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Traduttore artigiano delle lettere

Alessandro Vescovi – Università degli Studi di Milano

L’istituzione per cui lavoro, ossia l’Università degli Studi di Milano, non
è un istituto per la formazione di traduttori, e quindi mi trovo, rispetto ai
colleghi degli SSLiMIT e ai nostri ospiti dell’ISIT in una condizione abbastanza
ibrida. Ma a questa sono abbastanza abituato perché la stessa riforma della
docenza universitaria, che ha sancito una netta distinzione tra lingua e
letteratura, pone il docente di traduzione letteraria in una posizione a dir poco
anomala, tanto che talvolta esperisco sul lavoro quelle sensazioni di hybridity
e dislocation, che dicono essere tipiche della situazione post-coloniale e
sconosciute al lettore europeo. Oltretutto il fine del Corso di Laurea in Lingue,
per il quale insegno, non è quello di preparare una figura professionale
specifica, ma di creare dei laureati che abbiano una cultura di base
sufficientemente ampia e duttile da potersi adattare a un certo numero di
impieghi differenti, i quali possono anche richiedere ulteriori studi più
specializzati dopo il diploma – dagli uffici esteri, all’insegnamento,
all’organizzazione di eventi, all’editoria, al mercato dell’arte, alla critica
letteraria, ovviamente...

Da questa premessa si possono facilmente dedurre tre conseguenze:

1) Poiché il Corso di Laurea in Lingue è in qualche modo complementare a


quello di Mediazione Linguistica e Culturale attivo presso il nostro Ateneo, è
naturale che il fuoco delle lezioni si concentri sulla traduzione letteraria.

2) L’insegnamento della traduzione non è che uno dei tanti e non riceve, per il
momento, attenzioni particolari da parte delle autorità responsabili del Corso
di Laurea. Non vi sono, in altri termini, materie al di fuori del corso di
traduzione che vengano studiate con lo scopo di creare dei professionisti della
traduzione. Mancano, per esempio, corsi di scrittura creativa, o di editoria, né
lo studio della letteratura è particolarmente incentrato sulla prosa
(soprattutto per quanto concerne la letteratura italiana).

1
3) L’insegnamento della traduzione in questo contesto deve avere un valore
formativo anche per coloro che non hanno intenzione di fare i traduttori in
futuro.

Pur avendo condotto un certo numero di traduzioni e pur avendo


lavorato a lungo sulla teoria della traduzione, sono di formazione (e forse di
vocazione) essenzialmente un critico. Nondimeno quando, due anni fa, mi
venne prospettata la possibilità di tenere un corso di traduzione ne fui
assolutamente entusiasta. Non essendomi però mai interessato alla didattica
della traduzione, credetti opportuno cercare di documentarmi su questa
disciplina – la didattica, appunto non la traduttologia – con risultati molto
incoraggianti, anche se non proprio copiosi. In effetti la copia del materiale
sulla pedagogia della traduzione che potei reperire allora è tale che posso
agilmente riportare qui verbatim l’intero corpus di testi che potei consultai in
quell’occasione.

Our profession is based on knowledge and experience. It has the longest


apprenticeship of any profession. Not until thirty do you start to be useful as a
translator, not until fifty do you start to be in your prime. The first stage of the
career pyramid—the apprenticeship stage—is the time we devote to investing in
ourselves by acquiring knowledge and experience of life. Let me propose a life
path: grandparents of different nationalities, a good school education in which
you learn to read, write, spell, construe and love your own language. Then roam
the world, make friends, see life. Go back to education, but to take a technical or
commercial degree, not a language degree. Spend the rest of your twenties and
your early thirties in the countries whose languages you speak, working in
industry or commerce but not directly in languages. Never marry into you own
nationality. Have your children. Then back to a postgraduate translation course.
A staff job as a translator, and then go freelance. By which time you are forty and
ready to begin1.

In sintesi “ars longa vita brevis”, come insegnava già Seneca; e tuttavia non
sono ironico quando dico che i risultati sono stati incoraggianti. Infatti, come
dice Derek Walcott in un celebre saggio dedicato alla letteratura dei Caraibi,
“If there was nothing, then there was everything to be made” 2, se non c’è
nulla, allora c’è tutto da fare. Così ho cominciato a riflettere sui processi della
traduzione letteraria alla luce di quello che sapevo dei translation studies e
della teoria della letteratura. Un fatto senza dubbio felice fu allora l’incontro
con Franca Cavagnoli, che proveniva da un’esperienza di scuola di traduzione
1
Mona Baker, In Other Words, London and New York, Routledge, 1992, p.3.
2
Derek Walcott, What the Twilight Says. London: Faber, 1985, p.4.

2
dedicata, con pochi studenti e da una prolifica attività di traduttrice. Fu uno
dei casi fortunati della vita che la mia teoria e la sua pratica si incontrassero e
si intendessero perfettamente. Quanto segue è un resoconto teorico di quanto
allora venne concepito per la pratica delle lezioni.

Era chiaro che in 20 ore di lezione frontale non è possibile formare dei
professionisti e dunque il corso è stato pensato con due scopi fondamentali: il
primo obiettivo è mostrare a chi la voglia intraprendere in cosa consista la
carriera del traduttore, che tipo di formazione debba cercare e quali studi
futuri possa perseguire chi aspira a tradurre; il secondo obiettivo è invece
stimolare una riflessione sul rapporto tra lingua e testo letterario, tra stile e
forma, nel caso specifico delle mie lezioni con particolare riferimento a quella
caratteristica che Bachtin chiama pluridiscorsività3.

Un altro vincolo derivava dal fatto che il nostro corso si svolge al terzo
anno della laurea triennale, un corso con oltre 250 studenti (per fortuna non
tutti frequentanti, ma certo non gestibile come un seminario). Questo non è un
problema nuovo alla Statale e infatti già da anni, il cronico sovraffollamento
dei corsi di lingua ha indotto i docenti dei primi anni a fare affidamento sulle
strategie cosiddette di auto-apprendimento. Questo vuol dire che gli studenti
non vengono semplicemente istruiti nell’uso della L2, ma sono invitati a
prendere coscienza delle tecniche di apprendimento in modo da auto-valutarsi
e imparare, per quanto possibile, “da soli” tutto ciò che non richiede un
insegnante, avvalendosi dei supporti multimediali oggi sempre più facilmente
disponibili (laboratori, siti web eccetera).

Avendo dunque gli studenti in qualche modo una certa consuetudine nel
gestire la propria formazione, si è pensato di proporre un corso in miniatura,
che contenesse “assaggi” di tutti gli elementi che dovrebbero entrare in un
corso professionalizzante in modo da mostrare loro quali attività debbano
perseguire e sviluppare se intendono divenire traduttori.

In ogni caso sono fermamente convinto del valore della traduzione nella
formazione di un umanista. Conoscere i meccanismi che stanno alla base della
prassi del tradurre consente infatti di avvicinarsi al momento di creazione del
testo. Il traduttore si trova in una posizione privilegiata rispetto agli altri
3
Michail Bachtin, Estetica e romanzo, Torino, Einaudi, 1979.

3
lettori per quanto attiene ai meccanismi creativi dell’autore che traduce;
inoltre sapere come viene condotta una traduzione in Italia consente di
leggere testi scritti originariamente in una lingua a noi ignota con senso
critico – ossia di vedere meglio di altri quello che Venturi ha chiamato il
traduttore invisibile. C’è poi un terzo motivo per cui sarebbe consigliabile di
fare un po’ di traduzioni a tutti coloro che si avvicinano alla letteratura post-
coloniale per studiarla: Salman Rushdie lo ha sintetizzato molto bene in
Shame dicendo “I, too, am a translated man”: lo scrittore post-coloniale è un
uomo tradotto. Non è certo questo il luogo per dilungarsi sulla teoria della
letteratura postcoloniale, basti dire qui che molti romanzi postcoloniali hanno
sviluppato un linguaggio proprio, non solo imitando l’inglese parlato dai
nativi, ma modificando la lingua inglese in modo da farla apparire tradotta
letteralmente da una lingua nativa. Chi non abbia riflettuto sulla traduzione
farà molta più fatica a cogliere questo aspetto della letteratura in lingua
inglese degli ultimi sessant’anni.

Venendo però alla didattica della traduzione, occorre a questo punto


rilevare che, a differenza della traduttologia, che negli ultimi anni ha compiuto
enormi progressi, arrivando a concetti di grande complessità come la citata
invisibilità del traduttore o il polisistema letterario, e a strumenti raffinati
come i translation corpora, la didattica della traduzione, e ancora di più la
didattica della traduzione letteraria, è ancora stranamente negletta dagli
studiosi. Mancano così non solo una metodologia didattica affermata, ma
anche un lessico tecnico che consenta di definire obiettivi, strategie e livelli di
apprendimento dell’abilità traduttiva.

In questa sede vorrei proporre due concetti che mi paiono utili per una
pedagogia del tradurre: COMPETENZA e GENIALITÀ. Per poterli spiegare,
illustrando nel contempo in cosa consiste il syllabus che utilizziamo nei nostri
corsi, sarò costretto dalla mancanza di termini condivisi a far ricorso a una
metafora estesa, ossia la professione dell’artigiano 4. Il traduttore è infatti, a
mio vedere, un artigiano della letteratura, che ha, rispetto all’artista-scrittore,
una funzione meno creativa e tuttavia culturalmente non meno importante,
4
Nel caso dell’artigiano il termine genialità e il termine manualità possono spesso
essere sinonimi, per cui, nella maggior parte dei casi, sarà possibile usarli in modo
intercambiabile.

4
come ci insegnano appunto Toury e Zohar. La differenza che più mi preme
sottolineare è che l’artista è tale quando riesce a innovare la tradizione, come
dice T.S. Eliot5, quando riesce, con un nuovo testo, a modificare l’equilibrio di
tutte le opere che lo hanno preceduto. L’artigiano invece è colui che fa le cose
a regola d’arte. Ossia colui che non aspira all’innovazione; commissionatogli
un lavoro, lo esegue secondo le aspettative del committente o secondo le
regole della propria corporazione. L’artigiano è un artista di maniera, che
segue fedelmente quanto ha fatto il suo modello, e tanto più è manierato
nell’imitare il suo modello, tanto più sarà apprezzato. Non voglio con questo
dire che uno scrittore non possa essere un buon traduttore o, viceversa che un
traduttore non possa essere anche un buono scrittore, solo che le due
professioni sono distinte e non possono essere esercitate
contemporaneamente all’interno dello stesso testo. Dire che uno scrittore è un
buon traduttore, per me è come dire che un orafo è un buon fabbro: può darsi.
In altri termini: o si è creativi o si è derivativi. E l’idea che abbiamo oggi – in
passato, come è noto, è stato anche diverso – è che un autore deve essere
originale e un traduttore debba offrire al lettore della lingua di arrivo quanto
più possibile di quell’originalità, senza aggiungerci la propria.

Così, mentre due opere d’arte originali possono al massimo avere delle
analogie o delle consonanze, due opere artigianali, anche se non saranno mai
uguali, tenderanno tuttavia a esserlo, tanto che in molti casi solo un occhio
esperto, potrà scorgere delle differenze. La competenza di un artigiano
equivale alla misura con cui si uniforma alla regola dell’arte mentre la sua
genialità sta nella capacità di uniformarsi a quella regola in modo creativo,
così che il manufatto si attagli il meglio possibile al suo committente. Qualsiasi
regola, infatti, lascia al buon artigiano piccoli, grandi margini di invenzione.
Se al profano, infatti, può parere che ci sia solo un modo di restaurare un
quadro o di costruire un violino, il professionista potrà distinguerne svariate
decine. Analogamente la competenza del traduttore sta nella sua capacità di
produrre un testo che soddisfi le aspettative della comunità di lettori per cui
scrive (a livello semantico, pragmatico, stilistico, in una parola poetico) e la
sua genialità sta nel farlo in modo da esprimere, con le sue scelte traduttive,
5
Mi riferisco ovviamente al saggio “Tradition and Individual Talent”, pubblicato in The
Sacred Wood: Essays on Poetry and Criticism, London (1920).

5
non la propria personalità ma quella dell’autore tradotto in modo che venga
compreso dai suoi lettori.

Competenza e genialità (manualità) sono dunque a mio vedere due


parole chiave nella professione del traduttore: il problema pedagogico è,
ovviamente, come svilupparle in un gran numero di allievi. Torniamo dunque
al nostro artigiano e consideriamo quali competenze gli siano necessarie e
come le acquisisca. Egli dovrà essere istruito in tutte le conoscenze che gli
servono per il suo lavoro senza essere specialista in nessuna di esse. Un
liutaio, per esempio, deve sapere suonare, ma non come un primo violino,
deve conoscere il legno, ma non come un botanico, deve conoscere le vernici,
ma non come un chimico, deve conoscere l’acustica, ma non come un fisico.
Per formare il liutaio ci sono dunque due modi: uno sperimentato con successo
dal Rinascimento, ma difficilmente praticabile oggi, e uno più moderno e
adatto ai grandi numeri che devono gestire le nostre università 6. Il sistema
rinascimentale consisteva nell’andare bottega da un professionista già versato
nel mestiere. Il sistema più moderno consiste invece nel seguire una serie di
corsi tenuti da esperti in ciascuno dei rami che serve a creare l’artigiano; nel
caso del liutaio penseremo dunque a corsi tenuti da musicisti, chimici,
botanici, fisici e a un periodo di tirocinio e presso un professionista già
formato che gli insegni i trucchi del mestiere. Tornando alla distinzione vista
prima, chiameremo competenze quelle apprese dai vari specialisti e
genialità/manualità quella appresa a bottega.

Se nel caso di un il liutaio non è difficilissimo individuare le conoscenze


necessarie alla professione, nel caso di un traduttore la cosa non è altrettanto
semplice, o comunque non è stata ancora articolata in modo convincente; il
che non desta meraviglia perché, almeno in linea di principio, non c’è
competenza che sia inutile al traduttore letterario, dalla storia dell’alpinismo,
alla fisica quantistica all’ecdotica biblica. Ma quand’anche se si riuscisse a
definire il campo delle competenze, rimarrebbe pur sempre essenziale il
problema di come lavorare sul piano della genialità. Torneremo tra poco su
questo problema, prima proverò, a titolo più che altro esemplificativo, a offrire
un elenco, sicuramente incompleto, delle principali competenze di cui un

6
Quest’anno le matricole a Lingue sono state 650.

6
traduttore letterario fa uso nella quotidianità del suo lavoro e che dunque la
scuola dovrebbe offrirgli: ottima conoscenza della lingua straniera, ottima
conoscenza della propria lingua, conoscenza dei polisistemi della lingua
straniera e della propria lingua, conoscenza del genere letterario, capacità di
scrivere in maniera creativa nella propria lingua, capacità ermeneutiche, con
particolare riferimento alla letteratura della lingua straniera, conoscenza di
alcuni elementi di translation studies. Credo che il contatto con docenti che
non siano in primo luogo dei traduttori, ma degli specialisti di altre discipline,
se da un lato è inevitabile nella gestione dei grandi numeri dell’università di
massa, dall’altro offra enormi vantaggi per quanto concerne la formazione e,
cosa da non sottovalutare, per quanto attiene all’evoluzione della disciplina in
sé. Infatti il modello della bottega tende a creare dei cloni mastro artigiano,
con i suoi pregi, ma anche con i suoi difetti. Io, per esempio sarei felicissimo
di seguire un corso di traduzione presso Vittorini, ma non lo vorrei come
insegnante di inglese. Il fatto di apprendere discipline diverse da docenti
specializzati, invece, consente all’arte di rinnovarsi e di restare al passo con i
tempi. La comunità professionale dei traduttori, infatti, dovrebbe reagire nel
tempo a tutti gli stimoli culturali e linguistici che caratterizzano la società per
cui traducono.

Per quanto riguarda invece la formazione della genialità, la migliore


scuola credo sia quella di un revisore, dotato di senso critico che mostri
all’apprendista traduttore dove le sue soluzioni siano troppo ingenue e lo aiuti
a leggere la propria creatura con quel distacco critico che gli consenta di
ponderarla e migliorarla. L’autore di un testo, ancorché tradotto, non ne è
infatti sempre il miglior giudice. A differenza di altri tipi di insegnamento in
cui la valutazione può rivestire un ruolo secondario, nel caso della formazione
del traduttore-artigiano è assolutamente necessario che la scuola si ponga
anche dei vincoli qualitativi. In altri termini, la scuola di traduzione deve
produrre dei buoni traduttori. Con l’aggettivo buoni intendo,
pragmaticamente, marchiati “ce”, ossia conformi alle esigenze (del mercato) –
nessuna scuola infatti si pone come obiettivo la formazione di geni incompresi.
Per fare ciò è necessario che il docente abbia il coraggio di porsi in modo
prescrittivo piuttosto che meramente descrittivo. In questo troverà poco aiuto
in una disciplina come i translation studies, che hanno fatto del passaggio da
7
prescrittività a descrittività il proprio punto di forza e proprio in un momento
in cui anche gli studi di letteratura tendono ad abbandonare il giudizio
estetico in favore di un’analisi “non qualitativa” di “inquadramento storico” o
“culturale”. Il delicato lavoro di formare un gusto sul quale misurare i testi
tradotti spetta proprio al docente di traduzione vera e propria, magari con
l’appoggio dei docenti di letteratura. Come il mastro artigiano può dire
all’allievo “lì c’è troppa vernice, devi dosarla meglio” così il traduttore potrà
dire “quella frase è troppo greve”, “quel possessivo in italiano è pleonastico” o
“evita l’omoteleuto perché sta male”. La genialità di cui parlavo sta proprio in
questo: avere un totale controllo della propria materia e dei propri strumenti
in modo da vedere cosa del proprio lavoro “non funziona” o “funziona male”
ed escogitare soluzioni più adatte. Purtroppo non mi riesce di formulare
meglio una definizione di questa genialità, che per il momento lascio
all’intuizione dei miei venticinque lettori. Certo uno studio che ci aiutasse a
definire meglio questa genialità e indicasse delle strategie didattiche per
aiutare gli studenti a svilupparla farebbe compiere alle scuole di traduzione
un enorme passo avanti.

Anche chi non abbia riflettuto su questa distinzione tra competenza e


genialità, nella pratica didattica avrà cercato di sviluppare questa
caratteristica. Nella mia personale esperienza di insegnamento ho trovato che
la formazione della genialità-manualità del traduttore si può perseguire, con
discreto profitto, addestrando il traduttore al MANIERISMO.

Uno dei concetti che mi ha sempre affascinato è quello di unità


traduttiva7, ossia di porzione di testo che viene elaborata in un singolo atto
traduttivo. Tale unità dal punto di vista linguistico può avere un’estensione
maggiore o minore a seconda dei testi e dei traduttori, ma dal punto di vista
letterario ha sempre una valenza duplice. Ogni singolo segmento testuale è
infatti, in un testo letterario riuscito, una realizzazione in sé conchiusa eppure
in rapporto con quelli che lo precedono e lo seguono. Secondo E.A. Poe, ogni
parola in un racconto influenza tutte le altre e modificare una sola parola vuol
dire modificare l’intero racconto, non solo la frase in cui essa è contenuta. La
traduzione letteraria deve ricreare, oltre agli altri livelli testuali, anche questo
7
Il concetto si trova in Peter Newmark, La traduzione: problemi e metodi, Milano,
Garzanti, 1986.

8
particolare equilibrio, che non può essere trasposto nel testo di arrivo, ma che
può solo essere imitato da un traduttore manierista.

In questo senso per la traduzione letteraria, più che per altri testi ha
senso parlare del binomio Gain and Loss, ossia guadagno e perdita. Per citare
nuovamente il Salman Rushdie di Shame diremo che

It is generally believed that something is always lost in the translation; I cling


to the notion […] that something can also be gained.

Come altro si può guadagnare in una traduzione se non attraverso


l’imitazione manierista?

Infatti, mentre nella teoria generale della traduzione si tende quasi


sempre a vedere qualsiasi variazione in termini di perdita di equivalenza, nel
caso della traduzione letteraria ciò non è sempre vero: la perdita va valutata
in rapporto all’equilibrio complessivo del testo. Se la traduzione letteraria è
un’imitazione dell’originale, può essere che la lingua di arrivo offra delle
possibilità non offerte dalla lingua di partenza e che quest’ultima negava
all’autore, e dunque che il manierista abbia il dovere non lasciarsele sfuggire.
Insistere sul concetto di imitazione manieristica significa rivalutare e
incoraggiare ogni possibile guadagno traduttivo. Tradurre significherà allora,
parafrasando Eco, dire quasi la stessa cosa, quasi alla stessa maniera.

Per questi motivi il nostro corso-assaggio di traduzione letteraria


comincia con una parte di traduttologia volta a offrire agli studenti i concetti
base con i quali riflettere sulla traduzione e con i quali descrivere il loro
lavoro (testo aperto/chiuso, denotazione/connotazione, dominante traduttiva,
traduzione straniante/addomesticante, ma anche pluridisorsività, genere
letterario, stile, registro ecc.). Poiché la capacità di tradurre è come la
capacità di parlare una lingua, il corso si articola nel periodo di un anno – che
dà agli studenti più tempo per preparare gli esercizi – e propone frequenti
prove in itinere in modo da consentire la metabolizzazione e l’immediato
sfruttamento delle nozioni appena apprese. La seconda parte del corso, in
ossequio all’idea del traduttore manierista, prevede lo studio della traduzione
intralinguistica, giocando sulla falsariga degli Esercizi di stile di Raymond

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Queneau. Agli studenti viene chiesto di trovare la cifra stilistica di ciascuno
dei brani (chi lo sa può farlo sul testo francese gli altri si servono della
versione di Umberto Eco) e di raccontare un aneddoto proposto dal docente
con il medesimo stile. In questo modo gli studenti, in molti casi per la prima
volta, si rendono conto di cosa sia uno “stile” nel senso di Queneau e di come
questo influenzi fortemente la narrazione, anche semanticamente. Più tardi
agli studenti verrà richiesto di fare lo stesso traducendo Joyce o Hemingway.
La terza parte del corso, la più ampia, è invece quella più tradizionale in cui
gli studenti provano a tradurre brani tratti da alcuni racconti. Un ultimo
commento merita forse la scelta del racconto, che viene preferito a forme più
lunghe proprio a causa di quell’equilibrio di cui dicevo prima a proposito delle
peculiarità del testo letterario. Il racconto, potendo essere letto per intero e
tenuto, per così dire, a mente per intero, si presta bene a insegnare a
rispettare i rapporti tra le parti e a tradurre rispettando questi rapporti.

Come dicevo all’inizio, si tratta di un corso breve, che, spero, si possa


rivelare utile tanto per coloro che vorranno tradurre, quanto per coloro
interessati agli aspetti letterari della lingua. L’auspicio, ovviamente, è che il
biennio di specializzazione offra un corso di traduzione nel quale questi piccoli
assaggi possano espandersi alla dimensione a loro più consona e in cui,
soprattutto, ciascuno specialista (docente di lingua, di letteratura, di
linguistica, di scrittura creativa, di italiano ecc.) offra dei corsi pensati per il
traduttore letterario. Il docente di letteratura potrebbe, per esempio,
concentrarsi su opere in prosa scegliendole tra quelle più rappresentative
della tradizione, cosa che non necessariamente avviene in un corso di
letteratura tradizionale, o potrebbe far leggere in classe opere la cui
traduzione possa poi essere studiata come modello, come, nel caso della
letteratura inglese, la celebre “Anna Livia Plurabelle”, tratta da Finnegans
Wake, di cui lo stesso Joyce ci ha dato un interessantissima versione italiana.
Analogamente il docente di linguistica potrebbe puntare sulla semiotica o
sulla sociolinguistica e così via. Quando avremo dei corsi professionalizzanti di
questo livello, e io credo che ci si arriverà presto, anche lo standard delle
traduzioni letterarie in Italia si alzerà, a tutto vantaggio della comunità dei
lettori, e ciò non mi par poco.

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