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Lo specchio.

Vito si era stabilito a Roma negli anni ’50 ed aveva aperto


una bottega di parrucchiere in un vicolo del quartiere Ostiense
nei paraggi del Ponte di Ferro. Erano già trascorsi sei o sette
anni, ma in tutto quel tempo non era riuscito ad avviare
l’attività come avrebbe voluto e i ricavi servivano a malapena a
ricoprire le spese e a tirare avanti alla meno peggio. “E’ solo una
questione di tempo” lo rassicurava la moglie, “è una zona di
anziani, però già si incomincia a vedere in giro gente più giovane,
per forza dovrà esserci un ricambio della clientela”.
Vito però era ugualmente insoddisfatto e quando la mattina
si alzava, non riusciva a pensare ad altro per tutto il resto del
giorno. Era soltanto un bottegaio, però non lo si poteva
certamente definire un uomo di corte vedute, quindi cercava
onestamente di capire il motivo della scarsa popolarità del suo
negozio. Era stato costretto a diminuire i prezzi oltre il lecito,
ma questo sembrava non aver prodotto alcun beneficio
evidente, anzi, adesso aveva persino più difficoltà di prima a
causa dei minori margini. Era arrivato persino a chiedersi se
davvero fosse così bravo come credeva: si, era bravo, bravo
davvero, e scrupoloso. Non aveva nulla da rimproverarsi. Non
era semplicemente compreso. Per un taglio impiegava quasi il
doppio di quanto occorresse a qualsiasi altro parrucchiere che
conosceva; il taglio che effettuava era il risultato di uno studio
attento della conformazione della testa che aveva tra le mani e
nessuna cliente usciva se prima non era pienamente soddisfatto
egli stesso. Nonostante ciò, la sua clientela era perlopiù formata
da donne sciatte e anziane, comari poco esigenti che si facevano
acconciare da lui in occasione di qualche rara cerimonia poiché
praticava i prezzi più bassi della zona e anche perché faceva
credito.
Non gli lasciavano nemmeno lavare i capelli, lo avevano già
fatto a casa loro, e Dio solo sa quanto diventava difficile
risistemare quelle teste così trascurate.

Il quartiere era un ambiente chiuso, soffocante; aveva


l’impressione che le stesse comari, che pure ipocritamente lo
elogiavano, quando si trovavano tra loro ne parlassero in
tutt’altri termini. Forse si sbagliava, oppure, quella bottega che
in precedenza era rimasta chiusa per parecchio tempo anche
dopo il periodo bellico, aveva forse una cattiva fama e causava
brutti ricordi nella gente del luogo? Vi aveva forse lavorato un
delatore? Un collaborazionista? Un menagramo? Oppure
l’usuraio col quale quasi ognuna delle famiglie del quartiere
doveva aver avuto a che fare in passato?
Le stagioni trascorrevano invano, le avvertiva nei generi
musicali che si avvicendavano apparentemente senza alcun
riguardo per lui che aspettava inutilmente.
In primavera, dall’aiuola prospiciente la scuola, il profumo di
un misero cespuglio di glicine lo sorprendeva di tanto in tanto
sulla soglia della propria bottega; lui socchiudeva gli occhi e se
ne riempiva i polmoni chiedendosi perché non fosse emigrato al
nord, a fare l’operaio, così da poter tornare in Puglia, nel suo
paesino, almeno in agosto, quando le fabbriche chiudevano e
anche i sorveglianti per un mese, tornavano ad essere uomini.
Nella propria mente, il suo paese lo rivedeva sempre nel
giorno della festa. Se n’era andato via per restare prigioniero di
un paese più grande, che non gli apparteneva e che forse,
cominciava a non appartenere più nemmeno a chi vi era nato.

La ricorrenza del santo patrono cadeva d’aprile. Il paese


vicino, più piccolo e opulento, non aveva una chiesa; per questo
motivo il sindaco e il parroco, padre Fosco, era da lì che
imponevano partisse la processione.
La stradina che univa i due paesi passando accanto alla
statale, era costeggiata soltanto su un lato da una pigra fila di
casolari; in prossimità del crocevia, lo sciame umano che la
percorreva devotamente intonando canti e litanie, vi si fermava
per una forma di rispetto.
A debita distanza, protetta da un filare di cipressi, si scorgeva
la masseria di Munari, il più ricco possidente della zona; i
campi tutt’intorno, a perdita d’occhio, gli appartenevano.
Attraverso il cancello in ferro battuto, lavorato come non ne
avrebbe più visti, scorgeva al centro della corte il pergolato
traboccante di grappoli lilla che spandevano, piena e soave, la
fragranza dei glicini in fiore.
Il ricordo sublime di qualcosa così come forse non poteva
essere stata, lo riservava per il figlio che forse un giorno gli
sarebbe arrivato.
I più giovani ed i comunisti non avrebbero voluto fermarsi
proprio lì, ma la statua del santo era pesante ed il parroco
imponeva che si desse un tempestivo cambio ai portatori.
Era invece con ammirazione che suo padre, tenendolo per
mano, ogni volta gli ripeteva: “Vedi laggiù?”, indicando l’unica
collinetta in mezzo alla piana.
“Ecco, fino a lì è tutta terra di Munari” “e dall’altra parte?” gli
chiedeva lui, soddisfatto di conoscere già la risposta.
“Tutta terra sua.”

C’era speranza nell’aria mite e leggera di quelle mattinate,


dove il vecchio campanile si intravedeva come un miraggio in
fondo al viale sterrato, tra i luminosi campi di barbabietola e la
cupa macchia impenetrabile che conservava un suggestivo
odore d’altri tempi.
La corriera passava la mattina presto; i giovani operai che
andavano a lavorare nei cantieri di città, i giorni che non era
festa comandata, l’aspettavano nella piazza, davanti alla chiesa
ricostruita a fianco del campanile antico; ma adesso, al loro
posto, c’era la banda musicale che attendeva la fine della messa
e le bancarelle di mostaccioli e zucchero filato.
Chissà se gli amici di un tempo si ricordavano ancora di lui.

Non erano più gli stessi bambini a giocare davanti alla


scuola, in pochi anni li aveva visti tutti crescere come il vecchio
prete li aveva tenuti a battesimo; il pomeriggio i loro nomi
risuonavano metallici tra le saracinesche abbassate della
piazzetta dalla quale si dipartiva il vicolo. Mario era il più
forzuto e prepotente, Massimo aveva sempre i lividi perché suo
padre lo picchiava; Osvaldo il biondino, sua madre faceva la
sarta, aveva occhi buoni e tristi. E poi c’era Enrico, il figlio della
vedova. Sua madre aveva debiti un po’ con tutti i negozianti; ad
una certa ora, quando nel vicolo già ristagnava un greve odore
di desinare, gli altri tornavano a casa e lui, invece, rimaneva in
strada perché doveva aspettare che sua madre finisse di
lavorare. A Nunzia, sua moglie, vederlo sempre così in disparte,
piccolo e storto, metteva una gran pena.
Un giorno prese cento lire dalla cassa e gli disse di andarsi a
comprare un gelato, lui afferrò la moneta più sorpreso che felice
e senza nemmeno ringraziare, si allontanò e per alcuni giorni
evitò di passare davanti al negozio.

Vito avrebbe voluto chiudere l’attività e aprirla in un’altra


zona; più in periferia, dove adesso costruivano quei palazzoni
dove andavano a vivere le coppie giovani e sicuramente la gente
era disposta a spendere per un buon taglio. Gente, tanta gente,
e soprattutto senza pregiudizi. La cosa era difficile, ma non
impossibile, le ristrettezze avevano fatto sì che, nonostante tutto
e con grande rinuncia, avesse messo del denaro da parte.
“Ma se poi non fosse come penso, e le cose comunque non
dovessero andare bene, in fondo non sono una persona
fortunata, mi ritroverei anche senza questo po’ di denaro che mi
potrebbe fare comodo più avanti. Mia moglie ha ragione, bisogna
pazientare”.

Ogni volta che entrava una giovinetta nel suo negozio


rimpiangeva di non avere un lavorante per poterlo allontanare
con un sorriso: “a lei ci penso io!” di modo da farla sentire una
cliente di riguardo.
Tirava fuori tutta la sua arte e la colmava di premure,
convinto che la ragazza potesse rappresentare una svolta
nell’attività parlando di lui con le amiche, e queste, con altre
ancora.

Prendeva la cosa come un buon auspicio; raccontava le sue


speranze alla moglie, ma ogni volta invece doveva disilludersi.
La ragazza, se la rivedeva, era oltre la vetrina e tirava di lungo.
Allora fingeva di affacciarsi casualmente sulla soglia, salutava
con un sorriso, e lasciandosi andare a un’ingiustificata forma di
gelosia, cercava di capire se a quei capelli avesse messo mano
qualcun altro. Qualche volta era evidente, qualche volta era
difficile stabilirlo da lontano, ma non aveva molta importanza
perché, come si è detto, le ragazze non si facevano più vedere.
Gli toccava pure ascoltare i problemi degli altri, questo era
davvero insopportabile, come se entrando nella bottega,
chiunque recepisse un’aura di disagio o infelicità e si sentisse
per questo autorizzato a raccontare senza ritegno i propri
crucci.

A metà mattinata, quando l’artrosi ed il tempo non


congiuravano contro di lui, passava a fare una breve visita
Ottavio; una volta lavorava come facchino ai Mercati Generali,
ma adesso era in pensione. La bottega di Vito si affacciava sul
vicolo all’angolo del quale si trovava l’ultima fraschetta
sopravvissuta nel rione. Era là che il vecchio si dirigeva non
appena la moglie usciva di casa per andare a servizio.
Al posto di quella che un tempo era stata l’attaccatura dei
capelli, gli era rimasto impresso un solco rosa, triste e acuto
come un mal di testa e una rada, soave lanugine grigia sopra
alle orecchie. “Ma com’è che non entra mai nessuno qui?”
chiedeva rivolto a Vito intento a fare le pulizie per passare il
tempo. “Devo venire per una sistematina uno di questi giorni” si
lamentava, passandosi una mano sullo sparuto ciuffo sulle
tempie che risaliva ribellandosi alla forza di gravità, oppure se
Vito era impegnato con una cliente, esclamava gioiosamente “in
questo locale non ci si può più venire, è sempre pieno! Riproverò
domani”.

Nunzia, lavava i capelli e spazzava ciocche sempre più grigie:


lo aiutava quando e come poteva, anche se effettivamente non
era proprio necessario, così, tanto per creare movimento; poi le
donne, si sa, cercano complici e la sua sola presenza era già
d’aiuto.
Un giorno, però, accadde un fatto insignificante, che chissà
quante altre volte si era ripetuto senza che ci avesse fatto caso.
Uscendo dal retrobottega con un flacone di lacca da inaugurare
( finivano sempre troppo presto, proprio come nelle botteghe che
andavano bene), si accorse non visto, che una cliente appena
entrata, parlando con la moglie, si fosse voltata verso lo
specchio a figura intera posto accanto alla cassa. Soltanto per
un attimo, la donna inconsciamente aveva mutato espressione:
era la reazione incontrollata di una persona posta di fronte ad
un fastidio imprevisto. Lì per lì pensò malignamente: “andiamo
bene, non sopportano nemmeno la loro stessa vista!”
Ma anche per lui l’evento non avrebbe rappresentato niente
di più di un’impercettibile suggestione, se non fosse accaduto
che quella sera stessa, uscendo dal locale per fare ritorno a
casa, distratto, avesse dimenticato di prendere le borse della
spesa. Imprecò sollevando quasi con rabbia la saracinesca che
emise per rappresaglia una specie di raglio disperato. Pensò con
cattiveria che quel negozio rappresentava di per sé una
disgrazia, poiché vincolava a tutta una serie di comportamenti
che finivano per evolvere negativamente. Ad esempio, al
mercatino poco lontano avrebbero potuto risparmiare e invece
la spesa erano costretti a farla dai negozianti vicini, nella
speranza che questi a loro volta si sentissero in dovere di
mandare le loro mogli a farsi sistemare i capelli da lui.
Accese la luce, e per la prima volta si accorse che entrando,
d’acchito, ciò che si notava dell’intero locale era lo specchio
pienamente illuminato da una opportuna lampada posta sul
soffitto. “Cosa c’è che non va?” si chiese senza soffermarsi oltre.
La notte non gli riuscì a prendere sonno, c’era qualche cosa
che non andava in quello specchio? Aveva un difetto? O forse
era la luce? La mattina dopo si alzò più presto del solito, cosa
che fece sì che Nunzia, già in apprensione per l’umore tetro del
marito, si preoccupasse non poco. Lo osservò amorevolmente,
ma con attenzione mentre gli preparava il caffè, senza dirgli
nulla per non tormentarlo ulteriormente.

La prima cosa che aveva imparato del mestiere di


parrucchiere, dopo i primi rudimenti di taglio, è la posizione
strategica nella quale devono essere situati gli specchi; e inoltre
che devono essere lindi e in piena luce. E forse che quello lì non
lo era? Finalmente ricollegò l’avvenimento del giorno prima,
l’espressione di molestia della cliente, e accelerò il passo,
mentre i pensieri divergevano in direzioni maligne. La bottega
era ancora là, l’aspettava come un socio fedele beninteso, ma
incapace. Si pose al centro del locale e con buon diritto, come
un assassino tornato in solitudine sul luogo del delitto. Notò
con un leggero raccapriccio la divergenza di vedute tra lo
specchio del locale e quello fraterno, di casa, dove apparivano
trascurabili le differenze con l’idea che aveva di sé stesso;
nient’altro che un piccolo, meschino, gioco di memoria. “Dentro
casa anche i muri ti aiutano” pensò. Trovato il male, trovato il
rimedio, si dice.

Per una somma non proprio modica, ma comunque


infinitamente minore di quanto preventivato per trasferirsi in un
altro locale, acquistò uno specchio a figura intera, in tutto
simile all’altro, ma con la compiacente caratteristica di
allungare delicatamente l’immagine. Non un grossolano
specchio deformante, di quelli da Luna Park, per intenderci, ma
qualcosa che rendeva le figure impercettibilmente più slanciate.
Fu il cognato a commissionarlo ad un artigiano in un altro
quartiere della città, e per un eccesso di precauzioni fornì pure
generalità false. Non rientrando nelle competenze di un vetraio
insospettirsi, questo si limitò a pretendere soltanto un
sostanzioso acconto.
Trascorsero alcune giornate febbrili, che lo portarono a
sollecitare il vetraio da un telefono pubblico. Vito non disse
niente dello specchio alla moglie, ma non potendo mascherare
in modo plausibile la sua eccitazione, le anticipò che era sicuro
che l’attività stesse per decollare. La buona donna era anche lei
di umili origini e perciò dotata di sano buonsenso: si limitò a
contare il denaro dell’ incasso per convincersi che forse, ma
ancora nella migliore delle ipotesi, suo marito avesse
un’amante, o peggio, poteva anche significare che fosse
impazzito; avrebbe dovuto rassegnarsi a trovare un lavoro da
serva e arrivò persino a vedersi seduta al capezzale del suo
uomo, assistendolo con minestrine e tranquillanti finché il
Signore glie ne avesse data la forza.
“Fantastico” disse Vito osservando stupefatto il riflesso
argenteo della sua immagine completamente stagliata nel nitore
impeccabile dello specchio. Era davvero difficile stabilire a cosa
fosse dovuto quel gradevole effetto che mitigava il peso degli
anni.
Lo collocò opportunamente di modo che entrando,
l’attenzione vi cadesse distrattamente, come un piacevole
subliminale. Ebbe anche cura che l’immagine non potesse
essere confrontata con quelle di fronte ai due posti di lavoro.

Finalmente entrò la prima cliente. Era l’Adelma, una donna


che si apprestava a varcare la cinquantina; aveva avuto due figli
maschi dal primo marito morto e due femmine dal fratello
minore di questo, con il quale si era risposata per mantenere
unita la piccola proprietà famigliare. Diversamente da come
aveva previsto, la donna, senza smettere di parlare, si soffermò
distrattamente davanti allo specchio; dapprima si passò la
mano sul ventre rigonfio, quindi inserì poco elegantemente la
punta dei pollici là dove la cintura della gonna tentava di venire
a patti con ciò che comprimeva; li fece scorrere di lato, poi
mosse le labbra serrate per dare uniformità al rossetto.

Le idee, come si sa, ce ne possono essere di due specie:


quelle buone oppure quelle cattive; e poi ci sono quelle che
funzionano. In questo caso la certezza definitiva non vi fu, ma
per Vito e sua moglie incominciarono anni decisamente migliori:
sia pure in ritardo, era iniziato anche per loro il boom
economico. La gente era più propensa a spendere e potevano
permettersi finalmente il televisore ed il frigorifero senza farsi
venire il magone.
C’era un nuovo fermento nel quartiere o almeno così
sembrava loro. Li rivedeva passare tutti quei giovani, con le
facce già un po’ da uomo e la memoria corta.
Avevano preso l’abitudine, come tutti i commercianti che si
rispettano, di farsi portare la colazione al negozio. Un brutto
giorno, al posto del solito ragazzetto riccio con un tormentato
foruncolo rosso sulla fronte, fu Enrico a presentarsi loro con il
vassoio in mano. Il suo calzino destro, corto e rigonfio,
tratteneva mezzo pacchetto di nazionali; si era lasciato crescere
una pretenziosa peluria scura sul labbro superiore. Crescendo
non era certamente migliorato, ma adesso che era quasi un
uomo, era diventato più facile accettare la sua bruttezza.

Questi non aveva uno spirito di osservazione superiore, ma la


sua spigolosa magrezza lo colpì come un gancio allo stomaco,
adesso che era riflessa in quello specchio che esaltava il difetto
delle sue gambe arcuate e miserelle. Allontanandosi, liberato
della preoccupazione del vassoio, provò a ricomporsi, ma
l’immagine riflessa continuava a disturbarlo. Il giorno seguente
entrò in negozio la sora Nella, sua madre, una donnetta
dimessa e precocemente avvizzita, per chiedere a Vito se poteva
cambiarle un foglio da diecimila lire. La cosa gli sembrò strana
naturalmente, poiché non vi era mai entrata, cosa che non era
difficile arguire guardandole i capelli. Dopo che se ne fu andata,
prese la lampadina per osservare per bene la banconota in
controluce, ma Nunzia lo apostrofò: “oh, ma cosa vai a pensare?
Non poteva mica farsi cambiare i soldi da qualcun altro: siamo gli
unici negozianti con i quali non ha debiti!”
In breve la voce si sparse per il quartiere e ciascuna comare
aveva da dire la sua. Qualcuna disse che aveva sempre saputo
che erano degli imbroglioni, qualcun’altra che avevano visto
Nunzia recarsi dagli zingari accampati sopra l’argine del Tevere
con un sacchetto di capelli e così via.
Nel giro di un mese, nella bottega ormai completamente
screditata metteva ancora piede soltanto il vecchio Ottavio.
“Non riesco a capire cosa sia successo!” gli spiegava
costernato Vito; Nunzia, alla ricerca di qualche lavoretto ad ore,
ormai non veniva più ad aiutarlo.
“Dovrò andare sotto padrone!” si lamentava e Ottavio a modo
suo cercava di rincuorarlo:
“mi dispiace, mi dispiace davvero, lo sai no? com’è la
gente...cattive come le donne non ce n’è...”
Poi uscendo, già rivolto alla luce piena e confortante del
mattino più che al rumore importuno della strada, potè infine
esclamare:
“ah, ma io mi godo la pensione!”
E sembrava già un’altra epoca.

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