in tanto.
Suppongo che devo essere in qualche parte presso la fonte del potere,
dovunque sfoci nell'atmosfera, ma non me ne preoccupo troppo. Per pura
curiosità, recentemente, Midge ed io abbiamo fatto una gita alla Nuova Fo-
resta: tutto quello che resta di Gramarye è una macchia perfettamente ro-
tonda di terra nera sul terrapieno dove una volta esisteva la stanza rotonda.
Ha un'aria di mistero e ci ha fatto sorridere. Siamo andati all'osteria del
luogo dove il proprietario ci ha detto che il consiglio comunale deve sor-
vegliare attentamente la zona: a quanto sembra, i cosiddetti funghi magici,
quelli da cui si trae la mescalina, vi crescono in abbondanza rendendo la
zona un punto di ritrovo per gli hippy di passaggio. Il consiglio ha fatto
cospargere il luogo con veleni di ogni sorta, fino a impregnarlo, ma ci vuo-
le molto tempo perché i funghi smettano di crescere.
Ah, sì. Vi domanderete perché quella sera sono tornato nel villino. Ri-
cordate che ho detto di aver visto qualche cosa mentre attraversavo la cu-
cina correndo all'impazzata? Ebbene, quel piccolo mucchio peloso che a-
vevamo lasciato morto sulla tavola si era mosso: Rumbo aveva alzato la
testa e si guardava attorno domandandosi che cosa fosse tutto quel trambu-
sto.
Non mi ero reso veramente conto di quello che avevo visto finché non
fui arrivato a metà sentiero, e per questo mi voltai e corsi indietro.
Riuscii a ritrovarlo e a prenderlo qualche momento prima che Gramarye
si disintegrasse.
Credo che apprezzò il mio gesto, o forse era felice di essere ancora vivo,
perché mi leccò la faccia e le mani come un cagnolino. Non sarebbe mai
tornato il bello scoiattolo di una volta: le ferite sul collo e sulla gola si sa-
rebbero rimarginate, ma il pelo non sarebbe mai cresciuto. Non credo però
che se ne desse pensiero.
Lo lasciai andare quando fummo dall'altra parte del cancello e dopo che
Midge gli ebbe fatto grandi feste saltò via nell'oscurità, vivace come sem-
pre, dirigendosi verso la foresta e verso qualsiasi amore segreto tenesse na-
scosto là. Fu l'ultima volta che vedemmo Rumbo.
Adesso tutto questo fa parte del passato e la vita è piuttosto felice per
Midge e per me.
E tuttavia... e tuttavia entrambi sentiamo qualche volta un'irrequietudine.
Oggi Midge ha segnato con un cerchio un annuncio sul giornale e lo ha la-
sciato sul tavolino della colazione perché lo vedessi. E nella colonna Ac-
quisti e Vendite. Una casa piccola ma graziosa in un posticino appartato in
qualche parte dei Cotswolds.
Forse domani farò un colpo di telefono all'agente.
Forse.
«Il problema della magia è quello discoprire e impiegare forze della na-
tura finora sconosciute.»
CROWLEY
FINE