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JAMES HERBERT

LA CASA MALEDETTA
(The Magic Cottage, 1986)

Piacevole immobile. Villino, posizione appartata, nel cuore della fore-


sta, necessari restauri, ma ottima occasione. Due stanze da letto, soggior-
no, cucina, bagno. Giardino. Accettansi offerte. Cantrip 612.

1.
MAGIA

Credete nella magia?


Intendo la vera magia, quella con la M maiuscola. Non parlo di conigli
che escono dai cappelli, ragazze vestite di lustrini che scompaiono o sfere
d'argento che danzano nell'aria. Fatti reali, senza trucchi né illusioni. In-
cantesimi e stregoneria. Membra rotte che guariscono dalla sera al mattino,
animali ammaestrati, quadri le cui figure si animano. Apparizioni che in
realtà non esistono se non nella nostra immaginazione. E altro ancora, ma
è troppo presto per dirlo.
Molto probabilmente non ci credete. Forse ci credete a metà. O forse
vorreste crederci.
Un genere di magia che conobbi una volta, molto prima che prendessi-
mo il villino, proveniva da polveri o pillole assunte con amici; ma gli effet-
ti indotti erano soltanto allucinazioni e pericolose. Conobbi la vera magia
solo quando andammo a «Gramarye».
Quella fu una magia Buona.
Tuttavia ogni medaglia ha il suo rovescio e io conobbi anche quello. Se
volete, se siete disposti a mettere da parte la razionalità per un po' come fui
costretto a fare io - vi racconterò.

2.
L'INSERZIONE

Fu Midge che vide l'annuncio economico per prima. Per settimane non
aveva fatto altro che scorrere le inserzioni pubblicitarie sul Sunday Times
cerchiando in rosso le offerte più interessanti, dato che il suo desiderio di
lasciare la sudicia città era più forte del mio. Ogni settimana era venuta a
presentarmi tutta una serie di annunci da esaminare, e li avevamo conside-
rati attentamente uno per uno, discutendo i prò e i contro. Ma finora nes-
suno aveva soddisfatto le nostre aspettative.
Quella domenica vi era solo un cerchio rosso. Un villino. Presso una fo-
resta, in una posizione appartata. Aveva bisogno di qualche restauro.
Che cosa c'è di speciale? pensai.
«Senti un po', Midge!» Lei era nella cucina dell'appartamento che ave-
vamo in affitto a Baron's Court, a Londra - grande, con alti soffitti e una
pigione non meno alta, e un insieme di stanze che permettevano a Midge
di disegnare e a me di occuparmi della mia musica in perfetta tranquillità,
senza doverci urtare a ogni passo. Ma noi volevamo qualche cosa di no-
stro. Avevano in mente entrambi un villino «rustico», sebbene, come ho
detto, Midge lo desiderava più di me.
Lei apparve sulla soglia coi capelli neri sciolti e gli occhi da folletto, un
metro e cinquantacinque di attrattive sottilmente delineate (almeno per me,
e io non sono un tipo facile da accontentare).
lo indicai il giornale. «Uno solo?»
Midge gettò il grembiule verso il lavandino - avevamo finito di fare co-
lazione molto tardi - e si avvicinò a piedi nudi al divano su cui ero seduto.
Vi si rannicchiò tirandosi pudicamente la leggera gonna estiva sulle ginoc-
chia. Quando parlò, guardò direttamente l'avviso, e non me.
«È l'unico interessante.»
Ne fui stupito. «Non dice molto. Mi fa pensare solo a un villino in rovi-
na. E poi dove diavolo è Cantrip?»
«L'ho cercato. È vicino a Bunbury.»
Non potei fare a meno di sorridere. «Ossia?»
«Nell'Hampshire.»
«Questo almeno è a suo favore. Sembrava che ti interessassero soltanto
le zone più remote.»
«Una zona remota dell'Hampshire.»
Un mugolio da parte mia. «Possibile?»
«Hai un'idea di quanto è grande la Nuova Foresta?»
«Più grande di Hyde Park?»
«Molto più grande. E immensa.»
«E Cantrip è nel cuore della foresta?»
«Non proprio, ma quasi.» Sorrise con i suoi occhi da folletto. «Non pre-
occuparti, potrai tornare a Londra a far musica quando vorrai. C'è l'auto-
strada che porta in città».
Non vi ho ancora detto che io faccio il musicista, faccio parte di quella
gente tranquilla che se la cava benino dietro le scene del mondo pop, lavo-
rando negli studi di registrazione e a volte accompagnando in tournée
qualche cantante. Il mio strumento è la chitarra, la mia musica... è rock,
pop, soul, ma anche punk, un po' di jazz e, quando posso, qualche classico
senza pretese. Ma magari ve ne parlerò più a lungo in seguito.
«Non mi hai ancora spiegato perché hai scelto proprio questo,» insistetti.
Lei rimase zitta per un momento limitandosi a studiare il foglio come se
cercasse di trovare una risposta. Poi si voltò verso di me. «Mi sembra che
vada bene,» disse.
Accidenti. Mi sembra che vada bene. Nient'altro.
Sospirai. Sapevo che Midge aveva un grande intuito; ma non ero dispo-
sto ad accettarlo in quel momento. «Midge...» cominciai in tono di ammo-
nimento.
«Mike...» disse lei con la stessa gravita.
«Andiamo, sii seria. Non ho alcuna intenzione di andare a finire a vivere
nell'Hampshire per un capriccio.»
Quel diavoletto mi prese una mano e la baciò sulle nocche. «Mi piaccio-
no le foreste», ebbe il coraggio di dire «E il prezzo è ragionevole.»
«Qui non si parla del prezzo.»
«Si accettano offerte. Sarà un prezzo giusto, vedrai...»
Un tantino esasperato, ribattei: «Probabilmente sarà tutto in rovina.»
«Allora costerà meno.»
«Pensa a tutti i lavori di restauro.»
«Prima di andarci manderemo i muratori.»
«Non correre troppo tesoro.»
Una lieve ombra di incertezza le passò sul volto... o forse un'ansia im-
provvisa.
«Non posso spiegarti, Mike. Lascia che telefoni domani per saperne di
più. Può darsi che sia proprio quello che cerchiamo.
Le sue ultime parole non erano molto convincenti, ma lasciai correre.
Strano, ma quel villino cominciava a piacere anche a me.

3.
GRAMARYE

Tutti abbiamo visto il film o letto il libro, ce ne sono tanti, della giovane
coppia che ha trovato la casa dei suoi sogni: la moglie è in estasi, il marito
è felice ma più controllato; i bambini (di solito un maschio e una femmina)
vagano per le stanze vuote. Ma noi sappiamo che vi è qualche cosa di sini-
stro in quel luogo perché abbiamo comprato il libro e letto il risguardo di
copertina. A poco a poco cominciano a succedere strane cose. Vi è qualche
cosa di maligno nella stanza chiusa in cima alla vecchia scala scricchio-
lante; o qualcuno che sta in agguato nella cantina, che forse è l'anticamera
dell'inferno. Conosciamo la storia. Dapprima Papà non bada alle fantasie
della sua famiglia: non crede al soprannaturale né alle strane cose che ap-
paiono di notte; non crede ai vampiri. Finché non succede qualcosa che gli
fa cambiare idea. E allora si scatena l'inferno. Sapete già tutto come se lo
aveste scritto voi.
Be' la mia storia, è su questo genere, ma al tempo stesso diversa. Vedre-
te.
Andammo in auto a Cantrip il martedì seguente (il nostro lavoro ci per-
mette queste libertà). Midge aveva telefonato, il giorno prima, al numero
indicato nell'avviso e aveva trovato che apparteneva a un agente immobi-
liare. Questi le aveva detto un po' di più sul villino, non molto, ma abba-
stanza per aumentare il suo entusiasmo. Il villino non era occupato perché
la proprietaria era morta qualche mese prima; era stato necessario un po' di
tempo per sistemare gli affari della defunta prima che la proprietà potesse
essere messa in vendita. Midge non aveva fatto che parlare durante il viag-
gio continuando a dirmi che non si aspettava troppo, che probabilmente sa-
rebbe stata una grossa delusione, ma che, dalla descrizione dell'agente, la
cosa si presentava interessante e avrebbe anche potuto essere l'ideale...
Il viaggio durò circa due ore, forse anche tre calcolando il tempo perso
per aver sbagliato due o tre volte la strada. Tuttavia lo scenario, quando
raggiungemmo la Nuova Foresta con i suoi boschi e le sue brughiere, si
mostrò meritevole del lungo viaggio. Incontrammo anche delle mandrie di
pony e, sebbene non vedessimo nemmeno un cervo, una quantità di indizi
ci diedero la certezza che essi erano nelle vicinanze, e, per una persona di
città, questo equivaleva quasi all'averli visti. Era una bella giornata di
maggio, con l'aria frizzante e luminosa... Avevamo tenuto abbassati i vetri
degli sportelli posteriori dopo aver lasciato l'ultima autostrada e, nonostan-
te la sua apprensione appena dissimulata, Midge si era unita a me nel can-
tare Blue Suedes, Mean Woman e simili (quel mattino stavo attraversando
il mio vecchio periodo rock, dato che il mio umore musicale cambia di
giorno in giorno). L'aria fresca mi fece diventare rauco prima che vedessi-
mo il villaggio davanti a noi.
Devo ammetterlo, Cantrip fu un tantino deludente. Ci aspettavamo tetti
di paglia, vecchie osterie, e un villaggio primitivo con rugginose pompe a
mano: qualche cosa da Protezione delle Antichità. Quello che vedevamo
era una strada spaziosa ma del tutto simile a tante altre le cui case e negozi
dovevano essere stati costruiti verso la fine degli anni venti e gli inizi degli
anni trenta. Ma, a un esame più attento, non era poi tanto male: vi erano
alcuni vecchi edifici scrostati fra le costruzioni più recenti, e l'impressione
generale era piuttosto scialba. Sentii indebolirsi l'entusiasmo di Midge.
Varcammo l'arcata di un ponticello ed entrammo nella strada principale
cercando l'ufficio dell'agente e tenendo nascosto il nostro scontento. Tro-
vammo l'agenzia fra un ufficio postale-drogheria e una macelleria, con una
facciata così anonima che l'avrei oltrepassata se Midge non mi avesse bat-
tuto sulla spalla indicandomela.
«Là!» gridò come se avesse scoperto l'anello mancante nell'evoluzione
umana.
Un ciclista sterzò guardandoci storto per la brusca frenata. Gli rivolsi un
gesto amichevole di scusa indicando Midge come colpevole, ma non sentii
la sua risposta stizzita, probabilmente meglio così, perché non sembrava
una persona molto civile.
Dopo una breve retromarcia, scendemmo dall'auto e ci avviammo verso
l'agenzia. Midge era divenuta improvvisamente nervosa come una gattinà,
cosa per me piuttosto nuova. Eravamo vissuti insieme per molto tempo ed
ero abituato a certe sue ombrosità, specialmente quando accettava qualche
nuovo incarico, dovrei avervi già detto che Midge è un'illustratrice molto
brava specializzata in libri per bambini, ma non credevo che si innervosis-
se per un appuntamento con un agente immobiliare. Non tardai a capire
che non si trattava dell'agente, ma dell'ansia di vedere il villino. Diavolo,
quello stato d'animo durava da domenica, e non riuscivo a capire perché.
La feci fermare un momento prima di aprire la porta e lei mi guardò di-
strattamente, facendo più attenzione a quello che c'era dietro il vetro.
«Calmati,» le dissi piano. «Ce ne saranno chissà quanti in vendita, anche
se questo non ci piace.»
Lei tirò un rapido respiro, mi strinse la mano ed entrò davanti a me. Al-
l'interno l'ufficio era meno misero di quanto avrebbe potuto essere, perché,
sebbene stretta, l'unica stanza si stendeva molto sul retro. Fotografìe e
piantine di appartamenti coprivano tutta una parete come una carta da pa-
rati male incollata. Una segretaria corpulenta era vicino alla porta, mentre
più avanti un uomo in abito grigio con grossi occhiali cerchiati di nero, se-
duto davanti a un tavolo in disordine, alzò lo sguardo.
Io mi sporsi sopra la spalla di Midge e chiesi: «Il signor Bickleshift?»
(Naturalmente era lui).
Mi sembrò che non mi avesse sentito.
Parve non badare al suo nome; ma fece un largo sorriso. Credo che ri-
mase colpito da Midge.
«Sì,» disse alzandosi e invitandoci a venire avanti.
Feci un cenno di saluto alla segretaria che ci squadrò da capo a piedi
mentre passavamo, con l'espressione di una balena imbronciata:
«Voi siete il signore e la signora Gudgeon?» chiese Bickleshift sporgen-
dosi attraverso il tavolo per stringere la mano di Midge e poi la mia. Ci in-
dicò due sedie davanti a lui.
«No, Gudgeon è lei, io sono Stringer.» Ci sedemmo, e l'agente volse lo
sguardo dall'uno all'altro di noi prima di proseguire.
«Allora solo lei, signorina Gudgeon, è interessata alla casa.» Non ne so-
no sicuro, ma può avere detto «signorina» per mostrare di accettare la co-
sa.
«Siamo interessati entrambi,» rispose Midge. «E vorremmo vedere il
villino dell'annuncio sull'ultimo Sunday Times. Gliene ho parlato per tele-
fono.»
«Naturalmente. La casa rotonda di Flora Chaldean.»
Entrambi inarcammo le sopracciglia e Bickleshift sorrise.
«Capirete quando avrete visto il luogo,» disse.
«E Flora Chaldean era la proprietaria del villino?» chiese Midge.
«Esatto. Una vecchia signora piuttosto... eccentrica. Molto conosciuta da
queste parti; un personaggio locale, anche se nessuno sapeva molto su di
lei. Conduceva una vita molto ritirata.»
«Ha detto che è morta...» intervenne Midge.
«Sì, alcuni mesi fa. L'unico suo parente è una nipote che vive in Canada.
A quanto sembra non si erano mai incontrate, ma l'avvocato della signora
Chaldean è riuscito a rintracciarla e l'ha avvertita dell'eredità. Immagino
che la Chaldean abbia lasciato anche una certa somma di denaro, ma non
credo granché: so che conduceva un'esistenza molto sobria. La nipote ha
detto all'avvocato di vendere il villino e di mandarle il ricavato.»
«Non ha voluto vederlo prima?» chiesi.
Bickleshift scrollò il capo. «Non le interessava. Comunque Flora Chal-
dean si preoccupava del destino della sua villetta perché ha inserito una
clausola nel testamento che riguarda la vendita.
Midge s'incuriosì. «Che tipo di clausola?»
Il sorriso dell'agente divenne ancora più largo. «Non credo che sia cosa
di cui lei debba preoccuparsi.» Alzò le mani mettendole aperte sul piano
del tavolo così che, per un momento, con i gomiti piegati ai due lati, parve
una cavalletta con gli occhiali. «Adesso,» disse giovialmente, vi suggeri-
sco di andare a dare un'occhiata al villino; discuteremo i particolari in se-
guito, se sarete ancora interessati.»
«Lo siamo già,» rispose Midge, e io la urtai col piede: non c'era bisogno
di apparire troppo entusiasti prima di cominciare a trattare la cosa.
Bickleshift cercò in un cassetto e ne trasse un mazzo di chiavi, tre in tut-
to, vecchie e grandi, legate con un anello e ognuna con una cartellino. «Il
villino è vuoto, naturalmente, così potrete esaminarlo a vostro agio. Io non
vi accompagno, a meno che non lo desideriate. In genere i miei clienti pre-
feriscono far la visita per conto loro e discutere liberamente.»
Midge prese le chiavi e le strinse con tale reverenza da far credere che
fossero le Chiavi del Regno.
«D'accordo,» dissi a Bickleshift. «Ma come facciamo per arrivarci?»
Ci porse una cartina abbastanza semplice, purché, come sottolineò, non
sbagliassimo nelle svolte. E noi c'incamminammo.
«Bene,» dissi mentre guidavo per un sentiero serpeggiante con un tetto
di foglie sulla testa che attenuava la luce e rinfrescava l'aria. «Ancora non
lo vedo.»
Midge mi guardava con curiosità, ma sapeva - oh, se lo sapeva - quello
che intendevo.
«Sembra che tu sia già innamorata del posto.» Battei sul volante col dor-
so della mano. «Andiamo Midge, confessalo. Che cosa ne pensi?»
Le punte delle sue dita affondarono nei miei capelli, sulla nuca, accarez-
zandomi leggermente; tuttavia la sua voce era ancora un poco distante.
«Solo una sensazione, Mike. Sento che andrà tutto bene.»
La lieve pausa non mi passò inosservata. «E allora perché non ho anch'io
questa convinzione?»
Gli occhi le scintillarono di stizza. «Probabilmente perché tutto ciò che
non è a due passi da un bar, da un Big Mac o da un cinema non è abba-
stanza civile per te.»
Mi sentii offeso. «Sai bene che desidero andarmene quanto te.»
Lei ebbe un breve riso. «Forse non proprio quanto me, ma va bene, am-
metto che i tuoi gusti sono cambiati negli ultimi tempi. Non sono sicura,
tuttavia, che le lamentele dei nostri vicini non abbiamo qualche cosa a che
fare con questo.»
«Sì, ammetto che ho bisogno di un posto dove poter suonare quando e
come voglio. Ma non è solo questo. E in ogni caso anch'io sono disturbato
dal loro fracasso.»
«Non piace neppure a me. E nemmeno il traffico, la polvere...
«Il trambusto...»
«Il frastuono...»
«Andiamocene da tutto questo!» gridammo insieme avvicinando le teste.
Quando ebbe smesso di ridere, Midge disse: «E vero. A volte penso che
l'intera città sta per andare a rotoli.»
«Forse hai ragione.» Stavo cercando una svolta a sinistra, una di quelle
che Bickleshift ci aveva avvertito di non lasciarci sfuggire.
«E strano», continuò lei, prendendo i foglietti che l'agente ci aveva dato,
«ma quando ho visto l'inserzione sul giornale di domenica, ho avuto la
senzazione che l'annuncio mi ammiccasse. Non sono riuscita a concen-
trarmi su nessun altro, i miei occhi continuavano a tornare su questo. Tutto
il resto mi sembrava sfocato.»
Emisi un lungo mugolìo. «Midge, Midge, spero che tu non rimanga de-
lusa.»
Lei non rispose e guardò diritto davanti a sé. E improvvisamente sentii il
desiderio di voltar la macchina e ripercorrere tutta la strada verso la città
fumosa. Una premonizione? Credo proprio di sì. Ma queste cose, allora,
erano per me inconsuete, e pensai che la sensazione dipendesse solo per il
trambusto di un trasloco. Forse lei aveva ragione: non ero ancora pronto
per la casetta in campagna.
Naturalmente continuai ad andare avanti. Che razza di pazzo sarei sem-
brato se fossi tornato indietro? Che ragione avrei potuto addurre? Amavo
Midge abbastanza per cambiare le mie abitudini, e sapevo che quello che
andava bene per lei sarebbe infine andato bene anche per me. Avevo fatto
troppe cose piacevoli e non abbastanza cose giuste. Le cose giuste le face-
va lei.
La svolta che tenevo d'occhio si materializzò improvvisamente: l'agente
aveva ragione, era facile lasciarsela sfuggire. Rallentai fin quasi a fermar-
mi per svoltare alla curva a gomito. La nostra Volkswagen occupò quasi
tutta la strada nel riprendere velocità, e ci trovammo ancora in un'area bo-
scosa: gli alberi giungevano fino al margine del sentiero tortuoso che ades-
so era in discesa. Midge si entusiasmava a ogni metro che percorrevamo,
con gli occhi che le brillavano mentre io stavo attento a prendere le curve
giuste e gettando ogni tanto un'occhiata al suo volto felice.
«A quest'ora dovremmo essere arrivati.» Cominciavo a domandarmi se
non avessi sbagliato a voltare.
Midge consultò la cartina. «Non dovrebbe essere lontano...» Frenai bru-
scamente e allungai con gesto istintivo il braccio per sorreggerla sebbene
avesse la cintura di sicurezza. Lei venne sbalzata in avanti e mi guardò
sorpresa.
«Guarda un po' la strafottenza di quel tipo.» E accennai alla strada da-
vanti a noi.
Uno scoiattolo se ne stava seduto con aria baldanzosa in mezzo al sentie-
ro sgranocchiando una ghianda o qualche cosa di simile che teneva fra le
zampette, con la coda rossiccia sollevata. Quel piccolo mascalzone ci ave-
va visti benissimo, perché continuava a voltare la testa arruffata verso di
noi, ma non sembrava darsene alcun pensiero.
«Oh, Mike, è magnifico!» Midge si chinò in avanti per quanto glielo
permetteva la cintura di sicurezza, col naso a pochi centimetri dal para-
brezza. «Che bel pelo rosso! Avevo sentito dire che ce ne sono molti, da
queste parti. È stupendo!»
«Certo, ma ci ingombra la strada.» Stavo per suonare il clacson; ma Mi-
dge dovette leggermi nel pensiero.
«Lascialo star lì per un momento, se ne andrà subito.»
Sospirai, sebbene divertito dalla vista di quel cosino impellicciato che
faceva colazione.
Midge si liberò della cintura e si sporse dal finestrino ridendo. Questo fu
troppo per il nostro amico, che lasciò cadere la ghianda e se la diede a
gambe.
lo non riuscii a trattenere le risa. «Straordinario! Non ha battuto ciglio
davanti a questo grande mostro d'acciaio rombante ed è rimasto sconvolto
dalla tua faccia sorridente.»
Ma dovetti subito rimangiarmi le parole. Lo scoiattolo tornò, riprese la
sua merenda, ci guardò per un secondo e poi saltò verso la macchina dalla
parte di Midge.
«Ciao,» gli disse lei gentilmente.
lo non potevo vedere, ma probabilmente l'animaletto rispose al suo sor-
riso. Mi sporsi e feci in tempo a scorgere uno sfrecciare nel sottobosco
mentre lo scoiattolo fuggiva ancora. Mi aspettavo che Midge mi rivolgesse
uno dei suoi sorrisi canzonatori, ma vi era solo un'immensa e innocente
gioia dipinta sulla sua faccia. Le diedi un bacetto sulla guancia, divertito, e
ripartii «Avanti.» dissi.
Midge tornò a sedersi osservando con attenzione i dintorni mentre ci al-
lontanavamo.
Presto uscimmo dal folto degli alberi; i margini erbosi ai due lati della
strada si aprirono in distese di felci verde cupo e di ginestre gialle respin-
gendo la densa boscaglia come per dire «il troppo è troppo». Adesso il sole
era alto e il cielo era di un azzurro pallido. Avevamo scelto una giornata
perfetta per un viaggio in campagna e il mio entusiasmo si risollevava no-
nostante la delusione di Cantrip.
Midge mi strinse il braccio. «Forse è quello,» disse trattenendo l'eccita-
zione.
Guardai, ma non vidi nulla.
«Non lo vedo più,» disse Midge. Mi è sembrato che ci fosse una mac-
chia bianca più avanti, ma adesso gli alberi la nascondono.»
L'auto stava seguendo una lunga curva, e il bosco tornava ad avvicinarsi
alla strada come per vendetta. In certi punti, bassi rami pieni di foglie sfio-
ravano i finestrini.
«Questa foresta avrebbe bisogno di una potatina,» brontolai; e allora ve-
demmo il villino, di là dalla strada, con un basso steccato in rovina, con
molti pali sghembi o completamente abbattuti, che cingeva il giardino. Il
cancelletto era chiuso, un vecchio cartello scrostato era fissato alle sbarre e
una scritta in caratteri gotici diceva:
GRAMARYE

4.
IL VILLINO

Dunque eccolo lì. E a prima vista era un villino incantevole.


Avevo fermato l'auto sull'erba, presso il recinto diroccato, e adesso tutti
e due stavamo contemplando Gramarye, la casa rotonda di Flora Chaldean.
Midge sembrava in adorazione, e io... be', diciamo che ero piacevolmente
sorpreso. Non so con precisione che cosa mi aspettassi ma questo era di-
verso.
In realtà la costruzione era rotonda, sebbene la parte principale di fronte
a noi fosse squadrata, con solo un'estremità curva ed era costruita su tre
piani, compreso l'attico, così che "villino" non era la parola esatta. Tuttavia
aveva l'aspetto di un villino perché sorgeva su di una collinetta che lo fa-
ceva sembrare più piccolo. La collinetta si stendeva ai lati, e dei gradini di
pietra coperta di muschio scendevano il pendio a sinistra fino al livello del
giardino. Sul pendio vi erano degli alberi i cui rami toccavano a volte la
bianca muratura. E più oltre vi era ancora bosco. Le finestre della facciata
erano piccole, con molti pannelli, aggiungendo un ulteriore fascino all'in-
sieme, e il tetto era di tegole rosse scolorite.
Bene, questa fu la prima impressione, decisamente piacevole.
«Mike, è meraviglioso,» disse Midge col respiro soffocato facendo va-
gare lo sguardo fra i colori violenti del giardino dove i fiori erano cresciuti
spontaneamente.
«Grazioso,» dovetti ammettere, «ma diamo prima un'occhiata da vici-
no.» Midge era già scesa dall'auto.
Mi si mise a fianco e si fermò davanti al villino con gli occhi sempre più
lucenti. Nessun disappunto, nessuna delusione. Si mordeva nervosamente
il labbro inferiore, ma non cessava di sorridere. Io le misi un braccio attor-
no alla vita sottile, studiando la sua espressione e sorridendo a mia volta.
Poi mi voltai per entrare in Gramarye.
Avevo la sensazione di conoscere già quel luogo, ma era una sensazione
sfuggevole. Ero già stato lì? No, assolutamente no. Non ricordavo nemme-
no di aver mai visitato quella zona. Tuttavia vi era qualche cosa di familia-
re in... Respinsi quella sensazione considerandola una qualche forma di
«déjà vu».
Finora non c'era stato bisogno di chiedere a Midge le sue impressioni:
gliele leggevo negli occhi brillanti. Si allontanò da me andando lentamente
verso il cancello; dovetti chiamarla per ricordarle la mia esistenza. Lei si
voltò e tutto parve congelarsi nella mia mente.
Vedo ancora la scena, e la vedrò sempre, chiara e netta, quasi mistica:
Midge, piccola e sottile, coi neri capelli che le cadevano lisci sulla nuca, le
labbra appena socchiuse e, in quei suoi dolci occhi grigioazzurri, un po' in-
clinati agli angoli, un bagliore di meraviglia e di gioia, un'espressione che
mi turbava e tuttavia mi rendeva felice. Indossava dei jeans e una camicet-
ta con le maniche rimboccate; sandali ai piedi minuti. E dietro di lei si in-
travedeva... no, non si intravedeva, perché tutta la scena, con Midge in
primo piano, si fondeva così bene, era così completa: dietro a lei c'era
Gramarye, con le sue bianche mura ora visibilmente scrostate e macchiate,
le finestre chiuse che sembravano occhi, il giardino dai colori abbaglianti e
più in là tutt'attorno, la foresta. Si sarebbe detta una scena da romanzo, cer-
to così singolare da imprimersi nella mente.
Poi lei si voltò ancora, spezzando l'incanto, e si chinò sul saliscendi del
cancello. Il battente cigolò nell'aprirsi e Midge entrò mentre io la raggiun-
gevo. Allungai una mano per prenderle il braccio, ma lei era già lontana,
saltellando sul sentiero si avvicinò alla porta.
Io la seguii a passo più moderato, notando che, visti da vicino, i fiori di
fine maggio non erano così brillanti come apparivano da lontano. Avevano
infatti quell'aspetto della tarda estate, quando la maggior parte dei fiori
hanno perso la loro freschezza e volgono al declino, con i petali arricciati e
secchi. Non perdervi un'eccessiva importanza, ma sembravano malati. Le
erbacce spuntavano dappertutto, e quelle erano sane. Il sentiero era fatto di
pietre piatte e alte erbe crescevano nelle giunture quasi ricoprendo le su-
perfici scabre.
Trovai Midge che spiava attraverso una sudicia finestra senza cortine fa-
cendosi ombra con le mani. Per quanto sudici, i vetri avevano un buono
spessore all'antica, con leggere ondulazioni. Purtroppo le intelaiature erano
consunte e scheggiate.
«Non si può dire lussuoso,» arrischiai chinandomi per spiare con Midge.
«E vuoto,» disse lei.
«Che cosa ti aspettavi?»
Credevo che ci fosse ancora un po' di mobilio.»
«Probabilmente è stato venduto all'asta subito dopo la lettura del testa-
mento. Potremo farci un'idea migliore del luogo senza il disordine lasciato
dalla vecchia signora.»
Midge mi diede uno sguardo di rimprovero. «Guardiamo l'esterno prima
di entrare.»
«Hum.» Io stavo ancora guardando l'interno del villino, pulendo il vetro
con le dita per vedere meglio. Tutto quello che potei scorgere fu un grande
fornello nero nel vano di un camino. «Ci sarà da cuocer molto, lì sopra.»
«Sul fornello? Sarà divertente.» Il suo entusiasmo non era venuto meno.
«Sembra piuttosto una forgia,» aggiunsi. «Penso che potremo avere una
cucina elettrica al posto di questo mostro. Comunque, il legno per alimen-
tarlo non ci mancherà certo.»
Midge si aggrappò al mio braccio. «Ehi, al giorno d'oggi va di moda tor-
nare alle origini. Vieni, diamo un'occhiata al retro.»
Mi allontanai dalla finestra e lei mi sfiorò la guancia con le labbra; poi
mi precedette ancora. Io la seguii esaminando la porta d'ingresso nel passa-
re. Il legno sembrava abbastanza solido, sebbene vi fossero un paio di sot-
tili fessure lungo i pannelli inferiori. Più in alto, sul bordo, vi erano due fi-
nestrelle di non più di una quindicina di centimetri, e un campanello a ti-
rante di fianco alla porta, fissato al muro. L'ingresso era riparato da un pic-
colo portico aperto ai lati, che mi parve del tutto inutile. Una lampada da
carrozza pendeva dall'altra parte del campanello, con l'interno pieno di ra-
gnatele. Tirai il campanello nel passare e lo squillo fu sordo e distaccato,
ma fece voltare Midge. Io mi ingobbii come un Quasimodo e le feci una
smorfia.
«Bada che il vento non cambi,» mi disse salendo i gradini che giravano
attorno alla curva dell'edificio.
Io la seguii raggiungendola sul quarto gradino coperto di muschio. Sotto
braccio girammo la curva e cominciammo ad apprezzare meglio la struttu-
ra dell'edificio. La parte principale era circolare, con la cucina, dove c'era
il fornello, e le stanze superiori diramavano. Il tutto, naturalmente, su pic-
cola scala. La forma dava a Gramarye una sua originalità e indubbiamente
vi aggiungeva uno strano fascino. Purtroppo le sue condizioni generali e-
rano misere come i fiori malati del giardino.
L'edificio, originariamente dipinto di bianco, ma adesso grigiastro e no-
tevolmente macchiato, si sgretolava qua là e in certe parti l'intonaco era
scomparso. Cocci di tegole coprivano il suolo sotto i nostri piedi per cui,
immaginai che il tetto fosse pieno di buchi. I gradini ci avevano portato a
un'altra porta, una volta dipinta di un triste verde oliva, ma che adesso era
tutta scrostata rivelando il legno marcio al di sotto. La porta dava a sud e
sui boschi che non erano a più di un centinaio di metri, oltre una distesa di
erbe e di rovi, con pochi alberi sparsi qua e là come soldati di un esercito
che stessero avanzando cautamente. Una zona più aperta, che doveva esse-
re stata calpestata per anni si stendeva per dieci o dodici metri dall'edificio
con alberi più piccoli, - susini e meli selvatici, pensai, sebbene allora fossi
poco pratico - senza frutti e trascurati. Su questo lato, poiché Gramarye era
costruita su di un terrapieno rialzato, il villino sembrava avere solo due
piani ed era rotondo. Le finestre del piano terreno erano ad arco, e Midge
mi aveva già lasciato per andare a schiacciare il naso contro i vetri.
«Mike, vieni a vedere,» gridò. «L'interno è favoloso.»
La raggiunsi e rimasi non meno impressionato di lei - sebbene «favolo-
so» fosse un tantino eccessivo - perché le mura curve comprendevano tre
finestre che dovevano permettere alla stanza di avere sole per tutto il gior-
no. Sul lato opposto, attraverso un'arcata, potei vedere un corridoio con
scale; presumibilmente un'altra porta faceva passare dalla sala alla sezione
quadrata dell'edificio. Il sole splendeva dappertutto senza lasciare nem-
meno un angolo in ombra, nemmeno il sudiciume delle finestre riusciva a
offuscarne il fulgore. L'interno sembrava caldo e gioioso, nonostante fosse
spoglio, e decisamente invitante.
«Sediamoci per un momento.» Avevo notato una vecchia panca nell'an-
golo in cui la parete piatta del villino si staccava dal circolo; quel sedile di
legno sembrava cresciuto dal suolo.
«Voglio entrare,» rispose Midge con impazienza.
«Certo, fra un minuto. Riepiloghiamo quello che abbiamo visto finora.»
Lei era riluttante, ma si avvicinò con me alla panca, dove ci sedemmo
guardando i boschi vicini. Sembravano folti e impenetrabili, ma in quel
tempo non avevano nulla di sinistro.
«È meraviglioso,» sospirò Midge senza che glielo chiedessi. «Molto più
di quanto mi aspettassi.»
«Davvero? Detto fra noi, credevo che ti aspettassi molto di più.»
Aggrottò le sopracciglia senza divenir per questo meno graziosa. «Io...
io sapevo istintivamente che sarebbe andato bene.»
Alzai una mano. «Aspetta, non siamo ancora entrati.»
«Non ce n'è bisogno.»
«Sicuro che ce n'è. Non fermiamoci qui. L'avviso diceva che occorreva-
no dei restauri, no? E i restauri possono bastare da soli a superare la nostra
cifra. Solo l'esterno richiede un mucchio di riparazioni. E Dio sa l'interno.»
«Potremo prenderlo in considerazione quando faremo l'offerta.»
«Credo che l'agente lo abbia già fatto. Ti ha detto al telefono il prezzo a
cui mirano in linea di massima e, se non lo diminuiamo, potremo avere
delle difficoltà a trovare il denaro per rendere questa casa abitabile.»
Stavo dicendo a Midge tutto il peggio, ma dovevo metterla di fronte alla
realtà. Lei esaminava il terreno come se potesse trovar lì una risposta.
Quando alzò lo sguardo, potei vedere l'ostinazione che si era radicata in
lei... no, non esattamente ostinazione. Midge non era ostinata. Chiamiamo-
la piuttosto una tranquilla decisione. In genere era molto dolce, perfino ar-
rendevole, cosa che mi irritava spesso, quando il suo agente la spingeva ad
accettare lavori che lei non desiderava sia per il tempo che richiedevano
sia per il soggetto, ma sotto questo vi era una risolutezza che affiorava solo
quando lei sapeva di avere assolutamente ragione su qualche argomento o
di averne bisogno per superare un momento difficile. Sospettavo infatti
che la sua tranquilla decisione fosse nata da momenti difficili della sua vi-
ta, e Midge ne aveva avuti parecchi.
Le misi un braccio sulle spalle e la strinsi a me. «Solo non riporre le tue
speranze troppo in alto, Folletto,» le dissi dolcemente chiamandola con il
soprannome che di solito riservavo ai momenti di tenerezza. «Finora il vil-
lino piace anche a me, sebbene la località mi spaventi un poco.»
«Potrai suonare come e quando vorrai laggiù, Mike,» rispose affettuosa.
«È quello di cui hai bisogno, lontano da tutte quelle distrazioni, da que-
gli...»
Indugiò un momento e io dissi la parola per lei: «Amici». «Cosiddetti
amici. E Gramarye andrà bene anche per me. So che qui potrò lavorare.»
«Non credi che ci sentiremo soli?»
Scosse la testa con decisione. «Non è possibile. Insieme non saremo mai
soli, Mike, lo sai. Hai già dimenticato quante volte abbiamo parlato di an-
darcene lontano da tutti, in qualche parte irraggiungibile, senza né agenti
né musicisti fra i piedi? Starcene da soli sarà una benedizione. Comunque
credo che da queste parti la compagnia sia piacevole. Ci faremo presto dei
nuovi amici, amici di un altro genere e che potremo tenere a debita distan-
za.»
«Potrebbero essere troppo diversi per i nostri gusti.»
«Siamo nello Hampshire, non nella Mongolia. A due ore dalla città. Qui
parlano la nostra stessa lingua.»
«Forse non proprio la stessa.»
Midge sollevò gli occhi al cielo. «Oh, voi sofisticati cittadini siete pieni
di queste fisime. La imparerai presto.»
«Va bene, ma non dimenticare che oggi c'è un sole splendido, il cielo è
blu...»
«E non c'è una nuvola lassù,» mi canzonò lei. «Ma quando piove, quan-
do viene l'inverno e tutto gela, e saremo completamente tagliati fuori dalle
neve...»
«Brrr,» fece lei rannicchiandosi, «sarà piacevole. Probabilmente non po-
tremo lasciare il villino per intere settimane e dovremo tenere acceso un
gran fuoco per scaldarci, o starcene tutto il giorno sotto le coperte. Imma-
gina le cose che dovremo inventare per tenerci allegri.»
Mi diede una serie di colpetti sotto la cintura, il mio punto debole. «Ti
prego,» supplicai.
«Vedrai. La vita a Gramarye sarà così piacevole che diventerai un ere-
mita.»
«E proprio questo che temo.»
«E ti costringerò a uscire quando soffierà un vento gelido per andare a
comprare il pane.» «Non mi incoraggi.»
Lei tornò seria, ma subito dopo rise dicendo: «Immaginati questo luogo,
Mike. Chiudi gli occhi e immaginatelo davvero. Gramarye è fatta per noi.»
Non chiusi gli occhi, ma mi sentii pervadere da un particolare senso di
benessere, un'eccitazione dolcissima e appagante. No, non quella che se-
gue un buon pasto, qualche cosa di diverso, di più reale e permanente. Di-
ciamo che fu il calore del sole, la piacevolezza della giornata e dell'am-
biente. O la forza di convinzione di Midge che fluiva in me, una sensazio-
ne molto naturale fra innamorati. Un tempo avrei concluso che si trattava
solo di sensazioni. Ma adesso no. Proprio no, adesso che conosco tante co-
se di più.
«Andiamo a vedere l'interno,» dissi per evitare una conclusione. E il sor-
riso di Midge divenne più acuto. Si alzò e trasse dalla tasca dei suoi jeans
le tre chiavi coi cartellini. Me le porse con un gesto che sembrava dire:
«Bene, il destino è nelle tue mani, e lo troverai qui dentro.»
Le presi e mi avviai verso la porta sul retro con Midge alle calcagna.
Mi fermai davanti alla vecchia porta scrostata e guardai le lunghe chiavi
domandandomi con quale tentare per prima. Due erano eguali e pensai che
dovevano essere quelle dell'ingresso principale. Infilai la terza nella serra-
tura che entrò facilmente. Ma non volle girare.
E nemmeno le altre due.
Brontolai: «Sembra che Bickleshift non ci abbia dato il mazzo giusto.»
«Proviamo con la porta principale,» suggerì Midge.
«Va bene, ma una di queste deve essere di questa porta, se sono le chiavi
giuste.»
Scendemmo i gradini, attenti a non scivolare sul muschio, e ci trovammo
sotto il piccolo portico. Scelsi la chiave numero uno e la infilai nella serra-
tura. Niente da fare. Sempre più scoraggiato, tentai con la seconda e con la
terza, senza maggior fortuna. La porta non si aprì nemmeno quando feci
forza sulla maniglia e la spinsi con le spalle. Il legno scricchiolò, ma non si
mosse di un millimetro.
«Lascia provare a me,» disse Midge infilandosi fra me e la porta.
«Non serve. La serratura è arrugginita o Bickleshift ci ha dato le chiavi
sbagliate.» Guardai il cartellino: c'era scritto chiaramente GRAMARYE.
Lei mi prese il mazzo di mano senza parlare e guardò per un attimo una
delle chiavi doppie prima di infilarla con fare deciso nella toppa. Girò il
polso e mi parve di vederla tirare un breve respiro, come se la chiave fosse
girata per conto suo. Ma forse mi sbagliavo.
La porta si aprì facilmente, silenziosa, senza nemmeno lo scricchiolio di
un film dell'orrore; l'aria che uscì dal villino era umida e stantia, e sembra-
va lieta di sentirsi libera.
5.
LA STANZA ROTONDA

Io ero pronto a entrare, per quanto stupito che Midge fosse riuscita ad
aprire e io no; lei, invece, esitava. Ancora oggi non ne sono sicuro - qual-
che cosa non è ancora chiara nella mia memoria - ma, sembrava ci fosse
una certa trepidanza nei suoi modi, sufficiente per lo meno a impedirle o-
gni espressione di esultanza. Forse non ne sono sicuro perché quell'esita-
zione svanì immediatamente: Midge scomparve all'interno prima ancora
che potessi esprimere la mia apprensione.
Mi avventurai dietro di lei stringendomi nelle spalle, ed ebbi un'improv-
visa sensazione di freddo piuttosto sgradevole considerata l'aria calda all'e-
sterno. Ci trovammo in una stanza piuttosto piccola, non più di tre metri e
mezzo per quattro (la pianta della casa era rimasta nell'automobile), con
una porta aperta davanti a noi e una scala che portava al piano superiore.
Potemmo vedere la cucina attraverso un'apertura sulla nostra destra. Il pa-
vimento, qui e nella stanza oltre la porta, era di piastrelle quadrate, e notai
che la superficie era innaturalmente scura. Mi chinai e toccai la pietra.
«È umida,» dissi, e guardai lo zoccolo. Una grande macchia d'umidità
appariva sul muro opposto a pochi centimetri dal pavimento. «Il muro pe-
netra nel terrapieno e, quando piove, l'acqua filtra nell'interno.»
Midge non parve interessarsene, cosa che mi irritò un tantino; sapevo
che questo genere di umidità può essere serio, e consideravo la cosa in
termini di denaro. Lei era già entrata nella cucina. La seguii scuotendo la
testa esasperato. «Midge, devi tener conto di queste cose,» dissi piagnuco-
lando. «In base a queste dobbiamo decidere se comprare o no la casa.
«Scusami, Mike.» Scivolò verso di me fingendosi pentita e mi tenne per
un momento la testa sul petto. Poi andò a guardare il grande fornello nero
che avevamo visto attraverso la finestra, si abbassò per aprire gli sportelli,
guardandovi dentro con gridolini di piacere, e poi, si alzò con esclamazioni
ancora più acute nel vedere la nicchia sopra il fornello piena di casseruole
e di padelle dal lungo manico, appese ai ganci. A terra, davanti al fornello,
vi era un bollitore di ferro su di un treppiede, che aumentava il fascino del-
l'insieme.
«È come in un vecchio racconto di fate,» gridò Midge.
«Vuoi dire un racconto in cui le streghe bollono rospi e gambe di bam-
bini per fare i loro incantesimi?» chiesi avvicinandomi. Vidi che vi erano
pentole di metallo nero anche nel forno più grande.
«Non intendevo niente di così disgustoso,» mi ammonì Midge. Si chinò
verso la nicchia e sbirciò nel camino. Io mi affrettai a tirarla indietro nel
notare una pericolosa spaccatura nell'architrave sopra il fornello. Lei mi
guardò stupita e io le indicai la fenditura.
«Potrebbe crollare tutto da un momento all'altro,» l'avvertii, e lei ebbe il
buon senso di allontanarsi.
«Stai esagerando.»
«Forse, ma perché correre rischi? Questa è un'altra cosa di cui dobbiamo
prendere nota.»
Midge aggrottò le sopracciglia: non le piaceva l'elenco che stavo già
compilando.
«Dieci a uno che la cappa del camino è chiusa, e non la si potrà aprire
senza prima aver sostituito questa pietra.» Non mi piaceva dover mettere
in evidenza quelle cose, ma bisognava che uno di noi due fosse realistico.
«Forse l'umidità e questo sono gli inconvenienti più gravi,» notò Midge
speranzosa.
Io mi strinsi nelle spalle. Finora avevamo visto solo il pianterreno.
Sotto la finestra da cui avevamo spiato poco prima vi era un grande la-
vandino di pietra, io girai i rubinetti dell'acqua calda e fredda. Entrambi,
dopo vari sbuffi e sussulti fecero correre un'acqua nerastra. Lasciai che
scorresse per circa un minuto, e il colore non cambiò.
«Il serbatoio dev'essere arrugginito,» commentai. «A meno che da que-
ste parti non si beva che questa roba.» Cominciavo a sentirmi un po' pes-
simista.
Intanto Midge stava aprendo gli armadi a muro e i cassetti. Le strutture
di legno erano piuttosto primitive ma non in cattivo stato. Io aprii un'altra
porta aspettandomi di trovare una dispensa o un ripostiglio per le scope, e
invece trovai un gabinetto con uno sciacquone a catena.
«Almeno non dobbiamo servirci di uno sgabuzzino in giardino.» Tirai la
catena e vi fu un gran fracasso mentre veniva giù la solita acqua nerastra
che impiegò un tempo lunghissimo ad andar via gorgogliando, sbuffando e
singhiozzando. «Credo che l'avviso dicesse drenaggio del pozzo nero,»
mormorai chiudendo la porta. «Mi domando quando è stato vuotato per
l'ultima volta, se è stato mai vuotato.»
Midge era in mezzo alla cucina, ed ero sicuro che nulla di tutto ciò che
avevo detto l'aveva spaventata.
«Possiamo andare di sopra, adesso?» chiese.
«Non è il caso di aspettare,» risposi.
«Cerca di essere di vedute un po' più larghe, Mike.»
«Se anche tu farai altrettanto».
Non vi era irritazione nelle nostre parole; avevamo troppa fiducia l'uno
nell'altro per badare a queste piccolezze. Potrei dire che avevamo entrambi
un velo di apprensione; ognuno temeva che l'altro rimanesse deluso. Sape-
vo che Midge desiderava davvero che il posto mi piacesse, e io avrei fatto
quasi qualsiasi cosa per compiacerla. Ma non stavamo parlando solo di una
questione finanziaria: era anche una questione di vivere comune. Se la co-
sa doveva funzionare doveva essere giusta.
Salimmo le scale del secondo piano tenendoci per mano: Midge guidava
quasi tirandomi dietro di sé.
Le scale voltarono in un piccolo vestibolo, la cui porta esterna avevo
cercato di aprire, alla nostra destra e, a sinistra, l'arco che dava sulla stanza
rotonda. I raggi del sole ci colpirono come una leggera esplosione e, per un
incredibile istante, ebbi l'impressione di fluttuare nell'aria. Questa sensa-
zione fu così forte che ebbi un capogiro, e solo Midge, stringendomi la
mano e tenendomi saldamente, mi impedì di cadere all'indietro giù per le
scale. Sbattei gli occhi, accecato dall'improvviso bagliore, e la dolce im-
magine di Midge mi si presentò a lampi come se stessi cadendo in un so-
gnante, vago deliquio. Ricordo di essermi concentrato nei suoi occhi lu-
centi e caldi, con una fiducia che mi avvolgeva e mi rassicurava. La visio-
ne si chiari e io fui vagamente consapevole che, sebbene fossero passati
solo un secondo o due, una grande estensione di tempo si era svolta dinan-
zi a me.
Mi trovai nella stanza rotonda pur non ricordando di esservi entrato.
Fuori il sole abbagliava, e la campagna, attraverso le grandi finestre, sem-
brava microcosmicamente chiara come se potessi vedere ogni singola fo-
glia, ogni filo d'erba come un'entità distinta. Il cielo era del più puro azzur-
ro che avessi mai visto. Mi illusi di capire questa improvvisa e innaturale
lucentezza. Avevo sentito dire che gli effetti di certe droghe possono affio-
rare in noi quando meno ce lo aspettiamo, anche anni dopo averle usate, e
io non trovavo alcun piacere in questo, solo una profonda vergogna. Sup-
posi che l'improvviso cambiamento dall'ombra fredda alla luce fulgente
fosse stato provocato da sostanze chimiche che permanevano nella mia
mente - il bagliore di un lampo può avere talora lo stesso effetto - portan-
domi in un breve viaggio allucinato. Così pensai allora, e ancora oggi non
escludo questa possibilità.
Presto i miei occhi si rimisero a fuoco (o forse sarebbe più esatto dire
che si "sfuocarono") tornando alla normalità. Midge mi teneva il volto fra
le mani e mi studiava con lo stesso interesse di poco prima.
«Ti senti bene?» mi chiese accarezzandomi dolcemente.
«Sì, credo di sì. Sì, sto bene.» E, quanto all'umore, stavo bene, l'improv-
viso venir meno della percezione era svanito lasciando solo un vago ricor-
do di quella sensazione. «Mi sono sentito mancare per un momento, deve
essere stato il cambiamento di altezza dal primo al secondo piano,» scher-
zai.
«Sei sicuro di star bene?»
«Sì, tranquillizzati, sto benissimo.»
Mi guardai attorno, adesso vedevo la stanza e non più la campagna.
«Questa è diversa,» dissi con un breve fischio di approvazione.
«Non è bella, Mike?» Midge sprizzava gioia da tutti i pori. Si allontanò
da me, fece un rapido giro e si fermò davanti a un vecchio caminetto di
rozzi mattoni. Posò un gomito sulla stretta mensola e mi sorrise con gli oc-
chi scintillanti di gioia.
«Da un altro aspetto alle cose, non è vero?» disse.
Era certamente così. Vi era un calore, in questa stanza, dovuto ai raggi
diretti del sole che si riflettevano sulle mura; ma vi era anche qualche cosa
di più, una vivacità, una vitalità, qualche cosa di intangibile ma tuttavia re-
ale. Devi essere aperto a questo, tuttavia, mi sussurrò una vocina dentro di
me. Devi volerlo sentire. A volte sono un cinico, ma ho anche sentimenti
più sottili, e l'atmosfera della stanza, unita all'entusiasmo di Midge, libera-
va in qualche modo questi sentimenti. E tuttavia un'altra parte di me stesso
si chiedeva se sarebbe stato lo stesso d'inverno, quando nubi colme di
pioggia avrebbero nascosto il sole. Questa energia interiore sarebbe rima-
sta? Quella magia: quella parola echeggiò nella mia mente per la prima
volta, si sarebbe dissolta? Ma in quel momento non vi badai. Il presente e
il desiderio improvviso di andare a vivere in quel posto erano tutto ciò che
contava.
Andai da Midge e la strinsi a me così forte da mozzarle il fiato. «Sai,
comincia a operare anche su di me,» le dissi senza capire veramente quello
che dicevo.
Il resto della casa fu una delusione. Trovammo una lunga spaccatura ra-
mificata, che andava dal pavimento al soffitto in una delle stanze, e della
muffa sulle pareti in un'altra.
Il piccolo bagno era funzionale, e la vasca da bagno aveva delle chiazze
giallastre. La scala portava a un semplice attico con stanze di strana forma
ricavate nel tetto, poco rischiarate da piccole finestre. I soffitti, tuttavia, e-
rano ben squadrati, e da una botola si poteva salire nella soffitta. Avrei a-
vuto bisogno di una sedia o di una scala per andare a darvi un'occhiata, co-
sì lasciai correre; ma immaginai che nel tetto dovevano esserci molte aper-
ture giudicando dalle numerose tegole rotte sparse sul terreno esterno. I-
spezionammo il secondo e il terzo piano trovando telai di finestre rotti,
armadi a muro in rovina, porte che non si chiudevano, chiazze d'umidità e
altre crepe nei muri sebbene meno evidenti di quella che andava dal pavi-
mento al soffitto. Anche le scale protestavano sotto il nostro peso e un'asse
si piegò tanto che mi affrettai a saltar via temendo che si spezzasse. E natu-
ralmente tutto era coperto da uno spesso strato di polvere.
Non so perché ma evitammo di tornare nella stanza rotonda: forse senti-
vamo inconsciamente che la sua atmosfera aveva su di noi effetti troppo
intensi per essere sperimentati due volte in un giorno, o forse desiderava-
mo solo mantenere una certa obiettività dopo avere visitato il resto del vil-
lino. Non ebbi difficoltà nel girare la chiave quando chiusi dietro di noi la
porta d'ingresso, e ripercorremmo il sentiero più lentamente che all'andata.
Passato il cancello, Midge e io ci voltammo e ci appoggiammo al cofano
dell'automobile, io con un braccio sulle spalle di lei, entrambi assorti per
un momento nei nostri pensieri. Lo squallore del giardino e le misere con-
dizioni di tutto l'edificio sembravano essersi impressi molto fortemente in
me e, quando guardai Midge, ebbi la certezza di vedere un'ombra di dub-
bio anche nei suoi occhi.
Ero turbato dallo svanire del mio entusiasmo e avrei voluto che lei di-
cesse qualcosa per farmelo ritrovare. La sua incertezza era l'ultima cosa
che mi aspettavo.
Diedi un'occhiata all'orologio e dissi: «Andiamo a discutere la cosa da-
vanti a un bel bicchiere di birra e a un panino.»
I suoi occhi non lasciarono Gramarye mentre salivamo in macchina e,
quando avviai il motore, allungò il collo per dare un ultimo sguardo dal fi-
nestrino posteriore. Non invertii la marcia, ma proseguii nella stessa dire-
zione seguita nel cercare il villino, ricordando che, nel viaggio di andata,
non avevamo incontrato né un bar né un ristorante. Dopo una decina di
minuti buona trovai quello che cercavo e fui molto soddisfatto. Un'osteria
costruita con travi di solida quercia dipinte di un bianco smagliante con un
irsuto tetto di paglia. Rozzi tavoli di legno e panche nel giardino senza
ombrelloni con scritte pubblicitarie che sciupassero il fascino campestre.
L'Osteria della Foresta mi piacque a prima vista.
Nemmeno l'interno fu una delusione: lampioni da carrozza, finimenti da
cavallo di ottone e di cuoio fissati ai muri, un enorme camino nel quale si
sarebbe potuto arrostire un maiale, il distributore delle sigarette discreta-
mente nascosto in un angolo buio. Nessun juke-box, nessun gioco elettro-
nico. Nemmeno il forno a microonde sul banco, sebbene un menù scritto
su una lavagnetta avvertisse che si potevano avere spuntini caldi. L'osteria
aveva parecchi clienti sebbene non si potesse dire affollata, e io ordinai
una pinta di birra per me e un succo d'arancia per Midge al grosso barista
con le guance venate di azzurro e con lunghi ciuffi di capelli incollati ai la-
ti di un cranio peraltro calvo. Aveva il portamento autoritario di un signo-
rotto di campagna.
«Di passaggio?» chiese senza alcuna curiosità mentre riempiva di birra il
boccale.
lo stavo studiando la lista dei cibi e risposi distrattamente: «Più o me-
no.» Poi, rendendomi conto che avrebbe potuto darci qualche informazio-
ne sulla località, se non sul villino, aggiunsi: «Siamo andati a vedere una
casa in vendita non lontano da qui.»
Lui alzò le ciglia. «La casa della vecchia Flora Chaldean, vero?» Arrota-
va un po' la erre.
Assentii: «Sì, Gramarye.»
Lui ebbe un riso soffocato prima di voltarsi a prendere una bottiglia di
succo d'arancia, e Midge e io ci scambiammo uno sguardo stupito.
«Un bel posticino, quella villetta,» suggerii mentre lui versava il succo.
Lui alzò lo sguardo, prima su di me e poi su Midge, sempre versando e
sempre sorridendo, ma si limitò a dirci il prezzo delle consumazioni.
Midge di solito è molto riservata, per non dire schiva, così che rimasi
stupito quando disse fredda e a chiare lettere: «C'è qualche cosa di buffo in
questo?»
Il barista tornò a considerarla e notai che, come molti altri prima di lui,
non era del tutto indifferente al suo aspetto. Quanto a me, mi sentivo un
blocco di cemento nello stomaco. Come ho detto era grosso, e devo ag-
giungere che le sue braccia nude appoggiate sul banco, apparivano forti
come quelle di un muratore. Mandai giù un sorso di birra mentre lui si
sporgeva in avanti.
«Mi scusi, signorina,» disse. «Non volevo essere maleducato.» E poi si
affrettò verso l'altra estremità del banco per servire un altro cliente.
Stacci attento un'altra volta, gli intimai, naturalmente fra me. «L'idea
Midge,» dissi pazientemente, «era quella di fare conoscenza con la gente
del luogo. Non abbiamo ordinato niente da mangiare.»
«Non ho più appetito. Possiamo sederci fuori?»
Nel giardino solo pochi tavoli erano occupati, e noi ci sedemmo a uno
un po' appartato. Posai i bicchieri sulla ruvida superficie e mi sedetti su di
una panca di fronte a Midge (ci è sempre piaciuto guardarci direttamente).
Mi accorsi che era sempre imbronciata con ^barista, così le accarezzai una
mano sorridendo.
«E il modo della gente del luogo per tenere i visitatori al loro posto fa-
cendogli capire che ne sanno più di loro» spiegai.
«Che cosa? Quell'uomo? Oh, no, non ne faccio alcun conto. Flora Chal-
dean era probabilmente l'eccentrica del luogo, una di cui si poteva sorride-
re perché era diversa da loro. Doveva essere una vecchietta solitària, senza
famiglia, che viveva per conto suo. No, io pensavo a Gramarye.» Prese un
sorso di succo d'arancia.
«Non sei più tanto entusiasta, adesso?»
Parve colpita. «Oh, sono più che entusiasta. Ma sembra che in quel villi-
no vi siano degli elementi in contrasto.»
Questa volta fui io a rimanere colpito. «Di che diavolo stai parlando?»
«Quel luogo così vuoto...»
«È rimasto disabitato per molto tempo.»
«Sì, ma non hai notato? Non c'erano ragni né ragnatele, né insetti di
qualsiasi genere. Non vi erano nemmeno tracce di topi. Non vi erano uc-
celli annidati sui cornicioni, sebbene il villino sia circondato da un bosco.
Gramarye è un guscio vuoto.»
Non lo avevo notato, ma aveva ragione: avrebbe dovuto essere un para-
diso per animali striscianti e uccelli nidificatori.
«E tuttavia,» continuò lei, «la stanza rotonda aveva un'atmosfera così
particolare. Tu l'hai sentito: là dentro ti è successo qualche cosa.»
«Sì, ho avuto un capogiro, niente altro. Forse era la fame.» Diedi un'oc-
chiata bramosa all'osteria.
«Solo questo?»
Non volevo entrare nell'argomento. «In che senso?» «Credo che il sole
mi abbia accecato mentre salivo le scale. Il bagliore mi ha un po' annebbia-
to il cervello.»
Mi studiò per un paio di secondi, poi disse: «Bene.» Solo questo. Nessu-
na obiezione, nessuna discussione. Aveva accettato il fatto che non deside-
ravo aggiungere altro. Per questo era così facile vivere con Midge.
Bevvi metà della birra mentre Midge mi guardava. Occhi inclinati, ca-
pelli neri e un delicato mento appuntito. Per questo, a volte, la chiamavo
Folletto.
«E adesso dove andiamo?» chiesi passandomi il dorso della mano sulle
labbra. «Sono preoccupato di quanto ci costerà rimettere in sesto quel luo-
go.»
«Ma a te piace, non è vero?» Si chinò sopra il tavolo con un sussurro di
complicità fissandomi ancora con quel suo sorriso. «Non ti sembra che la
posizione sia ideale? Immagina quanto lavoro potremo fare. I miei disegni,
la tua musica. Mike, potrai far tanto, lo sai. E forse scriverai finalmente
quelle storie per bambini che io illustrerò. Saremo una coppia formidabi-
le!»
lo meditai su tutto questo. A volte Midge fuggiva in un mondo tutto suo,
lontanissimo dalle città soffocanti e dagli avidi mortali, e aveva l'abilità di
attirarvi anche gli altri... se voleva. Io dovevo rimanere per lo più il prag-
matista, sebbene non cessassi di stupirmi di quanto realista e terra terra po-
tesse essere quando era necessario.
«Senti, adesso ti dirò quello che faremo,» dissi. «Torniamo dall'agente e
mettiamo le carte in tavola. Gli facciamo notare tutte le magagne che ci
sono, grandi e piccole, e proponiamo un'offerta più bassa per coprire le
spese. Se Bickleshift ci sta, bene; altrimenti... dovremo affrontare la real-
tà.»
Lei non poté fare obiezioni, ma io non potei fare a meno di rimprove-
rarmi per averla messa in ansia.
E così facemmo. Finimmo di bere e tornammo a Cantrip, io con lo sto-
maco che brontolava e Midge in silenzio. Quando passammo davanti a
Gramarye, voltò lo sguardo verso il villino e ancora una volta tenne il collo
teso finché non lo perse di vista.
Arrivammo al villaggio un bel po' dopo mezzogiorno e trovammo Bi-
ckleshift che si domandava come passare il resto della giornata. Gli spiegai
la situazione dicendogli che il villino ci piaceva, che avremmo voluto ac-
quistarlo, ma che vi erano degli inconvenienti gravi, degni di attenzione
perché avrebbero inciso profondamente sulle nostre finanze. Che ne diceva
di una diminuzione di quattromila sterline sul prezzo stabilito?
Lui fu comprensivo e ci capì perfettamente, ma disse di no.
L'avviso avvertiva che Gramarye richiedeva alcuni restauri, e probabil-
mente sarebbero costati cari. Ma lui non aveva l'autorità di accettare questo
ribasso né, dovette ammetterlo, era professionalmente incline a farlo. Dopo
tutto era una «proprietà desiderabile» in un luogo altrettanto «desiderabi-
le».
Mi accorsi che Midge aveva perso il suo entusiasmo e la delusione assalì
anche me. Sebbene avessi sentimenti contrastanti circa l'affare, l'apprende-
re che non potevamo farvi fronte in alcun modo mi lasciò più frustrato di
quanto credessi. Tentai un ribasso di tremila sterline.
Bickleshift rimase fermo spiegando che gli esecutori del testamento di
Flora Chaldean avevano stabilito un prezzo minimo, senza contare che noi
eravamo solo i primi di una lunga lista di altri possibili acquirenti. Ci disse
questo in modo molto amichevole, ma gli agenti immobiliari non brillano
per generosità.
Il nostro problema era che non solo avremmo dovuto vivere a Gramarye,
ma avremmo anche dovuto lavorarvi, così che le condizioni dovevano es-
sere ragionevoli per entrambi. Inoltre avrei dovuto costruire un sia pur pic-
colissimo studio di registrazione; niente di straordinario, ma anche il mi-
nimo indispensabile avrebbe richiesto una certa quantità di denaro. E non
era facile trovarlo, inutile cercare di illuderci. L'idea era buona ma non at-
tuabile. Addio nido d'amore in campagna.
Ce ne andammo col cuore pesante e con la promessa, da parte di Bickle-
shift, di tenersi in contatto con noi se vi fossero stati ulteriori sviluppi. Mi-
dge non pronunciò parola per tutto il viaggio di ritorno, e io non potei dir
nulla per consolarla.
Quella notte pianse durante il sonno.

6.
TRE COLPI DI FORTUNA

Un vecchio proverbio cinese che ho appena inventato dice: Quando la


fortuna è dalla vostra parte, il denaro non serve.
Il mattino dopo, il campanello ci svegliò verso le otto e mezzo: orario
quasi impensabile per me e Midge che scese dal letto per rispondere. Con
un occhio aperto vidi la sua faccia ancora gonfia e gli occhi arrossati dalle
lacrime mentre lei si infilava la vestaglia e lasciava la stanza da letto. Mu-
golai e affondai la testa nel cuscino quando, dopo che lei ebbe aperto la
porta d'entrata udii il familiare grugnito: «Buon giorno». Val Harradine, la
sua agente, si annunciò nel primo mattino.
Le voci passarono nella cucina, quella di Midge appena udibile e quella
della grossa Val rauca come quella di un asmatico fumatore. Val era una
donna a posto, sebbene un tantino prepotente; quello che mi irritava era il
modo in cui a volte costringeva Midge ad accettare un lavoro che non le
piaceva. Quando seppi dello scopo della sua visita, quel mattino, avrei ba-
ciato la sua testona, baffi e tutto.
Midge tornò volando nella stanza da letto e saltò sul letto mettendosi a
cavalcioni sul mio stomaco e scuotendomi le spalle, lo gemetti e tentai di
sottrarmi al suo peso.
«Non te lo immagineresti mai,» gridò lei inchiodandomi lì e ridendo.
«Andiamo, Midge, è troppo presto,» protestai.
«Valerie, ieri, ha tentato di telefonarmi per tutto il giorno...»
«Una notizia meravigliosa. Vuoi toglierti di lì?»
«Non ha potuto avvisarci eravamo via, e ieri sera non ha potuto chia-
marci perché era fuori casa lei.»
«È fascino...»
«Ascolta. Ieri mattina è andata all'agenzia d'arte Gross e Newby.»
«L'agenzia che non ti piace.»
«L'adoro. Fanno una grande mostra la settimana prossima, e il direttore
vuole che mi occupi dei manifesti. Ne vogliono tre, Mike, e pagano bene.»
A differenza degli editori di libri e di riviste, le agenzie pubblicitarie pa-
gano bene le prestazioni artistiche - di solito paga il cliente - così che mi
passarono per la testa fasci di assegni disperdendo le ultime ombre del
sonno.
«Cinquecento sterline al pezzo,» disse una voce rauca. Alzai gli occhi
per vedere la grande faccia della Grossa Val che spiava dalla porta, una vi-
sione non proprio piacevole per uno stomaco vuoto, anche se oppresso dal
peso di Midge. Tuttavia, in quel particolare momento, era la benvenuta e
feci del mio meglio per essere gentile.
«Meno il suo venti per cento,» dissi.
«Naturalmente,» rispose lei senza sorridere.
Le inviai comunque un bacio: non sarebbe stato decente, mezzo nudo
com'ero, farlo fisicamente. Sempre con le mani sulle gambe di Midge,
chiesi sospettoso: «Per quando li vuole?»
«Per lunedì,» mi rispose lei.
«Midge, dovrai sgobbare mica male.»
«Andrà benissimo, lavorerò nel fine settimana. Se la mostra va bene l'a-
genzia raddoppierà il compenso.»
«Tremila?»
«Meno il mio venti per cento,» intervenne la Grossa Val.
«Naturalmente.»
L'idea che Midge dovesse fare tre di queste illustrazioni mi preoccupava:
lei non si risparmiava nel suo lavoro, né barava, e aveva uno stile partico-
larmente raffinato nei particolari. Anche con quei limiti di tempo, sapevo
che ci avrebbe messo tutta se stessa in quei disegni.
«Ti rendi conto di che cosa significa, Mike?» mi chiese con gli occhi
sgranati scintillanti. «Potremo comprare il villino, potremo accettare la lo-
ro richiesta.»
«Non proprio.» Le ricordai tutte le spese necessarie. «Ci mancheranno
sempre un migliaio di sterline, anche se tu ottenessi l'intero importo per i
manifesti.» Se pensavo che quella mia frase avrebbe gettato una nube sui
progetti di Midge mi sbagliavo. Le mie parole non le fecero alcuna im-
pressione.
«So che sta andando tutto benissimo. Lo sapevo appena mi sono sveglia-
ta stamattina.»
«Margaret, dobbiamo sbrigarci,» la interruppe "Venti per Cento". «Ho
promesso che ti avrei accompagnato all'agenzia, per ricevere istruzioni,
subito dopo le nove. Scendo a cercare una macchina; ti do cinque minuti
per raggiungermi.
Sette minuti dopo, Midge se n'era andata lasciandomi l'umida impronta
di un bacio su una guancia e un po' confuso. Ero contento e preoccupato al
tempo stesso. Il denaro poteva permetterci di impegnarci per i lavori che si
dovevano fare a Gramarye, forse. In ogni caso promisi a Midge, prima che
mi lasciasse, che avrei telefonato a Bickleshift per fargli una nuova propo-
sta. Ma le cose andarono in modo diverso.
Mi ero rasato, avevo fatto il bagno e stavo facendo colazione leggendo il
Rolling Stone, quando il telefono squillò. Bickleshift era all'altro capo della
linea.
«Il signor Stringer?»
«Sì.» Bevvi un sorso del caffè che avevo portato con me, e mi bruciai le
labbra.
«Sono Bickleshift.»
Mi feci subito attento. «Oh, lei!»
«Le ho detto che le avrei telefonato se vi fossero stati altri sviluppi. Ieri
ho valutato la sua situazione e mi sono preso la libertà di prender contatto
con gli esecutori della defunta Flora Chaldean.»
Non dissi nulla della lunga lista di probabili clienti di cui ci aveva parla-
to. «Davvero? E stato molto gentile da parte sua.»
«Vede, non so come spiegarle, ma la vendita di Gramarye rappresenta
per me qualcosa di diverso dalle vendite che ho trattato in precedenza.
«Non capisco...»
«Ecco, indipendentemente dal prezzo, vi sono altri aspetti relativi alla
vendita. L'avvocato che si occupa della cosa, un certo signor Ogborn, della
Ogborn, Puckridge & Quenby, mi ha pregato di fargli sapere qualche cosa
sul... come dire?... sull'acquirente interessato al villino. Sembra che Flora
Chaldean avesse delle idee precise su chi poteva comprarlo qualora sua ni-
pote lo avesse messo in vendita.»
«Capisco.» In realtà non avevo capito niente, ma cos'altro potevo dire?
«Il signor Ogborn chiede se è possibile per lei e sua... e per la signorina
Gudgeon, passare dai suoi uffici a Burbury, domani mattina o anche oggi.»
«Hhm, è un po' difficile. Non credo che Midge possa oggi... è molto pre-
sa in questi giorni.» Non mi piaceva l'idea di essere sottoposto a una specie
di esame.
«Ah.» Vi fu un breve silenzio all'altro capo. «È importante che ci sia an-
che la sua amica. Il signor Ogborn è molto ansioso di conoscervi.
Qualche volta io ho delle intuizioni, e qualche cosa mi diceva che per il
signor Ogborn era Midge la parte importante della nostra coppia. «Al mo-
mento non è qui, e così non posso darle una risposta definitiva. Spero che
ci riusciremo.» Povera Midge, stava per essere messa davvero sotto pres-
sione.
«Sarebbe un'ottima cosa. Le do il numero di telefono della Ogborn, Pu-
ckridge & Quenby, così potrete mettervi d'accordo per un appuntamento.
Riguardo alla sua prima offerta, credo che troverà il signor Ogborn molto
accomodante anche se non scenderà proprio alla cifra da lei suggerita.
Comunque, buona fortuna.»
Annotai il numero e ci salutammo. Forse ero rimasto un po' confuso da
quella telefonata perché quando tornai in cucina, rimasi lì seduto per qual-
che tempo fissando la tazza di muesli e domandandomi che diavolo succe-
deva. Ma le sorprese del mattino non erano ancora finite.
Un'oretta più tardi ricevetti un'altra telefonata. Midge non era ancora
tornata e io stavo pensando se telefonare o no all'agenzia per avere sue no-
tizie. Me n'ero rimasto seduto al tavolo della cucina, in jeans e maglietta,
facendo calcoli su di un foglietto mentre, appoggiata a una bottiglia di latte
davanti a me, c'era una lista degli inconvenienti di Gramarye che dovevano
essere sistemati (come la crepa che andava dal pavimento al soffitto nella
stanza da letto). Tornai al telefono sistemandomi la matita sull'orecchio e
mormorando numeri fra me. Il telefono squillò.
«Mike? Sono Bob.»
Bob è un impresario di tournée per complessi rock e simili, un mio ami-
co di vecchia data. Eravamo sempre in coppia, ma io ero quello che era
riuscito a conquistarsi la ragazza ambita da tutti. Fortunatamente Bob non
è affatto un tipo geloso.
«Oh, Bob, come va?»
«Lascia perdere. Sei libero la settimana prossima?»
«Posso trovare un momento.»
«Intendo tutta la settimana. Gli Everly sono ancora in città.»
«Un'altra tournée?»
«A colpo sicuro. Albert sta mettendo insieme un nuovo complesso e
vuole sapere se sei libero.»
«Stai scherzando?»
«L'ho mai fatto?»
«Sì, sono libero. Posso liberarmi da tutti gli impegni.»
«Conosci la loro routine?»
«Sono un po' più vecchiotti di me; ma la routine la conosco, Albert mi
metterà al corrente di tutto.
«Magnifico. È un colpo di fortuna!»
Terzo colpo di fortuna.
Dopo esserci accordati sui particolari e aver promesso che ci saremmo
visti per «un goccetto» nel prossimo futuro, riappesi e tornai in cucina
scuotendo la testa pensando a quella strana giornata. Adesso non avevo più
scuse per non comprare il villino, e non ero sicuro dei miei sentimenti al
riguardo. Tuttavia sorridevo immaginandomi la faccia di Midge quando le
avrei raccontato le novità.

7.
OGBORN

Il giorno dopo partimmo presto per Bunbury. La reazione di Midge


quando era tornata dall'agenzia e io le ebbi detto delle due telefonate, mi
aveva sorpreso: si limitò a sorridere come se tutto il succederei degli eventi
fosse stato perfettamente previsto. Mi gettò le braccia al collo, mi baciò sul
naso e mi disse enigmaticamente: «Sapevo che sarebbe andata così.»
Lavorando sugli abbozzi di disegno che il direttore le aveva consegnato
(il cliente era una catena di negozi d'abbigliamento per ragazzi, da 0 a 12
anni) aveva schizzato tutti e tre i manifesti quella notte stessa, lo avevo te-
lefonato al procuratore Ogborn nelle prime ore del pomeriggio e fissato un
appuntamento nel suo ufficio per il mattino seguente alle dieci e mezzo.
Lui disse che era ansioso di incontrarci.
Il viaggio implicava la perdita di un giorno intero per quel che riguarda-
va l'impegno di Midge, ma lei era pronta a lavorare notte e giorno per il re-
sto della settimana e a finire le illustrazioni per il lunedì. L'agenzia ne ave-
va bisogno per poterne fare delle copie fotografìche, con le iscrizioni ag-
giunte e presentarle al cliente entro la settimana. Come tutte le cose artisti-
che, i disegni potevano andare benissimo al primo colpo o in modo disa-
stroso: per amor di Midge, pregavo il cielo che si avverasse il primo caso.
Bunbury risultò essere una di quelle fiorenti città commerciali molto più
piacevoli del villaggio di Cantrip: strade strette, case e osterie rivestite di
legno, frontoni a timpano e negozi con le finestre ad arco: subito fuori del-
l'affollata piazza del mercato, vi era un viale moderno pieno di negozi, ma
anche questo si fondeva armoniosamente con i più vecchi fabbricati attor-
no. Vi era un vivace trambusto che ci rianimava dopo la levata mattutina e
il lungo viaggio. Trovammo gli uffici della Ogborn, Puckridge & Quenby
in una strada senza uscita appartata, pavimentata a ciottoli, con vecchi edi-
fici a terrazze, di mattoni rossi, protetti da ringhiere alte fino alla spalla e
rampe di gradini che portavano a ogni portone. L'interno della O. P. & Q
era piuttosto austero, funzionale senza ornamenti, dignitoso ma privo di
carattere. Non vi erano ornamenti nemmeno nel signor Ogborn sebbene
avesse indubbiamente una dignità vecchio stile e un aspetto che ricordava
certi personaggi di Dickens. Non era facile dargli un'età, comunque doveva
essere fra i sessanta e gli ottanta.
Aveva modi pacati ma vivaci, il dorso un poco incurvato, la figura sotti-
le. Gli occhiali cerchiati d'oro posavano su di un naso spudoratamente a-
dunco, e i suoi occhi dalle lunghe ciglia erano del grigio più pallido che
avessi mai visto; ma non erano duri.
Mi tese una lunga mano ossuta e, quando la strinsi, fui sorpreso dalla so-
lidità della sua stretta. Trattenne quella di Midge un poco più a lungo del
necessario, o così mi parve, e la scrutò con un interesse che non aveva di-
mostrato per me. Forse non si è mai troppo vecchi. Ci aveva condotti nel
suo ufficio una segretaria che non doveva essere molto più giovane di O-
gborn e che lo trattava con la tranquilla reverenza che può essere dovuta a
un cardinale o a un presentatore televisivo. Quando ci lasciò, chiudendo
piano la porta dietro di sé, Ogborn ci indicò due sedie di fronte alla sua
scrivania rivestita di cuoio. Midge e io ci sedemmo.
«Siete stati molto gentili a venire fino a qui» cominciò con voce secca e
fragile probabilmente come le sue vecchie ossa. «Il signor Bickleshift mi
ha informato del vostro interesse per Gramarye e ho pensato che sarebbe
stato opportuno incontrarci. Credo che siate veramente interessati alla pro-
prietà.»
La risposta di Midge fu pronta. «Ci piacerebbe acquistare il villino.»
Io mi accomodai sulla sedia approvando, quando il procuratore si rivolse
a me.
«Ma le esigenze finanziarie sembrano darvi qualche problema.»
Questa volta fui più rapido di Midge. «Il luogo esige parecchi restauri.
C'è una grande crepa...»
«Sì, mi rendo conto che il villino si è deteriorato negli ultimi mesi,» mi
interruppe. «Come esecutore di Flora Chaldean, ho l'autorità di considerare
ogni offerta ragionevole e credo che quanto prima Gramarye sarà occupa-
ta, tanto meglio sarà per le sue condizioni generali.»
«Bene, sarà necessaria una somma considerevole per prevenire ulteriori
deterioramenti, signor Ogborn,» gli feci notare.
«Certo. Denaro e buona volontà.»
Buona volontà?
Sorrise alla mia silenziosa sorpresa. «Sono convinto che le case vivano e
respirino attraverso le persone che vi abitano, signor Stringer.»
Io non volevo discutere questo punto, nel momento in cui i negoziati e-
rano ancora in uno stadio «delicato». Ma Midge apparve pronta a conve-
nirne.
«E proprio questo di cui Gramarye ha tanto bisogno adesso, signor O-
gborn: di vita nelle sue mura.»
Non vidi alcun imbarazzo nello sguardo fermo del procuratore, ma mi
affrettai ad aggiungere: «Tutte le case disabitate diventano alla fine dei
mausolei, stantii e decrepiti. Basta un po' d'aria per ravvivarle. A volte...»
«Posso farle una domanda personale, signorina Gudgeon?» chiese O-
gborn.
«Prego,» rispose Midge.
«Lei ha un'attività, svolge una professione?»
«Sono illustratrice.»
«Ah.» Sembrò compiaciuto.
«Illustro per lo più libri per bambini.»
«Capisco.» La studiò per alcuni secondi e io cominciai a irritarmi un po-
co per la sua esagerata attenzione.
«Io sono musicista,» dissi.
«Capisco.» Il suo sorriso parve affievolirsi.
«Può dirci qualche cosa su Flora Chalde.an?» chiese Midge. «Deve ave-
re vissuto a Gramarye per molti anni.»
«Sì,» rispose Ogborn raddrizzandosi sulla sedia per quanto glielo per-
metteva la curvatura della spina dorsale. «Mi risulta che era un'orfana a-
dottata dai proprietari del villino, che erano senza figli, prima che scop-
piasse la prima guerra mondiale e che è stata allevata come una figlia. Non
vi fu un atto ufficiale di adozione, e sembra che nessuno sapesse con esat-
tezza la sua età quando morì. Credo che gli anni non avessero un gran si-
gnificato nemmeno per Flora stessa.»
«Si è mai sposata?» chiese Midge.
«Solo per un breve periodo. Suo marito rimase ucciso nell'ultima guerra
dopo solo due o tre anni di matrimonio, credo. La nipote che ha ereditato
la proprietà è sua, e posso aggiungere che rintracciarla non è stato facile. E
sulla sessantina, e non ha alcun interesse per Gramarye cosa comprensibi-
le, date le circostanze.
«E di che cosa viveva la signora Chaldean?»
Se il signor Ogborn trovò indiscreta la domanda di Midge, non lo diede
a vedere. «Oh, i suoi genitori adottivi le avevano lasciato una piccola ere-
dità, e credo che godesse anche della magra pensione di vedova di guerra.
Ho il sospetto che praticasse anche una forma di baratto con le persone del
luogo, una cosa consueta nelle parti più isolate del paese.»
«Una forma di baratto?» Non capivo che cosa avesse a che fare tutto
questo con l'acquisto di una casa, ma volevo approfondire.
«Da queste parti si dice che Flora Chaldean era una guaritrice. Niente di
eccezionale, intendiamoci, ma preparava delle pozioni per i malati del luo-
go, colpiti da raffreddori persistenti, mal di gola e simili, e in cambio loro
le davano polli, conigli, verdure e altre cose. Piccole cose, niente di impor-
tante, niente che avesse a che fare col fisco. Preparava le sue pozioni in ba-
se a vecchi o addirittura antichi rimedi tradizionali. Sembra anche che a-
vesse una straordinaria capacità di guarire animali malati o feriti.» Ogborn
si guardò le mani che teneva intrecciate sul piano del tavolo, e aggiunse
quasi tra sé: «Molto notevole.»
lo quasi sorrisi pensando alle misture e agli incantesimi delle streghe e
alle gambe di bambini bollite. Se avessi potuto farlo senza essere notato,
avrei dato un colpo di gomito a Midge. Invece le rivolsi una rapida occhia-
ta e mi accorsi che stava riflettendo su ciò che Ogborn aveva detto.
Schiarendomi la gola, cercai di riprendere l'argomento. «Quanto al prez-
zo...»
I suoi modi divennero immediatamente più incisivi. «Be', dunque, so che
siete preoccupati del costo. Riconosco che le condizioni della proprietà so-
no peggiorate durante i mesi invernali, dopo la morte del proprietario, e
che forse la prima valutazione era troppo alta, sebbene ultimamente i prez-
zi delle case siano aumentati.»
«Signor Ogborn, il prezzo non è...» cominciò Midge, ma io la interruppi:
«Credo che potremmo incontrarci a metà strada.»
«Lei ha chiesto al signor Bickleschift... una riduzione di tremila sterli-
ne.»
«Veramente quattromila.» Ignorai l'occhiata fulminante che mi lanciò
Midge. Ogborn consultò un taccuino sulla scrivania.
«Ah! Avevo capito tremila,» disse.
«Ebbene sì, si era accennato a questa cifra, ma più riusciremo a rispar-
miare sul prezzo e più potremo spendere per i restauri.»
«Un'altra coppia è venuta da me ieri, e anche loro erano molto interessa-
ti...»
«Ma penso che potremmo racimolare un altro migliaio di sterline.»
«Io mi sono impegnato con la parente della defunta signora Chaldean a
ottenere il miglior prezzo possibile. Comunque devo anche osservare i de-
sideri espressi da Flora Chaldean nel suo testamento. Ossia di trovare una
persona o persone adatte a vivere in Gramarye.»
Questo discorso non mi piacque affatto e ancor meno la sensazione di
non essere incluso in quel plurale. Lui continuava a rivolgersi direttamente
a Midge.
«Che cosa ne direste,» continuò Ogborn, «se vi proponessi una riduzione
di 1500 sterline?»
«Accetteremmo, signor Ogborn,» disse subito Midge.
«Accettiamo,» confermai io più lentamente.
«Allora affare fatto!» concluse Ogborn.
Tirai segretamente un respiro, e Midge, meno introversa, balzò sulla se-
dia. «Magnifico!» esclamò e, senza vergogna, si chinò a baciarmi sulla
guancia.
«Naturalmente dovrò chiedere un deposito,» disse Ogborn, «e spero che
il vostro avvocato si metterà in contatto con me al più presto. Immagino
che facciate l'acquisto con i vostri nomi congiunti.»
Assentimmo mentre lui ci guardava inarcando le sopracciglia. Io mi sen-
tivo in faccia uno sciocco sorriso per l'esuberanza di Midge. Ma non solo
per quella: anch'io ero contento dell'affare. Improvvisamente ero convinto
dell'acquisto. Sì, stavo per godere una vita in campagna. Sarebbe stato un
ritorno alla natura. E Gramarye stava per diventare la nostra prima vera ca-
sa.
Ma ancora una volta quella mia tormentosa meticolosità fece capolino.
«Non capisco una cosa,» dissi a Ogborn. «Il signor Bickleshift aveva ac-
cennato che numerose persone erano interessate al villino.»
«Vi sono state sei richieste da quando è apparso l'annuncio, come le ho
detto; io stesso ho incontrato un'altra giovane coppia proprio ieri sera.»
Mi sentivo indiscreto, ma non potei farne a meno. «E allora perché pro-
prio noi? Non mi fraintenda: per quel che ci riguarda l'affare è fatto; ma mi
domando se le offerte degli altri erano più basse delle nostra.»
Ogborn fu visibilmente divertito. «Al contrario, signor Stringer. Quelli
che erano interessati erano disposti a pagare il prezzo intero.»
Ero sempre più curioso.
Lui continuò: «Ma le ho già spiegato: Flora Chaldean insisteva perché
Gramarye venisse acquistata dalle persone adatte. Alcuni degli altri acqui-
renti erano solo degli speculatori, gente che avrebbe rinnovato, moderniz-
zato il villino e subito dopo lo avrebbe rivenduto a un prezzo esorbitante,
mentre altri volevano usare il villino solo come seconda casa per il fine
settimana. Era molto diverso da quello che la mia defunta cliente aveva in
mente per Gramarye.» Fece una pausa. «E poi c'erano quelli che avevano
programmi del tutto differenti.»
Pronunciò queste ultime parole con voce tranquilla, quasi fra sé.
«Mi scusi,» dissi.
Rimase appoggiato contro lo schienale della sedia. «Non ha importanza,
signor Stringer, non ha importanza. So che adesso avete davanti a voi un
lungo viaggio, e non vi trattengo oltre. Avvertirò Bickleshift del nostro ac-
cordo, e forse lei potrà farmi avere quel deposito entro un paio di giorni:
naturalmente il nostro ufficio provvedere a farle avere i documenti per il
passaggio di proprietà.»
«Mike...» Suggerì Midge.
«Posso darle un assegno immediatamente.» E mi misi una mano in ta-
sca.
«Magnifico. Le consegnerò una ricevuta e l'affare sarà fatto. L'agente mi
ha riferito che voi non avete problemi di vendita di un'altra casa, così non
ci saranno complicazioni.»
«E esatto, attualmente abitiamo in una casa in affitto. Come faceva Bi-
ckleshift a saperlo?»
«Gliel'ho detto io quando ho telefonato lunedì,» rispose Midge. «Ho
pensato che il non dover dipendere da una vendita fosse a nostro favore.»
Era proprio sicura che avremmo comprato quella casa.
Concludemmo l'affare con Ogborn, gli stringemmo la mano e ce ne an-
dammo. Midge era stranamente esausta quando fummo fuori, nonostante
sapessi che era al settimo cielo; mi resi conto che era l'effetto della tensio-
ne degli ultimi due giorni. Avremmo voluto celebrare subito l'evento, ma
purtroppo il lavoro non ce lo permetteva: doveva tornare a casa e comin-
ciare le illustrazioni. D'altra parte io dovevo andare da Albert Lee e lavora-
re agli arrangiamenti per la breve tournée della prossima settimana. Sareb-
be stato un lavoro duro e non vedevo l'ora di cominciare; era passato molto
tempo da quando avevo lasciato quell'attività e avevo quasi dimenticato le
difficoltà che comportava.
Partimmo da Bunbury e chiacchierammo per tutto il viaggio, stupiti del-
la nostra fortuna e facendo programmi. Midge e io avremmo dovuto fare
una bella faticata, ma sapevamo che ne valeva la pena. Oh, se lo sapeva-
mo!

8.
TRASLOCO

Le cinque o sei settimane che seguirono furono una specie di sogno con-
fuso in un veloce susseguirsi di eventi. La tournée degli Everly registrò il
tutto esaurito e io mi divertii un mondo. L'andare in giro per la campagna
dando sei concerti consecutivi in varie città, non mi stancò affatto. Ero in
uno stato di esaltazione che superava tutto. Prima di partire potei vedere il
risultato del febbrile lavoro di Midge e nonostante il mio innato senso cri-
tico, lo trovai BRILLANTE. La campagna pubblicitaria era diretta partico-
larmente ai più piccoli, e il direttore aveva pensato a scene fiabesche, con
castelli bianchi, cupe foreste, elfi danzanti e tutti i motivi tradizionali, a cui
erano sovrapposti fotograficamente elementi moderni. L'abilità del foto-
grafo avrebbe assicurato (si sperava) la giusta armonia. Non ricordo l'effet-
to finale ma so che era un po' grossolano. Non saprei dire se il messaggio
era pacchiano o raffinato, ma sono sicuro che, se ebbero successo, il merito
fu in gran parte del lavoro artistico di Midge.
Grazie alla fama di lei e alla mia capacità di avere un impiego regolare
musicalmente parlando, non fu difficile ottenere un'ipoteca, anche se la
chiedemmo con i nostri nomi congiunti pur essendo solo conviventi. Pro-
babilmente il fatto che ognuno di noi avrebbe potuto far fronte da solo ai
pagamenti influì sull'atteggiamento favorevole della società finanziaria.
Non che chiedessimo molto: avevamo cominciato a depositare i nostri ri-
sparmi in quella società, in vista di questo acquisto, fin da quando eravamo
andati a vivere insieme, e l'ammontare era notevole.
Riuscimmo ad andare al villino solo un paio di volte, nelle settimane che
seguirono, e tutte e due le volte furono giornate nuvolose così che l'im-
pressione non fu la stessa. Il sole dà un senso di calore non soltanto fisico.
Tuttavia fu anche più piacevole perché tutte e due le volte il luogo mi par-
ve più bello.
Mi accordai con una ditta edilizia del luogo perché cominciasse i lavori
non appena fosse stato firmato il contratto definitivo, dando loro un elenco
dei danni che richiedevano un immediato intervento, e un altro di quelli
minori che avrebbero potuto essere riparati in seguito. Le pitture e le deco-
razioni avremmo potuto farle noi, ma tutto quello che richiedeva capacità
tecnica era compito loro. Stabilimmo la data dell'inizio dei lavori, e quel
mattino stesso giunse una strana telefonata.
Midge era uscita con la pioggia per far compere, e io stavo accordando
la mia chitarra, mi sentivo un po' colpevole per aver trascurato il mio stru-
mento, quando O'Malley, il capomastro mi chiamò. Voleva sapere se non
mi ero sbagliato nel fare l'elenco dei danni. Certo in cucina vi era dell'ac-
qua, e il muro addossato al terrapieno doveva essere prosciugato, ma non
aveva trovato traccia di umidità sulle pareti al piano superiore. E che cosa
intendevo per frattura nell'architrave sopra il fornello? La pietra gli sem-
brava perfettamente sana. La crepa dal pavimento al soffitto nella stanza
da letto non era così grave come avevo indicato; poteva essere riparata fa-
cilmente. Vi erano un paio di telai di finestre che dovevano essere sostitui-
ti, ma non era riuscito a trovare alcun gradino pericoloso. Il tetto, certo, ri-
chiedeva un restauro, a meno che non volessi dormire sotto le stelle, ma il
serbatoio dell'acqua non era troppo arrugginito; tuttavia consigliava di so-
stituirlo per evitare problemi più tardi.
Non so se rimasi più stupito nel trovare un capomastro così onesto o per
avere evidentemente esagerato i danni di Gramarye. Comunque erano
buone notizie anche se sconcertanti. Dissi a O'Malley di fare tutto quello
che credeva necessario e tornai alla mia chitarra, disorientato e rallegrato
in eguai misura.
Quando Midge tornò dalle sue compere, bagnata fradicia e con i capelli
incollati sul volto, le raccontai le novità. Lei rimase lì, gocciolante sul tap-
peto, guardandomi sbigottita. Avevamo scritto la lista insieme, in base ad
appunti presi durante una delle nostre visite al villino, così che non si po-
teva pensare a eccessiva immaginazione da parte mia. Ricordo di aver no-
tato allora che i danni non erano così gravi come mi erano parsi la prima
volta, tuttavia erano bene evidenti. Discutemmo il mistero per tutto il po-
meriggio e alla sera, poco prima di andare a letto, non eravamo ancora
giunti a una conclusione soddisfacente. E ci addormentammo ancora per-
plessi.
Il giorno dopo fummo troppo indaffarati per tornare sull'argomento: io
ero impegnato in sedute di registrazione, soprattutto jingle pubblicitari,
molto redditizi; e Midge doveva preparare una serie di illustrazioni per un
nuovo libro, un genere insolito per lei perché si trattava di una raccolta di
ricette culinarie. Dovevamo anche organizzarci per la nostra vita futura:
inviare annunci di cambiamento di indirizzo, far installare l'impianto elet-
trico e il telefono nel villino, firmare assegni per tutti quei lavori e Dio sa
che cos'altro ancora, acquistare nuovi mobili, un fornello elettrico e via di
questo passo.
Bob riuscì a trovarmi, per pochi soldi, un furgone Ford da tre tonnellate,
generalmente usato per trasportare le attrezzature musicali, più un paio di
«gobbi» che sarebbero venuti con esso (i «gobbi» sono quei facchini che
portano grandi amplificatori e altre attrezzature da spettacolo a spettacolo),
così che non era necessario un trasloco fatto da professionisti.
Venne stabilito il giorno del trasloco, e Midge e io rinunciammo a qual-
siasi impegno per un mese. Pensavamo che ci sarebbe voluto tutto questo
tempo, anche facendo in fretta e, sebbene dopo tante spese non avessimo
denaro da buttar via, ne avevamo certo abbastanza per superare il periodo:
gli dèi erano stati benigni, con noi. I manifesti di Midge erano stati accetta-
ti dai negozianti di abiti per ragazzi e, date le clausole finanziarie stabilite
dalla Grossa Val, del 2,25 per cento di interesse in caso di mancato paga-
mento due settimane dopo la consegna, l'onorario era già in banca. Il mio
lavoro fu pagato sulla base di ogni tre ore lavorative, e l'importo fu ricevu-
to con gratitudine alla fine di ogni giornata o mezza giornata.
Il trasloco avvenne in una bella mattina, e noi ci trovavamo nel nostro
appartamento di città, adesso vuoto, dopo avere caricato il furgone che a-
spettava in strada. All'improvviso eravamo un po' amareggiati: avevamo
passato dei bei tempi in quella casa, pur desiderando qualche cosa di più,
qualche cosa di nostro. E il nostro amore si era rafforzato lì.
Ci abbracciammo e demmo un'ultima lunga occhiata in giro. Poi ce ne
andammo.
Ci avviammo verso lo Hampshire la Nuova Foresta e Gramarye coi
"gobbi" nel furgone.

9.
IN CASA NOSTRA

Verso le sei di sera i "gobbi", con i biglietti da dieci sterline in tasca e un


sorriso stanco sul volto, se ne andarono lasciando Midge e me soli in Gra-
marye.
Dalla soglia di casa guardammo il furgone scomparire dietro la curva
della strada, e restammo lì ancora un poco respirando l'aria che si stava rin-
frescando. Io lasciavo vagare lo sguardo sulle distese erbose e i boschi da-
vanti al villino, domandandomi se prima o poi anche quella strada sarebbe
mai divenuta piena di traffico e se tutto quel silenzio non mi avrebbe fatto
ammattire un poco. Da Baron's Court al deserto con un solo salto. Pauroso.
Ma mi sentivo bene, veramente bene. Ero esausto, ma piacevolmente,
non mi sentivo affatto dolere i muscoli. Tirai Midge verso di me, e lei mi
mise un braccio attorno alla vita appoggiandomi la testa sulla spalla.
«Sono così felice, Mike,» disse piano. «Non so dirti quanto. Gramarye
significa tante cose per me.»
Sorrisi e la baciai sulla fronte. «Anche per me, Folletto. Anche per me.
Credo che abbiamo preso la decisione giusta. Guarda, anche i fiori si sono
ravvivati per darci il benvenuto.»
«Dev'essere stata tutta la pioggia di questi giorni; hanno dei colori bel-
lissimi.»
«Qui non c'è bisogno di guardar lontano per trovare l'ispirazione.»
«Ho a portata di mano tutto quello che mi occorre.»
«Davvero?»
«Capisco, ma mi fa bene dirtelo.» 1 suoi occhi brillarono. «Le cose si
stanno mettendo bene, non è vero, Mike?»
«Sì, certo. Dio mio, ho voglia di cantare.»
«Risparmiamelo!»
«Non posso.»
Aprii la bocca, ma lei mi assestò un colpo nelle costole. «Spaventerai gli
animali.»
«Ah, sì. Scusami... Oh! potrei dormire per una settimana.»
«Vuoi una birra?»
«Vuoi dire che Igor e Mango non le hanno fatte fuori tutte?»
«No, li ho tenuti troppo occupati a trasportare i mobili. Si sono concessi
soltanto mezz'ora di riposo per una birra e un panino.»
«Sai di che cosa ho voglia?»
«Hai detto di essere stanco.»
«Non mi riferivo a quello che pensi tu. No, vorrei un tè.»
«Possibile che tu sia lo stesso tipo scatenato con cui ho condiviso un ap-
partamento a Londra? Dev'essere l'effetto dell'aria pura della campagna.
Nemmeno un caffè?»
«No, ho voglia di te.»
«Solo perché ti sono vicina.»
«Strano, ma quando mi sei...» cominciai a cantarellare. Poi le dissi: «Vai
a metter il bollitore sul fuoco»
Lei saltellò in casa ridacchiando fra sé.
Io mi diressi lentamente verso il cancello e sentii avvicinarsi un'automo-
bile. Presto uscì da dietro la curva e io la guardai passare, pensando che i
divertimenti erano ben pochi in questo angolo fra i boschi. I passeggeri
della Citroen si voltarono a guardarmi e io feci loro un cenno amichevole.
Uno di loro, una ragazza, mi sorrise e l'auto scomparve lasciando un legge-
ro odore di benzina dietro a sé.
Finito lo spettacolo, tornai tranquillamente su per il sentiero, guardando
il quadretto da scatola di cioccolatini del villino sullo sfondo del bosco con
i fiori selvatici che ravvivavano il primo piano. Mi sentii pervadere da una
sensazione di contentezza. Questa nuova vita richiedeva una certa abitudi-
ne e c'era ancora molto da fare per rendere il luogo abitabile ma la buona
atmosfera stavano già tessendo il suo incanto, mi calmava e mi divertiva al
tempo stesso e risvegliava i miei sensi per tutto ciò che mi circondava.
Sentivo forte la presenza di Midge entro quelle mura irregolari, come se
fosse diventata all'istante una parte di Gramarye, un poco della sua essen-
za. Apparteneva all'insieme.
Mi fermai di colpo. Attento, mi ammonii, non lasciarti traportare. Non
vorrei dispiacervi, signora Chaldean, ma qui si parla semplicemente di una
casa di mattoni e di calcina con una piacevole vista, non di un tempio. Ri-
presi a camminare scuotendo la testa.
Mi fermai ancora quando vidi un fringuello sulla soglia della porta d'in-
gresso. L'uccellino mi volgeva il dorso guardando nell'interno scuro con
bruschi movimenti, a volte tendendo la testa da un lato, come se ascoltasse
qualcosa. Attesi, non volendo spaventarlo; questo fu il mio primo incontro
ravvicinato con la razza piumata.
Midge apparve sulla soglia muovendosi piano e fischiettandogli un gen-
tile benvenuto. Si inginocchiò nell'avvicinarsi e io mi meravigliai che il
fringuello non fuggisse. Osservai la scena con interesse.
Midge aveva in mano alcune briciole di pane e gliele offerse, ma lui la
guardò con sospetto. Io rimasi immobile godendomi lo spettacolo. Midge
mise le briciole sul pavimento presso la soglia, a pochi centimetri dall'uc-
cello. Il fringuello allungò ancora la testa e la guardò senza badare al cibo.
Poi saltellò fino al margine del gradino e io credetti che volesse entrare.
Ma non fu così: tornò ancora indietro, emise un alto cinguettìo che poteva
essere un saluto e volò via.
Ridemmo tutti e due mentre l'uccellino faceva alcuni rapidi voli sul
giardino prima di scomparire nel bosco vicino, e credo che questo piccolo
episodio sia stato per Midge il più importante della giornata.
«Ecco, » dissi allegramente entrando. «Adesso che sanno che siamo qui
si aspetteranno un caldo ricevimento.»
«Gli abbiamo dato il benvenuto,» rispose Midge rossa in viso per la con-
tentezza.
Sempre ridendo attraversai la stanza e mi rannicchiai vicino alla parete
passando le dita sulla superficie per sentire se c'era umidità.
«Sembra che O'Malley e la sua gente abbiano fatto un buon lavoro,» dis-
si. «Hai dato un'occhiata a quella crepa sul muro al piano di sopra?»
Midge era occupata nell'aprire una scatoletta di cibo pronto. «Sì,» disse
continuando il suo lavoro. «E sparita. Tutta la stanza è stata ridipinta così
non ci si accorge di niente. Hai ancora fame?»
«Qualche cosa di leggero andrebbe bene.»
«Non c'è molta scelta. Domani farò una corsa in paese per rifornirmi, ma
per oggi pizza, hamburger o minestra di verdura.»
«Oh, minestra di verdura. Però ci vorrà un'oretta prima che sia pronta.»
«Bene.» Mi porse la teiera. «A proposito, l'acqua adesso è limpida.»
«Sì, ho già controllato.» Le presi la teiera dalle mani. Eccoci qui, nella
nostra nuova casa. Il mio sorriso adesso doveva tendere al patetico. Le mi-
si la mano libera sulla nuca.
I suoi occhi cominciarono a inumidirsi scintillando, e lei non ebbe biso-
gno di rispondere, proprio alcun bisogno.
Più tardi ci riposammo sulla vecchia panca inchiodata a terra dietro il
villino, e rimanemmo a osservare il sole che tramontava nella foresta scura
e a inzuppare gli ultimi tozzi di pane nella minestra bollente. La sera era
ancora calda e noi eravamo avvolti in un dolce bagliore mentre le mura di
Gramarye si soffondevano di un pallido rosa. Gli uomini di O'Malley ave-
vano lavorato da esperti su quelle mura restaurando le scrostature e rico-
prendole con due mani di pittura. Udivamo il cinguettare degli uccelli che
si preparavano al sonno e, ogni tanto, il passaggio di un'automobile che gi-
rava l'angolo del villino.
Le cose essenziali erano state tolte dall'imballo; la mia attrezzatura mu-
sicale, ancora nelle scatole o incartata, era in una delle stanze dell'attico
che intendevo usare per scrivere o registrare; il tavolo da disegno e il ne-
cessario per il lavoro di Midge erano nella stanza rotonda, che ovviamente
sarebbe stata il nostro soggiorno, ma nella quale lei aveva deciso di lavora-
re. Era una sistemazione sensata alla quale eravamo abituati dato che la sua
attività non disturbava nessuno. Avevo sistemato il nostro letto vicino alla
porta che dava sulla stanza dipinta di fresco, perché nessuno di noi voleva
respirare gli effluvi della vernice durante la notte; poiché quella stanza era
un poco più grande, avremmo portato là il letto non appena l'odore fosse
scomparso. I quadri erano stati ammucchiati contro le pareti e i sopram-
mobili erano sparsi qua e là a gruppi, come amici che si fossero raccolti in
un ambiente a loro estraneo. Ma le sedie, i tavoli, le lampade e gli altri
mobili erano più o meno al loro posto: avremmo finito di sistemare tutto
nei giorni seguenti. La Grossa Val non tardò a telefonare per assicurarsi
che tutto fosse andato bene; fortunatamente non era tipo da perdere tempo
in chiacchiere, e la linea era disturbata, perciò Midge non rimase a lungo al
telefono. Avevamo deciso di rientrare poco prima del tramonto.
«È buona,» dissi leccandomi le labbra.
«Sei sicuro di non avere bisogno d'altro.» «Basta così. Sono troppo stan-
co per aver fame.» «Mmm, anch'io. Non è affascinante la foresta con il so-
le che l'arrossa all'esterno mentre nell'intimo è così scura e misteriosa?»
«Mi fa venire un po' la pelle d'oca.» Finii il resto della minestra e posai a
terra la scodella vuota, accanto a me, tendendomi per prendere la birra.
«Sale già la nebbia.»
«Qui, quando piove, deve essere tutto impregnato d'acqua.» Aprii il ba-
rattolo di birra e bevvi a canna. «Credi che faccia molto freddo, di notte?»
«Forse un po' più di quello a cui è abituata la gente di città ma non credo
che avremo bisogno di stufette elettriche, ancora per un po'.»
«Il buio da queste parti dev'essere pesto. Nella strada non ci sono lam-
pioni.»
Midge tese le esili gambe appoggiando le spalle allo schienale della pan-
ca. «Ti ci abituerai, Mike.»Trasse un lungo e profondo respiro.
«E bello stare a contatto con la natura.»
«In fondo in fondo resti una ragazza di campagna, eh?»
«Certo. Nove anni in città non possono sradicare tutta un'educazione , e
non lo vorrei. » Il cambiamento d'umore fu improvviso, come spesso in
Midge. Abbassò gli occhi. «Vorrei che "loro" avessero potuto vedere
Gramarye, Mike. So che gli sarebbe piaciuta.»
Posai la lattina e le presi una mano fra le mie.
Lei disse piano: «Penso che sperassero che avrei finito con lo sposare un
uomo di campagna o un parroco.» Sorrise, ma con un'espressione di tri-
stezza. «A papà sarebbe piaciuto. Immagino le lunghe sere che avrebbero
passato a parlare del negozio.»
«Non avrebbe trovato molto in comune in me.»
«Oh, Mike, non intendevo questo. Papà ti avrebbe voluto bene. Siete
molto simili in tante cose.»
«Da tutto quello che mi hai raccontato di lui credo che gli avrei voluto
bene anch'io, Midge.»
«La mamma ti avrebbe considerato un mascalzone. Avrebbe detto pro-
prio così: un mascalzone. E ne sarebbe stata contenta.» Una lacrima le rigò
la guancia. «È stato così crudele, Mike, così orribilmente crudele.»
Le misi il braccio sulle spalle e avvicinai la testa alla sua. «Devi cercare
di dimenticare questa parte della tua vita. Loro avrebbero voluto che ricor-
dassi solo gli aspetti piacevoli.»
«Mi è impossibile dimenticare quello che gli è successo.»
«Allora accettalo. Accetta questa crudeltà insieme con tutti i bei ricordi
di allora. E pensa a quanto sarebbero stati orgogliosi di te adesso.»
«E questo che mi fa male. Loro non possono saperlo, non possono sape-
re del mio lavoro, di te, di... di questo posto. Avrebbe significato tanto per
loro. E per me avrebbe significato tanto saperli orgogliosi di me.»
Non potevo dir molto; mi limitai a tenerla stretta e a lasciarla piangere,
sperando, come molte altre volte, che le lacrime fossero per lei uno sfogo.
Non potevo sapere quanto dolore si tenesse ancora dentro; ma potevo esse-
re paziente: lei se lo meritava.
«Scusami, Mike,» disse dopo un poco. «Non volevo sciupare tutto.»
Baciai le sue lacrime. «Non lo hai fatto. Per te è dolce piangere qui e in
quest'ora, vicino a me. Vorrei solo poter fare di più per consolarti.»
«Mi sei sempre di aiuto, mi hai sempre capita. So che è sciocco, da parte
mia, addolorarmi ancora dopo tanti anni...»
«Non vi è un particolare limite di tempo per certi dolori, non è un orolo-
gio che si possa fermare quando si vuole. Deve continuare a scorrere natu-
ralmente.» Le sollevai il mento con un dito. «Ricorda solo quello che ti ha
detto il medico: non lasciare che il dolore dia la sua tinta a tutte le cose. Tu
hai il diritto di essere felice, e questo è ciò che i tuoi genitori avrebbero vo-
luto.»
«Sono così cattiva?»
«No, affatto. Anche se questi ricordi fanno capolino quando sei più feli-
ce.»
«Cioè quando sento di più la loro mancanza.»
Io sentii di non essere all'altezza, e tutto quello che potei offrirle fu il
conforto delle mie braccia e la sincerità dei miei sentimenti. Adesso Midge
non piangeva più e la sua tristezza si era attenuata tanto da permettere l'af-
fiorare di altre emozioni.
Il suo bacio divenne più tenero e i miei sentimenti affondarono nei suoi.
Ero abituato all'intensità sensuale della nostra intimità, specialmente dopo
che lei aveva pianto, ma adesso fui quasi sopraffatto. Quando finalmente ci
staccammo, mi sentii letteralmente preso dalla vertigine e aspirai profon-
damente come un nuotatore dopo una lunga immersione. Anche Midge va-
cillava un poco.
«Quest'aria di campagna ha uno strano effetto, » scherzai, ma fui inca-
pace di controllare un tremito della voce.
«Penso... penso che dovremmo rientrare,» disse lei col volto inondato
dal caldo fulgore del sole al tramonto. Sebbene nel suo tono non vi fosse
nemmeno un'ombra di sensualità, entrambi riconoscemmo il nostro reci-
proco impulso.
Mi alzai portandola su con me. «E stata una giornata faticosa,» mormo-
rai.
«Una lunga giornata,» rispose lei.
«Abbiamo bisogno di riposo.»
Midge si limitò ad annuire. Mi prese la mano e mi condusse verso la
porta sul retro, ma ci fermammo stupiti nel guardare attraverso una fine-
stra. Sentii Midge sussultare e la sua mano si irrigidì nella mia.
La stanza rotonda sembrava in fiamme, tanto vividi erano i riflessi del
sole morente sulle sue mura ricurve.
Tuttavia in quel fenomeno non vi era nulla di pauroso perché quel fulgo-
re era pacifico, stranamente calmante, senza alcuna violenza. Sostammo a
osservare, e anche le nostre ombre erano soffuse di una dolce tinta rossa-
stra.
Mi voltai verso Midge e per un folle momento mi parve di vedere picco-
li fuochi danzare nei suoi occhi, ma quando sbattè le ciglia scomparvero,
lasciando solo il riflesso del calore che emanava da lei. Sembrava serena
stando lì con le labbra curvate in un piccolo sorriso consapevole, i capelli
colorati di un ricco biondo rame dal sole dietro di lei; e, per qualche ragio-
ne, sentii una sottile fitta di... non so: disagio, nervosismo? Non potrei de-
finire quella sensazione.
Questa volta fui io a portarla via. Entrammo e io chiusi e sprangai le
porte. Eravamo più affaticati di quanto pensassimo; la stanchezza cadde su
di noi come una calda e soffice coperta rendendo i nostri movimenti lenti,
quasi indolenti. Ci spogliammo lasciando i vestiti là dove cadevano e ci la-
sciammo crollare sul letto.
Dormimmo, ma non so quanto. Ci svegliammo insieme, come se ognuno
avesse sentito il risveglio dell'altro, e l'oscurità era totale intorno a noi; an-
che adesso non vi fu alcuna paura di quel vuoto buio. Midge tese un brac-
cio verso di me e io mi avvicinai a lei.
E di nuovo cademmo in un sonno profondo.

10.
RUMORI

Un suono di battiti mi svegliò, rumori secchi, in vari ritmi, che penetra-


vano nel mio sonno senza sogni. Gli occhi mi si aprirono senza la consueta
riluttanza e io mi voltai verso Midge trovandola perfettamente sveglia con
un sorriso felice sulle labbra. Guardava al di sopra di me verso la finestra,
da cui proveniva quel battito.
Voltai la testa dall'altra parte per seguire il suo sguardo, e scoprii i col-
pevoli. Tre o quattro uccellini erano sul davanzale della finestra e colpiva-
no col becco i vetri come sdegnati che fossimo ancora a letto.
«Oh, Gesù,» gemetti, «hai messo la sveglia?»
«No, hanno preso loro l'iniziativa per svegliarci.»
«Che ora è?»
«Sono le sei e mezzo appena passate.»
«Non mi dire! E credi che faranno sempre così?»
«Forse. Non sei contento?»
Mi tirai il cuscino sulla testa, sebbene, in realtà, fossi completamente
sveglio. «Preferirei il silenzio.»
«La campagna è vita, Michael. E certo è migliore del frastuono delle ore
di punta e dei martelli pneumatici.»
«Giustissimo.»
Spinse indietro le coperte e sgattaiolò sopra di me per raggiungere la fi-
nestra. Io mi rannicchiai nel caldo spazio che lei aveva lasciato.
«Salutali per me,» dissi tirandomi le lenzuola fino al mento.
Lei si chinò sul davanzale e io potei godermi la vista del suo piccolo di-
dietro nudo. Sebbene Midge non avesse un filo di grasso in più del dovuto,
il suo corpo era tutto curve sensuali che non mancavano mai di eccitarmi.
Volevo che tornasse a letto.
Lei cinguettò agli uccelli e iniziò una conversazione con loro. Anche
quando battè sul vetro, non fuggirono. Alzarono invece la testa cinguettan-
do ancora più forte mentre altri volavano sopra di loro battendo le ali con-
tro i vetri.
«Credo che chiedano la colazione,» disse Midge voltandosi verso di a
me. «Scommetto che la signora Chaldean non faceva che dar loro da man-
giare.»
«Bene, digli che Gramarye ha una nuova direzione. Non più pranzi a
sbafo.»
Avevo chiuso gli occhi per alcuni momenti caso mai il sonno volesse
tornare, e poco dopo sentii il peso di Midge sopra di me.
«Tu fingi di essere così cattivo,» disse pizzicandomi forte il naso che
spuntava da sopra le lenzuola «ma sotto questa scorza di rozzo brontolone
batte un cuore di puro...» un altro pizzicotto, «... granito.»
Mi voltai sul dorso e lei si mise a cavalcioni su di me, con gli occhi scin-
tillanti di un maligno piacere. Era difficile protestare con le rosee punte di
due seni piccoli ma bellissimi a pochi centimetri dalle mie labbra.
«Stai mettendo alla prova la vita di campagna,» le dissi.
Abbassò la testa per baciarmi: la sua lingua era una delicata sonda, la
sua bocca umida e dolce. Feci scivolare le mani da sotto le coperte e le af-
ferrai i fianchi.
Tuttavia quella viperetta stava solo scherzando con me. «Abbiamo un
mucchio di cose da fare,» mi sussurrò all'orecchio senza dimenticare di i-
numidirmelo con la lingua, giusto per assicurarsi che tutti i miei sensi fos-
sero svegli. «Io scendo a preparare la colazione mentre tu ti fai la barba e
assumi un aspetto civile.»
«E presto,» le dissi piano non volendo fare arrossire gli uccelli . «E in
ogni caso ci siamo dati un mese di tempo per organizzarci. Questa è la no-
stra prima mattina nella nostra nuova casa e dobbiamo festeggiare.» La
mia lingua cominciò a far opera di persuasione.
Il falso riserbo non faceva parte del carattere di Midge: quello che vole-
va, abbracciava. E mi abbracciò.
Alzate le lenzuola, la spinsi dentro, e il suo corpo, fresco per l'aria del
mattino, fu delizioso contro il mio. Midge e io siamo sempre andati d'ac-
cordo nel senso più vero del termine: i nostri corpi, sembrano fatti l'uno
per altra (lo intendo alla lettera) e i nostri amplessi sono sempre andati al
di là dei confini celesti. Ma l'estasi che ci colse in questa prima mattina
nella nostra nuova casa superò ogni altra. Non chiedetemi perché: chiama-
tela solo magia. Sì, chiamatela Magia.

Più tardi, dopo aver indossato un vecchio maglione, dei jeans consunti e
delle scarpe di tela (la mia consueta uniforme), raggiunsi Midge al pianter-
reno e la trovai in vestaglia rannicchiata sul gradino della cucina, intenta a
nutrire la moltitudine. Gli uccelli - scriccioli, cince azzurre, passeri, frin-
guelli, una vera riunione multirazziale - non dimostravano alcun timore,
alcuni di loro prendevano addirittura il cibo dalla sua mano, mentre altri si
avvicinavano fino a toccarla. Notai che a dispetto delle loro dimensioni ri-
dotte avevano un gran coraggio.
Midge li incoraggiava gentilmente con parole che non potevo udire, e mi
misi a ridere quando uno scricciolo le saltò sul polso e le beccò il palmo
col piccolo becco appuntito. Attesi che l'ultima fetta di pane fosse stata
sbriciolata e divorata prima di entrare nella stanza. Una fresca brezza toni-
ficante fluiva nella cucina dalla porta aperta e, sebbene fosse ancora primo
mattino, non faceva affatto freddo.
«Ehi, che cosa è questo?» E indicai il tavolo. La colazione consisteva in
una bottiglia di champagne e una caraffa di succo d'arancia.
Midge si voltò sorridendomi. «Dobbiamo festeggiare. Ieri ho contrab-
bandato la bottiglia in una scatola da imballaggio». Si tolse le briciole dal-
le mani. Fuori gli uccelli continuavano il loro chiacchierìo, forse chiedeva-
no una seconda portata. Io mi avvicinai a Midge e la strinsi così forte da
toglierle il respiro.
«Non c'è nient'altro?» chiesi con voce un po' rauca.
«Gli uccelli si sono mangiati la tua colazione,» mi rispose.
La mia stretta si indebolì. «Dimmi che non è vero.»
Lei confermò gravemente con un cenno della testa, ma non smise di sor-
ridere. «Volevo darti il Buck's Fizz con tartine, ma il pane avanzato dalla
cena di ieri sera se lo sono mangiato i nostri amici pennuti. Erano tanti che
è finito tutto. Spiacente.»
«Ah, sei spiacente.»
«Andrò al negozio non appena aprirà, te lo prometto.»
«La credenza è davvero vuota?»
«E rimasto qualche biscotto stantio.»
«Magnifico» dissi con voce irritata, ma fingevo, e lei lo sapeva.
Si alzò sulla punta dei piedi per baciarmi. «Stappa lo spumante mentre
vado a prendere i biscotti.»
«Sei sicura che i tuoi amici non vogliano anche lo champagne? Forse
potrebbero farci il bagno.»
Mi diede un altro pizzicotto sul naso e corse nella stanza vicina dove
presumibilmente i biscotti stavano andando a male.
La colazione risultò invece eccellente. Anche Midge, che di norma non
beve mai, volle un poco di champagne col succo d'arancia e brindammo al-
la nostra salute, alla nostra felicità e al nostro vigore sessuale e, fra un
brindisi e l'altro, sgranocchiammo i biscotti che non erano cattivi. Il nostro
terzo o quarto brindisi fu per Gramarye, e le nostre tazze - non avevamo
ancora tolto dai pacchi i bicchieri - si scontrarono allegramente. Gli uccelli
rimasti osservarono dalla porta aperta, sicuramente domandandosi che cosa
stavamo facendo.
Dopo la colazione ci fu un gran da fare. Midge fece il bagno e si vestì
mentre io lavavo le tazze e rimettevo il tappo allo champagne avanzato:
non si fa, lo so, ma non volevo buttarlo via. Diedi un'altra occhiata all'ar-
chitrave sopra il vecchio fornello, ancora perplesso per il fatto che la spac-
catura si era apparentemente aggiustata da sola. È strano come il ricordo
possa adattarsi alla mente quando le cose sono illogiche; suppongo che sia
istintivo perché noi abbiamo bisogno di un certo ordine mentale per non
impazzire. Cominciai a pensare che quello che avevamo realmente visto
fosse una ragnatela accartocciata sul piano della pietra, e che ci era sem-
brata una spaccatura per via della scarsa luce.
Parzialmente soddisfatto dalla mia teoria, cominciai a spacchettare quel-
lo che era rimasto negli scatoloni di cartone, e fui contento di trovare la ra-
dio. L'accesi subito, e sobbalzai nel sentire una scarica di staticità. Abbas-
sai subito il volume e cercai una stazione più chiara; quando trovai della
musica, sollevai l'antenna. La ricezione era ancora disturbata. Pensando
che le batterie fossero scariche rovistai nella scatola e trovai l'attacco con
l'impianto elettrico della casa. Lo innestai, ma i disturbi continuarono.
Spensi l'apparecchio brontolando, mentre sentivo provenire un rumore di
passi dalle scale.
«Problemi?» chiese Midge entrando nella stanza.
«Dobbiamo essere in una zona di cattiva ricezione,» le dissi «ma non
capisco perché sia così cattiva. Forse dovremo mettere un'antenna sul tet-
to.»
Lei non parve preoccupata. «Bene, io vado. Hai bisogno di qualche cosa
in paese?»
«Hum, forse me ne ricorderò appena sarai tornata. Guardati dalla gente
del luogo, specialmente da quelli con gli occhi piccoli e la testa calva.»
Mi lanciò un'occhiata di rimprovero, poi mi mandò un bacio e uscì. Io
indugiai sulla porta e la vidi affrettarsi giù per il sentiero e di tanto in tanto
fermarsi per annusare i fiori. Mi salutò ancora dal cancello e poi salì in
macchina e avviò il motore. Dopo aver guidato l'auto fuori dalla zona er-
bosa con una decisa voltata a sinistra, Midge mi diede un ultimo saluto. La
macchina scomparve dietro la curva e io rimasi solo nel villino.
Sostai un poco sulla porta godendomi la chiara freschezza della giornata,
un po' eccitato dallo champagne.
Finora tutto bene, pensai.

Il resto del mattino fui impegnato a disimballare, spostare i mobili, rac-


cogliere le varie cose, metter tasselli, cercare oggetti smarriti : tutto ciò che
avviene quando si cambia casa e cominciamo a domandarci se riusciremo
mai a riorganizzare la nostra vita. Fortunatamente, pur venendo da un ap-
partamento più grande, non avevamo molti mobili, sufficienti per Gramar-
ye.
Infine mi trovai in cima alle scale, in una stanza dell'attico dove, lo con-
fesso, era tutto il mattino che desideravo andare. Era quella in cui era stata
messa tutta la mia attrezzatura musicale, ed era destinata a essere il mio
modesto studio di registrazione. Mi accoccolai su uno dei diffusori e con-
siderai i vari problemi.
Il principale era il rumore. Non intendo il rumore che avrei fatto io: a chi
avrei potuto dar noia? Ma i suoni che provenivano dall'esterno avrebbero
potuto essere un guaio. Non volevo che ogni nastro che incidevo avesse un
coro di uccelli. Pannelli di lana di vetro alternati con un eguai numero di
imbottiture insonorizzanti avrebbero dovuto risolvere questo problema, e
due strati di gesso sarebbero stati necessari per il soffitto. Le due piccole
finestre avrebbero dovuto avere i doppi vetri e rimanere chiuse.
Immaginai già al loro posto un tavolo di missaggio e un master, dimen-
ticando per il momento l'alto costo di queste attrezzature e felice di abban-
donarmi al sogno.
Quello che mi piaceva era che l'atmosfera dell'attico era ottima. Certo
c'era odore di muffa, ma si poteva eliminare lasciando le finestre aperte per
alcuni giorni e installando un sistema di riscaldamento per i periodi più
freddi. Non sapevo ancora come era l'acustica, e immediatamente andai a
prendere la mia chitarra, una Martin 28.
Quando tolsi lo strumento dal suo fodero, fui stupito nel constatare che,
anche dopo il trambusto del trasloco, non aveva bisogno di essere accorda-
to. Pizzicai una corda e il suono fu ricco e piano, pastoso ma con quel toc-
co di durezza che può essere ammorbidito o esagerato a seconda di come si
tocchino le corde. Feci alcune progressioni, alcune sequenze complesse,
qualche scivolata, tentai alcune settime in crescendo e in diminuendo, a-
mando i suoni, toccando note basse, portando rapidamente le dita fino alle
note più alte, riempiendo di musica la stanza, le mie orecchie e la mia
mente, gustando una di quelle rare e felici occasioni in cui mi sento total-
mente padrone dello strumento.
Ma d'un tratto dei rumori nella soffitta fecero arrestare bruscamente la
mia esibizione e riportarono la mia attenzione all'attico.
Guardai in su e rimasi a bocca aperta.
Adesso non sentivo più alcun rumore. Li avevo forse immaginati? Esa-
minai palmo a palmo il soffitto terminando la mia ricerca alla piccola boto-
la quadrata che portava in soffitta. Rialzatemi lentamente, col desiderio di
non aver visto tanti film dell'orrore in gioventù, mi feci avanti direttamente
sotto la botola. Rovesciai la testa ed esaminai il portello, che si trovava so-
lo a una sessantina di centimetri sopra di me.
Il mio cuore sobbalzò quando i suoni si ripeterono. Mi sentii trascinato
indietro, quasi urtai contro la chitarra appoggiata a un amplificatore. Affer-
rai il manico per impedire allo strumento di cadere, e le sue corde vibraro-
no. Le strinsi ancor più forte per soffocare il suono.
Ma non potei controllare così gli altri rumori. Essi tornarono come una
sorta di rapidi raschiamenti, forse non proprio così: era difficile definirli.
«Avanti, dissi fra me iniziando uno di quei monologhi che servivano a
farmi coraggio quando mi trovavo in una situazione difficile. Ti comporti
come una vecchia zitella! La prima volta che ti trovi solo nella tua nuova
casa, te la fai sotto per un paio di rumori sospetti. Dunque lassù ci sono
dei topi. Che cosa possono fare? Ammazzarti a morsi? È una casa vecchia
e avrà un mucchio di animaletti girovaghi qua e là. Accidenti, siamo in
campagna, un luogo popolato da "inquilini" che non pagano l'affitto. Uc-
celli, topi, ragni...
Ma prima la casa era vuota...
No, solo che quel giorno non hai trovato nulla. Adesso va di sopra a da-
re un'occhiata.
Presi l'unica sedia della stanza e la misi sotto la botola. I rumori erano
cessati, ma questo non era un incoraggiamento.
Ignoravo perché mi sentissi così nervoso - qualche cosa che aveva a che
fare con la «paura dell'ignoto», pensai - ma le mie ginocchia non erano af-
fatto sicure quando salii sulla sedia.
Adesso avevo la faccia a pochi centimetri dalla botola e ascoltai atten-
tamente. Nulla. Uuh! Nessun pazzo incatenato, dai capelli grigi, le unghie
come artigli, vestito di stracci, che la vecchia signora Chaldean avesse te-
nuto sotto chiave per mezzo secolo perché sciagurato prodotto di incroci
familiari. Oh, no. Nessun rumore di catene, né folli ululati, solo...
... oh, Gesù, solo quel rapido raschiare. Adesso riprendeva, dall'altro la-
to.
Tesi una mano che non era affatto ferma. Le dita aderirono alla superfi-
cie. Spinsi.
La botola cedette subito; ma riuscii a sollevarla solo di tre centimetri,
non di più. Il buio dell'interno avvolgeva il suo segreto. Allungai lenta-
mente il braccio e l'apertura si ingrandì come una scura bocca senza den-
ti...
«Mike!»
Quasi ruzzolai dalla sedia e mentre la botola si richiudeva di colpo sentii
grattare ancora. Esitai con la mano tesa per provare di nuovo, ma la voce
di Midge mi chiamò di nuovo dalle scale.
«Mike, sono tornata. Dove sei? Vieni, ho portato qualche cosa di caldo
per il pranzo ma ho paura che durante il viaggio si sia raffreddato. Mike,
mi senti?»
«Sono qui,» risposi.
Guardai ancora la botola chiusa e mi strinsi nelle spalle. Non avevo fret-
ta di vedere di che cosa si trattava. Probabilmente topi sopra le travi. Ave-
vo tutto il tempo per guardare. Inoltre non avevo quasi fatto colazione e
avevo fame.
Comunque fu questa la mia scusa.
Saltai dalla sedia e scesi per il pranzo.

11.
LA CASA GRIGIA

I pasticci caldi che Midge aveva comprato al villaggio potevano essersi


raffreddati quando li mangiammo, ma erano deliziosi e nutrienti. Io ne di-
vorai il doppio di lei e poi cercai nel cartoccio delle mele che aveva porta-
to.
«Stasera cucinerò una vera cena,» disse lei.
«Ottima idea,» le risposi fra un morso e l'altro. «Com'era Cantrip?»
«Tutto bene. La gente dei negozi è stata molto cordiale quando ha saputo
dove abitavo.
«Glielo hai detto?»
«Il fruttivendolo e il panettiere mi hanno chiesto se ero di passaggio. Mi
è sembrato che fossero un po' riservati finché non gli ho detto che sarei di-
ventata una cliente abituale; ma anche allora mi sono parsi un po' sospetto-
si finché non gli ho detto che ci eravano stabiliti a Gramarye. Allora sono
diventati socievoli.»
«Ti hanno detto qualche cosa della vecchia Chaldean?»
«Mike, non chiamarla così.»
Alzai gli occhi al soffitto. «Ti hanno detto qualcosa di Flora, non volevo
offenderla. È un modo di dire.»
«Non hanno parlato molto di lei, ma ho capito che era una specie di leg-
genda locale; una comunque che viveva molto per conto suo.»
«La cosa non mi sorprende, dato che non si allontanava mai di qui.»
«Non è cosi lontano dalla città.»
«Per una vecchia signora poteva esserlo. Non sappiamo nemmeno di che
cosa sia morta.»
«Di vecchiaia, immagino,» rispose Midge, e nella sua voce v'era un tono
di tristezza. «Spero che non abbia sofferto, tutta sola qui.»
«Non credo. Avrà potuto telefonare a dei vicini, a degli amici. Proba-
bilmente la previdenza sociale di queste parti la teneva d'occhio. Tuttavia
la vita non doveva essere molto allegra per lei, vivendo da sola, senza pa-
renti, senza vedere gente.»
Midge si agitò sulla sedia così da poter vedere fuori della finestra aperta
della cucina. «Forse no. Non credo che sia mai stata veramente sola a
Gramarye.» Adesso fissava fuori, ma a grande distanza, verso un altro pia-
neta.
«Sei strana, Midge,» l'avvertii.
Lei rise tornando immediatamente nel tempo e nello spazio. «Bizzarra
io? Chi era quello che si sdraiava sui binari della ferrovia e mi faceva giu-
rare eterno amore? Chi mangiava le uova sode con guscio e tutto? Chi, una
mattina di Capodanno è tornato a casa con un elmetto da poliziotto in testa
e senza calzoni? Chi...»
Alzai una mano. «Le uova sono state una scommessa. E in ogni caso si
tratta di fatti della mia giovinezza.»
«La faccenda dell'elmetto risale a due anni fa.»
«Hai visto come sono maturato in fretta. Vieni, abbiamo tante cose da
fare.» Il mio sistema, quando mi trovo sul terreno insicuro, è di cambiare
argomento. Mi alzai da tavola facendo strisciare la sedia sulle mattonelle.
Midge mi toccò il braccio.
«Hai lavorato sodo tutto il giorno, perché non ti prendi un momento di
riposo. Non c'è urgenza di finire tutto in fretta e furia.»
«Ci sono un mucchio di cose da pulire, da dipingere...»
«Non ci siamo ancora guardati attorno. Andiamo a fare una passeggiata,
a prendere un po' d'aria fresca, a esplorare il luogo in cui viviamo.»
«Non so...» dissi riflettendo.
«Non fìngere. Non vedi l'ora di levarti di torno questi lavori.»
Sorrisi. «E vero. Ma possono aspettare fino a domani mattina. Vuoi an-
dare da qualche parte in macchina?»
«No, niente macchina. Voglio osservare i dintorni. Voglio andare nella
foresta.»
«Laggiù? Vuoi dire che esiste davvero? Io pensavo che fosse solo uno
scenario.»
«Su, su,» disse lei scuotendo la testa.
Fuori l'aria calda alitò su di me come se avessi aperto lo sportello di un
forno e me la sentii penetrare fin nelle ossa. Un'ape gironzolava ronzando
sui fiori. Uno svolazzare sopra le nostre teste mi fece alzare lo sguardo.
Vidi che gli uccelli avevano fatto il nido sul cornicione del tetto.
«Allora erano loro,» dissi ad alta voce.
Midge mi guardò incuriosita. «Erano chi?» seguì il mio sguardo.
«Credevo che ci fossero dei topi in soffitta. Stavo giusto per andare a
vedere quando mi hai chiamato. Devono esserci degli uccelli che gironzo-
lano lassù.»
«Dentro casa?»
«Non ne sono sicuro. Possono esservi entrati attraverso il cornicione.
Controllerò più tardi.»
«Oh, che uomo,» sospirò, e scostò le mie dita che la stringevano.
Risalimmo il terrapieno sul lato dritto invece di prendere gli scalini su
quello curvo; io mi tirai dietro Midge aggrappandomi, per aiutarmi, a un
ramo d'albero che pendeva dal sommo pendìo. Attraversammo lo spazio di
erbe, cespugli e alberi e, tenendoci per mano come due bambini, entrammo
nel bosco.
Non fu facile come sembrava perché anzitutto dovemmo trovare una via
attraverso l'intrico di felci e i cespugli di more che formavano una densa
barriera lungo il margine della foresta. Vi erano varie aperture, ma non tut-
te erano riconoscibili a prima vista e alcune portavano solo a una seconda
linea di sbarramento. Tuttavia riuscimmo infine a scoprire una strada e in
breve perdemmo di vista il villino dietro di noi e l'aria si fece umida e scu-
ra. I nostri piedi affondavano in quello che sembrava un alto tappeto ela-
stico, e Midge mi informò che il primo strato del terreno era formato da
foglie morte, piante e animali in decomposizione. Questi ultimi mi misero
a disagio, e le cose non migliorarono quando lei aggiunse che ciò su cui
camminavamo era pieno anche di organismi viventi che provvedevano alla
decomposizione di quelli morti. Così la foresta prosperava, invece di esse-
re ingombra di rifiuti, anno per anno: nulla era inutile, ogni cosa morta,
pianta o animale, contribuiva alla vita di qualche altro essere. Interessante,
le dissi; e lo era davvero.
Lei mi indicava felice, alberi e cose, non nel tentativo di arricchire la
cultura di un cittadino come me ma per interessarmi al mio nuovo ambien-
te e coinvolgermi. Querce, frassini, sicomori, aceri: cominciai ad apprezza-
re le varie forme e caratteristiche (non che fossi così ignorante come fin-
gevo di essere). Lei mi spiegò che in una foresta vi erano vari strati : il sot-
tosuolo, lo strato superficiale e il terreno fertile che alimentava le piante
erbacee e legnose, gli alberelli, le felci e così via. Poi vi erano i cespugli
dove fiorivano il biancospino, il corniolo, il sambuco ecc. Tutto questo era
coperto dal tetto della foresta o canopia, come la chiamava Midge; lassù si
annidavano i grandi uccelli predatori come il gufo bruno e lo sparviero, in-
sieme con altri come l'avvoltoio e la gazza.
Ricordo tutto questo non per tenere una lezione di scienze naturali, ma
per dimostrare come Midge fosse zelante nell'indottrinarmi - o meglio i-
struirmi - sulla vita di campagna. Voleva che facessi parte di tutto questo
al pari di lei, sapendo, nella sua nativa saggezza, che dovevo avere nuovi
interessi ora che ero lontano dal trambusto della nostra vecchia vita.
E io l'accontentavo non solo per farle piacere ma perché sinceramente
volevo abbracciare questo nuovo mondo. Potrei dire che ne ero un poco
deluso; ma non sarebbe del tutto esatto; penso che cercassi solo qualche
cosa di più, qualche cosa di meglio di quanto avessi visto fino allora. Sup-
pongo che questo avvenga nella maggior parte di noi, ma non molti hanno
l'opportunità di cambiare.
Forse, se avessi saputo quello che stavo per incontrare, non sarei stato
così impaziente.
Ci fermammo presso un albero caduto; il tronco era marcio e si sgretola-
va formando mucchietti di polvere scura e quel che rimaneva era coperto
da muschio verde scuro. Le felci nascondevano quasi il tronco, ma l'albero
morto dominava la tranquilla radura come un fantasma sopra una tomba.
Delle vivaci macchie rosse richiamarono la mia attenzione e io mi avvici-
nai per vedere meglio. Chinatomi, mi voltai verso Midge e dissi: «Da' u-
n'occhiata qui e poi nega che esistono elfi e folletti.»
«Non l'ho mai negato.» Si inginocchiò vicino a me. «Oh, Mike se fossi
in te mi limiterei ad amare queste cose.»
Toccai con un dito quei funghi rossi. Sembravano venuti fuori da un li-
bro di fate o da un disegno di Midge, tanto sembravano felici con il gambo
sottile e la cappella scarlatta punteggiata di bianco.
«Sono velenosi?» chiesi affascinato.
«Ti procurerebbero un forte mal di pancia per un paio di giorni. Sono
funghi agarici, non commestibili.»
«Sono molto graziosi. Credi che ci abitino degli elfi?» E battei su una
capocchia.
«Gli elfi non vengono fuori quando ci sono esseri umani nei dintorni.
Lasciali in pace o si arrabbieranno.»
Facendo forza con le mani sulle ginocchia mi alzai. «Giusto. Non voglio
rimanere vittima di qualche incantesimo.» La guardai serio e aggiunsi:
«Mi domando se vi sono...»
«Oh, Mike: i funghi "magici", a quanto ne so, si trovano solo in alcune
parti del Galles. Dubito molto che crescano nello Hampshire.»
Non mi sembrava divertita dalla mia curiosità e la tirai più vicino a me.
«Sta tranquilla: non toccherei nulla di simile.»
Midge si appoggiò contro di me. «La sola idea mi fa paura Mike Se ti
capitasse qualche cosa come quella volta..»
S'interruppe, ma Midge si riferiva a un mio brutto periodo nel quale a-
vevo sgarrato un poco, nulla di grave, solo una cosa che era difficile evita-
re nel mio particolare ambiente. Una sera, a una riunione, qualcuno mi
diede della cocaina. Io persi conoscenza, a quanto mi dissero, e rimasi così
per tre giorni. Midge non mi lasciò per tutto il tempo in cui rimasi in quel-
lo stato, appeso a un filo, e mi curò nella convalescenza, senza mai rim-
proverarmi, trattandomi come un bambino malato. Ebbi la fortuna di ca-
varmela senza lesioni al cervello e senza noie da parte della polizia: credo
che mi considerassero già abbastanza punito e, d'altra parte, la cocaina non
l'avevo io. Per quel che riguarda la droga, tutto finì lì. Non ci provai più.
Non avevo preso ancora l'abitudine, così che il lasciarla fu facile. Ma forse
adesso capirete perché rimasi così colpito quando il primo giorno ebbi
quella singolare esperienza nella stanza rotonda. È difficile dimenticare
certi errori.
Abbracciai Midge e le accarezzai i capelli.
«Credi ancora in me, Midge?»
La sua risposta fu senza riserve. «Certo. Non voglio aver sempre paura,
tutto qui.»
Sembrava così piccola e indifesa che non potei fare a meno di sorridere.
«Mi taglierei una gamba piuttosto di addolorarti,» dissi.
Lei fece un gesto di disapprovazione, ma un leggero sorriso le apparve
agli angoli delle labbra. «Dove potrei tenere una gamba di ricambio?»
«Troverai un ripostiglio da qualche parte.»
Diede un grido così forte che un uccello fuggì da un cespuglio. «Che co-
sa orribile da dire.» Raccolse un mucchio di foglie secche e me le lanciò.
«Davvero orribile!»
Fuggii togliendomi le foglie dai capelli. Lei mi inseguì con le mani pie-
ne di detriti di bosco, ma inciampò in un ramo nascosto e finì con il sedere
sopra un mucchio di foglie secche.
Lei imprecò ed io agitai un dito verso di lei. «Che cosa penserebbero i
tuoi piccoli ammiratori se ti sentissero parlare così? Christofer Robin ha
mai detto cose simili a Winnie the Pooh?»
Mi abbassai per schivare il tronco su cui era inciampata e che lanciò
contro di me.
«Ma bene,» dissi, «il tuo editore sa che ti comporti come un ragazzac-
cio?»
«Ti prenderò, Stringer. Aspetta e ti prenderò.» Dopo di che cominciò a
descrivere quello che intendeva fare di me non appena mi avesse messo le
mani addosso.
Io mi tenevo fuori portata. «Non posso credere alle mie orecchie. Gretel
ha mai fatto cose simili a Hansel? Jill si è mai comportata così con Jack?
La principessa ha mai trattato con tanto sadismo il bel tritone?»
«Rospo.»
«Cosa?»
«Era un rospo, non un tritone.»
«Tutto quello che vuoi, tesoro.»
Midge si era alzata da terra e stava venendo verso di me, così io fuggii
ridendo delle grida di rabbia che udivo dietro di me. Il tronco mi colpì alla
schiena mentre correvo fra gli alberi, ma distanziai Midge facilmente.
Ci eravamo già addentrati parecchio nella foresta seguendo quello che
sembrava un sentiero con molte diramazioni e, prima di accorgermene,
camminando in quella che sembrava una linea di confine tra la notte e il
giorno, mi trovai all'aperto.
Il sole mi abbagliò per un momento, ma, dopo aver battuto rapidamente
le ciglia ed essermi portato una mano al riparo degli occhi, mi trovai a
guardare una vasta prateria in pendenza. Al termine, quasi addossata alla
foresta che continuava, vi era una grande casa grigia, un vero e proprio pa-
lazzo.
L'edificio aveva due piani principali con abbaini e camini allineati sul
tetto. Dovevano esserci otto o nove lunghe finestre al piano terreno e al-
trettante, più piccole, al piano superiore. Scorsi una larga fila di gradini che
portava a un ingresso imponente; non c'era portico, ma pilastri squadrati
che sporgevano dalle mura per incorniciare la porta. La prateria scendeva
direttamente verso un'area rettangolare, senza prati di separazione, e la
strada d'ingresso girava attorno all'angolo dell'edificio, adorno di pietre
angolari, portando presumibilmente a una strada che attraversava la fore-
sta.
Il luogo era isolato, e il grigio delle mura gli dava un aspetto cupo nono-
stante il sole. Sebbene l'insieme fosse bello, non potei fare a meno di senti-
re che vi era qualche cosa di molto poco invitante in quella casa.
Passi leggeri mi si avvicinarono alle spalle, due braccia mi attanagliaro-
no la vita mentre due mani cercavano di raggiungere quelle parti delicate
che avevo protetto con tanta fatica. Afferrai il polso di Midge prima che mi
facesse danni e lei diede un gemito di frustrazione. Voltatomi e stringendo-
la a me così che non potesse muoversi, le diedi un piccolo morso al naset-
to.
Lei gettò indietro la testa ridendo e ansimando; i suoi sforzi per liberarsi
cessarono quando si accorse che erano inutili.
«Prepotente!» disse imbronciata; ma assaporando la parola.
«Starai buona?»
«Uff!»
«Che cosa? Non ho capito.»
«Maledetto!»
«D'accordo, ma non hai risposto alla mia domanda.»
Sentii la sua testa annuire contro il mio petto. «Vuoi dire di sì?»
Un mormorto soffocato e ancora un movimento della testa.
«Va bene.» La lasciai andare, sempre con cautela.
Lei saltò via assestandomi un calcio negli stinchi.
«Brutta vacca!» gridai massaggiandomi la gamba.
«Mio padre mi ha insegnato come comportarmi con i serpenti come te
quando avevo ancora i riccioli,» mi disse con sarcasmo saltando fuori por-
tata.
Io mi gettai avanti mirando alle sue caviglie, cercando di afferrarne una
e di far cadere Midge sopra di me. Rotolammo per un po' giù dalla colli-
netta mentre io cercavo di trattenerla godendomi la sensazione dei nostri
corpi stretti l'uno all'altro.
Ci fermammo ansanti, io sdraiato sul dorso e Midge sopra di me. Quan-
do vide la casa sgranò gli occhi.
«Che strano posto,» disse senza fiato.
Si alzò a sedere e io mi puntellai su un gomito per guardare con lei la
prateria. «Sembra triste, no?»
Una brezza risalì la collinetta facendo ondeggiare l'erba; ci sfiorò e pas-
sò via. Rabbrividii sebbene avessi caldo.
«Mi domando chi ci vive,» disse Midge.
«Qualcuno che ha molti più soldi di noi, e che ovviamente, ama la soli-
tudine. Anche l'ingresso è lontano dalla strada.»
«Sembra... sembra disabitata.»
«Forse i proprietari sono via, o forse è una di quelle vecchie proprietà
familiari che nessuno può più permettersi di abitare. Gli ultimi decenni so-
no stati duri per molti di loro.»
«Non intendo vuoto perché disabitato.» Aggrottò le sopracciglia cercan-
do le parole. «Sembra morto,» disse infine. «Il luogo è bello, e tuttavia la
casa ha un aspetto... squallido.» Abbassò lo sguardo su di me. «Poco invi-
tante.»
«Oh, non esagerare. Però è possibile che siamo entrati in una proprietà
privata. Qualcuno qui potrebbe non gradire la nostra presenza.»
Saltò subito in piedi.
«Sta' tranquilla,» dissi rimanendo dov'ero. «Scherzavo. Non abbiamo vi-
sto alcuna indicazione di proprietà privata.»
Si guardò attorno come se cercasse dei guardiani col fucile spianato.
«Non mi piace. Mi sembra di essere osservata.»
Mi alzai togliendomi alcuni fili d'erba dai jeans. «Sei unica, siamo in un
posto che non potrebbe essere più tranquillo di così, e tu tremi di paura.»
«Mi sento a disagio. Andiamocene, Mike; vuoi?»
La guardai con una certa apprensione; c'era nel suo tono, un'ansia non
giustificata dalla situazione. «D'accordo, Midge,» dissi. «Torniamo sulla
nostra strada.»
Ci voltammo ancora verso gli alberi e io diedi un'ultima occhiata alla ca-
sa grigia prima di addentrarmi nella riserva ombreggiata. A quella distanza
Casa Triste sembrava del tutto innocua.
Trovammo il tordo ferito qualche tempo dopo, quando eravamo quasi in
mezzo al bosco tornando per la stessa strada che avevamo percorso all'an-
data (almeno Midge mi assicurava che era la stessa). Lei mi guidava con
sicurezza mentre io la seguivo con le mani nelle tasche dei jeans, fischiet-
tando ogni tanto la canzoncina dei nani di Biancaneve.
Midge mi fece sobbalzare quando si fermò bruscamente mettendomi una
mano contro il petto. Mi irrigidii con le labbra ancora atteggiate al fischio.
«Che succede?» mormorai; ma lei mi fece solo un cenno e si rannicchiò
a terra. Udii un agitarsi frenetico e mi abbassai anch'io.
Midge scostò il fogliame davanti al sentiero, e un sottile acuto cip la
raggiunse. L'uccello ci guardava con neri occhietti impauriti e torceva la
testa con movimenti di terrore.
«Oh, povero piccolo,» gridò Midge commossa. «Guarda, Mike, ha un'ala
rotta.»
Io mi feci più vicino, camminando rannicchiato e l'uccello ferito sbattè
l'ala sana cercando disperatamente di fuggire. Midge tese delicatamente la
mano e lui si calmò subito, pur continuando a guardarmi con sospetto. Lei
gli cinguettò piano e con mio stupore l'uccelletto si lasciò toccare.
«E un tordo,» mi disse piano Midge. «Dev'essere andato a sbattere con-
tro un albero o essersi impigliato in un cespuglio. Non sembra che sia stato
attaccato da qualche animale, non è sporco di sangue e non ha nessuna fe-
rita.»
Esaminai per qualche istante l'uccelletto grigiobruno notando come le
carezze di Midge avessero un effetto quasi ipnotico su di lui; gli occhietti
neri erano quasi coperti dalle palpebre come se volesse dormire.
«Che cosa vuoi farne?» le chiesi piano.
«Non possiamo lasciarlo qui. Non sopravviverebbe alla notte, con tutti i
predatori della foresta.»
«Non possiamo portarlo a casa.»
«Perché no? Potremo tenerlo al sicuro e al caldo per questa notte, e do-
mattina lo porterò a Cantrip o a Bunbury, dovunque ci sia un veterinario.»
«Midge, l'ala di quest'uccello è rotta, vedi anche tu com'è ridotta. Anche
se lo choc non lo uccide, l'ala non tornerà mai a posto.»
«Sarai sorpreso di come questi cosini sono robusti; può essere curato,
vedrai.» Raccolse le mani attorno al tordo e lo sollevò lentamente mentre
l'uccelletto protestava debolmente. Midge se lo posò sul seno e credo che il
tordo ne sentì il conforto, perché chiuse completamente le palpebre e parve
addormentarsi. Midge abbassò lo sguardo sul piccolo corpicino piumato
rannicchiato contro il suo seno con tale tenerezza che sentii qualche cosa
sciogliersi in me. Per quanto le volessi bene, c'era sempre in me questa ca-
pacità di volerle più bene fino a sentire un nodo alla gola. Chiamatemi pu-
re un sentimentale.
Ci alzammo e io le misi una mano sulle spalle mentre lei mi conduceva
lungo il sentiero; i suoi movimenti si fecero ancor più delicati affinchè il
tordo ferito fosse disturbato il meno possibile.
Presto vidi davanti a me un piccolo bagliore bianco e capii che eravamo
giunti al margine della foresta e a Gramarye.
Ma vidi anche qualcos'altro. Almeno mi parve di vederlo, perché quando
cercai di metterla a fuoco era scomparsa.
Credetti di aver scorto una figura in piedi, fra gli alberi. L'attenzione di
Midge era tutta rivolta all'uccellino così non poteva aver notato nulla. Die-
di ancora un'occhiata domandandomi se avessi visto solo un cespuglio in
ombra agitato dalla brezza, ed esaminai attentamente quel punto del bosco.
No, non c'era nessuno.
Tuttavia non riuscii a liberarmi dall'impressione che ci fosse qualcuno
fra gli alberi. Una figura vestita di nero, immobile, che ci guardava.

12.
UN VISITATORE
Quella sera ci riposammo nella stanza rotonda; Midge sdraiata sul tappe-
to con la testa appoggiata sui cuscini, io sul divano con una chitarra - uno
strumento spagnolo da concerto - sul ventre una bottiglia di vino e un bic-
chiere su di un tavolino che avevo avvicinato a me. Il tordo era in cucina,
in una scatola di cartone rivestita di morbida stoffa; era molto tranquillo,
sebbene un po' abbattuto.
Midge, era riuscita con mille moine a mettergli nel becco un po' di pane
inzuppato nel latte, e aveva messo l'ala spezzata nel modo più comodo
possibile. Adesso l'uccellino doveva cavarsela per conto suo.
Il sole era quasi sceso dietro gli alberi e la stanza era inondata dalla soli-
ta luce calda ma, questa volta, più piena, più riposante. Pizzicai le corde
basse della chitarra e le note risuonarono fra le mura curve riempiendo la
stanza di dolci suoni. Mentre iniziavo un pezzo che per molto tempo mi
era rimasto difficile, la grande Sonata in la di Paganini (non sono solo un
suonatore di rock and roll), Midge non parve solo impressionata ma addi-
rittura affascinata. Come lo ero anch'io. Non ebbi alcuna esitazione, le dita
si mossero senza alcun inciampo. Ero felice della mia abilità, mi sentivo le
mani fiduciose e forti, la difficoltà e la lunghezza della composizione non
mi crearono problemi (come accadeva di solito). Naturalmente commisi
degli errori, ma si persero nel fluire della musica e, quando ebbi finito,
credo che anche il vecchio Segovia mi avrebbe approvato. Allo stato delle
cose, mi bastò il volto meravigliato di Midge.
Mi si avvicinò carponi e mi posò un braccio sulle ginocchia. «Sei sta-
to...» scosse la testa «...fantastico.»
Alzai le mani con le palme rivolte verso di me e le guardai come se fos-
sero quelle di un altro. «Sì», ammisi con un filo di voce. «E stato bello,
non è vero? Accidenti, è incredibile.»
«Ancora,» mi incitò. «Suona ancora».
Ma io posai la chitarra. «Non posso, Midge. E strano ma non posso; è
come se avessi esaurito tutte le mie energie. O forse non voglio rovinare
tutto... è meglio che mi fermi visto che ho raggiunto il massimo, non cre-
di?» In parte era vero: non volevo non riuscire in qualche cosa d'altro; e
poi ero esausto. Il suonare mi aveva prosciugato ogni energia, fisica e
mentale. Mi abbandonai sul divano con gli occhi chiusi sorridendo. Midge
saltò su vicino a me e mi posò la testa sul petto.
«Mike, c'è una magia a Gramarye e ha degli effetti benefici su di noi.»
Aveva detto quelle parole con molta tranquillità, e io non ero sicuro di
averle udite bene. Presi il bicchiere di vino e lo sorseggiai, contento di
starmene lì con Midge e il resto del mondo - se c'era davvero un mondo
fuori di lì - in pace.
Nel frattempo avevo eliminato dalla mia mente la figura nascosta nel bo-
sco considerandola immaginaria e smorzandone il ricordo con la mia ra-
zionalità: perché qualcuno avrebbe dovuto nasconderei dopo che l'avevo
visto? E comunque, come aveva potuto scomparire così in fretta?
Inoltre, un altro evento aveva distratto la mia mente poco dopo, appena
entrati nel villino: la finestra della cucina era rimasta aperta, e scoprimmo
che Gramarye aveva un visitatore.
Lo scoiattolo rosso era sul tavolo e stava finendo le briciole dei pasticci
rimasti nei piatti dopo pranzo. Io avevo spalancato la porta perché Midge
potesse entrare portando il tordo ferito, e lo scoiattolo aveva allungato il
collo guardando nella nostra direzione. Io lo vidi subito e, se gli animali
possono sorridere, questo certamente sorrise. Non vi era alcuna paura in
quel piccolo mendicante, né parve avere alcuna fretta di lasciarci. Riprese
tranquillamente a mangiucchiare briciole.
Solo quando mi avvicinai alla tavola, lo scoiattolo diede segni di inquie-
tudine. Mi lanciò un'occhiata e saltò nella credenza vicina facendo sbattere
i bicchieri e le caraffe fra loro. Io alzai una mano in gesto di pace, ma que-
sto segno universale non significava nulla per lui: saltò sul davanzale della
finestra e, dopo un'ultima occhiata qua e là, fece un balzo nel giardino e
scomparve.
Midge ed io ridemmo, molto divertiti, e lei disse: «Credi che gli scoiat-
toli rossi siano tutti così coraggiosi da queste partì?»
Io ricordai quello che avevamo incontrato sulla strada durante la nostra
prima visita al villino. «Può darsi,» risposi. «A meno che non fosse lo stes-
so di allora.»
Spalancò la bocca come se considerasse realmente questa possibilità.
«Siamo stati fortunati a vederne. Alcuni anni fa sono stati quasi sterminati
da un'epidemia; non ne sono sopravvissuti molti in questa zona. Quelli gri-
gi hanno occupato il loro territorio.»
«La prossima volta faremo meglio ad assicurarci che le finestre siano
chiuse, altrimenti un giorno o l'altro, ci ritroveremo la casa invasa.»
«Sarebbe piacevole.»
«Non tanto, se si trattasse di ratti o di topi.»
«Non essere sempre così pessimista.»
Rimasi serio per un momento. «Almeno uno di noi deve considerare la
realtà.»
Mi guardò con aria interrogativa; poi ci accorgemmo che lei aveva anco-
ra il tordo nelle mani.
Io trovai una scatola di cartone e vi misi dentro un mio vecchio maglio-
ne e una sciarpa di Midge; lei vi adagiò l'animaletto e mise la scatola in un
angolo vicino alla credenza. Dopo di che tentò di dar da mangiare al tordo
rinunciandovi dopo un poco per tentare ancora, più tardi, questa volta con
maggior successo. Il resto del pomeriggio, ma ormai era già tardi, fummo
impegnati a mettere a posto gli abiti e i soprammobili, a trovare una siste-
mazione definitiva agli utensili, le attrezzature e i vari oggetti casalinghi,
ad appendere i quadri, a scopare, pulire e mettere in ordine. O' Malley e i
suoi uomini avevano fatto un buon lavoro aggiustando, dipingendo, asse-
stando tutto. Anche gli armadi a muro erano in ordine e credo che fossero
stati raschiati prima di essere ridipinti. Gli assiti dei pavimenti scricchiola-
vano ancora un poco qua e là, ma non cedevano e non vi erano fessure nel
legno.
Dopo aver cenato a base di "stroganoff", Midge lo aveva preparato con
molta cura perché quella era la nostra prima vera cena a Gramarye - sa-
limmo nella stanza rotonda. Io accesi il televisore, ma poiché l'immagine
era tutta offuscata e nessuno di noi vi prestava un vero interesse, lo spensi
subito. Decisi che il giorno dopo avrei messo un'antenna per la TV e la ra-
dio. Ci ristorammo con un po' di Schmilson di annata, e tirai un respiro
quando accesi lo stereo e sentii che non era disturbato da interferenze. Era-
vamo sereni quella sera; Midge non venne turbata da tristi ricordi e io non
mi lasciai assillare dalle preoccupazioni sul trasloco. Finito l'album dei di-
schi, lei mi aveva pregato di suonare, cosa che facevo spesso le sere in cui
Midge doveva lavorare al suo tavolo da disegno o quando eravamo en-
trambi dell'umore adatto. Io ero andato a prendere la chitarra e Midge ave-
va aperto una bottiglia di vino per me.
Adesso mi ero abbandonato sul divano con i polpastrelli delle mani an-
cora formicolanti per il contatto con le corde e con i tasti della chitarra,
mentre la testa di Midge era posata sul mio petto, e presto il calore si mutò
in desiderio.
Diversamente dall'amplesso gloriosamente frenetico del mattino, questa
volta fu languido e squisito; ogni movimento e ogni momento fu assapora-
to e prolungato, ogni fervore indugiò nella sua pienezza. Mentre la nostra
sensualità prendeva forma nei nostri corpi, la stanza sembrava girare intor-
no a noi e gli ultimi raggi del sole si frangevano in uno spettro di colori pur
sempre influenzati dal sanguigno fluire che macchiava le mura.
A poco a poco l'atto amoroso fra noi divenne qualche cosa di più. Di-
venne un grande espandersi di emozioni che trascendevano il puro piacere
fisico, che non esplose nei nostri spiriti quanto eruppe in un pacato rove-
scio di energie. Immaginate un film al rallentatore di vetri che si frantuma-
no in milioni di frammenti ognuno colpito dalla luce, ciascuno che spri-
giona i suoi riflessi: questo può rappresentare un equivalente fisico alla ri-
sposta sensoria risvegliata in noi, sebbene il paragone non sia esatto perché
questo fragile frantumarsi è in realtà l'opposto della dolce esplosione astra-
le da noi sperimentata. Ci unimmo fondendoci non solo l'uno con l'altro,
ma con l'aria intorno a noi, con le mura, con ogni particella vivente conte-
nuta in esse. In qualche modo avevamo raggiunto un altro livello, un livel-
lo che forse tutti raggiungiamo ogni tanto, ma di cui rimaniamo sempre al-
la periferia, sempre sul margine, profondamente consci della sua esistenza,
ma mai capaci di percepirla chiaramente.
Una faccenda complessa, vero? Ma nel mio modo goffo, sto cercando di
farvi capire ciò che accadde in noi quella sera a Gramarye. E anche di
chiarire le idee a me stesso.
Ci fu di più. Sentimmo lo spirito di Gramarye, qualcosa che non aveva
niente a che fare con Flora Chaldean né con tutti quelli che avevano occu-
pato il villino prima di lei, ma era l'essenza del luogo stesso. La sua natura,
se volete. Nella struttura del villino, nel terreno, nell'atmosfera attorno vi
era un'immensa bontà, un traboccare di purezza terrena.
E come ogni positivo ha il suo negativo, vi era anche un oscuro male na-
scosto. Ma era nelle frange, un'ombra che non poteva essere definita, un
potere assopito che aveva poca energia. E tuttavia esisteva.
Noi sperimentavamo queste cose, ma non erano nette nella nostra mente
e presto la percezione fuggì svanendo rapida con il persistere del nostro
piacere fisico, delle sensazioni, del bisogno primario che ci avevano con-
dotti a quel riconoscimento portandone poi via la consapevolezza nel suo
stesso deflusso. Solo adesso dopo che tante cose hanno avuto luogo, posso
ricordare e in parte spiegare quello che accadde quella sera. E anche così,
tutto è solo la mia interpretazione, molto tempo dopo l'evento.
Fui il primo a parlare: Midge era ancora sconvolta, o esausta o entrambe
le cose. «Hai condito lo stroganoff con qualche cosa di particolare?» Vole-
vo solo scherzare, una frase qualsiasi mentre cercavo di tornare in me, ma
lei non rise. «Midge stai bene?»
Lei si voltò verso di me; ma non mi vide; c'era ancora un sonnolento
stupore nei suoi occhi.
«Midge?»
Trasse un lungo e profondo respiro sollevando le spalle e il petto, e poi
emise l'aria con eguale lentezza. Poi finalmente disse: «Che cosa è succes-
so?» Come se stesse parlando con se stessa.
Sorrisi. «Abbiamo fatto l'amore.» Quelle strane sensazioni stavano già
lasciandomi mentre la realtà prendeva il sopravvento piano piano come
quando ci si sveglia da un sogno.
Midge si mise le mani sugli occhi e quando tornò a guardare lo stupore
di poco prima non aveva lasciato traccia sul suo volto. Poi sbadigliò fa-
cendo sbadigliare anche me. L'aiutai a vestirsi perché non riusciva a infila-
re i bottoni, come un bambino stanco: sembrava distratta e non riusciva a
coordinare i movimenti.
«Non capisco,» mormorò. «Non riesco a pensare, Mike...»
Anche i miei movimenti erano lenti e più goffi di quanto volessi, ma ero
pieno di calore e mi sentivo i sensi piacevolmente assopiti. E non potevo
smettere di sorridere. «Credo, Midge, che abbiamo oltrepassato la barriera
dell'estasi. Mi sembra che per un attimo il tempo si sia fermato. Gesù, non
credevo che fosse possibile provare sensazioni così forti.» Vedete come
funziona il cervello umano e cerca di razionalizzare l'irrazionale per la sua
salvezza? Stavo riducendo tutto a romanzo.
Tuttavia Midge non fu del tutto persuasa. «No, Mike, è stato qualcosa
cosa di più...»
Le impedii di continuare con un bacio: «Siamo tutti e due stanchi, Fol-
letto. Come dicevi, l'aria di campagna ha un effetto benefico su di noi. Per-
ché non vai a letto mentre io vado a chiudere?»
«Ho bisogno di fare un bagno...»
«No, non serve.»
«E di lavarmi i denti...»
«È cosa di un minuto. Ti raggiungerò prima che tu metta la testa sul cu-
scino.»
«Va bene, Mike. Mike...?»
«Sì?»
«Tu mi ami vero?»
«Lo sai che ti amo.»
La tirai in piedi e lei si appoggiò contro di me.
«Dio mio,» mormorò.«Sono stravolta. Mi sento come ubriaca.»
«Vieni, ti accompagno a letto.»
Feci di più. La presi in braccio e la portai nella stanza da letto: sentii ap-
pena il suo peso. La adagiai sul letto e rimasi chinato su di lei.
«Penso che tu possa fare il resto da te mentre io vado a chiudere le porte
e le finestre.»
Assentì. Poi mi stuzzicò: «Ti dà sempre ai nervi la campagna, Mike?»
«Sono tutti i lupi e gli orsi che circolano da queste parti.»
«E i demoni dei boschi. Non dimenticare i demoni dei boschi.» Le sue
parole erano quasi indistinte mentre il sonno la sopraffaceva.
«Sarebbe stato meglio se non avessi menzionato i demoni dei boschi.»
Mi chinai per darle un bacio sulla fronte, poi mi rialzai. Un attimo dopo
aveva già chiuso gli occhi.
Uscii in silenzio dalla camera da letto, mi diressi nel piccolo corridoio in
fondo alle scale, chiusi col catenaccio la porta sul retro e scesi in cucina.
Mi ero innervosito un po' parlando di lupi e di orsi, non che credessi dav-
vero che da quelle parti esistessero tali animali, ma adesso che il sole era
tramontato e fuori era buio pesto, avevo cominciato a rendermi conto di
quanto il villino fosse isolato. E l'accenno ai demoni del bosco non aveva
migliorato la situazione.
Misi il catenaccio alla porta d'ingresso, poi mi avvicinai alla finestra a-
perta della cucina, misi fuori la testa e sentii la brezza fresca sulla pelle.
Non vedevo niente oltre le vaghe forme degli alberi più vicini. Le nubi a-
vevano coperto in fretta le stelle che erano spuntate dopo il tramonto, e
non vi era la luna a mettere in evidenza gli inquietanti contorni della fore-
sta.
Sempre più a disagio, ritirai là testa e chiusi la finestra abbassando il sa-
liscendi. Rimasi per un poco a guardare la mia immagine riflessa nei vetri
e rabbrividii.
«Scemo,» mi dissi e tornai al piano di sopra fischiettando.

Mi svegliai improvvisamente come avevo fatto la notte prima. Solo che


questa volta mi sentii immediatamente vigile e ansioso. Sentivo Midge re-
spirare profondamente accanto a me.
Ero tutto teso mentre me ne stavo sdraiato domandandomi che cosa mi
fosse successo. Solo le cifre luminose della sveglia e gli scuri profili dei
mobili davano rilievo all'opprimente oscurità.
Pensai di svegliare Midge, ma sarebbe stato scortese e codardo. Quando
ero tornato nella stanza da letto qualche tempo prima, i suoi vestiti erano
ammucchiati sul pavimento e lei era sotto le coperte profondamente ad-
dormentata. Non sentii odore di dentifricio quando la baciai sulle labbra. Il
trasloco e le settimane frenetiche che lo avevano preceduto si erano vendi-
cati.
Dei rumori provenivano dall'alto ed erano familiari.
Scossi appena Midge, ma lei non si mosse.
Guardai la buia superficie del soffitto. Qualcuno grattava lassù. Sempre
allungando il collo, mi alzai sui gomiti domandandomi se la stanza era
fredda o se la pelle d'oca che mi sentivo era causata da qualche altra cosa. I
rumori erano soffocati e mi resi conto che non venivano dalla stanza sopra
la nostra, ma dalla soffitta. Un sospiro di sollievo si arrestò a mezza strada.
Di certo gli uccelli non svolazzavano nel cuore della notte. E allora chi
diavolo c'era lassù? La mente impaurita mi suggerì immediatamente che
c'erano dei topi, e io ricaddi sul letto tirandomi le coperte fin sotto il men-
to. Potevano essere dei topi? Volevo convincermene, ma dei topi non a-
vrebbero mai fatto tanto rumore.
Dimenticai l'eroe che si alza dal letto a notte alta per investigare su ru-
mori misteriosi; questo personaggio che sale su scale scricchiolanti fino al-
le soffitte, facendosi luce con una torcia o una candela e, se è una stella del
cinema, fischiettando per farsi compagnia, è frutto della fantasia di qualche
idiota.
Non ci pensavo nemmeno a lasciare il mio comodo letto per andare a
guardare in soffitta. Non ci pensavo nemmeno. Potevamo aspettare sino al
mattino.
Lo strano è che non rimasi sveglio per molto tempo. Ascoltai per un po-
co, con il cuore che sussultava a ogni nuovo rumore, e mi resi conto di
molti altri scricchiolii o strepitii pur dicendomi che si trattava solo di asse-
stamenti di vecchi assiti dopo una giornata calda; ma presto la stanchezza
sopraffece anche la paura.
Mi addormentai con le dita incrociate perché l'uomo nero non mi portas-
se via.

13.
SECONDA VISITA

«Vieni, Mike, svegliati!»


Non so quanto incivile sia stata la mia risposta, ma non arrestò la mano
che mi scuoteva la spalla. Aprii gli occhi e vidi la luce del giorno.
«Mike, vieni a vedere,» insistè Midge.
Il suo volto era vicino al mio e appariva molto più acceso della sera pri-
ma. In realtà la sua vivacità e il suo tocco devono essere stati per me una
scossa elettrica perché mi svegliai all'istante. Fu questo il secondo mattino
in cui mi svegliai pieno di vitalità e rinfrescato, cosa che non era affatto
consueta per me. Stavo diventando mattiniero.
La tirai a me e lei mi resistè ridendo.
«No, voglio che tu scenda a vedere! ». Si tirò indietro e prese la mia ve-
staglia appesa alla sedia, me la lanciò e mi scoprì.
Gettai le gambe giù dal letto e mi infilai la vestaglia. «Vuoi dirmi che
cos'è tutta questa eccitazione?» brontolai fìngendomi irritato.
«Vedrai.»
Rideva e mi dava degli strattoni spingendomi verso la porta. La bianca
camicia da notte che indossava, una mia vecchia camicia senza colletto
con le maniche arrotolate le lasciava scoperte le gambe nude, piacevole vi-
sione di primo mattino.
«Anche oggi è una bella giornata, » osservai passando davanti alla fine-
stra .Gli uccelli, i nostri simpatici vicini, si facevano sentire con il loro
cinguettio.
«Qui ogni giorno è bello.»
Non vidi alcuna utilità nel farle notare che eravamo lì solo da due giorni,
e mi lasciai trascinare fino alle scale.
«Buona, buona, signorina Gudgeon.» Il tappeto delle scale, che avevamo
fatto mettere prima del trasloco era morbido ed elastico sotto i miei piedi
nudi, ma il legno sotto di esso era solido. O'Malley non aveva dimenticato
niente.
Raggiungemmo la cucina e Midge si fece da parte per farmi entrare. Ri-
masi lì, con le mani nelle tasche della vestaglia, aspettando. La stanza mi
sembrava esattamente la stessa.
Mi voltai per dire qualche cosa a Midge quando un battito d'ali mi fece
sussultare. L'uccello attraversò volando la stanza e si fermò in cima alla
credenza. Cinguettò un saluto o una minaccia, non so.
«Come ha fatto a entrare?» Avevo notato che la finestra era ancora chiu-
sa.
«E il tordo, stupido. E quello che ieri aveva un'ala rotta.»
La guardai e poi guardai l'uccello che saltellava vivacemente in cima al-
la credenza. Si librò nuovamente nell'aria per cercare un altro appoggio
sopra la finestra.
«È impossibile, Midge, non può essere lo stesso.»
Midge rise, divertita dalla mia incredulità. «Guarda nella scatola. Vedrai
che il tordo non c'è più.»
«Ma non è possibile,» ripetei andando verso la scatola di cartone che era
sempre nel suo angolo. Il tordo sulla finestra cambiò posto volando sulla
tavola dove c'era un mucchietto di briciole di pane, forse messo lì da Mi-
dge. L'uccello cominciò a beccare con un appetito robusto come la sua ala.
«Midge, mi stai prendendo in giro?» chiesi. «Hai fatto entrare un altro
dei tuoi amici?»
«Ti assicuro, Mike, che è lo stesso di ieri! Non è fantastico?»
«Non ci credo.» Scuotevo la testa e guardavo il tordo sempre sospettan-
do di essere imbrogliato. «Non è possibile, Midge, non è possibile che la
sua ala sia guarita in una notte. La frattura era così grave che pensavo di
trovarlo morto stamattina.»
«Sbagliavi.» Midge si avvicinò alla tavola e il nostro robusto amico smi-
se di beccare per guardarla. Lei prese una briciola e la offrì al tordo che,
con mia meraviglia, la prese dalla sua mano senza mostrare alcuna paura.
Un uccello è così simile ad un altro, quando sono della stessa razza che
non potevo dire se era realmente il nostro paziente. Ma rimaneva un pro-
blema: se era un altro tordo, dov'era quello ferito? In quel momento notai
che un'ala era stata offesa; mancavano alcune penne. Ed ebbi un senso di
freddo. Adesso ero convinto. Era il nostro tordo senz'altro, ma la sua gua-
rigione era incomprensibile. Non avevamo potuto ingannarci fino a questo
punto sulle sue condizioni, il giorno prima.
Suppongo che fosse questo il punto in cui il mio oscuro disagio per vari
aspetti di Gramarye cominciò a muoversi a un livello più consapevole.
Niente di definito, solo un vago senso di inquietudine circa strani avveni-
menti di nessuno dei quali potevo dire: «Ecco, questo è totalmente bizzar-
ro.» Se alcuni di essi fossero stati malefici o almeno completamente ine-
spicabili, mi sarei sentito un tantino ansioso. Ma in realtà era possibile che
l'ala dell'uccello si fosse fissata in una posizione contorta il giorno prima
riuscendo poi a liberarsi durante la notte (di nuovo il vecchio ragionamen-
to cerebrale non molto razionale). E quanto al resto... be', che cos'era il re-
sto? Della buona musica, un magnifico amplesso; ma il ricordo dell'espe-
rienza della sera prima si era già offuscato: una crepa in una pietra, che si
era dimostrata inesistente. Certo in quel luogo c'era anche una buona atmo-
sfera, particolarmente nella stanza rotonda, ma che cosa significava que-
sto? Noi eravamo innamorati e ci'jtrovavamo nella prima casa tutta nostra.
Le mura curve della stanza rotonda raccoglievano i raggi del sole così che
un piacevole calore trasudava letteralmente da esse. In realtà non vi era
nient'altro che questo. Eppure... eppure...
Adesso il tordo era appollaiato sulla mano di Midge e cantava allegra-
mente. I dubbi erano facilmente messi da parte via via che la gioia di Mi-
dge mi coinvolgeva. I suoi occhi esprimevano un'eccitazione trattenuta, e
lei parlava dolcemente alla piccola creatura che rispondeva nel suo lin-
guaggio. Midge alzò lentamente la mano così che il tordo si trovò al livello
della sua faccia, poi gli soffiò leggermente addosso scompigliandogli un
poco le penne e facendogli chiudere le palpebre.
Affascinato vidi Midge avvicinarsi piano alla porta, a piedi nudi sulle
mattonelle. Si voltò verso di me e mormorò: «Mike...»
Con molta cautela andai alla porta e tirai il catenaccio facendo il minor
rumore possibile. L'uccello sembrava non badare a me. Girata la chiave
nella serratura, aprii silenziosamente la porta e Midge uscì fermandosi sul
gradino.
Alzando la mano disse: «Va'. Ritrova la tua famiglia e salutala per me.»
Il tordo parve riluttante a lasciarci, ma Midge abbassò la mano così che
le sue ali si aprirono e lui si trovò sospeso in aria. Volò in alto sopra il
giardino cinguettando fiero, poi si abbassò fin sopra la testa di Midge.
Sfiorò le aiuole fiorite, si librò ancora nell'aria e si diresse verso i boschi
da cui si era allontanato.
Midge battè le mani per la gioia, e io mi fermai vicino a lei sul gradino,
con una mano sulle sue spalle, sorridendo e salutando l'uccellino. Quando
se ne fu andato abbracciai Midge e le accarezzai i capelli.
«Hai fatto davvero questo?» le chiesi.
«E stata sua l'idea di salirmi sulla mano.»
«Mi riferivo alla sua ala...»
Scosse la testa con gli occhi che brillavano. «Ha fatto tutto da solo: è
stata una magia.»
Ancora la parola «magia», era la seconda volta che Midge la usava in-
consciamente dopo il nostro trasloco. Aprii la bocca per parlare quando
improvvisamente i gradini di casa furono assediati da altri uccelli che re-
clamavano con un gran cinguettare la colazione. Rientrammo in fretta al-
lontanandoci da quel fracasso, mentre Midge prendeva il pane ancora in-
cartato sulla tavola ricavandone una manciata di briciole.
«Su,» disse tornando sulla soglia. «Qui ce n'è per tutti, avanti i più pic-
coli.»
Loro rifiutarono di mettersi in fila, ma nemmeno il più piccolo dei pas-
seri si lasciò intimidire dai più grossi: si affollarono insieme in una confu-
sione di penne e di grida, mentre i più abili abbandonavano la calca con la
loro razione nel becco.
Io lasciai Midge a nutrire quella moltitudine e salii al piano di sopra per
farmi la barba, ripensando alla «miracolosa» guarigione del tordo. L'ala
doveva essere guarita da sola, non vi era altra spiegazione. Dopo dieci mi-
nuti tornai dabbasso: il muesli e il pane tostato col caffè forte erano lì sulla
tavola ad aspettarmi; una sola rosa appena colta nel giardino, in un piccolo
vaso di porcellana, illuminava la colazione preparata. Ma il volto raggiante
di Midge illuminava la stanza ancora di più.
Vi erano un paio di uccelli che gironzolavano presso i gradini della porta
incitandosi reciprocamente a entrare, ma la maggioranza si era disciolta ed
era volata via.
Mentre imburravo il pane dissi: «Non riesco ancora a capire. Quel tordo,
ieri, mi sembrava in pessime condizioni.»
Midge sorseggiò il caffè prima di rispondere. «Che importa? L'ala è gua-
rita, questo è importante. Perché preoccuparci di come ha fatto a guarire?»
E lo diceva sul serio. Ebbi infatti l'impressione che non volesse discutere
quella guarigione né tornare sull'argomento. Mi strinsi nelle spalle adat-
tandomi a lasciar correre, avendo ormai quasi accettato la mia teoria del-
l'«osso magicamente guarito.» Era vaga ma poteva bastare.
«Hai programmi per oggi?» chiese Midge senza pensare più a quell'ar-
gomento. Sembrava piccola e infantile nella mia camicia troppo grande per
lei.
«Sì, ho intenzione di fare delle indagini,» risposi, e lei alzò gli occhi su
di me. «Questa notte ho sentito dei rumori in soffitta.»
«Hai detto che erano gli uccelli annidati sotto il cornicione.»
«Sì, ieri pomeriggio. Ma questo era qualche cosa che si muoveva nel
cuore della notte, quando tutti gli uccelli dormono.»
Mi guardò un po' preoccupata. «Hai idea di che cosa possa essere?»
«Non proprio, ma sono sicuro che la troverò stamattina, alla luce del
giorno. Non voglio starmene ancora lì al buio con la fantasia che galoppa
per conto suo.»
«Avresti dovuto svegliarmi.»
«Non volevo disturbarti,» risposi sgranocchiando il toast.
Midge passò dall'altra parte del tavolo e mi si accoccolò sulle ginocchia
costringendomi a spingere indietro la sedia per farle posto. Mi diede un
bacetto sulla fronte.
«Vuoi che venga in soffitta con te?» chiese. Non mi sfuggì la traccia di
canzonatura nella sua voce.
«Magari poi vedi un topo e ti lasci prendere dall'isterismo.» Scossi la te-
sta e aggiunsi risolutamente: «Andrò da solo, grazie.» Alla luce del giorno
le cose non sembrano tanto minacciose.
«Sai bene che i topi non mi fanno paura. Va be', tanto ho un mucchio di
cose da riordinare e prima comincio meglio è. Credo che O'Malley abbia
fatto più confusione che altro.»
«Oh, tutto considerato hanno lavorato bene. Ha rimesso in sesto il villi-
no, anche se dovremo fare da noi un bel po' d'opere di restauro, meno di
quanto mi fosse parso a prima vista, però. Hai idea di come sistemare la
stanza rotonda? Questo è importante. » Aggrottò le sopracciglia. «Mi piace
così com'è. Credo che non dobbiamo cambiare nulla.»
«Come vuoi. È in buone condizioni, lo ammetto. Forse Flora l'aveva fat-
ta rimettere a posto prima di andarsene.»
«Ci vogliono delle tende, bianche o color avorio. Hai notato come cam-
biano di colore le pareti durante il giorno?»
«Sì al mattino, sono bianche e luminose, al tramonto sono color oro e
poi verso sera si tingono di rosso. Sono come quella grande roccia in Au-
stralia che cambia sempre colore.»
«Si chiama Ayers Rock. Dicono che ha virtù mistiche...»
«Chi lo dice?»
«Gli aborigeni.»
«Gli aborigeni hanno visto la stanza rotonda?»
Il mio naso si beccò il solito pizzicotto (giurerei che aveva un'altra forma
prima che incontrassi Midge).
«Quando riuscirò a fare una conversazione seria con te?» disse lei met-
tendo il broncio.
«Parli di me?» dissi massaggiandomi il naso.
«Rompiscatole,» mugolò.
La mia mano si infilò sotto la sua camicia e le dita la strinsero sotto le
costole prima che potesse muoversi. «Rompiscatole?» chiesi.
«No, Mike, lo sai che non lo sopporto!»
Strinsi più forte cercando le zone più sensibili al solletico fra le costole.
Con un grido si scostò di alcuni centimetri, ma la trattenni con l'altra ma-
no.
«Rompiscatole?» ripetei sorridendo.
«Mike, ti prego, lo sai...»
Strinsi le dita senza pietà, e lei si rannicchiò a terra contorcendosi con un
singulto di risa.
«Mike, noooo!»
«Hai detto rompiscatole?»
«No, no! Scherzavo! Ho detto che scherzavo! Sei... il più... adorabile...
la persona... più affascinante... che abbia... Fermati, Mike, ti prego basta...»
Riuscivo appena a trattenerla tanto si dimenava e ridevo quasi quanto
lei. Le sue gambe batterono l'aria e lei scivolò a terra con la camicia solle-
vata.
Lanciò un grido nell'atterrare sulle piastrelle fredde col sedere nudo.
«Brrr! Oh, bastar...» il resto fu reso inintelligibile dalle risa nervose.
Affondai il viso nei suoi capelli, mentre le accarezzavo il corpo soffer-
mandomi sui suoi seni. Mi tornò in mente l'amplesso notturno mentre le
mordicchiavo l'orecchio e le baciavo il collo.
«Oh, ben tornato,» disse lei allegramente.
Non era la risposta che mi aspettavo. Alzai lo sguardo e capii che stava
salutando un altro ospite apparso sulla soglia. Il nostro amico scoiattolo ci
stava osservando dall'ingresso aperto.
«Entra,» lo invitai mentre Midge si riassestava pudicamente la camicia.
«Questa casa è aperta a tutti, non c'è bisogno del biglietto d'ingresso.»
Lo scoiattolo sembrava titubante.
«Zitto, Mike, lo spaventerai. Vieni piccolo, non badare a questo brutto
dietro di me. Mostragli i denti e lui andrà a nasconderei sotto la tavola.
Feci un salto indietro allontanandomi da Midge che continua ad agitarsi.
Spalancai gli occhi per la meraviglia. Midge e lo scoiattolo stavano
«chiacchierando».
«Sì, lo so, sembra un orso col mal di denti, ma è molto simpatico, quan-
do lo si conosce,» diceva lei a quel cosino.
Lui mi guardò, poi guardò lei e poi ancora me. Gli sfoderai il mio mi-
gliore sorriso, lo scoiattolo agitò la coda.
«Ehi, io abito qui, lo sai?» dissi meravigliandomi di quello che facevo:
parlare con uno scoiattolo! I ragazzi del complesso lo dicevano che ulti-
mamente ero cambiato! L'animaletto muoveva la testa arruffata a piccoli
scatti, curvando la schiena, e sembrava che ridacchiasse.
«Questo tipo non ha nessun rispetto,» dissi a Midge.
«È lo stesso scoiattolo che è venuto ieri,» rispose lei meditabonda.
«Quello non somigliava di più a un ebreo?»
Lei mi assestò un piccolo calcio.
«Andiamo, Midge, come puoi dirlo? Sono tutti uguali. Come puoi sape-
re che è lui?
«Lo so. Questo ha una personalità tutta sua.»
Mi mise le mani sulle ginocchia e si alzò. «Adesso ti troviamo qualche
cosa da mangiare, eh?» disse allo scoiattolo, che parve contento dell'idea;
senz'altro invito saltò sulla tavola e continuò a chiacchierare. Midge prese
un pezzo del mio sandwich e lo offrì al nostro ospite. Con fare ardito lui si
fece avanti e prese il boccone fra le zampette, leccò prima tutto il burro e
poi cominciò a rosicchiarlo alacremente.
«Non riesco a crederci,» dissi appoggiando un gomito sulla tavola e so-
stenendomi il mento col palmo.
«Nemmeno io. Di solito gli scoiattoli rossi sono selvatici, al contrario di
quelli grigi.»
«Ma Midge, nessun animale allo stato naturale è domestico. Forse negli
zoo, ma non qui in un bosco.»
«Forse si erano abituati con Flora. Scommetto che ha nutrito intere gene-
razioni di animali da queste parti. Ti ricordi quanti uccelli c'erano davanti
alla finestra il primo mattino che siamo venuti qui. È come se il villino
fosse il loro habitat naturale, una parte della loro foresta.»
«Vuoi dire il loro "ristorantino?". Capisco che questo posto sia diventato
popolare. Il problema è: quanto tempo passerà prima che comincino a in-
vadere la nostra intima tranquillità campestre? Potrebbero fare dei danni.»
«Oh, Mike, gli uccelli, gli scoiattoli e qualsiasi altro animale fa parte di
Gramarye quanto noi. Non dimenticare che erano qui prima di noi.» Si ac-
quattò con le mani sulle mie ginocchia. «Dobbiamo trattarli come amici.»
«Mi rifiuto di diventare amico di lucertole e di serpenti.»
Sorrise. «Ti permetto di chiudere la porta anche ai topi.»
Questo mi ricordò che dovevo fare una certa indagine. Mi chinai in a-
vanti baciandole le labbra, rendendomi conto che lo scoiattolo ci osservava
mentre mangiava.
«Guardone!» gli gridai quando Midge e io ci separammo. «Bene. Follet-
to, tutte le creature grandi e piccole sono le benvenute qui, purché non sia-
no né troppo grandi né troppo piccole da far buchi nelle strutture di legno.
D'accordo?»
«Non so che cosa ti aspetti: finora abbiamo ospitato soltanto un uccello e
uno scoiattolo; comunque va bene, siamo d'accordo. Gli elefanti e i tarli
sono esclusi.»
Ammiccai allo scoiattolo. «Bene, Rumbo, tu sei compreso. Ma non far-
mi né ingelosire né arrabbiare.»
Midge rise. «Perché Rumbo?»
«Non so. Ma Rumbo gli sta bene, no? In ogni caso è meglio Rumbo di
Rambo.»
Lo scoiattolo scosse la testa in modo convulso facendo vibrare le piccole
spalle; i rumori che emetteva sembravano risate, cosa che divertì Midge fi-
no all'isterismo.
«Credo che approvi,» disse fra le risa.
«Sì, è un vero pagliaccio,» osservai. Mi alzai lentamente per non impau-
rire il nostro ospite. «Adesso, quest'uomo deve andare a lavorare.»
«Anche questa donna.»
«Pensi che gli piaccia mangiare da solo?» Adesso che aveva un nome,
Rumbo mi sembrava un essere umano.
«Ho accettato di farci amici gli animali, non di viziarli. Si intratterrà da
solo.»
Così lo lasciammo mangiare tranquillamente; Midge se ne andò verso il
lavandino e io, dopo aver preso una torcia dalla credenza, mi diressi in sof-
fitta. Nel salire le scale mi sentivo soddisfatto, felice di essere al mondo e
di essere innamorato, e riflettevo sul fatto che un vero amore ha sempre
momenti di assoluta freschezza, come se ci si fosse appena innamorati e la
consapevolezza di ciò è sempre eccitante e coinvolgente. Midge e io ci co-
noscevamo ormai bene; ma non ci eravamo ancora abituati l'uno all'altro,
non eravamo ancora tranquillamente soddisfatti, non fraintendetemi: la no-
stra relazione non è stata sempre rosea come l'ho dipinta fin qui; in realtà
abbiamo avuto momenti burrascosi in cui siamo stati vicini a una rottura.
Fortunatamente siamo sempre riusciti a mantenere il buon senso e a capire
gli errori dell'altro (o i suoi punti di vista, come diceva Midge). Non è il
caso di fare qui della falsa modestia: entrambi abbiamo del talento; io per
la musica e lei nell'arte, e avete mai conosciuto una persona di talento pri-
va di un forte temperamento? Non parlo di arroganza o di ego, ma di quel-
la determinazione nel fare le cose giuste (secondo la propria mentalità) e
dello stato di abbattimento in cui si cade quando le cose non vanno come
vorremmo. Vi sono momenti in cui la persona a noi più vicina ci urta e de-
ve imparare a piegarsi e a cedere o a parlare con semplice buon senso. Io e
Midge abbiamo imparato a farlo con gli anni. Abbiamo anche imparato a
non prenderci troppo sul serio.
Resistendo alla tentazione di prendere una chitarra, sicuro com'ero che
avrei perso tutto il mattino se lo avessi fatto, mi avvicinai alla sedia che
avevo messo sotto la botola della soffitta il giorno prima. La torcia funzio-
nava, la sedia era sicura e la botola mi aspettava: era il momento opportu-
no per portare a termine la mia impresa.
E allora perché esitavo?
Forse avrei dovuto portare con me la scala; sarebbe stato più facile ar-
rampicarmi. Ma il soffitto non era alto e la sedia sarebbe bastata.
Adesso da lassù non provenivano rumori; ma non era una buona ragione
per non dare un'occhiata.
Stavo diventando pauroso e lo sapevo. Tuttavia qualche cosa mi diceva
che non dovevo guardare in quella soffitta. Forse nella mente di tutti vi è
un piccolo compartimento in cui il futuro esiste qui e adesso, dove sono
contenuti gli archivi degli eventi che devono accadere, dove l'archivista
(che in fin dei conti siamo noi) fa scivolare un avvertimento sotto la porta
chiusa. Forse. Queste cose sono un mistero per me come per voi; quello
che so è che la tentazione di tornare indietro, di rifar le scale e inventare
una qualche scusa per non andare in soffitta era forte.
Andiamo, Stringer, mi incoraggiai, vai su e scaccia qualche topo se non
vuoi esporti al pubblico scherno. Tuttavia esitavo, con gli occhi fissi alla
botola: cosa me ne importava del pubblico scherno.
Infine prevalse il buon senso e il pragmatista che è in me vinse la batta-
glia: salii sulla sedia e accesi la torcia. Con una mano sollevai la botola...
solo di qualche centimetro. Nessuno sguardo minaccioso mi fissò attraver-
so la fessura: nessun rumore, nemmeno uno spiffero. Tutto era fermo e
tranquillo. Sentendomi un tantino più ardito sollevai la botola ancora di
qualche centimetro e vi feci passare la torcia in punta di piedi cercando di
vedere qualcosa. Mi accorsi di uno spiraglio di luce che veniva dal basso.
Spensi la torcia ed ebbi la conferma che la luce diurna filtrava attraverso il
cornicione.
Ecco di cosa si trattava : qualche uccello doveva essere entrato e aveva
trasformato la soffitta in un nido ben riparato. Forse la notte scorsa aveva-
no voluto fare un'allegra festicciola. Riaccesi la torcia e sollevai del tutto
lo sportello della botola.
Posai la torcia per terra, mi puntai con le braccia e mi tirai su; quel che
mi mancava in fatto di stile atletico fu compensato dalle maledizioni che
mi lasciai sfuggire issandomi, mentre le mie scarpe di tela bianca scalcia-
vano nel vuoto come colombe impazzite. Sedutomi sul margine, con le
gambe penzoloni, trassi un lungo respiro e immediatamente me ne pentii.
L'aria, là dentro, era mefitica, un odore rancido mi fece arricciare il naso.
«Gesù!» esclamai a voce alta e mi parve di sentire un movimento non
lontano da me.
La luce della torcia puntava in un'unica direzione, ma potei tuttavia di-
stinguere le scure forme delle travi del tetto. Nel tetto non vi erano buchi
perché i muratori avevano lavorato bene, ma potei vedere sulle travi qual-
che altra cosa, oggetti neri e indistinti nel buio. Sembravano pendere agli
assiti, e con un brivido notai che ve ne erano di più, molti di più, sulle travi
inclinate del tetto.
Li riconobbi ma afferrai la torcia e la puntai nella loro direzione. Ebbi un
fremito di repulsione quando vidi una quantità di corpicini pelosi appesi a
testa in giù simili a frutti appassiti, erano tutti ammassati nella soffitta in-
festandola con il loro tanfo.
Mentre li osservavo, un'ala si contrasse, si tese con un tremito e poi tor-
nò a piegarsi sul corpo scuro.
«Oh Dio,» esclamai restando lì impietrito. Nel silenzio immaginai di u-
dire il battito dei loro piccoli cuori come uno solo in un ritmo regolare che
unificava quelle creature in un'unica massa.
Scesi in silenzio dalla soffitta, scosso dai brividi e temendo che il più
piccolo rumore potesse scatenare strida e frenetici batter d'ali da parte dei
pipistrelli.

14.
L'OSSERVATORE

Nel bagno mi sciacquai la faccia imperlata di sudore, e mi strofinai vigo-


rosamente le mani come se fossero rimaste contaminate da ciò che c'era in
soffitta. Mi sentivo male, con la nausea che mi restava chiusa e agglutinata
nel petto.
Pipistrelli! Mostri ripugnanti e sinistri. E, da quel che avevo visto, ce
n'era un'invasione. O'Malley doveva essersene accorto: perché diavolo non
mi aveva detto nulla. Adesso rimpiangevo di non aver accolto il saggio
consiglio di mandare al villino un sorvegliante, pensando che una spesa di
meno ci avrebbe permesso di fare maggiori restauri; un sorvegliante si sa-
rebbe accorto dei pipistrelli e ci avrebbe avvertiti. Avevo paura di dirlo a
Midge poiché non volevo guastare il suo idillio; ma lei doveva saperlo:
non c'era modo di nasconderglielo.
Piccoli bastardi! Dovevano esserci dei disinfestatori nella zona, o forse il
Comune si occupava di queste cose. I pipistrelli erano un pericolo per la
salute? Certo lo erano per la tranquillità mentale.
Mi asciugai la faccia e le mani mentre nella mia testa, c'era un turbinio
di pensieri raccapriccianti. Suppongo di avere avuto una reazione eccessi-
va, ma le sensazioni sgradevoli provate prima di aver aperto la soffitta, u-
nite allo choc di essermi trovato di fronte a tutti quei neri corpi appesi, a-
vevano avuto un forte effetto su di me. Mi chiesi da quanto tempo Gra-
marye fosse la residenza a quelle ributtanti creature; erano arrivate dopo la
morte di Flora Chaldean, o si erano stabilite lì quando lei era ancora viva?
Quest'ultima ipotesi era più improbabile, ma io e Midge sapevamo che
Flora era una donna eccentrica, e quindi era possibile che li avesse accolti
con piacere. Ebbene, i nuovi proprietari della casa avevano il diritto di non
accettare certe compagnie: elefanti, tarli e pipistrelli erano quindi esclusi.
Passai nella stanza da letto vicina e andai alla finestra con l'intenzione di
aprirla e prendere una profonda boccata d'aria fresca; stavo per farlo quan-
do vidi un gruppo di persone vicino al cancello del giardino.
Midge, era al di qua del cancello, mi volgeva le spalle, e parlava con al-
tre tre persone, due uomini e una ragazza. I tre erano vestiti alla buona:
camicie col collo aperto e calzoni sportivi, e la ragazza in gonna lunga e
camicetta. Aveva lunghi capelli biondi e, anche da quella distanza, il suo
viso mi sembrava vagamente familiare. Una Citroen era parcheggiata sul-
l'erba dietro a loro (noi avevamo trovato uno spazio libero di fianco al
giardino, abbastanza grande per parcheggiarci la nostra Passat). Le loro
voci mi giungevano dirette dal giardino, ma non riuscivo a capire quello
che dicevano. Sentendomi, in quel momento, particolarmente disposto ai
contatti umani, lasciai la stanza e scesi. Se si trattava di gente del luogo,
forse sapeva come risolvere il problema dei pipistrelli.
Mi riempii i polmoni del puro profumo dei fiori mentre nel naso sentivo
ancora il tanfo della soffitta. I tre mi guardarono mentre mi avvicinavo e
Midge si voltò per salutarmi.
«Mike, ti presento i nostri primi visitatori,» disse lei chiaramente conten-
ta di quell'incontro.
«I nostri primi visitarori "umani",» la corressi io sorridendo dello stupo-
re dei tre giovani. Per un po' riuscii a scacciare dalla mente il pensiero dei
piccoli esseri alati e ripugnanti.
«Mike si riferisce a certi animali che sono venuti a trovarci dopo il no-
stro trasloco,» spiegò Midge, e tutti risero.
«Immagino che vorrete sapere chi sono gli esseri umani che sono venuti
a cacciarsi in questo angolo della foresta.» Quello che parlava era biondo
come la ragazza, sebbene con i capelli più corti, stile militare. Era alto più
o meno come me - un metro e ottanta- e aveva gli occhi azzurri come quel-
li di Paul Newman. Mi ricordava un campione di surf californiano degli
anni Sessanta, e il suo accento americano rafforzò l'immagine, sebbene av-
vertissi una forza in lui che contrastava con i suoi modi disinvolti. Sorrise
scoprendo denti bianchissimi da attore hollywoodiano.
«Sono Hub Kinsella, » disse tendendo la mano oltre il cancello «e que-
sti...» indico i suoi amici «... sono Gillie Slade e Neil Joby.» Strinsi la ma-
no a tutti e tre mentre Midge mi presentava.
«Ti abbiamo incontrato quando siamo passati di qui l'altro giorno,» disse
la ragazza stringendomi appena la mano.
«Oh certo, mi sembrava di averti già vista,» risposi. «Lei mi ha salutato
dalla macchina, vero?»
«Mi hai salutato tu per primo.»
Ridemmo come fanno le persone insicure che non si conoscono al mi-
nimo accenno di umorismo. Lei era sicuramente inglese e molto graziosa,
anche se in modo non appariscente. Era truccata e aveva il naso e le guan-
ce tempestati di lentiggini; vi era in lei una certa volubilità che poteva es-
sere attraente o irritante, non sapevo decidere.
L'altro ragazzo, Joby, era basso ed esile e, guardandolo meglio, mi ac-
corsi che era vestito meno alla buona degli altri: portava la cravatta sulla
camicia dalle maniche corte, pantaloni stirati con cura e scarpe lucidissi-
me. Le braccia glabre erano scarne e lattee e la sua stretta era un po' troppo
forte come se voluta piuttosto che naturale. Aveva una voce un po' nasale
tipica della gente dei Midlands. «Spero che la vostra nuova casa le piac-
cia.»
«Sì,»dissi, «ma ci vorrà un po' di tempo per metterla a posto.»
«Siete tutte e due di Londra?» chiese Kinsella con educato interesse.
«Come ha fatto a capirlo?»
Sorrise in modo disarmante. «Ve lo si legge in viso.»
«Che siamo dei pesci fuor d'acqua?»
«Oh, no! Non volevo dire questo, ma ho capito subito che non eravate di
queste parti.»
«Midge però è cresciuta in campagna. Io invece sono un novellino.»
«Vi innamorerete presto di questo luogo,» disse la ragazza, Gillie. «Co-
me me.»
Midge richiamò la mia attenzione toccandomi il braccio. «Ricordi, Mi-
ke, quella casa grande che abbiamo visto ieri?»
«Ma certo, la casa grigia!»
Lei annuì. «Hub, Gillie e Neil abitano lì.»
«Davvero! Abitate lì? Tutti e tre?»
«Più di tre, Mike,» rispose Kinsella.
«Che cosa? Un albergo, una fattoria della salute?»
«Niente di tutto questo. Perché non venite a farci una visita, quando vi
sarete sistemati? Ve la faremo vedere.»
«Sì venite,» disse Gillie e con nostra sorpresa ci diede un amichevole
colpetto sulla spalla. «La casa è bella all'interno, e noi saremo lieti di ac-
cogliervi. Diteci che verrete, vi prego.»
Fui sorpreso dal suo entusiasmo, ma Midge parve apprezzare l'idea. «Ci
piacerebbe molto,» disse alla ragazza. «Ieri abbiamo pensato che fosse di-
sabitata la vostra casa, non è vero Mike?»
«Sì, non capivamo...» sentii la mano di Midge che mi stringeva il brac-
cio. «Nel frattempo ci si è presentato un piccolo problema che sarebbe me-
glio risolvere al più presto. Penso che forse avete qualche idea su come si
vive da queste parti.»
La loro espressione non avrebbe potuto mostrare un maggior desiderio
di aiutarci. Midge era curiosa.
«I pipistrelli hanno invaso la nostra soffitta,» spiegai indicando col pol-
lice il villino dietro di me. E voltandomi verso Midge: «Erano loro che fa-
cevano rumori stanotte. Adesso stanno dormendo.»
«Pipistrelli?»
«Pipistrelli.»
«Oh, non sono un grosso problema, Mike,» mi assicurò l'americano.
«Non danno alcun disturbo.»
«Forse no, ma mi fanno sentire a disagio. Non mi piacerebbe svegliarmi
una notte e scoprire che brindano alla salute con il nostro sangue.»
Risero, ma Gillie parve un po' disgustata.
«Niente paura,» disse Joby incrociando sul petto le lunghe braccia da in-
setto. «Per lo più vanno in giro al tramonto e all'alba, e comunque non cre-
do che troverete altri vampiri nell'Hampshire. Se li lasciate in pace non vi
disturberanno.»
«Mi stanno già disturbando.»
«Oh, andiamo, Mike,» disse Midge. «Sono solo dei criceti con le ali.»
La sua reazione - o forse dovrei dire la sua indifferenza - mi sorprese.
Sapevo che adorava gli animali, ma proprio tutti gli animali?
«Purtroppo non è possibile prendere provvedimenti drastici contro i pi-
pistrelli,» intervenne Joby. «Sono una specie protetta. In questa regione
molti sono già stati sterminati per lo più dagli insetticidi e dall'ignoranza;
la gente li uccide senza motivo. Gli ecologisti si sono fatti avanti appena in
tempo per indurre il governo a prendere provvedimenti.»
«Vuoi dire che non posso toccare quei cosi?» chiesi incredulo.
Lui annuì con fare greve. «Quei cosi sono mammiferi. Vi sono i pipi-
strelli comuni e i pipistrelli dalle orecchie lunghe, a seconda delle dimen-
sioni: il pipistrello comune è il più piccolo.»
«Non ho potuto vederli da vicino.»
«Il pipistrello comune preferisce i boschi, ma si è abituato alle zone resi-
denziali, mentre il pipistrello dalle orecchie lunghe preferisce dormire nel-
le caverne, nelle cantine o nelle soffitte.»
«Allora quelli che ci sono in soffitta sarebbero pipistrelli dalle orecchie
lunghe?»
«Ma ve l'assicuro, non avete niente da temere. Si cibano di insetti e fale-
ne e quindi potrebbero esservi utili.»
Io ero dubbioso, ma lui sembrava sapere quello che diceva. Scrollai il
capo e mormorai: «Allora sembra che siamo destinati a tenerceli.»
Kinsella intervenne con un tono da cospiratore: «Ascolti, Mike, se dav-
vero divenisse un problema serio, forse potremmo aiutarvi a scacciarli con
suffumigi o qualche cosa del genere. Non c'è bisogno che nessuno lo sap-
pia.»
«Be', vedremo come si mettono le cose.»
Lui mi tentò ancora. «Se avete bisogno di aiuto, sapete dove trovarci, sa-
remo lieti di vedervi in qualsiasi momento.»
«Devo andare a prendere il regalo?» La ragazza lo guardò come un ca-
gnolino guarda il suo padrone.
«Oh, certo, quasi lo dimenticavo.»
Gillie si infilò in macchina e quando ne uscì aveva in mano una scatola
di latta quadrata. La porse a Midge al di là del cancello.
«Una delle nostre sorelle è una cuoca meravigliosa, così quando abbia-
mo saputo che vi eravate stabiliti a Gramarye, l'abbiamo pregata di farvi
un dolce di benvenuto. Niente di straordinario, ma spero che vi piacerà.»
«E il nostro modesto modo di darvi il benvenuto da buoni vicini,» disse
Kinsella togliendosi le mani dai fianchi come per abbracciarci.
«Che pensiero gentile,» esclamò Midge accettando il dono raggiante.
«Vi inviteremo qui non appena avremo messo tutto in ordine; siete stati
molto gentili, non è vero, Mike?»
Kinsella parlò prima che potessi rispondere. «Potete essere sicuri che
verremo a salutarvi ogni tanto. Quando ci si è fatti degli amici non bisogna
perderli.»
Lo disse con grande spontaneità, così che mi chiesi perché le sue parole
mi mettessero a disagio.
«Per il momento,» proseguì, «vi lasciamo. Sono sicuro che avrete una
quantità di cose da fare nel villino. La proprietaria era un po' troppo vec-
chia per mantenere in ordine la casa.»
«Conoscevate Flora Chaldean?» chiese Midge.
«Oh, tutti, da queste parti, sapevano di lei,» disse Gillie.
«Ma nessuno la conosceva nel vero senso della parola» aggiunse Kinsel-
la. Le abbiamo parlato un paio di volte, tutto qui. Ricordate quello che vi
ho detto: di qualunque cosa abbiate bisogno, non dovete far altro che tele-
fonare.»
«Lo ricorderemo, Hub,» dissi. E poi: "E un soprannome?"
«È un'abbreviazione di Hubris. I miei genitori sono tipi spiritosi.»
Non eccessivamente, pensai. «Bene, arrivederci e grazie per le informa-
zioni sui pipistrelli. Almeno adesso so come stanno le cose.»
Ci stringemmo la mano piuttosto formalmente e poi il gruppo salì in
macchina; Kinsella al volante. Quando la Citroen passò, ci salutarono con
la mano, noi ricambiammo il saluto e li seguimmo con lo sguardo finché
scomparvero.
«Non trovi che siano gentilissimi?» esclamò Midge tendendomi la scato-
la con il dolce per farmelo vedere.
«Sì. Un tantino troppo amichevoli, forse.»
«Oh, Mike, sei così cinico, a volte. Volevano essere solo dei buoni vici-
ni. Vorrei che anche qualcun altro si comportasse come loro.»
«Sì, ma chi sono, Midge? Come mai un gruppo vario come questo vive
insieme in un maniero? Hai notato che Gillie ha chiamato sorella quella
che ha fatto questo dolce?»
«Ebbene? Forse appartengono a una qualche organizzazione religiosa.
Che importanza ha, se sono persone simpatiche?»
Mi strinsi nelle spalle. «Sì, hai ragione. Mi sono sentito un po' aggredito,
ecco, come se fossero troppo ansiosi di conoscerei.»
«Quante volte devo dirtelo? In campagna le cose sono diverse, la gente è
più amichevole. Non devi essere così sospettoso.»
«Scusami, Midge, non volevo esserlo. Quei pipistrelli mi hanno turba-
to.»
Il suo tono si addolcì. «Ti capisco ma è vero, sai, i pipistrelli sono dav-
vero innocui.»
«Finché non invadono il mio territorio.»
Una leggera brezza fece ondeggiare gli alberi e mosse i fiori. Midge si
mise la scatola sotto un braccio e infilò l'altro sotto il mio. Tornammo ver-
so il villino col sole caldo che ci illuminava la faccia.
«Andiamo a dare un'occhiata a questi mostri che ti hanno spaventato
tanto,» disse lei persuasiva.
«Vuoi andare lassù?»
Lei quasi si sdegnò. «Naturalmente. Non vedo l'ora di vederli.»
«Sei imprevedibile.»
«lo studio la vita di campagna, non ricordi? Sono un'illustratrice e dise-
gno anche animali. Mi piace osservarli. Inoltre questi mostriciattoli mi
possono suggerire un'idea per un libro che forse scriverò in futuro. Meglio
ancora se lo scriverai tu per me. È tempo che tu faccia buon uso di questo
tuo particolare talento.»
«Un libro dell'orrore per bambini? Puoi trovare là qualche cosa di simi-
le.»
«No, niente del genere. In ogni caso non vi è niente di disgustoso nei pi-
pistrelli.»
«Aspetta di vederli.»
Lei lasciò il dolce sulla tavola della cucina e salì di sopra mentre io le
facevo strada brontolando fra i denti qualche cosa sulle sgradevoli conse-
guenze del fare amicizia con i parenti di Dracula, e Midge mi punzecchia-
va le natiche dicendomi di non essere così fifone.
Nell'attico, mio futuro studio musicale, presi la torcia che era rimasta
sulla sedia e me la battei sulla palma della mano guardando Midge seria in
volto.
«Vuoi proprio andare a fondo di questa faccenda...» chiesi cupo, «...pur
sapendo che cosa è successo a Pandora?»
«Spostati di lì,» mi rispose dandomi una spinta e mettendo un piede sul-
la sedia.
«Va bene, va bene. Adesso, Midge, parlo sul serio: onestamente non mi
sento di tornare lassù.»
«Non c'è bisogno che tu lo faccia... basta che mi aiuti. Non lo racconterò
ai nostri amici.» Si portò una mano sul fianco e assestò il piede sulla sedia.
Aveva sulle labbra un ghigno di sfida.
Mugugnando la spinsi da parte e salii sulla sedia. Poco prima, quando
ero sceso, avevo chiuso la botola, forse immaginando che i pipistrelli po-
tessero inseguirmi: così dissi: «Adesso aprirò e poi ti spingerò su, a meno
che tu non preferisca che vada a prendere la scala.»
«Basterai tu.» Incrociò le braccia aspettando.
«Va bene.» Spinsi lo sportello che si aprì facilmente. «Non spaventatevi,
ragazzi,» dissi piano. «È solo il padrone di casa che viene a controllare l'a-
ria condizionata.» Sebbene non fossi nervoso come la prima volta, adesso
ne sapevo un po' di più sui nostri sonnolenti ospiti, il mio tentativo di far
dello spirito era un po' forzato.
Lo sportello cadde all'indietro contro l'asse verticale, come prima, e io
chinai la testa nel sentire quel colpo secco. Vidi Midge che si metteva la
mano sulla bocca per nascondere una risatina.
«Non dire che non ti ho avvertita,» dissi di cattivo umore scendendo e
porgendole la torcia. Unii le mani a staffa. «Aggrappati ai bordi dell'aper-
tura con una mano e metti dentro la torcia, poi ti tirerò su.»
«Mio eroe,» disse lei mettendomi un piede nelle mani.
La sollevai e lei salì facilmente, accendendo la torcia e facendola passare
nell'apertura con un movimento aggraziato; era molto leggera. Midge si
sedette con le gambe penzoloni nel vuoto come avevo fatto io.
lo mi arrampicai dopo di lei, servendomi della sedia e cercando di farlo
con disinvoltura, adesso che avevo un pubblico. Lei si spostò svelta di lato
per farmi posto.
Una volta in soffitta dissi piano: «Li vedi?» Il tanfo mi fece arricciare
ancora il naso.
Lei diede uno sguardo attorno illuminando la soffitta con la torcia e io
rabbrividii nel vedere le nere forme pendenti.
«Oh, Mike, non sono poi così tanti,» disse lei con aria canzonatoria.
lo sbattei gli occhi, seguendo il fascio di luce della torcia. In realtà i pi-
pistrelli non sembravano tanti come prima, «lo, hum... sono sicuro che e-
rano di più.»
«Secondo me eri così spaventato che ne hai visti più di quanti ce n'erano.
Però sono almeno una quarantina sparsi qua e là.»
«Quando li ho visti io erano tutti ammassati. Molti devono essersene an-
dati.»
«In pieno giorno? No, il raggio della torcia deve aver provocato delle
ombre così da dar l'illusione che fossero di più.» Mi battè la mano sulla
gamba per rassicurarmi. «Quando si è spaventati, si vede tutto sotto una
cattiva luce.» Si portò la torcia sotto il mento illuminando il suo volto sor-
ridente.
«Tutto questo è strano, molto strano. Dammi un po' la torcia, per piace-
re.»
Le presi la torcia di mano e camminando carponi mi addentrai nella sof-
fitta tenendomi ai travicelli e attento a non mettere un ginocchio nell'aper-
tura. Cercai di dirigere il fascio di luce in tutti i recessi, pur non potendo
vedere dietro il serbatoio dell'acqua; ma non scoprii altri pipistrelli. Midge
si unì a me, camminando eretta e non carponi facendomi sentire ancora più
sciocco.
Mi alzai aggrappandomi a una trave, attento a non toccare qualche pipi-
strello addormentato. Mi aspettavo di vedere Midge sorridermi con aria
canzonatoria ma era troppo assorta nell'esaminare uno dei corpi appesi.
Tese una mano e accarezzò delicatamente un'ala piegata.
«Ehi,» dissi piano, «che stai facendo?»
«Fammi un po' di luce, Mike, voglio vedere bene questo tipo.»
«Smettila di piagnucolare. Non c'è la rabbia da queste parti. Ricordi
quello che ti ho detto: non sono che dei criceti con le ali. Vieni, fammi lu-
ce.»
Maledetto pipistrello, pensai obbedendole e appoggiandomi alle travi.
«Non dare la colpa a me se ti morde.»
Il pipistrello si contorse tentando di ritirare l'ala che Midge gli aveva a-
perto, ma lei la tenne ferma. L'animale aprì la bocca orribile, irritato, mo-
strando gli aguzzi denti da vampiro sebbene sembrasse ancora addormen-
tato. Io mi tenni a distanza continuando a fare luce a Midge.
«Vedi le dita?» La sua voce era sommessa. «Vedi come sono lunghe le
ultime tre? L'ala è formata dalla pelle tesa fra loro. Guarda, arriva fino alla
zampa e alla coda.»
«E interessante. Non credi che potremmo lasciarlo dormire in pace?»
«E guarda il suo corpicino peloso. E proprio grazioso.»
«Grazioso? E brutto come il peccato.» Mi pentii subito di aver alzato la
voce perché le palpebre sottili che coprivano gli occhi del pipistrello si a-
prirono per un secondo.
«Si è offeso,» osservò Midge.
«Dovrà rassegnarsi. Guarda che orribile naso schiacciato e che orecchie
a punta,» emisi un mugolìo di disgusto.
«Quello che ha attorno al naso è il suo radar.»
«Possiamo scendere, adesso, Midge? Potremo coabitare con queste spe-
cie di susine, ma non siamo obbligati a fraternizzare con loro.»
Lasciò che l'ala si ripiegasse, poi mi strinse il fianco. «Non sapevo che
fossi così allergico.»
«Per essere onesto, non lo sono mai stato. Mi fanno solo una strana sen-
sazione: non riesco a dominarmi.»
«Per lo meno adesso sai che non sono tanti come credevi.»
«Avrei giurato che... Non importa; ero così sorpreso che probabilmente
ho visto doppio.»
«O triplo. Scendiamo dove l'aria è più pura.»
Ci sostenemmo alle travi, e io mi misi a gambe aperte sulla botola per
calare Midge sulla sedia sottostante. Dopo aver dato un ultimo sguardo in-
torno, diedi la torcia a Midge e mi calai, tenendomi poi in equilibrio sulla
sedia per afferrare il lato dello sportello e chiuderlo dietro di me. Questa
volta lo rimisi a posto con l'animo più tranquillo.
Saltai giù e mi pulii le mani sporche di polvere, felice di essere uscito
dalla soffitta. Intanto Midge si era avvicinata a una della finestrelle dell'at-
tico e cercava di aprirla.
«Volevo far circolare un po' d'aria, » disse voltandosi un poco verso di
me, «ma la finestra è bloccata.»
Io la raggiunsi. Può essere colpa della vernice. Avrebbero dovuto lascia-
re le finestre aperte finché non fossero asciutte. Fammi provare.»
Prima che potessi dare un buon colpo a una delle due ante, Midge mi
prese il braccio.
«Quei pipistrelli ti disturbano davvero tanto, Mike? Perché in tal caso
potremmo fare come ha suggerito Hub e trovare il modo di sbarazzarcene
senza che nessuno lo sappia.»
Io la fissai: «Ma l'idea non ti piace affatto, vero?»
«Non voglio che quei pipistrelli rovinino tutto. Per me è più importante
che ti senta felice qui; così, se devo scegliere fra la tua serenità e i pipi-
strelli, preferisco la tua serenità.»
Avvicinai la mia testa alla sua. «Probabilmente hai ragione tu,» dissi.
«Non ci daranno noia.» Tornai alla finestra. «Ma se continuano a fare orge
ogni notte, li facciamo fuori: il rumore di quello sbatter d'ali frenetico mi
fa impazzire.»
Diedi un colpo al telaio e poi un altro, mordendomi il labbro per il dolo-
re. Al terzo tentativo la finestra si aprì di qualche centimetro dopodiché fu
facile spalancarla. Mentre cercavo di fissare le ante ai ferri esterni, diedi
un'occhiata al bosco di fronte aspirando profondamente l'aria scaldata dal
sole. Mi irrigidii prima di averla espirata.
Avevo visto una figura in piedi che stava nell'ombra dietro la prima fila
di alberi o la vista mi ingannava? Qualcuno ci stava ancora osservando?
«Midge,» dissi con voce tesa perché avevo ancora i polmoni pieni d'aria,
che esalai mentre lei si avvicinava. «Qualcuno laggiù sta osservando la ca-
sa.»
Non la guardavo, ma sapevo che stava scrutando nella foresta.
«Dove Mike? Non vedo nessuno.»
Distolsi per un momento gli occhi dalla figura immobile e misi un brac-
cio sulle spalle di Midge avvicinandola a me.
«Là,» mormorai indicando. «Là fra gli alberi. Una figura scura che os-
serva il villino.»
Ma quando tornai a guardare, la figura era scomparsa.
«Non la vedo, Mike,» disse Midge, e io mi voltai verso di lei senza par-
lare, poi guardai ancora gli alberi. Decisamente non c'era nessuno.
Cominciai a domandarmi se l'aria di campagna fosse così fresca da pro-
vocare allucinazioni.

15.
PROGRESSI

Le due settimane che seguirono passarono velocemente tenendoci occu-


pati senza che io avessi altre «allucinazioni». Passammo le giornate (e
spesso anche le notti) togliendo la vecchia tappezzeria e sostituendola con
quella nuova e dipingendo le pareti e i rivestimenti di legno che non ave-
vamo fatto toccare agli operai. Un paio di sere furono particolamente fred-
de e presto scoprimmo correnti d'aria che ci facevano rabbrividire; feci del
mio meglio per scoprire da dove provenivano e mi affrettai a chiudere. La-
vammo, strofinammo, pulimmo e lustrammo. Misi a posto il campanello
d'ingresso, in modo che squillasse anziché gracchiare.
Pulimmo i camini in previsione degli intimi inverni accanto al fuoco, e
facemmo vuotare il pozzo nero (il puzzo fu terribile e dovemmo tener
chiuse porte e finestre durante l'operazione). Venne un idraulico a far alcu-
ni lavoretti compresa la revisione della lavatrice e l'assicurarci acqua calda
invece che tiepida (cosa che richiese un nuovo e più grande riscaldatore a
immersione, che pesò molto sul nostro bilancio). L'acqua, adesso, era lim-
pida, grazie al nuovo serbatoio che O'Malley aveva installato nella soffitta,
e anche la TV e la radio funzionarono meglio dopo la prima settimana. Le
immagini della televisione non erano ancora molto nitide, ma del resto e-
ravamo situati in una zona fuori mano.
lo misi a posto il mio studio musicale, sempre sognando il costoso equi-
paggiamento che avrei avuto (speravo) in un futuro non troppo lontano,
mentre Midge preparò il suo piccolo studio artistico sotto una delle grandi
finestre della stanza rotonda. Aveva una gran voglia di rimettersi a pittura-
re - pitturare in senso artistico, non le pareti - così come io non vedevo l'o-
ra di tornare alla musica seria. Preso com'ero dal lavoro manuale, avevo la
testa piena di idee per canzoni e musiche rock. Tutte queste idee erano ten-
tativi, ma in genere molto stimolanti; mi domandavo se mi sarebbero parse
così buone quando le avessi scritte, o così grandiose quando le avessi regi-
strate. Nonostante questa urgenza creativa in entrambi, resistevamo alla
tentazione e insistevamo nel lavoro in corso per preparare Gramarye a un
futuro piacevole e felice.
Facemmo del nostro meglio con il giardino - o dovrei dire che lo fece
Midge, specialmente per quel che riguardava le aiuole - ma, cosa strana,
sembrava prosperasse per conto suo. Anche i conigli selvatici, numerosi da
quelle parti, rispettarono i nostri fiori. Ripulimmo le aiuole, e trovammo
che molte erbacce erano scomparse, evidentemente eliminate dalla cattiva
salute dei fiori e costrette a rinunciare alla lotta (io ero abbastanza ingenuo,
in fatto di giardinaggio, da crederlo possibile, e Midge, che ne sapeva di
più, non fece commenti). Acquistai nel negozio di ferramenta del paese
una falciatrice a mano per il margine erboso oltre il recinto e l'area attorno
al retro del villino, e fui felice di lavorare al sole, a torso nudo, abbronzan-
domi. Rafforzai il recinto sostituendo i pali mancanti o danneggiati, in-
chiodando gli altri e dipingendo allegramente di bianco il legno annerito
dal tempo.
Facemmo parecchie gite a Bunbury per comprare qualche mobile di se-
conda mano e un paio di ninnoli.
Rumbo diventò un visitatore regolare e spesso gli chiesi perché non si
trasferisse da noi definitivamente. Era un gran conservatore ma, sebbene a
volte sembrasse capirci, le sue chiacchiere fra i denti non significavano
molto per Midge e me. Supponevamo comunque che ci fosse nella foresta
una «signora» Rumbo e forse anche dei Rumbini, una famiglia che lui era
felice di ritrovare dopo ogni avventura giornaliera. Gli piaceva giocare:
correre diero le palle da tennis, saltarci sulle spalle quando meno ce lo a-
spettavamo, mordere furiosamente libri e riviste facendole a pezzi mentre
noi lo inseguivamo attorno al villino in una specie di frenetico rimpiattino.
In quello scoiattolo c'era qualche cosa del cane, una specie di rozza intelli-
genza mischiata a cenni di astuzia che trovavamo divertenti e spesso anche
esasperanti. Ci faceva buona compagnia.
Molte telefonate ci giunsero da amici o compagni di lavoro: molti di
questi ultimi ci facevano allettanti offerte a cui resistevamo. Avevamo sta-
bilito che ci saremmo presi un intero mese di libertà da ogni impegno pro-
fessionale e ci attenevamo a questa decisione. Da principio la linea telefo-
nica era disturbata, come se i fili si fossero arrugginiti a furia di non essere
usati, ma più telefonate ricevevamo e più nitide si facevano le voci.
Il nostro amico tordo, la cui ala avevamo creduta spezzata, tornò (le
penne dell'ala non gli erano ancora ricresciute, così che era facile ricono-
scevo) e non aveva scrupoli nel volar dritto in cucina e appollaiarsi sulla
tavola o sullo schienale di una sedia. Altri seguirono presto il suo esempio,
dapprima con diffidenza, poi con cautela e infine con fiducia. Tuttavia gli
uccelli e lo scoiattolo non erano i soli visitatori: seguirono topi, api, una
volpe e un giorno perfino un ermellino fece la sua apparizione. Ci abi-
tuammo a trovare ragni o chiocciole: queste ultime venivano catturate, ac-
cartocciate in un foglio di giornale e portate in giardino.
I nostri tre nuovi amici della casa grigia mantennero la parola venendo a
trovarci di tanto in tanto e portandoci ogni volta un piccolo regalo: cibo,
una bottiglia di vino fatto in casa, un gingillo da poco; niente di straordina-
rio, solo per dimostrarsi cortesi. Noi eravamo troppo occupati per intratte-
nerli in lunghe conversazioni, e loro non ci imposero mai la loro presenza.
Erano piacevoli sempre al corrente di notizie locali, utili con le loro infor-
mazioni sulla vita di campagna. Bravi ragazzi.
Dopo poche notti, i rumori nella soffitta cessarono di disturbarmi; anzi
cominciò a piacermi starmene seduto verso sera sulla panca e vedere i pi-
pistrelli spiccare il volo da sotto il cornicione verso la foresta vicina, uno
spettacolo che diveniva sempre meno pauroso ogni volta che lo si vedeva.
Come ci era stato detto, non erano affatto pericolosi: erano creature poco
socievoli (grazie a Dio) che vivevano appartate.
Procedemmo faticosamente nel lavoro, decisi a non riposarci finché non
avessimo sistemato le cose tanto da poter vivere a nostro agio. Vi furono
solo pochi giorni di cattivo tempo; gli altri furono pieni di sole, con l'aria
tersa e frizzante al mattino e piacevolmente calda nel pomeriggio.
Facevamo progressi. La vita era buona con noi.

16.
VIOLENZE
Dopo aver parcheggiato la macchina nel piccolo ma sufficiente parcheg-
gio dietro la strada principale andai al negozio di ferramenta, al paese, per
comprare i chiodi, l'olio per la falciatrice, le spine elettriche, della vernice
bianca e altre cosette. Alcuni volti mi erano divenuti familiari in seguito
alle mie frequenti gite a Cantrip durante le ultime due settimane e qualche
abitante del paese mi salutava addirittura quando entravo nei negozi. Sup-
pongo che, come avviene nelle piccole comunità, si fosse diffusa la voce
che Midge e io eravamo i nuovi abitanti di Gramarye. Io mi ero abituato
alle occhiate curiose e così, adesso, era piacevole essere riconosciuto.
Era metà mattino e nel negozio c'era poca gente. Preso un cestino di me-
tallo dal mucchio presso la porta, girai per le brevi corsie del negozio tra i
vari scaffali prendendo quello che mi occorreva e, naturalmente, anche al-
tri articoli che pensavo mi sarebbero stati utili prima o poi (è strano come
raramente lo siano).
Stavo esaminando alcune «super» colle contenute in bozzoli di plastica e
appese come crisalidi a ganci di metallo, domandandomi se le pupe ne sa-
rebbero uscite mettendo le ali, quando una voce burbera interruppe le mie
fantasticherie.
La cassa era dietro lo scaffale vicino al quale mi trovavo, e io girai incu-
riosito attorno allo scaffale accingendomi a pagare il conto. La voce burbe-
ra era quella del negoziante, un omaccione di nome Hoggs che io avevo
trovato sempre gioviale (ero diventato suo cliente abituale per i miei non
troppo ambiziosi lavori), così che rimasi molto sorpreso che fosse così
sgarbato.
Una ragazza era davanti alla cassa voltandomi il dorso, coi capelli a
treccia, una camicetta scollata e una gonna lunga. Le cinghie dei sandali le
cingevano le gambe oltre le caviglie allacciandosi sotto l'orlo della gonna.
Un cestino di metallo era sulla cassa davanti a lei e il negoziante stava fru-
gando in esso con mosse brusche, scrivendo il costo di ogni articolo sul re-
gistro di cassa. La ragazza gli stava mostrando due oggetti (non potevo ve-
dere quello che c'era nel cestino) chiedendo, credo, quale andasse meglio
per il lavoro che doveva fare. La risposta del negoziante era stata qualche
cosa come «Deve capirlo da sé, non le sembra?» e ne fui meravigliato poi-
ché con me era sempre stato gentile.
La ragazza si limitò a prenderne uno rimettendo l'altro in uno scaffale
vicino.
Hoggs colse il mio sguardo e sollevò rapidamente gli occhi al cielo per
mostrarmi la sua irritazione. Quando la ragazza tornò dallo scaffale, vidi
che era pallida, quasi giallastra, con un'espressione vuota che mascherava
il suo disappunto o era il vero riflesso del suo intimo. Cercò in una borsa di
tela che portava a tracolla e ne trasse un sacchetto, mentre il negoziante to-
glieva dal cestino gli articoli gettandoli alla rinfusa sul piano della cassa
con evidente malumore.
Mi sentii mortificato per la ragazza quando il negoziante le grugnì
1'ammontare del conto e lei gli porse il denaro, mite mise gli acquisti in un
sacchetto di plastica e si affrettò a uscire dandomi un'occhiata di sfuggita.
Posando il mio cestino sul banco, guardai il negoziante con una certa
trepidazione.
«Buon giorno, signor Stringer», mi disse, e io mi sentii rincuorato nel
vedergli rimprendere il tono amichevole.
Accennai con la testa alla porta che si era richiusa, «problemi nel paga-
mento?»
«Eh? Oh, no, nulla di simile,» mi assicurò, con ancora una traccia di irri-
tazione nella voce. «E una di quella congrega, tutto qui.»
«Ah, sì? Quale congrega?»
Smise di togliere gli articoli dal mio cestino per darmi uno sguardo inter-
rogativo. Aveva la faccia larga e rosea, come se non avesse avuto il tempo
di prendere il sole. «Probabilmente non ha ancora saputo nulla di loro, non
è vero?» Scosse la testa e rimase con un dito fermo su una riga del vecchio
registro. «È una del Tempio, una di quei... Sinergisti.» Alzò lo sguardo
verso di me. «Che nome scemo!»
Feci un cenno che poteva essere considerato di approvazione. «Che cosa
significa esattamente?»
«Significa? Significa che sono tutti matti, ecco che cosa significa.» Si
chinò verso di me con un fare da cospiratore. «Non ci piacciono affatto,
signor Stringer. Vogliono portar qui le loro abitudini e le loro idee balorde.
Non li vogliamo.»
«Appartengono a una qualche setta religiosa?» Stavo già facendo dei
collegamenti: la ragazza sarebbe stata bene con Hub.Gillie e Neil.
«Qualche cosa di simile, ma non so bene. Ma non vogliamo che vengano
qui a mendicare denaro.»
«Mendicare?»
«Be', quasi. Vendono delle cose... delle cose di cui nessuno ha bisogno,
cestini di vimini, tovagliette di paglia e simili. E poi cercano di convertire i
nostri giovani, di trascinarli al loro cosiddetto Tempio. C'è qualche cosa
che non va, in quella gente, glielo dico io.»
«E vivono in quella casa isolata nella foresta?»
«Un tempo era chiamata Croughton Hall, ma ora non più. Ne hanno fat-
to una specie di chiesa, il loro maledetto Tempio Sinergista.»
Cercai il portafogli. «Ma mi sembrano abbastanza innocui.»
Il modo in cui Hoggs mi guardò mi fece sentire la persona più scema del
mondo. Mi disse quanto gli dovevo, prese il denaro e si allontanò. «Le cer-
co una scatola per tutta questa roba,» disse andando all'estremità del banco
e cercando qualche cosa sotto di esso.
Con i miei acquisti così raccolti, lo salutai e lasciai il negozio, tenendo
goffamente la scatola sottobraccio.
Dunque la mia sensazione di leggero disagio per quel che riguardava i
tre nuovi amici non era del tutto ingiustificata. Ma anche così, mi sembra-
vano abbastanza innocui e forse solo la scarsa considerazione in cui sono
tenuti questi culti mi rendeva cauto. La ragazza del negozio di ferramenta
era stata un modello di sopportazione pur avendo delle ragioni per risentir-
si della rudezza di Hoggs. Pensavo che fossero necessari degli anni perché
degli estranei venissero accettati e in un villaggio tranquillo e remoto come
Cantrip, un'organizzazione che sembrava imbevuta di una strana religione,
poteva avere dei problemi. Comunque, che diavolo significava sinergista?
C'era una quantità di altre religioni bizzarre un po' dappertutto, ma questa
non la conoscevo. Era genuina o folle? O genuinamente folle? Kinsella e i
suoi compagni sembravano abbastanza sani di mente e assai poco zelanti
come religiosi (sebbene la loro grande sincerità fosse un poco sconcertan-
te).
Ebbene, Midge e io non eravamo più dei giovani impressionabili. Così,
che cosa importava se venivano a fare una capatina ogni tanto? Non aveva
proprio alcuna importanza.
Avevo voltato lo stretto angolo che portava al parcheggio avviandomi
alla Volkswagen parcheggiata all'altra estremità, quando vidi ancora la ra-
gazza. Era vicino alla solita Citroen e non era sola. Lo sportello posteriore
della macchina era aperto e lei e Gillie Slade stavano caricando. Entrambe
parvero spaventate quando tre giovani rivolsero loro un'attenzione non ri-
chiesta.
Nell'avvicinarmi vidi che i ragazzi - potevano avere non più di quindici
o sedici anni - erano dei veri giovinastri: capelli ispidi, jeans consunti e
macchiati, stivali stringati. Anche se faceva caldo, uno indossava un giub-
betto di pelle con le borchie, mentre i suoi due amici portavano lacere ma-
gliette a maniche corte. La vita in campagna è cambiata, pensai.
Giacca-di-pelle saltellava attorno alla ragazza che avevo visto nel nego-
zio tirandole la treccia e ghignando verso i suoi compagni da vero bullo.
Uno degli altri allungava le mani verso il sacchetto di plastica che Gillie
tentava di mettere nell'auto, mentre il terzo punk era in disparte e aveva le
dita nel naso.
Quanto a me, mi tengo lontano dai guai, e le signore in difficoltà mi fan-
no poco effetto. Mi domandavo se non fossero troppo preoccupate per ac-
corgersi di me, o se avessi dimenticato di comprare qualche cosa per avere
una scusa per tornare indietro. Ma questo, anche per me, sarebbe stato un
poco troppo codardo. Proseguii fingendo di non avere visto niente. Il se-
condo giovinastro guastò le cose gettando a terra il contenuto del sacchetto
di Gillie e cercando fra i vari oggetti sparsi qualche cosa che colpisse la
sua fantasia. Gillie lo respinse e lui reagì dandole una spinta più forte che
la fece cadere sul cofano. La ragazza si fece rossa ed era sul punto di scop-
piare a piangere. Sfortunatamente in quel momento mi vide e un senso di
sollievo arrestò le sue lacrime.
Io gemetti dentro di me. Preso. Non c'era via d'uscita. Mi feci avanti con
gran disinvoltura e le ginocchia tremanti. A voce bassa le dissi: «Sta bene,
Gillie?»
I giovinastri mi guardarono; Giacca-di-pelle sempre col suo sorriso idio-
ta sul volto deturpato dai brufoli. Oh Dio, pensai, questa è una scena presa
da un film di ragazzacci.
Mentre Gillie si rialzava, l'altra ragazza mi guardava con interesse.
«Sì, sto bene, Mike,» rispose chinandosi per raccogliere gli oggetti che
erano caduti dal sacchetto. Il secondo giovinastro gliene fece volar via uno
con un calcio mentre stava per prenderlo, dando un grido di allegria.
Io andai verso di lui, felice che fosse più basso di me. «Credo che faresti
meglio a filar via,» gli dissi. «Basta così.»
Il suo riso arrogante si smorzò e lui guardò i suoi compagni per avere un
aiuto. Giacca-di-pelle si avvicinò e il terzo continuò a perlustrarsi il naso.
«Che c'entra lei?» chiese Giacca-di-pelle soffiandomi sul collo (questo
era più alto).
«Non è cosa che ti riguardi,» risposi, rammaricandomi che la voce mi
fosse un po' venuta meno a metà della frase.
Guardando meglio mi ero accorto che erano solo dei ragazzi che posa-
vano a duri, ma non ne erano convinti nemmeno loro. Questo mi diede co-
raggio.
Tuttavia loro erano in tre e io ero solo. Giacca-di-pelle avrebbe voluto
rispondermi, ma sembrava non riuscire a trovare le parole, e forse nemme-
no le idee. Io lo tolsi dall'imbarazzo. «Lasciate stare queste ragazze o vi
stendo.» Feci del mio meglio per sembrare un tipo in gamba.
Con mio spavento, questo parve avere l'effetto opposto su di lui: mi af-
ferrò la camicia e cercò di darmi una testata. Io mi abbassai istintivamente
e lui andò a sbattere con la faccia contro la mia testa. Il suo grido di dolore
mi rianimò notevolmente sebbene tutta una zona del mio cranio restasse
intorpidita. Quando mi rialzai, lui si era portato le mani alla bocca e il san-
gue gli gocciolava dalle dita.
«Se non stai attento ti riduco anche peggio di così,» lo avvertii sbuffan-
do e facendo di tutto per non strofinarmi la testa.
Uno degli altri due ragazzacci, forse un po' più sveglio, probabilmente
capì che la ferita di Giacca-di-pelle era stata più casuale che intenzionale; e
mi caricò lanciando una sorta di grido di guerra che risuonò come un
«luuuucuuuhhh.»
Quando si tratta di evitare un dolore, posso essere piuttosto svelto: schi-
vai il ragazzaccio e gli assestai un pugno nello stomaco. Si fece male più
per colpa sua che per la mia forza e si piegò in due senza fiato. Gli diedi
una spinta e lo feci crollare sul cofano della macchina più vicina e credo
che il metallo, riscaldato dal sole, gli bruciò la guancia, perché lanciò un
guaito e saltò su. lo però non gli diedi tregua, mi avventai su di lui e lo
spinsi sul cofano facendogli premere la guancia sul cofano bollente.
Il terzo punk aveva finito di perlustrarsi il naso e si era messo a grattarsi
un'ascella con un'espressione perplessa che gli conferiva una parvenza di
intelligenza. Giacca-di-pelle stava emettendo ancora rumori soffocati men-
tre si teneva il mento con le dita sanguinanti.
Io ero senza fiato, ma riuscii a controllarmi così da sorridere laconica-
mente. «Non dite che non vi avevo avvertito,» dissi con una certa fierezza
abbassando un po' la voce.
Con mio orrore i due cominciarono a riprendersi, quello ferito balbettò
una sfilza di imprecazioni e quello che avevo inchiodato al cofano della
macchina scalciò per rialzarsi. «Ragazzi, ragazzi che cosa sta succeden-
do?» La voce era quella di un ometto che faceva capolino dal finestrino di
un'automobile che si era fermata. Avrei baciato quella testolina che spun-
tava da un bianco colletto rotondo. Il vicario della parrocchia sembrava
sdegnato come se si fosse imbattuto in una banda di teppisti della categoria
più infima.
«Miles Carver, sei tu?» Stava guardando direttamente Giacca-di-pelle.
Miles? Sorrisi; adesso mi sarei divertito un po'. «Che cosa stai facendo,
ragazzo?» Il prete spense il motore e uscì dalla macchina guardandoci tutti,
stupefatto. Era un uomo basso, con una di quelle facce giovanili e senza
rughe che lo facevano sembrare senza età; l'unico indizio che lasciava sup-
porre che fosse sulla cinquantina erano i capelli bianchi incollati al cranio
come i fili di un ordito, fra i quali appariva la rosea cute. Portava una giac-
ca di tweed sopra la casacca nera col colletto bianco e i suoi calzoni mar-
roni erano arrotolati alle caviglie, come se avesse indossato quelli di suo
fratello maggiore. «Qualcuno vuol dirmi che cos'è successo?» chiese. Mi-
les borbottò qualche cosa che nessuno capì. Il secondo giovinastro aveva
smesso di contorcersi sotto la mia stretta pur tentando di allontanare la fac-
cia dal cofano, mentre il terzo aveva affondato le mani nelle tasche dei cal-
zoni deciso a tenerle lontane dal naso e dalle ascelle.
Gillie parlò per prima : «Questi giovani hanno cercato di derubarci per
fortuna il signor Stringer è intervenuto e li ha fermati.»
Io la guardai sorpreso. «Derubarci» era un po' esagerato.
«Bontà divina!» esclamò il vicario. «È vero, Miles?» Non badò alle pro-
teste dei giovinastri probabilmente abituato a questi dinieghi. «Non impa-
rerai mai? Ultimamente solo perché sono intervenuto io, sei in libertà con-
dizionata, e adesso ci sei ricascato.»
Miles impallidì visibilmente.
«Non è successo niente,» intervenni io. «Le cose sono andate un po' fuo-
ri controllo, tutto qui.»
Il vicario rivolse la sua attenzione a me mostrandomi una certa freddez-
za. «Direi che sarebbe bene lasciare andare quel ragazzo, adesso,» disse
indicando il mio sorvegliato.
«Certo». Io allentai la presa e il ragazzo scattò via guardandomi con ira e
massaggiandosi il collo.
«Thomas Bradley, anche tu!» Il curato scosse la testa tristemente rasse-
gnato.
Il terzo giovinastro chinò la testa con aria vergognosa: probabilmente il
curato conosceva suo padre.
«Posso solo chiedervi di perdonare questi ragazzi,» disse il prete rivol-
gendosi alle ragazze e a me. «Hanno lasciato la scuola l'anno scorso e, con
le difficoltà a trovar lavoro da queste parti...» Non portò a termine la sua
spiegazione lasciando dedurre a noi le ragioni della loro condotta. Mi sfor-
zai di trovare delle plausibili giustificazioni, ma poi lasciai perdere felice
di esserne uscito indenne e di aver fatto una discreta figura.
«1 ragazzi sono spiacenti di avervi dato fastidio, signorine...» (non mi
sembravano affatto così costernati) «.. .e sono sicuro che queste cose non
avverranno più.» Il curato diede uno sguardo accorato ai tre e ordinò loro
di andarsene e presto. Quelli si allontanarono lentamente, con Miles che si
lasciava dietro gocce di sangue.
Mi divertì vedere un omettino come il curato avere un tal dominio su di
loro, e, mi resi conto ancora una volta che la vita di campagna era molto
diversa da quella di città.
Gillie e la sua amica raccolsero i loro acquisti e li misero nel bagagliaio
dell'automobile, e notai che il prete le stava osservando con un disprezzo
appena celato.
«Grazie per l'aiuto,» gli dissi.
Si voltò verso di me e con manifesta ostilità nella voce e nell'espressione
disse: «Sì, questi incidenti sono spiacevoli. Comunque desidero che voi...»
Per la seconda volta la sua frase rimase sospesa.
Gillie, sistemò la sua roba in macchina e poi venne verso di me mentre
la sua amica chiudeva il bagagliaio. «Oh, Mike, come posso ringraziarla?
Sandy e io eravamo così spaventate.»
«Erano solo ragazzi,» dissi modestamente.
«Energumeni,» corresse lei, e io mi strinsi nelle spalle. L'altra ragazza,
Sandy, ci raggiunse e devo dire che era visibilmente sconvolta. «Lei è Mi-
ke?» chiese. «Gli altri mi hanno parlato di lei e di Midge. Spero che siate
riusciti a sistemare Gramarye.»
Improvvisamente mi parve che il curato mi guardasse con uno sguardo
diverso. «Lei è la coppia che si è stabilita nel villino di Flora Chaldean?»
«Una metà della coppia,» ammisi.
Si fece immediatamente avanti con la mano tesa. «Allora lasci che le dia
il benvenuto nella parrocchia e che mi scusi se non sono ancora venuto a
trovare lei e la sua gentile signora. Avevo saputo del vostro arrivo, natu-
ralmente, ma in questi giorni i miei doveri pastorali mi hanno tenuto piut-
tosto occupato. Intendevo...»
Gli strinsi la mano, ormai abituato alle sue frasi lasciate a mezz'aria.
«Benissimo, anche noi siamo stati un po' occupati. Io sono Mike Stringer.»
«Peter Sixsmythe.» Mi strinse la mano con vigore. «Il reverendo Si-
xsmythe.»
«Noi dobbiamo andare, Mike,» interruppe Gillie. «È stato molto gentile:
spero che ci permetterà di ripagare il debito.»
«Nessun problema,» dissi, sentendomi un tantino imbarazzato, ma sod-
disfatto. «Nessun debito da ripagare. Sono lieto di essere passato di qui. Ci
rivedremo presto, eh?»
«Senz'altro.»
Non era mia intenzione estendere un invito alle due ragazze. Con mia
sorpresa, prima di risalire in macchina loro mi baciarono sulla guancia. Il
vicario e io ci facemmo da parte mentre Gillie girava la Citroen per lascia-
re il parcheggio e ci salutava con la mano dal finestrino.
«Signor Stringer,» disse il reverendo Sixsmythe con un'espressione gra-
ve nel suo volto da ragazzine, «lei è, ehm, molto in amicizia con quella
gente?»
Aggrottai la fronte. «Non esattamente. Gillie e un paio dei suoi amici
passano ogni tanto dal villino. Sono buoni vicini.»
«Sì, sì,» disse in fretta come se stesse considerando le possibili conse-
guenze di quell'amicizia. «Scusi, le dispiacerebbe se venissi a trovarvi do-
mani? So che avrei dovuto farlo prima, ma come le ho spiegato...»
Esitai. La religione non era il mio forte, per lo meno la religione ufficia-
le, e non mi vedevo assistere alla funzione domenicale in modo regolare;
Midge forse, ma non certo io. Non che sia un miscredente, tutt'altro, ma la
religione è per me un fatto personale e privato, e il condividerla con altri
mi mette a disagio. Le chiese mi rendono nervoso. Tuttavia, che cosa po-
tevo rispondere a questo prete zelante?
«Certo, con piacere. Avvertirò Midge della sua venuta.»
«La signora Midge è sua moglie?»
«La mia compagna.»
«Ah.» Fu un semplice «ah», senza alcun giudizio implicito del tipo
"peccatori senza fede". «Sono impaziente di conoscervi meglio. Va bene
nel mattino?»
Assentii.
«Buone cose. E spero che il piccolo incidente di oggi non le abbia la-
sciato una cattiva impressione del nostro paese, signor Stringer. Questi e-
pisodi sono molti rari, glielo assicuro.» Aprì lo sportello della sua macchi-
na, ma non salì immediatamente; invece mi chiese: «Sapeva che questi
suoi nuovi amici appartengono a una setta chiamata Sinergista?»
«L'ho saputo stamattina.»
«Capisco. Loro non glielo avevano detto?»
«No. In realtà me l'ha detto il signor Hoggs del negozio di ferramenta.»
«Non le hanno accennato a niente circa Gramarye?»
Strana domanda, pensai. «Ci hanno chiesto come ci trovavamo, ma nien-
te di più. Perché?»
Guardò l'orologio. «Sono in ritardo per un appuntamento: devo parcheg-
giare e andarmene subito. Potremo discutere la cosa domani.» Salì in mac-
china, poi sporse la sua testa dal finestrino aperto e aggiunse: «Nel frat-
tempo un avvertimento: stia attento a quella gente, signor Stringer. Stia
molto attento.»
Lasciai che voltasse nello spazio lasciato libero dalla Citroen di Gillie e
andai alla macchina non sapendo se dovevo prenderlo sul serio. Forse non
amava le religioni non ufficiali. O vi era davvero qualche cosa di sinistro
in quel gruppo?
Ero sicuro che in un modo o nell'altro lo avrei saputo presto.

17.
I SINERGISTI

Kinsella arrivò quella sera stessa sul tardi; era solo, o meglio in compa-
gnia di due bottiglie di vino fatto in casa.
Ero seduto davanti alla porta d'ingresso e gettavo delle briciole di pane a
Rumbo, che le ammucchiava sul lato del sentiero squittendo come un mat-
to per tener lontani gli uccelli. Midge era in casa e preparava la cena.
Questa volta Kinsella arrivò con un'altra macchina, una Escort rossa, e
io la guardai con curiosità quando si fermò presso il cancello. Quando mi
resi conto di chi si trattava, inspiegabilmente mi irrigidii: gli avvertimenti
del curato avevano ovviamente rinforzato le mie riserve circa il visitatore
biondo e i suoi compagni.
Mi salutò con la mano dall'altra parte del cancello e rimase lì come a-
spettando un invito a entrare. Mi ricordai che né lui né i suoi amici aveva-
no mai messo piede a Gramarye e che le nostre conversazioni erano sem-
pre avvenute oltre il cancello. Semplice educazione, pensai, vecchie buone
maniere da parte loro. Mi alzai e percorsi il sentiero verso di lui, mentre
Rumbo mostrava la sua irritazione per l'interruzione del gioco lanciando
rauche strida. Feci cadere l'ultima briciola mentre passavo vicino a lui e
questo lo calmò un poco, sebbene lo sentissi ancora brontolare mentre met-
teva in ordine il suo "tesoro".
«Salve, Mike,» gridò Kinsella mentre mi avvicinavo; aveva una bottiglia
di vino sottobraccio e mi sorrideva con i suoi grandi denti bianchi che
sembravano ancora più bianchi sul volto abbronzato. «Ho portato una co-
setta per mostrarti la mia gratitudine per quanto hai fatto oggi.»
«Oh, parli di quella baruffa in paese?» dissi modestamente fingendo
sorpresa. «Quelli erano solo degli aspiranti teppisti.»
«Non proprio aspiranti, a quanto ho sentito. Gillie mi ha detto che gli hai
dato una lezione. Sandy mi ha mandato a ringraziarti; ti ho portato un po'
di vino.»
«Non era affatto necessario.»
«Invece sì. Senti, perché non apriamo subito la bottiglia? Ti assicuro che
è eccellente.»
Restava lì, tenendo le due bottiglie per il collo e porgendomele al di so-
pra del cancello e sarebbe stato villano da parte mia non invitarlo. Aprii il
cancello e gli feci cenno d'entrare. «Splendida idea,» dissi.
Mi aspettavo che entrasse subito; ma non lo fece; rimase dov'era come
una novella sposa nervosa. Lo fissai, e solo quando tornò ad accorgersi di
me, riprese i suoi modi disinvolti.
«Scusa,» disse in fretta. «Mi stavo chiedendo se non ero troppo indiscre-
to. Avrete molte cose da fare qui».
«In questo momento no. Ti dirò che un bicchierino me lo berrei volen-
tieri.»
Varcò il cancello e mi parve, ho detto mi parve, di vederlo rabbrividire.
«Accidenti avete lavorato un bel po',» osservò mentre gli facevo strada.
«Midge è stata bravissima. Mi sono meravigliato di come ha saputo ca-
varsela con tutte le varietà di fiori. Credo che l'esser venuta qui abbia ri-
svegliato in lei la sua passione per il giardinaggio.»
Rumbo, che nel frattempo doveva aver meditato su come portarsi le bri-
ciole nella sua tana, scosse la testa mentre ci avvicinavamo mostrando al-
larmato i piccoli denti aguzzi. Mi divertii nel vederlo così timoroso degli
estranei quando saltò via come un razzo balzando sul terrapieno a fianco
del villino scomparendo fra il fogliame.
«Molto grazioso,» disse Kinsella con una risata.
«Non è domestico, è un visitatore abituale. Di solito è più amichevole.»
Raggiungemmo la porta d'ingresso e io entrai direttamente mentre Kin-
sella indugiava sulla soglia per ammirare ancora il giardino. «Che colori
fantastici,» esclamò. «Incredibile.»
«Midge!» chiamai. «Abbiamo un ospite.»
Lei uscì tutta sorridente dalla cucina asciugandosi le mani sul grembiule.
Io le feci un cenno e lei guardò oltre la porta.
«Hub, che bella sorpresa.»
«Oh, Midge, sono venuto a ringraziare questo eroe.»
«Eroe. Ah, alludi alle sue prestazioni di questa mattina.»
(Le avevo parlato dell'incidente, ma non le avevo detto nulla degli av-
vertimenti del reverendo Sixsmythe circa i sinergisti; volevo lasciare a lui
questo compito per il mattino dopo, quando avrebbe potuto spiegarsi me-
glio.)
«Certo hai salvato le nostre sorelle da guai seri. Sono tornate sconvolte,
ma piene di ammirazione per Mike.»
«Non restare lì,» dissi sentendomi avvampare. «Entra.»
Lui accettò l'invito, ma mi parve ancora un po' esitante. Forse dovrei dire
cauto perché entrò con movimenti lenti e studiati. Si stava avvicinando il
crepuscolo, la cucina quasi immersa nel buio era in ombra, e lui sbattè gli
occhi per abituarsi all'oscurità.
«Abbiamo pensato di aprire una bottiglia subito,» dissi a Midge che ac-
cettò l'idea di buon grado.
«Vado a prendere dei bicchieri,» disse lei avvicinandosi alla credenza.
Prima aprì un cassetto e mi porse il cavatappi, poi aprì un'anta della cre-
denza e prese due bicchieri.
«Non bevi con noi, Midge?» chiese Kinsella strofinandosi le braccia nu-
de come se avesse freddo.
«Non bevo mai vino. Vi farò compagnia con una coca-cola.»
Ci sedemmo tutti e tre attorno alla tavola della cucina, e io versai il vino
per l'americano e per me, mentre Midge bevve direttamente dalla botti-
glietta.
«Ancora grazie, Mike,» disse Kinsella alzando il bicchiere.
«Oh, conoscete quei tipi: tanto fumo e niente arrosto. Hanno visto due
ragazze sole e hanno creduto di potersi divertire. Non avrebbero dato alcun
disturbo se tu fossi stato con loro.»
«Non lo so. Sembra che non siamo molto ben visti nella zona.»
«Davvero?» chiesi come se lo sentissi per la prima volta.
Lui confermò con un'espressione seria. «Sì tutti pensano che siamo una
setta religiosa di ciarlatani o qualche cosa del genere. Voi sapete com'è in
queste piccole comunità isolate: si sospetta di tutti i forestieri, specialmen-
te se si occupano di qualche cosa che quelli del luogo non capiscono.»
«Il Tempio Sinergista? Devo ammettere che non lo capisco nemmeno io.
Che cosa è? Una nuova religione?»
Lui sorrise e Midge inarcò le sopracciglia.
«Sinergista?» chiese.
«Qualcuno in paese le ha già parlato di noi,» disse Kinsella.
«Sì, il proprietario del negozio di ferramenta.»
«Dunque sa che non siamo ben visti.»
Mi sentii colto a mentire, ma Kinsella, mi sorrideva.
«Sinergista?» ripetè Midge battendo la bottiglia di coca-cola sulla tavola
per richiamare l'attenzione.
Kinsella si voltò verso di lei. «E il nome del nostro ordine.»
«Strano nome, mai sentito. Che cosa significa esattamente?»
Kinsella si mise a sedere sulla punta della sedia. «Prima di tutto non
siamo una setta di fanatici come ce ne sono in giro oggi. Non siamo un'isti-
tuzione di carità, né siamo una congrega religiosa nel vero senso della pa-
rola.» Continuava a sorridere, ma adesso ci guardava in modo rassicurante,
faccia a faccia.
«Lasciatemi dunque spiegare il Sinergismo. Fondamentalmente è la cre-
denza che la volontà umana e lo Spirito Divino sono i due elementi che
possono cooperare nella rigenerazione.»
Né io né Midge capimmo subito cosa intendeva. Lo guardammo stupiti e
il suo sorriso diventò quasi un sogghigno. Nonostante i suoi modi disinvol-
ti, lessi nei suoi occhi una certa serietà.
«Come varie sostanze chimiche agiscono l'una sull'altra,» continuò, «co-
sì crediamo che i processi del pensiero umano, che sono, come sapete, una
serie complessa di reazioni chimiche possano combinarsi con lo Spirito
Divino, o di tutti noi, se preferite, per dar origine a un unico potere.»
Io colpii il piede di Midge sotto la tavola, ma lei non se ne accorse.
«Di che tipo di potere stai parlando?» chiese a Kinsella.
«Oh, e di vari generi. Il potere di curare, di influenzare, il potere di crea-
re... può manifestarsi in tanti modi.»
«Tu hai parlato di rigenerazione...»
«Rigenerazione è una parola che usiamo per riferirci a tutti gli aspetti
della nostra dottrina. Significa la rigenerazione dei nostri spiriti e quella
di...» Si interruppe scusandosi con un sorriso. «Probabilmente penserete
che tutto questo è pazzesco, no?»
Era esattamente quello che pensavo; ma rimasi zitto.
«Tutti i seguaci di una religione pregano la loro particolare divinità: cri-
stiani, musulmani, ebrei... Per lo più pregano per un Intervento Divino,
perché certe cose avvengano o non avvengano. Possono pregare per se
stessi, per i loro cari o anche per il mondo in generale. Comunque cercano
di dirigere il naturale corso degli eventi e il loro dio è l'intermediario, il ca-
talizzatore o addirittura il creatore di questi eventi. La nostra dottrina non è
molto diversa dalla loro.»
Si addossò alla sedia aspettando che assorbissimo la rivelazione.
«Ma c'è una differenza,» osservai.
«Solo in quanto noi, con l'aiuto del nostro fondatore e della nostra guida,
impariamo a combinare e dirigere le nostre energie in un senso più fisico e,
naturalmente, agendo in unione con lo Spirito Divino.»
«Scusa,» insistetti, «Ma non sono ancora d'accordo con te. Questo, ehm,
Spirito Divino, che cos'è?»
«Tu, io, i nostri pensieri.» Fece un gesto comprensivo con le braccia.
«L'aria intorno a noi. La terra stessa, il potere che questa genera.» La sua
voce era divenuta soffocata e mi accorsi che anch'io trattenevo il respiro. Il
suo entusiasmo aveva in qualche modo caricato l'atmosfera.
Per un poco nessuno di noi parve voler rompere il silenzio e io notai che
la cucina era ormai completamente buia. La sera si era anche rinfrescata.
Midge prese la bottiglia della coca-cola senza distogliere lo sguardo da
Kinsella. «E siete... siete in molti nella casa grigia?» chiese prima di porta-
re la bottiglia alle labbra.
«Quaranta o cinquanta, credo. Noi chiamiamo quel luogo il nostro san-
tuario: è la nostra abitazione e insieme il nostro tempio. E diventiamo
sempre più numerosi.» Mise i gomiti sulla tavola, allungando la testa verso
di noi. «Dovreste venire tutti e due a trovarci, credo che sarebbe un'espe-
rienza interessante per voi.»
Risposi prima che Midge potesse aprir bocca. «Dobbiamo fare ancora
parecchie cose qui nel villino...»
Lui rise e si chinò in avanti per toccarmi il braccio. «Non essere nervoso,
Mike, non vogliamo cercare di convertirti. No, non è nel nostro modo di
fare.»
Mi ricordai che Hoggs, avevano detto il contrario quel mattino.
«Incontrereste alcune persone molto interessanti,» continuò Kinsella
cordialmente, «e di varie parti del mondo. Potreste conoscere Mycroft.»
Presi il mio bicchiere di vino con tanta foga che ne versai un po' sul ta-
volo. «Mycroft?»
«Sì, Eldrich P. Mycroft, il nostro fondatore, un uomo davvero unico.»
Kinsella che non aveva ancora toccato il vino, ne mandò giù un lungo sor-
so. «E buono, eh? Noi guadagnamo un po' di denaro vendendolo. Non
chiediamo delle donazioni: noi vendiamo le cose che facciamo.»
«E guadagnate abbastanza da mandare avanti l'organizzazione?» chiese
Midge.
«Il Tempio, Midge, noi lo chiamiamo il Tempio. No, no certo. Ma ab-
biamo dei fondi privati. Fa un po' freddo adesso, no?» Si strofinò forte le
braccia. Stranamente aveva la fronte sudata. «Sì, sì fa proprio freddo.»
Bevve ancora del vino facendo vagare lo sguardo in giro per la stanza.
«Forse dovrei chiudere la porta,» suggerì Midge accennando ad alzarsi.
«No, va bene così,» si affrettò a rispondere guardando la porta aperta. «E
un piacere sentire tutti questi meravigliosi profumi del giardino. Questi
fiori favolosi, Midge. Sì, Mike, sei stato proprio di grande aiuto alle ragaz-
ze, oggi. Tutto bene nel villino? Nessun altro problema? A parte i pipistrel-
li. Sei sempre preoccupato per i pipistrelli? Mike?»
Midge e io ci scambiammo un'occhiata. Quel tipo si stava ubriacando
con un solo bicchiere di vino?
«Non ci hanno ancora dato noia,» risposi. Assaggiai ancora il vino, che
non mi parve molto forte.
«Comunque potrete contare su di noi in caso di bisogno, lo sapete.»
Strinse il bicchiere fra le mani. «Fa buio presto in quest'angolo della fore-
sta,» e rise con un suono acuto nella pace della sera.
«Sembra che si prepari un temporale,» notai.
«Un temporale? Sì, è vero, si avvicina un temporale. » Kinsella aveva
ancora sul volto quel sorriso vacuo, ma sembrava a disagio, quasi preso in
trappola. Cominciava a innervosirmi.
Credo che Midge tentasse di calmarlo quando chiese: «Tutti quelli del
tempio hanno la tua età, Hub?»
«Oh, no, ci sono gruppi di tutte le età. Un paio degli adottivi sono sulla
sessantina. Chiamiamo così i discepoli semplici: adottivi.»
Però, pensai. «E tu sei un adottivo?»
«No, Mike, io sono primo ufficiale.»
«Sembra una carica importante.»
«Be', nel Tempio è piuttosto importante e comporta un mucchio di re-
sponsabilità. Spero che non stia per scoppiare un grosso temporale. Sentite
i tuoni?»
Eccome se li sentivo. Avevo la sensazione che se avessi fatto schioc-
chiare le dita avrebbero sprizzato scintille.
Kinsella mandò giù l'ultimo sorso di vino e io gli porsi la bottiglia, ma
lui la respinse con un gesto. «Devo andare: si sta facendo tardi.»
«Un altro bicchierino prima del viaggio?» dissi.
«Grazie, ma devo andare prima che scoppi il temporale.»
Si alzò, facendo stridere la sedia sulle mattonelle. Midge e io ci alzam-
mo con lui, ma lui era già alla porta prima ancora che noi fossimo in piedi.
«Ricordatevi quello che vi ho detto.» Il suo sorriso, sul lato sinistro, si
contrasse ancora di più. «Venite in qualsiasi momento, sarete sempre i
benvenuti.»
Uscì mentre noi ci avvicinavamo.
«Restate lì,» disse in fretta. «Non uscite, potreste prendere la pioggia.»
Sebbene fosse buio, potei vedere che la sua pelle era tutta sudata; e tut-
tavia rabbrividì come se gli fosse passata una ventata gelida sulla schiena.
Poi si allontanò affrettandosi per il sentiero quasi avesse un appuntamen-
to urgente. Midge e io ci guardammo stupiti.
«Credi che si senta bene?» chiese Midge sinceramente preoccupata.
«Me lo domando anch'io. Forse è stato qualche cosa che abbiamo detto.»
Rabbrividì anche lei. «Era strano, Mike. Molto strano. Avremmo fatto
meglio ad accompagnarlo per assicurarci che fosse in condizioni di guida-
re.»
Mi feci avanti e uscii appena in tempo per vedere il nostro frettoloso o-
spite salire a bordo della Escort lasciando aperto il cancello del giardino.
«Ehi, Hub!» gridai, ma lui non poté sentirmi. L'auto lasciò due profondi
solchi nell'erba tanto si avviò velocemente. Io percorsi il sentiero, ma pri-
ma che fossi giunto al cancello la Escort era scomparsa. «Buona sera,» dis-
si alla strada vuota.
Chiuso il cancello, tornai verso Gramarye e mi accorsi che le nubi nere
erano sparite. Allora mi fermai. C'erano nubi cupe all'orizzonte che copri-
vano gli ultimi raggi del sole al tramonto, ma sopra di esse il cielo era rela-
tivamente libero da ogni nube. Una leggera brezza increspò l'erbetta delle
aiuole e i colori smorzati dal crepuscolo ondeggiarono lievemente. Una
piccola ombra nera fuggì dal tetto del villino: un pipistrello in cerca di cibo
serale, e io rimasi in giardino a riflettere sul perché mai tutti e tre avessimo
pensato che stava per scoppiare un temporale.
E allora quella corrente fredda colse anche me.
Rabbrividii curvando le spalle. Qualche cosa oltre il giardino richiamò la
mia attenzione. Silenzio. Ma ecco di nuovo quella sagoma, che adesso era
lì al limitare della foresta: il volto era solo una macchia scura.
Ma sapevo che mi guardava e sapevo che mi aspettava.
La sagoma si mosse: un solo passo avanti. E io fuggii nel villino.

18.
SlXSMYTHE

A questo punto avrete capito che non sono un eroe. A volte mi capita di
essere particolarmente coraggioso. Solo che la sera della visita di Kinsella
non era una di quelle volte.
Non parlai a Midge di quello che avevo visto non volendo allarmarla, e
provando una certa vergogna per non essere andato a investigare. Appena
entrato nel villino corsi su per le scale e guardai da una finestra della stan-
za rotonda. Anche con la poca luce, riuscii a vedere che la sagoma non c'e-
ra più. Certo non aveva avuto il tempo di attraversare la radura verso il vil-
lino, così poteva solo essere tornata nel folto degli alberi. Quando Midge
mi chiese che cosa ero andato a vedere, risposi che credevo di aver visto
uno dei famosi daini della Nuova Foresta, e fu un errore perché lei si esaltò
e io dovetti dissuaderla dall'uscire per cercarlo. E troppo scuro, le dissi, e
ormai si sarà addentrato nella foresta.
Lei si lasciò convincere con riluttanza, ma continuò a osservare attenta-
mente la radura finché non fu notte completa (io la osservavo pieno di ap-
prensione).
Quando ci ritirammo, più tardi, io ero molto teso, anche se avevo fatto
del mio meglio per razionalizzare per tutta la serata. La lite durante il gior-
no, il cambiamento di Kinsella mentre bevevamo il vino, l'atteso temporale
che si era allontanato: tutte queste cose mi avevano messo fuori sesto ren-
dendomi un po' euforico. Non dubitavo di aver visto qualcuno che mi os-
servava dal bosco, ma i fatti precedenti mi avevano innervosito e questo
nervosismo era aumentato nel vedere ancora una volta il misterioso osser-
vatore. Chiunque, nelle stesse circostanze, avrebbe avuto queste sensazio-
ni.
Dormii male, mi svegliai più volte per ascoltare i rumori notturni, im-
maginando scassinatori che cercavano di forzare le finestre al piano terra e
andando a controllare le porte. Ogni scricchiolio era un rumore di passi e
ogni leggero colpetto lo scambiavo per qualcuno che bussava ai vetri delle
finestre.
Fu un sollievo quando venne mattino.
Avevo appena finito di tagliare l'erba dietro casa e stavo ripulendo le
lame della falciatrice quando arrivò il reverendo Sixsmythe. Midge, in cal-
zoncini e maglietta a maniche corte, stava lavorando in giardino quando il
vicario la salutò. Sebbene colta alla sprovvista (io mi ero dimenticato di in-
formarla della sua visita) lei rispose gentilmente al saluto. Lo condusse
dalla parte del giardino dove io lavoravo e mi fece un cenno mentre lui non
guardava.
«Buon giorno, signor Stringer,» disse giovialmente avvicinandosi con la
mano tesa. Oggi portava un cappello floscio di feltro che lo faceva sembra-
re un ragazzino vestito con gli abiti del padre perché era troppo grande per
lui. «Felice di vederla al lavoro. Spero che lo farà solo un paio di volte la
settimana.»
«Tre volte. L'erba qui cresce presto.»
Si guardò attorno. «Ah, sì, le piante e gli animali non mancano in questa
zona. Credo che Flora Chaldean avesse il suo da fare per tenere tutto in or-
dine. Sono capitato in un momento poco opportuno? Ieri ci eravamo messi
d'accordo.»
«Tutt'altro. Stavo facendo una pausa,» risposi.
«Anch'io,» disse Midge. «Gradirebbe un tè, un caffè, una limonata?»
«Una limonata andrebbe benissimo, signora... signorina...»
«Gudgeon.»
«Gudgeon,» ripetè lui. «Questo nome mi ricorda...»
«Margaret Gudgeon,» dissi io. «Libri per bambini?»
«Sicuro, proprio così!» Era fuori di sé per la sorpresa. «Benvenuta nella
nostra parrocchia, signorina Gudgeon. Bontà divina ! Conosco benissimo
le sue opere perché ho tre figli giovani. La più grande comincia a occupar-
si di altre cose, ma ha ancora una collezione dei suoi libri. E straordinario
che sia venuta a stabilirsi qui. E proprio in questo villino! Lo sa, vero, cosa
significa Gramarye?»
«Sì», rispose lei. «Significa Magia.»
La guardai stupito. Non me lo aveva mai detto.
«E com'è appropriato,» proseguì Sixsmythe. «Veramente appropriato.
Le sue storie non parlano forse di magia?»
«Io illustro solo i libri.»
«Sì, ma i disegni fanno la storia, no? Le parole sono solo al servizio, del-
le illustrazioni vero signorina Gudgeon? Posso chiamarla Margaret? E
questo è Mike, no? I cognomi sono così formali e qui siamo tutti amici.»
Mi domandai se potevo chiamarlo Pete.
«Limonata anche per te, Mike?» Midge mi sorrise lanciandomi uno
sguardo che voleva dire chi è questo tipo?
«Magnifico,» risposi contraccambiando il sorriso.
Avevamo comprato in paese un tavolino da giardino e due sedie di legno
e li avevamo sistemati vicino alla vecchia panca. Feci cenno al curato di
accomodarsi e lui si sedette su una sedia togliendosi il cappello e posando-
lo sul tavolino. Io presi posto di fronte a lui sulla panca. Di lì potevo vede-
re la foresta alle sue spalle e, per la seconda volta quel mattino, la scrutai
attentamente cercando chi sapete voi.
«Devo scusarmi per quello che è avvenuto ieri in paese», disse Si-
xsmythe asciugandosi la fronte con un fazzoletto rosso. «In ogni comunità
c'è sempre qualche elemento indisciplinato, e lei si è imbattuto proprio nel
peggiore. In realtà non sono ragazzi malvagi, ma sono sempre in lotta con
il mondo intero.»
«Non si preoccupi; mi ero quasi già dimenticato dell'incidente» mentii.
È strano come si tenda a mentire soprattutto con la gente di chiesa assu-
mendo un tono di falsa benevolenza. «Comunque non hanno fatto nulla di
grave.»
«Sono contento che la prenda così. La nostra è una comunità pacifica,
Mike, e forse conduciamo uno stile di vita fin troppo tranquillo per i tempi
che corrono. Comunque vanno bene per la gente di qui e non credo che
avverranno cambiamenti drastici ancora per una decina d'anni. A meno che
non decidano di costruire un'autostrada che passa attraverso la foresta, ma
non credo accadrà.»
Ridacchiò, ma io avevo la sgradevole sensazione che mi stesse valutan-
do attentamente. Speravo proprio che non avesse un piccolo attacco isteri-
co come il nostro amico Kinsella il giorno prima.
Parlammo del tempo, della campagna, accennammo alla situazione del
nostro paese, e io avevo l'impressione che aspettasse il ritorno di Midge
per affrontare argomenti più personali.
Lei tornò dopo un periodo che mi parve lungo un'infinità, portando un
vassoio di bicchieri e una caraffa di limonata ghiacciata. Io considerai con
piacere le sue gambe sottili abbronzate e vellutate. Mi accorsi che Si-
xsmythe le lanciava sguardi furtivi, era un uomo anche lui nonostante la
tonaca nera e il colletto bianco.
Midge si sedette accanto a me sulla panca e versò la limonata dalla ca-
raffa. Era un'altra magnifica giornata, quell'estate sarebbe passata alla sto-
ria per il bel tempo, e la bellezza dell'ambiente calmava il mio nervosismo
per la notte insonne. Sentivo sempre quel senso di disagio dentro me, u-
n'inquietudine che non riuscivo a spiegarmi. Sorseggiai la limonata e tentai
di fissare lo sguardo sul prete e non sul bosco dietro di lui.
«Allora, Margaret,» disse Sixsmythe dopo avere inghiottito metà della
sua limonata in un solo sorso, «sta lavorando a qualche nuovo libro in que-
sto momento?»
«Oh, no. Mike e io abbiamo deciso di non accettare nessun lavoro per
almeno un mese, finché non ci saremo messi a posto a Gramarye. E un pe-
riodo di assestamento.»
«Molto saggio. E lei di che cosa si occupa, Mike? È anche lei un arti-
sta?» Era sinceramente interessato, con i suoi occhi chiari da ragazzino at-
tenti e brillanti.
«Io suono la chitarra e scrivo canzoni quando posso.»
Parve deluso. «Capisco, quindi lei non lavora regolarmente.»
Midge e io ridemmo.
«Come no!» rispose Midge, divertita ma anche sdegnata. «Mike suona
soprattutto in sala di registrazione, e ogni tanto all'estero.»
«All'estero?»
«Suono in un complesso e di tanto in tanto facciamo qualche tournée,»
spiegai.
«Ah.»
«E quando non è in tournée, lavora sodo; scrive canzoni. Adesso sta
scrivendo delle canzoni per un musical.
«Midge...» l'avvertii bonariamente.
«Scusa.» Mi premette la gamba, poi, rivolgendosi a Sixsmythe spiegò:
«Preferiamo non parlare mai dei nostri progetti futuri. Mike e io pensiamo
che non porti fortuna.»
«Sì, vi capisco. Forse il parlarne può bloccare la creatività».
«Proprio così, » dissi. «A volte hai una buona idea, ne parli con qualcu-
no, e subito dopo l'idea è morta prima ancora di vedere la luce.»
«Perbacco, che vita intensa dovete avere.»
Sorridemmo.
«Quando viene pubblicato un nuovo libro, o il lavoro va bene, tutto è
molto entusiasmante,» disse Midge. «Per il resto bisogna imporsi una fer-
rea autodisciplina...»
«Comunque immagino che conoscerete persone molto interessanti,» in-
sistè lui. «Spero che non vi annoierete troppo con gente semplice come
noi.»
«Mi creda, una delle ragioni che ci hanno indotto a venire qui è stata
quella di allontanarci da certe persone cosiddette "interessanti". Troviamo
la vita di campagna rigenerante.»
«Sì, forse sono stato un po' duro con me stesso e nei confronti dei miei
parrocchiani. Vi accorgerete che molti di noi non sono così sciocchi come
possono sembrare a prima vista». Annuì come per confermare ciò che ave-
va appena detto. Poi guardò pensoso le mura del villino. «In realtà vi sono
alcuni personaggi interessanti, da queste parti. Per esempio credo che avre-
ste trovato affascinante Flora Chaldean. Una donna davvero straordinaria.»
Midge appoggiò i gomiti sul tavolino e intrecciò le mani davanti a sé.
«La conosceva bene?» chiese.
«Flora? No, credo che nessuno l'abbia conosciuta bene. Era troppo in-
troversa. Ma la gente del luogo si rivolgeva a lei quando si trovava in dif-
ficoltà. » Sorrise con aria pensosa. «Molti di coloro che io non riuscivo ad
aiutare andavano da lei. Flora era per loro di grande conforto, molto più di
quanto lo fossi io. Loro non mi parlavano mai di queste visite le tenevano
segrete. Ma io lo sapevo. Conoscevo le loro abitudini.»
Mi sistemai meglio sulla panca e vidi che Midge era incuriosita.
«Che genere di aiuto dava la signora Chaldean?» chiesi. «Era una di
quelle persone a cui la gente ama confidare i suoi guai?»
«Era molto più di questo» aggrottò le sopracciglia. «Era una grande gua-
ritrice: una guaritrice dello spirito e della carne. Purtroppo io non posso
guarire i malati e solo raramente riesco a guarire lo spirito. Sembra che
Flora avesse un dono antico.»
Gli uccelli ci volavano attorno e ogni tanto qualcuno atterrava ai nostri
piedi. Se Sixsmythe non fosse stato lì, sarebbero volati addirittura sul tavo-
lino a chiedere cibo.
«L'avvocato di Flora ci aveva accennato al fatto che era una guaritrice,»
disse Midge. «Adesso lei ci sta dicendo che era una guaritrice dell'anima?»
«Non esattamente. Oh, sono sicuro che molti dei suoi successi erano do-
vuti alla fiducia che tutti avevano nei suoi poteri. Ma questo non spiega
tutto. Preparava pozioni di quelle che si trovano nei libri di antichi rimedi,
passate di generazione in generazione, ma aveva anche la capacità di cura-
re senza questi farmaci, solo parlando o usando le mani. Non che acco-
gliesse tutti ! Bontà divina, no! V'erano alcuni a cui non avrebbe permesso
di metter piede nel suo giardino!» Scosse la testa e sorrise come il fantoc-
cio di un ventriloquo. «E poi aveva uno straordinario modo di trattare gli
animali. Li poteva guarire quasi dalla sera al mattino, a quanto mi hanno
detto.»
Midge mi lanciò un rapido sguardo.
«Spesso qui si vedevano vacche o cavallini malati, impastoiati, per un
giorno o due, poi quando il padrone veniva a riprenderli erano guariti. Ca-
ni, gatti, a volte veri serragli. Ora, non si può dire che anche gli animali
avevano fede nei suoi poteri, quindi è difficile capire in che modo guaris-
sero. Sì, sì, Flora aveva un meraviglioso dono. Peccato che io l'abbia cono-
sciuta solo poco prima che se ne andasse. Potrei avere un altro bicchiere di
limonata, Margaret? È molto rinfrescante in giornate come questa.»
Lei gliela versò, tutta assorta nella storia dell'ex-proprietaria di Gramar-
ye. «È strano che la sua fama, non fosse più diffusa.»
«Cielo, no! Sono tutti molto chiusi, da queste parti. Sì, svolgeva tutto in
gran segreto. Flora faceva promettere il massimo riserbo a coloro che an-
davano da lei. Tuttavia, come sempre, correvano delle voci, una confiden-
za qui, un accenno là. Credo che la gente pensasse che ammettere aperta-
mente queste cose avrebbe infranto in qualche modo i poteri magici della
vecchia signora.»
«Una strana parola per un curato,» osservai.
Mi guardò vergognandosi un po'. «Sì, lo ammetto, la parola «poteri ma-
gici» ha un sapore di idolatria; ma riferisco solo quello che passava per la
mente della gente. Credo che sia molto affascinante, no?»
«Be',... sì, suppongo di sì. Sono solo sorpreso di sentire un curato parlare
così.»
Rise. «E vero! Posso capire la sua sorpresa. Ma in un certo senso la ma-
gia ha molto a che fare con il mio lavoro, non le pare? Quando noi preti
preghiamo l'onnipotenza e la divina bontà del Signore, dopo tutto chiedia-
mo che si avveri una magia.»
«Io... non consideravo la cosa in questi termini,» ammisi.
«Naturalmente no. E io devo rimproverarla. Per quanto Flora Chaldean
avesse poteri notevoli, temo che questa magia sia passata di moda da qual-
che secolo. Lo studio dei microchip è la nuova magia, non le sembra?»
mandò giù un sorso di limonata, doveva essere assetato. (Seppi poi da Mi-
dge che Sixsmythe era venuto dal villaggio in bicicletta pensando che un
po' di moto, in una giornata così bella, gli avrebbe fatto bene. Il suo cap-
pello floscio troppo largo aveva mantenuto in ordine i suoi capelli, ma non
aveva fatto molto per mantenere giovane il suo corpo).
«Mike,» disse ponendo il bicchiere sul tavolino e dandomi un'occhiata
da levriero. «Questi sinergisti... ieri mi ha detto che sono venuti a trovarvi
varie volte.»
Assentii domandandomi che cosa stesse per dirmi. «Erano soliti anche
far visita a Flora Chaldean.» Non avevo particolari commenti da fare: mi
sembrava una cosa molto naturale.
«Il fatto è che non erano affatto benvenuti. Flora detestava cordialmente
questo gruppo pseudoreligioso. Tanto che se ne lamentò con il capo della
polizia del villaggio. Ma lui poteva fare ben poco per impedire loro di ve-
nire qui.» Accennò al paesaggio dietro di sé. «Questi boschi sono di tutti e
così pure i sentieri attorno al villino; loro avevano il diritto di passare o
soffermarsi quando volevano.»
«Un momento. Vuol dire che molestavano la vecchia signora?»
«Da quanto sono stato indotto a credere, sì, decisamente.»
«Ma perché avrebbero dovuto farlo?» intervenne Midge. «I tre che ab-
biamo incontrato non potevano essere più amichevoli né più innocui. Per-
ché avrebbero dovuto disturbare Flora?»
Alzò lentamente le mani lasciandole cadere sul tavolino. «Chi può dirlo?
Flora era una persona molto riservata, nonostante, o, per meglio dire, pro-
prio a causa dei discreti servigi che offriva a coloro che ne avevano biso-
gno. Era un'eccentrica, per non dire un tantino bisbetica in certe occasioni,
così che può averli presi in antipatia per diverse ragioni personali.»
«Ieri ho avuto l'impressione che ben pochi, qui, li abbiano in simpatia,
così che, da questo punto di vista, non era la sola,» dissi. «Tuttavia non
riesco a capire perché siano così impopolari. Che cosa hanno fatto per pro-
vocare un tale risentimento»
«È gente strana e vive in uno strano modo.»
Sospirai. «Questa non è una ragione...»
«E un'organizzazione sospetta, Mike, non diversa da tante altre molto
diffuse al giorno d'oggi. Sono arrivati qui cinque anni fa, con un certo
Mycroft. Dapprima erano pochi e si stabilirono a Croughton Hall vivendo
per conto loro. Poi però se ne sono aggregati altri da varie parti del mondo,
riunendosi nella tenuta di Croughton come se fosse il punto focale della lo-
ro religione. E non molto tempo dopo cominciarono a reclutare altri segua-
ci, molti da questa regione, soprattutto giovani, allontanandoli dalle loro
famiglie, facendo loro un vero e proprio lavaggio del cervello perché ac-
cettassero i loro sistemi di vita, gli insegnamenti di Mycroft, così che essi
non hanno più voluto lasciarli per quanto le loro famiglie o i loro cari cer-
cassero di persuaderli a tornare nel mondo reale.»
«Certo le autorità sarebbero intervenute se la situazione fosse così pre-
occupante come lei dice.» Lo sguardo di Midge si era fatto acuto per l'inte-
resse.
«Poiché non erano coinvolti dei minorenni e nessuna legge veniva offe-
sa, le autorità giudicarono di non avere ragioni per fare delle indagini. Cul-
ti e religioni antichi non sono rari, in questi giorni, dopotutto. I sinergisti
non sono registrati come associazione di carità, così che nemmeno la loro
posizione finanziaria può essere messa in questione finché mantengono in
ordine i loro registri.»
«Non vi sono leggi contro le sette segrete?» chiesi.
«Il Tempio Sinergista non si può considerare una setta segreta. Vivono
molto appartati, ma non si possono considerare una setta segreta.»
«Non ha mai conosciuto questo Mycroft?» Midge guardò il vicario sopra
l'orlo del suo bicchiere mentre beveva.
«No, mai. Ma sono andato alla loro sede più di una volta. Dovrei chia-
mare quel luogo il tempio, ma è molto difficile per me considerarlo tale.
No, ogni volta che vi sono andato questo Mycroft era indisposto o in viag-
gio per affari. Credo che nessuno l'abbia mai visto.»
«Non ci ha spiegato perché si interessassero a Flora Chaldean,» dissi.
«Era piuttosto anziana per diventare un'adottiva, non le sembra?»
Sixsmythe inarcò le sopracciglia. «Lei sa come chiamano i loro segua-
ci?»
«Uno dei ragazzi della congrega è passato di qui ieri sera per ringra-
ziarmi dell'aiuto che ho dato alle ragazze in paese. E ci ha parlato un po'
dei sinergisti.»
«Capisco.»
Sorrisi. «Non si preoccupi, non cercava di convertirci. Eravamo interes-
sati e abbiamo fatto alcune domande, tutto qui.»
Sixsmythe rimase in silenzio per un momento. Poi disse: «Credo che voi
due dovreste essere molto cauti con questa gente. Sì, mi rendo perfetta-
mente conto che sembrano molto affabili e innocui, e tuttavia non posso
fare a meno di pensare che nascondano qualcosa.
«Tutto questo è molto misterioso.»
«Già.»
«Oh, andiamo, lei avrà certo da dirci qualche cosa di più,» esclamò Mi-
dge in leggero tono canzonatorio.
«No, purtroppo. Lo chiami pure presentimento il mio, condiviso, del re-
sto, da molti miei parrocchiani. Se ne sapessimo qualche cosa di più se riu-
scissimo a scoprire qualche loro brutta azione il nostro consiglio locale po-
trebbe esercitare la sua autorità e opporsi in qualche modo alla loro pre-
senza in questa zona. Ma per il momento vivono per conto loro e non han-
no commesso nulla di male almeno pubblicamente.»
«E allora perché tutto questo chiasso?» Adesso Midge era realmente irri-
tata. «Il solo fatto che non si conformino al modello di vita locale non è
una ragione per metterli al bando.»
«Figlia mia, se fosse così semplice. Come ho detto, lo chiami pure pre-
sentimento, come vuole, ma la gente del luogo è molto sospettosa, e, come
uomo di Dio, lo sono anch'io. Vi è intorno a loro un'atmosfera di segretez-
za che troviamo molto sconcertante»
Midge soffocò una risatina e Sixsmythe si accigliò. «Non intendevo di-
vertirla,» disse con una certa irritazione. «Forse viviamo un po' tagliati
fuori dal mondo in questa zona, ma le assicuro che non siamo degli zotici
campagnoli superstiziosi. Io vi ho dato il mio parere, e non posso fare mol-
to di più.» Prese il suo cappello e si preparò a prender congedo. «Secondo
la mia opinione, questa setta sinergista non è meritevole di fiducia; comun-
que lascio a voi il giudizio.»
Io fui preso alla sprovvista dalla sua irritazione. «No, badi, non stiamo
canzonandola e apprezziamo che sia venuto per parlarci di loro. Li cono-
sciamo appena, ma sembrano buoni vicini, così che è difficile per noi ac-
cettare ciecamente quello che ci ha riferito. Lei ci ha detto il suo parere,
ma non ci ha dato alcuna prova.»
Mitigò la sua espressione imbronciata, ma comunque si alzò. «Sì, capi-
sco come deve apparirle la situazione,» disse. «Immagino che le sembrerò
molto strano, ma le chiedo solo di tenere conto delle mie parole. E se do-
veste avere qualche preoccupazione di qualsiasi genere, mi prometta di te-
lefonarmi, mi dia retta almeno in questo.»
«Senz'altro,» risposi alzandomi assieme a lui.
Midge fu meno cortese e sapevo il perché: il curato aveva scoccato una
prima freccia contro la sua montagna incantata. Midge non voleva sentir
parlare male di persone che le erano simpatiche. Tuttavia si alzò anche lei
educatamente e insieme accompagnammo il curato alla bicicletta. Si-
xsmythe si rese conto del cattivo umore di Midge e probabilmente si sentì
un po' mortificato perché fece del suo meglio per portare la conversazione
su argomenti più piacevoli: la bella posizione di Gramarye, il magnifico
giardino, la piacevolezza della foresta (ancora più bella secondo lui nei
mesi d'autunno quando le chiome degli alberi assumono colori oro rossic-
cio).
Poi ci chiese se ci avrebbe visto in chiesa alla funzione della domenica
(sapevo che sarebbe arrivato a questo). Dei sinergisti non fece più parola.
Aprii il cancello e lui passò, si rimboccò i calzoni alle caviglie e poi tirò
su la bicicletta dal recinto dove l'aveva appoggiata.
«Signor Sixsmythe...» disse Midge mentre lui stava per montare in sella.
Lui si voltò guardandola con aria interrogativa.
«Può dirmi una cosa?»
«Naturalmente.»
«Ebbene, noi... io... io vorrei sapere come è morta Flora Chaldean.»
Rimase per un momento interdetto. «Oh, figlia mia, spero di non averla
turbata con i miei racconti. Mi perdoni se è così.»
«No, sinceramente non mi ha turbata. Era da un po' che volevo saperlo.»
«Flora era molto vecchia, cara Margaret. Nessuno sapeva con esattezza
quanti anni avesse, ma suppongo che avesse raggiunto l'ottantina e forse
fosse vicina ai novanta.» Le sorrise cordialmente. «Credo si possa dire che
Flora sia morta di vecchiaia. Il suo cuore era stanco e lei è passata a mi-
glior vita nella sua amata Gramarye. Purtroppo, vivendo sola, nessuno se
n'è accorto prima che fossero passate alcune settimane, sebbene alcuni as-
sicurino di essere passati dal villino e di averla vista in giardino solo pochi
giorni prima che il suo corpo fosse rinvenuto. Ma la gente fa spesso confu-
sione sulle date; è difficile essere assolutamente sicuri su certe cose.»
«Perché avrebbe dovuto esserci confusione?» chiese Midge.
«Ah,» rispose il curato come se la domanda di Midge fosse pertinente.
«Si da il caso che io sia proprio quello che scoprì il suo corpo. Andavo o-
gni tanto a vedere come stava, come parte di quelli che considero i miei
doveri, sebbene non ricordi di avere mai visto Flora nella mia chiesa. Mi
faccio un dovere di visitare gli anziani della parrocchia non appena ho
tempo, specialmente durante i mesi invernali.»
Si aggiustò il cappello calandoselo bene in testa così che il vento non
glielo portasse via. «La vidi attraverso la finestra della cucina, seduta a ta-
vola, con la tazza e la teiera davanti a sé come se stesse prendendo un buon
tè caldo. Era una giornata nuvolosa e la cucina era in ombra, così che non
potevo vedere chiaramente. Ricordo di aver notato quanto fossero sudici i
vetri, perché mi impedivano di vedere bene. Ma quando battei sul vetro
senza avere risposta, cominciai a insospettirmi. Avevo già cercato di aprire
la porta e l'avevo trovata chiusa a chiave, cosa strana perché Flora non
chiudeva mai né le porte né le finestre. Impensierito corsi a chiamare Mr.
Farnes il capo della polizia.»
Scosse tristemente la testa, come se il ricordo fosse ancora chiarissimo
nella sua mente. «Lo aspettai al villino, scoprendo nel frattempo che anche
la porta del retro era chiusa a chiave. Quando Farnes arrivò, ruppe un vetro
della finesta della cucina. Sollevò il saliscendi ed entrò in casa.
Midge mi si avvicinò. Passò un'automobile e un cagnolino di peluche,
appeso al finestrino posteriore, fece sì con la testa come se conoscesse già
il resto della storia.
«Era molto pallido quando aprì la porta e mi invitò a entrare. Conside-
rando l'espressione sul suo volto e il fetore che proveniva dalla cucina, en-
trai trepidante.»
Sixsmythe stava guardando il villino, non noi. «Come vi ho detto, Flora
Chaldean era al tavolo, come se si fosse appena seduta a prendere il tè. Ma
la tazza era piena di una liquida muffa verde. E il corpo di Flora era ormai
putrefatto e brulicante di larve. Era morta da parecchie settimane.»
Il mio stomaco fece una capriola e il volto abbronzato di Midge perse il
suo colore. Mi si avvicinò e io la sostenni.
Sixsmythe era assorto: tutta la sua attenzione era concentrata sull'enigma
che lui stesso aveva posto. «1 passanti non avevano dunque potuto vederla
in giardino solo qualche giorno prima. Il coroner confermò poi quello che
io già sapevo: le condizioni del corpo di Flora indicavano che era morta da
almeno due o tre settimane, e nessuno se n'era accorto fino al momento del
mio arrivo. Piuttosto triste, non è vero? Sì, piuttosto triste.»
Così dicendo spinse la bicicletta sulla strada erbosa e si avviò pedalando
lungo la strada salutandoci con la mano senza voltarsi indietro.
E fu un bene perché 1'espressione del mio volto avrebbe potuto turbarlo
causando un incidente.

Come potete immaginare, tutto il resto della giornata fu rovinato. La cu-


cina di Gramarye perdette buona parte del suo rustico fascino all'idea del
corpo putrefatto della povera vecchia Flora seduto lì al tavolo davanti a
una tazza di tè ammuffito, e Midge cadde in un silenzio desolato fino a se-
ra. Rimase per lungo tempo da sola nella stanza rotonda e io non la distur-
bai.
Mi sentivo a disagio, per non dire nauseato, e avrei volentieri strangolato
il curato per la sua insensibilità. Più di una volta mi domandai se la sua
minuziosa descrizione non fosse stata intenzionale, forse come piccola
vendetta alla nostra bonaria derisione dei suoi consigli... ma gli uomini di
chiesa non sono vendicativi, no? O forse sbaglio?
Tuttavia la giornata non fu tutta cattiva. Nel tardo pomeriggio telefonò
Bob con notizie straordinarie. Phil Collins apprezzava molto una delle
canzoni che avevo scritto con Bob, e voleva registrarla per un album la set-
timana successiva: sarei andato alla registrazione? Bob prese il mio scon-
nesso balbettìo per un «sì».
Midge, naturalmente, fu contenta per me quando glielo dissi: il periodo
di ozio professionale che ci eravamo imposti sarebbe finito la settimana
prossima, e una registrazione con una celebrità non era un cattivo modo
per ricominciare. Fece del suo meglio per superare il suo stato di depres-
sione, sebbene fosse ancora un po' abbattuta, e passò il resto del pomerig-
gio e della sera entusiasmandosi con me. Quella sera andammo a letto pre-
sto e concludemmo la giornata in bellezza.
Ma poi quando mi addormentai ebbi un incubo: ero in cucina e prendevo
il tè con Flora Chaldean mentre larve bianche che si contorcevano cadeva-
no nel tè dalla mano che mi porgeva la tazza.
Grazie a Dio mi svegliai prima di bere, perché l'ultima immagine fu
quella di un dito putrefatto, quasi senza carne, immerso nella verde muffa
del tè.

19.
MYCROFT

La domenica seguente andammo in macchina all'Osteria della Foresta


per uno spuntino e una meritata bevuta. Con l'avvicinarsi della registrazio-
ne, stabilita per il mercoledì seguente, e la maggior parte dei lavori nel vil-
lino ormai fatti, eravamo dell'umore adatto per dei festeggiamenti.
Bevvi due bitter prima di pranzare mentre Midge ordinò il solito succo
d'arancia; forse per la mancanza d'abitudine, mi sentii la testa un po' legge-
ra dopo il secondo bitter e pronto per un terzo. Midge, però, ne aveva ab-
bastanza di quell'osteria, e non potevo biasimarla: dopo la tranquillità di
Gramarye, la folla e il rumore - il luogo era un noto ritrovo domenicale per
i turisti e la gente del posto - erano un po' difficili da sopportare. Il trambu-
sto e l'aria piena di fumo erano in deciso contrasto con la pacifica esistenza
a cui ci eravamo abituati. Ce ne andammo senza troppe proteste da parte
mia e ci avviammo a braccetto verso la macchina.
Su proposta di Midge decidemmo di fare un giro per esplorare la zona.
In precedenza non avevamo avuto molte occasioni, eccettuata qualche pas-
seggiata nella foresta attorno a Gramarye e alcune gite per acquisti a Can-
trip e a Bunbury; così non era stata una cattiva idea purché ci tenessimo
lontani dalla strada principale affollata di turisti. Uscii con la macchina dal
parcheggio e mi allontanai dall'osteria mettendomi a cantare forte appena
imboccata la strada.
Presto voltammo in un sentiero tranquillo dentro la densa foresta, tra
svolte brusche che richiedevano tutta la mia concentrazione. Gli alberi
formavano una galleria di fogliame che ci riparava piacevolmente dal calo-
re del sole. A dire il vero, credo che tutti e due avessimo un'idea di dove
potesse condurci quella strada ma nessuno di noi aprì bocca: eravamo cu-
riosi sui sinergisti; il nostro interesse era stato alimentato piuttosto che pla-
cato dagli avvertimenti di Sixsmythe. Non che volessimo avere a che fare
con loro - in realtà ero stato contento che né Kinsella né gli altri ci avesse-
ro fatto visita dopo la partenza del visitatore biondo la settimana prima.
Volevamo solo vedere più da vicino la casa grigia: il Tempio. Nessun fer-
vore, nessuna motivazione profonda - solo una meta per una gita pomeri-
diana. Certo avevamo parlato dei sinergisti ed eravamo giunti alla conclu-
sione che non costituivano alcun pericolo per persone mature e sensate
come noi. Sixsmythe non si era certo attirato la nostra simpatia con l'as-
surda descrizione della macabra scena del ritrovamento del cadavere di
Flora Chaldean, e così noi non eravamo disposti a prendere molto sul serio
le sue opinioni. Midge si era lasciata impressionare da Sixsmythe ma infi-
ne aveva accantonato i brutti pensieri rilassandosi ancora nel caldo am-
biente di Gramarye. Sono sicuro che la continua presenza degli uccelli e di
vari animali attorno a quel luogo ci era stata d'aiuto sotto questo aspetto; ci
aveva rinvigorito e aveva bandito le ombre spettrali. Il villino non sarebbe
stato più lo stesso, ma la nostra pace mentale era stata solo leggermente
scalfita e non danneggiata per sempre.
Come avrete già capito, avevamo avuto un'estate eccezionalmente bella
ed era giusto che pagassimo un piccolo scotto. E 1'«esattore» stava per ab-
battersi sul parabrezza mentre percorrevamo quel sentiero solitario.
La Volkswagen era rimasta per settimane sotto il sole cocente, regolar-
mente usata e, per mia colpa, raramente controllata. Quando vidi il fumo
alzarsi dal cofano, cercai di ricordare quando avevo controllato il radiatore
per l'ultima volta. L'indicatore della temperatura era salito pericolosamente
e una lucetta rossa lampeggiava in modo minaccioso.
«Accidenti,» brontolai rannuvolandomi.
Midge che non se ne intendeva di macchine chiese:
«Che cosa c'è che non va, Mike?»
Io devo averle lanciato un'occhiata minacciosa quanto quella maledetta
luce rossa, e Midge tornò a guardare davanti a sé.
«Scusami,» disse.
Fermai la macchina e rimasi lì, fumando non meno del motore.
«Puoi aggiustarlo?» si arrischiò a chiedermi Midge dopo un poco, guar-
dando a bocca aperta il fumo che saliva dal cofano.
Sforzandomi di restare calmo, risposi: «Sì, sputando nel radiatore.»
Guardai il fumo con sguardo torvo.
«Non credi che dovresti tentare di fare qualche cosa?»
Sospirai. «Sì, hai ragione. Forse si è rotta solo la cinghia del ventilatore.
Hai i collant indosso?»
Mi diede un'occhiata che fece svanire le mie speranze. Mugolando aprii
lo sportello. «Tira su quell'affare, Midge,» e indicai una leva dalla parte
del passeggero. Lei obbedì e il cofano si aprì di qualche centimetro.
Uscii dalla macchina e passai sul davanti brontolando fra me mentre in-
filavo le dita nell'apertura e liberavo il fermo del cofano. Alzai il cofano
completamente, voltai la faccia per evitare il fumo, e lo fissai con la sbarra
d'arresto; poi guardai nella bocca del drago. La cinghia del ventilatore era
in buono stato.
Forse il demone dell'alcool aveva intorpidito i miei sensi o ho avuto un
momento di cedimento mentale, perché allora feci qualcosa di veramente
stupido, qualcosa che gli istruttori dicono di non fare ai guidatori novelli:
presi il fazzoletto, lo avvolsi attorno al tappo del radiatore e girai.
La mia idea era di lasciar libero sfogo alla pressione, ma naturalmente,
appena svitato il tappo, l'acqua bollente esplose come un geyser. La mia
mano sinistra scattò istintivamente a proteggermi gli occhi mentre io indie-
treggiavo urlando anzi sbraitando nel sentirmi bruciare la pelle dal getto
infuocato.
Caddi tenendomi il braccio e contorcendomi di dolore sulla strada. Vidi
Midge inginocchiata accanto a me che cercava di tenermi fermo per stabi-
lire la gravita delle bruciature. Parte della faccia e del collo era rimasta
scottata, ma provavo un dolore lancinante sulla mano e sull'avambraccio
sinistro. La camicia era bagnata, ma aveva costituito per il petto una sia
pur leggera barriera contro l'acqua bollente.
Riuscii a mettermi a sedere, mentre Midge mi sosteneva. La mia vista
era troppo oscurata dalle lacrime di dolore perché potessi vedere la scotta-
tura riportata sulla mano, ma il dolore era superiore a qualunque altro che
avessi provato in vita mia.
Improvvisamente Midge scattò in piedi agitando freneticamente le brac-
cia. Intravidi una macchina rossa che si fermava e due figure che ne usci-
vano correndo verso di me, una delle quali vagamente familiare. Si ingi-
nocchiarono sulla strada e l'uomo - l'altra era una ragazza - mi prese deli-
catamente la mano ferita.
«Oh, diamine,» lo sentii mormorare. Poi passò dietro di me e mi aiutò ad
alzarmi. «Sarà meglio che venga con noi, devi farti medicare al più pre-
sto.»
Guardai la mano ferita, asciugandomi le lacrime, e vidi che la pelle stava
già coprendosi di vesciche. Stringendo i denti lasciai che mi conducessero
alla loro auto.
Mi accorsi che Midge era ancora più sconvolta di me, e così superato il
primo momento di paura feci del mio meglio per rassicurarla con un sorri-
so. Deve essermi venuta fuori una smorfia di dolore perché la sua bocca si
piegò agli angoli come quella di un bambino.
Mi fecero sedere sul sedile posteriore dell'auto, tenendomi il braccio
come se fosse un'aragosta appena bollita, e quando la ragazza si mise al
posto del guidatore, riconobbi la sua treccia di capelli e poi anche la sua
faccia quando si voltò ansiosa a guardarmi: era Sandy, la ragazza che ave-
vo salvato dai teppisti al paese la settimana prima.
Disse: «Mike, ti portiamo a farti medicare le bruciature. Il Tempio è a
meno di un minuto di strada».
«Ha bisogno di un ospedale,» obiettò Midge che mi sedeva accanto.
L'uomo aveva appena aperto la portiera anteriore e si chinò per salire a
bordo. Era di mezza età, quasi calvo e molto magro, con le guance così in-
cavate che gli zigomi vi gettavano l'ombra. «L'ospedale più vicino è a pa-
recchi chilometri da qui e lui deve essere medicato al più presto. Potrà por-
tarlo a un ospedale più tardi, se lo crederà necessario.» Si sedette e non
parlò più per tutto il breve tragitto.
Sandy girò la macchina sulla strada stretta e tornò nella direzione da cui
erano venuti. Mentre Midge mi asciugava la faccia con un fazzolettino, mi
resi conto di trovarmi nella stessa Escort rossa con cui Kinsella era arrivato
al villino alcune sere prima. Midge non toccò la mano e l'avambraccio la
cui pelle era chiazzata di un intenso rosso scarlatto e la carne già comin-
ciava a gonfiarsi.
L'auto si fermò e Sandy saltò fuori. Ci trovavamo dinanzi a un alto can-
cello di ferro battuto, affiancato da due solidi pilastri grigi. Di là dal can-
cello potevamo vedere la grande casa, quella di cui avevamo visto solo
l'altro lato nella.nostra passeggiata attraverso la foresta, circondata da un
alto muro di vecchi mattoni: Casa tetra, come l'avevo soprannominata fra
me. La ragazza aprì il cancello mentre il suo compagno la guardava impas-
sibile dal finestrino. Sandy tornò subito, con un'espressione ansiosa come
quella di Midge, e avviò di nuovo la Escort.
Sebbene molto preoccupato per i miei guai, notai che la casa si profilava
più grande. Sembrava strano che l'edificio fosse rovesciato, con il retro al
termine del lungo viale; comunque, Croughton Hall, alias il Tempio Si-
nergista, infondeva tristezza da qualsiasi parte lo si guardasse.
Girammo attorno al lato del fabbricato passando nell'area rettangolare.
Di lì il prato si stendeva verso la foresta. In quel momento cominciai a
tremare, forse per uno choc ritardato, pensai. L'uomo davanti a me scese e
mi aprì la portiera; proteggendomi cautamente il braccio, riuscii a uscire e
guardai la casa. Non domandatemi perché, ma anche in quel momento in
cui potevo appena pensare ad altro che non fosse il mio intenso bruciore,
ero riluttante a entrare. Midge, tuttavia, non sembrava avere questi scrupo-
li.
«Andiamo, Mike, quanto prima potrai mettere il braccio nell'acqua fred-
da, tanto meglio sarà per te,» disse tirandomi per il gomito. Sandy si mise
all'altro mio fianco mentre l'uomo ossuto ci precedeva lungo l'ampia scali-
nata che portava all'ingresso. Prima che avessimo raggiunto l'ultimo gradi-
no il grande portale si aprì e Kinsella ci comparve davanti guardandoci con
la fronte aggrottata.
«Mike, che diavolo ti è successo?» chiese.
«Un litigio con il radiatore dell'automobile,» dissi sarcasticamente senza
in realtà voler fare dello spirito. Avevo voglia di vomitare.
Impallidì nel vedere la mia mano ustionata. «Oh, mio Dio, entra subito.»
Spalancò il portone a due battenti per farci entrare tutti insieme.
Adesso stavo tremando davvero, per quanto cercassi di controllarmi.
Midge si strinse a me come se temesse che stessi per svenire.
Eravamo in un vasto atrio; una scalinata portava a una galleria. Il dolore
era più intenso così che badavo poco all'ambiente, ma tuttavia mi resi con-
to dell'improvviso freddo che c'era nella casa.
Sentii Midge implorare: «Non potremmo portarlo in cucina o in bagno
per mettergli il braccio nell'acqua fredda?»
«Possiamo fare molto di più,» rispose Kinsella. Si voltò verso la ragazza
e disse con voce appena udibile. «Di' a Mycroft chi c'è e raccontagli quello
che è successo. Presto.» Sandy corse via.
Poi si rivolse a Tutt'ossa e solo più tardi mi accorsi con meraviglia del-
l'autorità di Kinsella. Disse solo: «Avverti gli altri,» e l'uomo si allontanò
immediatamente.
«Bene, Mike, adesso vedremo di medicarti.» L'americano aprì una porta
dell'atrio e ci fece entrare.
Ci trovammo in un vasto salotto con le pareti piene di libri. L'opprimen-
te odore di stantio era poco piacevole, mi fece pensare che la maggior par-
te dei volumi fossero antiche edizioni; comunque non ero certo in condi-
zione di curiosare nelle librerie.
Kinsella mi fece sedere a un grande tavolo ovale dalla superficie lucidis-
sima. Strie sghembe di luce filtravano nella stanza in raggi chiari e netti
come quelli dei riflettori, e lui andò a ogni finestra per tirare le tende la-
sciandole aperte solo per un breve tratto così che la luce si ridusse solo a
un fascio di raggi sottili. La porta dalla quale eravamo entrati era rimasta
aperta, e io potei sentire dei movimenti all'esterno come se della gente si
radunasse. Ero fradicio di sudore, quasi febbricitante, e sentivo il bisogno
di gridare per lo spasimo sempre più intenso. Era come se i nervi, intorpi-
diti dalla scottatura, si risvegliassero facendo sentire con più acutezza il
dolore.
«Dobbiamo fare qualcosa,» insistè Midge mentre io stringevo i denti per
soffocare i gemiti.
«Abbi pazienza ancora un momento,» rispose calmo Kinsella, cosa che
per lui era facile a dirsi. Si sedette al tavolo accanto a me, e mi allungò il
braccio sulla superficie lucente, attento a toccarmi solo sul gomito. Midge
rimase in piedi vicino a me con le mani sulle mie spalle.
«È scoppiato il radiatore, eh?» disse Kinsella.
«No, » risposi a denti stretti. «Sono stato così scemo da svitare il tappo.»
«Per fortuna il braccio ha ricevuto direttamente il getto. Se avessi avuto
la faccia...»
«Sì, lo so. Sono stato scemo e fortunato al tempo stesso.»
Stava esaminando le scottature tumefatte che avevo in faccia quando la
porta si spalancò. Un uomo entrò e Kinsella disse: «Mycroft.»
Non so bene che cosa mi aspettassi, ma il suo nome, unito ai sinistri av-
vertimenti del curato sui sinergisti, aveva evocato immagini di un uomo al-
to e potente, con la pelle giallognola e rugosa, e pallidi occhi penetranti,
capaci di dominare le anime. Una via di mezzo fra un Vincent Price e un
George C. Scott, forse, o anche un fratello maggiore di Basii Rathbone.
Questo era di media statura e panciuto, con i capelli bianchi e la pelle levi-
gata e perfetta; quasi anonimo. Indossava calzoni sportivi grigi e una giac-
ca di lana marrone sulla candida camicia; una cravatta beige dava una certa
formalità a un insieme che altrimenti avrebbe potuto apparire un po' tra-
sandato. 1 suoi occhi erano penetranti, ma vi era in essi anche una certa de-
licatezza. Mi dispiace di non poter descrivere quell'uomo come un essere
più insidioso, dico questo pensando agli eventi successivi, ma così mi si
presentò allora. Avrebbe potuto essere lo zio preferito di chiunque.
Kinsella si alzò, mentre Mycroft si avvicinava, facendosi da parte e ti-
rando indietro la sedia così che il nuovo venuto potesse avvicinarsi a me.
Mycroft si chinò appoggiando una mano al piano del tavolo, e io sentii il
suo alito un po' aromatico. Mi guardò prima la faccia e poi il braccio e la
mano.
«Deve soffrire molto,» osservò. La sua voce era pacata e stranamente
asciutta, e il suo accento americano sembrava del New England. Il suo at-
teggiamento era solidale, quasi che condividesse il mio dolore.
«Se devo dire la verità, non va affatto meglio,» confessai cominciando a
stancarmi di quelle visite a cui non seguiva alcuna azione. La carne viva
del mio braccio cominciava a gonfiarsi in modo allarmante.
Mi guardò direttamente negli occhi ancora una volta e poi guardò Midge
«Non perderemo altro tempo,» disse più a lei che a me. Fece un gesto con
la mano e la porta si spalancò: entrarono Sandy e la nostra amica Gillie;
insieme portavano un recipiente rettangolare contenente un liquido verda-
stro, che posarono sul tavolo davanti a Mycroft e a me.
«Falli entrare,» disse Mycroft a Kinsella che subito andò alla porta e
diede l'ordine, lo mi guardai attorno nervoso; Gillie mi sorrise in modo
rassicurante, ma non disse nulla. Mi accorsi che anche Midge era preoccu-
pata.
Entrarono tutti in fila nella stanza, muti e con lo sguardo rivolto verso di
me. C'era anche Neil Joby fra loro, ma, sebbene mi guardasse, non diede
segno di riconoscermi.
Cercai di alzarmi. «Un momento...»
Mycroft mi pose una mano sulla spalla, con fermezza ma senza far for-
za. «Prego, si sieda e non abbia paura. Fra pochi minuti non sentirà più do-
lore.»
«Non ci credo...» cominciai a dire, ma Midge intervenne. «Mike, aspet-
ta.»
La guardai. Lei scosse appena la testa. «Voglio che abbia Fiducia in me,
Mike.» La voce di Mycroft era cambiata un po': era insieme pacata e impe-
riosa, ed era molto difficile non lasciarsi influenzare dal suo tono. Tornai a
sedermi e lui prese una sedia per potermi stare vicino. «Abbiate fiducia,»
disse rivolgendosi a tutti e rimboccandosi le maniche fino al gomito. Mi
asciugai il sudore dalla fronte, ansioso per quello che stava succedendo e
dubbioso su quanto fossi pronto a subire.
Mycroft mi sorrise come se si rendesse conto che io lo credevo pazzo e
fosse pronto a divertirsi con me. Il suo sorriso era accorto e incoraggiante.
Poi fece ciò che non mi aspettavo: immerse le mani nel liquido.
Le persone intorno alla stanza - erano di varie età e nazionalità - unirono
le mani e chiusero gli occhi. Anche Mycroft aveva chiuso gli occhi e le sue
labbra si muovevano leggermente come se intonasse una preghiera silen-
ziosa. Io pensai che da un momento all'altro cominciassero a ripetere:
«Ommmmm».
Evidentemente avevo un'espressione disperata perché Midge mi tratte-
neva come per impedirmi di scappare. «Midge...»
C'era nei suoi occhi una specie di eccitazione trattenuta, una luce interio-
re che mostrava come cominciasse a credere in quelle storie.
Io sentii ancora più forte il bruciore al braccio e mi allontanai da
Mycroft, pronto a fuggire. Ma il suo sorriso scoraggiò reazioni di questo
genere e io mi lasciai immergere il braccio nel liquido verdastro.
Ero pronto a gridare, ma non cercai di porre resistenza: avevo capito che
quest'uomo dallo sguardo così mite aveva una grande forza di persuasione.
Mi immerse prima la mano, poi il resto del braccio fino al gomito e, mi ac-
corsi che il liquido che era più denso dell'acqua, sembrava oleoso.
Immediatamente il terribile dolore al braccio cessò, lenito dal liquido
freddo; ebbi la sensazione che il braccio fosse stato congelato nel ghiaccio.
Mycroft mi accarezzò la bruciatura mentre chiudeva gli occhi e muove-
va le labbra impercettibilmente. Il sollievo fu tale che io quasi gridai di
gioia; ma mi limitai a trarre un profondo respiro. Sentivo Midge che mi
premeva le dita sulle spalle e, quando tirai su la testa per guardarla vidi che
anche lei aveva gli occhi chiusi e la fronte corrugata per la concentrazione.
«Midge, il dolore è scomparso,» dissi.
Lei aprì gli occhi, guardò prima me, poi il mio braccio immerso nel li-
quido e sembrò sollevata quanto me quando mi accarezzò il collo.
Mycroft mi continuò a strofinare delicatamente la bruciatura; i suoi pol-
pastrelli delicati mi procuravano una sorta di piacevole formicolio. Mi
guardai attorno e vidi che anche gli altri avevano gli occhi chiusi: due o tre
donne vacillavano come se stessero per svenire: tutti si stringevano le ma-
ni, e io ebbi la sensazione che da ogni individuo fluisse una forte energia
che si propagava nella stanza.
Pazzo, gridai a me stesso, pur non potendo negare di non sentire più do-
lore. E che cosa succederà quando toglierò il braccio dall'acqua ? Ovvia-
mente il liquido è un anestetico; come mi sentirò senza di esso? Volevo
provare subito.
Mycroft aprì gli occhi e mi sollevò il braccio grondante di liquido, poi si
voltò verso di me, e mi sembrò di scorgere una traccia di canzonatura nel
suo sorriso.
Il gonfiore si era bloccato, sebbene le dita fossero ancora tumefatte e
violacee. Però non sentivo più dolore, solo una torpida rigidità.
«Non posso crederci,» mormorai.
«Non ce n'è bisogno,» rispose lui. «Lo accetti, non deve fare altro.»
Mycroft si alzò e uno a uno gli altri aprirono gli occhi. Si lasciarono le
mani per scoppiare in un applauso e io mi aspettavo che Mycroft facesse
un inchino, invece alzò una mano e gli applausi cessarono.
«Siate riconoscenti che il nostro giovane amico non soffre più,» disse lo-
ro. «Avete assistito a quello che può fare la nostra forza interiore; adesso
riflettete un po' su ciò che è accaduto.» Era disinvolto aveva un tono paca-
to e amichevole, e non solenne e teatrale come ci si sarebbe potuti aspetta-
re da una specie di guru che aveva appena compiuto una magia.
I suoi seguaci lasciarono la stanza, molti di loro sorridevano felici, altri
erano pensosi. C'erano persone di tutte le età e di diverse nazionalità, come
ho già detto, ma anche di vario aspetto, dal bizzarro (capelli arruffati e oc-
chi spiritati) al mondano (abiti eleganti e faccia seria).
Gillie si fece avanti e mi avvolse il braccio in un asciugamano di lino
bianco per asciugarmelo, poi fu la volta di Sandy che portò bende e garze e
cominciò a fasciarmi il braccio facendo molta attenzione a non toccarmi le
bruciature.
«Forse dovrei andare all'ospedale a farmi fasciare il braccio,» pensai in-
certo.
Kinsella esibì un sorriso che gli illuminò la faccia americana. «Non ce
n'è bisogno, Mike. Presto starai benissimo, vedrai.»
«Le bende sono sterilizzate,» mi rassicurò Mycroft, «e un'infermiera non
potrebbe far più di Sandy.»
«Potrebbero farmi un'iniezione, o darmi delle pillole o cose del genere.»
«Non è necessario, ma naturalmente può fare come crede. Le suggerisco
di stare a riposo per quest'oggi e di farsi vedere da un medico domani, se
non starà ancora bene. Ma non sentirà più dolore.»
Trovai il tutto un tantino ridicolo - accidenti! Mi ero scottato sul serio -
ma non volli apparire irritabile dopo quello che aveva fatto. «Sì, aspettia-
mo domani.»
Riuscii a sorridere.
Mycroft, apparentemente, aveva già perso ogni interesse per me, e stava
studiando Midge ancora con quel suo leggero sorriso sul volto; ero sicuro
che era leggermente canzonatorio.
«Lei, naturalmente è Midge,» disse.
Il suo sguardo fu un tantino troppo penetrante per i miei gusti, ricordan-
domi stranamente l'appena dissimilato interesse del legale Ogborn per lei,
tante settimane prima. Non ho mai avuto simpatia per i vecchi sporcaccio-
ni.
«Non so come possiamo mostrarle la nostra gratitudine,» rispose lei che
adesso era più calma. Nonostante l'oscurità della stanza riuscivo a vedere
che era stanchissima.
«Non pensi alla gratitudine. Ho sentito parlare molto di voi e sono felice
che abbiate finalmente avuto il modo, anche se in circostanze disgraziate,
di visitare il nostro Tempio.»
Gillie e Sandy erano andate alle finestre e avevano tirato le tende. La lu-
ce si diffuse e riportò una certa allegria nella stanza.
«Hub ci ha invitato più volte,» disse Midge, «ma con tutto quel lavoro
nel villino...»
«Ah, sì, Gramarye.» Il nome gli piaceva e il suo sorriso diventò più cal-
do.
«Conosce la nostra casa?» chiesi.
Non mi guardò nemmeno. «Mi è stata descritta. Mi dica, signorina, si
trova bene, qui?»
Se Midge fu meravigliata dalla domanda, non lo dimostrò. «Sì, molto.
Ci troviamo bene tutti e due. È una casa meravigliosa. »
«In che senso meravigliosa?»
Adesso era stata colta di sorpresa. «E... è così tranquilla, così serena. E
tuttavia piena di vita. Molti animali ne sono attratti, e c'è tanta...» Non riu-
sciva a trovare le parole giuste.
Mycroft ne trovò una per lei: «Vitalità.» Non lo disse nemmeno in tono
interrogativo.
«Sì,» approvò Midge. «Vitalità è la parola giusta.»
Mycroft parve soddisfatto. Si asciugò le mani e si tirò giù le maniche.
«Sarei lieto di parlare ancora con voi,» disse infine.
Midge si limitò ad assentire e si voltò verso di me. «Come ti senti, Mi-
ke?»
«Io? Bene. Ma non potrò suonare il piano per un po'...» Mi interruppi
con un gemito: all'improvviso mi resi conto delle conseguenze dell'inci-
dente. «La registrazione di mercoledì: non potrò suonare.»
«Oh, Mike, l'avevo dimenticata!» Si morse il labbro inferiore e si ingi-
nocchiò accanto me mettendomi un braccio attorno alla vita per consolar-
mi. Ma io ero troppo incavolato con me stesso per accettare di essere con-
solato.
«Non sono sicuro di aver capito, » intervenne Mycroft. «Lei ha un im-
pegno professionale a cui teme di dover rinunciare?»
«Sono un musicista,» spiegai. «Avrei dovuto incidere un album questa
settimana ma a quanto sembra, non potrò parteciparvi.» Mi guardai la ma-
no bendata ed ebbi la tentazione di batterla sul tavolo. Naturalmente non lo
feci.
Mycroft mi guardò ancora e mi mise una mano sulla spalla. «Torni a ca-
sa e non esca fino a domani.» Si chinò con aria confidenziale verso di me e
continuò: «La sua mano sarà completamente guarita per mercoledì.»
Per quanto gli fossi grato, dovetti trattenermi per non urlargli in faccia.
«Certo,» dissi più calmo. «Andrò a casa e vi resterò. Grazie infìnite.» Mi
alzai. «Faremmo meglio ad andare, Midge.» Il mio sguardo diceva: basta
con le chiacchiere e i ringraziamenti; andiamocene di qui.
Lei capì perfettamente.
Ma fu Mycroft a lasciare la stanza per primo. «Adesso vi saluto,» disse e
il suo tono di voce non lasciava trapelare risentimento per i miei modi im-
provvisamente bruschi. «Vi prego di non dimenticare il mio invito.»
«Non lo dimenticherò,» rispose Midge e gli tese la mano, ma lui parve
non accorgersene.
Si voltò rapido e uscì dalla stanza. Adesso, alla luce di quello che seguì,
sono sicuro che per un attimo guardò la mano di Midge, ma poi si tirò in-
dietro come se la sua mente stesse già pensando ad altro.
«Hai ancora un problema da risolvere, Mike.» Kinsella mi sorrideva,
con le mani infilate nelle tasche dei calzoni aderenti.
Lo guardai con aria interrogativa.
«Un radiatore senz'acqua,» mi ricordò.
Quasi mi battei la fronte con la mano ustionata.
Lui rise. «Bene, ti faccio preparare una tanica d'acqua e vi accompagno
all'auto. Speriamo che il motore non si sia rotto.»
«Sì, speriamo.»
Lasciammo la casa e io fui lieto di esserne fuori, felice di sentirmi anco-
ra il sole sulla faccia. È strano, ma l'unica preoccupazione che avevo ades-
so riguardava la mia faccia e il collo colpiti dagli spruzzi d'acqua bollente.
Comunque il dolore era passato. Oddio, la pelle del petto mi bruciacchiava
un po'; ma la stoffa abbastanza sostenuta della camicia mi aveva salvato
scottature gravi. Il braccio e la mano bendati erano ancora informicolati
ma non era una sensazione spiacevole.
«Che cosa incredibile,» dissi a Kinsella mentre tutti e tre ci avviavamo
verso la Escort rossa.
«Quale cosa?» chiese lui stringendo gli occhi per ripararsi dal sole.
«Quel liquido verde che avete usato per il mio braccio.»
«Oh, non era nulla di speciale. Un disinfettante mescolato con un anti-
settico, tutto qui.»
«Ma ha calmato il dolore.»
«Mycroft ti ha guarito, amico mio.»
«Non è possibile.»
«Lo è. Lo sappiamo tutti e due.»
«E allora perché...»
Mi abbagliò con quei suoi denti perfetti da fare rabbia. «Mycroft è un
uomo meraviglioso.»
Credeva che fosse una spiegazione sufficiente?
Raggiungemmo 1'auto e Kinsella ci aprì la portiera posteriore. Midge
entrò per prima e io la seguii, attento a non battere la mano contro qualche
cosa. Lui si mise alla guida e aspettammo che qualcuno arrivasse con la
tanica dell'acqua.
Midge si sporse in avanti. «Stai meglio, Hub?» chiese.
Lui si voltò sorpreso. «In che senso?»
«L'altra sera te ne sei andato piuttosto in fretta. Abbiamo pensato che ti
sentissi male.»
Si mosse a disagio sul sedile e indicò la casa. «Ecco Neil che arriva con
l'acqua.» Si schiarì la gola, poi spiegò: «Forse non mi sono sentito bene.
Scusatemi, è stato scortese da parte mia andarmene così. Qualcosa che a-
vevo mangiato a colazione mi era rimasta sullo stomaco.»
La portiera anteriore si aprì e Neil Joby salì in macchina ponendo il con-
tenitore di plastica ai suoi piedi.
«Bene, andiamo,» disse Kinsella avviando il motore. «Sarete a casa in
un attimo.»
Girammo attorno alla casa e Midge e io ci voltammo mentre percorre-
vamo il viale. La casa grigia - il Tempio Sinergista - era molto più grande
di quanto avessimo immaginato quando l'avevamo visto la prima volta dal
margine della foresta.
A me sembrava persino più sinistra. Mentre Midge la guardava con la
traccia di un sorriso sulle labbra.

20.
LA GUARIGIONE

Il mio primo pensiero, quando mi svegliai il giorno dopo, fu per la mia


mano: e se avessi provato a togliere la fasciatura?
La sera precedente avevamo deciso di andare per prima cosa all'ospedale
di Bunbury per farmi medicare le ferite da un medico nonostante Mycroft
mi avesse assicurato un po' presuntuosamente che non sarebbe stato neces-
sario. Mi ero aspettato di passare una nottataccia, ma in realtà avevo dor-
mito come un bambino sognando Gramarye e un mucchio di cose piacevo-
li: fiori che sbocciavano, animali socievoli, sole e cieli tersi. Non avevo
sentito il minimo dolore.
Avrei voluto telefonare a Bob appena tornati al villino per dargli la cat-
tiva notizia, ma Midge mi aveva persuaso a non farlo. Aspettiamo e ve-
diamo, aveva detto.
Midge mi aveva coccolato per tutto il resto della sera baciandomi perfi-
no le punte delle dita malconce, che spuntavano dalla bendatura, per farle
star meglio; io ne ero stato felice pur temendo il momento in cui il potente
anestetico che evidentemente era stato mischiato a quel liquido verde (non
credevo all'affermazione di Kinsella che si trattava solo di un antisettico)
avrebbe smesso di agire. Grazie a Dio questo non avvenne.
Midge era ancora addormentata accanto a me e sembrava invecchiata di
dieci anni, cosa che mi mandò fuori di me; ma subito tornai alla mia pre-
occupazione principale, il mio braccio sinistro era coperto dalle lenzuola e
avevo quasi paura a guardarlo. Provavo una sensazione sgradevole perché
la benda mi stringeva, ma nessun vero dolore. Forse il mio cervello era an-
cora intorpidito dal sonno; strinsi i denti aspettando che il male tornasse.
Ma non tornò e io raccolsi tutto il mio coraggio per guardare.
Sollevato il lenzuolo alzai lentamente il braccio ferito. Le bende si erano
piuttosto allentate durante la notte: la sensazione sgradevole era dovuta al
nastro adesivo che le teneva a posto, piuttosto che alla pressione della car-
ne gonfia. Le dita erano solo un po' arrossate. Le piegai: non erano più ri-
gide. Piegai il polso e la mano si mosse liberamente, trattenuta solo dalla
fasciatura. Sollevai il braccio potevo muoverlo senza dolore, una cosa in-
credibile!
«Midge!»
Lei si svegliò di scatto saltando su e accovacciandosi sul letto, con gli
occhi spalancati per l'apprensione.
«Midge! Il braccio! Non mi fa più male!»
Lei guardò prima me, poi il braccio e lanciò un grido. Unì le mani e si
trattenne appena dallo stringermi il braccio che tenevo sollevato.
«Mike, ne sei sicuro?»
«Se ne sono sicuro? Gesù, dovrei saperlo se mi fa male o no. Guarda,
posso anche muovere le dita.» E le feci vedere.
«Lo sapevo, Mike, lo sapevo. Ero sicura che saresti guarito.»
«Dunque credevi nell'acqua miracolosa di Mycroft?»
«No, mi sono sentita sicura quando siamo tornati qui. Non so spiegar-
mi...»
Mi abbracciò e ricademmo insieme sul materasso.
«Ehi, ehi, fa' piano!» gridai tenendo alta la mano bendata. «Non rovi-
niamo tutto lasciandoci prendere dall'esaltazione.»
Lei mi coprì il volto di baci. «Lo sapevo, lo sapevo,» ripetè.
«Perché non guardiamo bene prima di lasciarci trasportare dall'entusia-
smo? Sai, mi sembra un po' impossibile di essere guarito. Hai visto anche
tu che sono stato investito da un getto d'acqua bollente.»
«Hai ragione,» disse lei tra il serio e il faceto, «stiamo solo sognando,
non è avvenuta nessuna magia.»
Scherzava, non aveva voluto fare quest' ultima osservazione.
Alzai il braccio. «Ebbene, Folletto, toglimi la fasciatura e se comincia a
farmi male ti avvertirò con un grido. Forse allora capirò che stavo solo so-
gnando.»
Con cura lei tolse il nastro adesivo e cominciò a disfare la fasciatura la-
sciando libera via via la garza. In meno di quindici secondi l'avambraccio e
la mano furono messi a nudo.
«Guaaaarda!...» esalai.
La carne era tenera e macchiata di rosso, ma non vi erano vesciche, né
spellature, né segni di bruciature. Era il più bel braccio del mondo.

21.
COME IN UN FILM

Tornai a Gramarye il giovedì nel tardo pomeriggio. La registrazione era


andata a meraviglia: Collins era uno dei musicisti-cantanti migliori e uno
di coloro con cui era facile lavorare (se si faceva bene il proprio lavoro), e
rese la mia canzone e quella di Bob cento volte migliore. Rimasi lì tutto il
giorno (mercoledì), invitato a lavorare per altri due pezzi dell'album, e mi
godetti ogni momento di riposo e di chiacchiere. Fin allora non mi ero reso
conto di quanto a lungo fossi rimasto lontano dalla scena e fu bellissimo,
più tardi, ascoltare le novità che Bob aveva da raccontarmi
Cominciai ad andarci un po' forte con il bere, ma ero pieno di entusia-
smo e ressi bene. Ero sollevato dal fatto che avevo riguadagnato l'uso della
mano (avevo trascorso gli ultimi due giorni a suonare la chitarra e così
quella leggera rigidità della mano sinistra, che forse era dovuta alla man-
canza di esercizio, era scomparsa.
Bob non credette affatto alla gravita del mio incidente, insistendo che
ero guarito più presto di quanto credessi, dopo essermi bruciato un po', ma
non seriamente. Diceva che esageravo i fatti come al solito. Certo il brac-
cio e la mano erano più rossi del normale e anche in faccia avevo qualche
chiazza violacea; ma lui sosteneva che non era niente di grave. Gli raccon-
tai dei sinergisti e della magia che Mycroft aveva praticato con la sua ac-
qua verdastra. Fesserie, fu il commento di Bob.
Mi suggerì di passare la notte da lui: l'idea di guidare fino allo Hampshi-
re, pieno d'alcool com'ero, non mi attirava affatto così trovai un telefono e
chiamai Midge.
Lei convenne che sarebbe stato pericoloso mettersi in viaggio così tardi
e mi disse di restare da Bob e di divertirmi. Aggiunse di fare attenzione, e
io sapevo quello che intendeva: Bob, a volte, alzava un po' troppo il gomi-
to.
Midge mi disse che, dopo essere stata preoccupata per me, aveva passato
il tempo dipingendo, godendosi la solitudine, ma naturalmente sentendo
molto la mia mancanza. Quanto? Quanto sono alte le montagne, quanto è
profondo il mare...?
Le dissi che le avrei fatto pagare le sue prese in giro al mio ritorno, e poi
diventammo sdolcinatamente seri e ci confessammo che detestavamo non
stare insieme anche per un solo giorno, che essere separati non era natura-
le, che l'amore era una cosa penosa e via di questo passo. Frasi fatte, forse,
ma eravamo sinceri. Quando tornai da Bob e dagli altri, avevo le lacrime
agli occhi...
Tuttavia feci in modo di divertirmi. Di lì andammo a cena poi tornammo
a Fulham, nell'appartamento di Bob, una casa vittoriana con terrazza, verso
l'una del mattino. Lì non avemmo noie. La sua ultima amica, Bob si era
sposato due volte ed era separato legalmente dalla sua seconda moglie, era
a letto e rifiutò di unirsi alla compagnia. Suonammo musica rock sullo ste-
reo finché dei colpi sulle pareti ci avvertirono che nemmeno i vicini erano
in vena di far festa. I nostri amici ci lasciarono poco dopo, e Bob e io con-
tinuammo a rievocare i bei vecchi tempi - musica, guai, scherzi e donne -
aprendo lattine di birra e abbandonandoci a fragorose risate. Fu una bella
nottata di chiacchiere, e grazie al cielo il mio amico non aveva bisogno di
altri «stimolanti» oltre alla birra. Non ho idea di che ora fosse quando an-
dammo a dormire.
Mi svegliai verso mezzogiorno, sdraiato sul divano senza scarpe e con
una vestaglia gettata su di me. Bob, cosa sorprendente, si era alzato prima
delle dieci ed era uscito per «sistemare delle cose», mi informò la sua ami-
ca, Kiwi (non so ancora quale fosse il suo vero nome né perché si chia-
masse Kiwi) mentre mi porgeva una tazzona di caffè forte. Me ne rimasi lì
come un morto resuscitato, bevendo caffè e cercando di schiarirmi la men-
te, e dopo un po'(quando lei cominciò a far funzionare 1'aspirapolvere a
mezzo metro da me), pensai che era tempo di andarmene.
Kiwi fu abbastanza contenta della mia partenza da spegnere per un mo-
mento l'aspirapolvere e sorridermi graziosamente. «Aspetto con ansia sa-
bato,» mi disse. «Sabato?» chiesi. «Bob, prima di uscire, mi ha detto che ci
hai invitato a cena,» trillò lei. «Ah, sì,» dissi ricordando vagamente. «Ar-
nvederci, dunque,» aggiunsi. «Non vedo l'ora.» ripetè lei. Il frastuono del-
l'aspirapolvere affrettò la mia partenza.
Mi fermai sulla via del ritorno per fare una colazione leggera, e colsi
l'occasione per telefonare a Midge e informarla del ritorno del suo eroe.
Ma a Gramarye nessuno rispose, così supposi che fosse andata a fare una
passeggiata anche se il tempo non era bello: non pioveva ma il cielo era
coperto. Non poteva essere andata a far spese perché la macchina l'avevo
io.
Mi rimisi subito in viaggio, e il battito che sentivo alle tempie si calmò.
Quando raggiunsi i confini dello Hampshire mi sentivo benissimo sebbene
non vedessi l'ora di andare a letto per smaltire gli ultimi postumi della be-
vuta della sera precedente.
Quando raggiunsi Cantrip incontrai sulla strada principale il reverendo
Sixsmythe in sella alla sua bicicletta. Ancora adirato con lui per avere
sconvolto Midge e me con il suo raccapricciante racconto sulla morte della
signora Chaldean, ebbi la tentazione di dare un colpo di clacson per spa-
ventarlo, ma resistetti.
Uscito dal paese mi ritrovai nel cuore della foresta.
Piccole gocce di pioggia punteggiarono il parabrezza.
Ancora un paio di curve e sarei arrivato a casa.
Avevo un sorriso che mi andava da un orecchio all'altro quando raggiun-
si il giardino di Gramarye; suonai il clacson per avvertire Midge del mio
ritorno. Aprii il bagagliaio e tirai fuori le due chitarre e le posai a terra per
richiuderlo. Scavalcai il recinto invece di costeggiarlo fino al cancello e
calpestai le aiuole per raggiungere il sentiero, aspettandomi a ogni momen-
to di vedere il felice volto da folletto di Midge affacciarsi all'entrata. Ma
rimasi deluso. Midge non aveva sentito il mio arrivo oppure non era anco-
ra tornata dalla sua passeggiata. Ma certo non poteva essere stata fuori per
tutto questo tempo, specialmente col cielo coperto. Forse dormiva, o era in
bagno: in ogni caso le avrei fatto una sorpresa.
Guardai le finestre del primo piano: nessun segno di vita.
Un piccolo scricchiolio, e la mia attenzione si volse ancora all'ingresso.
Era Rumbo, che rosicchiava la vernice. Si voltò e la sua espressione parve
dire: «Dove diavolo sei stato?»
Risi e lui mi seguì. Bob mi aveva canzonato quando, un po' brilli tutti e
due, gli avevo parlato del villino, degli animali e degli uccelli che veniva-
no ogni giorno, del rigoglio dei fiori selvatici e mi aveva chiesto che gene-
re di erbe avevo piantato e se poteva ordinarne una cassa. Non avevo rea-
gito perché sapevo che le sue erano soltanto le vane parole di un abitante
di quei mondi di cinici disabituati a sognare che non potevano capire il fa-
scino di Gramarye.
«Andiamo, Rumbo, lasciami entrare in casa,» dissi allo scoiattolo sco-
standolo delicatamente con un piede e lui cominciò a giocherellare con i
lacci della mia scarpa.
Presi la chiave, ma prima volli provare la porta. Come mi aspettavo, Mi-
dge non l'aveva chiusa a chiave nonostante i miei avvertimenti. Non era-
vamo più nella grande città tentacolare, mi rispondeva regolarmente.
Aprii la porta e Rumbo saltò dentro prima di me. L'interno era buio, e io
ebbi la disgustosa visione di un corpo putrefatto seduto alla tavola della
cucina, che si voltava per salutarmi con un sorriso sdentato. Oh, Stringer,
dimentica il racconto del vicario! mi dissi. «Midge, sei qui?» Posai a terra
le chitarre e andai ai piedi delle scale. «Midge! sono tornato!»
Doveva essere uscita. In casa regnava un silenzio sepolcrale. Deluso tor-
nai in cucina e riempii il bollitore. Rumbo mi aveva preceduto e stava sal-
tellando avanti e indietro sul vecchio fornello di ferro.
«Non salire su quel camino,» lo avvisai. «Tornerai giù così nero che i
tuoi non ti riconosceranno. E ho sentito dire che voi scoiattoli rossi avete
avuto già abbastanza guai con quelli grigi: Immagina quello che succede-
rebbe se uno scoiattolo nero facesse la sua comparsa da queste parti.»
Rumbo mi guardò e accettò il mio consiglio lasciando il fornello e sal-
tando sul frigorifero, mostrandomi i suoi dentini aguzzi.
«Bene, amico, capisco quello che vuoi.» Mi voltai e presi dalla credenza
dietro a me, una scatola di biscotti e sollevai il coperchio. «Uno per te e
uno per me.» Gliene gettai uno che prese agilmente fra le zampe e imme-
diatamente cominciò a sgranocchiarlo. Il mio se ne andò in due morsi, ma
il suo durò molto di più; si mise a roderlo tutt'attorno tenendolo fra le zam-
pette e dandomi ogni tanto un'occhiata come per chiedere se ce n'erano an-
cora. Era un affascinante birbantello, un grazioso sfacciato - una volta l'a-
vevamo trovato tranquillamente addormentato nel nostro letto, rannicchia-
to sotto le coperte - e anche un po' irascibile. Un mese prima non avrei mai
creduto che un animale potesse diventare così domestico, o essere così in-
telligente specialmente uno scoiattolo selvatico. Sapeva sempre quando
venivano serviti la colazione o la cena e raramente mancava di fare la sua
comparsa in quelle ore: i nostri avanzi gli piacevano più che agli altri
scoiattoli.
Il bollitore cominciò a fumare e io misi in una tazza un cucchiaino di
caffè solubile e uno di zucchero, aggiungendovi, questa volta, del latte. Il
versare l'acqua bollente mi rese nervoso. «Sei stato molto fortunato,» dissi
fra me. «Hai avuto la fortuna di immergere il braccio nel liquido magico
dei sinergisti subito dopo l'incidente. Avrebbero potuto vendere la formula
per un milione, anzi per parecchi milioni. Ma dovevano rinunciare a quel
cerimoniale stile rito voodoo, se volevano essere presi sul serio. Un sem-
plice antisettico? Chi credeva di prendere in giro, Kinsella?
Sorseggiai il caffè scottandomi le labbra. Forse avevano già messo sul
mercato quel liquido verde, ma solo in piccole quantità e sotto banco. Que-
sto avrebbe spiegato come potevano permettersi una grande sede come
Croughton Hall. La loro segretezza non aveva molto senso e, se erano una
sorta di setta religiosa, non era necessaria.
Lasciai la cucina portando la tazza con me, mentre Rumbo mi precedeva
sulle scale, divorando in fretta il resto del biscotto. L'ambiente era insoli-
tamente triste e scuro, la mancanza di sole dava un'impressione decisamen-
te contrastante con l'atmosfera del luogo. Lunghi giorni piovosi stavano
ovviamente permetterci alla prova. Tuttavia non ci sarebbero forse sempre
stati, in qualsiasi parte ci trovassimo? Passai direttamente dall'atrio alla
stanza da letto - ho detto che, frattanto ero entrato nella sala più grande,
quella in cui vi era la crepa nel muro, adesso riparata e ridipinta? - solo per
assicurarmi che Midge non si fosse addormentata lì. Ordinai a Rumbo di
allontanarsi dal letto vuoto di Midge, dove se l'era spassata tutto raggomi-
tolato sotto le coperte, e andai nella stanza rotonda. Anche qui, nonostante
le tre grandi finestre, era tutto immerso nel buio. C'era nell'aria un odore di
pittura che era familiare e gradevole al tempo stesso. Il suo tavolo da dise-
gno era inclinato ad angolo acuto e mi ricordai che lei mi aveva detto di
aver passato la giornata di ieri dipingendo. Ogni nuova illustrazione di Mi-
dge era un piacere per me (senza parlare di tutti i suoi ammiratori giovani e
vecchi), e io mi affrettai ad attraversare la stanza per andare a vedere il la-
voro che aveva in corso.
Tuttavia, prima di curiosare, posai il caffè sul tavolino presso il piano gi-
revole su cui teneva i colori, i pennelli, le matite e altri oggettini. Il nostro
accordo era che né io né nessun altro poteva avvicinarsi al suo lavoro con
sostanze che potessero danneggiarlo. Io avevo sbagliato una volta, quando
cominciavamo appena a conoscerei, aprendo una lattina di birra mentre
stavo ammirando, da vicino, un suo lavoro; immaginate un po' dove andò a
finire lo spruzzo. Midge aveva preso bene la cosa, ma io decisi che il fatto
non si sarebbe più ripetuto.
Solo dopo aver posato la tazza mi avvicinai al tavolo da disegno e rimasi
a bocca aperta.
Il disegno rappresentava Gramarye.
Doveva aver lavorato sul prato appena fuori del cancello del giardino,
usando il piccolo cavalietto per sostenere il disegno perché il villino era vi-
sto di lì, col giardino e i suoi intensi colori in primo piano. La foresta re-
trostante offriva uno sfondo stranamente meditativo sebbene insignificante
a confronto di Gramarye con le sue mura di un bianco brillante ma anche
macchiate e consunte. I colori erano un po' esagerati - i tetti non avevano
quelle sfumature rosso ruggine, mentre l'erba e gli alberi erano d'un verde
troppo brillante - tuttavia rendevano la vera immagine della nostra casa e
dei suoi dintorni, la cui forza rinvigorente avevamo avvertito entrambi
quando vi eravamo giunti la prima volta, ma che solo Midge, con la sua
ineguagliabile arte spontanea, poteva esprimere. Le ginocchia mi si piega-
rono letteralmente mentre osservavo il disegno.
Ma questo fu nulla in confronto con quello che doveva accadere.
Fuori, il sole ruppe le nubi inondando la stanza di un improvviso calore
brillante, colpendo quei colori vivaci che avevo davanti così da farli dive-
nire abbaglianti e farli sollevare, sì, sollevare, con scintillante energia,
mentre quella luce mi colpiva nell'intimo, riproducendo - non solo dupli-
cando -1'immagine nella mia mente, come se si fosse solidificata, reale
come l'originale.
Ricordate il primo giorno in cui Midge e io eravamo venuti a vedere il
villino, e io avevo avuto l'impressione di essere sotto l'effetto di qualche
droga assunta anni prima? Ebbene, la cosa si ripetè. Io cominciai a vacilla-
re oppure fu il tavolo da disegno che cominciò a muoversi, perché il dise-
gno prese a danzare e ora lo vedevo a fuoco ora sfocato.
Il sole dietro di me mi bruciava le spalle, e la testa diventò così ardente
che mi domandai se non avesse preso fuoco. Mi sentivo venire meno, le
ginocchia mi cedevano, il disegno catturato nell'intimo della mia testa che
si espandeva, divenendo troppo grande per esserne contenuto e minaccian-
do di esplodere fuori del cervello premendo contro le pareti del mio cranio.
La pressione era quasi insopportabile.
In qualche modo fantastico e pauroso, divenni parte del dipinto di Mi-
dge, vivendo e respirando in esso come se mi trovassi fuori, davanti al
cancello del giardino; solo non riuscivo a capire se ero veramente dentro il
dipinto o se il dipinto era dentro di me. L'odore della pittura fresca era leg-
gero, ma quello dei fiori, dell'erba, del recinto, della strada - era inebriante.
Ero allucinato e perfettamente consapevole di esserlo. Ma nulla, nessuno
sforzo di volontà poteva portarmi via di lì. Sono sicuro di aver gridato per-
ché ero spaventatissimo!
Ogni cosa era una copia cromatica, un'illustrazione, ma tutto era reale: il
cielo era reale, reale la foresta, e Gramarye, stilizzata, pur con i colori
troppo vivaci, troppo sinteticamente artefatta, troppo maledettamente fia-
besca, era reale. E i colori si muovevano, vi erano uccelli pigramente libra-
ti nel cielo. Tutto era vivo ed esisteva. Ma era solo un dipinto! Un dipinto
che si muoveva e respirava. E io ne facevo parte.
Ed ecco lì il sentiero con i fiori che ondeggiavano al vento. E natural-
mente il sentiero conduceva alla porta del villino. Che era aperta. E la
fredda oscurità dell'interno mi invitava a entrare: un vuoto invitante che
forse non era un vuoto perché, sebbene non potessi vedere nell'oscurità,
avvertivo la presenza di qualcosa o di qualcuno. Qualcuno seduto al tavolo
della cucina. Qualcuno che in realtà era qualche cosa. E questo qualche
cosa cominciava a muoversi, cominciava ad alzarsi dalla tavola sulla quale
c'era una tazza piena di tè marcio e infestato da schifosi insetti formico-
lanti.
E quel qualcuno adesso era solo un'ombra più cupa che si muoveva in
mezzo ad altre ombre, strisciando. Veniva verso la porta aperta, mi saluta-
va, mi invitava a entrare alzando una mano; io vedevo quella mano alzata,
vedevo le dita che erano solo ossa dalle quali pendevano brandelli di carne
putrescente.
E quel qualcuno era sulla porta, appena illuminato dalla luce. Ma indu-
giava perché temeva la luce come qualcosa di innaturale. Quel che restava
del dito si curvava in dentro, mi chiamava con un cenno, mi diceva di av-
vicinarmi, mi voleva.
E mi trovai ad aprire il cancello mettendo il piede sul sentiero, cammi-
nando confuso e domandandomi perché non facevo resistenza; i fiori, a-
desso, cominciavano ad avvizzire, i petali diventavano prima bruni, poi
morivano, e la porta era aperta davanti a me, l'oscurità mi aspettava e qual-
cosa aspettava nell'oscurità.
La luce del giorno si affievoliva, le mura del villino erano grigie, le fine-
stre nere, e il tetto era diventato di un colore fangoso con neri buchi nei
punti in cui le tegole erano cadute, e, mentre la luce si oscurava, il sole ve-
niva inghiottito da banchi di nubi color ebano e piccoli esseri uscivano da
quei buchi volteggiando nell'atmosfera plumbea e mi salutavano con grida
stridenti, scendendo in picchiata, ma senza avvicinarsi a me, contenti di
aspettare che entrassi.
lo ero davanti al portone e continuavo ad avanzare, attratto da ciò che
sapevo esserci lì dentro che mi osservava e aspettava pazientemente.
Misi un piede sul gradino e vidi l'ombra venirmi incontro. E anche nel
buio riuscii a scorgere che era quasi senza volto. E quando le sue due mani
putrefatte si tesero verso di me, aprii la bocca in un grido silenzioso...
E una voce mi rispose...

22.
ACCUSATO

Dapprima la sua voce, e poi lei, Midge, in piedi sul pianerottolo; la porta
sul retro era spalancata, il verde di fuori era mutato per la pioggia fitta e
sottile.
Mi osservava come se fossi un estraneo, un ladro penetrato nel suo ama-
to villino; e anch'io mi sentivo tale.
La scena che era stata più nella mia mente che nel dipinto, mi fu strappa-
ta via come da un vortice la cui radice era il dipinto stesso. Le visioni di
ossa che si tendevano verso di me mi lasciarono, in parte dissolvendosi,
ma per lo più inghiottite, succhiate via. Barcollai all'indietro, improvvisa-
mente liberato dalla spirale delle immagini vorticose e andai a finire contro
la finestra alle mie spalle. Il leggero dolore mi scosse i sensi e la vista mi
tornò a fuoco.
Il disegno di Midge era lì davanti a me, una chiara, assolata campagna
che corrispondeva in sostanza all'originale, ma era anche idealizzata.
Un grazioso villino in un grazioso ambiente. Ma io avevo visto qualche
cosa di oscuro.
«Mike, Mike! Cosa ti è successo?»
Mi voltai verso di lei, ancora appoggiato alla finestra. Ero troppo confu-
so per parlare.
Midge entrò nella stanza con i capelli e il volto umidi di pioggia, la
giacca a vento lucida di gocce d'acqua. Si avvicinò a me e io caddi fra le
sue braccia.
«Sembri spaventato,» disse. «Sei pallido, E i tuoi occhi... oh Dio, i tuoi
occhi!»
«Lascia... lascia che mi sieda.»
Capivo appena le sue parole tanto erano confuse, ma lei si accorse da so-
la che riuscivo appena a stare in piedi. Mi aiutò a raggiungere il divano e a
stendermi. Riconoscente mi abbandonai sui cuscini.
Guardai ancora il disegno di Midge che però non vedevo più bene da
quell'angolazione, mentre lei mi accarezzava le guance con la mano umida
e fredda. Poi mi lasciò e tornò subito dopo con un bicchiere.
«Brandy,» disse avvicinandomelo alle labbra.
Bevvi mentre lei teneva il bicchiere poiché a me tremavano le mani. Il
brandy aveva un gusto sgradevole, ma il suo forte calore mi fece bene.
«Oh, Midge, non hai idea...»
«Hai gli occhi iniettati di sangue, Mike. Quanto hai bevuto ieri notte?»
«Il tuo disegno...»
«Può darsi che non ti piaccia, ma mi sembra una reazione eccessiva.»
«No, Midge, non scherzare...» Bevvi ancora del brandy.
Mi tenne la mano tremante. «Dimmi che cosa è successo,» disse a voce
bassa.
«Gesù, è questo posto, Midge. C'è qualcosa di misterioso qui.»
«Oh, Mike, come puoi dire questo? Qui tutto è perfetto e lo sai.»
«Il tuo disegno si muoveva. Lo guardavo e si muoveva, dannazione!»
Mi fissò come se fossi pazzo.
«È vero, Midge! E animato! Ho visto avvenirci delle cose, ho potuto o-
dorare i fiori, ho potuto sentire la brezza. E nel villino c'era qualcuno, ne
sono sicuro, so che c'era...»
Mi aspettavo stupore, incomprensione. Mi aspettavo preoccupazione o
addirittura allarme per il mio stato mentale. Quello che non mi aspettavo
era la sua furia.
«Che diavolo avete fatto, tu e Bob, questa notte? Me lo avevi promesso,
Mike, lo avevi promesso a te stesso! Basta con quella roba, niente più dro-
ga!» Scoppiò in lacrime di rabbia.
«No, nulla di questo, Midge! Te lo assicuro, abbiamo bevuto e basta. Tu
sai che non avrei...»
«Bugiardo!»
Per poco non lasciai cadere il bicchiere. Mi aveva gridato l'accusa con
gli occhi ardenti dietro un velo di lacrime.
«Abbiamo solo bevuto...»
«I medici ti avevano avvertito l'ultima volta! Ti avevano detto che eri
stato fortunato a essertela cavata! Dio mio, Mike, non ti è servita la lezio-
ne? La ragione principale per cui siamo venuti qui era di allontanarti da
quel gruppo. È bastato lasciarti solo una notte...»
«Non è successo niente. Cosa ti succede, Midge?»
«Cosa mi succede? Sei tu che farnetichi, che vedi muoversi i disegni!
Che cosa hai preso, stanotte? Ancora cocaina? Che altro? Non ricordi
quanto mi disgustava vederti prendere anche le droghe più blande? Non
significa nulla per te?»
In quel momento, naturalmente, non mi resi conto che la sua veemenza
era più una difesa contro qualche cosa che lei stessa non voleva riconosce-
re, che una rabbia diretta contro di me. Solo più tardi mi accorsi che Midge
aveva cominciato a capire molto prima di me, ma non aveva voluto che
l'irrealtà fosse messa in discussione, non aveva voluto che la logica di-
struggesse ciò che stava maturando in lei e si risvegliava in Gramarye. In
quel momento, tuttavia, nessuno di noi capiva nulla di quello che stava
succedendo.
«Midge, puoi chiederlo a Bob. L'ho invitato a passare qui il fine settima-
na.»
«Oh, magnifico, proprio la persona che desideravo vedere qui.»
«Ti comporti in modo irragionevole. Perché, non mi ascolti?»
«Ascoltare la storia delle tue allucinazioni? Credi che mi divertano?»
«Gli animali che vengono qui, l'uccello con l'ala rotta, il modo con cui i
fiori che stavano morendo si sono ripresi... tutto questo non è naturale.»
«Come puoi saperlo? Che cosa ne sai di tutto ciò che oltre le mura della
città, al di là dei bassifondi?»
La guardai stupefatto e lei evitò il mio sguardo.
Midge era inginocchiata davanti a me e il suo petto si sollevava con un
movimento esagerato come se la sua rabbia non potesse essere trattenuta.
Poi si controllò e disse a voce bassa: «Non volevo dire questo. Scusami.»
Si interruppe e si allontanò da me dando libero sfogo alle lacrime. Fuggì
via sbattendo la porta della stanza da letto. E poi sentii i suoi singhiozzi
soffocati in lontananza.
Rimasi lì stordito e confuso. Che diavolo era successo? A me e a Midge.
Che accidenti era successo?
Mi scolai il resto del brandy quasi soffocando per il suo aspro calore, e
posai il bicchiere sul pavimento. Mi asciugai gli occhi e le guance. Mentre
cominciavo a riprendermi e mi rendevo conto che non potevo lasciare Mi-
dge in quello stato, avvertii un fruscìo provenire da sotto il divano.
Restai fermo, timoroso, perché ero ancora disorientato e vulnerabile;
quel pomeriggio non avrei potuto sopportare altri momenti di tensione. Il
rumore si ripetè. Mi avvicinai al divano e guardai in quella fessura buia fra
lo schienale e il muro ricurvo. E mi sentii sollevato nello scoprire quello
che vi era nascosto.
Scostai il divano dalla parete mettendo allo scoperto il piccolo e fremen-
te Rumbo con la coda arruffata e le zampette puntate sul tappeto.
Mi lanciò una rapida occhiata, saltò fuori dal suo nascondiglio, attraver-
sò la stanza, uscì dalla porta ancora aperta e svanì rapido nel fogliame.
Mi domandai perché avevo la sensazione che lo scoiattolo avesse ab-
bandonato una nave che stava affondando.

23.
PIÙ DA VICINO

Ripensandoci, decisi di non andare subito da Midge: sarebbe stato più


facile parlarle quando si fosse calmata. Inoltre ero troppo sconvolto; pensai
che un altro brandy avrebbe potuto aiutarmi. Ripresi il bicchiere e scesi in
cucina. I liquori erano tutti riposti nella credenza, ma la bottiglia del
brandy era ancora sulla tavola dove Midge l'aveva lasciata.
Feci strisciare la sedia sulle mattonelle e presi la bottiglia prima ancora
di sedermi. Il brandy non mi servì a molto ma per lo meno ebbi qualche
cosa da fare mentre i miei nervi si calmavano.
Penserete che fui un tantino lento nel rendermi conto che le cose, lì in
campagna, non erano normali, ma nulla di ciò che ho raccontato, eccetto
quest'ultimo incidente, sembrava particolarmente strano nel momento in
cui avvenne. Inconsueto, sì, ma non in modo fuori del normale. È bene ri-
peterlo: la mente tende a rendere naturale l'innaturale. Anche il disegno in
movimento poteva essere spiegato come una allucinazione non affatto do-
vuta a droghe prese la notte prima come aveva supposto Midge. Io ero
convinto che era l'atmosfera del luogo che esercitava la sua magia e che
acuiva i nostri sensi così che la capacità artistica di Midge si era elevata e
la mia tecnica musicale era migliorata. Credo che certi ambienti possano
avere di questi influssi benefici sulle persone e Gramarye aveva fatto pro-
prio questo con me e con Midge. Forse il cambiamento di tempo aveva in-
fluito sul nostro umore e un aspetto negativo del nostro animo era affiorato
in superficie; non avevo mai visto Midge comportarsi così, questo è certo.
Sorseggiavo e meditavo lì in cucina, dove Flora Chaldean era morta,
sperando di non aver spaventato troppo il povero Rumbo. Dio solo sa co-
me gli ero apparso, brancolando davanti al disegno: nessuna meraviglia se
si era nascosto dietro il divano. Lo sguardo che mi aveva dato prima di
sgattaiolarmi fra le gambe era come se pensasse che volessi fare di lui pol-
pette.
Il bicchiere fu presto vuoto e dovetti farmi forza per non riempirlo di
nuovo. Ero ancora disorientato dalla mia crisi e dalle parole di Midge, ma
il restar lì a rimuginare al buio non aiutava a sistemare le cose. Era tempo
di parlarle e tornare amici. Salii le scale chiudendo la porta del corridoio
perché non entrasse la pioggia. Lo zerbino era fradicio.
La giacca a vento di Midge era stata gettata in un mucchio sul pavimento
della stanza da letto, e lei era rannicchiata sul letto, le gambe ripiegate, le
spalle curve, con un'apparenza desolata. Rimasi sulla sogliai quasi esitando
a entrare. Mi sentivo colpevole senza sapere perché.
«Midge...» arrischiai.
Dapprima nessuna risposta. Poi si alzò su di un gomito per guardarmi.
Allungò la mano verso di me e io mi affrettai a sdraiarmi al suo fianco. Le
abbracciai la vita e il dorso e la strinsi a me; lei si abbandonò tremante e ti-
rando su con il naso.
Le accarezzavo la fronte con la guancia; l'odore della pioggia e dell'aria
fresca era ancora nei suoi capelli. «Midge, voglio che tu mi creda: ieri ho
soltanto bevuto. Ammetto di avere alzato un po' troppo il gomito, ma non
ho preso altro, né pillole né droghe.»
Lei si irrigidì contro di me, arrestando per un momento il suo tremito.
Poi sentii il suo corpo rilassarsi.
«E allora che cosa è successo, Mike?» mormorò. «Perché avevi quell'a-
spetto? Perché mi hai detto che il mio disegno era vivo?»
«Vorrei saperlo anch'io,» sospirai. «Mi sembrava così reale, come se
stessi vivendo in esso, camminando sul sentiero, sentendo il profumo dei
fiori e tutto quello che mi era attorno.» Sorrisi. «Ricordi quel vecchio film
in cui Gene Kelly ballava assieme a un topolino dei cartoni animati? Bene,
era quasi così, come se la vita reale e il disegno animato si fossero fusi alla
perfezione. Così erano ancora più reali, nulla che avesse a che fare con la
fantasia. Che paura. Gesù, non ho mai avuto tanta paura.» Spinsi indietro
la testa per guardarla in viso e i suoi occhi erano tristemente vuoti. «Devi
credermi, Midge,» insistetti.
«Credo di sì,» rispose, e una dolcezza familiare tornò nella sua espres-
sione. «Hanno detto che gli effetti di certe droghe possono farsi sentire an-
che a distanza di anni e che nessuno sa con precisione per quanto tempo le
tracce di droga possono restare nell'organismo. Ma dopo tutti questi an-
ni...»
«Sembra impossibile, no? Tuttavia deve esserci una risposta. A meno
che non stia diventando matto.»
«Vuoi dire che di solito sei sano?» Una battuta fiacca e pronunciata sotto
tono, ma per lo meno era un tentativo di umorismo. Le presi la testa fra le
mani.
«Dovresti controllarti, Mike. Potrebbe essere pericoloso per te.»
«Non è accaduto niente di grave. Ci siamo spaventati per niente.»
«Non è vero che ci siamo spaventati per niente. E se succede di nuovo;
ma questa volta con cattive conseguenze?»
Non chiesi quali avrebbero potuto essere queste conseguenze. «Sono
stanco,» dissi, «sono rimasto alzato quasi tutta la notte a parlare dei vecchi
tempi e a bere con Bob. Ieri abbiamo lavorato molto. Forse sono più stan-
co di quel che credevo. La combinazione di stanchezza e alcool può avere
risvegliato qualche cosa che era ancora sopita in me.» Avrei voluto dire:
Ma potrebbe essere il villino, Midge. Forse sta accadendo qualche cosa
che esula dalla nostra comprensione, qualche cosa che crea illusioni (non
ho forse visto un centinaio di pipistrelli mentre nella soffitta ce n 'erano a
malapena una cinquantina ?Non ho forse visto qualcuno che ci osservava
dalla foresta? Non mi sono perso in un disegno tanto da diventare una
parte di esso, un elemento umano in un quadro vivente? Non c'è forse una
magia che guarisce gli animali malati e anche le persone se le storie che si
raccontano su Flora Chaldean sono vere? E che dire del mio braccio? Le
scottature sono guarite per merito dei sinergisti o Gramarye ha esercitato
i suoi poteri su di me durante la notte, mentre dormivo? Il loro liquido
verde può avere arrestato il dolore, ma ha davvero fatto scomparire le
bruciature?. Questo avrei voluto dire, ma mi sembrava ridicolo. Midge a-
vrebbe pensato che ero impazzito e così tacqui mentre avrei dovuto vuota-
re il sacco e dirle quello che avevo dentro. In questo modo, almeno, Midge
avrebbe potuto prendere coscienza di certe sue sensazioni riguardo a Gra-
marye, sensazioni che lei non riusciva ad accettare. Questo tuttavia non
doveva avvenire in quel momento.
«Promettimi che andrai all'ospedale, Mike; quello dove sei già stato. Là
conoscono la tua storia, potranno farti tutti gli esami e accertarsi se sei
guarito davvero.»
«Parli come se fossi un drogato. Lo sai che non è così.»
«Ma una volta ci sei cascato.»
«Una volta, e solo con una droga leggera, per l'amor di Dio. E non più
da allora.»
«Va bene, Mike. Ti prego non arrabbiarti, non voglio più litigare.»
«Nemmeno io. Ma non esagerare: la droga, per me, non è mai stata un'a-
bitudine. Sì, lo so, dicono tutti così; ma tu sai che, per quel che mi riguar-
da, è la verità. Ho visto troppe vite rovinate per ricascarci.»
Mi abbracciò e mi baciò dolcemente. «Mi perdoni per essermi comporta-
ta così stupidamente?»
«Non posso rimproverarti: Dio solo sa che effetto devo averti fatto.» Le
restituii il bacio, felice che il muro fra di noi si fosse infranto anche se a-
vevo ancora vaghi e sinistri presagi. Per cambiare argomento e non andare
troppo a fondo su quello, dissi: «Stamattina, durante il viaggio, ho tentato
di telefonarti ma non c'eri. Sei stata fuori tutto il giorno?»
«Ho fatto una lunga passeggiata.»
«Sotto la pioggia?»
«Un po' di pioggia non fa male. Sentivo il bisogno di stare all'aperto, fra
gli alberi, di sentire l'erba sotto i piedi. Ieri ho lavorato tutto il giorno al
mio disegno e stamattina volevo schiarirmi le idee.»
«Così sei andata nella foresta?»
«Sì. Forse non ci crederai, ma ho perso la bussola e mi sono trovata an-
cora davanti a Croughton Hall.» La sua voce si era nuovamente abbassata,
come se non desiderasse continuare questo genere di conversazione.
Naturalmente insistetti. «Vuoi dire il Tempio Sinergista: non si chiama
più Croughton Hall. Che cosa hai fatto? Sei tornata da quella gente?»
«Ho pensato che dovevo passare a dare un saluto: sono stati così gentili
con te, la settimana scorsa. Ho anche pensato che volessero sapere come
stavi.»
«Chi hai visto. Kinsella, Gillie?»
«Ho visto Mycroft.»
«Sai è considerato un uomo pressoché inaccessibile, eppure si lascia av-
vicinare molto facilmente da te.»
«L'ho visto solo due volte, Mike.»
«Due volte più del curato.»
«Chi non vorrebbe evitarlo, quello lì?»
«Non credo che il nostro curato abbia voluto turbarti con la sua macabra
storiella. Probabilmente pensava di renderci Gramarye più interessante, più
caratteristica e misteriosa.»
«C'è riuscito, ma in modo sgradevole. Il suo racconto mi ha innervosita,
quando scendo in cucina al mattino ho sempre paura di trovarci qualcuno
seduto al tavolo.»
Non le rivelai che avevo anch'io la stessa paura. «Dimenticati quella sto-
ria. E poi tu non credi ai fantasmi.»
«In genere no. Comunque non credo che la morte sia la fine di tutto: de-
ve esserci qualche cosa dopo che dà un senso a tutto questo. Non possiamo
esistere qui su questa terra e poi sparire, altrimenti tutto quello che faccia-
mo o cerchiamo di ottenere non avrebbe senso.»
«Bene, è una cosa che non sapremo mai finché non ci chiuderanno den-
tro una bara, non è vero? E devo dire che in questo momento non sono ec-
cessivamente curioso di saperlo.»
«Mycroft mi ha detto che possiamo farci un'idea di quella che sarà la no-
stra condizione dopo la morte.»
«Oh, Midge, non crederai a queste sciocchezze, eh? " Qui c'è qualcuno,
sono lo zio Giorgio, mi sentite? C'è qualcuno qui che aveva una nonna dai
capelli grigi, che è trapassata una ventina di anni fa?" Ti stai illudendo.»
«No, non questo genere di stupidaggini; lo spiritismo ciarlatanesco non
mi interessa. Non è meglio di certe religioni che sfruttano solo la credulo-
neria della gente.» Fece una pausa come se non sapesse se continuare o no
poi disse : «Mycroft insegna che quando la volontà è in sintonia con lo
Spirito Divino, 1'anima può vivere esperienze mai sperimentate prima.
Crede che la nostra forza spirituale può unirsi con la perpetua essenza di
coloro che una volta erano in vita.»
Un mio piccolo mugolìo annoiato l'arrestò per un momento.
«No, Mike, non con i metodi semplicisti e ciarlataneschi dei cosiddetti
medium, ma mediante la coscienza. Forse in un modo di minor effetto del-
le voci o dei movimenti di oggetti, o anche delle visioni, ma, appunto per
questo, pura e genuina. Niente imbrogli, né illusioni; solo un reciproco
contatto fra forze psichiche, con Mycroft come guida o, se vuoi, come in-
terprete. Le parole non possono spiegare tutto questo, certo non le mie: de-
vi solo credere.»
«Scommetto che ci credi. Scommetto che tutto il suo culto è fondato su
questo tipo di fede cieca. Come puoi prendere sul serio quello che ti dice?»
«Non ho mai detto di farlo,» rispose con voce tesa. «Ma le sue idee, i
suoi concetti, sono interessanti e, se hai una mente aperta, hanno un senso.
Ma devi ascoltare, Mike, ascoltare lui, non me. Capirai subito che è un
uomo notevole.»
«No, grazie, preferisco rimanere quell'ignorante che sono.»
«Avrei dovuto sapere che è tutto quello che ci si può aspettare da te. Il
solito cinico sempre immerso nel tuo scetticismo. Dovresti uscire, qualche
volta, dal tuo piccolo mondo ristretto, Mike, dovresti tentare di guardare al
di là del tuo naso.»
«Gesù, ti ha proprio accalappiato.»
Midge si allontanò da me con un movimento brusco e disgustato, e im-
mediatamente mi pentii di aver scherzato; anche se credevo in quello che
avevo detto. Le misi una mano sulla spalla e sentii la scossa di un sin-
ghiozzo.
«Midge, scusami, non credevo di turbarti così. Forse oggi i nostri bio-
ritmi non sono in sintonia, eh?» Lascia perdere le battute, mi dissi e la ab-
bracciai. Quanto avrei voluto riuscire a trovare un accordo con Midge quel
giorno. «Dovrei averlo imparato ormai che sei pronta ad ascoltare nuove
idee e filosofie pur non accettandole. È sempre stata una tua dote quella di
fare tuoi nuovi metodi di pensiero.» Mi aspettavo di sentirmi dire «vile a-
dulatore», la sua solita reazione alle mie lusinghe per calmarla, ma in real-
tà era troppo turbata. «Forse non ho preso per il verso giusto Mycroft e la
sua gente. Sono sicuro che lui crede fermamente in quello che fa, ma tu
non puoi aspettarti che un cinico incallito gli vada dietro, ti sembra?»
Midge tirò su col naso senza rispondere.
«Parliamone un po',» continuai. «Prova a convincermi, a farmi vedere la
cosa da un altro punto di vista. In passato questo metodo ha sempre fun-
zionato, no?»
Mi rispose, ma senza voltarsi. «Mycroft dice che può aiutarmi a metter-
mi in contatto con i miei genitori.»
Ero troppo sbalordito per dire qualche cosa, e probabilmente fu un bene.
Infine dissi: «Oh, bambina...» e immediatamente la sentii irrigidirsi.
Ma io rimasi fermo e la feci voltare verso di me. Dovevamo discutere.

Più tardi quando mi svegliai era buio. Mi voltai verso Midge; dormiva
profondamente.
Avevo fatto uno sforzo per controllarmi, trattenendo una quantità di cose
che avrei voluto dire su Mycroft e le sue pazze idee. So di aver scelto la
strada della codardia, ma ero ansioso che le cose tornassero come prima fra
noi; il guaio fu che Midge prese il mio silenzio per consenso e si intestardì
ancor di più sull'idea di mettersi in contatto con i suoi genitori attraverso
quelI'illuso sinergista. Cercai di tirare delicatamente le redini, ma lei si era
lasciata subito trasportare, tutta presa dall'idea di poter effettivamente
«parlare» con i suoi, di potere in qualche modo misterioso dar pace ai loro
spiriti. La loro morte era stata violenta, e lei pensava malauguratamente
che le traumatiche circostanze in cui erano morti non avrebbero concesso
loro la pace nell'altra vita.
Rabbrividii e mi tirai le coperte fino al collo; la pioggia caduta durante il
giorno aveva rinfrescato l'aria. E adesso la camera da letto era più umida di
prima. L'orologio digitale sul comodino rotondo vicino al letto segnava le
22,26. Avevamo dormito dal pomeriggio alla sera.
Mentre me ne stavo lì, un'ombra passò rapida davanti alla finestra: un
pipistrello o un gufo nel suo vagabondaggio notturno.
Il battito delle ali venne ingigantito dal silenzio sepolcrale.
Mi sentivo la gola secca e fui tentato di svegliare Midge e chiederle di
scendere in cucina con me, prendere un caffè o un latte caldo, magari an-
che una tartina, e parlare ancora. Sentivo che dovevamo approfondire la
nostra conversazione del pomeriggio e cercare di capirci meglio. Avrei do-
vuto essere cauto perché non l'avevo mai vista così convinta su cose di
questo genere, ma ero sicuro che con un paziente ragionamento sarei riu-
scito prima o poi a farle tornare il lume della ragione.
Mi chinai su di lei e le baciai la spalla scoperta. Lei si mosse e mormorò
qualche cosa di incomprensibile, che probabilmente aveva un senso in re-
lazione al sogno che stava facendo, poi si voltò a pancia in giù e non disse
più niente. Le accarezzai la nuca, ma non si mosse: era nel mondo dei so-
gni. Appoggiato sui gomiti, guardai la finestra, oltre la quale il cielo era di
un blu lucente; ricordai con amarezza l'amore che aveva preceduto il no-
stro sonno; l'amplesso che avrebbbe dovuto esser addolcito dalla riconci-
liazione dopo il litigio, non era stato bello. Non era stato affatto bello. Cre-
do che il nostro sforzo di fare la pace contribuì notevolmente alla nostra
stanchezza; perché subito dopo mi addormentai. Mi scusai mentalmente
con Midge, più per essermi addormentato così presto che per la mia misera
«performance» (eravamo entrambi adulti e abbastanza saggi da saper che a
volte queste cose avvengono anche nelle relazioni migliori).
Gettai indietro le lenzuola, quasi sperando che quel movimento l'avrebbe
svegliata, ma non fu così. Mi infilai la vestaglia e scivolai verso la porta
senza fare rumore poiché non volevo svegliarla. Nell'avvicinarmi alla porta
toccavo la parete con la mano per avere una guida e fui sorpreso quando
mi accorsi di avere il palmo bagnato. Passai la mano sulla parete e le mie
dita scivolarono sulla superfice umida. Una perdita? Impossibile. Una con-
densa di umidità? In estate? E tuttavia doveva essere così: aveva piovuto
gran parte del giorno. Mi domandai che cosa sarebbe successo d'inverno.
Ovviamente c'erano altri lavori da fare, ma avremmo saputo quali solo
quando il tempo fosse peggiorato.
Percorsi il corridoio fino alle scale. Accesi la luce, ma non fu sufficiente
a illuminare tutte le scale. Se devo essere sincero non mi attirava granché
l'idea di scendere in cucina e credo che sappiate perché: mi convinsi di es-
sere un adulto e di non credere a queste cose. Cominciai a scendere ma mi
fermai a mezza strada: la cavità nera della cucina nel fondo, non era affatto
invitante. L'allucinazione del dipinto mi aveva evidentemente snervato più
di quanto pensassi.
Strinsi i denti eroicamente, ripresi a scendere con la mano tesa per trova-
re 1'interruttore che era vicino alla porta. L'immagine - la sensazione - di
invisibili dita fredde e ossute che mi stringevano il polso era insopporta-
bilmente intensa nella mia mente, quasi tanto da costringermi a risalire di
corsa, ma resistetti a quell'impulso.
La luce si accese e fu un sollievo trovare che la stanza era vuota. Passai
oltre in cucina andando dritto al frigorifero (lo stesso interruttore accende-
va la luce delle due parti della cucina) e presi un cartone di latte. C'era un
grande bicchiere ad asciugare sullo scolapiatti; lo riempii di latte fino al-
l'orlo e ne bevvi subito metà, poi lo riempii di nuovo. Cercando ancora nel
frigorifero trovai del prosciutto, e proprio mentre imburravo una fetta di
pane ebbi la sensazione di non essere solo. Mi guardai attorno: la finestra
sopra l'acquaio mi restituì solo un pallido riflesso di me stesso. Da dove
ero non potevo vedere sulla superficie lucida la tavola e le sedie oltre l'arco
della porta che divideva le due parti. Ma la mia mente vide qualcuno sedu-
to là.
Mi voltai lentamente per guardare la parte anteriore, ma in realtà non vo-
levo vedere. Volevo solo battere il soffitto con il mio manico della scopa
perché Midge venisse giù al più presto a farmi compagnia. Naturalmente
non potevo farlo, e naturalmente dovevo spingere la testa oltre l'arco della
porta se non volevo restare lì fino al mattino. Avanzai cautamente verso la
porta come la macchina da ripresa in un film di Hitchcock; l'angolo visivo
cambiava via via che mi avvicinavo rivelando sempre più spazio; un ango-
lo della tavola, la saliera, l'estremità di una sedia...
Il mio stesso movimento lento e deciso mi faceva venire la pelle d'oca, e
la sensazione che qualcuno fosse seduto lì aspettando che io guardassi ol-
tre l'angolo della porta, e sogghignasse, dinanzi a una tazza di tè ammuffi-
to, quasi mi sopraffaceva.
Così feci d'un balzo gli ultimi due passi.
Lei non era lì. La vecchia Flora giaceva nel cimitero del villaggio, non
era seduta al tavolo della cucina di Gramarye. Grazie a Dio.
Mi appoggiai allo stipite della porta per riprendere fiato. Lei non era lì,
ma oh, c'era un'atmosfera in quella stanza. Forse la mia immaginazione
stava ancora correndo, ma ero sicuro di sentire una presenza, qualche cosa
che era quasi tangibile nell'aria. Vi era nella stanza l'odore di una persona
vecchia, capite quello che intendo! Un odore dolciastro, di muffa e di vec-
chio nello stesso tempo. Una volta ho letto da qualche parte che certi pa-
rapsicologi considerano i fantasmi semplici residui dell'aura di una persona
defunta, e adesso pensavo che questa teoria poteva facilmente applicarsi
all'interno del villino: i residui psichici di Flora Chaldean permeavano
1'ambiente, la sua vitalità impregnava il mobilio e le pareti stesse. Sentivo
che lei se n'era andata ma che parte della sua personalità era rimasta chiusa
in Gramarye, forse per svanire nel nulla col tempo.
Rabbrividii a quell'idea, ma per lo meno eliminava ogni ipotesi romanti-
ca di fantasmi e di infestazioni.
Tornai al lavoro cominciato e rapidamente finii di prepararmi un san-
dwich; poi, con quello e il bicchiere di latte mi avviai alle scale senza po-
termi impedire di lanciare un'occhiata alla tavola nel passare. Avevo
1'impressione di potere raggiungere e toccare l'apparizione, tanto forte era
l'immagine eidetica. Dovetti fare un certo sforzo per spegnere la luce.
Salii le scale più rapidamente di quando le avevo scese lasciando accesa
la luce quando entrai nella stanza rotonda. Nonostante il mio nervosismo
non accesi la luce lì, e non lo feci per una semplice ragione: per non di-
sturbare la mia compagna addormentata andavo a mangiare il mio spuntino
fuori della stanza da letto, ma non volevo vedere ancora il disegno in piena
luce, caso mai quei colori vibranti mi facessero di nuovo qualche scherzo.
La luce del corridoio e il riflesso lunare che proveniva dalle finestre mi
permetteva di intravedere appena il disegno. Mi abbandonai sul divano, mi
riempii la bocca di pane e prosciutto e mi posai il bicchiere di latte su una
coscia.
Seduto lì, pensai a Mycroft il quale diceva di poter mettere Midge in
contatto con i suoi defunti genitori, e al fatto che lei ne fosse convinta cre-
dendo davvero che quel buffone fosse una specie di mistico, capace di
conversare con le anime degli scomparsi. Mentre potevo accettare la pos-
sibilità di una vita dopo la morte, non potevo credere all'idea folle di avere
un contatto diretto con l'altra sfera. Tuttavia soffrivo per Midge, perché
una parte di lei era ancora straziata per la morte dei suoi genitori. Credo
che in qualche modo cercasse la pace mentale; non riusciva ad accettare
l'idea della privazione. Un dato momento Midge aveva una famiglia, poco
dopo era completamente sola. Certo era trascorso un breve periodo tra la
morte dell'uno e quella dell'altro, ma non sufficiente a impedire il trauma.
Sua madre era morta a cinquantacinque anni dopo aver sofferto per di-
verso tempo del morbo di Parkinson, e Midge e suo padre l'avevano curata
amorosamente durante tutta la malattia. Purtroppo molti farmaci avevano
su di lei gravi effetti collaterali così da non potere essere tollerati; Midge
diceva che sua madre aveva sofferto enormemente. Tuttavia la donna ma-
lata si preoccupava ugualmente del benessere del marito e della figlia.
Pensava di essere un grave fardello impedendo loro di vivere una vita
normale, specialmente alla giovane figlia che non poteva dedicare maggior
tempo allo sviluppo del suo notevole talento artistico. Ma Midge e suo pa-
dre erano pronti a fare qualsiasi sacrificio per assicurarle il maggior con-
forto possibile e vi riuscivano bene.
Finché il padre di Midge non rimase vittima di un pauroso incidente
stradale.
Riportò una gravissima frattura al cranio e soffrì le pene dell'inferno per
cinque giorni prima di morire. E, nei brevi momenti di lucidità, prima della
morte, le sue preoccupazioni furono tutte per Midge e per sua madre.
La sua morte distrusse le ultime forze della moglie, e con esse il corag-
gio che l'aveva aiutata a resistere alla malattia. Il suo deperimento fu così
rapido nei due giorni che seguirono alla scomparsa del marito che lei non
poté assistere al funerale. Quando Midge tornò a casa dopo il funerale tro-
vò la madre fuori dal letto, completamente vestita, immobile su di una pol-
trona, con la fotografia del defunto marito sulle ginocchia. Ai suoi piedi vi
erano un tubetto di pastiglie vuoto e un bicchier d'acqua rovesciato. Un
sacchetto di plastica trasparente, chiuso stretto da un nastro attorno al col-
lo, le copriva la testa.
Aveva lasciato un biglietto in cui chiedeva perdono alla figlia pregando-
la di capire. La vita era divenuta troppo dura per lei, la morte del marito, si
era aggiunta alle sue pene fìsiche e mentali e, restando in vita, non avrebbe
fatto altro che rovinare l'esistenza della giovane figlia tenendola legata a sé
e privandola della sua libertà. Midge soffriva del fatto che i suoi genitori
non potevano partecipare ai successi artistici dell'amata figlia.
È facile capire perché Midge era stata così sensibile alle false promesse
di Mycroft.
Il suo tavolo da disegno si intravedeva nella semioscurità, con la super-
ficie inclinata e il disegno fissato su di essa. Senza vederlo, sapevo che il
chiaro di luna lo illuminava misteriosamente creando una diversa struttura,
forse un'altra dimensione spettrale. Ma non ero abbastanza curioso da dar-
vi un'occhiata.
Ombre nere passarono sul pavimento facendomi sussultare, ma presto
mi resi conto che si trattava soltanto di alcuni dei nostri amici notturni del-
la soffitta i quali stavano lasciando il loro rifugio e i loro corpi alati svo-
lazzavano nel chiarore lunare gettando le loro ombre nella stanza. Finito il
sandwich, mi alzai dal divano portando il latte con me e mi avvicinai a una
delle grandi finestre rasentando il tavolo da disegno ed evitando con cura
di guardare il dipinto.
Fuori, la campagna era inondata da quella particolare luminosità che non
si associa con il calore ma evoca solo gelo e desolazione. L'erba era così
priva di colore che la distesa appariva gelata, e così profonde erano le om-
bre fra i cespugli e gli alberi da apparire come dei vuoti neri.
Sorseggiai il latte e quel liquido freddo mi penetrò nell'intimo. I miei oc-
chi fissavano lo scuro margine della foresta cercando qualche cosa che non
volevo trovare. Discernere una figura nascosta sarebbe stato comunque
impossibile tanto fitta era 1'oscurità, ma questo non mi impediva di cerca-
re, e il saperlo non impediva nemmeno un sospiro di sollievo quando non
trovavo niente.
Tuttavia quel sollievo fu prematuro. Perché la mia attenzione venne at-
tratta da qualche cosa che stava a metà strada tra la foresta e il villino.
Qualche cosa che non ricordavo di avere visto in precedenza.
Era così immobile che forse si trattava solo di un cespuglio. Ma una
macchia pallida che faceva capolino fra gli arbusti mi incuriosì. Quella che
vedevo era una faccia.
Poi vidi qualche cosa di bianco che si alzava lentamente e che poteva es-
sere solo una mano.
E quella mano mi fece un cenno.

24.
NESSUNO

Ebbi paura. O meglio, fui maledettamente atterrito. Ma avevo avuto ab-


bastanza guai per un giorno solo. Ero stato umiliato, accusato di essermi
drogato, confuso dall'allucinazione del pomeriggio e infastidito perché mi
lasciavo intimidire da questo misterioso osservatore che non aveva il co-
raggio di battere alla porta e presentarsi, uomo o donna che fosse. Tutto
questo si combinava con una rabbia intima che rapidamente cominciò a
traboccare.
Mi rovesciai il bicchiere di latte sui piedi e questa fu la goccia che fece
traboccare il vaso.
Con un grido di rabbia, corsi alla porta saltando i primi gradini per l'esa-
sperazione. Tirati i catenacci facendo il maggior rumore possibile (Midge
continuò a dormire), spalancai la porta e uscii nella notte girando attorno al
villino verso il punto in cui la figura mi attendeva, scivolando sull'erba an-
cora umida di pioggia, con la vestaglia aperta e svolazzante così che l'aria
sferzava il mio corpo nudo.
Ma non ci badai: il troppo era troppo. Stavo per affrontare quella danna-
ta spia dei boschi una volta per tutte. Mi dimenticai degli esseri disincarna-
ti, delle donne in nero, delle apparizioni avvolte in sudari e dei fenomeni
paranormali, dei presagi sinistri, degli esorcismi e dei morti - mi sarei bat-
tuto con la bestia che non era una bestia bensì qualcuno che si divertiva
stupidamente e maledettamente alle mie spalle. Il mio sdegno feroce mi
fece superare tutte le paure.
Mi lanciai nel buio senza badare ai sassi aguzzi e ai rami che mi sferza-
vano dolorosamente i piedi, così infuriato da trascurare ogni precauzione.
Ma correvo verso il niente.
Cercai il punto preciso in cui la figura era apparsa, orientandomi consi-
derando la linea della finestra da cui avevo guardato e un mucchio di ce-
spugli bassi sulla sinistra. Mi guardai attorno senza fermarmi, rallentando
solo quando raggiunsi il punto in cui ero certo che la figura mi aveva fatto
cenno.
Lui, lei, o chiunque fosse, non aveva potuto avere il tempo di fuggire
nella foresta o di correre dall'altro lato del villino. Ma dove diavolo era?
Non poteva essere scomparso nel nulla.
Mi rimisi a correre, forse più per dimostrare a me stesso quanto ero co-
raggioso che per altro. Schizzai fra gli alberi, battendo i cespugli per sco-
vare qualunque cosa vi fosse nascosta. A dire il vero qualcosa uscì da una
massa di fogliame spaventandomi quasi a morte, ma era piccola e velocis-
sima, un animale più atterrito di me.
Questo piccolo choc mi raffreddò un tantino, e io rimasi lì guardando a
destra e a sinistra, davanti e dietro me, ansante, con le spalle curve e il su-
dore che già cominciava a raffreddarsi sul mio corpo quasi nudo.
Mi strinsi la vestaglia in vita e mi lasciai cadere a terra. E accovacciato lì
scoppiai a piangere alla luna.

25.
IN COMPAGNIA

Bob e io eravamo seduti fianco a fianco sulla panca dietro il villino, con
alcune lattine di birra fra noi, mentre il sole cominciava a tingere tutto di
rosso. La sera era calda e i calabroni ronzavano ancora prima di concedersi
il riposo. Le nostre ragazze erano in cucina, affaccendate a preparare l'in-
salata, ad affettare il prosciutto e probabilmente dandosi un gran da fare
per preparare una buona cenetta.
Bob si versò un'altra birra guardando la foresta che si oscurava. Scosse
la testa: «Detesto la campagna!»
Sorrisi per quel che aveva detto. «Domattina ti porterò a fare una pas-
seggiata nei boschi.»
«Nemmeno se mi ci porti al guinzaglio!» Bevette e si lasciò andare con-
tro lo schienale della panca stringendo gli occhi contro il sole e distoglien-
do poi rapidamente lo sguardo. «Non trovi opprimente tutta questa pace e
questo silenzio? Voglio dire, sarà anche bello, ma non ti stanca dopo un
po'?»
«Ci si abitua,» risposi.
«Sì, ma non senti la mancanza di...» cercò la parola giusta «... di vita?»
«Ce n'è un mucchio da queste parti, se guardi bene.»
«No, non questo genere di vita, non la natura. Voglio dire la vita, qual-
che cosa da fare.»
«È strano ma non è un problema per me. Certo, ogni tanto divento in-
quieto - per questo mi è piaciuta tanto la nostra seduta in sala di registra-
zione della settimana scorsa. Ma siamo abbastanza vicini a Londra per sal-
tare in automobile e andare a passar la sera lì.»
«E quante volte lo hai fatto, da quando sei qui?»
«Mi sono appena sistemato, Bob. Non abbiamo ancora avuto il tempo di
sentire il desiderio di mondanità.»
Si asciugò il mento bagnato di birra. «Sì, forse hai ragione. Può darsi che
sia il modo ideale di passare la giornata ascoltare il rumore dell'erba che
cresce e guardare gli uccelli che fanno il nido. E metterti a intrecciare ce-
stini per arrotondare le entrate.»
Risi di questa conclusione. «Se credi che voglia passare un intero fine
settimana così...»
Mi battè una mano sulla coscia, divertito. «Scherzavo, Mike, sul serio.
Per dirti il vero, credo che tu abbia fatto un ottimo cambiamento. Forse un
giorno lo farò anch'io. Aspetto però di avere qualche capello grigio. Oh,
guarda, eccolo ancora qui quel maledetto scoiattolo! Non ha paura, eh?»
Rumbo aveva fatto la sua comparsa all'improvviso, incuriosito dei nostri
ospiti. Era sulla soglia di casa quando Bob e la sua ragazza erano arrivati
un'oretta prima, ed era scappato via mantenendo le distanze, ma senza
scomparire del tutto. Ero contento che avesse superato presto lo choc. Tut-
tavia io non mi ero ancora rimesso dal mio.
Avevo avuto 1'idea di confidare a Bob quello che era successo il giovedì
precedente, ma non riuscivo ad immaginare il mio vecchio amico beone
che mi prendeva sul serio. Sapevo fin troppo bene che mi avrebbe riso in
faccia. Perché non avevo detto a Midge della mia escursione notturna per
affrontare quell'essere sinistro che mi aveva fatto cenno? Perché lei era
troppo occupata a pensare alle promesse di Mycroft.
L'episodio del suo disegno che si muoveva le era già passato di mente, e
i nostri rapporti erano ancora un tantino tesi. Se proprio me lo chiedete, vi
dirò che adesso avevo qualche dubbio sulla mia salute. Non ero più sicuro
di non soffrire qualche forma di allucinazione: chiamatela pure nevrosi da
cambiamento d'ambiente; tutto questo sembrava così irreale e fantasioso
nella fredda luce del giorno. A dir la verità avevo deciso di prender tempo
e vedere quello che sarebbe avvenuto. Comunque c'era poco da scegliere.
Rumbo si avvicinò a noi con lo sguardo fisso su Bob il quale fece
schioccare la lingua come per richiamare l'attenzione di un cane o di un
bambino piccolo, e lo scoiattolo tirò su la testa; guardò per un poco Bob
con una certa curiosità e poi saltò audacemente sul tavolino dove erano ri-
maste due lattine vuote. Guardò nella fessura triangolare di una di queste
facendola quasi cadere e, tenendola con le zampette, succhiò il residuo di
birra con grande divertimento di Bob. «Bellissimo, bellissimo,» gridò. «U-
no scoiattolo che si dà all'alcool! Vedo che hai fatto del tuo meglio per far
fronte a questa infestazione: farli diventare alcolizzati e lasciarli bere fino a
crepare.»
«Rumbo non è un'infestazione: fa parte della famiglia.»
Bob mi diede uno dei suoi soliti sguardi e rise senza fare altri commenti.
Io avevo aspettato con ansia la sua visita, pregustandola ogni giorno: una
sensazione buona, potrei dire. Bob e Kiwi, e la Grossa Val, erano i nostri
primi invitati a Gramayre, e Midge e io (nonostante le sue prime riserve
circa Bob) ne eravamo molto lieti. Adesso cominciavo a rilassarmi: la se-
conda birra e la piacevole compagnia del mio amico mi aiutavano a ritro-
vare l'equilibrio. I conigli selvatici erano riapparsi a giocherellare un po'
prima di andare a letto, sebbene questa sera si tenessero lontani dal villino
come se sentissero che vi erano degli estranei, e pochi uccelli svolazzarono
attorno come clienti serali. La brezza era lieve e calda.
Io bevevo birra e mi godevo l'atmosfera.
Bevemmo ancora nella stanza rotonda prima di cenare, questa volta tutti
insieme: Midge si attenne alla limonata con soda mentre il resto della
compagnia preferì qualche cosa di forte. L'agente di Midge era arrivata
venti minuti prima chiedendomi un gin-tonic che l'aiutasse a rimettersi dal
viaggio. La Grossa Val e Bob si erano incontrati un paio di volte e le loro
reciproche canzonature erano sempre rimaste sulla base di una gioviale o-
stilità. Bob voleva che le donne fossero più femminili e non aggressive, in-
fatti Kiwi era un modello di femminilità, e quindi lui non riusciva a capire
Val. Cominciò a complimentarsi con lei, per i suoi scarponi da campagna,
«adattissimi per camminare in un porcile», come disse. Lei ricambiò il
complimento ammirando la sua cravatta di cuoio rosso, «l'ideale per stran-
golarsi.»
Scambiati questi «complimenti» Midge e io brindammo alla salute dei
nostri primi ospiti ed essi ricambiarono brindando alla nostra futura felicità
a Gramayre. Chiacchierammo per un po' ma ovviamente Val era impazien-
te di vedere l'ultimo lavoro di Midge; gli occhi le si erano illuminati quan-
do entrando aveva visto il cavalietto in fondo alla stanza, e non tardò a fare
un giretto da quella parte. Il disegno del villino era ancora fissato al tavolo,
protetto dalla polvere con un foglio di carta velina. Io non l'avevo guardato
dal giovedì, ma osservai l'agente mentre alzava la velina, curioso della sua
reazione. Non so che cosa mi aspettassi, ma non certo che aggrottasse le
sopracciglia.
Notai quell'espressione perché la osservavo da vicino; ma il cipiglio pas-
sò subito e Val sorrise.
«Splendido,» disse, «assolutamente splendido.»
Per lei, abituata a opere di prim'ordine, quel giudizio era il massimo, e
Midge era raggiante.
«Non è in vendita,» si affrettò a dire. «E una cosa per Mike e per me, un
ricordo delle nostre prime settimane passate qui. Il primo incontro di Gra-
marye con noi, prima che ci fossimo abituati a tutto. Sapete bene come è
facile finire col diventare insensibili anche alle cose più belle che ci cir-
condano.»
Val continuò a studiare il dipinto mentre Bob e Kiwi se ne stavano l'uno
vicino all'altra dietro di lei.
«Oh, questo sì che è qualche cosa di diverso!» Esclamò Bob con entu-
siasmo. «Guarda, cara. Questa è quella che si chiama arte. Non quella ro-
baccia astratta che va di moda adesso.»
«Evidentemente hai le idee chiare in fatto d'arte, Bob,» disse Val secca.
Lui assentì. «Mi piace capire l'opera che guardo», rispose fissando Val in
modo significativo.
«Come andavano i manifesti che ha fatto Midge per quell'agenzia?»
chiesi per cambiare argomento.
Val si allontanò dal tavolo da disegno. «Ho lasciato in macchina i primi
bozzetti con i colori corretti. Ho pensato che potremo vederli domattina,
Midge, e tu potrai apportare i cambiamenti.»
«Bene,» convenne Midge. «Sono ansiosa di vederli.»
«Ricordati che sono solo dei bozzetti. Abbiamo tutto il tempo di perfe-
zionarli.»
«Sembra di cattivo augurio.»
«So quanto sei scrupolosa. Il direttore artistico è contento. Ha in pro-
gramma altro lavoro per te, ma anche di questo parleremo domattina. A
proposito, Hamlyn vuole discutere con te un nuovo libro.»
«Sembra che dovrai lavorare sodo,» osservai.
«È il periodo di maggior lavoro. 1 clienti vogliono avviare il lavoro pri-
ma di andare in vacanza.»
«Non sono ancora pronta ad assumerne troppo,» avvertì Midge.
«Non intendiamo lasciarti godere troppo a lungo la vita di campagna,»
disse Val abbandonandosi sul divano. «Un mucchio di gente ne sarebbe
molto scontenta, specialmente i tuoi piccoli fan.»
«Per non parlare del suo direttore di banca, Dio lo benedica,» commentò
Bob sedendosi accanto a Val cosi che lei dovette scostare il suo volumino-
so sedere. «Suppongo che stiamo per andare a cena, no! O dobbiamo av-
viare un'altra registrazione del Band Aid? E vedo che l'alcool fila via come
acqua.» Mi mostrò il suo bicchiere quasi vuoto.
Con amici invadenti come Bob, i contrasti dovevano essere sempre atte-
nuati. Ma io ci avevo fatto l'abitudine; faceva sempre così e certe abitudini
sono dure a morire. Inoltre sapevo che il suo comportamento era rivolto a
Val: lui cercava sempre di irritare coloro che non sapeva come prendere.
Kiwi lo rimproverò disgustata, mettendosi una ciocca bionda dietro a un
orecchio. «A volte i tuoi modi sono proprio imbarazzanti,» disse ranni-
chiandosi vicino a lui sul pavimento.
«E proprio la mia maleducazione che mi rende così simpatico, non è ve-
ro, Mike?»
Gli presi il bicchiere dicendo: «Sì, sei davvero adorabile. Sempre lo
stesso?»
«Con un po' più di vodka, questa volta. Stanotte non devo guidare.»
«Fa differenza?»
Mise un braccio attorno alla sua ragazza e sorrise soddisfatto come un
gatto che ha avuto del pesce e sa che gliene spetta dell'altro.
Gli inviai un messaggio mentale: Controllati, amico, e non mettermi nei
guai.
In realtà non lo fece. Quello che avvenne poi fu solo in parte colpa sua.

La cena fu un successo.
Più vino si consumava, più la conversazione si faceva accesa. Bob e Val
cominciarono a capirsi: le loro frecciate diventarono più spiritose e meno
polemiche a mano a mano che le ore passavano. Le insalate non erano mai
state il mio piatto preferito, ma, poiché l'agente di Midge era vegetariana,
tutti dovettero accontentarsi del menù; inoltre vi era molta carne fredda per
noi «carnivori.»
Kiwi risultò essere molto più brillante di quanto sembrasse. Rifiutò di
dirci come le era stato appioppato quel soprannome, ma Bob fece capire
pesantemente e un po' lascivamente che aveva a che fare in qualche modo
con quel lucido da scarpe e poi Kiwi non ebbe alcuna inibizione nel rive-
larci che in passato aveva fatto parte di un complesso rock.
Più di una volta, durante la cena, mi trovai ad osservare Midge, con il
suo volto sottile trasformato da folletto in principessa, gli occhi a mandorla
scintillanti e dolci, e una bellezza che veniva dall'intimo. Il vino abbondan-
te può avere influito in un certo modo sul mio giudizio, ma la sensazione
non era nuova; avevo visto in lei le stesse qualità già molte altre volte e in
momenti in cui ero perfettamente sobrio. Così la misi forse su una sorta di
piedistallo (e non fui il solo a farlo), ma la conoscevo da troppo tempo
perché ora apparissero crepe in quel piedistallo. Non prendetemi per un i-
diota: conoscevo i suoi errori e le sue debolezze, ma per me la rendevano
solo più vulnerabile e più umana. Diciamo che portavano la realtà nel so-
gno e la rendevano più accessibile a me. E una delle cose che mi legavano
così forte a lei era il fatto che lei vedesse in me qualche cosa di buono:
questo mi rendeva in certo modo più libero, mi permetteva di esporre i
miei sentimenti più facilmente. Chiamatemi pure un folle romantico.
Fui folle anche sotto un altro aspetto, quella sera, perché Bob, con la sua
vescica d'acciaio, era corso su per le scale al bagno un paio di volte, duran-
te la cena, e solo la seconda volta notai che stava masticando qualche cosa
quando era tornato. Mi venne in mente solo più tardi, nel sentirlo farsi
grandi risate alle battute più sciocche, che era scomparso solo per prendere
piccole dosi di cannabis non volendo farlo davanti alla sua ospite, la cui
avversione alle droghe era nota. Evidentemente sentiva il bisogno di uno
stimolante oltre all'alcool, quindi non c'era da meravigliarsi del suo buon
umore.
Lasciai correre, ansioso che Midge non scoprisse quello che lui stava fa-
cendo: avevo avuto abbastanza noie con le droghe, in quella settimana e
non per colpa mia. Fortunatamente lei non ci fece caso, presumibilmente
attribuendo la giovialità di Bob al buon cibo, al vino e alla compagnia.
Era tardi quando finalmente chiudemmo la porta della cucina per non far
passare l'aria della notte, divenuta più fredda, e salimmo al piano di sopra,
mentre Midge restava giù a preparare il caffè. Quel giorno avevo comprato
del buon brandy in paese e lo versai a Bob, a Val e a me. Non riuscii a
procurare un Malibu a Kiwi, che dovette accontentarsi di vodka con molta
limonata.
Resistetti alla tentazione di portar giù le chitarre, sapendo che una volta
Bob e io avessimo cominciato, avremmo suonato per tutta la notte finché
tutti gli altri non fossero caduti nel più completo stordimento. Misi, invece,
una cassetta tenendo basso il volume per poter udire le nostre voci sopra la
musica.
Perfino Val sembrava addolcita e più graziosa di quanto l'avessi mai vi-
sta, e iniziammo un'allegra discussione sul tema: «Agente: fornitore di la-
voro o parassita?» Credo che lei ne sia uscita a testa alta, e non ne fui scon-
tento.
I primi sbadigli cominciarono verso l'una, e la colpa venne attribuita al-
l'aria tersa della campagna. Bob era pronto a chiacchierare per tutta la not-
te, ma Midge, sempre lucida, informò i nostri ospiti delle disposizioni pre-
se per la notte suggerendo un turno per l'uso del bagno. Bob e Kiwi avreb-
bero dormito nella stanza rotonda, sul divano, che era di quelli che si pos-
sono trasformare a letto, mentre Val sarebbe andata nella stanza accanto
alla nostra, su di un letto pieghevole.
Midge ed io scendemmo in cucina per lavare i piatti mentre gli altri si
preparavano per andare a letto. Risi fra me quando sentii Bob rintanato
nella sua camera imitare Michael Jackson.
Midge e io indugiammo sulla soglia dell'ingresso per guardare le stelle
che sembravano più irreali e più numerose viste attraverso l'aria tersa. In-
dugiammo anche in baci e carezze come adolescenti al loro primo appun-
tamento. Io ero felice però di non dover prendere l'ultimo treno.
Quando tornammo a guardare il cielo, le stelle erano scomparse dietro
nere nubi.
Non ho idea di che ora fosse quando le grida ci svegliarono.
Balzammo entrambi a sedere sul letto come spinti dalla stessa molla.
C'era solo una luce sufficiente per farmi vedere il profilo scuro di Midge, e
sentii le sue mani che si stringevano a me impaurite.
«Dio mio, Mike, che cos'è?»
«Non lo so...»
Le grida si ripeterono alte e terribili: impossibile stabilire se erano di un
uomo o di una donna. Tesi il braccio verso la lampada a fianco del letto fa-
cendola quasi cadere nel cercare l'interruttore. Eravamo entrambi nudi;
Midge si infilò in fretta la camicia da notte e io la vestaglia, tutti e due ci
dirigemmo verso la porta.
Devo ammettere tuttavia che esitai un attimo prima di aprire quella por-
ta. Le grida mi avevano messo addosso un gelo che sembrava attraversar-
mi tutto. Girai la maniglia tremando.
Senza più ostacoli, le grida furono ancora più intense e paurose.
Nella stanza rotonda vi era una lampada e Kiwi era inginocchiata a terra
presso di essa: guardava inorridita una figura raggomitolata in fondo alla
stanza. Quella figura era Bob, con la faccia ancora inorridita, brutta e sfi-
gurata come uno di quei mostri di pietra che si vedono sporgere dalle cat-
tedrali gotiche. Quello che rendeva il suo aspetto ancora più pauroso era il
fatto che era mostruosamente pallido.
Guardava verso la porta spalancata che dava sulle scale con gli occhi
sbarrati. La mascella gli pendeva fin quasi sulla gola, la sua bocca era un
grande buco, e le sue grida, adesso, erano solo un suono rauco.
Corsi da Bob gridando il suo nome come se questo potesse trarlo dalla
follia che era evidente nel suo sguardo, cadendo in ginocchio davanti a lui.
Le sue mani, come rigidi artigli, gli coprivano la faccia quasi per impedir-
gli di vedere una visione di incubo; ma i suoi occhi continuavano a sbircia-
re fra le dita. Tremava, con un movimento rigido e spasmodico che gli
scuoteva il corpo divenuto improvvisamente fragile.
«Bob, che è successo? Calmati e dimmi cosa è accaduto.»
Non sentiva: si rannicchiò contro il muro puntandosi sul tappeto coi pie-
di nudi. Lo presi per i polsi che erano come sbarre d'acciaio vibrante. Da
qualche parte, in fondo alla stanza, sentii un forte singhiozzo e sperai che
Midge si prendesse cura della ragazza di Bob: io ero troppo sconvolto per
poter confortare altri oltre a Bob.
«Bob, per l'amor di Dio, calmati!»
Gli scossi le spalle, sebbene avessi quasi paura a toccarlo: ma lui si ri-
trasse. Cercai di calmarlo opponendomi a lui con la forza. Questa volta gli
afferrai le mani e gliele strinsi avvicinandomi a lui così da costringerlo a
guardarmi.
Forse avrei dovuto capire subito qual era il problema perché, nonostante
la luce smorzata della stanza, le sue pupille erano piccole, contratte come
se colpite dal sole. E il suo sguardo era vitreo e terrorizzato; avevo visto
quello stesso sguardo in parecchie mie conoscenze sotto l'azione della can-
nabis.
Ma l'atmosfera era troppo carica perché io potessi rendermi conto di
questo. Mantenni la voce calma e controllata come se ragionassi con lui.
«Non ti è successo niente, Bob, va tutto bene. Hai fatto un brutto sogno,
tutto qui. O forse hai sentito qualche cosa che ti ha spaventato. Erano i pi-
pistrelli? Non ti abbiamo detto che abbiamo dei pipistrelli nella soffitta. A
volte spaventano maledettamente anche me, che ci sono abituato. Su, Bob,
siamo tutti qui non aver paura.»
Mi sentivo un po' sciocco nel «coccolarlo» così, ma era come se avessi
davanti a me un bambino atterrito.
Per un momento i suoi occhi sembrarono mettersi a fuoco su di me, e
questo parve aiutarlo un poco. Smise di dibattersi e tentò di parlare ma dal-
la sua bocca uscì soltanto un suono rauco. Non riusciva a chiudere la bocca
per formulare le parole.
Voltai gli occhi per un secondo per vedere che cosa facevano gli altri, e
avrei voluto non averlo fatto. La stanza rotonda non era più la stessa. Era
tutto al suo posto, i mobili erano gli stessi, il tappeto era dello stesso colore
e così pure le tende : ma mi trovavo in un altro luogo; e dappertutto c'erano
delle ombre minacciose. Ed ecco ancora nell'aria quell'umido odore di
muffa. Mi parve di veder crescere i funghi sulle pareti, ma le ombre erano
troppo scure perché potessi essere certo di quel che vedevo. E la stanza
stava diventando più piccola, le mura si restringevano, ma così lentamente
che non potevo averne la certezza, anche quando ebbi sbattuto più volte le
palpebre non capii se era frutto della mia immaginazione o realtà. No, do-
veva essere la mia immaginazione! L'odore di muffa mi chiudeva la gola
impedendomi di respirare.
Kiwi gemeva e Midge, inginocchiata accanto a lei, con un braccio attor-
no alle spalle della biondina, faceva del suo meglio per calmarla; ma ot-
tenne quasi lo stesso successo che ottenni io con Bob. Kiwi stava tentando
di dirci qualche cosa, ma riuscii a udire solo qualche frase soffocata.
«... Aveva sete... è sceso... Oh, mio Dio, ho sentito il suo grido... ha visto
qualcuno... laggiù...»
Per me furono più che sufficienti per capire il significato, e mi sembrò di
sentirmi camminare dei millepiedi lungo la spina dorsale. Capii che cosa
aveva visto Bob in cucina.
Delle unghie che mi grattavano il petto richiamarono la mia attenzione
sul mio amico che stava lì contro il muro, e afferrai il suo polso per porre
termine a quel doloroso raspare. La sua testa penzolava come quella di un
paralitico e l'altra sua mano era puntata per lo più verso la finestra aperta.
Ma seguii il suo sguardo piuttosto che il suo dito puntato, ipnotizzato dal
suo sguardo folle.
Il corridoio era immerso nel buio; ma un pallido bagliore proveniva da
in fondo alle scale, dalla cucina forse. Bob doveva aver lasciato la luce ac-
cesa.
La stanza si stava rimpicciolendo e le ombre si facevano più scure, come
se cospirassero a schiacciarci. Il mio subconscio mi diceva che si trattava
solo della mia immaginazione, della mia paura; ma questa spiegazione non
era molto confortante. Stringevo ancora il polso di Bob e adesso tremavo
come lui. La mia bocca rimase aperta, quasi inchiodata mentre osservavo
la porta spalancata.
Un'ombra saliva dalle scale. Una grande ombra confusa, nera come in-
chiostro: veniva dalla cucina.
Saliva, appena illuminata dalla luce della cucina. Era quasi in completa
oscurità mentre saliva ancora e girava la curva delle scale.
Lentamente emerse nella fioca luce della stanza rotonda.

26.
UNA BRUTTA ESPERIENZA

Quasi venni meno dal sollievo quando Val varcò la porta. «Cristo, Val,
mi ha fatto quasi morire di paura!» Battei esasperato il pugno sul pavi-
mento.
Lei era stupefatta. «Buon Dio, perché? Sono scesa per scoprire la causa
di tutto quel trambusto che ha fatto il nostro amico.»
Raggiunse l'interruttore presso la porta e accese la luce centrale. Le pare-
ti tornarono immediatamente al loro posto e le ombre scomparvero. Val
entrò nella stanza con indosso la sua ampia camicia da notte di flanella,
nonostante la stagione. Non era mai apparsa così eccezionale né così rassi-
curante.
«Giù non c'è niente, Bob, assolutamente niente,» disse avvicinandosi a
noi. «Che cosa sono tutte queste assurdità?»
Mi strinsi addosso la vestaglia, sentendomi poco vestito, e mi alzai.
Guardammo insieme Bob e fui felice di notare che un po' di colore gli sta-
va tornando sulle guance. Tuttavia non aveva affatto un bell'aspetto.
«Aiutami a tirarlo su, » dissi a Val e insieme, lo prendemmo per le brac-
cia e lo rimettemmo in piedi. Bob non oppose resistenza era un corpo mor-
to; non potemmo fare altro che portarlo sul divano letto.
«Quando sono uscita, lui strisciava attraverso la stanza,» spiegò Val
mentre lo adagiavamo delicatamente. «Urlava come un pazzo indicando le
scale. Ho pensato che ci fossero dei ladri e mi sono precipitata.»
Avevo sempre saputo che era una donna in gamba, ma non credevo fino
a questo punto.
«In cucina non ho trovato nessuno. La porta e le finestre non sono state
forzate. Penso che Bob abbia avuto un incubo.»
Kiwi singhiozzava ancora, ma riuscì a dire: «No, no, era sveglio. Voleva
un bicchiere d'acqua ed è sceso.»
Io ero ancora troppo scosso per fare eccessiva attenzione alle sue cosce
tornite che la leggera camicia da notte le lasciava scoperte.
«Hai acceso la luce in cucina?» chiesi a Val.
«No, era già accesa. Bene, allora è andato fin laggiù, ma non riesco a
immaginare che cosa abbia provocato tutto questo casino.»
Midge e io aiutammo Kiwi a sedersi sul divano letto: Bob era sdraiato
con gli occhi fissi sul soffitto e mormorava qualcosa frase.
Sollevai il mento a Kiwi per poterla vedere in faccia. «Che cosa ha pre-
so, Bob, stanotte? Durante la serata si è fatto della cannabis, ma quando ci
siamo lasciati ha preso qualche cosa di più forte?»
Sentii gli occhi di Midge su di me e mi arrischiai a rivolgerle uno sguar-
do. Scossi appena la testa come per scusarmi con lei.
«Su, Kiwi, dobbiamo saperlo,» insistei.
«Ha... preso un po' di "cinese".»
Chiusi gli occhi imprecando silenziosamente. Cocaina, eroina e brown
sugar da quattro soldi mischiate con altre schifezze il più delle volte stric-
nina. Maledetto idiota!
«Non... non molto,» si affrettò ad aggiungere. «Ne ha sniffata solo un
po'. Voleva che lo facessi anch'io ma quella roba non fa bene alla mia si-
nusite.»
Bob cominciò a gemere forte e a contorcersi sul letto. Poi si mise a sede-
re con uno scatto e si guardò attorno. Era ancora pallido, ma non aveva più
quel colore spettrale, si agitava meno spasmodicamente di prima, quasi
con un tremito regolare.
«Quel... p-posto...» balbettò.
Midge si fece avanti e gli mise delicatamente una mano sul collo.
«Bob, qui sei al sicuro» gli disse con una voce bassa e gentile come il
suo tocco.
Ci volle un po' di tempo prima che i suoi occhi la mettessero a fuoco, e
quando vi riuscirono Bob si lasciò crollare esausto sul divano. Poi parlò
con voce lacrimosa: «Quel fottuto posto... Sono riuscito a scappare!»
«Zitto, adesso,» disse lei, e vidi la sua mano farsi più ferma su di lui per
rassicurarlo. «Qui non c'è nulla di cui si debba aver paura.»
Quanto a me, ero arrabbiato con lui e avrei quasi voluto prenderlo a pu-
gni. Non aveva il diritto di portare quella roba in casa nostra, nessun dirit-
to, tanto più sapendo come la pensava Midge sulle droghe, leggere o forti
che fossero. Dovetti trattenermi per non strangolarlo.
«Torna in te, Bob,» gli dissi severamente. «Hai annusato qualche merda
di droga e queste sono le conseguenze.» Ma ricordai la minaccia che io
stesso avevo sperimentato.
Lui sembrava più controllato, e credo che Midge avesse fatto molto per
questo con la sua delicatezza. Lei continuò a parlargli con il suo tono paca-
to massaggiandogli il collo teso e le spalle.
Quando riprese a parlare, non era più così isterico. «C'era qualche cosa
giù in cucina...»
«Non c'è nessun altro, nel villino,» lo informai.
«Non qualcuno, qualche cosa. Mi aspettava nell'oscurità, seduta là...
Cristo che odore! Lo sento ancora. Non lo sentite? Sta succedendo qualco-
sa di terribile!» disse alzando di nuovo la voce.
«No, Bob,» rispose Midge con calma. «Gramarye è un posto delizioso,
non c'è nulla di cattivo, qua.»
«Ti sbagli. Qualche cosa... qualche cosa...» aprì la bocca senza trovare le
parole.
Kiwi singhiozzò ancora e Bob si voltò verso di lei, poi verso di me e dis-
se: «Mike, io non resto qui, non posso restare qui...»
«Calmati,» dissi. «È una brutta esperienza. Passerà. Cerca solo di cal-
marti.»
«No, è impossibile... Questa stanza... le pareti...»
Sapevo quello che voleva dire. Non avevo avuto anch'io la certezza che
le pareti si restringessero? Che si formasse della muffa su di esse? O la sua
allucinazione, il suo isterismo, si erano insinuati nella mia mente?
«Non puoi andartene nel cuore della notte,» gli dissi con una gentilezza
forzata. «Prima di tutto non puoi guidare nelle tue condizioni, e poi devi
calmarti e dormirci sopra.»
«Dormire? Sei pazzo se credi che possa dormire in questo posto.» Tornò
a guardarsi intorno con fare agitato.
«Sono quasi le tre del mattino,» intervenne Val, che, in piedi, ci domi-
nava tutti, «Troppo tardi per mettersi in viaggio. Staremo qui con te fino al
mattino, e allora, se vorrai andartene, potrai farlo.»
Sobbalzammo tutti quando Bob urlò:
«Ora! Devo andarmene subito!»
Si dibattè nel letto come un bambino viziato che non ottiene quello che
vuole, lo lo afferrai e lo tirai indietro mentre tentava di alzarsi e lo trattenni
con tutte le mie forze. Mi spaventai quando gli vidi luccicare la bava agli
angoli della bocca.
«Lasciatelo stare!» gridò Kiwi tirandomi per un braccio. «Guiderò io, lo
porterò a casa!»
«Non è in condizioni...»
«Credo che sarà meglio così, Mike.»
Mi volsi stupito verso Midge che era dietro alle mie spalle. «Può essere
pericoloso per entrambi, con Bob in questo stato.»
«Starà meglio quando sarà via di qui,» rispose lei.
«Forse no.»
«È più pericoloso per lui restare.»
Sconcertato, mi voltai verso Bob; adesso le lacrime scorrevano sul suo
volto e cadevano sul cuscino.
«Forse Kiwi ha ragione,» disse Val. «lo lo lascerei andare, Mike.»
Incerto, allentai la stretta, ma non lo lasciai. «Bob, ascoltami.» Gli tenni
il mento perché mi guardasse. «Adesso puoi vestirti e poi ti condurremo
giù alla tua auto. Guiderà Kiwi, va bene? Mi senti?»
«Certo che ti sento, dannazione! Solo lascia che mi alzi. Oh, diavolo,
ho...» Ancora una volta non riuscì a finire la frase.
Lo lasciai e mi alzai dal divano letto. Lui si mise a sedere e Kiwi, spinta
da me, gli mise le braccia attorno alle spalle.
«Aiutalo a vestirsi,» le dissi. «Noi aspetteremo giù.»
Tutti e tre indugiammo ancora un poco per vedere se Bob si riprendeva
ancora un po' e, sebbene i suoi movimenti fossero ancora incerti e lui tre-
masse come se avesse freddo, parve essere un tantino più padrone di sé.
Ma evidentemente era ancora impaurito.
«Vado a fare del caffè,» disse piano Midge, e si avviò con Val verso le
scale, lo colsi l'occasione per tornare nella nostra stanza e infilarmi i jeans
e le scarpe, ma non mi tolsi la vestaglia. Prima di scendere feci un'altra ca-
patina da Bob e trovai Kiwi già vestita che preparava la valigia mentre Bob
si abbottonava lentamente la camicia lasciando vagare per la stanza lo
sguardo impaurito per assicurarsi che le pareti non si muovessero più.
Ero dispiaciuto e preoccupato per lui, ma ero anche arrabbiato. E comin-
ciavo anche ad avere molta paura per Midge e per me.
Kiwi aiutò Bob a infilarsi la giacca mentre io me ne stavo lì pronto ad
afferrarlo in caso gli fosse esplosa di nuovo la paura: avevo la sensazione
che potesse dare in escandescenze da un momento all'altro.
«Bob, avrei preferito che restassi...» dissi.
Lui mi guardò come se fossi io quello che doveva essere curato, con u-
n'espressione agitata; diversa da quella di un uomo sotto l'effetto dell'eroi-
na: un'espressione da incubo.
Improvvisamente mi afferrò le braccia, parlando con parole forzate e in-
distinte. «Che cosa è... questo posto?»
E fu tutto quello che disse.
Mi lasciò e in modo non meno brusco afferrò Kiwi spingendola verso la
porta. Si fermò prima del corridoio e la sua amica dovette sostenerlo per-
ché barcollò. Continuava a scuotere la testa e per un momento credetti che
stesse per svenire.
«Non vuole tornare giù,» disse Kiwi voltandosi verso di me. «Facci u-
scire da questa parte, Mike, presto, ti prego.»
Li oltrepassai e andai ad aprire la porta del corridoio, sopra le scale. U-
scirono prima che potessi fermarli.
«Ehi! È buio, lì. Lasciate che vi faccia strada: questi gradini sono perico-
losi.» L'unica risposta che ebbi fu quella di un gufo in qualche parte della
foresta.
Loro erano già sul primo gradino: Kiwi si sforzava per tenersi il braccio
di Bob attorno alle spalle, mentre col braccio libero si appoggiava al muro
per sorreggersi. Barcollavano pericolosamente e io mi affrettai e raggiun-
gerli prima che cadessero.
Allontanato Bob da lei, mi feci passare il suo braccio attorno al collo
stringendogli forte il polso con una mano e mettendogli l'altro braccio at-
torno alla vita. Cominciammo una goffa discesa e io pensai che era un be-
ne che avessi tolto il muschio dai gradini. Ma anche così la pietra era sci-
volosa.
Quando passai le dita sulla parete di mattoni, sentii che anche quella era
umida e liscia.
Due volte scivolai sui gradini, ma riuscii sempre a tenermi in piedi spin-
gendo Bob contro il muro per sostenerci entrambi. Tirai un sospiro di sol-
lievo quando mettemmo piede in giardino.
La porta d'ingresso si aprì mentre passavamo, proiettando un po' di luce,
e Val apparve all'altro lato di Bob. Mi aiutò a guidarlo lungo il sentiero,
mentre Kiwi ci precedeva per aprire lo sportello dell'automobile. Sul can-
cello mi voltai brevemente e diedi uno sguardo al villino.
Vidi il nero profilo di Midge sulla soglia di casa, così perfettamente im-
mobile che avrebbe potuto far parte della struttura di Gramarye. Fu uno
strano, fuggevole momento.
Sistemammo Bob in macchina; Kiwi si mise rapidamente alla guida e
Bob aveva gli occhi chiusi, lo gli piegai le gambe e prima che mi raddriz-
zassi, mentre avevo la testa vicina alla sua, lui riaprì gli occhi e li fissò an-
cora nei miei. Rabbrividisco ancora quando ricordo quello sguardo (anche
se dovevano seguire eventi peggiori e più memorabili), perché scorsi non
solo la sua paura ma un'intensa e misera disperazione in lui. Guardare in
quegli occhi era come spiare in un pozzo profondo e buio in fondo al quale
qualche cosa di indefinibile si muoveva, si contorceva, si tendeva verso
l'alto in un gesto supplichevole. Le droghe che aveva preso quella notte
avevano chiuso certe porte della sua mente, - avevano aperto un passaggio
diretto verso altri più oscuri meandri. Qualunque cosa avesse visto, qua-
lunque cosa avesse immaginato di vedere nella cucina di Gramarye, era
nata dai suoi più oscuri pensieri.
Mi scostai, chiusi la portiera e mi voltai per non incontrare il suo sguar-
do.
Udii Val che consigliava a Kiwi di guidare con grande cautela, e poi la
macchina si allontanò dal prato aumentando rapidamente la velocità. Non
mi dispiacque vedere le luci rosse dei fanali di coda scomparire dietro la
curva della strada.

27.
LA FESSURA

Credo che nessuno di noi quella notte abbia dormito. Indugiammo per
un po' a bere caffè, ma credo che fossimo troppo scossi per parlare dell'i-
sterismo di Bob e forse ne provavamo un certo imbarazzo. Midge era ri-
masta tranquilla quando Val aveva portato il discorso sui guai e gli impre-
vedibili effetti della droga. Io non aggiunsi molto alla conversazione: la
mia testa era frastornata da altri pensieri.
Ci ritirammo per il resto della notte, e quando Midge e io fummo a letto,
la tenni stretta a me; ma lei non ricambiò il mio abbraccio come se il com-
portamento di Bob fosse in parte colpa mia e dentro di me mi sentivo uno
sciocco per non aver trovato un modo discreto per impedirgli di drogarsi.
Midge, per lo meno, diversamente da me, non si era spaventata.
Dovevo riordinarmi le idee prima di dire a Midge quello che credevo
che Bob avesse visto in cucina, e volevo che lei fosse nel giusto stato d'a-
nimo. Adesso mi rendevo conto che Midge non voleva assolutamente che
si parlasse male di Gramarye. Era penoso stare sdraiato nel buio senza riu-
scire a dormire; devo essermi addormentato poco prima dell'alba, pur sve-
gliandomi un paio di volte nelle ore che seguirono, ma non del tutto finché
non sentii un movimento accanto a me. Midge si stava alzando e io fui lie-
to di vedere la luce del mattino. Scendemmo insieme in cucina.
Val arrivò subito dopo, vestita e pronta a parlare di affari trascurando per
il momento gli eventi della notte. Fu lei a preparare la colazione, io avevo
molta fame mentre Midge toccò appena qualche cosa. La colazione fu tri-
ste anche se Val, Dio la benedica, fece del suo meglio per tener viva la
conversazione con una quantità di argomenti, nessuno dei quali aveva a
che fare con l'episodio che era nelle nostre menti.
Midge si rischiarò solo quando Rumbo apparve sulla soglia mentre gli
uccelli avevano già cominciato a radunarsi dietro di lui trillando la loro
impaziente richiesta di cibo. Il loro arrivo fu in qualche modo rassicurante
per lei.
Val li guardò con un sorriso stupito mentre Midge spezzava il pane e ne
spargeva le briciole fuori della porta, ma l'innocente sfacciataggine di
Rumbo la fece scoppiare in una fragorosa risata. Lo scoiattolo saltò sulla
tavola e mi portò via dal piatto le cotenne di pancetta. Si mise a rosicchiar-
le fermandosi solo ogni tanto per "chiacchierare" con noi, forse spiegando-
ci i suoi progetti per la giornata.
Gli diedi un colpetto col dito. «Non ti sei presentato alla nostra ospite,
ieri sera,» dissi. «Rumbo, questa è Val; Val, questo è Rumbo. Gli piace
mangiare.»
«Non riesco a credere che questo coso sia così domestico,» esclamò Val.
«Ssst,» l'avvertii. «Non parlare di Rumbo come di questo coso: si offen-
de facilmente.» La sua presenza rianimò il mio spirito depresso.
«Come diavolo hai fatto a diventare suo amico?» Val era in piedi con le
mani sui fianchi, scuotendo la testa.
«Non abbiamo avuto bisogno di far nulla,» spiegò Midge dalla porta.
«Ha avuto fiducia in noi fin dal principio. Tutti gli animali, qui, ci sono
amici. Flora Chaldean, la proprietaria di Gramarye prima di noi, si era
conquistata la loro fiducia.»
«Deve essere stata una vera signora.»
«Lo era.»
Midge lo disse con una tale convinzione che mi voltai verso di lei.
«Parlatemi di questa Flora Chaldean,» disse Val raccogliendo le tazze e i
piatti sporchi. Rumbo saltellò sulla tavola stringendosi al petto le cotenne
mezzo rosicchiate come per proteggerle.
«Non ne sappiamo molto» dissi finendo il caffè. «Solo che era molto
vecchia quando morì, che aveva vissuto quasi sempre a Gramarye e che
tutti qui la consideravano una guaritrice. Ci hanno detto che sapeva curare
gli animali e le persone.»
«Curare?»
«Be', credo solo le piccole malattie. Sembra che si servisse di pozioni e
della fede. Non penso che si trattasse di altra medicina.»
«E viveva qui da sola?»
Assentii. «Suo marito morì poco dopo che si erano sposati, ucciso nel-
l'ultima guerra mondiale.»
Val portò le stoviglie nella stanza vicina e le mise nel lavandino. Io la
seguii con la tazza vuota.
«Le lavo io,» disse Midge correndoci dietro e aprendo il rubinetto del-
l'acqua calda.
«Bene, io le asciugherò.» Val le si avvicinò. Poi si voltò verso di me:
«Non dovresti telefonare a Bob per sentire come sta?»
Guardai l'orologio. «Sono le nove appena passate: starà ancora dormen-
do.» Sorrisi malvagio. «Ma mi piacerebbe molto svegliarlo.»
Solo nel salire le scale per andare al telefono, nel corridoio, mi venne in
mente che forse Val voleva restare un po' sola con Midge. Midge non ave-
va contribuito molto alla nostra conversazione sulla vecchia Flora e forse
Val pensava che sarebbe stata più loquace in privato.
Composi il numero di Bob con una certa ansia: volevo sapere se stava
bene.
Il telefono squillò diverse volte prima che mi rispondesse Kiwi. «Chi
parla?» chiese con palese irritazione.
«Sono Mike. Tutto bene? Com'è andato il viaggio?»
«Più o meno. Il mio ufficiale di rotta ha dormito per quasi tutto il tempo,
e così ho sbagliato strada un paio di volte.»
«Come sta?»
«Te lo passo.»
Bob fu quasi subito all'altro capo del telefono. «Scusami, amico,» disse
umilmente.
«Combina guai.»
«Sì, lo so. Però non riesco a capire, Mike, non ne avevo presa molta.»
«Ma avevi anche bevuto. Comunque adesso mi sembri già a posto!»
«Sono stato così male, stanotte?»
«Sì. Non te lo ha detto, Kiwi?» Diedi quasi un pugno sul muro.
«Mi ha detto che ho fatto un po' l'isterico.»
«Chiamalo un poco! Eri fuori di te.»
«Devo aver avuto un incubo.»
«Non hai avuto nessun fottutissimo incubo. Non ricordi nulla?»
«Non molto. Ho avuto paura, eh?»
«Hai visto qualcosa in cucina, ricordi?»
Ci fu una pausa. Poi: «Mike, ho dimenticato tutto... non so che cosa ho
immaginato di vedere, e nemmeno se sono veramente andato in cucina.»
«Kiwi ha detto che ci sei andato.»
«D'accordo, d'accordo, forse ci sono andato. Ho ancora la mente un po'
annebbiata capisci? Mi dispiace proprio di avervi procurato dei grattacapi.
Come... come l'ha presa, Midge?»
«Ha trovato il tutto maledettamente ridicolo.»
«Falle le mie scuse, ti prego.»
«Non preoccuparti» Scossi la testa deluso. «Prova a ricordare, Bob.
Quando eri rannicchiato sul pavimento, contro il muro, e io mi sono avvi-
cinato a te... non ricordi cos'è accaduto? Qualcosa di strano... misterioso?»
«Sei matto? No, non è successo niente. Ho fatto un terribile viaggio, tut-
to qui, non ingigantire le cose. Sto già abbastanza male.»
«È stato qualche cosa di più di una brutta esperienza. Hai visto qualche
cosa che ti ha spaventato a morte in cucina e, quando sei risalito, hai visto
le mura che si restringevano.»
«Non c'è nulla di insolito, in tutto questo, non ti sembra? Cose che esco-
no dai muri, mostri che si nascondono nell'oscurità, sono visioni provocate
dalla droga.»
«Hai detto tu stesso di non averne presa molta.»
«Abbastanza per avere delle allucinazioni.»
«Che cosa?»
Dall'altro capo del telefono ci fu una pausa, questo volta più lunga.
«Devo tornare a letto,» disse poi. «Non mi sento tanto bene come po-
trebbe sembrare. Ti telefonerò in settimana, Mike, così potrò scusarmi per-
sonalmente con Midge. Stammi bene.»
«Aspetta un attimo...»
Bob aveva riagganciato. Pensai di richiamarlo, ma poi decisi di no: pre-
ferivo non tormentarlo. Tornai in cucina.
Val e Midge erano sedute sul primo gradino dell'ingresso, Midge con il
mento appoggiato sulle ginocchia, Val addossata allo stipite, con le grosse
gambe distese davanti a lei. Gli uccelli beccavano le briciole indisturbati.
Le due donne smisero di parlare quando udirono i miei passi e si voltarono
verso di me.
«Coma sta?» chiese Midge ansiosa.
«Non ricorda nulla.»
«Ci credo,» commentò Val. «Era proprio partito, stanotte.»
«Forse non vuole ricordare,» dissi.
Mi guardò con aria interrogativa, ma non aggiunse altro.
Midge si alzò. «Vado a vestirmi.»
«Ti aiuto a portare su le tue cose,» dissi.
«No, resta qui a chiacchierare con Val. Farò in fretta.»
Le presi il braccio prima che si allontanasse. «Bob ti fa le sue scuse.»
Midge si sforzò di sorridere. «Sono contenta che stia bene, Mike, ma
preferirei che non venisse più qui. Tu sai perché.»
La abbracciai per nulla imbarazzato dalla presenza del suo agente.
«Ti chiedo scusa anch'io,» mormorai.
Mi abbracciò anche lei, ma poi si allontanò subito da me. «Tu non pote-
vi saperlo,» disse. «Non ho nulla da rimproverarti, Mike.» Ma i suoi occhi
non avevano la luce di sempre. Si voltò e scomparve su per le scale la-
sciandomi lì come un ebete.
«Qualche problema, Mike?»
Val era sulla soglia coprendo la luce del sole e scuotendosi la polvere dal
dietro della camicia.
Alzai le ciglia domandandomi che cosa Midge le avesse detto.
Lei entrò battendo gli scarponi sulle mattonelle. «La porta accanto,» dis-
se indicando con la testa.
«Che cosa?»
«Non te ne sei accorto? L'ho notato quando il vostro amico scoiattolo è
saltato sul fornello. Adesso è soltanto una fessura sottile; ma può diventare
pericolosa in seguito.»
«Ma di che cosa parli?...»
«Della fessura sull'architrave sopra il fornello. Non è facile vederla a
prima vista, lo so.»
Io entrai senza badare a Rumbo, che era fra le pentole e le padelle della
credenza lasciata aperta per distrazione da qualcuno, e mi diressi al fornel-
lo.
La fessura era lì, bene in evidenza e attraversava tutta la pietra. Toccai
cautamente l'architrave e mi parve abbastanza solido. Stavo scrollando il
capo incredulo, quando una voce alle mie spalle disse:
«Dovresti farla riparare il più presto possibile.» Era Val. «In realtà mi
sorprende che non l'abbiate fatto prima, quando siete venuti qui; se crollas-
se potrebbe ammazzare qualcuno. Mi fa paura pensare a cosa potrebbe
succedere quando la pietra sarà scaldata dal fuoco, d'inverno. Santo cielo,
ti senti male? Sei diventato pallido. L'architrave non cadrà da un momento
all'altro, lo sai; d'altra parte ha tenuto duro a lungo, a quanto pare.»
Mi ripresi e guardai quel donnone che sapevo mi aveva sempre conside-
rato con un po' di disprezzo, anche se non le ero del tutto antipatico - non
c'era mai stato del vero astio fra noi - ma Val non era entusiasta di me.
Tuttavia il mio comportamento doveva averla allarmata, perché vi era
una genuina preoccupazione nella sua voce quando mi disse: «Credo che
tu ti tenga qualcosa dentro, Mike.»
Era vero. Ci sedemmo e le raccontai tutto, dalla prima visita a Gramarye
ai bizzarri eventi della notte precedente.
Poi proseguii aggiungendo particolari, esponendo le mie supposizioni,
mi sentivo sciocco, ma continuai a raccontare tutto.
Solo la ricomparsa di Midge, ai piedi delle scale, mise fine alle mie di-
vagazioni. Il suo volto era alterato da un'intima pena e bagnato di lacrime;
una mano nascosta fra i capelli.
Pensai che avesse sentito tutto quello che avevo detto. Ma l'altra mano
indicava la scala dietro di sé.

28.
UN'OPERA D'ARTE ROVINATA

Non riuscii a farle dire nulla che avesse senso. Tenevo le braccia di Mi-
dge e tentavo di calmarla, ma lei non faceva che scuotere la testa dicendo
poche parole incoerenti fra i singhiozzi.
Così la tirai da parte, il più delicatamente possibile, e feci gli scalini a
due a due finché non fui nella stanza rotonda, guardando a destra e a sini-
stra, guardandomi in giro più volte, cercando che cosa avesse potuto scon-
volgerla così. La stanza era in ordine adesso, il letto era tornato un divano
e restavano poche tracce della notte precedente; i raggi del sole sfavillava-
no attraverso le finestre illuminando le pareti e i mobili.
Potevo vedere la foresta al di fuori, come un complesso mosaico, attra-
verso i vetri, verde e lussureggiante, senza alcun segno di minaccia.
Non trovai nulla fuori posto, nulla che avesse potuto causare la dispera-
zione di Midge.
Corsi nella nostra stanza da letto.
Vuota.
Nel bagno.
Vuoto.
Nella stanza degli ospiti.
Vuota.
E ancora nella stanza rotonda.
Midge era lì; Val la sorreggeva.
Midge indicava una finestra, o meglio il tavolo da disegno davanti alla
finestra. Sembrava riluttante ad avvicinarsi.
Val lasciò Midge, attraversò la stanza, e io la seguii rapidamente, così
che giungemmo insieme al tavolo da disegno.
E insieme guardammo il dipinto di Gramarye, da cui era stato già tolto il
foglio che lo copriva. Sentii Val tirare un sospiro.
Il disegno era ridotto a una confusione di macchie di colore, tutte le for-
me erano distorte e confuse, la bellezza del disegno originale era svanita e
quello che avevamo davanti era un'accozzaglia di colori che creavano per
di più un'atmosfera tetra.
Nemmeno la luce del sole, riflessa sulla sua superficie, riusciva a infon-
dere al disegno un po' di calore.

29.
ADESCAMENTO

Pochi giorni dopo, giusto per aumentare i nostri problemi, Kinsella battè
alla nostra porta.
Non ricordo con precisione l'ora, ma so che si stava avvicinando la notte
e Midge e io avevamo finito un'altra malinconica cena solo alcuni minuti
prima. Ho detto un'altra perché vi era stata ben poca allegria a Gramarye
dopo quel fine di settimana, e potete capire perché.
Dio solo sa 1'idea che Val Harradine doveva essersi fatta di noi durante
quel week-end: prima le stramberie da camicia di forza di Bob, poi il mio
racconto crepuscolare della vita di campagna e infine il crollo drammatico
di Midge, rannicchiata a piangere sul pavimento della stanza rotonda. De-
ve aver pensato che a Gramarye doveva esserci qualche cosa che provoca-
va attacchi di pazzia e di paranoia; e chi poteva darle torto?
Sorvolerò le recriminazioni e le lacrime che Midge e io dovemmo af-
frontare nei giorni seguenti perché vi annoierebbero come depressero me;
basti dire che riuscimmo appena a superare tutto questo mantenendo la no-
stra relazione ancora intatta. Io tentai disperatamente di farle accettare il
fatto che a Gramarye c'erano inesplicabili misteri, e credo che, intimamen-
te, anche lei ne fosse convinta; ma, stranamente, non volle ammetterlo in
modo esplicito, come se il farlo significasse accettare che il villino non era
quel sogno che lei aveva creduto di aver trovato.
Naturalmente accusava Bob di avere distrutto il suo disegno; ma quando
io gli telefonai, lui negò, lo gli credetti, Midge no.
Esaminai tutto ciò che era accaduto fin dal nostro arrivo al villino, spe-
cialmente la rapida guarigione del mio braccio che lei insisteva ad attribui-
re ai magici poteri di Mycroft lo feci infinite volte, ma lei... be', come ho
detto vi annoierei. Il risultato fu che, per il momento, giungemmo a una
non facile tregua, dato che nessuno di noi era disposto a discutere (o ragio-
nare) più a lungo.
Così eravamo lì, l'uno di fronte all'altro al tavolo di cucina, in un mo-
mento di calma prima che calasse la notte, quando sentimmo bussare alla
porta; avevamo cominciato a tenere la porta chiusa non appena cominciava
a farsi buio.
Ci guardammo sorpresi e io mi alzai per andare ad aprire.
Mi trovai davanti Kinsella; aveva le mani ficcate nelle tasche posteriori
dei jeans sbiaditi e un sorriso sereno su una faccia maledettamente bella.
«Felice di rivedervi. » Diede uno sguardo a Midge dietro di me. «Spero
di non disturbarvi.»
Midge parve lieta di vederlo. «Niente affatto, abbiamo finito da pochi
minuti.» Ci raggiunse sulla porta.
«Come va il braccio, Mike?»
Io glielo porsi con riluttanza perché lo esaminasse.
«Eh, sembra bene. Non è rimasto nemmeno il segno.» Esibì un sorriso
da un orecchio all'altro. «Nessun dolore?».
Scossi la testa.
«Davvero straordinario, amico.» Diede un'occhiata al cancello, poi si
voltò verso di noi. «Non vorremmo imporci, ma c'è qualcuno qui che vor-
rebbe vedervi. Sapete di chi parlo?»
Maledizione pensai fra me mentre Midge esclamava: «Mycroft!»
Si alzò in punta di piedi per vedere oltre la spalla di Kinsella. «È venuto
qui?» chiese.
«Sì. Voi due gli piacete. Passavamo di qui e ha pensato che sarebbe stato
bello venire a salutarvi e a vedere come stavate. Credo che voglia visitarti
il braccio, Mike.»
«Uhm... «cominciai.
«Oh, saremo felicissimi di vederlo» disse Midge. «Vallo a chiamare, ti
prego.»
Kinsella rimase imbarazzato per un momento. «Mycroft è un po' all'anti-
ca, sapete? Rispetta molto l'intimità altrui e non vuole imporsi. Sarebbe
gentile se lo invitaste personalmente, se non vi dispiace.»
«Certo che non ci dispiace,» rispose Midge al settimo cielo. «È in mac-
china?»
«Sì, è seduto sul sedile posteriore. Sarà felice di vederti.»
Kinsella si fece da parte perché Midge potesse correre lungo il sentiero,
quando arrivò in fondo aprì il cancello.
«Tua moglie è una vera signora,» disse l'americano, e non so se l'ammi-
razione che era nei suoi occhi fosse per me o per lei. Poi si appoggiò allo
stipite, sempre con le mani in tasca. «Allora, come vanno le cose a Gra-
marye?» chiese, e io mi domandai se la domanda era casuale.
«Magnificamente,» risposi. «Non potrebbero andar meglio.»
«Perfetto.»
Si prendeva gioco di me? Oppure ero io che cominciavo a diventare pa-
ranoico?
Puntò un dito. «Dovresti strappare quelle erbacce in giardino. Se attec-
chiscono invaderanno tutto.»
Seguii la direzione del suo dito e imprecai dentro di me. Non li avevo
notati prima, ma adesso mi accorsi che una quantità di sottili virgulti verdi
si era diffusa nelle aiuole, una confusa rete di invasori, e più guardavo più
ne trovavo.
«Se non la controlliamo la natura può soffocarci,» mi confidò Kinsella
mentre io approvavo la sua filosofia casalinga. «Potrei venir qui quando
vuoi con un paio di aiutanti e darti una mano, Mike. Puliremo tutto in un
momento.»
«Grazie. Comincerò domattina. Almeno avrò qualcosa da fare.»
«Non stai componendo?»
«Uhm, ho avuto altre cose per la testa, ultimamente.»
Midge stava tornando per il sentiero seguita da Mycroft e da altri due. lo
ebbi la sensazione che non si trattasse tanto di una visita amichevole quan-
to di quella di una delegazione. Mycroft agitò una mano nella mia direzio-
ne mentre si avvicinava e io vidi che gli altri due erano Gillie e Neil Joby.
Mentre avanzava verso di me il capo dei sinergisti esaminava il villino:
attentamente, pensai, come un capomastro che cerchi dei difetti. E quando
fu a pochi passi ebbi la sensazione che dentro si sé non fosse così placido
come voleva apparire. V'era qualche cosa di strano nei suoi occhi: erano
troppo vivi, non si fermavano mai a lungo su un oggetto. Anche quando ci
stringemmo la mano, non poté impedirsi di guardare il villino dietro di me.
Poi senza proferire parola mi sollevò la mano sinistra e mi esaminò bene le
dita e l'avambraccio. Il resto di questo piacevole gruppo mi si radunò at-
torno emettendo un'esclamazione di sorpresa.
Mi stavano rendendo così consapevole del debito che avevo verso
Mycroft, che mi stavo domandando se non dovessi pagarlo.
Mycroft fissò il suo sguardo su di me. «La volontà umana unita allo Spi-
rito Divino, Mike» disse come spiegazione del mio braccio guarito.
«Forse è servito anche quel liquido in cui lo ha immerso?» suggerii io.
«Un semplice sterilizzante. Spero che la nostra intrusione non vi abbia
disturbati.»
Scossi la testa per educazione.
«Non volete entrare?» chiese Midge. «È da diversi giorni che non ve-
diamo nessuno e un po' di conversazione ci farebbe bene.»
Fui sbalordito da quell'osservazione pungente nei miei confronti appena
dissimulata: non era da lei.
«Sarebbe molto piacevole,» rispose Mycroft che non aveva nessun biso-
gno di essere incoraggiato. «È stata una cosa improvvisata, altrimenti a-
vremmo portato del vino.»
«Abbiamo ancora quella bottiglia che ci ha portato Hub l'ultima volta
che è venuto qui,» disse Midge. «Possiamo bere quella, a meno che il vo-
stro vino non vi piaccia.»
Il gruppo apprezzò la sua battuta e risero tutti insieme. Io sorrisi fiacco.
Midge passò fra Kinsella e me invitando Mycroft a seguirla, e lui si pre-
parò a farlo. Ma esitò e poi si fermò bruscamente sul primo gradino. Seb-
bene la luce fosse scarsa, sono sicuro che impallidì per un attimo.
«Mi piacerebbe fare un giro attorno al villino prima di entrare,» disse in
fretta, troppo in fretta. «Questi gradini sono affascinanti.»
Affascinanti? Dei gradini di pietra?
«Non si può entrare dal dietro?» chiese e guardò le mura bianche con a-
ria d'apprezzamento. Suonò per scherzo il campanello, e il gruppo scoppiò
di nuovo a ridere.
Midge uscì di casa e, a giudicare dal suo sorriso, tutte le contrarietà della
settimana erano scomparse, lo cominciai a desiderare di avere un po' del
carisma di Mycroft.
«Sono felice che Gramarye le piaccia tanto,» disse arrossendo.
Lui le toccò la spalla per un momento. «È una casa che infonde grande
gioia».
Midge mi rivolse uno sguardo incerto e io tenni la bocca chiusa.
«I gradini sono un po' scivolosi, faccia attenzione,» lo avvertì.
Subito Mycroft prese Midge sotto braccio. «Ci sosterremo a vicenda,»
disse allegramente, ma i suoi occhi erano seri.
«Io prenderò la strada meno suggestiva,» dissi mentre salivano. «Porterò
su il vino e i bicchieri, va bene?» Non mi badarono; Midge era tutta occu-
pata nel mostrare a Mycroft le bellezze di Gramarye. Togliti dai piedi,
brontolai fra me.
«Salve, Mike.» Gillie non aveva seguito gli altri. Era rimasta sul sentiero
con la sua lunga gonna e il suo scialle zingaresco. Portava sandali che la-
sciavano scoperte le dita, allacciati alla caviglia da cinghie sottili. Quando
mi fu più vicina notai che era appena truccata, tanto da ravvivare il suo
grazioso visino. «Posso aiutarti a portare il vino?» mi chiese.
«Certo, se ti va di fare quattro passi.»
«Credo di conoscere già abbastanza bene Gramarye. È il luogo più tran-
quillo che abbia mai visitato...»
«Non ultimamente.» Le parole mi sfuggirono prima che potessi control-
larle.
Lei si accigliò e io le sorrisi.
«Problemi domestici,» le spiegai debolmente.
«Oh, allora attraversi un brutto periodo.»
Sospirai, sempre sorridendo. «No, forse abbiamo bisogno di un po' di
compagnia, in questo momento.» Non aggiunsi che avrei preferito altri a-
mici al posto di Mycroft e del suo gruppo. Comunque Gillie era un po' di-
versa dagli altri: mi piaceva la sua semplice gentilezza. Era un tipo che a-
vrei visto bene all'epoca dei figli dei fiori.
«Vogliamo occuparci del vino?» dissi voltandomi ed entrando in casa.
Gillie mi seguì ma rimase sulla soglia esitante per via del buio della cu-
cina, ora che la notte era così vicina.
«Accenderò la luce,» dissi attraversando la stanza per raggiungere l'in-
terruttore. Rabbividii; una sensazione di freddo accompagnava l'oscurità.
Indicando la credenza, le dissi che i bicchieri erano nello scomparto in-
feriore. Poi andai alla credenza vicino la porta e presi una bottiglia di vino.
Quando tornai, Gillie stava mettendo i bicchieri sulla tavola.
«La stapperò qui,» dissi aprendo un cassetto e prendendo il cavatappi.
«Il vino non è molto freddo, ma credo che non ci baderanno. Ne producete
molto, al Tempio?»
«Abbastanza per noi, ma non per venderlo. Non abbiamo nemmeno la
licenza.»
Mi diedi da fare col turacciolo. «Scusa se te lo chiedo, ma come guada-
gnate il denaro per la vostra organizzazione? I cestini e le altre cose che fa-
te non possono rendervi molto.»
Rispose con disinvoltura, mentre estraevo il tappo. «Mycroft è molto
ricco. Una volta possedeva una grande fabbrica negli Stati Uniti, che aveva
filiali in altri paesi.»
«Sì? Che cosa fabbricava?»
«Giocattoli.»
«Mi prendi in giro?»
Scosse la testa godendosi la mia sorpresa. «La sua compagnia produceva
bambole, puzzle, costruzioni, tutte cose per bambini.»
«Ah, per questo si è interessato a Midge.»
Mi guardò senza capire.
«È illustratrice di libri per bambini,» spiegai. «In un certo senso operano
nello stesso campo.»
Abbozzò un sorriso. «Oh, capisco. Ma Mycroft ha rinunciato a ogni inte-
resse commerciale quando ha fondato il Tempio Sinergista. Gli piace mol-
to raccontarci come i bambini di tutto il mondo lo abbiano aiutato a met-
tersi in contatto con i suoi Figli Prediletti, con i Figli Adottivi, fornendogli
una base finanziaria.»
«Ma il Tempio deve guadagnare denaro per sopravvivere, no? Continua-
te a fare gingilli per poi venderli?»
Questo la divertì. «Non sarebbero sufficienti per vivere, Mike. Ci danno
un piccolo reddito, ma in realtà ci serviamo di queste vendite per avvicina-
re le persone e far conoscere il movimento.»
«E allora come...?»
«Te l'ho detto: Mycroft è ricco e la vendita della fabbrica e delle filiali
ha assicurato tutto. E naturalmente, come Mycroft ha donato al Tempio
tutto quello che aveva, così hanno fatto i suoi seguaci. Tutto quello che ri-
ceviamo è ben accetto e utilizzato, anche se si tratta di poche sterline. I Fi-
gli Adottivi offrono tutti i loro beni per purificarsi dinanzi al nostro Tem-
pio.»
Questo ha l'aria di essere un buon affare per Mycroft, pensai, annusando
il vino per nascondere ogni espressione di cinismo. Tuttavia sembrava che
avesse dato le sue stesse ricchezze alla setta. Era molto strano. «E tu che
cosa hai ceduto, Gillie?»
«Oh, poche sterline, quasi niente. E sono stata accolta come tutti gli al-
tri.»
«No, volevo chiedere a che cosa hai rinunciato? La tua casa? La tua fa-
miglia?»
«Le influenze estranee devono essere respinte, se un Adottivo vuole ab-
bracciare la dottrina.»
Una bella frase fatta, pensai. «Un Adottivo?»
«Veniamo chiamati così al momento dell'iniziazione.»
Il suo dito girò attorno all'orlo di un bicchiere sul tavolo. Sentii dei passi
e delle voci soffocate sopra di noi: gli altri, ovviamente erano entrati in
Gramarye dalla porta del primo piano.
«Non vedi più la tua famiglia?» insistetti.
«Non ce n'è bisogno. Ho lasciato l'università per unirmi ai sinergisti e
credo di non essere mai stata perdonata. Hanno fatto di tutto per impedir-
melo, Mike, e quello che sono riusciti a ottenere è stato di tagliare comple-
tamente i miei legami familiari.»
«Come puoi parlare così dei tuoi genitori? Gesù, devono avere sofferto
molto e probabilmente soffrono ancora.»
Lei parve a disagio, come se la conversazione non avesse preso la piega
che voleva. Questo non mi scoraggiò.
«E Kinsella?» chiesi. «Come è diventato sinergista lui e a cosa ha rinun-
ciato?»
«Non la metterei in questi termini. Noi non rinunciamo a nulla: offriamo
per ricevere in cambio.»
Una frase fatta ancora migliore.
«E allora che cosa ha offerto Kinsella?»
«Non sappiamo quello che gli altri portano al Tempio. Solo Mycroft e i
suoi consiglieri lo sanno.»
«I suoi consiglieri finanziari? Ha dei contabili.»
«Sì, come le altre Chiese. Come qualsiasi altra organizzazione grande o
piccola.»
Se la risposta era stata data come un rimprovero, era molto blando.
Mi si avvicinò e le sue dita mi toccarono il polso. «Ti interessa il nostro
Tempio, Mike? Per questo mi rivolgi tutte queste domande?» Sembrava
sperarlo, le sue dita erano calde.
«Non abbastanza interessato per unirmi a voi,» risposi.
La sua mano scivolò via, ma i suoi occhi fissavano intensamente i miei.
«Noi siamo molto felici,» disse. «Quando si diventa sinergisti si imparano
a capire delle cose che gli altri non hanno il privilegio di capire.»
«Che genere di cose?»
Distolse lo sguardo. «Io sono soltanto un Adottivo. Solo gli Eletti hanno
l'autorità e il diritto di istruire.»
«Kinsella?»
«Lui e altri. Tuttavia posso aiutarti, Mike. Ogni Adottivo può avere un
compagno spirituale.» Le sue dita mi toccarono ancora il polso, ma questa
volta con una pressione più decisa. «Potremmo vederci per parlare di ar-
gomenti che non riguardano la dottrina essenziale. Perché non ci vedia-
mo...»
Non crediate che non fossi tentato. Era una ragazza attraente, e ultima-
mente mi ero sentito una sorta di esiliato con Midge. E la solida ma dolce
fermezza della sua stretta implicava che vi fosse inclusa qualche cosa di
più di una semplice conversazione, e che essere un "compagno spirituale"
significasse che altri aspetti erano compresi in questa particolare relazione.
O era solo una mia immaginazione?
«Tu sei graziosa, Gillie,» dissi dopo una pausa «ma io posso avere solo
una compagna spirituale per volta, e la mia in questo momento è di sopra.
Vuoi prendere un paio di bicchieri?» Presi la bottiglia e tenni tre bicchieri
per lo stelo.
Se si sentì respinta non lo diede a vedere, e ancora una volta mi doman-
dai se non fosse tutta immaginazione.
«Capisco quello che dici,» rispose prendendo un bicchiere in ogni mano,
«ma se mai sentissi il bisogno...»
Lasciò deliberatamente sospesa la frase, e naturalmente la mia immagi-
nazione seguì il suo corso. Lei si voltò, ma non prima di avermi sorriso
con gli occhi, non in modo canzonatorio e nemmeno seducente, ma come
se capisse molte più cose di me. E probabilmente aveva ragione.
«Dimmi un'altra cosa,» dissi fermandola. «Perché siete qui?»
Mi guardò senza capire.
«Perché Mycroft ha fondato qui il suo Tempio? Lui è americano, e, a
quanto ho capito quando sono venuto al Tempio, lo sono anche alcuni dei
suoi seguaci; e allora perché portare la sua organizzazione in Inghilterra?»
«Perché questo è il...»
«Gillie.»
La voce era calma, tuttavia la ragazza si voltò come se fosse stata frusta-
ta.
Kinsella apparve sulle scale, con le mani immancabilmente ficcate in ta-
sca.
Il suo sorriso era gentile, ma io notai un'ombra di irritazione nella sua
espressione.
«Ci stavamo domandando che cosa vi fosse successo,» disse amabilmen-
te.
«Stavamo venendo,» risposi mostrando il vino e i bicchieri. «Gillie stava
appunto finendo di darmi alcune notizie sui sinergisti, ma purtroppo non
sono divenuto molto più saggio.»
«Bene, l'uomo che può farlo è sotto il suo tetto, Mike. Mycroft potrà
spiegarti meglio di noi. Ma, come sai, non abbiamo mai cercato di imporvi
queste cose, non è nel nostro stile.»
«Non sono eccessivamente curioso. Solo per fare conversazione.»
«Certo. Lascia che ti aiuti con questi bicchieri.»
«Posso arrangiarmi. Vai pure avanti.»
Kinsella diede un'occhiata alla stanza come cercando qualche cosa prima
di risalire le scale.
Ancora una volta mi domandai che cosa ci fosse in Gramarye che lo
rendeva così nervoso.
«I limiti della mente umana li poniamo noi.»
Mycroft guardò tutti in faccia osservando gli effetti della sua afferma-
zione sugli iniziati e su Midge e me. Era seduto sull'unica poltrona della
stanza rotonda, mente Midge e Gillie sedevano sul divano, io sul bracciolo
e Kinsella e Joby allungati sul pavimento sorseggiavano vino e guardavano
il loro capo spirituale. Una lampada illuminava la stanza mentre fuori re-
gnava il buio.
«La civiltà non ha fatto che intorpidire le nostre facoltà mentali,» conti-
nuò, «le conoscenze materiali e scientìfiche hanno diminuito sempre più la
conoscenza di noi stessi. Non a caso i bambini hanno una capacità psichica
superiore a quella degli adulti.»
«Capisco quello che intende,» dissi, «e non è del tutto una teoria origina-
le.» (Non volevo essere scortese: eravamo lì da circa venti minuti ad ascol-
tare il proselitismo di Mycroft e io cominciavo a essere stanco). «Ma la
mia conoscenza mi dice che non posso volare: il non crederlo o l'ignorarlo
non altera i fatti.»
«No, Mike,» rispose lui pazientemente. «La conoscenza di sé le dice che
non può volare. Ma anche in questo lei ha imparato a pensare solo in ter-
mini del suo corpo fisico e non della sua coscienza. In definitiva non c'è
nulla che possa limitare la sua psiche. La forza che è in tutti noi -1'energia
psichica, se vuole - non può essere costretta dall'aspetto fisico della nostra
vita. A meno che noi non si voglia altrimenti.»
In qualche modo non appariva più così posato. Forse le ombre proiettate
dalla lampada davano ai suoi lineamenti una profondità che non appariva
prima; o forse era l'intensità dei suoi occhi.
Midge prese a parlare e notai che si stringeva le braccia come se avesse
freddo. «Se questa energia è in ognuno di noi, perché non possiamo rag-
giungerla? Perché non possiamo farne uso?»
«Anzitutto dobbiamo scoprire la capacità in noi stessi. Dobbiamo diven-
tare pienamente consapevoli della sua fonte, dobbiamo renderci conto del-
la sua presenza e accettarla. E dobbiamo imparare a controllare e tenere a
freno ogni conoscenza che non sia rilevante per il nostro io. Per questo ab-
biamo bisogno di una guida.» Sorrise con indulgenza a Midge, mentre a
me rivolse solo il sorriso che un ragno può rivolgere a una mosca. Perché
più guardavo quella gente meno mi piaceva? Forse, pensai, avevo un'inna-
ta ripugnanza per tutto ciò che sapeva di fanatismo. E nonostante i loro
modi tranquilli e amichevoli, i sinergisti erano dei fanatici.
«Il Tempio Sinergista,» continuò Mycroft con un linguaggio che diveni-
va meno pratico e più elevato, «non è altro che una fondazione in cui cer-
chiamo la nostra verità, in cui conscio e subconscio imparano a combinarsi
con lo spirito supremo che ci dirige tutti, lo spirito che esiste in noi e tutta-
via ne è separato, che è individuale e tuttavia è più grande dell'individuo.»
I miei occhi cominciavano a diventare vitrei. Questo era peggio di un
sermone domenicale.
Diedi uno sguardo a Midge; il suo volto era serio e i suoi occhi erano
fissi su Mycroft.
«Come si raggiunge questo?» chiese, e io scivolai goffamente sul brac-
ciolo del divano. «Come si fa per imparare a combinarci con questo spiri-
to?»
Mycroft lasciò vagare il suo sorriso fra i suoi seguaci e loro gli sorrisero
come se condividessero con lui il segreto. «È necessario del tempo,» disse
rivolgendo ancora lo sguardo a Midge, «e richiede molta umiltà. Gli adot-
tivi devono abbandonare i loro pensieri, la loro volontà. Devono lasciare
che il Fondatore abbia la responsabilità di tutto quello che fanno.»
Perfino Midge, nel suo stato attuale di cieca adulazione, impallidì a
quelle parole.
«Mi sembra chiedere molto, no?» notai.
«Le ricompense sono enormi,» rispose lui con calma.
«Quali sarebbero?»
«L'unità dello spirito.»
«Che parolona!»
Il suo guizzo di irritazione fu appena percepibile.
«Una rigenerazione dei poteri della mente.»
Assentii come se controllassi un elenco.
«Un dominio del potere taumaturgico terreno.»
Questo sembrava importante, ma che diavolo significava? Mi sentii in
diritto di chiederlo.
«Se non si assoggetta a ogni stadio dello sviluppo sinergista,» disse co-
me risposta, «non può sperare di capire. Può riconoscere adesso, per esem-
pio, che vaste fonti di potere stanno sotto i nostri piedi?»
Colsi qualche espressione di ansia rivoltagli dagli altri che erano nella
stanza, ma Mycroft rimase impassibile.
«Naturalmente,» risposi. «Tutti accettano che vi siano grandi risorse di
energia nella terra. Non vi è nulla di straordinario in questo.» "
«Mi riferisco a un potere molto meno tangibile, Mike, ma egualmente
reale. Qualche cosa di incorporeo, ma di vaste riserve. E noi, genere uma-
no, abbiamo quasi dimenticato come valerci di questa forza.»
Conoscenza di se stessi, unità, rigenerazione, potere taumaturgico intan-
gibile, incorporeo e adesso, naturalmente, genere umano: tutte queste paro-
le profonde (e convenzionali) si trovano nei libri di religione e di occulti-
smo: sembrano grandi ma ci lasciano a romperci la testa domandandoci
che cosa significhino.
«Non la seguo più» dissi.
Sorrise ancora e credo che la mia ottusa incomprensione sia stata per lui
quasi un sollievo, come se la mia provocazione lo avesse costretto a dar
troppo e adesso potesse ritirarsi. Ovviamente la sua filosofia doveva essere
somministrata a più piccole dosi.
Ma Midge fu più insistente. «Ed e così che ha curato il braccio di Mike,
combinando la sua volontà con questa forza particolare? E questo potere lo
spirito, lo Spirito Divino, a cui ha accennato poco fa?»
Mandò giù un lungo sorso di vino.
«Così giovane e così acuta, » disse con condiscendenza. «Ma non del
tutto esatto. La volontà umana può essere estremamente potente da sola.»
Lei parve confusa e io sentii di dovermi avvicinare a lei. Mi domandai
come avrebbe reagito se avessi invitato il nostro ospite ad andare a fare un
giro in campagna.
Qualche cosa colpì una finestra dal di fuori - probabilmente un uccello o
forse un pipistrello disorientato - e Kinsella si versò del vino. Lui e i suoi
amici si voltarono verso la finestra, mal'attenzione di Midge rimase fissa al
capo sinergista.
«Quando noi... quando noi abbiamo parlato al Tempio, la settimana
scorsa, lei mi disse che il nostro spirito individuale non perde mai il suo
potenziale anche se il corpo muore e anche se lo spirito è stato trascurato
durante la vita corporea.»
Lui assentì lentamente.
«E mi disse che noi stessi potremmo raggiungere gli spiriti dei defunti.»
«Con una guida,» disse Mycroft. «Ma perché così cauta? Perché ha tanta
paura di esprimere le sue speranze? Parlammo dei suoi genitori e io la as-
sicurai che le anime che esistettero in essi possono essere toccate e udite
ancora una volta. Questa parte di noi non muore mai.»
«E allora non vorrebbe aiutarmi...?»
«Midge!» Non volevo che proseguisse.
«No, Mike. Se questo può avvenire, è quello che voglio. Più di ogni altra
cosa.» Si voltò ancora verso Mycroft.
«A che cosa servirà!» chiesi. «Ti prepari solo ad altre sofferenze, non te
ne accorgi?»
«Mi rendo conto che lei si preoccupi per Midge,» mi interruppe
Mycroft.
«E proprio per l'amore che le porta dovrebbe sostenerla in questo. So
che lei si rende conto che ha un profondo bisogno di riconciliarsi con i suoi
genitori.»
«Riconciliarsi?» La fissai stupito e lei abbassò il volto.
Anche Mycroft la osservava. Aprì la bocca in un silenzioso «ah» di
comprensione e poi tornò ad accomodarsi sulla poltrona.
«Di che cosa sta parlando?» Mi chinai e le presi il mento nella mano ob-
bligandola a guardarmi.
«Mike, io...»
Scostò la testa.
«Sarebbe più facile se rispondessi io per lei?» chiese Mycroft. «Non so
quanto si sia confidata con Mike, ma adesso capisco. A volte è più facile
confidarsi con un estraneo comprensivo che con una persona amata.»
«Midge, se c'è qualche cosa che dovrei sapere preferirei saperla da te,»
insistetti. «E preferirei che fossimo soli quando me lo dirai.»
Gillie mise la mano su Midge, e fu Kinsella che parlò. «Sembra più
drammatico di quanto non sia, Mike. A nostro parere la colpa di Midge
non ha fondamento, ma deve essere capita e rimossa prima che provochi
qualche danno. Noi possiamo aiutarla.»
«Colpa? Di che diavolo state parlando?» Li guardai sbigottito ed esaspe-
rato.
Midge si voltò bruscamente verso di me afferrandomi la gamba. «Il
giorno del funerale di mio padre, quando lasciai mia madre sola in casa...
sapevo, Mike, sapevo che si sarebbe tolta la vita! Ne aveva parlato tante
volte, anche prima della morte di lui; diceva che era un peso per noi.
Quando lui morì, l'idea del suicidio entrò sempre più nella sua mente, ne
parlava ogni giorno. Ma con calma, mai istericamente. Era così triste, Mi-
ke, ma non indulgeva mai a commiserarsi. Tutto quello che sperava era
che la sua malattia non rovinasse la mia vita. E quando la lasciai, quella
mattina, sentivo che sarebbe successo qualcosa, ma non tornai indietro.
Non ho tentato di fermarla.!»
Scossi la testa disperato.
«Midge, non potevi sapere che si sarebbe uccisa. Ammetto, potevi te-
merlo perché era così infelice e soffriva tanto, ma non le hai dato tu quelle
pillole, non le hai infilato quel sacchetto in testa! Non sapevo che tu avessi
provato rimorso per tutti questi anni.»
«M'ero resa conto che, se le fosse offerta l'opportunità, mia madre a-
vrebbe potuto...»
«Avrebbe potuto! Questo non significa averne la certezza. È stata una
sua scelta, non ti rendi conto? E che cosa c'era di così brutto, in questo, per
amor di Dio? Non credi che tua madre abbia sofferto abbastanza? Tutto
quello che ha fatto è stato di mostrare un po' di pietà per se stessa.»
«Non è così semplice.»
«Nulla è semplice. Ma anche se ti sentivi così colpevole, perché andare
da queste persone? Perché confidarti con loro? Gesù, Midge, che c'era di
male nel dirlo a me?»
«L'avevo tenuto... l'avevo tenuto nascosto per tanto tempo.» Mi strinse
ancor più la gamba. «Quest'idea non mi è mai pesata tanto come negli ul-
timi tempi, Mike. Solo quando ho parlato con Mycroft ho capito il senso di
colpa che avevo portato con me così a lungo.»
L'amico Mycroft. Lo guardai freddamente.
Ed ebbi qualche soddisfazione nell'osservare che anche lui, adesso, sem-
brava a disagio. Supposi, a torto, che cominciasse a diffidare della mia
rabbia. Tuttavia non rimase a corto di parole. «Io ho cercato solo di capire
la natura del dolore radicato in Midge, e possibilmente di chiarire i suoi
dubbi. Non si accorge che ha bisogno di una guida?»
«Mi accorgo che lei le ha fatto credere questo. Ogni aiuto di cui ha biso-
gno può averlo da me.»
«Non nel modo in cui possiamo aiutarla noi.»
Era turbato, non faceva che guardarsi in giro.
«Che cosa potete fare?» ribattei. «Tenere una seduta? È così che volete
aiutarla?»
«Midge ha un dono unico...»
La sua voce si incrinò quando qualcuno emise un gemito. A terra, Neil
Joby si tirava il colletto della camicia come se l'atmosfera lo soffocasse.
L'atmosfera nella stanza era soffocante, ma non fino a questo punto.
«Mike, tu non li hai capiti.» Midge mi fissava con occhi intenti. «Il Si-
nergismo è una risposta, se viene usato nel modo esatto. Se...»
«Cristo, credi realmente in queste stupidaggini?»
Sussultò come se l'avessi colpita.
Mi affrettai a modificare il mio tono. «Ascoltami: se hai una colpa per la
morte di tua madre, è minima. Gesù, io ti conosco meglio di chiunque al-
tro, e tu non avresti mai potuto nascondermi un tale rimorso. E tutta opera
di questo signore...» puntai un dito contro Mycroft «...ti ha fatto esagerare
la colpa nella tua mente. Non vedi come fa? Non c'è niente di nuovo: la
maggior parte dei fanatici religiosi agisce facendo nascere rimorsi nella
gente.»
Lei continuò a scuotere la testa rifiutandosi di ascoltare le mie parole.
«Hai torto,» disse, «hai torto...»
Qualche cosa mi spinse allora a guardare Mycroft e scorsi un'espressione
di trionfo sul suo viso. Immediatamente quell'espressione si mutò in un
sorriso di schietta amicizia che perdonava la mia follia.
«Ciarlatano,» dissi con calma.
Un bicchiere si rovesciò e il vino si sparse sul tappeto. Kinsella guardò il
liquido che vi penetrava, prima di voltarsi verso il suo capo e consigliere.
Adesso Mycroft non era più così brillante.
Le finestre tremarono rumorosamente. Notai che Joby era cadaverico e
faceva ancora fatica a respirare.
Le travi del soffitto scricchiolarono.
Quel rumore fece sussultare Gillie che sollevò lo sguardo allarmata.
«È il vento» dissi per rassicurarla. «Non preoccuparti, il tetto resisterà.»
Lei parve incerta.
Io indicai Joby e dissi a Mycroft: «Spero che non vomiterà sul tappeto.»
La porta dell'ingresso nel corridoio vibrò.
Mycroft si alzò, andò verso il giovane e gli mise un mano sulla fronte.
Mormorò alcune parole che cercai di sentire, ma erano state pronunciate a
voce troppo bassa.
Joby si schiarì rumorosamente la gola e si riprese abbastanza da mettersi
in ginocchio. Kinsella che sembrava anche lui vacillante, afferrò l'amico
per le spalle e lo aiutò ad alzarsi.
Anche Gillie barcollava.
Mycroft si mise davanti a Midge e la studiò stringendo gli occhi. Avevo
davvero pensato, una volta, che il suo volto fosse comune? Non solo delle
ombre rendevano adesso pauroso quel volto, ma tutta la sua espressione.
Mister Hyde si stava rivelando.
Le sue parole furono lente e penetranti pronunciate a bassa voce. «Si ri-
cordi che posso aiutarla. Creda nella rigenerazione dello spirito, si renda
conto che non vi sono barriere per la volontà umana.»
Non mi sarei meravigliato se le avesse dato il biglietto pubblicitario del-
la sua organizzazione.
Distolse gli occhi da lei e guardò ancora una volta la stanza indugiando
sulle finestre, riprendendo l'esame, annotando tutto.
Ci giunse un rumore diverso, sopra le nostre teste, un battito smorzato,
quasi una morbida vibrazione.
Un battito frenetico di piccole ali.
Sapevo da dove veniva quel rumore e chi lo provocava e cominciai a in-
nervosirmi come i nostri ospiti.
«Mycroft,» disse Kinsella con un tono supplichevole nella voce. «E ora
di andare.»
Joby, visibilmente esausto, sembrava d'accordo. In realtà i tre giovani
sinergisti sembravano allo stremo delle forze. Erano tutti e tre pallidissimi.
Le persiane battevano così forte che io pensai che si spezzassero. Questa
volta fui io a balzare in piedi. Solo Midge rimase seduta.
«Vi accompagno,» dissi ai sinergisti.
Mycroft si voltò verso di me, senza ostilità nello sguardo, solo con un'e-
spressione fredda.
«Non dovrebbe ostacolarla,» mi disse.
«Quello che non capisco,» risposi cominciando a sentirmi anch'io un po'
tremante, «è perché lei sia così interessato a Midge. Si da sempre tanta pe-
na per convertire una nuova persona?»
Esteriormente i suoi modi erano disinvolti; ma l'agitazione era nei suoi
occhi sempre in movimento che scattavano qua e là come quelli di un e-
sploratore della giungla, sempre in attesa di una freccia avvelenata.
Midge era seduta sul divano, le mani strette sulle ginocchia, e disse:
«Potreste smettere di parlare di me come se non fossi nella stanza? Mi-
ke, ci sono delle cose per le quali tu non hai interesse né comprensione, ti
prego dunque di non interferire. Queste persone sono miei amici, nostri
amici, e tutti si preoccupano della mia pace mentale.»
«Non credi che anch'io me ne preoccupi?»
«Loro mi spiegano! Mi aiutano!»
«Ne parleremo quando se ne saranno andati,» dissi con più calma di
quanta ne sentissi.
«Sì, dovrebbe farlo,» disse Mycroft con condiscendenza «Mike ha dirit-
to alla sua opinione. Non è difficile capire il suo scetticismo data la scarsa
notorietà di cui gode la nostra setta. Sebbene sviati, questi pregiudizi sono
accettati e tollerati dai nostri membri. Siamo abituati ad avere pazienza.»
La mia se n'era già andata. Mi avviai alla porta emi fermai con l'aria di
chi aspetta che ospiti poco graditi se ne vadano.
Mycroft sorrise, ma scorsi in quel sorriso un non so che di sinistro. Tese
una mano e toccò Midge sulla fronte come aveva toccato Joby.
Il battito frenetico, anche se smorzato, al piano di sopra stava facendosi
troppo forte per essere trascurato, e l'aria nella stanza sembrava troppo cal-
da nonostante il vento che sferzava le finestre.
Mi voltai di scatto quando la porta del corridoio sussultò contro la serra-
tura e i cardini.
Allarmato indietreggiai, ma, se non altro, si mossero anche i sinergisti. I
tre membri più giovani si raggrupparono e Mycroft indicò che dovevano
seguirlo. Vennero verso di me come un gruppetto disorientato che cerchi la
via di casa: Kinsella e Gillie sostenevano il loro compagno. Notai, non
senza piacere, che anche il capo dei sinergisti cedeva leggermente sotto
l'atmosfera pesante.
I pipistrelli dell'attico erano adesso decisamente frenetici, e io mi do-
mandai se la causa del loro trambusto non fosse il vento violento che pas-
sava fra le travi del soffitto creando lassù una specie di uragano.
Mi parve di udire le loro deboli strida, ma lo attribuii alla mia immagi-
nazione.
Mycroft sostò sulla porta del corridoio, e per un momento pensai che vo-
lesse scendere le scale; invece si voltò verso Midge e disse: «Sono pronto
a essere il suo alleato ogni volta che avrà bisogno di me.»
Lei lo guardò, piccola e sperduta figuretta, con le mani ancora strette
sulle ginocchia, ma non rispose.
Io mi aspettavo che il vento entrasse ululando e mi preparai a sostenere
il colpo. Ma non vi fu nulla, nemmeno la più leggera brezza.
Lui avanzò nella notte, con gli altri raccolti dietro di sé, e io mi affrettai
a chiudere nuovamente la porta. Prima di farlo, li guardai scendere con
passi incerti giù per i gradini di pietra mentre l'oscurità avanzava lenta-
mente. Se non fosse stato pericoloso anche per me, avrei sperato vivamen-
te che almeno uno di loro si rompesse una gamba.
Scomparvero dietro la curva e io mi rilassai un poco, sollevato dal fatto
che se ne fossero andati. Ma sbattei gli occhi nella notte, stupito da come
improvvisamente tutto fosse tornato tranquillo. Per quanto potevo dire,
non un filo d'erba si agitava né una foglia era scossa. L'aria era calma, fre-
sca e piacevole.
Quando rientrai, chiudendo a chiave la porta dietro di me, anche i pipi-
strelli si erano calmati e nessun suono veniva dall'alto.
C'era soltanto un forte, insostenibile odore di muffa.

30.
FANTASMI

Ma non è tutto. La notte non era ancora finita.


Mi svegliai tardi e la stanza da letto era immersa nel buio. Ombre si fon-
devano con ombre più scure, strani particolari dei mobili apparivano più
grandi di quanto non fossero, trasformati in forme sinistre che sembravano
nascondersi.
Midge era seduta accanto a me, e il suo movimento o la sua tensione mi
avevano svegliato, perché lei non mi aveva toccato né mi aveva chiamato.
Con una improvvisa irrequietudine mi alzai puntellandomi sui gomiti. Il
braccio di Midge era rigido quando lo toccai e coperto di pelle d'oca.
«Che c'è?» sussurrai preoccupato.
Non rispose subito.
Stavo cercando l'interruttore quando la sua voce mi fermò.
«Sono stati qui,» disse con un filo di voce. «Oh, Mike, sono stati qui.»
Mi voltai verso di lei e la sostenni nell'oscurità.
«Chi è stato qui? Di chi parli?»
Rabbrividì fra le mie braccia.
«Li ho sentiti tutti e due.» C'era nel suo mormorio una sorta di incerto
timore religioso. «Ho sentito che potevo quasi'toccarli. Erano in questa
stanza.»
«Midge, di chi diavolo parli?»
La sentii piangere, ma c'era tristezza nella sua voce quando parlò ancora.
«Mia madre... mio padre. Cercavano di parlarmi, avevano bisogno di
parlarmi, capisci?»
La tenni stretta a me e mi sentii percorrere da un brivido.

31.
NASCITA

Al mattino il risveglio fu meno brusco.


Ancora assonnato mi girai nel letto per abbracciare Midge, ma lei non
c'era.
Aprendo a fatica le palpebre che sentivo pesantissime, diedi un'occhiata
alla sua parte del letto per avere la conferma di quello che il tatto mi aveva
già detto. Altri pensieri seguirono a passo più lento impiegando un certo
tempo per prendere forma ma infine i ricordi della notte precedente, com-
preso il dopo-Mycroft, spezzarono gli ultimi fili di sonno.
Mi voltai sulla schiena contemplando il soffitto. Alla luce fredda del
giorno gli episodi traumatici della notte scorsa sembravano irreali. La mi-
naccia dei sinergisti, a rifletterci, finiva col diventare ridicola: nessuno di
noi era abbastanza ingenuo da cadere sotto la loro influenza, non eravamo
ragazzi impressionabili per essere attratti da quella ridicola "religione". E-
ravamo degli adulti capaci di ragionare. Tuttavia Midge era stata affascina-
ta da Mycroft, su questo non c'era dubbio, e io mi rendevo conto che in
quell'uomo c'era qualche cosa di più di quanto avessi supposto nel nostro
primo incontro, quando il suo carisma era stato per lo meno sottovalutato.
Forse questo faceva parte della sua attrattiva, dato che il suo aspetto co-
mune sembrava escludere ogni suggestione ciarlatanesca.
Dopo che lui se n'era andato la notte prima, Midge e io eravamo troppo
tesi per discutere seriamente su quello che era avvenuto e le sue conse-
guenze. Quando le feci notare ancora che qualche cosa stava succedendo a
Gramarye, lei si limitò a dire di essere troppo stanca e di volere andare a
letto.
Io la seguii cercando di portarla al buon senso (buon senso? Quello che
cercavo di farle capire era folle anche per me), ma lei non voleva saperne.
Mi disse che avevo una mentalità limitata. Questo mi fece veramente ar-
rabbiare considerando che proprio lei era cieca a tutte le cose misteriose
che ci avvenivano intorno. Sarebbe bastata quella sola notte col vento che
ululava, i pipistrelli che infuriavano nella soffitta, e l'immediata quiete ap-
pena Mycroft ebbe aperto la porta per andarsene. Il problema era: c'erano
veramente state delle raffiche di vento? Era possibile che la notte fosse di-
venuta improvvisamente calma? E guardate l'effetto che il luogo aveva a-
vuto sui sinergisti! Accidenti. Joby era stato lì lì per andarsene davanti ai
nostri occhi, e per la seconda volta Kinsella aveva dovuto fuggirsene in
fretta e furia. Andai avanti così ancora per un po', fino a esaurirmi. Le feci
ricordare tutto: il suo disegno rovinato, le allucinazioni di Bob, le mie allu-
cinazioni, la guarigione del tordo, la fiducia degli animali e degli uccelli,
l'apparente rifioritura del giardino. Anche i nostri gloriosi amplessi (fino a
pochi giorni prima) e il suo bel lavoro (prima che fosse rovinato), perfino
la mia ispirata bravura con la chitarra. Rievocai tutto quello che mi veniva
in mente.
Ma era come parlare a un muro. Lei non voleva saperne.
Tuttavia mostrò dell'interesse quando io arrischiai la teoria che forse era
stata lei quella che aveva guarito il mio braccio e non Mycroft con la sua
mistura magica e le sue finte capacità paranormali: lei e qualsiasi magia
che alloggiasse a Gramarye, entro le sue mura, nel suo terreno, nella sua
atmosfera - nella maledetta eredità - e operasse attraverso di lei, LEI, Mi-
dge Gudgeon, innocente catalizzatore, o intermediario, o istigatore. Così
come lo era stata Flora Chaldean! E chiunque avesse abitato nel villino
prima di lei!
Stavo divagando, inventando, traendo idee dall'aria. O così immaginavo.
Può essere stata la mia stanchezza e lo stato emotivo in cui mi trovavo, a
trascinarmi in una di quelle rare condizioni in cui la mente inconscia pren-
de il sopravvento e mette allo scoperto pensieri che sono normalmente va-
ni o addirittura inconcepibili.
E, forse, il mio inconscio era sostenuto da qualche cosa di più profondo
e perfino più misterioso, qualche cosa completamente fuori di me.
E quando ebbi finito e detto tutto, fui io a perdere ogni interesse: fui io
quello che non riusciva più a tenere gli occhi aperti, che doveva spogliarsi
e andare a letto, completamente esausto e svuotato.
Come ho detto, lei era interessata, ma non cercò di scuotermi. L'ultima
immagine che ebbi di Midge prima di infilarmi tra le lenzuola fu quella di
lei seduta sulla sponda del letto, che mi studiava con un particolare baglio-
re negli occhi. Dopo di che caddi contento nel sonno. Ma più tardi mi sve-
gliai trovando Midge sveglia, che fissava i piedi del letto.
Ne fui stupito. Evidentemente gli eventi della sera le avevano provocato
un incubo, e io la spinsi ancora sotto le lenzuola cercando di convincerla.
Sebbene non avesse dato risposta alle mie obiezioni, ero sicuro che non le
aveva accettate. Rimase sdraiata, ferma e tranquilla, e quando le sfiorai
una guancia mi accorsi che era bagnata.
Tentai di fare del mio meglio per consolarla, ma purtroppo, poco dopo,
mi accasciai su di lei - la mente vuole, ma la carne è debole - e mi addor-
mentai nuovamente. Sperai solo che la stanchezza avesse sopraffatto anche
lei e che anche lei si fosse addormentata; l'idea che fosse rimasta sveglia al
buio, con la convinzione di avere visto gli spettri dei suoi genitori, forse
pensando che sarebbero tornati durante la notte, mi faceva rabbrividire. E
mi sentivo colpevole.
Tirai indietro le coperte e misi le gambe giù dal letto cercando l'orolo-
gio. Quasi le dieci. Midge avrebbe dovuto svegliarmi prima.
Per prima cosa, seduto sul bordo del letto, notai che l'odore di muffa del-
la sera prima persisteva, un odore di umidità e di intonaco vecchio; poi mi
accorsi che stavo guardando a bocca aperta qualche cosa sull'altro lato del-
la stanza senza che il mio cervello intorpidito riuscisse a capire che cosa
stessi guardando. La lunga fessura nel muro, che andava dal pavimento al
soffitto, in qualche modo non si imprimeva nella mia mente.
«Accidenti,» dissi quando finalmente capii.
Mi alzai in fretta e attraversai la stanza fermandomi solo quando qualche
cosa di piccolo e di morbido fu schiacciata dal mio piede nudo. Feci un
salto imprecando più forte quando il pungiglione mi colpì mezzo secondo
dopo; caddi indietro sul letto e mi afferrai il piede. Trovai la piccola spor-
genza, come una spina, e, servendomi delle unghie come pinzette, la e-
strassi. La zona attorno alla minuta puntura era già rossa, e io cercai a terra
il colpevole La vespa schiacciata era a una sessantina di centimetri, e io
immaginai che il suo rantolo di morte fosse una risata di vendetta.
Chinatomi, raccolsi il peloso corpicino schiacciato e, zoppicando, lo por-
tai, insieme alla sua arma, nel bagno, soffermandomi un poco a guardarlo
galleggiare a mia volta con un ghigno di vendetta. Tornato nella stanza da
letto, esaminai la fessura nel muro: il nuovo intonaco si era diviso in due
margini dentellati e molto vicini fra loro. Ma una fessura è sempre una fes-
sura.
Questo per quel che riguardava la perizia di O'Malley.
Mi infilai la vestaglia e lasciai la stanza per andare in cerca di Midge.
Era di sotto, seduta sul gradino della cucina, col mento sulle ginocchia,
guardando i fiori del giardino. Anche questa volta, dapprima, non notai
quello che era fuori posto o, in questo caso, quello che non era in nessun
posto.
Mi chinai e la baciai sul collo. Non rispose. Si mosse appena e io mi
rannicchiai accanto a lei.
Sebbene fossimo sul lato in ombra del villino, pensai che il sole doveva
essere allo zenit dal modo con cui operava sui brillanti colori del giardino.
E, in alto, il cielo era di un azzurro pallido con vaghi gruppi di nubi disper-
si nella distanza. Ma, nella parte in ombra dove eravamo seduti, l'aria era
fredda.
«Come stai, oggi, Folletto?» tentai con voce disinvolta. E le misi una
mano sul braccio.
La sua risposta fu laconica. «Molto confusa.» E non disse altro.
«Sì, anch'io. Ma non così confuso da non poter vedere Mycroft e la sua
piccola e misteriosa setta per quello che sono.»
«Lascia stare, Mike,» disse con voce atona.
Cercai di essere comprensivo. «Non credo che possa farlo anche tu. Sei
troppo "innamorata" di loro, e questo mi spaventa.»
Si strinse nelle spalle, un movimento breve, quasi ritraendosi in sé.
«Midge, hai pensato a quello che ti ho detto stanotte?»
Sempre senza guardarmi rispose: «Mi hai detto tante cose. Tu le ricor-
di?» Adesso si voltò verso di me.
Giusto, non potevo. Avevo parlato tanto da avere in testa un gran disor-
dine, non ero tanto affaticato quanto confuso. Solo più tardi queste nozioni
avrebbero potuto chiarirsi. Mi duoleva la testa e mi sentivo bruciare lo
stomaco anche se la sera prima avevo bevuto un unico bicchiere di vino.
«Che cosa è successo ai nostri amici, quest'oggi? Ce n'erano sempre due
o tre che svolazzavano in cerca di cibo, a quest'ora.»
«Non lo so,» rispose Midge senza espressione sulla faccia.
Aggrottai la fronte. «Forse hanno trovato un menù migliore da qualche
altra parte,» dissi debolmente, rifiutandomi di credere che ci fosse un qual-
che significato in questo cambiamento di abitudini, ma sentendomi molto
contrariato. «Spero comunque che Rumbo sia da queste parti, eh?»
Scosse la testa. «Non si è ancora visto.»
Ciò mi impensierì. Doveva essere successo qualche cosa di brutto se
quel golosone non era ancora comparso. Ricordai le parole di Bob al tele-
fono: c'è una brutta atmosfera a Gramarye.
Midge si alzò e la mia mano cadde come un peso morto. «Devo vestirmi
e andare in paese a fare delle compere,» disse fredda e si volse prima anco-
ra che avessi avuto il tempo di alzarmi.
«Aspetta un minuto.» Le presi il braccio tirandola a me. «Siamo amici,
no? Non solo innamorati, ma anche amici. Non tenerti tutto dentro, Midge,
per quanto male tu possa pensare di me. Va bene, stanotte ti ho turbato con
alcune mie supposizioni, ma questo non deve impedirci di parlare. Tutto
quello che faccio per te, lo faccio per il tuo bene. Dannazione, ti amo più
di quanto riesco a esprimere...»
In altri momenti lei avrebbe aggiunto: «Io ti amo di più ogni giorno che
passa...» e io avrei continuato: «Domani ti amerò il doppio...» e così via
come in un duetto. Ma quella mattina niente, nemmeno un sorriso. Tutto
quello che ottenni fu un silenzio turbato.
In quel momento la tensione parve abbandonarla per un istante. Guardò
a terra evitando il mio sguardo. «Io non ti amo di meno, Mike, nulla può
cambiare questo. Ma io devo scoprire...»
La strinsi forte. «Tu non hai fatto nulla di cui debba vergognarti.»
«Non vuoi ascoltarmi.»
Mi controllai. «Io sto solo tentando di farti ragionare, mi capisci? Sai
che cosa penso? Penso che ti senti colpevole della tua felicità. Ne ha avuta
tanta - ne abbiamo avuta tanta - da figurarti per qualche assurda ragione
che tua madre doveva morire perché tu potessi ottenerla. È questo ciò che
ti angoscia, Midge.»
Scosse la testa con violenza. «Questo è sciocco.»
«Dici? Tu hai avuto la tua libertà quando lei è morta...»
«Si è uccisa,» insistè.
«D'accordo, si è uccisa. Tu eri giovane, avevi un grande talento, e così
forse ti sei domandata come sarebbero andate le cose senza legami, senza
responsabilità. Chi non lo avrebbe fatto, nella tua situazione? E adesso che
è passato tanto tempo, ti senti in colpa per esserti chiesta come sarebbe sta-
ta la tua vita senza legami familiari. E io non mi meraviglierei se fosse sta-
to questo odioso Mycroft a instillarti questi sensi di colpa.
«Lui non...»
«Che cosa vuoi fare? Chiedere il loro perdono? Quando siamo arrivati
qui mi dicesti di desiderare che ci fosse qualche modo per far sapere ai tuoi
genitori quanto eri felice. Lo ricordi? In qualche modo questo desiderio è
cambiato e adesso vuoi il loro perdono per essere così maledettamente fe-
lice. Come mai i tuoi sentimenti hanno preso improvvisamente questa di-
rezione? E successo il giorno in cui sei andata da sola al Tempio? Quando
io ero a Londra?»
Tentò di liberarsi da me, ma la tenni ferma.
«Mi ha fatto capire!» mi gridò. «Tu non lo conosci...»
«Non voglio conoscerlo! Quello che voglio sapere è perché ti fa questo.»
Adesso cercò più decisamente di liberarsi. Mi guardò con occhi infuoca-
ti, il corpo piegato, come un bambino recalcitrante.
«Questa notte hai detto che c'era qualche cosa di straordinario in Gra-
marye.» Era quasi un'accusa. «Non hai detto proprio così, ma il senso era
questo. Tu stesso hai supposto che io ne fossi coinvolta, che ne facessi par-
te.»
Sapevo di avere detto qualche cosa di simile, ma in quel momento non
riuscivo a ricordare perfettamente.
«Credi che sia pazza, Mike? Credi che io non abbia notato ciò che è av-
venuto intorno a noi?»
«E allora perché non...»
«Perché è troppo delicato per essere messo in questione! Va bene, am-
metto che in certa misura vi ho opposto una barriera, ma questo perché te-
mevo di perdere... di perdere...»
Scosse la testa, incapace di trovare le parole. Incapace, sospettai, di chia-
rire le sue idee. Feci un passo verso di lei, ma lei indietreggiò.
Strinse i pugni. «Mycroft è l'unico che possa aiutarmi.»
«No!» Adesso spettava a me gridare.
«Lui capisce.» Aprì i pugni e lasciò cadere le braccia lungo i fianchi.
Non voleva più discutere.
Mi scivolò accanto e io udii i suoi piedi nudi che salivano le scale nel-
l'interno del villino; l'asse di uno scalino scricchiolò rumorosamente sotto
il suo peso. Pensai di seguirla, ma nemmeno io volevo discutere. Ero trop-
po esausto.

«Il signor O'Malley?»


«Sì, chi parla?»
«Qui Mike Stringer.»
«Come? Stringer?»
«Lei ha lavorato per il nostro villino. Gramarye.»
«Ah, il signor Stringer.» Poi più lentamente. «Sì... Gramarye. Che cosa
posso fare per lei, adesso»
«Temo che si siano ripresentati alcuni problemi.»
La sua cadenza irlandese divenne un poco più forte. «Non capisco quali
possano essere, signor Stringer. Abbiamo fatto un lavoro completo.»
«Sì, ma il muro nella stanza da letto principale si è spaccato di nuovo e
alcune porte non si chiudono bene...»
«Aspetti un secondo, signor Stringer. Mi lasci trovare la nota dei lavori
fatti nella sua proprietà.»
Un tac mentre il ricevitore veniva messo giù all'altro capo. Rimasi nel
piccolo corridoio in cima alle scale, la mano libera infilata nella tasca dei
jeans, sperando che le tre aspirine che avevo preso venti minuti prima ope-
rassero sul mio mal di testa. L'odor di muffa nell'aria non mi aiutava a
chiarirmi le idee.
«Eccomi, vediamo...» riprese la voce dell'Irlandese. Dei disturbi sulla li-
nea mi costrinsero ad allontanare il ricevitore dall'orecchio. «Ah, bene.
Abbiamo fatto uno splendido lavoro sulla parete di quella stanza da letto.
Non capisco come si sia riaperta. Immagino che non avrà fatto fare altri
lavori in quel punto, signor Stringer.»
«Assolutamente no.»
«Capisco. Be', è strano. Qual era l'altro inconveniente?»
«Le porte. Devono essersi deformate di nuovo».
«Nella mia nota non si parla di porte.»
«Le avete dovute piallare prima di dipingerle.»
«No, no, qui non se ne parla. Le abbiamo lisciate, naturalmente, una
semplice raschiatura prima di dipingerle. Adesso ricordo, sì, ricordo che le
ha menzionate quando abbiamo parlato del lavoro. Non c'erano anche delle
ante di armadi a muro?»
«Giusto.»
«Bene, il capo mastro mi ha detto che le porte erano a posto. Non c'era
da fare altro che lisciare le superfici. Alcune intelaiature delle finestre era-
no marce e le abbiamo sostituite. Nella fattura che le abbiamo mandato
non c'era altro.»
Udii un rumore sopra la testa.
«Le porte si possono deformare con il caldo, signor O'Malley?»
«Dipende. In pieno sole, forse, o a volte con un tempo molto umido.
Certo abita in una casa molto vecchia, e le strutture in legno risentono del-
l'età.»
«Ho notato che alcune cementature all'esterno non sembrano buone. Si
stanno sgretolando.»
Lo udii trarre un lungo respiro, più di stanchezza che di meraviglia.
«Questa è un altra cosa. Posso mandare qualcuno a dare un occhiata, ma
credo di non poterlo fare prima di un settimana. E un periodo di lavoro,
con il tempo così buono.»
«C'è qualche altra cosa che temo richieda un intervento urgente.»
«Di che si tratta?»
«L'architrave sopra il fornello della cucina. C'è una crepa anche lì, e ho
notato che la pietra comincia a cedere nel mezzo. Solo di poco, ma la fac-
cenda mi sembra pericolosa.»
«È un nuovo lavoro. Come le dicevo siamo molto occupati, in questo
momento...»
«L'architrave era nel mio elenco dei restauri. Abbiamo notato la spacca-
tura prima di traslocare.»
«Non ricordo... ah, aspetti un momento. È vero, adesso mi torna in men-
te. Ci aveva dato tutta una lista di riparazioni che erano inutili. Per questo
la spesa è stata al di sotto del preventivo ; i miei uomini non sono riusciti a
individuare metà delle riparazioni da lei indicate.»
«È assurdo.»
«Sembra anche a me. Il mio capo operaio suppose allora che lei avesse
confuso l'elenco con un'altra proprietà che aveva in mente di acquistare.
Un'altra ditta che fosse stata un po'... Tom Mix...»
«Come?»
«.. .un po' cowboy, le avrebbe messo in conto tutto senza dire una paro-
la. Bene, posso mandare qualcuno a vedere, ma non subito, temo. Diciamo
martedì prossimo? Le va bene?»
«Quell'architrave è pericoloso...»
«Lei usa quel fornello? Immagino di no. Puntelli la pietra e ci giri al lar-
go, non deve fare altro. Le manderò uno dei miei uomini martedì prossimo
e vedremo quello che si può fare. Ecco qua, l'ho scritto sul mio taccuino.
Darà un'occhiata a tutto quello che deve essere fatto e noi saremo lì appena
riprende a piovere. Buon giorno, signor Stringer, spero che si trovi bene in
questa bella parte della foresta.»
Sentii un clic e tutto finì lì. Per quel che riguardava O'Malley, i problemi
erano risolti.
Ed ecco ancora quello strano rumore che proveniva dal piano superiore.
Feci due passi e allungai il collo sulle scale. Sapevo che cos'era quel ru-
more.
Ma adesso vi erano altri rumori, al piano di sotto.
Ascoltai attentamente, indeciso su quali investigare per primi anche se
ero piuttosto incline a non investigare affatto.
Altri rumori dal basso. Stridii e fruscii di carta.
«Midge?» Forse era già tornata dal paese. Nessuna risposta, ma forse era
ancora arrabbiata con me.
«Midge, sei tu?»
Sentivo che c'era qualcuno; ma non rispondeva. Rimasi in cima alle sca-
le chinandomi pericolosamente verso la curva per guardare dalla parte del-
la cucina, il mio luogo preferito.
Una tazza da tè tintinnò nella credenza (non ne avevo lasciate sulla tavo-
la).
Non mi concessi tempo per riflettere, spinto dalla mia stessa paura, e
scesi zoppicando perché la puntura della vespa mi faceva ancora male.
Mi fermai sulla porta della cucina e tirai un respiro di sollievo.
«Rumbo, mascalzone!»
Da uno scaffale della credenza, lui mi rimproverò per averlo a mia volta
spaventato. Un pacchetto di biscotti era aperto sulla tavola, con il contenu-
to sparso e rosicchiato.
«Tu, almeno, non ci hai lasciati,» dissi. Presi un biscotto spezzato e glie-
lo porsi; lui me lo prese di mano, sempre protestando.
«Così, dove sono gli altri, quest'oggi?» lo interruppi. «Hanno anche loro
paura di Gramarye? Per questo non sono venuti a far colazione?»
Probabilmente lui se lo domandava come me.
«Ci vuole ben altro per spaventare te, non è vero? Ma io devo avvertirti:
le cose qui non sono più le stesse, e anch'io ho un po' di paura. E nell'at-
mosfera, lo senti? E come qualche cosa che si arrampica e scompare ogni
volta che ti volti per guardare. Mi capisci?»
Non credo che mi capisse. Continuò a rosicchiare il suo biscotto driz-
zando ogni tanto la testa verso di me in quel suo modo che ricordava un
cagnolino ma senza badare molto a quello che gli dicevo. Che cosa potevo
aspettarmi da uno scoiattolo?
La porta della stanza dell'attico rimaneva come inchiodata al suo telaio
(mi passò per la mente l'idea che qualcuno vi si appoggiasse contro dall'al-
tra parte).
Io ero sul gradino sottostante, girando la maniglia e allo stesso tempo
spingendo con l'altra mano. Rumbo mi aveva tenuto compagnia nel mio
cauto viaggio su per la scala a chiocciola, come incuriosito al pari di me da
quello strano suono. Ogni volta che il rumore si ripeteva - vi erano lunghe
pause fra 1'uno e 1'altro - la sua testa saltava su, e lui guardava di qua e di
là con rapidi movimenti scattanti. I suoni avevano un certo andamento mu-
sicale e per questo mi erano familiari.
Erano i suoni di un pollice che passasse sulle corde di una chitarra.
Tuttavia, ancora più blande, quasi una semplice risonanza, le vibrazioni
andavano lentamente smorendo lasciando quello che sembrava un silenzio
profondo e meditativo prima che le corde fossero nuovamente disturbate.
Fortunatamente - dopo avere sfoggiato tutto il mio coraggio scendendo
con baldanza in cucina - mi si era già presentata una spiegazione. Un uc-
cello, o forse un pipistrello insonne, aveva trovato in qualche modo la stra-
da per entrare nella mia sala-musica e le sue ali battevano contro la chitarra
ogni volta che vi volava vicino. Altra ipotesi, una famiglia di topi poteva
aver fatto il nido in uno degli strumenti, e i suoi membri strusciavano con-
tro le corde nell'entrare o nell'uscire dalla cassa armonica. Entrambe le
spiegazioni mi sembravano ragionevoli, e io ero ancora pronto a credere
nella ragione (anche dopo tutto quello che era avvenuto).
Spinsi più forte e la porta cedette di qualche millimetro. Nell'interno vi
era stato silenzio per più di un minuto.
Tentai di nuovo urtando la porta con la spalla. I legni scricchiolarono e
la porta si aprì; poiché stringevo ancora la maniglia, il battente non si spa-
lancò e io gli feci compiere piano il resto del percorso.
A prima vista la stanza apparve vuota. Ma poi venne quasi da piangere
quando vidi lo stato in cui erano le mie due chitarre. Entrai di corsa nella
stanza e caddi in ginocchio di fronte a esse ed emisi un grido d'angoscia.
Il manico della Martin, che era stata messa per dritto appoggiata a una
parete in ombra, si inarcava verso di me come per inchinarsi al mio ingres-
so. La spagnola da concerto era lì sul pavimento, evidentemente era caduta
in un momento in cui il colpo non era stato udito; e il suo manico era incli-
nato in su, come un ometto che cercasse di alzarsi. La prima e la seconda
corda erano saltate in entrambe, le altre erano fortemente tese dall'alto al
basso tirando il manico con una tensione incredibile. Non riuscivo a capire
come potesse essere avvenuto: nessuna era rimasta direttamente al sole,
che avrebbe potuto alterare il legno (in tal caso comunque, le corde si sa-
rebbero allentate, non tese), e nessuna era stata accordata sull'acuto: io
tengo le corde a tensione normale, salvo eccezioni temporanee, nel qual
caso allento sempre le corde dopo l'uso. Le corde di nylon possono restrin-
gersi se soggette a temperature estreme, purché non si spezzino prima; ma
le corde d'acciaio della Martin?
Scossi la testa sbigottito e sconvolto, addolorato come se mi avessero
ucciso un cagnolino.
Una leggera brezza alitò dalla finestra che avevo lasciato aperta di pochi
centimetri giorni prima per rinfrescare la stanza e fece vibrare le corde
troppo tese. L'eco fu più simile a un singhiozzo che a un suono musicale.
Mi battei un pugno sulla coscia inveendo, poi inveii ancora. Sebbene le
chitarre fossero irrimediabilmente rovinate (i manici avrebbero potuto es-
sere sostituiti, ma sarebbe stato dispendioso e di esito incerto) girai le
chiavette allentando le corde. Con un certo nervosismo aprii l'astuccio del-
la Fender ed esaminai la chitarra elettrica; ebbi la sensazione di aprire una
bara per dare un'occhiata al cadavere. Per fortuna lo strumento era in buon
stato.
Dopo di che, potei solo rannicchiarmi a terra e contemplare i miei stru-
menti resi invalidi, anzi, colpiti a morte, mentre Rumbo si dava alla pazza
gioia saltando per la stanza senza badare alle mie sventure. Io lo lasciai
giocare, contento che almeno uno di noi non fosse preoccupato di nulla.
Rimasi lì pensoso per un po' di tempo e non so bene che cosa mi avesse
infine risvegliato: forse le stridule "chiacchiere" dello scoiattolo, o il rumo-
re di un movimento sulla mia testa. Era stato un mattino pieno di rumori
lontani, così che non fui né sorpreso né turbato dall'udire altri suoni. E na-
turalmente, questa volta, l'origine di quei rumori era evidente; i pipistrelli
erano inquieti.
Ma non furono i rumori a spingermi a portare una sedia nel centro della
stanza per raggiungere la botola. Avevo gettato lassù il disegno di Midge
lo stesso giorno in cui avevamo scoperto la sua grottesca trasformazione:
solo alzando un poco la botola e scagliandolo dentro, fuori della vista e
fuori del pensiero. Bruciarlo sarebbe stato troppo simile a un rituale. Ades-
so, ancora perplesso per quel mutamento, volevo dargli un altro sguardo.
Forse pensavo, pazzo ottimista che sono, che potesse essere tornato norma-
le. Comunque volevo studiare il disegno più attentamente.
Mi misi in equilibrio sulla sedia, con una mano contro lo sportello della
botola e tenendo con l'altra la torcia che adesso avevo sempre pronta nel-
l'attico per visitare la soffitta. Sollevai lo sportello, nervoso per i nostri a-
mici notturni, ma convinto, come mi era stato detto così spesso, che non
fossero pericolosi.
La botolona si aprì con un misterioso cigolio di "vecchia casa buia" che
fece scomparire Rumbo giù per le scale con uno strido di paura. Mi ripro-
misi di oleare i cardini alla prima occasione. Alzando la torcia, mi servii
dello schienale della sedia come vacillante sostegno e mi tirai su con la
mia solita mancanza di dignità. Seduto sul bordo, mi maledissi per avere
lanciato il dipinto con tanta forza: potei distinguere la sagoma rettangolare
prima ancora di volgere la luce su di esso, e mi resi conto di dover striscia-
re sui travicelli per poterlo raggiungere.
Prima di farlo, rivolsi il raggio per tutta la soffitta e rabbrividii nel vede-
re le nere forme appese, con la certezza che erano divenute più numerose
dell'ultima volta che le avevo viste. Riempivano ogni centimetro di spazio
fra i travicelli, come quella prima volta.
Ma perlomeno erano fermi e tranquilli come se la mia intrusione avesse
arrestato la loro attività. Mi domandai come considerassero la mia presen-
za. Con paura? Con ostilità? O sentivano adesso che Midge e io non ave-
vamo intenzione di far loro alcun male?
Un piccolo squittìo isolato attrasse la mia attenzione verso una trave alla
mia sinistra. Illuminai un gruppo di pipistrelli particolarmente folto; uno,
presso il centro, stava facendo piccoli movimenti scattanti, con la testa
piegata in su, verso lo stomaco. I suoi denti aguzzi furono colpiti dalla luce
mentre apriva la piccola brutta bocca per emettere un altro squittìo appena
udibile.
Altri squittii risposero dagli angoli più bui della soffitta, tutti isolati e in
qualche modo patetici.
Tirando su le gambe, cominciai a farmi strada verso il dipinto non vo-
lendo restare in quel buio un attimo più del necessario. I travicelli mi face-
vano male alle ginocchia mentre stisciavo, e l'odore degli escrementi di pi-
pistrello era più forte e sgradevole dell'ultima volta che ero stato là. Tentai
di tenerne lontana la mano libera mentre passavo guidandomi con la torcia,
ma quella porcheria era dappertutto e presto dovetti pulirmi la mano sui je-
ans. Decisi che camminare direttamente sui travicelli chinandomi e tenen-
domi in equilibrio, sarebbe stato più facile, così mi alzai barcollando gof-
famente per un paio di secondi con i piedi su due travicelli paralleli.
Immediatamente urtai uno di quegli animali.
Il pipistrello stridette e battè le ali contro di me, mentre io indietreggiavo
vacillando sulle gambe malsicure e battendo l'aria con le mani.
Piegato a metà e ancora un poco vacillante, ritrovai l'equilibrio e volsi la
torcia sul pipistrello colpito per assicurarmi che non si preparasse ad attac-
carmi.
Quello che vidi mi fece venire la nausea. Inghiottii a fatica.
A pochi centimetri dalla mia testa, il pipistrello che avevo colpito si con-
torceva in piccoli movimenti spasmodici, con le ali piegate all'indietro e la
viscida coda all'ingiù. Qualche cosa di rosso, lucente e ripugnante gli stava
uscendo fra le sue zampe.
Io guardavo ipnotizzato, pieno di ripugnanza e tuttavia orribilmente af-
fascinato.
Quella cosa rosea e gibbuta aumentava in dimensioni, fragile forma lu-
cente nella luce della torcia. Il piccolo corpo scivolava fuori, lento e umi-
do, prendendo forma - una forma sgradevole - scaricato dal grembo mater-
no come una pallottola ovale rosea spremuta da un sacchetto, finendo col
cadere sullo stomaco del pipistrello madre, sostenuto dal cordone ombeli-
cale. La madre chiuse le ali attorno al nuovo nato alzando la testa e tirando
fuori la lingua per pulirlo.
La nascita potrebbe essere stata meravigliosa per un amante della natura,
ma per me, in quella soffitta buia, tra una massa di piccoli mostri appesi a
capo in giù, fu una cosa orribile.
Tentai disperatamente di strisciar via, attento a non scivolare fra i travi-
celli, e riuscii solo a disturbare quelli che erano dietro di me. E nel voltar-
mi, facendo scorrere la luce attorno alla soffitta, vidi altre nascite, altre pal-
lottole rosa che uscivano ciondolando sul petto delle loro madri. Non solo
due o tre, ma dozzine. Giuro di averne viste dozzine. Dovunque gettassi il
raggio della torcia vedevo lo stesso movimento nauseante, la stessa viscida
lucentezza sui corpi minuti che riflettevano il raggio. Sembravano getti di
pus fuoriuscenti da ferite aperte.
Andai barcollando verso la chiara apertura quadrata scivolando sui travi-
celli e ammaccandomi le ginocchia contro di essi, ma senza fermarmi, fic-
candomi strisciando schegge di legno nelle mani, con il raggio della torcia
che scattava qua e là, turbando i pipistrelli che squittivano per protesta o
per paura, o forse per entrambe le cose.
Uno mi volò vicino al volto e mi sentii alitare l'aria umida sulla faccia.
Qualche cosa mi battè leggermente sulla schiena fermandosi lì per un mo-
mento prima di cadere.
Per poco non diedi un urlo.
Poi raggiunsi l'apertura e vi scivolai attraverso con le gambe, aggrap-
pandomi con le mani per non scivolare sul pavimento. I miei piedi trova-
rono la sedia sotto di me, e io mi aggrappai allo sportello chinando la testa
mentre un piccolo corpo usciva dall'ombra sfiorandomi il braccio.
Tirai lo sportello riuscendo appena a ritirare le dita prima che si chiudes-
se di colpo.
Rimasi sulla sedia con le mani sulle ginocchia, mentre la torcia rotolava
sul pavimento dove l'avevo lasciata cadere, e tirai un lungo respiro speran-
do di non vomitare.

32.
PAGINA VENTISETTE

Mi allontanai da Bunbury irritato, confuso e non so che altro. Disorien-


tato, credo. Sì, e snervato.
L'avvocato di Flora Chaldean aveva accettato di ricevermi con notevole
riluttanza, e in realtà non aveva altra scelta. Aveva delle responsabilità cir-
ca la vendita di Gramarye, e io insistetti per un incontro. Forse si sentiva in
colpa.
Volevo vederlo perché vi erano certi argomenti relativi alla vecchia si-
gnora e al villino che richiedevano una spiegazione, e Ogborn era proba-
bilmente il legame più importante, se non l'unico. Volevo essere informa-
to. Volevo sapere di più su Flora Chaldean. Volevo sapere di più su Gra-
marye. Volevo sapere che collegamento vi fosse con i sinergisti.
Ebbene, avevo avuto delle risposte, ma non potevo dire che fossero
spiegazioni. Adesso ero confuso in un altro modo.
Bickleshift, l'agente immobiliare che ci aveva venduto la proprietà, fu il
primo con cui cercai di prendere contatto dopo la mia sconvolgente espe-
rienza con i pipistrelli in soffitta, ma era via per una vacanza di due setti-
mane. Potrete pensare, per inciso, che io abbia reagito eccessivamente a
questo incidente - dopo tutto si trattava solo di mammiferi alati con le o-
recchie a punta, che partorivano - ma avreste dovuto essere lì per capire
che vi era qualche cosa di più, che non vi era nessun Bambi in questi pic-
coli cuccioli, nulla di grazioso in essi: L'emergere di una nuova vita era
più simile a un'escrezione che a una generazione. Era come assistere a una
propagazione di disannonia, all'affermazione di influenze maligne piutto-
sto che al naturale piacere della natura, perché adesso avevo capito che c'e-
rano due aspetti, in Gramarye, due climi o latitudini, comunque vogliate
chiamare queste atmosfere opposte. Forse due zone diverse: positiva e ne-
gativa. Avevamo sperimentato il bene, il positivo, quando eravamo arrivati
lì. Adesso qualche cosa stava spingendolo da parte. Secondo le parole di
Bob Dylan, "i tempi stavano cambiando." E, tornando indietro col pensie-
ro, i cambiamenti erano cominciati con la comparsa dei sinergisti.
Questi pipistrelli appena nati significavano in qualche modo che la mal-
sana metamorfosi di Gramarye era in cammino: un cambiamento che non
poteva essere improvviso ma veniva strisciando, lento come un mostro che
dall'oceano si fa strada verso la spiaggia, imparando a respirare e racco-
gliendo forze per potervi salire. Sospinto da coloro che possono valersi del
suo potere.
Assurdo? Questa è solo metà della storia.
Ma precorro i tempi, e parlo di queste cose solo perché così venivano in
me le intuizioni, come gocce di consapevolezza che cadevano a caso dal-
l'alto, colpendomi la testa come piccoli sassi prima di filtrare nel mio cer-
vello. Quel giorno, nel tornare al villino, ricordavo esattamente quello che
avevo detto a Midge un paio di sere prima, suggerendo che lei fosse una
sorta di catalizzatore o di intermediario. Mi domandavo se i sinergisti, e in
particolare Mycroft, non fossero un'altra sorta di catalizzatori.
Comunque, Bickleshift era via, e così mi rivolsi all'avvocato che aveva
tergiversato e infine mi aveva dato appuntamento per il giorno dopo nel
pomeriggio.
Non avevo detto nulla a Midge quando era tornata dal paese, non le ave-
vo nemmeno parlato di come le mie chitarre si fossero deformate per l'ine-
splicabile tendersi delle corde. Avevo bisogno di alcuni dati di fatto per
presentare il caso. In ogni modo lei sembrava troppo preoccupata dai suoi
pensieri, e credeva che fossi andato a Bunbury per comprare della carta da
musica.
Avevo passato una brutta notte e anche Midge era stata agitata, ma nel
sonno. Mormorava e si agitava, si aggrappava alle coperte come se avesse
paura di precipitare in qualche abisso d'incubo.
1 miei deboli tentativi per superare il suo continuo riserbo, il mattino
dopo, caddero nel vuoto tanto per colpa mia quanto per colpa sua: eravamo
come due protagonisti storditi, un po' troppo confusi per vedersi con chia-
rezza, figuriamoci per fare un passo decisivo. Solo quando mi allontanai
dal villino, nel pomeriggio, i miei pensieri e le mie energie ripresero for-
ma. Sì, era un sollievo essere lontani da quel luogo.
Quando tornai, Cantrip era quasi deserta, e io guardai l'orologio. Quasi
le sei: non mi ero accorto che fosse così tardi. 1 negozi erano chiusi e gli
abitanti, probabilmente, si preparavano per la cena.
Attraversai il villaggio dirigendomi ai sentieri nella foresta. Presto sarei
stato a casa. E qui sorgeva il problema: di quale casa si trattava? Mycroft
avrebbe potuto saperlo meglio di ogni altro.
Tenni una velocità sostenuta, desideroso di essere ancora con Midge e
sperando che, questa volta, avrebbe ascoltato quello che dovevo dirle,
quello che Ogborn mi aveva detto. Ma l'avrei fatta ascoltare. Quale che
fosse il suo atteggiamento, sarebbe stata costretta ad ascoltare. Poi avrem-
mo studiato insieme i sinistri progetti di Mycroft.
Ero stranamente nervoso per la minacciosa profondità della foresta ai
due lati della strada.
Gramarye apparve con le sue mura bianco crema inondate dai raggi del
sole che impallidiva. Il giardino era pieno di colori. Solo quando mi avvi-
cinai, i fiori apparvero appassiti e le mura del fabbricato rivelarono i loro
difetti nascosti. Parcheggiai l'automobile vicino al prato e saltai il recinto.
Sentii il telefono squillare all'interno.
La porta era chiusa e ne fui meravigliato: Midge amava l'aria fresca nelle
stanze e le piaceva vedere il giardino dalla cucina. Il telefono continuava a
squillare.
Aprii la serratura e premetti sulla porta incontrando dapprima qualche
resistenza. Una pressione più forte spinse la porta nell'interno e io mi fer-
mai un momento sulla soglia per abituare gli occhi all'oscurità. Quell'om-
bra parve stranamente lenta a cedere il posto alla luce che veniva dalle mie
spalle.
Chiamai Midge, ma ero già sicuro che non era lì: la porta chiusa, il tele-
fono lasciato senza risposta e un'altra cosa: la quasi tangibile freddezza
della sua assenza. Solo il persistere di quello squillo riempiva l'aria umida.
Andai alle scale pensando che Midge poteva essere all'altro capo del te-
lefono, o forse mi chiamava per dirmi dov'era. Ma dove poteva essere an-
data senza automobile?
Salii di corsa, certo che lo squillo sarebbe cessato prima del mio arrivo,
ma afferrai il ricevitore che suonava ancora.
Dei disturbi mi colpirono l'orecchio costringendomi a scostare la testa.
«Pronto... pronto...»
Potei udire solo una debole voce sopra le interferenze: la telefonata sem-
brava provenire da un lontano campo di battaglia tra un fragore di artiglie-
rie. Battei la cornetta contro il palmo della mano per liberare i granuli di
carbone, e per un momento il lontano fragore si quietò.
«Mi senti?» chiese una voce familiare.
«Sì. Sei tu, Val?»
La voce dell'agente rimase a lungo in silenzio.
«Mike, Mike, Midge è con te?»
«No. Sono tornato adesso e lei non c'è.»
«Forse è meglio: volevo parlare con te.»
Sentii un brivido d'apprensione.
«Di che si tratta?» chiesi con forzata disinvoltura.
«Non sono sicura. È tutto piuttosto strano, in realtà.»
L'artiglieria riprese e la voce di lei quasi scomparve nel frastuono.
«Mi senti, Mike?»
La sentivo molto debolmente.
«La linea è molto disturbata.»
«Riappendi, Val,» gridai. Scossi ancora il ricevitore, questa volta con
maggior forza. 1 rumori continuarono, ma meno intensi.
«Bene,» dissi. «Che cosa dovevi dirmi?»
«Forse lo troverai molto strano.»
«Oh, davvero?» Sorrisi.
«Ha a che fare con il disegno di Midge,» spiegò lei. «Il dipinto di Gra-
marye.»
«Continua.»
«Quando ho visto per la prima volta quel disegno, prima... prima che
fosse rovinato... qualche cosa mi ha colpito. Ho avuto l'impressione di a-
verlo già visto...» I disturbi cancellarono le sue parole per un paio di se-
condi «...ricordare dove. Mi persuasi che il cervello mi giocava uno scher-
zo, dopo la stanchezza del viaggio. Avevo osservato quel quadro in carne e
ossa, per così dire, quando ero arrivata al villino quella sera. Supposi che
quello che credevo di avere già visto fosse una combinazione della realtà
con la fantasia del disegno.»
«Val, questa linea sta per saltare del tutto.»
«Va bene, vengo al punto. Mike, ho trovato una copia di un libro illu-
strato da Midge alcuni anni fa...»
La persi ancora e i rumori aumentarono. Il fracasso si calmò dopo un al-
tro colpo dato al ricevitore. Il palmo della mano stava diventandomi rosso
a forza di colpi.
«Scusami, non ho sentito. Di quale libro parlavi?»
«È intitolato Il libro del mago, lo conosci?»
«Sì, ricordo.»
«Bene, cerca a pagina ventisette.»
«Che cosa?»
«Guarda bene e vedrai quello che intendo...»
Diedi uno strattone al telefono perché i disturbi mi esplodevano nell'o-
recchio, come se all'altro capo battessero sul ricevitore.
«Mike... mi senti?»
«Appena appena.»
«Mi senti?»
«Ascolta, Val.» gridai, «ti chiamerò io più tardi!»
«... l'illustrazione...»
«Va bene, va bene!» Non so se udì il mio saluto affrettato, ma riappen-
dere il ricevitore fu un sollievo.
Non restai un momento di più nel corridoio a meditare quello che Val mi
aveva chiesto di fare. Andai dritto alla stanza rotonda e mi avvicinai alla
libreria. Lessi i vari titoli e non trovai quello che cercavo. Ma avevamo
molto libri e Midge non metteva particolarmente in vista quelli illustrati da
lei. Subito dopo ispezionai la stanza degli ospiti, dove c'era la maggior par-
te della nostra biblioteca. Esaminai gli scaffali e presto mi venne sottoc-
chio Il regno del mago.
Era un'edizione di formato modesto, un racconto di fate, di streghe, di
maghi e di draghi, dedicato ai fanciulli dai cinque agli otto anni ma, come
ci disse l'editore, comprato anche da molti adulti per il piacere delle illu-
strazioni. Di questa storia infantile si era parlato molto nelle riunioni fami-
liari.
Estrassi il libro dallo scaffale e, sebbene la stanza non fosse in ombra, lo
portai presso la finestra.
Fuori la foresta era silenziosa e appariva molto densa.
Sfogliai in fretta le pagine cercando la ventisette e facendomi passare
davanti le illustrazioni in una confusione di colori vivaci.
Ventisette.
Lisciai la pagina con la mano.
Il punto focale del disegno era un bianco castello con molte torri. Ricor-
davano vagamente il racconto: era un castello incantato abitato da un ma-
go, il personaggio più importante di tutta la regione ma ormai vecchio e
debole, il quale cercava un degno successore prima che le forze del male,
che vagavano nei boschi e nel mondo sotterraneo, sottomettessero i suoi
territori.
Aggrottai le sopracciglia non riuscendo a trovare un legame con il recen-
te dipinto di Midge. Ma poi guardai più attentamente.
Nell'illustrazione, in primo piano, vi era un villaggio di folletti con fun-
ghi rossi per case e sassolini multicolori raccolti a formare una strada. I
folletti erano un allegro gruppo. Più oltre cominciava la foresta, di un ver-
de intenso, come la foresta reale fuori della finestra, silenziosa e folta. Nel-
lo sfondo vi erano i leggeri profili dei colli, la strada che usciva dalla fore-
sta e, alto sui colli, vi era il castello incantato con il vecchio mago, piccolo,
ma chiaramente visibile, sulla torretta più alta.
Nella foresta vi era una radura, e in quella radura si vedeva una casetta,
piccola ma con particolari finemente disegnati. Parte di essa aveva una
forma tondeggiante.
Non c'era dubbio. Quella casetta era Gramarye.

33.
VOCI

In una foresta non vi sono pause: l'attività continua di giorno e di notte.


Ma la maggior parte dell'azione rimane invisibile a qualsiasi ora. La sera,
tuttavia, o di notte, sembrano esservi più rumori, più movimenti, foglie che
stormiscono e, ogni tanto, ramoscelli che si spezzano. Quanto più tarda è
l'ora tanto più ostile e segreta sembra la foresta. Per un estraneo, natural-
mente.
Feci del mio meglio per seguire il sentiero che Midge e io eravamo soliti
percorrere in altre occasioni, sapendo dove mi avrebbe approssimativa-
mente condotto e sperando che il sole non si sarebbe abbassato troppo
prima che giungessi laggiù. Nel lasciare il villino avevo preso una giacca
sapendo quanto poteva far freddo, sotto gli alberi, in quell'ora serale.
Il morbido terriccio era scivoloso sotto i miei piedi e i miei passi risuo-
navano come brevi ansiti mentre io avanzavo a fatica sui densi strati del
terreno. Un ramo si spezzò sotto i miei piedi e il suo scricchiolio mi sem-
brò un cachinno di derisione.
Avevo telefonato al Tempio sinergista per sapere se Midge era là, ma le
interferenze erano diventate tali da farmi appena udire la voce che rispon-
deva impedendo qualsiasi conversazione. Tuttavia l'istinto mi diceva che
lei era là, e io ero irritato che avesse atteso una mia assenza per andarvi.
Avevo riappeso senza parlare.
A meno che non l'avessero accompagnata in macchina, Midge doveva
aver preso la strada della foresta per andare al Tempio, e per questo segui-
vo anch'io quella direzione; non volevo perderla se era già sulla via del ri-
torno. Questa, comunque era molto più breve della strada carrozzabile, che
faceva un lungo giro con molte svolte.
Se solo avesse atteso, se solo avessi avuto la possibilità di dirle quello
che avevo saputo! Avrebbe ancora avuto tanta fiducia nei sinergisti? Af-
frettai il passo.
L'illustrazione del libro era un altro ingrediente nella miscela che sentivo
prossima all'ebollizione. Capivo adesso, perlomeno, perché Gramarye mi
era parsa vagamente familiare quando l'avevo vista uscendo dalla macchi-
na in quella prima visita. E perché vi era stato un vago riconoscimento
quando avevo osservato il disegno di Midge alcune settimane dopo. Val
Harradine aveva fatto il collegamento, sebbene non subito: aveva dovuto
controllare l'opera passata di Midge per esserne sicura. I particolari dell'il-
lustrazione erano minuti, ma lo stile dell'artista era meticoloso e sottile,
amorosamente attento a ogni parte della composizione. Nel disegno, la ca-
setta aveva anche un bel giardino.
E li vi era una figura proprio dentro la porta aperta, una figura scura, non
più di un'ombra.
Tutto questo è folle, continuavo a dirmi. Interamente, maledettamente
folle. Il libro era solo un racconto di fate. Una storia per far addormentare i
bambini. E tuttavia ero lì, vagante per la foresta per liberare la mia dami-
gella in pericolo, per salvarla disperatamente dagli artigli del vecchio, ma-
ligno stregone, o mago, o mistico, o comunque si chiamassero questi per-
sonaggi da fratelli Grimm la cui magia era tenebrosa per non dire nera.
Tutto quello che mi mancava era un cavallo bianco.
Sì, ero ridicolo.
Non rallentai il passo nemmeno per un momento.
Perché stavo imparando a dubitare delle mie credenze naturali. Come
tutti dobbiamo fare prima o poi.
Un paio di volte pensai di essermi perduto nel bosco, ma poi avevo visto
qualche cosa che riconoscevo: un tronco abbattuto e marcio, una quercia di
forma particolare, un laghetto formato dalla pioggia, e avevo capito di es-
sere più o meno nella direzione giusta. Infine uscii dalla foresta e vidi la
casa grigia in fondo alla vasta pendenza.
La casa, il Tempio, sembrava invecchiare via via che mi avvicinavo,
mostrando screpolature sempre più evidenti. Il sole rossastro, più dietro,
ormai basso nel cielo, non riusciva a dare un po' di calore all'edificio. Il
mio passo era fermo e deciso, credo, e tuttavia mi muovevo con cautela
mentre mi domandavo se ero osservato da qualcuna delle buie finestre.
Presto lasciai la pianura erbosa e mi trovai su di un terreno più solido;
c'erano quattro macchine parcheggiate presso la svolta, una delle quali era
la solita Citroen. Attraversai quello spazio guardando la casa, così come
sentivo che lei guardava me, e salii la scalinata che portava al portone. Vo-
levo entrare direttamente, ma la porta era chiusa.
Premetti la base del palmo contro il grande pulsante di ottone murato a
fianco della porta e lo tenni premuto. Inoltre mi misi a tirar pugni contro il
battente stesso sfogando così la mia collera.
Presto sentii dei passi nell'interno. La serratura scattò, un battente si aprì
appena e l'Uomo Ossuto guardò dallo spiraglio.
Fece finta di non riconoscermi, ma sapevamo entrambi chi eravamo.
«Midge è qui.» Non era una domanda e quindi non richiedeva risposta.
«Midge?» chiese. La sua voce era scheletrica come la sua faccia.
«Non facciamo scherzi scemo,» dissi, e spinsi forte la porta facendolo
indietreggiare.
Entrai rapido.
«Un momento, lei non può venire qui,» mi avvertì mettendomi le dita
ossute sul petto.
Scostai la sua mano. «Dov'è?»
«Non so di chi parli.»
«Midge Gudgeon. E qui da qualche parte.»
«Credo che lei...»
«Mi faccia vedere Mycroft.»
«Temo che non possa essere disturbato.»
Trassi un sospiro. «Ascolti, non si libererà di me finché non avrò visto la
signorina o Mycroft stesso.»
«Le ho già detto...»
Una porta si aprì nel corridoio e apparve Gillie Slade guardandoci curio-
samente e senza dubbio domandandosi che cosa fosse quel chiasso.
Andai deciso verso di lei con l'Uomo Ossuto alle calcagna, le cui deboli
proteste sembravano il sibilo di una zanzara.
«Gillie, dimmi dove posso trovare Midge,» dissi prima ancora di rag-
giungerla.
«Mike, non puoi...»
«Sì, lo so. Lei è qui, no?»
La fissai e lei abbassò lo sguardo.
«Non è qui forse?» ripetei.
«Sì, Mike. Ma è con Mycroft, e non possono essere disturbati.» Mi fis-
sava con i suoi occhi azzurri e ardenti.
«Disturbati? Che diavolo sta succedendo?»
Altre porte si stavano aprendo, altri volti si affacciarono.
«Per l'amor del cielo, dimmi!»
1 suoi occhi evitarono i miei, e io avrei voluto scuoterla. Invece le passai
oltre e guardai nella stanza da cui era uscita. Volti senza espressione si vol-
tarono a guardarmi con occhi spalancati. L'unico mobilio della stanza con-
sisteva in sedie con lo schienale alto e dritto sparse a caso. I sinergisti vi
erano seduti senza libri sulle ginocchia e niente in mano. Pensai che fosse
la loro versione dell'Ora Felice, l'ora della meditazione.
Midge non era fra loro.
Uscii e attraversai il corridoio: due persone sulla porta si allontanarono
senza far parola permettendomi di guardare nell'interno. Altri sinergisti e
quasi nessun mobile eccetto altre di quelle scomodissime sedie. Alcuni
membri erano accovacciati a terra, apparentemente senza pensare a nulla.
Lei non era lì.
E nemmeno nella stanza accanto.
Né nella successiva.
Né nella biblioteca.
La stanza in cui ero stato condotto al tempo della mia prima (e per me
unica) visita, dove il mio braccio scottato era stato immerso nel liquido
verdastro - che, per quanto ne sapevo, poteva essere usato per lavare i piat-
ti o pulire le posate - e dove Mycroft aveva tentato di impressionarci con i
suoi particolari poteri, era vuota. Non una maledetta anima viva.
La mia frustrazione aumentava. Girai attorno alla larga scalinata e mi
spinsi oltre la porta di una stanza opposta. Era vuota ma più interessante
delle altre. Poltrone di cuoio, piccoli tavoli dalle forme eleganti, un magni-
fico zoccolo di quercia che si stendeva per quasi tutta una parete. Sopra
l'orlo sporgente era incollata una tappezzeria che presentava una croce sti-
lizzata con una rosa emblematica al centro, le braccia e l'asse verticale de-
corati con simboli di vario genere. Sulle altre pareti, fra le alte finestre, vi
erano forme in cui riconobbi i segni dello zodiaco, e, all'estremo, un gran-
de mandala a mosaico, con un quadrato in un cerchio e in esso un mandala
più piccolo. Una maschera di legno era su di un tavolo: lunghe orecchie a
punta e occhi inclinati, come fessure, sopra un lungo muso sporgente: il
muso di uno sciacallo. Sebbene le tende fossero tirate a metà così che la
stanza era in una conveniente penombra, i particolari mi rimasero bene
impressi in mente come se avessi studiato a lungo 1'interno. In realtà ero
rimasto sulla soglia solo per pochi secondi. Penso che l'impressione sia
talvolta dovuta all'aspettativa, non alla sorpresa.
Me ne andai per nulla rallegrato da quella vista. I sinergisti avevano la-
sciato le altre stanze per riunirsi nel corridoio, alcuni parlottando fra loro
mentre altri continuavano a guardarmi in silenzio con risentimento. Mi
sentivo come il visitatore di un manicomio i cui ricoverati pensavano che il
matto fossi io.
Gillie era nell'ingresso e la sua espressione, almeno, mostrava qualche
cosa che non era solo fredda ostilità. Mi avvicinai a lei e le posai una mano
sulla spalla delicatamente, non volendo che lei reagisse in modo ostile.
«Ti prego, Gillie, aiutami. Voglio solo parlare con Midge.»
I suoi occhi parlavano anche se lei non aprì bocca. Mi domandai se il
suo sguardo rivolto verso l'alto fosse casuale o voluto.
Guardai nella stessa direzione, verso la sommità delle scale, e subito la-
sciai la ragazza salendo gli scalini a due a due. Lassù c'era Kinsella seguito
dall'Uomo Ossuto. Questi mi indicò e il sorriso di Kinsella mi lanciò u-
n'occhiata di riluttanza.
«Oh, Mike, che cosa succede?»
Non risposi finché non fui sull'ultimo scalino. «Cerco Midge,» dissi, «e
so che è qui.»
«Certo. Andiamo a prendere un caffè prima.»
Mi mise amichevolmente una mano sulla spalla e io mi ritrassi.
«Vorrei vederla subito,» insistei.
«Oh, in questo momento non è possibile, Mike.» Detestavo quel suo to-
no viscido. «Vedi, è con Mycroft, e non possiamo disturbarli.»
«Perché no?»
«Lo sai quello che lei voleva.»
Credo di essermi mostrato molto allarmato.
Lui confermò col capo sempre sorridendo. Solo che negli occhi azzurri
dell'americano vi era un accenno di malizioso piacere.
«Hai indovinato, Mike. Con l'aiuto di Mycroft, Midge è venuta in con-
tatto con i suoi.»
«Oh, mal...» Mi lanciai, deciso a cercare in ogni stanza del corridoio fino
a trovarla. Ma il suo braccio mi colpì il petto come una sbarra di acciaio.
Lo scostai e cercai di proseguire.
Lui mi afferrò il braccio facendomi fare un mezzo giro, e, per un attimo,
parve che lo zucchero fosse scomparso dalla sua faccia di torta di mele. Il
sorriso tornò subito, ma l'espressione di un pirana avrebbe potuto avere lo
stesso calore.
«Scusa,» cominciò, «ma tu...»
Questa volta spinsi più forte e lui indietreggiò di un paio di passi. Prima
ancora che mi voltassi, lui mi afferrò ancora con una mano attorno al collo
e l'altra sotto l'ascella mandandomi a sbattere contro il muro. Scivolai e
caddi sul pavimento. L'eroe non vince sempre, si sa.
Gillie, che mi aveva seguito sulle scale, si inginocchiò vicino a me men-
tre cercavo di riprendere fiato. Kinsella non sorrideva più e ne ero conten-
to. Cominciai a rialzarmi.
«No, Mike,» mi avvertì Gillie.
Kinsella sembrava impaziente di ricominciare.
Non lo guardai per qualche secondo, ma certo non sarei tornato a casa da
solo.
Mi ero rimesso in piedi e mi preparavo alla lotta quando tutti ci accor-
gemmo di un'altra presenza nel corridoio. Kinsella e l'Uomo Ossuto si vol-
tarono come se fossero stati chiamati. Mycroft era lì, con un bastoncino in
mano. Sulla soglia dietro di lui c'era Midge.
Mi vide e la sentii ansare. Mentre la loro attenzione era sviata, passai
dietro i due uomini che mi bloccavano la strada e corsi verso di lei.
«Che cosa fai, qui?» fu il suo saluto.
Mi fermai perché la sua voce era piena di irritazione.
«Potrei chiederti la stessa cosa,» ribattei. Poi, sempre trattenendo il fiato,
aggiunsi: «Voglio che tu venga via subito con me.»
Sdegnata gridò: «No...»
«Penso che non sia il momento opportuno...»
Guardai Mycroft che aveva parlato. Sembrava più vecchio di centocin-
quant'anni, tutta la sua mitezza era scomparsa. Tuttavia non c'era durezza
nella sua voce; era dolce come sempre.
«Vi sono molte cose che Midge e io vorremmo discutere, Mike, e io l'ho
invitata a restare con noi questa sera. Non deve preoccuparsi: qualcuno la
riporterà in macchina a Gramarye più tardi.»
Scossi la testa. «Lei torna a casa con me.»
Midge mi si mise davanti con gli occhi accesi; ma non di affetto. «Chi
sei per poter dire quello che devo fare o non devo fare? Chi ti dà questo di-
ritto?»
Mantenni la voce bassa. «Lui vuole il villino.»
Sbarrò gli occhi verso di me, poi li rivolse a lui.
«Sei pazzo?»
Questo era per me.
«Hanno cercato di avere il villino da Flora Chaldean,» proseguii deciso.
«Hanno cercato di acquistarlo da lei, ma lei non ha voluto saperne. Lo sai
che ha messo nel suo testamento una clausola in cui proibiva esplicitamen-
te la vendita di Gramarye ai sinergisti o a chiunque avesse a che fare con
loro? Per questo sono state fatte indagini su di noi. Per questo il procurato-
re ha voluto avere informazioni sulla nostra vita privata. Sono andato da
Ogborn questo pomeriggio e mi ha detto tutto... dopo qualche pressione,
naturalmente. Lei voleva che loro non avessero mai Gramarye, Midge, e
doveva avere delle buone ragioni.»
«Non può essere vero.»
«Domandalo tu stessa a Ogborn. O perché non te lo fai dire da Mycroft?
Non credo che darà una risposta onesta, però. Lei non voleva vendere e co-
sì credo che loro siano ricorsi ad altri metodi. Devono avere cercato di
spaventarla.»
Mycroft rispose scuotendo tristemente la testa.
«Ci avete fatto credere di non avere mai visto il villino,» dissi rivolgen-
domi a lui, «Ma due sere fa lei sapeva che c'era un'altra entrata sul retro.»
«Una supposizione ragionevole: l'ho pensato considerando che vi erano
dei gradini che giravano attorno alla casa. E la maggior parte delle case
non ha forse una porta sul retro?»
«È vero. Ma il modo con cui lo ha fatto mi ha indotto a pensare. Si sen-
tiva così a disagio e non è voluto entrare in cucina. Anche Kinsella, una
volta, si è sentito sconvolto stando là. Non ho potuto fare a meno di do-
mandarmi se lei si era innervosito perché la vecchia Flora era morta là.»
Midge diede un breve ansito. «Mike, non sai quello che dici.»
«Hai visto da te quello che è successo quando sono venuti a trovarci.
Perdio, Midge, verso la fine non vedevano l'ora di andarsene.» Sentii Kin-
sella e l'altro uomo avvicinarsi furtivamente alle mie spalle. Afferrai Mi-
dge per le braccia. «Va bene, Midge, tutto questo sembra pazzesco, lo
ammetto; ma sono successe troppe cose che mi hanno preoccupato. Crib-
bio, da quando ci siamo trasferiti qui è avvenuto abbastanza da farci ven-
dere l'anima al diavolo. E tuttavia tu sei rimasta cieca a tutto, e io non pos-
so fare a meno di chiedermi il perché anche di questo. Così ho finito con
l'andare da Ogborn per avere alcune informazioni.»
«Se Flora si sentiva minacciata in qualche modo, perché non si è rivolta
alla polizia?» chiese Midge.
«Per dirle che cosa? Hai visto come operano, come si sono insinuati nel-
la nostra vita. Nulla di esplicito e di palese: sono troppo furbi per questo. E
certo non vi fu alcuna violenza fisica nei riguardi della vecchia signora.
Un'organizzazione fondata su di un culto misterioso non può seguire que-
sta linea: darebbe alla legge un'occasione troppo buona per intervenire.
Certo la gente di qui ne sarebbe stata contenta, se Sixsmythe ha qualche in-
fluenza. Ma Mycroft e la sua congrega non sono stupidi e non corrono ri-
schi. Quello che non capisco è perché Gramarye sia così importante per lo-
ro.»
Kinsella e Uomo Ossuto mi respiravano sul collo.
«Lei ha un'immaginazione molto fervida Mike,» disse Mycroft senza la
minima traccia di irritazione. «Naturalmente posso apprezzare la sua cu-
riosità per la nostra setta, ma non so perché sia giunto a una conclusione
così negativa su di noi.»
«Lei non può negare di avere molestato Flora Chaldean.»
«Molestare è la parola giusta. Sì, abbiamo insistito, ma la nostra inten-
zione è stata fraintesa. Flora era una vecchia signora sola e, in certo modo,
senza risorse, che conduceva un'esistenza molto misera. Noi le abbiamo
semplicemente offerto il nostro aiuto e la nostra attenzione.»
«Voi volevate il villino.»
Sorrise benignamente. «Una via legale per far sì che una donna orgo-
gliosa accettasse la nostra carità. Avrebbe continuato a vivere là, sotto la
nostra amministrazione, ottenendo un considerevole utile finanziario che le
avrebbe permesso di sentirsi indipendente.»
Mi battei la mano sulla fronte. «Oh Dio, questa è buona! Lei è così ma-
ledettamente tortuoso!»
«Voglio soltanto aiutare Midge a superare un dolore personale che è du-
rato anche troppo.»
«E forse, poi, diventerà uno dei vostri cosiddetti Adottivi.»
«Può fare questa scelta. Ma io desidero aiutare anche lei, Mike, e forse
convincerla della nostra sincerità. Lei è un giovane turbato, con un sacco
di idee sbagliate in testa e molto cinico. Io potrei aiutarla a trovare la sua
strada.»
«Non mi ero accorto di averla perduta.»
«Lei non ha mai conosciuto la strada giusta. Crede nella magia?»
Il cambiamento di discorso improvviso mi fece sussultare. «Magia?»
chiesi con stupore.
«La scoperta e l'applicazione delle forze sconosciute della natura attra-
verso la volontà umana. Un'alleanza fra i due poteri. Può essere definita si-
nergismo.»
«Che cosa significa...?»
«L'obiettivo più importante della magia è la scoperta del nostro vero io.
Con la mia guida e la mia volontà posso aiutarvi a raggiungerlo.»
«Midge, andiamocene.» Le presi il braccio.
«Solo un attimo per spiegarvi,» disse Mycroft. «Non chiedo altro.»
«Ti prego, Mike.» Midge faceva resistenza.
«È un maniaco, non te ne accorgi?»
«Mike, ho appena parlato con i miei genitori.»
Prima avevo sussultato, adesso ero sbalordito.
«Mi ha aiutato a raggiungerli.» Era giunta quasi al pianto, ma insieme
sorrideva. «Ho parlato con loro solo pochi momenti fa, ma i rumori di fuo-
ri ci hanno disturbato, hanno sconvolto i moduli di pensiero creati da
Mycroft.»
«Hai visto tuo padre e tua madre?»
«No, ma li ho uditi, ho udito le loro voci.» La prima lacrima cominciò a
scorrere scivolando nella piega del suo sorriso. «Mi hanno perdonato, Mi-
ke.»
«Per l'amor di Dio, non c'è nulla da perdonare!»
«Ascoltami, sono felici per me, ma mi hanno detto che devo seguire la
mia strada...»
«Lasciami pensare...»
«Ascolta, dannazione!» gridò lei.
Mycroft le toccò una spalla. «Si calmi. L'ira non ha ragione di essere, in
questo Tempio.»
Roteai gli occhi.
«Forse solo se vedrà si convincerà. Può prepararsi ad aprirci la mente e
il cuore, Mike? A mettere da parte questo scudo di diffidenza?»
«Migliorerà il dialogo?»
Midge mi colpì il petto. «Una volta tanto vuoi ascoltare qualcun altro?
Puoi... puoi ammettere che intorno a noi ci sia qualche cosa di più di quel-
lo che vediamo e udiamo?»
«Se la mia risposta è no, verrai via con me?» Qualche cosa mi stava sca-
vando l'intimo: sapevo che stavo per perderla.
Anche lei lo sapeva. «Non posso venire con te, » ripetè Midge, ed era
così piccola, così indifesa. «Ne ho bisogno, Mike, non capisci?»
Idiota che fui, mi voltai verso Mycroft e dissi: «E allora parliamo.»
La soddisfazione rimase nei suoi occhi. Potei quasi sentire il respiro di
sollievo di Kinsella e del suo compagno, che mi scaldava il collo. Adesso
erano sicuri di avermi.
Mycroft si fece da parte e con un breve gesto del suo bastoncino indicò
la stanza che lui e Midge avevano lasciato pochi minuti prima. (Questa
nuova affettazione con il suo bastoncino mi meravigliò, e solo più tardi
scoprii il suo significato). «Credo sia meglio che parliamo qui.»
Midge non esitò. Sembrava desiderosa di rientrarvi.
Io la seguii con meno zelo.
Entrai nella stanza più strana che avessi mai visto.

34.
LA STANZA A PIRAMIDE

Era a forma di piramide, con le pareti rastremate, ripide e alte, a punta,


così che non vi era soffitto.
E nera.
Anche il pavimento era nero.
Sopra di noi - all'altezza di almeno tre metri - brillavano piccole luci in-
cassate, una in ogni parete triangolare, i loro raggi sottili, rifratti da granel-
li di polvere, rivolti verso il basso come dritte sbarrette translucide, crea-
vano quattro lune dai margini sfumati sul pavimento lucido. II loro baglio-
re divenne sensibile solo quando la porta fu chiusa dietro di noi.
Allora nella stanza discese l'oscurità.
Mi resi conto che la stanza superiore doveva far parte della piramide e
che le pareti inclinate dovevano attraversare il soffitto forse penetrando
anche nel soffitto di quest'altra stanza.
Una sola sedia era al centro del pavimento, circondata da quattro raggi
sottili.
«Che cosa fate qui? Affilate lame da rasoio?»
Nonostante la scarsa luce capii che il mio sarcasmo non aveva divertito
Mycroft. «Come le guglie di una chiesa sono costruite per attrarre grazia
spirituale, così la piramide cerca di catturare energia psichica, » disse. «La
forma si ripete sotto di noi, rovesciata, naturalmente, così che la punta
sfiora la terra.»
Si sedette, posando le mani sul manico smussato del bastoncino. «Mi-
dge, vuole sedersi come prima? E forse anche lei vorrà fare lo stesso.» Non
si era curato di pronunciare il mio nome.
Io non ero molto desideroso di rannicchiarmi ai piedi del sinergista, ma
dopo tutto, avevo camminato molto nella foresta. Seguii l'esempio di Mi-
dge, evitando tuttavia la posizione del loto e preferendo appoggiarmi su di
un gomito incrociando le caviglie e dando l'impressione di essere perfet-
tamente rilassato. Midge e io eravamo fra due raggi, e io mi voltai per
guardare il suo profilo. Stava osservando Mycroft intensamente. Vi era
nell'aria odore di incenso.
Il sinergista si chinò verso di me. «Lei non ha risposto alla mia doman-
da,» disse:
«Quale domanda?»
«Crede nella magia?»
«Conosco qualche trucco con le carte...»
Mi interruppe ma senza irritazione. «Può considerare l'Uomo come l'i-
dentica controparte dell'universo e di tutte le sue forze, e l'universo stesso
come non più, e certo non meno, di un infinitesimo organismo umano?
Può ammettere che l'energia che guida e governa l'universo sia la stessa
che c'è in noi? Può capire che l'Uomo, con questa intima conoscenza, pos-
sa imparare a trascendere tutti i limiti materiali e infine il tempo e lo spazio
stessi?»
Non sapevo se si aspettasse una risposta, ma tuttavia gliene diedi una
mantenendo la rudezza per mio piacere e forse nella speranza di scalfire la
sua sicurezza.
«Non riesco a capire nemmeno la domanda,» risposi.
«Naturalmente no. Forse ho sopravvalutato la sua intelligenza.»
Si era aperta la prima fessura. Sorrisi fra me apprezzando l'insulto.
«Nondimeno,» proseguì con lo sguardo perduto nell'ombra, «sono sicuro
che non sarà difficile per lei capire che la conoscenza umana si vuole chiu-
dere in una realtà limitata, di cui non ha paura e che gli scienziati e i filoso-
fi materialisti ci presentano come la realtà. Purtroppo noi vogliamo vedere
solo l'attualità meno importante. Le altre realtà che ci circondano - e che
sono dentro di noi - sono state per lo più ignorate negli ultimi secoli.»
«Non dica stronzate.»
Le sue mani afferrarono appena un poco più strettamente il pomo di me-
tallo del bastoncino. «Eccetto che, recentemente, la realtà delle precogni-
zioni, della percezione extrasensoriale, della psicocinesi è stata accettata
anche dagli scettici più ostinati. Questi poteri nascosti che sono stati re-
spinti così a lungo dagli scienziati, sono oggi oggetto di studio scientifi-
co.»
Cominciavo a spazientirmi. «Non vedo come questo abbia a che fare con
la magia.»
«Davvero non capisce dove miro? Questi poteri che vengono riconosciu-
ti dai settori più pragmatici della nostra società, furono una volta conside-
rati la sfera del magico o del soprannaturale. Si pensava che tali poteri fos-
sero avulsi dall'ordine normale della natura, ma era un grosso errore: i ma-
ghi cercano solo di scoprire queste forze nascoste e di operare attraverso di
esse e con esse, sia che facciano parte di noi o parte dell'insieme.»
Per quanto tentassi di tenermi lontano da tutto questo, dovevo ammettere
che Mycroft stava avendo la meglio. No, non voglio dire che seguissi quel-
lo che stava dicendo, ma la sua voce era sottilmente persuasiva, quasi ip-
notica (siete stati mai ipnotizzati? Si sa quello che avviene, ma non si capi-
sce come avviene); la stranezza della stanza con il suo odore di incenso e
le morbide luci proiettate verso il basso, provocavano effetti speciali. A
tutto questo bisognava resistere consapevolmente. Finsi di sbadigliare.
Lui finse di non accorgersene.
«Dobbiamo imparare per gradi, dapprima eliminando le costrizioni im-
poste fin dalla nascita e rinnovandoci. Le convenzioni, il razionalismo, il
materialismo, i nostri principi e la nostra etica non sono altro che schermi
psicologici. Dobbiamo tornare fanciulli, purificati da tali influenze. I bam-
bini credono nella magia finché non sono influenzati altrimenti. Le creden-
ze della maturità non illuminata devono essere rovesciate e le ostacolanti
dottrine della religione devono essere contrastate, perché la religione riser-
va il potere divino solo a Dio, mentre la magia offre il divino potere a tut-
ti.»
Io mi facevo piccolo intimamente aspettando che cadesse la folgore.
Purtroppo non cadde.
«Ogni passo che l'iniziato compie deve essere sperimentato e dominato,
ogni nuovo mistero rivelato deve essere contemplato, ogni fase di sviluppo
deve essere considerata. E forse il primo e più importante segreto è quello
che si trova in noi stessi.»
Si curvò in avanti così che il suo mento quasi si appoggiò sulle sue mani
raccolte sul bastone, e la sua voce si fece più bassa.
«Ossia,» disse gravemente e confidenzialmente, «il mistero della nostra
stessa energia, delle nostre forze astrali nella terra stessa, e così pure delle
infinite forze dell'universo. Un mago, amico mio, è sempre in cerca di que-
sti legami nascosti.»
Si irrigidì ancora, e il suo volto divenne di pietra. Io avevo la bocca ari-
da.
«E quando questi legami sono scoperti,» aggiunse con la stessa voce
bassa, «possono essere usati per gli scopi del mago.»
Mi lasciò il tempo di meditare.
«Tutto questo per far uscire un coniglio da un cappello?» chiesi.
Mi concesse un freddo sorriso.
«Tutto questo per scoprire il nostro vero io e il potere velato che abbia-
mo. Non vi è nulla di più fondamentale né di più trascendente. Con questa
conoscenza un uomo ha accesso alle illimitate forze della sua volontà. Può
evocare un'immaginazione così concentrata e così viva da poter creare una
realtà nella luce astrale.»
Diresse la punta del bastoncino verso il pavimento, presso le mie gambe.
«Questa realtà può essere riflessa nel mondo fisico, se lo vogliamo.»
Il mio coniglio apparve nel punto che lui stava indicando.
Io mi tirai indietro e Midge tirò un respiro affannoso.
Il coniglio contrasse il naso.
Allungai un braccio verso la sua bianca pelliccia che sembrava finta.
E ritrassi la mano vedendolo trasformarsi in un nero ratto dai denti aguz-
zi. I ratti mi fanno ribrezzo.
Poi scomparve, e Mycroft esibì un sorriso da che cosa ne pensate?
Battei le ciglia davanti a quell'illusione, ma mi trattenni dal chiedergli
come avesse fatto. Nessuno ama gli esibizionismi. Inoltre dovevo rimettere
in ordine i miei pensieri.
«Magia da poco,» disse Mycroft con aria sprezzante, «un esempio vol-
gare del potere della volontà.»
Puntò il bastone verso uno spazio tra due raggi di luce alla mia sinistra e
apparve un tavolino con sopra una bottiglia e un bicchiere vuoto. Mentre
guardavamo, la bottiglia si alzò, si inclinò e versò un liquido rosso nel bic-
chiere.
Sbigottito mi voltai verso Midge: il suo volto era pieno di rispetto reve-
renziale come quello del bambino in Incontri ravvicinati. La pura, ingenua
innocenza della sua espressione mi diede il desiderio di afferrarla e portar-
la via da quell'oscura stanza a punta dove la fragranza dell'incenso comin-
ciava a divenire insopportabile. La mia mente era concentrata sulla fuga, e
quando riportai lo sguardo sul tavolino con il vino, la sua immagine on-
deggiava e i suoi contorni erano incerti. Poi tornarono netti e ripresero so-
lidità.
«Potete bere,» disse Mycroft con noncuranza. «Il gusto vi piacerà, ve lo
assicuro.»
«No, grazie,» dissi. Lui abbassò il bastone e l'immagine di dissolse rapi-
damente.
Sapevo quello che stava facendo, ma non come: avevo sempre pensato
che gli ipnotizzatori dovessero dire verbalmente quello che doveva essere
visto o fatto, o il modo con cui si doveva reagire. Tuttavia ero sicuro che
ciò che avevamo osservato non esisteva fuori dalla nostra immaginazione.
Stavo cercando una battuta quando Mycroft fece curvare i raggi di luce.
Cerchi di luce opaca cominciarono a muoversi lentamente: i due di fron-
te toccarono i piedi del sinergista, mentre i due di dietro risalirono le gam-
be della sedia. Lui rovesciò il bastone così che la punta si rivolgesse al suo
volto, e i polverosi raggi si mossero in quella direzione curvandosi a poco
più di un metro dal pavimento fino a formare un angolo retto. La fronte di
Mycroft fu illuminata e la sua pelle parve abbagliare per la tensione.
In quel momento sentii in Mycroft qualche cosa di più di quanto avessi
mai sentito.
L'energia, la vibrazione, comunque questo invisibile vigore potesse esse-
re chiamato, sembrava danzare sulle sue guance come in minute scintille
elettriche, e i suoi occhi, fissi nei miei, erano cristallini e lucenti, pupille
sfaccettate che riflettevano la luce. Le profonde rughe che avevo osservato
sul suo volto nel corridoio erano scomparse, portate via da quel bagliore
solare; ogni piano del suo cranio rifletteva una luce diversa, alcune bril-
lanti, altre più fioche, ma non vi erano ombre. I tratti del suo viso si fusero
senza lasciare prominenze, il naso fu al livello delle labbra, la fronte a
quello delle occhiaie: tutto fu una semplice maschera la cui forma dipen-
deva dai gradi in cui veniva riflessa la luce. Anche i suoi capelli erano
d'argento luminoso.
Una vista che mozzava il fiato.
Per un attimo, tutta la sua testa si infiammò - o parve infiammarsi - e se
ne irradiò un intero spettro di colori, espandendosi finché la stanza triango-
lare fu tutta piena di quelle screziature, eliminando ogni ombra e costrin-
gendo me e Midge a ripararci gli occhi.
Ma non prima che entrambi vedessimo altri mondi entro quei sottili co-
lori di arcobaleno che si elevarono, fluttuanti pianeti che sembravano cel-
lule, stelle e soli lucenti, verdi, blu, viola intenso, forme che erano a volte
umane e a volte vaste masse protoplasmiche, una coagulazione di forze vi-
tali. Sperimentammo la solitària oscurità dello spazio infinito, che era
l'ombra nera del tempo stesso, entrambi proiezioni della stessa non entità;
sentimmo immense maree di volubili emozioni che invadevano quelle sot-
tili galassie formando destini e creando forze che sarebbero divenute roc-
cia e carne, e ancora emozione: energia creativa che genera se stessa, fonte
di ogni cosa, progenitrice di tutto ciò che conosciamo e di tutto ciò che non
conosciamo.
E al centro di questa rivelazione vedemmo un biancore che ci avrebbe
bruciato gli occhi se fosse stato reale; e fu questo non la luminosità della
stanza, quello che ci spinse a coprirci il volto con le mani.
Ma tutto questo fu solo un'occhiata, non di più, un'occhiata permessaci
da Mycroft.
Tornò l'oscurità e l'odore d'incenso persisteva.
Scossi la testa stordito, più stanco che allarmato. Il calore pervadeva le
mie membra, dalla testa ai piedi, poi svanì dissipandosi.
Mi volsi a Midge, incerto se restare ancora. Mycroft, tornato allo stato
normale mentre i raggi luminosi tornavano rigidi, guardava impassibile
come un entomologo che osservi uno scarabeo lottare con uno spillo con-
ficcatogli nella schiena.
«Midge, Midge, tutto bene?»
Si copriva sempre la faccia con le mani, e io delicatamente gliele allon-
tanai. Battè le palpebre come se non mi riconoscesse, e io notai la luce
bianca che scintillava ancora nelle sue pupille, ma lontana, sempre più de-
bole, fino a scomparire. Lei guardò dietro di me, verso Mycroft, e abbozzò
un sorriso.
Mi voltai e la faccia di lui rimase impassibile.
«Che cosa è stato?» chiese Midge senza fiato.
Mi aspettavo dal sinergista una risposta profonda, ma lui si limitò a sor-
ridere enigmatico.
«Sì, vorrei saperlo,» dissi.
«Siete stati spettatori dei misteri.»
Molto profondo.
«Non ci dice molto.»
«Che cosa credete di aver veduto?»
Fu Midge a rispondere. «Credo di aver visto l'origine di tutte le cose, ma
era incompleta, solo un frammento.»
Annuì lentamente (un po' troppo ostentatamente, tuttavia, come se faces-
se parte dello spettacolo). «Una visione, solo un barlume. Niente altro. La
vostra immaginazione ha tradotto la verità in una visione che la vostra
mente poteva percepire, ma solo questo. In questi momenti la vista può es-
sere inutile come le parole, l'immaginazione è inadeguata come la ragione.
Perfino il sogno può appena intuire l'unità.»
Comunque mi aveva dato il mal di testa. «Un bello spettacolo, Mycroft,
ma a quale scopo? Per impressionarci?»
«Forse.»
«Siamo impressionati. Adesso possiamo andarcene?»
«Ci ha fatto vedere il suo potere,» disse Midge chinandosi in avanti, con
ardore.
«Ho rivelato un canale del potere, un canale che percorre il mio corpo e
la mia mente,» rispose Mycroft. «Vi sono in noi altri... canali più forti che
devono essere cercati e trovati. Punti di accesso, condutture, chiamateli
come volete. Possono essere usati...»
Tacque improvvisamente evitando il nostro sguardo. Credo che fosse
stato rapito dal suo stesso genio.
«Non capisco che cosa voglia da noi,» insistetti. «Noi non desideriamo
diventare sinergisti né niente di simile...»
«Credo che la sua compagna lo desideri, » rispose, misterioso come
sempre.
«Li cerchi ancora,» disse Midge. «Faccia che mi parlino, che Mike li
senta con le sue orecchie.»
Entrambi sapevamo quello che lei intendeva.
Le toccai una mano. «È una follia. Non vedi quello che sta facendo?
Proiezione di pensiero, manipolazione della mente, ipnotismo: sono tutti la
stessa cosa. In realtà non è avvenuto niente. Mycroft ci fa vedere tutte que-
ste cose, ma non sono reali...»
«La loro presenza è nella stanza,» mi interruppe Mycroft. «Posso sentir-
li, e anche lei.» Si rivolgeva a Midge.
«Sì,» rispose lei semplicemente.
«Hanno altre cose da dirle.»
Lei annuì.
«Vogliono che ascolti.»
Lei assentì ancora, con gli occhi chiusi.
E adesso potei sentire qualche altra cosa nella stanza. Ma non so se
Mycroft lo voleva.
«Stanno parlando,» disse Midge con voce soffocata.
«Io non sento niente.» Anche la mia voce era un sussurro.
Una brezza ci sfiorò.
«Sono deboli, ma sono qui.» Midge aprì nuovamente gli occhi.
Notai che Mycroft la fissava intensamente. Poi volse la sua attenzione a
me e le sue pupille furono come piccoli buchi neri, senza fondo, ma non
vuoti.
Apparve un'ombra dietro di lui, grigia e nebulosa, che si faceva avanti. E
dietro di essa un'altra, proprio vicino alla sua spalla sinistra. Entrambe
prendevano forma rilucendo.
Voci. Lontane un'eternità. Da un'altra dimensione. E tuttavia non erano
voci. Erano pensieri che si imponevano al nostro pensiero.
«Papà,» disse Midge.
Una delle leggere nubi alle spalle di Mycroft si agitò come se sospinta
da una corrente d'aria.
Poi la brezza diventò sempre più forte.
«Mostra a Mike che sei realmente qui.» Era una preghiera di Midge.
La nebulosa prese una forma più definita: una testa vaporosa, la linea di
una spalla. Divenne quasi liquida, increspandosi mentre i lineamenti si
profilavano. Quei lineamenti lentamente mi divennero familiari, pur re-
stando ondeggianti e indistinti.
Una parola mi si insinuò nella mente:
«... Fiducia...»
Ma non volevo avere fiducia, perché lui intendeva che avessi fiducia in
Mycroft: questo nebbioso spirito del defunto padre di Midge mi stava di-
cendo di credere nel sinergista, e io non volevo perché sapevo che era un
ciarlatano, che aveva qualche mira su Midge, ma non sapevo che mira fos-
se, e volevo resistere, resistere, volevo...
Rivolsi il mio sguardo alla seconda forma fluida dietro l'altra spalla di
Mycroft, e anch'essa mi era familiare, un volto che Midge mi aveva mo-
strato in fotografia molte volte nel passato, e anch'essa, il fantasma di una
donna, mi disse:
«... fiducia... in... lui...»
Midge, in ginocchio si voltava verso di loro alzando il volto ravvivato da
una sua propria lucentezza nonostante l'oscurità che ci circondava, e io la
trattenni con un braccio attorno alla sua spalla mentre le tenevo il polso
con l'altra mano; ma lei si spingeva in avanti avvicinandosi a Mycroft sulle
ginocchia come uno zoppo verso il guaritore, un neofita verso il suo sacer-
dote.
Per un attimo la maschera dietro cui lui si nascondeva cadde rivelando il
piacere del trionfo.
Io colsi questo lampo di giubilo e qualche cosa scattò in me come il col-
po di un dito sulla finestra del mio cervello, avvertendomi di non accettare
nulla di tutto questo. Questi fantasmi erano vapori senza né forma né pen-
siero.
«È un trucco ! » gridai a Midge tirandola giù, così che entrambi cadem-
mo ai piedi di Mycroft. «Questi non sono i tuoi genitori: è lui che ce li fa
vedere!»
Lei diede un grido rifiutando le mie parole, lottando con me.
La raffica era divenuta una tempesta che ci scompigliava le vesti e di-
sperdeva i vapori così da ridurli a nulla.
Mycroft si guardò attorno come spaventato, e questo mi stupì. Mi chiesi
quale nuovo gioco stesse giocando. All'improvviso parve confuso non me-
no di me. Il sinergista si alzò a metà, ma il vento lo respinse all'indietro.
Alzò il bastone per dominare quella tempesta, ma i suoi occhi incontrarono
i miei.
In un'altra occasione avrei riso vedendo la sua bocca aprirsi inerte, ma in
quel momento la situazione non suggeriva allegria. Mi guardava come se
non credesse a quello che avveniva, e io non capivo perché.
Finché non mi resi conto della nube che usciva dalla mia bocca come il
fumo di una sigaretta.
Usciva anche dalle mie dita serpeggiando in spire, salendo nell'aria per
essere dispersa in tutta la stanza dal vento ululante. Era come se il mio in-
terno stesse bruciando e la mia bocca e le punte delle mie dita fossero i
punti da cui il fumo poteva fuggire: e tuttavia non vi era dolore, solo una
grande leggerezza dentro di me.
La nebbia fluttuava nella stanza uscendo sempre di più da me così da
prender forza, turbinando come una tromba d'aria in miniatura con noi al
centro.
In essa vi erano altre voci.
Potevano essere quelle di prima, suoni nella nostra mente, ma sembra-
vano provenire dallo spazio intorno a noi. E queste non avevano niente a
che fare con Mycroft perché lui si riparava dietro il bastoncino come se
fosse uno scudo.
Quando le voci divennero percepibili, il loro messaggio fu diverso: «La-
sciate questo luogo... lasciate questa casa...»
Due voci, due suoni mentali che gridavano insieme col vento.
Midge guardò la nebbia turbinante e il suo volto fu inondato dalle lacri-
me.
La sua voce fu come quella di un bambino, un bambino di cinque anni:
«Mammina... Papà...»
Ebbi paura.
«Mamminaaa... Papààà!»
Adesso aveva l'aspetto di una bambina.
Saltai in piedi, sollevato se non altro dal fatto che il flusso fumoso aveva
smesso di scaturire da me. Gli occhi di Midge erano spalancati e imploran-
ti. Mycroft era ancora rannicchiato a terra, anche lui con gli occhi spalan-
cati, ma atterriti. Questo per me era eccellente.
«Vieni, Midge.» La presi per mano.
Mi guardò per un istante. «Sì,» gridò. «Sì!»
Mentre si alzava, il vento rapidamente scomparve, e i vapori si levarono
nell'aria rimanendovi sospesi. Poi cominciarono a dissolverei.
Non attesi più. Condussi Midge alla porta strofinandomi il dorso contro
lo spessore della parete inclinata. Spalancai la porta e trovammo Kinsella e
Uomo Ossuto che aspettavano con un paio di sinergisti. Sembravano al-
quanto allarmati.
Strinsi il pugno. «Levatevi di torno! Via di qui!»
Kinsella parve incerto, ma era un duro. Si preparò a caricarmi.
«No!» gridò Mycroft dall'interno della stanza a piramide. «Non qui. La-
sciateli andare.» Poi, più piano: «Lasciateli andare...»
Ce ne andammo. Ce ne andammo come pipistrelli dall'inferno.

35.
FUGA

La pianura in pendenza che veniva dai boschi non era sembrata forse co-
sì ripida nel discendere, ma il risalirla fu diverso: avevamo l'impressione di
fare una scalata. 1 muscoli delle cosce mi dolevano, e il peso di Midge che
si aggrappava a me rendeva l'ascesa ancora più dura. La prima fila di alberi
sembrava lontanissima.
Ma eravamo spaventati e non vi è niente come la paura per pompare l'a-
drenalina. La nostra fuga può essere mancata di stile, ma non d'impeto.
Midge incespicò una volta, a mezza strada, e, mentre la rimettevo in pie-
di, guardai la casa. Si ergeva come un immenso monolito, grigia fredda
come una tomba, pronta a sradicarsi e a muovere pesantemente dietro di
noi. Sebbene non potessi vedere in quelle buie finestre, sapevo che i siner-
gisti stavano osservandoci di là.
Midge aveva già il fiato grosso, e vi era in lei una fragilità preoccupante.
«Che cosa... che cosa è successo, laggiù Mike?» ansimò.
«Mycroft,» mi limitai a rispondere.
La spingevo avanti stringendole il gomito, tenendola dritta e in moto,
desideroso solo di essere al coperto, lontano da quegli occhi. L'avanzata
sembrava lenta come in un incubo, come se affondassimo i piedi nel fan-
go; e tuttavia il suolo, sotto l'erba, era asciutto e solido. Alla fine dovetti
passare un braccio attorno alla vita di Midge e sostenerla col fianco per
non farla fermare.
La luce era scarsa, il sole non era più che una rossa cupola all'orizzonte.
La notte si avvicinava. E presto la foresta sarebbe stata buia.
Senza fermarmi volsi ancora la testa, e forse mi aspettavo che i sinergisti
(gli iniziati, quali realmente erano) uscissero dal Tempio per darci la cac-
cia. Ma nessuno risaliva la collina dietro di noi, e la casa era grave e ferma
come prima. E allora perché diavolo sentivo qualcuno che mi respirava
dietro il collo?
Raggiungemmo gli alberi con un movimento triste e lento e uno sforzo
esagerato, ma sul ritmo di una colonna sonora di Vangelis. Ma finalmente
ci arrivammo e il sollievo fu immediato: ci togliemmo un peso di dosso, ci
liberammo da un legame che ci tratteneva. Mi dicevo che era il fresco della
foresta, ma sentivo che vi era qualche cosa di più. Eravamo fuori vista dal-
la casa.
Midge si appoggiava a me con un braccio abbandonato sul mio collo,
sollevando il petto come se le mancasse il respiro. Le baciai il sommo del-
la testa affondando una mano nei suoi capelli e tenendola stretta. Le diedi
il tempo di riprendersi e di calmarsi rassicurandola con sussurri. Ma non
volevo restare lì troppo a lungo.
Il crepuscolo ci minacciava, le ombre fra gli alberi infittivano. 1 rami
sopra di noi erano come braccia contorte, agitate dalla nostra intrusione,
alcuni bassi come se pronti ad afferrarci se passavamo a portata, il foglia-
me vicino ondeggiava come se qualche cosa strisciasse nel folto. Vi erano
altri occhi nella foresta, diffidenti e ostili alla nostra presenza.
«È meglio che continuiamo a muoverci,» dissi a Midge accarezzandole
la guancia con un dito, «prima che diventi troppo buio per trovare la via di
casa.»
«Devo capire, Mike. Devo sapere che cosa ci è successo, che cosa è av-
venuto laggiù nel Tempio.»
«Parleremo camminando.»
Si aggrappò a me.
«Perdonami per come mi sono comportata in questi ultimi giorni,» mi
disse piano. «Non posso spiegare perché o a che cosa stessi pensando...
perché ti biasimavo tanto.»
«Non è colpa tua. Credo... credo che altre influenze fossero implicate.
Non so, è tutto così misterioso: tutto quello che è avvenuto da quando ci
siamo stabiliti a Gramarye è stato folle, e in qualche modo lo abbiamo ac-
cettato... o per lo meno non abbiamo discusso troppo la sua follia. Non è
colpa tua, Midge, ma è qualche cosa che ha a che fare con te. Con te e con
il villino.»
La portavo via tenendola per mano, come una bambina, e camminando
parlavo: le dissi dell'illustrazione da lei dipinta per il libro di fiabe anni
prima - quella che la sua stessa mente non le aveva permesso di ricordare
- e di come Gramarye aveva fatto parte di quel disegno molto prima che lei
l'avesse vista; evidentemente era già esistita in qualche modo dentro di lei,
chiusa nel suo inconscio, precognizione di qualche cosa o di qualche luogo
che sarebbe stato. Le ricordai che era stata lei a trovare sul giornale l'avvi-
so di Gramarye e aveva cerchiato di rosso solo quello, ignorando gli altri.
E l'associazione, l'unione, era stata da lei stretta non appena era arrivata là.
Doveva essere così. Il procuratore di Flora Chaldean mi aveva detto delle
istruzioni che la vecchia signora gli aveva lasciato prima di morire: i parti-
colari delle persone che avrebbero potuto acquistare Gramarye e viverci.
Persone giovani, sensibili, di evidente onestà, tipi speciali. Erano questi i
requisiti: nessuna meraviglia se il vecchio procuratore aveva mostrato tan-
to interesse per lei.
«Il villino era destinato a qualcuno come te, Midge.» Scostai un ramo
che ci ostacolava il passaggio. «Non chiedermi perché, non so darti alcuna
risposta ragionevole. Tutto quello che posso supporre è che vi sia in te
qualche cosa che è intonato con ciò che di magico può esservi in Gramar-
ye.»
Mi costrinse a fermarmi.
«Magico?»
Mi strinsi nelle spalle. «Sì, sono imbarazzato. Ma come altrimenti posso
chiamarlo? Ricordi l'uccello con l'ala spezzata? Quando lo trovammo che
volava per la cucina, il giorno dopo, pensammo che non poteva essere feri-
to così gravemente come avevamo creduto. E tutte quelle altre piccole co-
se. I fiori che erano rifioriti, gli animali e gli uccelli che si affollavano da-
vanti alla porta. Questo non è normale: ci eravamo solo adattati a crederlo
tale. Forse qualche tipo di relazione con la vita della foresta potrebbe esse-
re stabilito fra qualche anno... ma frattanto?»
Ripresi a camminare e lei mi tenne dietro.
«Il villino stesso. Guarda tutte le cose che non funzionavano: le porte
deformate, il legno marcio, l'architrave spezzato. O'Malley non le ha ag-
giustate. Si sono aggiustate da sole, perbacco! E per merito tuo.»
La mia voce risuonava nella foresta. Mi fermai ancora a guardarla.
«E sì, il mio braccio. Pensavamo che Mycroft avesse guarito le bruciatu-
re, ma adesso non penso affatto che sia stato lui. Certo ha una qualche sor-
ta di potere, ne abbiamo appena avuta la dimostrazione. Ma è un potere
che viene dalla sua testa, è quello che lui fa credere alle persone. Mi aveva
convinto che il braccio non mi facesse più male - forse il liquido usato ha
aiutato in qualche modo - e qualche cosa ha prevalso sul mio scetticismo.
Ma penso che quella che mi ha realmente guarito sei stata tu. Anzi, tu e
Gramarye. Siete una maledetta coppia! Gesù, non mi meraviglio che
Mycroft avesse tanto interesse per te. Una bella conquista per il movimen-
to sinergista. Volontà umana e Potere Divino: tu ne sei un esempio viven-
te.»
Lei mi guardava scuotendo la testa, ma dai suoi occhi potevo capire che
credeva a quello che dicevo. Un uccello scattò via da un albero sopra di
noi e ci voltammo a guardare nervosamente. Un gruppo di foglie ondeg-
giava e noi restammo lì finché non rimase immobile. La foresta tornò tran-
quilla, e notammo che l'oscurità stava aumentando.
«Siamo sulla strada giusta?» chiesi a Midge guardando da ogni parte.
Per un momento fu incerta; poi assentì. «Fra un momento dovrebbe es-
serci un bivio, e bisogna prendere a destra.»
«Se lo dici tu.»
Riprendemmo il cammino a passo svelto, con le orecchie e gli occhi a-
perti. A volte vi è un silenzio, in una foresta, quando la luce si oscura: è
come in chiesa, dove un colpo di tosse o un sussurro sembrano irriveren-
temente rumorosi. Tenevo la voce bassa, non volendo disturbare nessuno.
«Non posso fare a meno di domandarmi quello che è avvenuto tra la
vecchia Flora e Mycroft, perché lei ha messo nel suo testamento quella
clausola impedendogli di prendere mai possesso di Gramarye? Che cosa
gliene poteva importare, una volta morta? E perché diavolo ci ha mentito
dicendo di non essere mai stato là, se non aveva nulla a che fare con la sua
morte?»
«Credi realmente che abbiano cercato di impaurirla perché vendesse?»
«Credo che siano riusciti ad impaurirla tanto da ucciderla. Abbiamo vi-
sto noi stessi di che cosa siano capaci i poteri mentali di Mycroft. Per lui
fare apparire conigli e ratti è nulla. E il vino? Credo che avrei potuto bere
quella roba senza rendermi conto che era un'illusione. E il farci credere di
poter curvare i raggi di luce! E un asso, Midge, un illusionista di prim'or-
dine. Non voglio pensare a quello che può aver fatto immaginare a quella
povera vecchia. Una tigre sulla soglia? La cucina in fiamme attorno a lei?
Il cuore che le si spezzava in petto? Non aveva bisogno di toccarla con un
dito.»
«Non credo che fosse così in sua balìa, Mike.»
«Sostanzialmente nemmeno io. Deve esservi stata una vera lotta, ma la
sua età era contro di lei. Forse il suo vecchio cuore ha ceduto naturalmen-
te.»
Raggiugemmo il bivio e io mi feci da parte per lasciare che Midge pren-
desse la direzione. «Tocca a te. Tu hai il senso dell'orientamento. Sei sicu-
ra che sia quella giusta?»
«Se non incontriamo un cedro caduto entro un paio di minuti, puoi dire
che ho sbagliato.»
«Ricordo. E a testa in giù in una gola.»
«E quello.»
Andò avanti e io seguii la sua figura sottile nella foresta; camminammo
svelti, desiderosi di uscire al più presto all'aperto. Non mi piaceva l'atmo-
sfera della foresta e il modo con cui Midge si guardava attorno; e non pia-
ceva nemmeno a lei. E sebbene avessimo lasciato i sinergisti da un pezzo,
la sensazione di essere seguiti era ancora in me.
Midge indicò qualche cosa e vidi l'albero sradicato un centinaio di metri
più avanti. Ci mettemmo a trottare come se fosse una meta che doveva es-
sere raggiunta, e i nostri passi avevano un rumore sordo nel silenzio. Vidi
un gufo bruno appollaiato su di un albero, che ci guardava con interesse,
abbassando ogni tanto le palpebre come la chiusura di un obiettivo sui
grandi occhi rotondi.
Midge si abbandonò sul ruvido tronco e io caddi accanto a lei.
«E meglio continuare,» consigliai sedendomi sul tronco.
Lei si passò le mani sul volto e sul collo. «Erano loro, Mike? O era an-
che quello un trucco di Mycroft? Le loro voci... erano così vere...»
Esitai prima di rispondere. «Sono sicuro che è cominciato come un im-
broglio. Ma poi... accidenti, non so cosa sia accaduto poi.»
«Erano davvero i miei genitori. So che erano loro. Il loro calore mi ha
fatto tornare in me. Tutto quello che credevo su Mycroft è scomparso...»
Scivolai lungo il tronco dell'albero e tesi un braccio verso di lei. «Ab-
biamo troppe cose a cui pensare, Midge. Per ora torniamo al villino finché
possiamo vedere la strada.»
Lei saltò in piedi indugiando un attimo a baciarmi la nuca prima di ri-
prendere. Non credo che avrei ritrovato la strada senza di lei perché l'om-
bra diveniva sempre più fitta; ma lei proseguì sicura, soffermandosi solo a
tratti per controllare la direzione o un segno particolare; un mucchio di
funghi rossi sotto un albero caduto, praticamente cavo, fu l'unico ch'io
seppi riconoscere. Avevo il dorso bagnato di sudore e le gambe rigide; da-
vanti a me Midge cominciò a barcollare e il suo passo perse il ritmo.
Nemmeno il nostro nervosismo era stato superato, e quando una grande
forma striata di bianco apparve sul sentiero, per poco non uscimmo di sen-
no. Anche il tasso si spaventò e rapido si nascose fra i cespugli: lo. ve-
demmo e udimmo avanzare mentre si faceva strada nel sottobosco scuo-
tendo il fogliame.
Più avanti misi il piede su di un rettile o su una radice che non avevo vi-
sto evitare da Midge, e caddi disteso a terra. Ansimai mentre lei mi si ingi-
nocchiava a fianco e mi metteva la mano sotto il braccio sforzandosi di
rialzarmi. Mi rimisi in piedi a fatica e rimasi lì, curvo come un vecchio,
con una mano su un ginocchio e l'altra sulla spalla di Midge.
«Quanta strada c'è ancora?» chiesi cercando di riprendere fiato.
I suoi lineamenti, nell'ombra non si distinguevano, e lei ansimava quasi
quanto me. «Non possiamo essere lontani... abbiamo camminato tanto.»
«Sì, abbiamo camminato tantissimo. Tutto be...»
L'ombra che vidi mentre mi rialzavo non era che un cespuglio a forma di
una figura incappucciata che si nascondesse dietro un albero. I sospiri che
sentivamo erano solo una brezza che passava tra le foglie. E i colpi che
sentivo nel petto erano i battiti del mio cuore.
«Cribbio, ho una fifa,» ammisi.
La sua voce suonò dolcemente. «Stai sognando tutto questo?»
«Le mie ginocchia ammaccate mi dicono di no. La mia testa non è sicu-
ra.»
Stretti insieme sotto braccio nell'angusto sentiero, proseguimmo il viag-
gio, senza badare alla goffaggine dei nostri movimenti, cercando un reci-
proco incoraggiamento e la forza di tener lontani i fantasmi del bosco. L'o-
scurità era penetrata nella foresta come fumo in un polmone.
Zoppicavamo tenendoci l'un l'altro, muovendoci più in fretta che pote-
vamo e infine, grazie a Dio, vedemmo dei vani fra gli alberi davanti a noi e
le luci grigie dello spazio aperto. Il sollievo ci rinforzò le membra esauste
e ancora una volta riprendemmo lena affrettandoci, correndo, stretti per
mano, mentre io gridavo per la felicità e Midge rideva delle mie grida.
Uscimmo dal bosco come se inseguiti da un leone.
Il crepuscolo era divenuto notte, ma per lo meno l'aria era molto più
chiara che sotto gli alberi. Ci affrettammo verso Gramarye ansiosi di sen-
tirci dietro finestre chiuse e porte sprangate, e solo quando fummo più vi-
cini cominciammo a renderci conto che qualcosa non andava, che quello
che vedevamo nell'ombra non aveva senso. Rallentammo. Ci mettemmo al
passo. Guardammo Gramarye costernati.
Inciampai in qualche cosa di morbido sull'erba e mi fermai nel vedere un
coniglio morto, un povero coniglietto con una smorfia di terrore sul picco-
lo muso. Un grumo di sangue gli macchiava il collo. Le dita di Midge si ir-
rigidirono fra le mie, e io vidi l'altra forma abbattuta che lei aveva scoper-
to. Questo coniglio era più grande di quello ai nostri piedi, forse la madre,
e il suo corpo era piegato dalla testa alla coda, la pelliccia indurita dal san-
gue secco.
Non parlammo. Pensavamo che una volpe li avesse uccisi, ma non e-
sprimemmo questo pensiero. Intorno a noi c'erano altri corpi. Avanzammo
con cautela.
E non riuscivamo a capire la trasformazione di Gramarye.
Le mura, ridotte al grigio dalla luce fioca, apparivano solo in strane
macchie.
Il colore dominante era il nero.
E tuttavia non riuscivamo a capire.
Finché ci accorgemmo che le mura erano gonfie di vita.
Una vita nera, impellicciata.
Ali che si aprivano e chiudevano.
Corpi, molto più grossi di prima, che pulsavano come quelle creature re-
spiravano.
Potemmo solo fissare storditamente i pipistrelli aggrappati che ricopri-
vano Gramarye.

36.
ANCORA A CASA

Per un momento restammo storditi, rabbrividendo. Come potevano esse-


re così tanti? Non potevano essere venuti tutti dalla soffitta, molti doveva-
no essere giunti da altre partì. Forse era una riunione di pipistrelli. E come
avevano potuto assumere dimensioni mostruose? Ma, domanda ancora più
seria: quali erano i loro intenti? Erano problemi che ci ponevamo entrambi,
non reciprocamente: non volevamo turbare la loro tranquillità con le nostre
voci.
La tentazione, come capirete, era di raggiungere la strada, saltare in
macchina e abbandonare quel luogo popolato da pipistrelli il più in fretta
possibile. L'unica difficoltà era che le chiavi della macchina erano nel vil-
lino, dove le avevo lasciate prima, e, quando lo dissi a Midge (a voce mol-
to bassa), quasi venne meno.
«Va a sederti in macchina» le bisbigliai.
Mentre parlavo, tuttavia, due pipistrelli si staccarono dal muro e volaro-
no all'altro lato dell'edificio. La luna si era alzata, senza nubi, ma mostran-
dosi solo a metà, e in quella chiara, misteriosa luce, la grandezza delle ali
dei pipistrelli mi agghiacciò. Noi eravamo rannicchiati pronti a tornare nel-
la foresta.
«Va, Midge,» insistetti.
«No, Mike,» bisbigliò lei. «Resto con te; andremo a prendere le chiavi
insieme.»
«È sciocco.»
«Non ti lascerò andare solo!»
La sua voce, sebbene bassa, era così imperiosa che rannicchiai la testa
fra le spalle.
Sospirai stringendole la mano. «Va bene, va bene. Ma se si muovessero,
voglio che tu corra subito nella macchina senza aspettarmi.»
«Che farai, adesso?»
«Ti precederò.»
Mi strinse ancora, ma non riuscì a sorridere.
«Facciamo il giro e cerchiamo di raggiungere la porta della cucina,»
suggerii. Forse là non sono così numerosi.»
Il suo respiro era rapido e poco profondo mentre lei raccoglieva le forze
per seguirmi, e non era certo il chiaro di luna quello che dava al suo volto
un pallore così innaturale.
Probabilmente il colore della mia pelle, in quel momento, era molto si-
mile al suo.
Sgattaiolammo lentamente, tenendoci curvi per non richiamare la loro
attenzione. Mi parve che tutta una sezione di muro si increspasse in un ne-
ro movimento, come un'onda in un mare d'olio. Continuammo ad avanza-
re, rannicchiandoci e poi attraversando il terrapieno. Tutto intorno a noi era
fermo e in qualche modo irreale, con la buia massa della foresta alle nostre
spalle e, davanti, il bizzarro spettacolo del villino ricoperto di pipistrelli
come un sudario a brandelli. Il chiarore lunare rivelava sempre più corpi
inerti sull'erba, sconvolgente conseguenza dei giochi serali dei conigli sel-
vatici.
Raggiungemmo la breve ma ripida pendenza e, quando fui di nuovo in
piano, mi volsi per aiutare Midge a salire. Lei cadde nelle mie braccia e vi
rimase per qualche momento, riluttante a lasciarmi. La striscia grigia for-
mata dal sentiero che portava al cancello ci invitava: la strada, al di là, rap-
presentava la normalità creata dall'uomo, una realtà concreta, e la tentazio-
ne di raggiungerla era forte; ma il villaggio era lontano e la strada percor-
reva la foresta per miglia e miglia. Meglio prendere l'automobile.
Avevo avuto ragione circa i pipistrelli: pendevano per lo più dalle altez-
ze superiori, nero rivestimento irto e palpitante di vita. Cautamente, con gli
occhi verso l'alto, condussi Midge attraverso la porta della cucina.
Un pipistrello volò via dal muro sopra di noi. Poi un altro e un altro an-
cora.
L'impulso a fuggire quasi ci sopraffaceva, ma l'idea di spaventarli e di
farceli volare tutti addosso ci obbligava a controllarci.
Continuavo a dirmi: calma. Sono solo mammiferi volanti, fra loro non ci
sono vampiri.
Vallo a dire ai conigli, era la mia maledetta risposta.
La porta era chiusa, e la mia mano tremava quando afferrai la maniglia.
Cercai di girarla il più silenziosamente possibile, ma lo scatto mi fece
stringere i denti; mi aspettavo di sentirmi mordere il collo a ogni momento.
Spinsi il battente e uscì un odore di muffa e di marcio ad annunciare che
le cose non andavano bene nemmeno nell'interno di Gramarye; mentre al-
largavo l'apertura il buio non fu più accogliente del puzzo. Se l'ombra può
sogghignare, in quel momento faceva del suo meglio.
L'interno era minaccioso, e tuttavia... e tuttavia in qualche modo allettan-
te. Mi sembrava di essere un bambino davanti all'ingresso di quel parco di
divertimenti che era la casa stregata; avevo paura, ma avevo pagato il bi-
glietto e volevo entrare.
Sulla soglia inciampai in qualche cosa, ma non mi fermai a investigare.
Entrai spingendo Midge insieme a me, e immediatamente cercai l'interrut-
tore. Accesi e, momentaneamente abbagliato, mi volsi per chiudere la por-
ta. Midge mi afferrò il braccio prima che lo facessi..
Battei le ciglia con aria interrogativa, impaziente di mettere una barriera
fra loro e noi; lei guardava la soglia.
Rumbo era lì, col piccolo corpo peloso coperto di sangue, la bocca spa-
lancata dal terrore. Gli occhi erano due fessure morte.

37.
INVASIONE

Lo portammo sulla tavola della cucina. Midge piangeva e io trattenevo


le lacrime. Non ci eravamo accorti di quanto ci fossimo affezionati a Rum-
bo.
Le ferite sul dorso erano gravi; profonde incisioni sanguinose lo percor-
revano per tutta la lunghezza la dove i pipistrelli - certo più d'uno - lo ave-
vano graffiato. Le ferite alla gola erano ancora più profonde, ma mi chie-
devo se la vera causa della sua morte non fosse stata la sola paura. In alcu-
ne parti non aveva più pelo e una della sue orecchie era a brandelli; doveva
aver lottato come un disperato.
Senza speranza ascoltai i battiti del suo cuore, ma non ve n'erano. Il suo
corpo non si era ancora raffreddato, e io lo scuotevo parlandogli dolcemen-
te come per incoraggiare i suoi spiriti animali a tornare e a ravvivare quelle
arterie morte.
Rumbo se n'era andato, e, cosa strana (o forse no: quando la morte av-
viene, le donne sono sempre più realistiche degli uomini), Midge accettò il
fatto per prima. Mi prese le mani nelle sue.
«Povero piccolo,» dissi, incapace di distogliere lo sguardo dal corpo i-
nerte.
«Che cosa sono quegli esseri là fuori, Mike? Non possono essere gli
stessi pipistrelli della soffitta. Le loro dimensioni... Perché attaccano gli
animali?»
Mi strinsi nelle spalle, sola risposta all'assurdo. Avevo gli occhi anneb-
biati e non volevo parlare per non far sentire la mia voce tremante. Invece
guardai la cucina distogliendo lo sguardo da Midge. Non volevo nascon-
derle il dolore - ne avevamo condiviso abbastanza durante la nostra con-
vinvenza e le lacrime non erano mai state un imbarazzo per noi - quella
che non volevo che vedesse era la mia paura.
La personalità di Gramarye si era alterata. La malattia che la corrodeva
nell'intimo fin dalla morte di Flora era stata arrestata dal nostro arrivo, co-
me un cancro guarito da un nuovo farmaco. La decadenza era cessata ed
era cominciata la sua rigenerazione. La sua magia si era rinnovata.
Adesso mi rendevo conto di questo anche se una parte di me diceva: A-
scolta, sei pazzo, qui si tratta di pietre e travi, non di una persona viva, e
nemmeno di un organismo senza mente. Un mucchio di mattoni inanimato
e insensibile, perdici Ma sapevo che non era così. Qualche cosa al di fuori
di tutto questo mi sussurrava come aveva fatto prima, instillandomi questa
certezza, forse per beffa. O forse questo qualche cosa faceva estremamente
sul serio temendo che non volessi ascoltare. O capire.
E in verità i pensieri erano così inconsistenti, così tenui che non sapevo
io stesso se li ascoltavo o li immaginavo. Chi ero io per giudicare le mie
condizioni mentali?
Ma l'idea persisteva. Non la struttura di Gramarye era viva, ma l'anima
di coloro che avevano abitato in essa, assorbita dalle pareti, dai soffitti, dai
pavimenti, chiusa in essa come energia in una batteria, così che, col tempo,
l'edificio era venuto a somigliare a una cosa vivente. Finché questa vita era
stata corrotta, era stata fatta divenire cancerosa da altre influenze meno pu-
re. Pensavo che la degenerazione era cominciata quando i sinergisti aveva-
no preso a frequentare la casa.
Con la morte di Flora, il potere di Gramarye era avvizzito, aveva comin-
ciato a corrompersi. Solo la nostra presenza, o più esattamente quella di
Midge, aveva trattenuto la corruzione e perfino iniziato un rinnovamento.
Questo mi diceva la voce silenziosa e questo credevo. E in parte avevo ra-
gione.
Mi schiarii la gola e dissi in fretta: «Dove diavolo ho lasciato le chiavi?»
La parola "chiavi" venne fuori un po' strozzata, e Midge mi strinse più for-
te la mano.
«Forse di sopra. Dio mio, fa così freddo qui.»
Ebbe un piccolo brivido. Tuttavia io ero sudato. Mi venne l'idea che sta-
vamo sperimentando la febbre di Gramarye.
Uno scroscio lacerante dalla porta vicina fece precipitare Midge fra le
mie braccia, e io udii appena il suo grido nel frastuono della muratura che
cadeva. Una nube di polvere attraversò la parte della cucina in cui erava-
mo. Intuimmo quello che era avvenuto, ma, come si accorre all'odore del
latte traboccato sul fuoco, passammo dall'altra parte per vedere direttamen-
te. Indugiammo per scuoterei la polvere di dosso.
L'architrave aveva ceduto ed era caduto sul fornello portandosi dietro
una buona parte di muratura. Le ripercussioni erano ancora nell'aria con il
polverume, e la fuligginosa ferita nel seno del camino, aperta e frastagliata,
dava un'idea dell'intimo oscuro di Gramarye, uno squarcio nella sua carne
di pietra che rivelava la sua nera sostanza.
«No, non è vero, non può essere così!» gemette Midge, e io capii che
aveva avuto la stessa immagine. La pena e la ripugnanza che apparivano
sul volto erano le stesse che avrebbe avuto se avesse scoperto che il suo
zio preferito era un molestatore di bambini.
La portai via, impaziente di essere fuori di lì, il più possibile lontani dal
villino nel tempo più breve. Eravamo fuggiti dal Tempio dei sinergisti solo
per trovare che qui non c'era rifugio per noi; il villino si era alleato con la
casa grigia, un alleato in qualsiasi malefica causa generata da quel luogo
infausto. A questo punto non sapevo più se ero confuso o pazzo. Tutto
quello di cui ero sicuro era che mi si offriva la strada aperta.
Mentre ci affrettavamo verso il piano di sopra sentivamo scricchiolare
l'assito sotto il tappeto: uno scricchiolio fu così netto e forte da farmi pen-
sare che il piede sarebbe sprofondato, ma il tappeto stesso lo impedì e pro-
seguii mentre Midge faceva attenzione a evitare quello scalino. Nel passare
feci scattare gli interruttori e le luci sembrarono indecise prima di accen-
dersi completamente. Nella stanza rotonda l'odore era nauseabondo e le
mura umide fino a gocciolare.
Le chiavi dell'automobile erano sul tavolino e io le afferrai. «Midge,
prendi nella stanza da letto quello di cui possiamo aver bisogno, e fai in
fretta. Non voglio restar qui un minuto più del necessario.»
Lei non rispose, si volse e scomparve nella stanza da letto lasciandomi
un momento per guardarmi attorno.
Una nera muffa si era formata fra il sommo delle pareti e il soffitto,
sporgendosi verso il basso in grandi macchie come se Midge avesse dipin-
to sulle pareti con i suoi pennelli più grossi. Ancora più singolare era l'ir-
regolarità del tappeto: l'assito era curvato, le sue estremità sporgevano qua
e là, dando l'impressione di animali che tentassero di uscire, ostacolati dal-
la spessa copertura.
«Mike!»
In un attimo passai nella stanza da letto.
«Oh, no...»
Dove un tempo c'era una sottile fessura nella parete adesso c'era una
spaccatura di tre centimetri che andava dal pavimento al soffitto. Mi parve
di vedere la notte che si affacciava dall'altro lato.
«Smetti di far pacchi,» dissi a Midge. «Bisogna andarcene subito, prima
che crolli la casa.»
Lei esitava. Vi era in lei un'agitazione che era quasi visibile. Potevo ca-
pire la sua angoscia e il suo smarrimento; l'unica mia meraviglia era che
non fosse totalmente traumatizzata. Il sogno di Midge era divenuto un in-
cubo, tutto quello che era accaduto era stato illogico e sconcertante, per di-
re il meno. Un idillio era stato guastato da forze che nessuno di noi capi-
va... e francamente, per quello che mi riguardava, che io non desideravo
capire. Per lei era peggio, perché Midge era consapevole di avere una parte
in questo disordine, ma non aveva idea di quale fosse questa parte, lo ave-
vo avuto un'idea e avevo tentato di comunicargliela, ma in fondo che cosa
sapevo? L'unica cosa ovvia era che Gramarye non era più un luogo sicuro
per abitarvi.
Stavo per avvicinarmi a Midge e portarla via dalla stanza da letto - por-
tarla via dalla sua stessa introspezione - quando i suoi occhi si spalancaro-
no e lei indicò la finestra. Fanali di automobile brillavano sull'altro lato del
recinto. Altri fanali illuminavano dal di dietro la Citroen gialla.
«Bastardi,» mormorai.
Afferrai il polso a Midge e balzai nel corridoio.
«Cosa vuoi fare?» Si aggrappò a me mentre io prendevo il ricevitore del
telefono, e il suo tremito passò a me come se avessi toccato un diapason.
«È tempo che se ne occupi la polizia. Non so che diavolo le racconterò,
ma penserò a qualcosa. L'averti trattenuto contro la tua volontà potrà servi-
re come inizio.»
«Ma non è vero.»
«Mentirò un tantino. Abbiamo bisogno della polizia.»
Imprecai e tenni il ricevitore lontano mentre componevo il numero. Di-
sturbi più forti e poi un grido lamentoso, il rumore che potremo tutti senti-
re un giorno, quando sarà caduta la bomba atomica e la linea si fonderà
mentre telefoneremo per informarci dei nostri cari.
«Merda ! » gridai. (Nei momenti di emergenza il mio linguaggio diventa
un po' volgare). Scossi i contatti finché l'interferenza fu meno stridula e poi
ricomposi il numero. Lo stesso suono acuto che rompeva gli orecchi.
Sussultammo entrambi e io riposi il ricevitore. «Usciamo di qui,» gridai
correndo verso la porta. «Ci nasconderemo nella foresta... là non ci trove-
ranno mai.»
«No, Mike, siamo più sicuri in Gramarye.»
«La guardai incredulo. «Scherzi? Non vedi quello che succede qui?
Questo è un luogo condannato alla rovina.»
«Non credo che qui ci possano fare del male.»
«Flora Chaldean probabilmente la pensava così. Guarda, non so che cosa
Mycroft e quei pazzi abbiano in mente, ma non credo che adesso vogliano
attirarci nel loro circolo. Mycroft ci ha lasciati venire qui perché qui voleva
prenderci. Dio sa perché, ma sono sicuro che aveva le sue buone ragioni.
Andiamo via, vieni.»
Aprii la porta, e i pipistrelli disturbati si abbatterono sulla mia testa e le
mie braccia tese prima di fuggire nel buio. Nell'agitazione del momento mi
ero dimenticato di loro. Attesi un'aggressione in massa. Non accadde nien-
te ma il mio sollievo durò poco.
Delle luci uscivano dai boschi.
Rientrai e chiusi la porta in un attimo. «Ci hanno inseguito anche attra-
verso la foresta.»
Midge aveva un'espressione stupefatta.
«Ha diviso le sue forze, ne ha mandate alcune lungo la strada e altre nel-
la foresta, dietro di noi. Sembra che avessi ragione: vuole prenderci in
trappola qui nel villino.»
Parve capire lentamente; poi assentì con la testa e subito si calmò; non
tremava più.
«Cristo, la porta! Non l'abbiamo chiusa. Scivolai alla curva della scala
nella furia di scendere in cucina e riuscii a controllare la caduta solo allun-
gando le braccia e premendo le mani contro le pareti. Scivolai ma riuscii a
tenermi in piedi fino in fondo. Tirai i due saliscendi della porta, in alto e in
basso, e restai con la fronte appoggiata al battente riprendendo fiato.
Ci volle un po' di tempo prima che ritrovassi il coraggio di guardare dal-
la finestra. Le luci delle automobili erano state spente, e io potevo vedere il
chiarore lunare riflettersi sui cofani oltre il recinto. Laggiù non c'era alcu-
no, nessun sinergista. Per quanto potessi dire.
«Midge!» chiamai dal basso delle scale. «Cerca il numero di Sixsmythe
e chiamalo: questa volta potremmo avere fortuna.»
Tirai le tende della cucina non volendo che loro mi vedessero, se erano
lì. Passando accanto alla tavola nell'avviarmi alle scale non potei fare a
meno di accarezzare il corpo peloso che giaceva lì. Non fu un gesto consa-
pevole e certo non vi indugiai troppo. Forse fu un gesto di affetto, un rim-
pianto per Rumbo che se n'era andato.
Poi salii le scale aspettandomi di trovare Midge al telefono o almeno a
sfogliare l'elenco locale. Il corridoio era vuoto.
Lei era nella stanza rotonda, profilata nel chiaro di luna, intenta a guar-
dare la riunione fuori.
«Midge, perché non hai telefonato?»
«Non può aiutarci, Mike.»
«Sixsmythe? È l'unica conoscenza che abbiamo da queste parti.»
«Non saprebbe come aiutarci. E in ogni caso è troppo tardi.»
Seguii il suo sguardo e quello che vidi non mi piacque. Non mi piacque
affatto.
Mycroft e la sua banda eterogenea erano all'aperto, gettando ombre nette
e nere sull'erba inondata dalla luna. Erano in disparte, entità separate, dis-
seminate come menhir e non meno immobili. Quelli che erano arrivati dal-
la foresta avevano acceso le torce e, sebbene ognuno fosse isolato, occu-
pando un suo proprio spazio, costituivano una gruppo, unito al suo capo
sinergista per qualche misterioso scopo che mi atterriva.
Osservavano il villino e noi li osservavamo.
Io ero vicino a Midge e lei disse con calma: «Vogliono che moriamo ma
non vogliono insanguinarsi le mani.»
«È un po' drastico. » Se il mio sarcasmo fu rassicurante per lei, non servì
per quanto mi riguardava. «Non possono andare in giro ad ammazzar per-
sone solo perché gli piace una casa. Vi sono delle leggi contro questo tipo
di predilezioni.»
«Volevano che Flora morisse e Flora è morta.»
Tanto per stare allegri.
«Ha avuto un attacco di cuore. Va bene, forse l'ha spaventata tanto da ot-
tenere questo risultato, ma lei era molto vecchia. Come potranno spaventa-
re noi fino a questo punto?»
«Non avevi paura nel loro Tempio, in quella terribile stanza? Non avevi
paura nella foresta?»
«Certo. Ma adesso siamo in casa nostra... guardiamo quello che Mycroft
può fare qui.»
Spesso una bravata è il peggior modo per tentare il destino. Che cosa po-
teva fare? Molto, e noi stavamo per accorgercene.
Non successe immediatamente. I secondi passavano e nulla e nessuno
sembrava muoversi: non v'era nemmeno una nube nel cielo. Tutto era
tranquillo come in un cimitero. Anche gli assiti dei pavimenti avevano
smesso di scricchiolare. La cosa più evidente era il cattivo odore nell'aria.
Volevo allontanarmi dalla finestra - sebbene non fossimo troppo vicini
perché i sinergisti potessero vederci - ma in qualche modo mi sentivo radi-
cato al punto in cui ero. Ero affascinato, morbosamente curioso di ciò che
stava avvenendo (o non avvenendo) all'esterno. Anche respirare era fatico-
so: mi sentivo la pelle troppo tesa attorno al petto. Noi guardavamo fuori e
loro guardavano dentro.
Poi la figura più vicina alzò un braccio, e aveva in mano una lunga bac-
chetta.
E allora si scatenò l'inferno.
Il primo rumore fu una sorta di ruggito soffocato, come un'esplosione
subacquea, un boato profondo che si sminuzzò in un agitato e irregolare
tambureggiamento. Per un momento la luna scomparve e io pensai che
fosse coperta da una nube; ma le luci tornarono presto con lo spezzarsi del-
l'oscurità sopra di noi.
I pipistrelli si erano levati in massa e volavano sopra il villino, una mas-
sa nera convulsa in movimento.
Volarono sempre più in alto, oltre la luna, verso le stelle, in un frenetico
battito d'ali. Ci avvicinammo ancor più alla finestra, alzando la testa, per-
ché lo spettacolo era incredibile e trascendeva lo spavento.
Li perdemmo di vista, non li udimmo più, ma solo per pochi secondi.
Il tambureggiamento tornò, un fracasso diabolico, sempre maggiore, co-
sì forte che l'edificio sembrava vibrare col loro avvicinarsi. Ci scostammo
dalla finestra guardando il soffitto, senza fiato e incapaci di parlare.
Il rumore si fece più distinto, si concentrò, divenne un basso brontolìo e
guardammo all'interno del camino.
Piombarono giù dal caminetto come gli uccelli di Hitchcock invadendo
la stanza, rimpiendo l'aria delle loro strida e del terribile turbine delle loro
ali. Il grido di Midge (Dio sa se non fu il mio) fu troncato dall'infrangersi
dei vetri della finestra colpiti dall'esterno.
Ci chinammo istintivamente: i pipistrelli irruppero insieme ai vetri rotti,
unendosi agli altri e turbinando tra le pareti curve.
Sentii qualche cosa posarmisi sulla schiena affondandovi le piccole un-
ghie per aggrapparsi. Mentre cercavo di allontanarlo un altro mi si avventò
sul collo mordendolo.
Mi rotolai afferrando quello che era sul collo e schiacciando l'altro. La
sensazione delle fragili ossa che si spezzavano sotto di me fu ripugnante,
ma lo stringere il piccolo essere che mi aveva morso alla gola e si dibatte-
va fu anche peggio. Sopra di me vi era un uragano di ali battenti che mi
scompigliavano i capelli; il trambusto nella stanza buia era pazzamente
vertiginoso. E in quel turbinìo sentivo le grida di Midge.
Altri due pipistrelli mi si abbatterono sul petto e io li colpii furiosamente
con una mano mentre con l'altra stringevo quello che mi mordeva ancora il
collo. Poiché mi era vicino all'orecchio, potevo sentire il suo squittire sotto
la stretta. Mi strappai via quel succhiatore di sangue senza sentire alcun
dolore pur lacerandomi la carne, e lo scagliai nella massa degli altri. Con
entrambe le mani mi tolsi dal petto gli altri due, che mi laceravano la ca-
micia con le unghie e coi denti. Mentre li gettavo nell'aria, altri mi si ag-
grapparono alle braccia e alle gambe.
Nella luce del corridoio vidi il corpo di Midge che si contorceva, così
coperto da quegli esseri da sembrare un mostro mutilato da libro di fiabe.
Gridava e si batteva le membra atterrita. Io corsi da lei senza badare ai pi-
pistrelli che mi si aggrappavano al corpo.
Lei cadde in ginocchio e io colpii quei mostriciattoli con furia cieca,
strappando ali e rompendo ossa con una violenza selvaggia a cui nemmeno
quegli ostinati bastardi potevano far fronte.
Si dispersero. Gliene tolsi due che le si erano impigliati nei capelli glie-
ne strappai dalle spalle e dalla schiena. Dovevamo andar via di lì, ma do-
ve? Tutte le stanze avevano finestre. E intanto lottavo: nuovi pipistrelli si
avventavano su di me mentre altri tornavano da Midge. Li colpivo nell'a-
ria, ma per ognuno che abbattevo, altri tre prendevano il suo posto. Inco-
minciavo a essere stanco, e il peso combinato dei pipistrelli, per quanto
fossero leggeri, mi faceva cedere a poco a poco. Midge e io cademmo in-
sieme, avvolti da quella nera peste alata.
Restammo sul pavimento, e il dolore non era tanto acuto: solo alcuni
morsi e alcuni graffi. Quello che ci teneva lì era il terrore.
Mi gettai su Midge in uno sforzo per proteggerla, pur sapendo che era
inutile: quei maledetti stavano per avere il sopravvento, come lo avevano
avuto sui conigli e come lo avevano avuto su Rumbo.
Chiusi gli occhi e attesi.
Finché i pipistrelli improvvisamente fuggirono.

38.
IL POTERE

L'aria adesso era libera. Il loro peso non ci opprimeva più.


Ascoltavamo il rumore delle loro ali che si allontanava, e restavamo lì
con la faccia contro il tappeto, aspettando che il battito si allontanasse e
scomparisse del tutto.
Solo allora alzai la testa per assicurarmi che fossimo realmente soli.
Un debole svolazzare vicino mi fece cercare allarmato la sua provenien-
za; un pipistrello con un'ala spezzata roteava sul pavimento, spinto a girare
continuamente su se stesso dai colpi dell'ala sana. Un' altra forma scura si
ritraeva debolmente attraverso la stanza. Altri, che ero riuscito a uccidere,
erano ammucchiati qua e là. Il loro cattivo odore, morti o fuggiti che fosse-
ro, permaneva nella stanza combinandosi con quello della muffa e dell'u-
midità; nemmeno la brezza che passava dai vetri frantumati riusciva a di-
sperderlo.
«Midge.» La liberai dal mio peso, ma lei rimase immobile, con la faccia
in giù. «È finito, Midge, se ne sono andati.»
Le sue spalle sussultarono e mi accorsi che stava piangendo. Mi sedetti
sui talloni e, con le mani insanguinate, me la strinsi al petto. Ma adesso e-
ravamo esausti e potei solo tenermela così, cullandola come un bambino.
Avevamo le vesti lacere, ma, sebbene macchiati di sangue, nessuno di noi
era ferito seriamente. Anche la ferita sul mio collo sanguinava appena.
Mentre le carezzavo i capelli le sue lacrime caddero sulla mia camicia
strappata.
Un leggero scatto mi immobilizzò ancora una volta. Il colpo era venuto
dal corridoio, dove la luce brillava ancora, e precisamente dalla porta che
dava sull'esterno. Assurdamente la chiave, che era all'interno, girò nella
serratura.
Midge, alzò la testa. Anche lei guardò la chiave.
Il saliscendi ai piedi della porta cominciò a scivolare lentamente, tirato
da una mano invisibile. La sbarra si fermò solo quando ebbe raggiunto il
termine della sua corsa.
Nulla avvenne lì per lì.
Poi, quasi con suo comodo, la porta si aprì.
Mycroft apparve sulla soglia.
Io diedi un gemito e Midge mi si abbandonò addosso.
Lui entrò nella luce e il suo sorriso non avrebbe potuto essere migliorato
nemmeno da Boris Karloff. Il solo vederlo mi fece sbigottire.
Mycroft entrò nel villino con la bacchetta tesa davanti a sé come il ba-
stone di un cieco, e, sebbene indossasse il solito abito grigio, non aveva
più un aspetto qualunque. In realtà, dato quello che gli avevo fatto, la sua
urbanità era divenuta sinistra: era divenuta minacciosa e terribile.
Si fermò sulla soglia della stanza rotonda, col volto nell'ombra, mentre
la luce lo illuminava dal di dietro. Lo udii trarre un lungo e profondo respi-
ro come se aspirasse tutta l'aria viziata della stanza riempiendosi il petto
del cattivo odore.
Si era servito dei pipistrelli per abbatterci, e adesso era lì in persona.
Una bella prova per Mycroft il Mago, illusionista «extraordinaire». Solo
che i pipistrelli non erano stati un'illusione: la brezza che veniva dalla fine-
stra rotta e i miei abiti insanguinati me lo assicuravano. E la porta si era
aperta veramente da sola: la sua presenza nella stanza lo confermava. Mi
domandai se parte di questa attività avesse fatto bollire l'acqua nel radiato-
re dell'automobile e, se possedeva tali poteri, l'averci attirato nella sua tana
quella domenica non doveva essere stato un problema.
Mycroft tese una mano e accese la luce prima di entrare nella stanza. Il
suo sorriso non era divenuto più piacevole.
Altri entrarono in fila dietro di lui mettendosi alternativamente alla sua
destra e alla sua sinistra lungo le mura curve formando una specie di arti-
glio vivente che si chiuse attorno a noi. Dovevano essere circa una dozzi-
na. Gli altri probabilmente erano rimasti a guardia fuori, sentinelle al chia-
ro di luna.
Li guardai in faccia, e loro sostennero impassibili il mio sguardo. Perfi-
no Gillie, che era fra loro, non mostrava alcuna emozione, mi aspettavo
almeno un cenno dal mio vecchio amico Kinsella, ma anche lui era freddo
come una pietra.
«Pos...» La voce mi venne meno e dovetti ricominciare. «Posso fare
qualche cosa per lei, Mycroft?»
Non credevo che, date le circostanze, fosse un cattivo inizio, ma non
parve divertire nessuno, e meno di tutti me.
«Non più» rispose, e l'idea che non gli eravamo più di alcuna utilità mi
agghiacciò ancora di più. Puntò il bastoncino verso Midge. «Lei avrebbe
potuto aiutarmi, ma ha scelto di non farlo. E la colpa è sua.» Il bastoncino
indicò me.
Scossi la testa protestando. «Non sappiamo ancora quello che sta succe-
dendo. Non vogliamo combattere con lei, Mycroft, non vogliamo ostacola-
re il suo Grande Piano, qualunque sia. Quindi che ne direbbe di andarse-
ne?»
«È troppo tardi. Voi siete divenuti parte integrale di Gramarye.»
«Follie. Volete questo luogo? Prendetevelo. Fatemi un'offerta ragione-
vole. Io non regalo nulla.» Ed ero deciso su questo.
«No!»
Lo aveva gridato Midge scostandosi rapida da me.
«Non sai perché vuole Gramarye? Perché Flora ha lottato tanto per non
cedergliela? Ce l'ha detto lui nel Tempio, non ricordi?»
Scossi ancora la testa, questa volta senza espressione.
«Gramarye, o per lo meno il luogo su cui sorge, è un canale per il potere
di cui si vale, un'ulteriore fonte di qualche sorta. Non lo vedi? Chiunque
occupi questo villino è il guardiano di questo potere. Come Flora, come la
persona che viveva qui prima di lei, e prima ancora. La linea è probabil-
mente infinita.»
Un mese prima - no, una settimana prima - avrei riso di questa ipotesi,
ma adesso non ero così sicuro. Era difficile da ammettere, ma lo era e-
gualmente tutto quello che era avvenuto là. E non avevo forse avuto recen-
temente le mie "intuizioni" su quel luogo?
Mycroft parve divertito. «Finalmente incomincia a capire. Può sentire la
magia che dà vita a questa terra, che crea l'aria così che possiamo respira-
re, che crea le sorgenti e le fa divenire fiumi perché possiamo bere, che
provvede al cibo per sostenerci. Può realmente immaginare che tutto ciò
fra cui viviamo sia solo un caso, che la Natura non abbia i suoi scopi, nes-
suna forza che la diriga? Non vede che vi sono sorgenti contenute entro
questo pianeta, che non potranno mai essere capite? Sorgenti investigate
solo dagli illuminati attraverso i secoli? È tanto folle da credere che tutte
queste antiche leggende, queste storie di maghi, di streghe, di regni magici,
siano solo fiabe per bambini?»
Rise forte, nel miglior stile di Karloff, e vi fu un mormorto di approva-
zione tra i suoi accoliti intorno alla stanza.
«Quella stupida strega,» continuò Mycroft mostrando i denti, «mi ha
impedito di colmare la lacuna, di assorbire la potenza del luogo nel mio es-
sere, di usare la vitalità eterea che trapela da questo punto della crosta ter-
restre. Ma era vecchia e debole, e presto è stata messa da parte.»
In quel momento cominciai a ridacchiare. Non potei trattenermi. Forse
era un attacco di isterismo, una combinazione di esaurimento e di paura,
ma non potevo fare a meno di pensare che la situazione ci era sfuggita di
mano. Dio solo sa perché, continuavo a domandarmi quale sarebbe stata la
reazione del buon vecchio Bob terra terra alla diatriba di Mycroft. Gesù,
avrebbe riso per una settimana! Più pensavo a questo e più ridevo. Caddi
indietro sostenendomi al divano con un braccio.
Ma a Mycroft non piaceva il mio riso. Non gli piaceva affatto. Puntò il
bastoncino nella mia direzione e improvvisamente mi resi conto che vole-
va usarlo come una bacchetta magica. Mycroft il Mago con la sua fottuta
bacchetta magica! Mi lacrimavano gli occhi dalle risa.
Midge mi fissava come se mi fosse dato di volta il cervello (probabil-
mente ero arrivato a questo). Volevo che lei vedesse il gioco, ma ridevo
tanto da non poter parlare. La faccia di Bob nell'ascoltare le fesserie che
Mycroft ci aveva appena propinato. Troppo, troppo.
I sinergisti raccolti nella stanza mi guardavano con gli occhi sbarrati.
Perdio, loro non avevano mai visto il gioco!
Nascosi la faccia nel morbido divano, con le spalle che sussultavano per
le risa, desideroso di chiedere a Mycroft dove teneva il suo lungo cappello
a punta e la palandrana nera, ma ridevo troppo per poter formulare le paro-
le. Sentii il divano ondeggiare sotto di me. Sempre ridendo alzai una mano
meravigliato.
Una piccola sfilacciatura nella superficie logora divenne un buco e qual-
che cosa di nero ne sgusciò fuori. La seguì un altro animale a più gambe,
scattando via. E poi un altro e un altro: una schiera di nere cimici.
Apparvero altri buchi. Altre cimici ne uscirono. Sempre più buchi, sem-
pre più cimici.
Saltai via e guardai con orrore altre centinaia e migliaia che si facevano
strada rodendo la stoffa del divano divenendo subito una lucida massa in
fermento. Venivano fuori in file bene ordinate, scivolavano rapide lungo il
fianco del divano, cadevano sul pavimento e avanzavano verso le mie
gambe tese.
Allora ricordai che recentemente Bob non era stato così allegro in quella
stanza (era quasi impazzito) e la mia folle ilarità cessò di colpo. Ritirai il
piede mentre la prima cimice vi si arrampicava.
«Basta! Basta!»
Midge era balzata in piedi gridando a Mycroft che si limitò a sorriderle.
«Lei non può servirsi di Gramarye in questo modo! È stata fatta per il
bene, non per le sue perversioni!» Aveva gli occhi ardenti e il volto con-
tratto per l'ira.
«Il potere contenuto in questo luogo può essere controllato in tutti i modi
scelti da chi lo riceve,» rispose Mycroft. «La vecchia era troppo debole, re-
sa inferma dagli anni.»
«Lei la ha uccisa!»
Adesso sogghignò, apparentemente compiaciuto dell'idea. «Sì, sì, credo
di averlo fatto: l'ho tentata con l'altro lato, quello che lei e il suo compagno
potreste chiamare il lato oscuro della magia. La sua fine è stata immedia-
ta.» Parve sorpreso, poi fece schioccare le dita: «Così: ora si è vivi e un at-
timo dopo si è morti. Non è riuscita a sostenere la rivelazione, capisce?
Non ha potuto accettare le tenebre nella sua anima. Come avreipotuto rive-
larle queste tenebre se non si fossero annidate in lei? E strano come il suo
corpo si sia corrotto così rapidamente, come se l'intima malvagità, insinua-
tasi nel suo essere fisico lo avesse raggrinzito come una prugna secca.»
Ridacchiò senza preoccuparsi del disgusto sul volto di Midge.
La luce si abbassò e si rialzò come se qualcuno venisse folgorato nella
stanza accanto, e Mycroft perse per un momento il suo equilibrio. Guardò
le pareti, il soffitto, il pavimento. Poi il suo sorriso tornò.
«Sentite la sorgente della forza cinetica?» chiese ai suoi seguaci.
«Siate ricettivi, fondete i vostri pensieri e assorbite la sua energia. Riem-
pitevi della sua vitalità!»
La maggior parte di loro chiuse gli occhi, col volto teso nella concentra-
zione. Vidi Gillie, presso la parete, barcollare e quasi cadere all'indietro.
Un'altra donna, sull'altro lato della stanza, emise un altro gemito. Kinsella
continuava a guardare Midge e me.
Stranamente, il potere della suggestione, mentre Mycroft incoraggiava
ancora i sinergisti, era tale che anch'io sentii un formicolìo nelle mie dita
tese. La sensazione emanava dal pavimento passandomi nelle braccia at-
traverso le spalle e il petto. Improvvisamente ricordai le cimici che erano
sembrate arrampicarsi sulla mia gamba, e tuttavia, al controllo, erano
scomparse completamente. Le cimici erano state un altro dei trucchi di
Mycroft.
«Posso fermarlo,» gridò Midge. «Sono qui per questo, sono stata scelta
per questo!»
«Ah, sì, lei,» disse il Mago con un lampo di astuzia. Puntò il bastone e
Midge barcollò. Tuttavia non cadde. Ritrovò l'equilibrio e rivolse a
Mycroft uno sguardo d'odio inarcando il dorso e stringendo i pugni.
«Posso!» gridò, e io l'amai per quella sfida. Mi alzai in piedi.
Lei era puntata sulle gambe, come radicata al tappeto, e lentamente si
portò le mani al volto stendendo le dita e riunendole come in un gesto di
preghiera. Poi piegò i polsi così che le dita erano rivolte a Mycroft, e
1'espressione di lui tornò ansiosa. Questo, per lo meno, ci diede coraggio.
Midge stava rabbrividendo, ed era come se ogni muscolo del suo corpo
fosse teso e ogni sua forza fosse diretta a Mycroft. Io volevo gridare per
incitarla. Poteva farlo, sapevo che poteva farlo! Ma il mio grido fu solo un
sussurro.
«Faglielo vedere a quel porco, Midge.»
Stringeva i denti così che il suo volto era divenuto una maschera minac-
ciosa, la sua espressione era tesa, il suo corpo vibrava come la bacchetta di
un rabdomante.
«Puoi farlo, Midge!» dissi, sempre in un sussurro soffocato.
Ed ero certo che poteva, era il successore di Flora, l'erede naturale di
questi misteriosi poteri la cui fonte erano Gramarye e il terreno su cui sor-
geva il villino. Tutto ciò che era avvenuto negli ultimi mesi l'aveva diretta
verso questo punto critico. Tutto ciò che dirige queste leggi mistiche di
magia e tutto ciò che esso comportava aveva deciso che spettava a lei con-
tinuare il buon lavoro della vecchia Flora: era lei la guardiana, quella che
avrebbe impedito che questo potere fosse pervertito. In qualche buffo mo-
do mi sentivo orgoglioso.
«Fa fuori quel furfante, Midge!»
Lei stendeva le braccia, con le palme e le dita tese. Era come se rivol-
gesse contro Mycroft un fucile invisibile, e io ero entusiasta del crescente
disagio di lui. La tensione mi stringeva la gola così che non potevo più in-
coraggiare Midge. I miei pugni tremavano nell'aria davanti a me. Lo aveva
in pugno, avrebbe messo fine ai suoi infami, maledetti trucchi! Le sue
braccia erano rigide come bastoni e io potevo quasi vedere l'energia che la
percorreva.
Gli occhi di Mycroft si erano dilatati così che le pupille toccavano quasi
il bianco.
Kinsella tentava di farsi avanti e io ero pronto ad affrontarlo, ma si fer-
mò di colpo, incapace di muoversi.
La pressione mi martellava le tempie.
Le dita di Midge si aprirono.
Esalò un respiro con un gemito.
E nulla avvenne.
«Merda!» Gridai battendo un piede a terra.
Mycroft era perplesso. Poi felice. Alzò il bastone e subito i piedi di Mi-
dge si sollevarono dal tappeto e lei fluttuò nell'aria.
Il suo corpo si inclinò mentre lei gridava il mio nome. Si innalzò, un me-
tro, un metro e mezzo, rigido come un'asse, mettendosi orizzontale.
Lei si portò le mani alla faccia avvicinandosi al soffitto, e io potevo solo
guardare atterrito, incapace di fare qualcosa.
Ormai il suo corpo era solo a pochi centimetri dal soffitto, quando lui,
con una risata, la lasciò andare. Midge cadde e io corsi sotto di lei pren-
dendola fra la braccia: cademmo a terra entrambi.
Rimanemmo lì ansanti, e tutto quello che potei udire fu il riso di
Mycroft, la sua sghignazzata. Anche Kinsella e gli altri erano divertiti. Ec-
cetto Gillie: era svenuta.
Noi eravamo finiti. Ci avrebbe ucciso e probabilmente avrebbe fatto ap-
parire la nostra morte come conseguenza di un litigio fra amanti finito ma-
le. O forse si sarebbe concluso che qualcuno era entrato in casa, degli scas-
sinatori, e ci aveva aggredito disperatamente quando era stato scoperto
(bastava guardare lo stato della casa). Aveva certo trovato una spiegazione
ragionevole, ne ero sicuro, ma perché preoccuparmi di quale sarebbe stata?
Questo era affar suo.
Mi alzai su di un gomito, preparato al peggio ma deciso a difendermi.
Quando il campanello squillò.

39.
FLORA

Era una situazione ridicola: Midge e io stesi a terra, i sinergisti dissemi-


nati per la camera, pronti a uccidere... e adesso arrivava il solito piazzista.
Solo che non era qualcuno che vendeva profumi. E noi non avevamo
sentito il campanello elettrico; il suono era provenuto dalla vecchia cam-
panella appesa fuori della porta della cucina. L'imperiosità del suo squillo
ci diceva che il nuovo arrivato non era disposto ad andarsene (tutte le au-
tomobili ferme sulla strada indicavano che in casa doveva esserci qualcu-
no).
Mycroft fece a Kinsella un cenno appena percettibile e, prima che potes-
si muovermi, 1'americano scattò in avanti e fece scivolare un braccio sotto
la gola di Midge. I piedi di lei scalciarono nell'aria.
Mycroft mi si avvicinò. «Si liberi subito di chiunque sia. Non mi impor-
ta di come, ma deve farlo. Altrimenti la sua piccola beneamata ci andrà di
mezzo. Uno strattone del suo braccio la strangolerà in un attimo. Può farlo,
creda a me, può farlo facilmente...»
Guardai Kinsella e non dubitai che poteva farlo ed era pronto a farlo.
Guardando quel bel volto mi domandai dove era andata a finire la sua fac-
cia da torta di mele.
Mi alzai a fatica e pensai di aggredirlo prendendogli il braccio o sten-
dendolo a terra prima che potesse farle del male, ma respinsi subito l'idea:
quel furfante era troppo forte e troppo agile, e io troppo lento e non abba-
stanza forte.
«Se le fai del male... » dissi senza convinzione, e quella minaccia lo di-
vertì. Le strinse il seno con la mano libera per farmi capire quanto fosse
spaventato, e la sfrontatezza del suo sorriso mi fece rabbrividire.
Midge si contorse, con quel braccio che le opprimeva la gola.
Feci un passo verso di loro e lui aumentò la pressione sul collo di lei co-
sì che Midge sgranò gli occhi per il dolore.
«La ucciderò e poi toccherà a te» mi avvertì amabilmente.
Mi ritirai alzando le mani: non c'era nulla da fare. La campanella da bas-
so suonò ancora.
«Non faccia sciocchezze in nessun caso,» mi avvertì Mycroft.
Lo sfiorai andando nel corridoio. E tutta una pazzia, continuavo a ripe-
termi scendendo le scale. Tutta questa maledetta faccenda è un'incredibile
pazzia. E se questi esaltati vogliono farci fuori in ogni modo, perché non
fare un tentativo dopo aver aperto la porta? Almeno potrei avvertire la po-
lizia. Ma le chiavi dell'auto sono ancora di sopra, sono cadute nel trambu-
sto. Tuttavia quello che ha suonato deve avere un'automobile. Portalo con
te chiunque sia, va al villaggio e torna con aiuti; era questa la cosa da fare.
Ma lasciare Midge sola nelle mani di quei pazzi? Questa domanda non ri-
chiedeva nemmeno una risposta consapevole.
Un gradino cedette sotto il mio peso e mi trovai improvvisamente sedu-
to, con un piede sprofondato nel tappeto. Un movimento alle mie spalle mi
avvertì che un sinergista, o forse due spiavano alla svolta delle scale pronti
ad avvertire di quello che avrei fatto aprendo la porta.
La campanella non suonava più.
Sentii una terribile disperazione.
Poi la porta fu spinta.
Mi rialzai e scesi rapidamente gli ultimi scalini, oltrepassai la cucina e
raggiunsi la porta senza pensare ad altro. Il battente veniva spinto come se
la persona dall'altra parte fosse adirata e impaziente e disperasse di essere
fatta entrare. Le mie dita toccarono il catenaccio e rabbrividirono al contat-
to del freddo metallo. Improvvisamente mi resi conto di chi c'era là dietro.
Non so come lo sapessi, ma lo sapevo. La mia mano si abbassò lentamente
come di sua volontà e io fissai la porta.
Lei aveva cercato di incontrarci già da molto tempo.
La mia paura aveva raggiunto il massimo sorgendo dalla fangosa palude
del terrore come un essere gocciolante da un acquitrino. Stavo realmente
per affrontare quella figura che ci aveva osservato da lontano? Volevo ve-
ramente trovarmi faccia faccia con quel volto devastato, trovarmi a pochi
centimetri di distanza da lui? Volevo sentir l'odore della sua putredine così
da vicino, il puzzo della morte corruttrice che aveva già viziato l'aria nel
villino? Volevo incontrare finalmente il mio incubo?
Ma avevo altra scelta?
Il suono era cessato come se lei sapesse che io ero dall'altra parte e che
fra poco la porta si sarebbe aperta. Afferrai ancora il catenaccio e lo trassi
indietro, costretto da una volontà diversa dalla mia.
Le mie dita scivolarono sul legno verniciato abbassandosi fino al sali-
scendi ai piedi della porta. Tolsi il fermo e cominciai a far scivolare il sali-
scendi.
«No!»
Ancora chinato, mi voltai e vidi Mycroft in fondo alle scale; qualche co-
sa lo aveva spinto a seguirmi.
Un'ombra di panico nel suo comando mi disse che anche lui sapeva chi
era lì.
«Non apra quella porta!»
Gli sorrisi nervoso. Alzai del tutto il saliscendi e girai la chiave nella ser-
ratura. Poi aprii la porta.
Osservai la figura sulla soglia, stupito e senza parole.
Perché naturalmente avevo sbagliato ancora.
Venne verso di me brontolando come sempre. «Credevo che non mi a-
vresti mai aperto,» sbuffò Val entrando nella cucina prima di voltarsi. «Ho
visto le automobili parcheggiate fuori e ho pensato che avessi visite, ma ho
suonato e tempestato per secoli. Stavo per girare dall'altra parte.»
Grossa, irsuta Val; in tweed a due pezzi, scarponi e calze pesanti; grossa
e baffuta Val.
«Val,» gracchiai. Non ero arrabbiato come l'ultima volta.
La brezza che veniva dalla porta aperta mi raffreddava la nuca umida.
«Buon Dio, devi aver pensato che fossi un fantasma dal modo con cui
mi guardi. Stai bene, Mike? Sono venuta perché ero ansiosa per quello di
cui abbiamo parlato al telefono. Sai c'è qualche cosa di molto strano...»
«Si sbarazzi di lei!» stridette Mycroft.
Val, ovviamente, lo aveva visto appena entrata nel villino, ma adesso ri-
volse al sinergista la sua piena attenzione. «Prego?» disse. Io stesso ero
stato fulminato da quel tono e da quello sguardo un paio di volte nel passa-
to.
«La faccia andar via.»
Mycroft parlava con voce bassa e calma, ma io sapevo che la sua pa-
zienza era agli sgoccioli. Quanto a me, ero lieto di vederla, sebbene mi
rendessi conto che la sua presenza non portava alcun aiuto alla situazione;
per quanto Val fosse formidabile, dovevamo competere con qualche cosa
di più del solo numero.
«Mike, mi dispiace di aver interrotto qualche faccenda, ma vuoi avere la
bontà di informare questo screanzato cretino...»
Si era voltata verso di me, ma il suo sdegno si interruppe insieme alla
sua frase quando guardò la porta dietro di me.
La brezza che alitava era divenuta ancora più fredda portando con sé una
particolare fragranza agrodolce.
Una mano mi toccò la spalla dal di dietro.
Senza avere il coraggio di guardare direttamente, volsi appena la testa e
vidi l'ombra. Il suo respiro mi sfiorò la guancia. Mi voltai completamente.
Era piccola, molto più piccola di quanto mi aspettassi. Sottile. E fragile.
E aveva il volto più vecchio e più dolce che avessi mai visto.
I suoi occhi erano pallidi, ancora più pallidi di quelli di Midge, e sem-
brava che vi passassero delle nubi. Le labbra erano sottili, piegate in giù
alle estremità; ma tuttavia era una bocca dolce: la piega agli angoli non in-
duriva la sua espressione. E sebbene il naso fosse affilato, non presentava
arroganza ma solo decisione. Le rughe segnavano in tutti i suoi lineamenti,
tuttavia era un volto chiaro, pulito, pieno di compassione. Portava una
sciarpa a mo' di foulard, molti colori intrecciati nel suo ruvido tessuto sen-
za un particolare disegno; capelli bianchi, che le cadevano a ciocche sulle
spalle, spuntavano da sotto la sciarpa. La veste era lunga, accollata, di un
grigio scuro, di moda al tempo del «Ritratto della madre» di Whistler.
Flora Chaldean alzò l'altra mano.
Improvvisamente capii, con quel tocco, la straordinaria quantità di ener-
gia spirituale che era stata necessaria perché lei giungesse a questo punto. I
suoi precedenti fenomeni genericamente periferici, il suo graduale avvici-
narsi al villino non erano stati altro che una manifestazione visiva (o visio-
naria) del suo sforzo di materializzazione, l'accumularsi di forze psichiche,
il modellarsi della sua esistenza spirituale in forma tangibile. Tuttavia in
qualche modo sentivo che solo quello che stava avvenendo a Gramarye in
quella notte aveva permesso che l'ultima barriera tra il mondo spirituale e
il mondo fisico fosse spezzata.
Vidi tutto questo nei suoi occhi evanescenti, come se quei vapori fossero
i suoi veri pensieri. E mi resi conto che la sua presenza era un avvertimen-
to, come lo era stata per tutto questo tempo a Gramarye, quando la sua
forma era stata osservata solo come un'ombra spettrale a distanza.
Lei si avvicinò e aprì la bocca per parlare, ma ancora una volta, non so
se ho udito le sue parole o percepito il suo pensiero.
Tuttavia quello che lei disse con le labbra o col pensiero fu solo:
«Tu...»
E poi cominciò a lasciarsi andare davanti ai miei occhi. Fu come se a-
vesse bruciato tutta l'energia psichica che era stata necessaria per portarla a
quel momento, 1'impulso finale di entrare in Gramarye usando le sue po-
che forze; adesso il processo si rovesciava nel declino, avanzato verso i
sensi fisici tornava indietro come un film girato alla rovescia. Fui lieto di
non essermi avvicinato a lei durante gli stadi precedenti, quando l'avevo
vista all'aperto, presso la foresta, intenta a osservare Gramarye.
Le rughe del suo volto e delle sue mani si approfondirono e poi scom-
parvero lasciando solo delle deboli linee, e la sua carne si... dissolse. Dai
suoi occhi venne una passione come se le nubi si fossero raccolte in una
nebbia opaca. Le sue mani colpirono le mie spalle battendo un debole
tamburellìo irregolare, e la sua pelle divenne cerea, quasi lucente come
carne congelata. Cominciò a stendersi, divenne sottile come carta; comin-
ciò a lacerarsi.
La sua dissoluzione fu rapida, ma ogni secondo fu senza tempo.
Poi cominciò la decomposizione del suo corpo.
Là dove si erano posate le mosche su di lei quando era rimasta accascia-
ta davanti al tavolo della cucina di Gramarye, tanti mesi prima, riapparvero
le loro uova, bianche larve brulicanti che banchettavano e crescevano for-
mando un reggimento perfettamente addestrato di minuti carnivori, dispar-
vero nelle cavità da loro stesse formate.
L'intenso fetore si rovesciò su di me e io trattenni il respiro per non ina-
lare quei fumi.
La sua carne cominciò a disfarsi, a colar via, mettendo in evidenza mu-
scoli e ossa, e lasciando allo scoperto quei piccoli esseri che strisciavano
nel suo intimo. Le palpebre non ebbero più la consistenza per trattenere i
suoi occhi, che sporsero dal volto devastato. Una mano che era rimasta sul-
la mia spalla mi scivolò lentamente lungo il petto e le ossa delle dita - su
cui era rimasta poca carne - si impigliarono nella mia camicia a brandelli.
Si contrasse davanti a me: la sua figura, che era stata piccola in vita, di-
venne ancora più piccola via via che le ossa e i muscoli rientravano gli uni
negli altri. L'altra mano si sgretolò.
Altre cose si contorsero in quelle buie occhiaie cave, cose nere che sci-
volavano l'una sull'altra come spaghi fradici. La mascella si aprì, non più
sostenuta, e anche la lingua nera e floscia parve unirsi alle schiere degli a-
nimali striscianti divenendo una di loro.
La sciarpa le scivolò dalla testa e i bianchi capelli caddero in ciocche
sparse e flaccide mentre rimanevano solo isole di pelle sul cranio grigio.
Il suo corpo si sfasciò lentamente e cominciò a dissolversi prima ancora
di raggiungere il pavimento. Le vesti, le ossa, la carne liquefatta rimasero
in mucchio sulle piastrelle ma, in pochi attimi, anche quelle scomparvero.
Non rimase nulla di Flora Chaldean eccetto l'odore.
Indietreggiai barcollando, appoggiandomi allo stipite della porta. Val os-
servava dalla cucina senza credere ai suoi occhi. Mycroft si era lasciando
andare contro le scale. Aveva gli occhi socchiusi, come se fosse esausto,
svuotato di ogni energia.
E tuttavia, stranamente, io mi sentivo carico: una specie di energia chi-
mica scintillava in me spingendomi il sangue in tutto il corpo, facendomi
formicolare e fremere le estremità dei nervi. Lei mi aveva toccato la spalla
e i suoi occhi e i suoi pensieri mi aveva riempito. Ma ancora non capivo.
Finché mi accorsi che Mycroft mi guardava intimidito e sentii la sua
paura e il suo rispetto. Allora cominciai a capire...

40.
LE COSE SI SCATENANO

Mycroft scomparve su per le scale - e sentii anche altri passi, evidente-


mente quelli dei suoi seguaci che erano rimasti nascosti - mentre alzavo le
mani esaminandole e domandandomi perché palpitassero così e perché la
cute e tutte le parti pelose del mio corpo mi formicolassero con una sensa-
zione di aridità. Mi toccai la testa: i capelli erano ruvidi (quasi mi aspetta-
vo che fossero irti). Era dunque questa la sensazione fisica che proveniva
dal possesso della magia?
Il possesso della magia. Non poteva essere! Non per me non per Mike
Stringer, scettico e quasi miscredente. Ma venivo trasportato da qualche
cosa che non badava alla mia incredulità e alla mia confusione.
Val si sorreggeva stringendo il tavolo con le mani. Sembrava sconvolta e
non c'era da meravigliarsene con tutto quello che era successo da quando
era entrata nel villino. Adesso, tuttavia, sembrava incuriosita, rendendosi
conto del mio cambiamento avvenuto.
Non credo che questo cambiamento fosse tangibilmente visibile, ma lei
sapeva che era realmente avvenuto. Naturalmente, per quanto ne sapessi,
potevo emanare delle luci azzurre dalle orecchie, ma non lo credo. Il cam-
biamento della mia mente, comunque, era lieve, altrimenti penso che sarei
stato totalmente travolto da questa metamorfosi.
Il buffo era che avevo paura, ma che lo spavento non mi atterriva. Ha
senso tutto questo? La paura mi eccitava perché era qualche cosa di nuovo,
e con il suo acquisto - o dovrei dire con la sua liberazione - veniva un sen-
so di benessere, un elemento essenziale che contribuiva a bilanciare il
nuovo potere. Immaginiamo di essere nati ciechi e che un giorno un colpo
in testa ci permetta di vedere. Si pensi all'eccitazione, al reverente timore
per ogni cosa che ci è intorno, alla paura di tutto.
Tuttavia non ero ancora sicuro al cento per cento. Il tocco e i pensieri di
Flora mi avevano instillato la conoscenza, avevano acceso l'interruttore
della consapevolezza, ma che diavolo! Poteva essere stata un'allucinazio-
ne. Vi era solo un mezzo per saperlo, e un brivido nervoso mi attraversò
mentre mi avviavo alle scale.
Val tentò di prendermi per un braccio mentre passavo, ma qualche cosa
le fece ritrarre la mano prima che mi toccasse.
Salii le scale in fretta, pronto al combattimento, e forse desiderandolo.
I sinergisti mi aspettavano, ma erano confusi; e né l'evidente panico di
Mycroft né il mio arrivo avevano provocato il loro disordine.
Una luminosità blu-viola emanava da ogni oggetto nella stanza rotonda:
il divano, le sedie, i mobili, i libri, i quadri, la mensola del camino, le inte-
laiature delle finestre, le tende, tutto, inondando la stanza con la sua luce
misteriosa ; anche il soffitto era soffuso di colori elettrici. Spielberg non
avrebbe potuto ottenere un effetto più impressionante. Il bagliore delineava
i corpi umani ma in modo non meno sconcertante. Se qualcuno faceva
schioccare le dita, dei disturbi elettrici tuonavano nell'aria; se qualcuno
starnutiva, le correnti d'aria creavano un uragano.
La stanza rotonda era viva.
Palpitava e vibrava; ma non vi erano suoni e non vi erano movimenti: la
sua esistenza poteva solo essere intuita con meraviglia.
Rimasi sulla soglia e sentii la stanza respirare su di me. Da una parte
Gillie era sostenuta dalla ragazza chiamata Sandy. Gli altri guardavano an-
siosi le pareti e i mobili. Neil Joby sembrava stesse per vomitare. Vidi un
uomo toccare il cavalietto del tavolo da disegno sotto la finestra infranta e
subito ritrarsi mentre il fulgore si espandeva dal suo braccio rafforzando
per un momento la sua luce. L'Uomo Ossuto era lì e direi che avrebbe vo-
luto fuggire se io non avessi bloccato con la mia presenza la porta; rimase
lì, in un atteggiamento indeciso. Kinsella teneva ancora Midge e sembrava
il più calmo di tutti.
Anche più calmo di Mycroft, che era nel centro con gli occhi fissi su di
me.
Era il momento della verità. Io inghiottii.
Anzitutto Kinsella.
Esitai: chi non lo avrebbe fatto nella mia situazione? Per questo, forse,
non agii immediatamente. Avevo bisogno di tempo e di esperienza per ac-
quistare confidenza, e non avevo né l'uno né l'altra.
Kinsella si vide improvvisamente il braccio trasformato in una zampa di
capra. Non avevo idea del perché avessi scelto una capra : mi era passata
per la mente e io avevo trasferito 1'idea nelle sue braccia. Purtroppo l'im-
magine fu solo momentanea: Midge si trovò ancora nella sua stretta prima
che lui avesse il tempo di stupirsi e di lasciarla andare. Il suo stupore si
manifestò un secondo più tardi, ma lui continuò a tenerla: lasciò pendere la
mascella e inarcò le sopracciglia. Sbattè le palpebre pensando che fosse
stata un'illusione, e Midge tentò invano di liberarsi.
Nondimeno qualche cosa era avvenuto, e questo dava almeno un granel-
lo di credibilità a quello che mi sforzavo di credere. Potevo farlo! Dovevo
solo concentrarmi intensamente, e sarebbe avvenuto! Mi ero sempre sba-
gliato nei riguardi di Midge: lei era un elemento importante in tutto questo,
una sorta di catalizzatore, ma non era il successore di Gramarye. No: ero
io, mio Dio! Io! Ma non era questo il momento di speculare.
La forza della mia mente colpì ancora e io cercai di sostenerla imparan-
do già i trucchi, l'arte, o la tecnica della magia. Kinsella si accorse di avere
un braccio stretto da un sogghignante pitone. L'immagine fu più duratura
e, con uno strido da femminuccia, lasciò la presa.
Midge cadde a terra.
«Vieni qui, Midge,» gridai, e lei cominciò a strisciare senza capire per-
ché l'americano l'avesse lasciata e probabilmente senza domandarselo: vo-
leva semplicemente raggiungermi.
Ma la bacchetta di Mycroft la spinse indietro e la tenne lì ferma.
«Crede di poter competere con me?» gridò Mycroft nella mia direzione.
E, quant'è vero Dio, io risi. Penso che l'attacco isterico fosse tornato e mi
spingesse a questo.
Lui si infuriò: dovette credere che lo deridessi, e forse aveva ragione.
Tese la sua bacchetta e l'intelaiatura della porta intorno a me prese fuoco.
Io balzai indietro nel corridoio, atterrito davanti alla porta in fiamme.
Ebbi il tempo di vedere Val che mi fissava dalle scale, col volto inorridi-
to, illuminato dal fuoco. Non l'avevo mai vista restare senza parole e, a o-
nor del vero, fece del suo meglio per parlare. Ma riuscì solo a smuovere le
labbra.
«Non chieder nulla,» le dissi.
Poi mi tuffai ancora nella porta infiammata senza concedermi il tempo di
riflettere perché a questo punto o credevo o non credevo: non vi era una
via di mezzo.
Udii il grido rauco di Val, ma altri rumori nella stanza lo soffocarono. Il
fuoco dietro di me si spense improvvisamente e io mi accorsi di non avere
nemmeno una bruciatura.
Mycroft e io ci guardammo da un capo all'altro della stanza, mentre i si-
nergisti, intorno a noi gemevano senza preoccuparsi molto di me, ma inte-
ressatissimi a quello che succedeva intorno a loro. Tutto nella stanza - vo-
glio dire i cosiddetti oggetti inanimati - non solo sfolgorava, ma stava pul-
sando: le sedie, i mobili, perfino le pareti palpitavano come strani cuori. Il
tappeto si muoveva come se forti mani sotto di esso lo spingessero in su. E
i frammenti di vetro che erano schizzati via dalla finestra oscillavano ad
alcuni centimetri da terra come saltellanti grani di cristallo. L'Uomo Ossu-
to cercava di raggiungere il saliscendi di una finestra mentre altri seguaci
lo spingevano alle spalle, pensando solo ad andarsene dal villino; ma, ap-
pena afferrò l'asta di metallo, il suo corpo vibrò e i pochi capelli che gli re-
stavano crepitarono come se avesse ricevuto una scossa elettrica. Saltò via
trascinando con sé gli altri in una confusione di braccia e di mani che si
dibattevano. Vi furono strilli di donne nella stanza (e anche di parecchi
uomini) e vidi che Joby aveva finalmente vomitato il contenuto del suo
stomaco senza tuttavia liberarsene completamente, versandoselo sul collo,
sul petto e sulle spalle. Mattoni e fuliggine precipitarono nel caminetto,
una nube di polvere ne scaturì avvolgendosi in spire nell'aria; la muffa sul-
le pareti parve una ribollente putredine.
La sala rotonda aveva perso gran parte del suo fascino.
Mycroft borbottò qualche cosa che non riuscii a capire nel trambusto;
pensai che fosse un incantesimo piuttosto che un brontolio di rammarico e
mi domandai che cosa avesse in mente. Ma capii subito.
Una ragnatela cominciò ad avvolgersi attorno a me, prendendomi prima
le braccia e poi le gambe e continuando ad avvolgermi sempre più come
una sottile rete di acciaio, coprendomi il petto e il ventre e subito intrec-
ciandosi a quella che mi avvolgeva le cosce. La rete argentea mi raggiunse
le spalle e vidi che vi era una quantità di piccoli ragni tra i fili, tutti al lavo-
ro che sollevavano e allungavano le zampette sottili. Il bozzolo crebbe ra-
pidamente e in meno di un minuto giunse alla gola dove si restrinse. Tutto
l'insieme si strinse così che riuscivo appena a respirare. Midge era in gi-
nocchio e gridò il mio nome. Avevo paura? Sì, più di quanta sia possibile
descrivere. Ma mi imposi la calma perché sapevo che era tutto un trucco e
che poteva essere realtà solo in quanto la mia mente gli permetteva di es-
serlo. Evocai un'invisibile lama su quei fili.
L'intreccio si spezzò e, prima che la lama mi giungesse allo stomaco, tut-
ta la ragnatela scomparve.
«Questo è quanto di meglio sa fare?» sfidai Mycroft ostentando una bal-
danza che non sentivo affatto.
Il colpo d'un invisibile maglio che mi spinse ancora nel corridoio mi dis-
se che aveva appena cominciato. Rimasi contro la porta del retro, teso, e
ripromettendomi di non aprir più bocca in futuro. Tuttavia il dolore veniva
dalle spalle, dove avevo colpito la porta, e non dal petto, dove immaginavo
di essere stato colpito. Quando mi ripresi, corsi ancora nella stanza rotonda
scontrandomi con i sinergisti che cercavano di uscirne, dato che la paura
aveva preso finalmente il sopravvento sulla fedeltà al loro capo. Si scosta-
rono da me come se fossi un appestato, tornando in fretta nella stanza. De-
vo ammettere che non potevo biasimarli per il loro tentativo di fuga, per-
ché quello era divenuto decisamente un luogo poco sicuro. Se Midge non
fosse stata lì, me la sarei data a gambe anch'io.
Le assi del pavimento uscivano dal tappeto piegandosi in su come suc-
chiate da un turbine; anche il soffitto si incurvava a forma di cupola. Lun-
ghe, fratture frastagliate spaccavano le pareti.
Una luce scattò dal bastone di Mycroft verso il mio cuore, e per un ri-
flesso spontaneo io la bloccai con un pensiero. E poi la respinsi.
Il suo bastone esplose: frammenti ardenti volarono nell'aria. Lui barcollò
all'indietro e per poco non cadde. Ma si riprese e mi fissò con un insieme
di stupore e di terribile odio. L'allievo aveva superato il maestro, pensai
trucemente.
Poi mi mostrò cose che non voglio rivedere - o immaginare -mai più.
Aprì l'accesso a un incubo e mi condusse in esso. Non ero più a Gramar-
ye ma in qualche altro luogo, in un'altra dimensione buia e sconosciuta,
dove la decomposizione era fraganza, dove la pena e la sofferenza erano
aiuto. Una buia pianura dove il disgusto sostituiva l'amore, l'oscenità la pu-
rezza. Non so se mi aveva fatto passare per la porta laterale dell'inferno o
se mi aveva condotto in un corridoio perduto della mia stessa mente. Forse
erano entrambi la stessa cosa.
Sapevo solo che, se non mi ritraevo da quel mondo sotterraneo dove l'or-
rore si insinuava nell'oscurità intorno a me, se non trovavo subito la strada
del ritorno, sarei rimasto lì per sempre. Era come la rinuncia al mio stesso
pensiero.
Vidi una massa che si affollava verso di me provenendo dall'ombra, una
massa che mi parve una folla in cammino, vidi gambe farsi avanti a fatica,
profili di braccia ondeggianti, teste agitate qua e là; ma quando mi furono
più vicine mi resi conto che era un'ardente massa di gente fusa insieme da
un fuoco che aveva liquefatto e confuso le loro carni.
Vidi un fiume che fluiva nell'aria sopra la mia testa e, nelle sue putride
acque, delle creature che non erano né pesci né uomini, ma in parte en-
trambi; si nutrivano di se stessi scegliendone uno in un gruppo e mettendo-
lo al bando per divorarlo. Vidi strani rettili che strisciavano sulla nera terra
e che, quando si avvicinavano, erano solo sacchi membranacei pieni di una
moltitudine di forme che si contorcevano, differenti specie di vermi, larve
e insetti tutti chiusi nello stesso guscio trasparente, provocando con la loro
irrequietezza il movimento dell'insieme. Vidi mostri che sfidavano ogni
descrizione, assorbii pensieri troppo ignobili per essere riferiti. Esistevo in
una tetra e tenebrosa regione inferiore il cui orrore aveva un proprio fasci-
no.
Qualche cosa di freddo e di viscido mi avvolse la caviglia e io gridai.
Ma prima che il grido smorisse sulle mie labbra, la voce di Midge mi ri-
portò nel mio mondo, per quanto bizzarro e caotico fosse divenuto.
Non sapevo come fosse sfuggita a Kinsella, ma lei era lì e mi scuoteva,
battendomi il petto, strappandomi da quell'altra dimensione, riportandomi
indietro da qualche profondità che era in me stesso, un luogo scuro e se-
greto che è in tutti noi.
Cessò di colpirmi solo quando nei miei occhi apparve un segno di rico-
noscimento; e allora nascose la testa nella mia spalla.
«Oh, Mike, Mike, ho avuto tanta paura! Non eri più tu... per un momen-
to sei stato solo un guscio vuoto e senza vita!»
L'abbracciai, il sollievo divenne esultanza: la sensazione che si può ave-
re sopravvivendo a un orribile incidente; la paura ossessiva di quello che
avrebbe potuto succedere viene in seguito.
Sebbene mi fossi ingannato sul compito di Midge negli eventi che ave-
vano portato a questo momento, mi resi nuovamente conto che lei aveva
una parte importante: era certo un catalizzatore, ma non del genere che
pensavo; per me era sempre stata la motivazione, il legame fra me e Flora
Chaldean... l'intermediario che mi aveva condotto a Gramarye. Aveva la
sua particolare positività.
Mycroft era indietreggiato verso la mensola del camino, e la polvere si
levava ancora dal focolare più sotto formando una nebbia fuligginosa in-
torno a lui. Come ho mai potuto descrivere il suo aspetto come mite? Con i
suoi occhi minacciosi e le spalle curve, le mani alzate come artigli, la boc-
ca piegata in giù e il volto solcato da rughe che prima non apparivano, im-
brattato di polvere. .. Gesù, appariva come un abitante di quell'incubo che
avevo appena lasciato.
Tuttavia cedeva, la sua riserva di trucchi si era esaurita e lui, ovviamen-
te, lo trovava difficile da sopportare. Devo dire che appariva non solo in-
debolito, ma anche sconcertato. E ne fui lieto: ero nauseato della sua e-
spressione soddisfatta. Ma vi era ancora della vitalità in quel furfante.
Agitò la mano e creò fra noi un muro di animali repellenti i cui corpi irti
di peli formavano letteralmente dei mattoni (credo di avere già detto che
non sopporto i ratti) sovrapposti fino all'altezza di un metro e mezzo così
che potevo vedere solo la testa di Mycroft al di là, quasi posata su quel-
l'ammasso di pelame come un grottesco uovo pasquale.
I sinergisti furono ancora più spauriti: essi non badavano affatto a quel-
l'immagine.
Il muro franò quando io mi raffigurai un enorme maglio che lo colpiva e
i ratti fuggirono in tutte le direzioni scomparendo prima ancora di trovare
un rifugio.
Sorrisi senza badare al trambusto tutt'intorno.
Lui squarciò l'aria davanti a me così da far apparire un vuoto di assoluto
nulla; un turbine tentò di succhiarmi in quel vuoto.
Chiusi l'apertura con punti immaginari.
«Io sono più giovane di lei, Mycroft!» gli gridai, e lui capì che alludevo
a Flora. «Posso sostenere tutti gli sforzi che mi oppone. Giovane e fresco,
capisce? Non può farmi alcun male!»
Non avrei dunque mai imparato? Indietreggiai quando qualcuna di quel-
le cose che credevo di essermi lasciato alle spalle nella regione inferiore
cominciò a strisciare dai buchi creati nel pavimento. Il tappeto cominciò a
lacerarsi tutt'attorno a me, e mostri simili a lumache strisciarono lentamen-
te su dagli orli lasciando bave lucenti. Mani scabbiose, gocciolanti di pus
si aggrapparono al tappeto lacero. Quelle membrane, piene di una vita con-
torta, si agitavano nell'aria prima di ripiegarsi sull'orlo. Sbuffi di fumo nero
salivano in lente spire, piene di microrganismi pestiferi, male corruttore
che vaga nel profondo, sovvertitori che cercavano di farsi strada verso la
superfìcie cercando manifestazioni, definizione, attuazione. Erano queste
le sostanze infiltranti del male.
Io mi chinai fino a inginocchiarmi perché la loro esistenza dipendeva
anche da me; io ero la loro fonte ed esse minavano la mia forza.
Anche Kinsella era in ginocchio, presso una delle cavità che si allarga-
vano, con le mani strette fra le sue cosce (adesso capii come Midge si fos-
se allontanata da lui) e la cosa che si era avvolta attorno alla mia caviglia
quando mi ero perso in quel breve ma eterno incubo della mia mente infe-
riore, stava raggiungendolo dall'apertura e avvolgendo la sua.
Kinsella gridò e colpì forte col pugno quella corda scintillante, che si
contrasse ritirandosi nella sua cavita, e lui attraversò faticosamente la stan-
za a carponi, singhiozzando.
Altre forme emergevano, di cui anche Mycroft sembrava avere un miste-
rioso spavento; erano infangate e fosche come spremute fuori dalla terra
sotto la stanza rotonda.
Una ventata passò impetuosa presso di me scompigliandomi i capelli e i
vestiti; altri nella stanza cadevano, gemevano, si aggrappavano ai vicini
per sostenersi a vicenda. I bagliori elettrici erano più intensi, come per u-
n'ardente radiazione. I mobili si sollevavano, i libri attraversavano volando
la stanza. Il cavalietto del tavolo da disegno si schiantò contro un muro tra-
scinando con sé un sinergista: credo che fosse Uomo Ossuto, anzi, sono si-
curo che era lui.
E adesso le pareti si stavano spaccando.
Un corpo cadde rumorosamente presso di me, e improvvisamente Midge
mi fece voltare a forza il volto perché la guardassi.
«Puoi fermarli, Mike» gridò nel frastuono. «Non puoi lasciare che se ne
vadano! Tu puoi fermare Mycroft!»
«No, non so come fare! E stato tutto un errore, Midge. Non sono l'uomo
giusto! Non so usare la magia!»
«Basta che ci creda, è tutto quello che devi fare! Gramarye ti aiuterà! Le
forze sono qui... tu devi solo dirigerle!»
Poteva essere così semplice, così facile? Delle voci - dei pensieri - mi
dissero che era così, e questa affermazione, detta o suggerita, veniva da co-
loro che erano vissuti lì prima di me, da altri che erano stati guardiani, che
avevano custodito il potere di quel luogo, di quel terreno, per il Bene.
Non solo Flora, ma quelli che l'avevano preceduta e altri ancora prima di
loro, risalendo a un tempo in cui quel luogo non era che una radura circola-
re in una folta foresta, forse all'epoca dei draghi, delle streghe, dei bianchi
castelli, all'epoca delle leggende che crediamo inventate. Forse un'epoca
ancora precedente.
Immaginai questi tempi e le immagini si diffusero dalla mia mente.
Urlai a quelle oscenità insorgenti ed esse esitarono, cominciarono a sci-
volar via ricadendo nelle melmose profondità da cui erano sorte. Nei pro-
fondi regni del mio pensiero.
Gradualmente un altro suono si formò sotto quel tumulto, un tambureg-
giamento, un ritmo che sottolineava l'ululare del vento.
L'interno del camino palpitò con il loro volo, e ancora una volta i pipi-
strelli scesero dall'apertura del camino stridendo e sciamando su Mycroft,
colpendolo con le loro ali. In pochi secondi lui ne fu sommerso e spinto
contro la mensola del caminetto.
Lo avvolsero quasi completamente, così che il suo aspetto fu simile a
quello degli esseri che erano tornati nelle loro sedi sotterranee.
Nella mia mente vi era una luce che dissipava l'oscurità da cui per poco
non ero stato travolto, un'alba che vinceva la notte.
Con l'aiuto di Midge riuscii a tenermi in piedi, e Mycrofte io ci guar-
dammo in faccia per l'ultima volta prima che il suo volto fosse coperto dai
piccoli mostri divoratori. Non ho idea di quello che lui avesse sentito per
me: notai solo un grande vuoto nei suoi occhi. Il sangue scorse tra i corpi
frenetici dei pipistrelli che lo soffocavano, bagnandoli e sgocciolando sul
pavimento. Lo dissanguarono lì, senza che potesse fuggire.
Nel corridoio, la porta sul retro si spalancò e si chiuse di colpo, allettante
trappola per coloro che cercavano di fuggire. Alcuni furono sbattuti fuori,
altri vennero schiacciati contro lo stipite e i loro corpi furono sputati nel
corridoio come semi da una bocca.
Le spaccature delle mura ricurve si aprivano sempre più e altri pipistrelli
vi si infilarono mentre altri ancora passavano dalle finestre frantumate. Vo-
larono attorno alla stanza, portati dal vento, piombando sulle facce e sulle
mani che trovavano. I mattoni cominciarono a staccarsi dalle pareti scat-
tando come missili attraverso la stanza.
Midge mi afferrò il braccio indicando in alto.
Il soffitto si alzava nel mezzo diventando più curvo, più incavato di pri-
ma. Le assi del pavimento si liberarono dal tappeto e si sollevarono fino al
soffitto per raccogliersi lì insieme ai libri, ai cuscini e ai soprammobili. Il
divano cominciò a sollevarsi e roteò nell'aria girando su un angolo rimasto
a contatto col suolo. Molti sinergisti erano appiattiti contro le mura che si
sgretolavano. Io sentii su di me la pressione gravitazionale, lateralmente e
verso l'alto e dovetti resisterle. Gramarye stava frantumandosi fino nelle
radici (e Dio solo sa dove esse fossero).
«Dobbiamo uscire!» gridò Midge, con la faccia avvolta dai capelli. «Sta
per avvenire qualche cosa di ancora più terribile, lo sento!»
Lo sentivo anch'io. Sapevo che aveva ragione. Le forze erano state rav-
vivate, scatenate, esplodevano come da un pozzo di petrolio, e io non sa-
pevo come arrestare il flusso. Stretti l'uno all'altra andammo barcollando
verso le scale lasciandoci dietro quella carneficina, la paurosa immagine di
Mycroft dissanguato, le facce deturpate di coloro che erano stati colpiti
dalle pietre o straziati dai pipistrelli, la tempesta che devastava le mura in
rovina. Il tutto inondato da quel bagliore elettrico.
Avevamo già quasi oltrepassato la porta quando due dure mani mi affer-
rarono alla gola dalle spalle.
Fui spinto indietro e gettato sul pavimento che erompeva ruggendo. Poi
un potente peso sul mio petto mi inchiodò lì, e le mani che mi stringevano
il collo mi attaccarono di fronte. Stupito dapprima, aprii gli occhi e vidi il
nostro eroe americano che mi gridava qualche cosa e non aveva più quel
suo aspetto ordinato. Il naso e le guance erano macchiati di rosso e sulla
fronte aveva una profonda ferita da cui il sangue usciva a fiotti. I suoi
biondi capelli erano arruffati e polverosi; Dio sa come erano state strappate
delle ciocche così che appariva la cute violacea in quella luce innaturale.
La follia che aveva nello sguardo rivelava in lui il vero discepolo di
Mycroft.
Gli afferrai i polsi e cercai di allontanare le sue mani, ma lui si divertì
del mio sforzo guardandomi truce e aumentando la pressione.
Allora Midge si scagliò su di lui graffiandogli la faccia con le unghie e
afferrandogli il margine della ferita sulla fronte e sollevandogli la pelle.
L'osso era sporco di sangue, con qualche piccola macchia bianca,
Kinsella la spinse facilmente da parte con il dorso della mano senza ba-
dare al dolore e al sangue che lo accecava. Ma l'altra potente mole che si
fece avanti non si poteva allontanare con eguale disinvoltura. Una grande
mano lo afferrò sotto il mento e gli trasse la testa all'indietro continuando a
tirare mentre un'altra mano lo colpiva duramente alla gola. Un getto di sa-
liva mi bagnò il volto, ma non ci badai affatto.
Lo spinse a terra e uno dei suoi pesanti scarponi lo colpì sugli incisivi.
Val faceva sul serio.
Si avvicinò a Midge e la tirò su, chinandosi per evitare gli oggetti e i pi-
pistrelli che volavano sulla sua testa, poi si voltò per aiutare me; ma io ero
già in piedi.
La stanza stava esplodendo intorno a noi, la sezione centrale del pavi-
mento era completamente andata, le assi che rimanevano erano piegate in
su e ondeggiavano come rigide banderuole; dalle aperture sgorgavano terra
e fango schizzando fino al soffitto. Dalle pareti cadevano mattoni in bloc-
chi troppo pesanti per essere trascinati dal vento. I sinergisti che non erano
fuggiti, né giacevano sul pavimento in cui si erano aperte voragini, ma e-
rano premuti contro le pareti, incapaci di liberarsi.
Val spinse Midge e me verso la porta, decisa e indomabile come sempre,
anche se era atterrita e fuori di sé.
La porta sul retro battè ancora rumorosamente, invitandoci a tentare la
sorte, a sconfiggere il diavolo: filate via alla svelta!
«Dalla cucina!» comandò Val senza nemmeno considerare quell'invito.
Ci precipitammo insieme giù per le scale inciampando nelle assi scon-
nesse e nel tappeto e tutti e tre ruzzolammo in un ammasso di braccia e di
gambe. Ci fermammo in fondo, mentre le mura palpitavano ai lati.
Ci districammo farfugliando e gemendo e riprendemmo la fuga mentre
dietro di noi i rumori divenivano ancora più forti. Attraversammo la cuci-
na, con Midge in testa; la luce del soffitto si accendeva e si spegneva in ra-
pida successione. Le piastrelle del pavimento erano tutte saltate via e bat-
tevano l'una contro l'altra come un mucchio di cocci così che non era facile
tenerci in piedi. Qualche cosa attrasse il mio sguardo, ma proseguii spinto
da Val. Midge aprì la porta sul davanti e tutti e tre saltammo il gradino
precipitandoci fuori del villino. Continuammo ad avanzare correndo lungo
il sentiero, con i fiori e le erbe che si agitavano sapendo che qualche cosa
di catastrofico stava per succedere laggiù, che la casa stava per esplodere,
o per franare, o per essere inghiottita dalla terra.
Ma io mi fermai bruscamente a mezza strada.
Midge e Val raggiunsero il cancello prima di accorgersi della mia man-
canza.
«Mike!» urlò Midge volgendosi.
«Scappa!» le gridai, poi mi volsi e corsi ancora verso Gramarye.
Nell'entrarvi, la udii che gridava ancora il mio nome.

41.
FINE?
Così conoscete tutta la storia.
Vi avevo avvertito che non sarebbe stato facile per voi credervi e, se è
difficile per voi, immaginate quanto lo fu per me allora. Ancor oggi a volte
mi chiedo...
Vorrei potervi spiegare meglio e collegare i vari fili come lo psichiatra al
termine del film Psycho, quando ci spiega, seduti nel buio della sala, le ra-
gioni dello strano comportamento di Norman Bates; ma lui aveva a che fa-
re solo con le complessità umane: questo è qualche cosa di diverso. E ma-
gia. Le spiegazioni non possono essere così precise.
Quello che ho imparato, per inciso, è che non esistono una magia buona
e una magia cattiva, una magia bianca e una magia nera. Vi è solo la ma-
gia. Quello che conta è il modo con cui viene usata e da chi. Se abbiamo il
potere, spetta noi dirigerlo.
Avevo sempre supposto che il potere lo avesse Midge, invece risultò che
lo avevo io. Fu un vero e proprio colpo, sebbene rapidamente e con facili-
tà, una volta riconosciuta la cosa, fu accettata, come avrete notato. E come
andare in bicicletta: quando si è imparato si può fare e si fa. Ma questo di-
mostra quanto poco si sappia realmente di noi stessi, e quanto rimanga na-
scosto e probabilmente mai usato. Dimostra anche quanto poco si sappia
delle leggi che governano le cose, se pur vi sono delle leggi.
Midge ha avuto una grande importanza in tutto questo: era servita a por-
tarmi a Gramarye; qualche bagliore nel suo inconscio l'aveva spinta a gui-
darmi là. Fu peculiare - ma questo lo avevo sempre saputo - una vera eletta
del Grande Disegno delle cose. Grande Disegno di chi? Del Grande Dise-
gnatore, ovviamente, chiunque Egli, Ella o Esso sia.
Mycroft, nella tradizione, fu uno di quei malvagi vecchio stile che vo-
gliono governare il mondo: desiderava il potere di Gramarye per i suoi
scopi: e non ho idea quali fossero in definitiva. Scomparve nel villino in-
sieme ai suoi seguaci che non erano riusciti a fuggire prima che le mura
franassero, e tra loro Hub Kinsella (difficile versare una lacrima per lui).
Gramarye non esplose, né solo franò, incidentalmente. Oh no. Implose,
rientrò in se stessa. Divenne solo un mucchio di macerie destinate a con-
sumarsi, prive di sbocco spero per sempre.
Fu piuttosto difficile spiegare questo alla polizia e ai vigili del fuoco
quando incominciarono a investigare. Noi raccontammo loro di non avere
alcuna idea di quello che era successo. Loro finirono col supporre che una
sacca di gas naturale si fosse formata sotto il villino espandendosi per
qualche tempo e scoppiando infine come una pentola a pressione con il
coperchio difettoso. Questo non aveva molto senso per me - probabilmente
neppure per loro - ma sappiamo come le autorità amino incasellare le cose,
renderle bene ordinate, precise e razionali. Fortunatamente per noi, Gillie
Slade si fece avanti mentre le inchieste erano in corso, e dissipò ogni idea
che qualche cosa di anomalo fosse avvenuta fra noi e i sinergisti.
Così, perché avremmo dovuto dire la verità su quello che era avvenuto?
Lo avreste fatto, voi? Pensate che qualcuno con la mente a posto ci a-
vrebbe creduto? No di certo.
Tutti e tre ci attenemmo a una storia di totale ignoranza. I sinergisti ci
erano venuti a trovare e, mentre erano là, era avvenuto il disastro. Che cosa
potevamo dire di più?
Midge e io siamo nuovamente in città, con Val che ci sorveglia con oc-
chio materno. Devo ammettere che mi sono affezionato molto alla Grossa
Val. Dopo alcune discussioni con la compagnia di assicurazioni - in che
cosa consiste esattamente un Atto Divino di cui parlava il contratto? - rice-
vemmo un bell'assegno come risarcimento per la perdita del villino, che ci
ha permesso di metter su nuovamente casa (nel nostro caso un apparta-
mento). Le cose, adesso, ci vanno benino: io ho finito il mio rock musical -
la versione definitiva include una quantità di maghi, di folletti e di magia -
e Midge ha disegnato alcuni scenari belli da togliere il respiro (credo che
abbiano molto contribuito al successo dello spettacolo). In questo momen-
to viene rappresentato a Manchester, e Bob sta pensando di portarlo a
Londra. Io ho scritto un paio di canzoni di successo (grazie soprattutto ai
grossi nomi che le hanno cantate), e sto per iniziare il mio secondo libro di
storie per bambini, che Midge illustrerà. E lei? Passa da una fatica all'altra,
con più lavoro di quanto possa eseguire (sebbene sia arrivata al punto di
poter scegliere), e Val ha organizzato per lei un paio di mostre personali.
Le sono stati dedicati articoli ed è anche apparsa alla TV. È graziosa come
sempre e modesta, lo l'amo più che mai e, quel che importa, la cosa è reci-
proca.
I miei rapporti con la magia? Be', quali che siano i poteri che ho tratto da
Gramarye, non li possiedo sempre. Qualche volta faccio qualche cosa di
geniale con meraviglia di entrambi, ma solo di tanto in tanto.
Suppongo che devo essere in qualche parte presso la fonte del potere,
dovunque sfoci nell'atmosfera, ma non me ne preoccupo troppo. Per pura
curiosità, recentemente, Midge ed io abbiamo fatto una gita alla Nuova Fo-
resta: tutto quello che resta di Gramarye è una macchia perfettamente ro-
tonda di terra nera sul terrapieno dove una volta esisteva la stanza rotonda.
Ha un'aria di mistero e ci ha fatto sorridere. Siamo andati all'osteria del
luogo dove il proprietario ci ha detto che il consiglio comunale deve sor-
vegliare attentamente la zona: a quanto sembra, i cosiddetti funghi magici,
quelli da cui si trae la mescalina, vi crescono in abbondanza rendendo la
zona un punto di ritrovo per gli hippy di passaggio. Il consiglio ha fatto
cospargere il luogo con veleni di ogni sorta, fino a impregnarlo, ma ci vuo-
le molto tempo perché i funghi smettano di crescere.
Ah, sì. Vi domanderete perché quella sera sono tornato nel villino. Ri-
cordate che ho detto di aver visto qualche cosa mentre attraversavo la cu-
cina correndo all'impazzata? Ebbene, quel piccolo mucchio peloso che a-
vevamo lasciato morto sulla tavola si era mosso: Rumbo aveva alzato la
testa e si guardava attorno domandandosi che cosa fosse tutto quel trambu-
sto.
Non mi ero reso veramente conto di quello che avevo visto finché non
fui arrivato a metà sentiero, e per questo mi voltai e corsi indietro.
Riuscii a ritrovarlo e a prenderlo qualche momento prima che Gramarye
si disintegrasse.
Credo che apprezzò il mio gesto, o forse era felice di essere ancora vivo,
perché mi leccò la faccia e le mani come un cagnolino. Non sarebbe mai
tornato il bello scoiattolo di una volta: le ferite sul collo e sulla gola si sa-
rebbero rimarginate, ma il pelo non sarebbe mai cresciuto. Non credo però
che se ne desse pensiero.
Lo lasciai andare quando fummo dall'altra parte del cancello e dopo che
Midge gli ebbe fatto grandi feste saltò via nell'oscurità, vivace come sem-
pre, dirigendosi verso la foresta e verso qualsiasi amore segreto tenesse na-
scosto là. Fu l'ultima volta che vedemmo Rumbo.
Adesso tutto questo fa parte del passato e la vita è piuttosto felice per
Midge e per me.
E tuttavia... e tuttavia entrambi sentiamo qualche volta un'irrequietudine.
Oggi Midge ha segnato con un cerchio un annuncio sul giornale e lo ha la-
sciato sul tavolino della colazione perché lo vedessi. E nella colonna Ac-
quisti e Vendite. Una casa piccola ma graziosa in un posticino appartato in
qualche parte dei Cotswolds.
Forse domani farò un colpo di telefono all'agente.
Forse.

«La magia ha il potere di sperimentare e scandagliare cose che sono i-


naccessibili alla ragione umana. Perché la magia è una grande saggezza
segreta come la ragione è una grande follia palese.»
PARACELSO

«Il problema della magia è quello discoprire e impiegare forze della na-
tura finora sconosciute.»
CROWLEY

«La magia è credere in ciò che non si dovrebbe, e gioire di credervi.»


STRINGER

FINE

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