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Karl Wiener

Amici
Si chiamava Giovanni. Suoi genitori non erano ricchi, ma lui era fortunato poiché aveva
degli amici. Insieme i ragazzi facevano sciocchezze, ma il loro gioco preferito era giocare al
calcio. Un giorno Giovanni andò in giro lungo il fiume e scoprì una pietra di bel colore e forma
eccezionale. La raccolse e la contemplò riflettendo. Per che cosa si sarebbe potuto essere una
tale pietra? Decise dopo profonda riflessione che questa pietra sarebbe stata un buon affilatoio
per il coltellino. La intascò nella tasca dei suoi calzoncini e tornò a casa sua, lieto dell’oggetto
trovato.
Per via incontrò quello amico, a cui apparteneva il pallone, con cui i ragazzi giocavano
frequentemente. Giovanni gli mostrò il suo tesoro e perché la pietra piaceva all’amico, Giovanni
ebbe un’idea. Spiegò con molte parole il valore particolare della pietra e persuase il suo amico
di cambiarla con il pallone. Finalmente l’amico acconsentì, perché Giovanni gli fece credere che
potessero giocare insieme al calcio con questo pallone anche in futuro. Arrivato a casa però
aveva già dimenticato la sua promessa. Guardava il suo nuovo possesso con gioia e lo
nascose nella profondità del suo armadio.
Gli amici erano molto delusi quando notarono che il gioco collettivo doveva essere finito,
poiché sempre quanto glielo chiedevano, Giovanni non li faceva giocare con il pallone. I ragazzi
si riunirono e si consigliarono che avrebbero potuto fare. Finalmente uno degli amici si decise
con cuore piangente di separarsi dal suo monopattino che i suoi genitori gli ebbero regalato al
compleanno scorso. Lo offrì in cambio del pallone. Giovanni non poté resistere a quest’offerta,
portò il pallone e andò via allegramente col monopattino.
Giovanni non partecipava al gioco degli amici. Girava col monopattino attorno al campo di
calcio. Ad un angolo rischioso incontrò un ciclista. Quello, poiché andava probabilmente troppo
rapido, scivolò e cadde nella polvere. Si alzò lamentandosi dei suoi ginocchi sanguinanti.
Giovanni consigliò al ciclista ferito: “Allora, dammi la bici e prendi il monopattino. Con quello una
tale sfortuna sarebbe stata impossibile”. Nel suo dolore, il ciclista si fidava di queste parole e
consentì al commercio.
Bedingung, daß ihm dieser noch sein Taschengeld dazugab.
Ora, Giovanni si era fatto strada. Aveva scambiato la pietra con un pallone, il pallone con
un monopattino e per finire il monopattino con una bicicletta. Era troppo orgoglioso di suo
successo e girò con fierezza. Dopo poco tempo sapeva andare a mano libera, sedendo
dirittamente sulla sella, i bracci incrociati davanti al petto. Un altro ragazzo, che possedeva una
bicicletta migliore, lo guardava e ammirava la sua arte. “Come fai ad arrivare al traguardo
senza manovrare?”, il ragazzo chiese con curiosità. Giovanni rispose: “È troppo facile, la mia
bicicletta è di costruzione speciale”. Queste parole fecero impressione al ragazzo. Voleva
anche possedere una tale bicicletta di costruzione speciale con cui poteva andare a mano
libera. Finalmente, dopo negoziazioni lunge e complicate, Giovanni si dichiarò disposto a
cambiare la sua bicicletta vecchia con questa dell’altro a condizione che quello gli avrebbe dato
anche tutto il suo denaro che aveva ricevuto di suoi genitori per le piccole spese.
In questo modo Giovanni aumentava suo possesso, però perdeva tutti i suoi amici.
Nessuno voleva giocare con lui. Dapprima Giovanni non era impressionato. Credeva che gli
altri lo invidiassero per ciò che possedeva. Dopo poco tempo però lui si sentiva solo. Del
denaro che ebbe estratto alla sua ultima vittima, lui comprò dei dolci per confortarsi. Altri
ragazzi l’avevano guardato. Si accompagnarono con Giovanni e dièdero ad essere suoi amici
nuovi. Giovanni dette loro dei dolci, perché ebbe capito che la vita senza amici è triste. I nuovi
amici però, quando i dolci stettero per finire, uno dopo l’altro, volsero le spalle a lui. Giovanni
voleva mantenere per lo meno un amico e dette tutte le sue dolci restanti e anche la sua
bicicletta all’ultimo, che passò solamente per vedere, se fu rimasto qualche cosa per portare
via.
Giovanni sedeva riflessivamente sulla riva del fiume e guardava l’acqua che passava
mormorando. Che cosa aveva fatto male? Quando dirigesse i suoi sguardi alla sabbia della
riva, lui scorse una pietra. Il viaggio da lontano nell’acqua l’aveva levigata e arrotondata.
Marezzatura di colore attraversava la sua superficie. Giovanni raccolse la pietra e la guardò a
fondo. Era più bella di quella da cui la sua sfortuna era partita. Aveva nostalgia dei suoi amici.
Non notò, che un ragazzo lo stava guardando. Questo portava sul braccio un pallone e non
sapeva che cosa avrebbe dovuto fare. Salutò Giovanni con un cenno della mano e lo invitò al
gioco. Giovanni fu disposto subito. Regalò la sua pietra al ragazzo e era fortunato di avere
trovato un nuovo compagno con che poteva giocare al calcio.
Karl Wiener

I tre fratelli

Una volta c’era un padre che aveva tre figli. Quando invecchiava, lui li chiamò e disse:
“Andate nel mondo e cercate la vostra propria via alla fortuna. Non a potuto insegnarvi tutto ciò
che avete bisogno per essere felici. Apprenderete molte cose della vita, ma ricordatevi sempre
del vostro vecchio padre che vi ama tutti in modo uguale”.
I tre fratelli seguirono al consiglio del padre. Fecero gli zaini, allacciarono gli stivali e
tagliarono da un nocciolo dei bastoni da camminare, promisero al padre di essere sempre
solidali e partirono. Arrivati all’incrocio dei cammini, studiarono i destini indicati sull’indicatore
stradale. La via alla fortuna non era nominata. Si consigliarono a fondo, ma non potevano
mettersi d’accordo sul cammino che avrebbero dovuto prendere. Per questo si separarono e
partirono per direzioni differenti.
Gli anni passavano. La pioggia bagnava i loro vestiti e il vento li asciugava. Si nutrivano di
funghi e bacche e bevevano dalle fonti che trovavano accanto al cammino. Di tanto in tanto
però erano invitati a mangiare, poiché gli uomini ascoltavano volentieri i racconti delle avventure
dei fratelli, che quei avevano superato sul cammino. In queste occasioni raccontavano anche
del loro padre, che li mandò in giro per il mondo. Col tempo la sua immagine si era alzata in
sfere più alte. Nella memoria lui pareva di essere un buon padre e anche le sue punizioni
sembravano giuste.
Per la loro camminata lunga, i fratelli si erano allontanati l’uno dagli altri. Le abitudini degli
uomini incontrati dei fratelli erano troppo diverse. Col tempo si adattavano ai abitudini rispettive.
L’uno stava diritto e alzava le braccia al cielo per chiedere la benedizione del padre, l’altro
cadeva sulle ginocchia e giungeva le mani ricordando il padre, il terzo piegava, ginocchioni, la
testa alla terra come segno del rispetto. Sedevano al camino dei loro ospitanti e raccontavano,
ognuno de su modo proprio, dei avvenimenti successi a casa del padre e in cerca della fortuna,
ornando i loro racconti con dettagli spieganti.
La schiera crescente d’ascoltatori non trovò posto nelle capanne piccole. Se fece templi
dove gli uomini s’incontravano per ascoltare i racconti. I fratelli non potevano essere in tutti i
templi, perciò ognuno di loro scrisse un libro per registrare i propri consigli e conoscenze. Ormai
gli scribi del paese leggevano quei libri. Nei paesi diversi però si parlavano lingue differenti e
nessuno poteva confrontare il contenuto dei libri. A causa dell’incertezza, chi dei fratelli avesse
trovato la via alla fortuna autentica, gli uomini andarono in una lite esasperata.
Il padre sentì del litigio. Era un uomo saggio e sapeva tutte le lingue del mondo. Riconobbe
subito dopo aver letto i libri dei suoi figli, che il contenuto era differente soltanto per le
decorazioni spiegate, aggiunto dei fratelli per farsi comprensibile agli uomini. Mandò a chiamare
i suoi figli. Ognuno di loro, dopo la separazione per molto tempo, volle informare subito, in che
modo aveva trovato la sua fortuna. Il padre però chiese tacere a loro. Poi lui stesso raccontò
una storia sulla ricerca della fortuna. I fratelli ascoltavano attentamente e erano molto rallegrati,
perché ognuno di loro credeva di sentire la sua propria storia. Non si accorsero, che il padre
raccontò soltanto ciò che concordava nei tre libri e tacque tutte le decorazioni inutili. Alla fine il
padre soggiunse: “E non dimenticate mai, che la loro fortuna soltanto durerà, se non si fonde
sulla sfortuna degli altri”. Quando confidò anche la sua furberia, i figli riconobbero che c’è
soltanto una via collettiva alla fortuna.
Karl Wiener

Il cronometro

Il tempo passa e nessuno lo riporta. Mi ricordo di un bambino ma ho dimenticato il suo


nome. Può essere che si chiamava come me oppure come te. Propongo di chiamarlo
Sebastiano. Sebastiano non ancora sapeva, che tutte le cose dovevano essere fatte al tempo
giusto. Al tavolo non aveva mai appetito. Fra i pasti però chiedeva da mangiare e da bere. Di
sera, quando era il tempo per dormire, ogni scusa era opportuna per ottenere una dilazione.
Finalmente a letto, restava sveglio per molto tempo e ogni rumore venuto da fuori, gli faceva
sospettare, che gli adulti prendevano segretamente della dolce limonata, mentre i bambini
dovevano dormire. Di mattina Sebastiano era stanco da morire. Batteva gli occhi dalla
stanchezza e nella scuola doveva darsi premura di mantenersi sveglio. Non era stupido, ma
chiedeva la parola quando le domande dell’insegnante erano già risposte dagli altri. I suoi
compagni perciò lo ritenevano l’inventore della lentezza.
Il Papà Natale sapeva del comportamento di Sebastiano e ringhiò: “Perché mi devo
affaticare e fare tutto il lavoro durante un giorno? In ogni modo il ragazzo non sa, quando è
venuto il tempo giusto”. Così lui fece visita a Sebastiano soltanto a Pasqua. Questo ritardo però
scompigliò l’inverno. Lui credeva di non essere andato a dormire al momento giusto. Subito
soffiò ancora una volta un vento gelido sopra il paese e mescolò dei fiocchi di neve nella
pioggia primaverile. Quei fiori, che già avevano osato essere in fiore, tremavano di freddo e non
sapevano che cosa stava succedendo. Gli uccelli, che il gelo tardo sorprese quando stavano
costruendo i loro nidi, ammutolirono. A Pasqua c’era nessuno chi nascondeva le dolci pasquale.
D’estate, quando, negli altri anni, il sole aveva allettato al gioco nella natura, Sebastiano sedeva
nella stanza. Fuori la pioggia bagnava le strade. Le chiaviche non potevano inghiottire l’acqua.
Quando le vacanze erano appena finite, il sole rideva in cielo, i bambini però sedevano
sudando nella scuola. Ci si poteva disperare che non avvenisse niente al momento
giusto.
Il nonno di Sebastiano era un uomo intelligente e saggio. Guardava la confusione per
qualche tempo. Poi entrò pensosamente nel suo laboratorio. Dopo poco si sentì un rumore
dietro la porta chiusa. Il nonno martellava e fischiava, e qualche volta parlava con sé. Sembrava
di non essere una cosa semplice quella che il nonno si era proposto. Lui la non poteva
completare in un solo giorno singolo. Sebastiano era pieno di curiosità e guardava la porta.
Finalmente il nonno gli fece un cenno e gli mostrò il risultato del suo lavoro. Meravigliandosi
Sebastiano scorse un apparecchio complicato. Non sapeva interpretare il senso di questa
costruzione fatto di ruote dentate, pendoli, tubi e imbuti. Il nonno però lo informò.
Descrivere l’apparecchio in dettaglio sarebbe una storia separata e per questo non é
possibile emulare qui il nonno. Per quel che io so, si fa cadere una palla nell’imbuto superiore.
Questa palla rotola senza fermata per il sistema di tubi, saltella sopra scale e ponti, sparisce in
pozzi e appare di nuovo in scanalature applicate al di sotto. L’ora di gettare la palla seguente
nell’imbuto superiore è venuta quando la palla precedente cade nell’imbuto inferiore e suona un
campanello. Sebastiano aveva capito: Tutte cose devono succedere nel momento giusto,
altrimenti il cronometro si confonderà.
Karl Wiener

Il dito d'oro
Il contadino si alza prima di spuntar del giorno e comincia il suo lavoro, dà il foraggio ai
cavalli, munge le mucche e rimuove il letame dallo stallaggio. Si siede al tavolo per la prima
colazione non prima di avere provvisto i animali. Poi, al primo raggio del sole, attacca i cavalli e
va al campo. Arare il terreno per preparare il campo alla semina oppure raccoglie il fieno per
l’assicurare della pioggia. Quando il grano matura e le spighe d’oro si cullano nel vento d’estate,
il tempo è venuto per raccogliere la ricompensa del lavoro diligente entro l’anno. Il contadino
non può riposare anche dopo che la raccolta del grano é al coperto. Al campo attendono le
patate e le rape che devono essere raccolte. Dopo dell’inizio d’inverno la trebbiatrice separa il
grano della paglia, i granelli sono messi in sacchi e portati al mulino. La paglia però resta nel
granaio. Allora, finalmente il contadino può godere dei frutti di sua cura.
Un bel giorno un contadino incontrò un fannullone, un uomo che passava il suo tempo per
rapinare la ricompensa del lavoro d’uomini onesti. Questo stendeva volentieri la sua mano al
dentro delle tasche d’altra gente e quando la tira fuori, restava di solito appiccicato qualche oro
ai suoi diti. Per questo la gente lo chiamavo “Dito d’Oro”. Per provare su arte lui tirò in un
momento inosservato qualche moneta fuori della tasca del contadino. “Tutta la paglia, che cosa
tu fai con lei?” domandò al contadino, “il tuo granaio é pieno di questa roba inutile”. Il contadino
spiegò senza sospetto che fa della paglia: parte la mescola colla avena - i cavalli digeriscono la
miscela meglio che l’avena pura - parte la sparge sul pavimento dello stallaggio per farlo caldo,
secco e pulito. Il fannullone rispose: “Ciò non rende molto. La tua paglia ti potrebbe fare ricco.
Te la trasformerò in oro puro”. Queste parole fecero riflettere il contadino. Lui anche aveva
sentito che c’é gente in questo mondo che aveva acquisito ricchezza in modo strano. Per
questo motivo lui domandò a Dito d’Oro che cosa avrebbe dovuto fare affinché la sua paglia
fosse trasformata in oro. “Devi darmi solamente un poco di denaro per le preparazioni
indispensabili, poi faccio io lavorare la tua paglia per te fino alla sua trasformazione in oro”,
disse il fannullone. Il contadino, sperando in ricchezza, attaccò i cavalli e portò sua paglia
insieme con tutto il suo risparmio alla casa di Dito d’Oro.
Il contadino non poteva tenere il suo secreto, perciò aveva racconto a tutta la gente della
sua fortuna presunta. I vicini colarono loro paglia e camminarono in fretta da Dito d’Oro affinché
lui la trasformasse ugualmente in oro. Dettero volentieri anche tutto il loro denaro che lui
reclamò per la sua fatica presunta. Il tempo passava, però i contadini né sentivano qualcosa del
loro denaro né della loro paglia e ancora tanto meno vedevano dell’oro che Dito d’Oro aveva
promesso. Intanto i loro animali si erano ammalati perché dovevano passare l’inverno senza
paglia nello stallaggio freddo ed i contadini, aspettando la ricchezza acquistata senza lavoro,
non consideravano necessario alzarsi di bon ora per provvederli. Il campo non era coltivato
perché i contadini sentivano che la ricompensa non valeva la pena.
Dito d’Oro non si faceva vedere ed i contadini divennero impazienti. Tirarono diritto alla
sua casa e rivendicarono la ricchezza promessa. Dito d’Oro fece qualche pretesto e mostrò un
poco d’oro che aveva comprato per mezzo di una parte del loro denaro. Per tranquillizzarli lui
fece credere a loro che fosse il primo oro estratto dalla loro paglia e, come abbuono della
ricchezza futura, dette un granello d’oro a qualche contadino. In questo modo lui li poteva
ingannare qualche tempo.
Finalmente una siccità funestò il paese. La raccolta si seccava nei campi e la fame
dominava dappertutto. I contadini si spaventarono e riconobbero che anche loro si erano
trasformati in fannulloni. Per fortuna possedevano alcuni sacchi pieni di cereali che avevano
conservato degli anni scorsi quando avevano ancora coltivato i loro campi. Dito d’Oro voleva
comprare questa provvista per mezzo del denaro che aveva preso dei contadini. I contadini
però erano riusciti a capire e sapevano che il denaro solo non sazia. Per questo motivo davano
il loro grano non prima del rimborso di tutto il loro denaro. Poi si proposero di non fidarsi mai
delle parole d’un fannullone, anche se questo promette tutto l’oro del mondo.
Karl Wiener

Il fiore sul muro


Il principe non era solamente giovane ma anche bello e intelligente. Queste sono tre
caratteristiche, che non si riunirono spesso sotto una corona unica. Non mi fa meravigliare, che
lui avesse grande importanza nei sogni delle ragazze all’età per sposarsi. Non era anche
insignificante il fatto che il principe sarebbe succeduto suo padre sul trono e avrebbe fatto di
sua moglie la regina del paese. Tutto questo era il motivo di fare esultare le belle ragazze,
quando il principe andava a cavallo maestoso per le strade della città.
Il principe si sentiva lusingato dell’adorazione. Per cenno del suo favore lui dava di tanto in
tanto a questa o quella delle sue adoratrici una rosa rossa. Molte cercavano di ottenere il suo
favore, perciò la sua via era fiancheggiata di rose spezzate e cuori piangenti.
Ogni anno, al compleanno del principe, il re invitava i giovani del paese alla festa. La
tavola era abbastanza bene apparecchiata e si sentivano la musica e le risate degli ospiti da
lontano. Le ragazze si accalcavano intorno al principe e cercavano di richiamare la sua
attenzione. Ognuna di loro si sentiva fortunata, se lui le dava un bello sguardo o perfino le
chiedeva di danzare con lui. Soltanto una ragazza silenziosa stava da parte e nessuno faceva
attenzione a lei. Senza dubbio, anche a lei piaceva il principe ed una sua occhiata la aveva fatta
rallegrare, ma era troppo timida ed anche un po’ fiera per farsi avanti come le altre. Restava da
parte, lontana dalla ressa, ed il principe non si accorgeva di lei.
Quella sera anche, quando lo sfortunato fatto avvenne, si svolse così. Già da giorni il
principe si sentiva male, ma il re non voleva rinunciare alla festa. I musici erano incaricati, i piatti
già preparati e il principe doveva decidersi per una delle bellezze. Il re avrebbe voluto sapere
chi in futuro sarebbe salita al trono a fianco di suo figlio. Ogni ragazza nella sala si cimentava in
destare la sua attenzione con chiacchiere affettate e comportamento appariscente. A lui però
non piaceva la festa. Guardò con gli occhi smarriti sulla folla. Il suo pallore nobile aveva ceduto
il posto ad un bianco di calce. Camminò in fretta verso la porta della sala. Prima di arrivare
però, lui perse la conoscenza e cadde.
La musica cessò. La sala si vuotò rapidamente. Gli ospiti supponevano che il principe
soffrisse di una malattia contagiosa, e temevano di infettarsi. Le giovani ragazze si
preoccupavano soltanto della propria salute. Una di loro però restava: La timida ragazza, a cui
finora nessuno aveva fatto attenzione. Questa si avvicinò al principe e prese la sua mano. Il
battito del suo cuore si faceva appena sentire, ma, grazie a Dio, il principe anchora era vivente.
Già i soccorritori, chi il re aveva chiamato, vennero e portarono il principe nel suo letto. La
ragazza li seguì. Si mise in ginocchio davanti al re e chiese il permesso di soccorrere il principe
finché esso sarebbe stato fuori pericolo. Vegliava di giorno e di notte al letto del malato. Il
principe dormiva con inquietudine. Qualche volta però, quando si svegliò dei suoi sogni febbrili,
lui vide, come attraverso una veletta, la faccia affettuosa della ragazza. Rassicurato, lui fece
ricadere la sua testa sul guanciale e continuò a dormire il sonno della convalescenza.
Finalmente, al terzo giorno, la crisi era superata. Il Principe si svegliò dal sonno profondo. La
ragazza però, che gli aveva sorriso nel sogno febbrile, era sparita.
Ancora debole, il principe uscì del palazzo. La nostalgia lo spinse a cercare la ragazza dei
suoi sogni. Per giorni interi camminò in giro senza meta. Invano. Non vedeva la ragazza in
nessun luogo. Al piede di un muro rovinato trovò un fiorellino tenero che, come cenno della
speranza, fioriva accanto alla via. Il principe si piegò a basso. Quando volle spezzare il fiore
però, un'ombra afferò la sua mano e una voce familiare disse: “Il fiorellino si chiama
Nontiscordidimé e avvizzisce, se lo spezzi”. Davanti al principe stava la ragazza, di cui lui aveva
avuto nostalgia. Un peso gli cadde dal cuore. Dopo che si calmò, la abbracciò con piacere e la
portò con sé al palazzo di suo padre. Dopo poco tempo celebrarono la loro nozze e d’allora in
poi la ragazza rimaneva la regina del suo cuore.
Karl Wiener

Il melo
Di solito si dice, che ogni desiderio esaudito suscita subito di desideri nuovi. Secondo
alla leggenda anche Adamo ed Eva erano cacciati fuori del paradiso a causa dei loro desideri
saccenti. La stessa cosa quasi sarebbe accaduta anche al nostro amico Enrico.
Era un bel giorno estivo. Una brezza leggera spingeva nuvole bianche in cielo. Un ruscello
attraversava mormorando i prati davanti a una collina dove si alzava un melo antichissimo. La
sua corteccia era screpolata e la sua chioma offriva ombra dei raggi del sole. Là sopra
nell’ombra del melo Enrico era sdraiato, le sue braccia incrociate sotto la testa. Stanco di
giocare al ruscello guardava in alto, perso nei suoi sogni. La luce del sole scintillava tra il
fogliame e solleticava suo naso. Tra le foglie luccicavano le mele non ancora maturo, ma la loro
quantità prometteva un raccolto ricco. Enrico tentò di contarle ma non riuscì. Erano più che i
suoi dieci diti. Gli venne l’acquolina in bocca. L’afa gli aveva messo sete. Pensò che le mele
avrebbero potuto fare rimedio. Si alzò sulle punte dei piedi e agitò i rami pendendo dal melo.
Una mela cadde giù nell’erba. Enrico la raccolse impazientemente e l’assaggiò. La mela però
era bacata e marcia.
Il vecchio melo aveva osservato ciò che era successo. Una brezza agitò il fogliame e il
bambino lo sentiva sussurrare: “Spesso i frutti prematuri sono bacati e marci. Ogni cosa nella
vita ha il suo momento giusto”.- Enrico si meravigliava, poiché non avesse pensato che il melo
sapesse parlare. Stava zitto e ascoltò ogni parola quando il melo continuò: “Trattièni le tue
brame, poiché la loro arrivo anticipato spesso fa delusione”. - Il melo ammutolì. Enrico si fu
addormentato. Attraverso delle palpebre degli occhi chiusi penetrava una luce pallida. Da
questa luce venne una fata bellissima e bisbigliò sottovoce: “Enrico, ti concedo tre desideri che
si avvereranno. Riflette però con cura, poiché la tentazione è forte e talvolta tutti i desideri sono
sprecati quando meno te l’aspetti”. Dopo aver detto queste parole, la fata sparì.
Enrico rifletteva: Da molto tempo si adirava con su fratello più vecchio chi lo considerava
bambino. Per questo Enrico desiderò subito d’essere anche uno scolaro come su fratello. Come
promesso, il desiderio si realizzò presto. Fuori faceva sole, ma Enrico stava seduto nella classe
e sudava. Aveva nostalgia del prato verde e dell’ombra del melo dove giocavano i suoi
coetanei. Si confortò però. Ancora due desideri erano d’avanzo. La testa appoggiata nelle mani
e riflettendo, Enrico pensava che la vita del suo insegnante fosse invidiabile. Quello era sempre
allegro e pareva di sapere tutte cose che l’uomo doveva sapere. Desiderò perciò, che gli anni
della scuola passassero e lui invece dell’insegnante insegni i bambini. Questo desiderio anche
si realizzò presto. Allora, lui doveva insegnare leggere e scrivere e tutto quello che i bambini
non ancora sapevano. Sfortunatamente però, lui stesso non sapeva le cose che dovette
insegnare. Gli scolari perciò, avidi di apprendere, gli facevano situazioni terribili con le loro
domande. La pena lo faceva pensare a suo nonno. Quello era sempre di buon umore, sapeva
raccontare tante storie allegre e pareva d’essere molto contento di sua vita. Enrico voleva
essere come il nonno. Il desiderio, appena pensato, fu realtà. Adesso, stava sedendo sulla
panchina davanti alla casa nella luce del sole e ammiccava con gli occhi. Sentiva il caldo fare
del bene ai suoi membra vecchie. Quando però si alzò, doveva appoggiarsi su un bastone.
Ogni passo riusciva difficile a lui. Cercava nella sua testa, sperando di farsi venire una storia
interessante. La sopra però era nulla, perché le storie che il nonno aveva raccontato avevano
maturato durante molti anni quando quello aveva osservato la vita.
Com’è andata la cosa? Enrico si ricordò delle parole del melo, chi aveva detto che ogni
cosa nella vita ha il suo momento giusto. Evidentemente però, non un cammino conduceva
indietro ai suoi giorni felici, i tre desideri erano richiesti. Come possibile solamente nelle favole
però, la fata apparve di nuovo, lo toccò con il suo bastone di magia, ed Enrico si svegliò di suo
sogno. Saggio per esperienza programmò di custodire i suoi desideri e serbarsi i suoi sogni fino
a quando il momento giusto sarebbe venuto.
Karl Wiener

Il principe
Il re , saggio e giusto, era un uomo modesto e prometteva di rispettare anche lui le regole
che valevano per il popolo. Non abusava della sua potenza e stava sempre alle sue parole. Per
questo il popolo si fidava di lui.
Questo re aveva un figlio, chi cresceva guardato bene, era educato nell’arte e nella
scienza per diventare un buon principe. Era il figlio unico del re e perciò il padre lo amava
molto. A lui era perdonata qualche cattiveria. Per questo motivo il principe spesse volte si
comportava come un leggerone. Non mentiva, ma anche non ci si poteva fidare delle sue
parole. Per farsi amabile oppure interessante avveniva di tanto in tanto che prometteva questo
e quello, però non manteneva spesse volte le sue promesse, cosicché qualche suo amico gli
volgeva le spalle.
Più tardi, quando il vecchio re sarà stufo della corona, il principe, gli dovrà succedere ed
essere un buon sovrano del popolo. Per questo il re era inquietato del suo figlio malfido. Lo
esortava alla sincerità, poiché essere bugiardo sia indegno di un re. Il principe promise di
seguire le esortazioni di suo padre e prometteva non ingannare i suoi amici né seriamente né
scherzosamente. La promessa era fatta facilmente ma la tentazione di violare l’accordo era
forte.
Il re era potente e aveva molta influenza sul destino del suo popolo. Per questo qualche
malvagio provava per mezzo di denaro e altri regali convincere il re dare ascolto e propensione
ai suoi desideri. Il re resisteva a tutte queste tentazioni e si attentava al principio che tutte le sue
decisioni dovessero essere utili al tutto il popolo. Il principe anche non era avido di denaro e
averi ma amava tanto le lusinghe. Quei cittadini del reame che pensavano di influenzare il re
per mezzo dell’intercessione del figlio, provavano ad approfittare di quest’opportunità. Ogni
petente chiedeva un altro favore e poiché il principe si sentiva lusingato d’essere un uomo tanto
importante, prometteva tutto quello che volevano. Spesso però aveva dimenticato il giorno
dopo, che cosa aveva promesso il giorno precedente. Avveniva anche spesse volte che una
promessa contraddiceva l’altra. Non era sorprendente che perfino anche i suoi amici migliori
non confidassero nelle sue parole.
Un giorno il principe e i suoi compagni stavano passando il tempo sulla riva del fiume. Si
tuffano da uno scoglio nell’acqua fresca fluviale. Un acquazzone durante i giorni passati aveva
trasformato il fiume in una fiumana. La corrente era pericolosa. Questa circostanza non impedì
al principe d’allontanarsi dalla riva. Era un buon nuotatore e volle dimostrare che non aveva
paura. La corrente però era tanto forte e lo spinse giù per il fiume. Chiamò aiuto ad alta voce. I
suoi amici però non si distolsero dal loro gioco. Pensavano che il principe volesse farsi
interessante anche questa volta e li deridesse se gli dessero credenza.
La corrente prese il principe giù per il fiume. Non so dove si trova, nessuno ha mai più
sentito di lui. Certamente è arrivato ad una riva sicura perché era un nuotatore bravissimo. È
certo però: Non è mai diventato un re.
Karl Wiener

Il pupazzo di neve
C’era il sole. Nessuna nuvola oscura il cielo. La neve copriva i tetti delle piccole case ed il
fumo bianco sale diritto dai camini al cielo. Dalla pista per slittini risuona il riso dei bambini.
Fanno delle capriole nella neve e gettano delle palle di neve contro gli amici, gridando di gioia
quando hanno colpito. In mezzo all’allegria si vede un pupazzo di neve. Appoggiato alla sua
scopa guarda con i suoi occhi neri i bambini scorrazzanti tutto intorno. Un vecchio cappello
copre la sua testa, la bocca grande si estende fino alle sue orecchie e una pipa riscalda il suo
naso rosso. Di tanto in tanto una palla di neve colpisce anche lui. I bambini non si stancano del
gioco e ritornano verso le case non prima di tramonto. Il pupazzo di neve rimane solo. Dopo la
cena i bambini stanno seduti intorno al fuoco e ascoltano il nonno che racconta le avventure del
pupazzo:
La notte cominciò. La neve lucidava nel chiaro di luna. Tutto sembrava tranquillo alla pista
per slittini. Ad un tratto però il silenzio della sera fu interrotto. Uno stormo d’oche selvatiche
atterrò sul ghiaccio del piccolo vivaio ai piedi del pendio. Le oche avevano avuto un viaggio
volante faticosa e si preparavano alla dormita. Schiamazzando e battendo le ali si raccontavano
gli avvenimenti della giornata. A poco a poco però mettevano le teste fra le ali e
s’addormentavano. In poco tempo fu silenzio. Soltanto un’oca era ancora sveglia. Marciava su
e giù e tirava dei fili d’erba da sotto la neve. Curiosamente s’avvicinò al pupazzo di neve. - Che
strano uomo? - Lui stava silenzioso e immobile sul suo posto. L’oca avrebbe già voluto voltare
le spalle, quando sentì un grosso sospiro. Il pupazzo di neve sembrava triste. L’oca domandò il
motivo della sua tristezza ed il pupazzo raccontava per filo e per segno della sua pena. Aveva
pensato al suo futuro. L’inverno starà per finire e la neve si fonderà. Poi anche lui avrebbe
avuto la sua ultima ora, senza aver mai visto la primavera. Al solo pensiero fa malattia. - Il
lamento del pupazzo di neve commosse l’oca. Rifletteva sul rimedio. Poi ebbe un’idea e disse
al pupazzo: “Al occidente, dove il sole tramonta di sera, ci sono delle alte montagne. Sulle cime
di queste montagne la neve non si fonde mai. All’indomani al sorgere del sole gli oche là
partiremo. Una gran freccia nel cielo farà vedere la direzione per questo luogo”. - Il pupazzo di
neve rifletteva sulle parole dell’oca, e prima di addormentarsi prese una decisione.
La mattina successiva il pupazzo di neve era sparito. Seguendo il consiglio dell’oca lui
aveva preso il cammino verso il occidente, che le oche gli avevano mostrato con la loro
formazione del volo. Era un sentiero lungo e faticoso. Il pupazzo di neve non sarebbe mai
arrivato alla sua meta, se a metà strada non fosse passato Babbo Natale con la sua slitta e non
lo avesse preso con sé. Le renne davanti alla slitta però corsero come il vento, s’alzarono in
aria e lo condussero sulla cima più alta delle montagne. Il pupazzo di neve era arrivato alla
meta dei suoi desideri. Felice di avere percorso quella lunga distanza si addormentò
immediatamente della fatica. Sognava un mondo soleggiato plein di fiori e bambini ridenti.
Quando però si svegliò la mattina seguente si svegliò, il cielo era oscurato dalle nuvole. Sulle
cime delle montagne fischiava la tempesta e la nebbia nascondeva la vista sulla valle. L’inverno
voleva rifiutare la primavera per mezzo di grandine e neve. Molto tempo passava. Un bel giorno
però la nebbia si ritirò. S’aprì la vista sulla valle e il pupazzo di neve vide ciò che un pupazzo di
neve non aveva mai scorto prima. La natura era svegliata dal sonno invernale. La primavera
aveva fatto la sua entrata. Dei bambini giocavano al bordo del ruscello che serpeggiava lungo
un prato. Il pupazzo di neve vedeva i bambini e l’acqua scintillante, ma non poteva sentire né
mormorare il ruscello né ridere i bambini. Nessun suono arrivava dal fondo della valle alla cima
del monte. Per dire la verità: Il pupazzo non apparteneva a quel mondo laggiù.
Il pupazzo di neve desiderava di essere giù fra i bambini. Passo a passo si avvicinò al
pendio ripido e cominciò a discendere. Dopo qualche passo però lui perse l’equilibrio, cadde, e
con gran chiasso cascò a capofitto giù nella valle. A causa del tentativo di tenersi fermo, lui
prese con sé sempre più neve. Alla fine della caduta si ritrovò ai piedi delle montagne su un
prato fra un gran mucchio di molle neve. I bambini accorsero con gran rumore per fare l’ultima
battaglia di neve prima che il sole la fondesse e riunisse le piccole gocce in una grande nuvola.
Adesso il vento fa volare questa nuvola verso il sole e tutto il mondo attende l’inverno prossimo
che farà cadere di nuovo le gocce in forma di fiocchi di neve.
Karl Wiener

Il sale nella minestra


Il vecchio re, quando era stufo di regnare, trasmise la corona e lo scettro a suo figlio. Di
conseguenza il tempo di restare come scapolo era passato. Non sia un re autentico, chi non ha
una regina degna al suo fianco. Allora, il giovane re aveva intenzione di sposarsi e era il
desiderio delle belle donne del paese. Non mancavano le aspiranti, che si prendevano cura di
lui. Lui però voleva assicurarsi che la sposa scelta lo prendeva come marito non solo a causa
del suo ceto, ma anche l’amava per la sua personalità.
Nella casa di amici il re fece la conoscenza di due sorelle. Ambedue erano belle ed
intelligenti, ma i loro caratteri erano abbastanza diversi. L’una passava molto tempo davanti al
suo specchio. Amava gioielli e bei vestiti e ornava i suoi capelli con fermagli ed altre
decorazioni. L’altra delle sorelle era diligente, dava una mano in cucine e sapeva condire i cibi.
Il giovane re trovava piacere in entrambe, e le sorelle corrispondevano la sua simpatia. Per
molto tempo non poteva decidersi per una delle due e voleva sapere se una delle sorelle
l’amasse più che l’altra. Era un uomo timido e demandò gli amici di chiarir la cosa in fondo.
Questi, ad occasione adeguata, interrogarono sottovoce le sorelle, una dopo l’altra, per venire a
sapere la grandezza dell’amore di loro al re. L’una rispose: “Lo amo più che tutti i miei gioielli e
vestiti”. Il re, quando ricevé notizia di questa risposta, si sentì molto adulato. Sapeva apprezzare
l’oro e i gioielli, perché nel tesoro di suo padre c’è tale cosa in abbondanza. Era molto deluso
però, quando gli amici gli raccontarono la risposta dell’altra sorella. Per esprimere le sue
sensazioni, questa aveva detto: “Lo amo più che il sale nella mia minestra”. Nell’opinione del re,
il sale era un cristallo bianco senza valore di un sapore orribile quando si lecca. Per questo
motivo si decise per quella che l’aveva apprezzato più che l’oro e i gioielli.
Il re prese la sua fidanzata per moglie. Dopo la festa, quando la coppia si ritirò nel suo
talamo, rivelò il motivo perché aveva dato la preferenza a lei. La regina giovane si arrabbiò del
paragone di suo marito con il sale nella minestra di sua sorella e indusse il re a ordinare il
giorno successivo che tutto il sale del paese dovesse essere versato nel mare. Così, da quel
giorno in poi l’acqua nel mare aveva il sapore di sale, ma non c’era più sale per condire la
minestra. All’inizio, nessuno s’infastidiva, ma il re perdé presto l’appetito. Si era disgustato di
mangiare. Rifiutò il cibo senza avere toccato il cucchiaio e nel corso del tempo le forze
l’abbandonarono. Di notte, piangeva talvolta d’esaurimento segretamente nel cuscino. Il sapore
del sale delle sue lacrime su i suoi labbri gli fecero capire tutto d’un tratto che non si può
sostituire il sale nella minestra con l’oro e i gioielli di tutto il mondo e mettere in dubbio la sua
scelta.
Karl Wiener

Il sapertutto
L’uomo non sa tutto ma è saggio, se un colpo del destino non l’a preso la ragione. Qualche
uomini però sono eccezionalmente intelligente. Conosco uno che si chiama Luigi. Era un
ragazzo furbo. Già dall’infanzia sapeva contare fino a tre. Dopo che sapesse contare per mezzo
delle sue dita fino a dieci, lui si sentiva un gran maestro dell’arte calcolatore e non poteva
immaginarsi che qualcuno lo superasse per saggezza. Generosamente faceva partecipare
ciascuno della sua conoscenza per consigli non richiesti e superflui. Per ciò i suoi amici lo
chiamavano il Sapertutto.
Luigi passava una gran parte del suo tempo guardando la punta del suo naso. Rendeva
possibile, dirigendo entrambi i suoi occhi giù e verso l’interno. Provate ad imitarlo. Vedrete che
la vista si restringe e le lentiggini sul vostro naso ottengono un’importanza che mette in ombra il
resto tutto. Spesse volte lui chiudeva astutamente un occhio. I suoi amici prendevano il gesto
per furbo e tentavano di imitarlo. La loro entusiasmo però li faceva chiudere esagerando
entrambi gli occhi cosicché non potevano vedere niente. È l’opinione comune che qualcuno chi
ha un occhio solo sia il re fra i ciechi. Per questo gli amici l’accettavano come capobrigante dei
loro giochi. Luigi si prendeva per sapientone e si pronunciava su ogni questione. Nessun affare
era così insignificante per non pronunciarsi. Il suo discorso cominciava sempre con le parole:
“La mia opinione è…”, e no dimenticava mai soggiungere: “…e la mia opinione è giusta”,
perché lui era convinto d’essere senza errore.
Il luogo dove Luigi viveva, era un piccolo villaggio situato in una valle, circondata tutto
intorno da montagne, per così dire al fondo di una zuppiera. Il ragazzo non aveva mai visto
sopra l’orlo della zuppiera, per lui il mondo era finito là sopra. Spiegava perciò il suo villaggio al
centro del mondo. Non sapeva se il mondo girasse oppure se fosse fermo, ma nel caso che
dovesse girare, gira attorno a lui, questa era la sua convinzione.
Nessuno sapeva dire perché, ma successe: Un bel giorno Luigi si mise in cammino per le
montagne che limitavano il suo orizzonte. Lo spinse un presentimento scuro di un segreto
nascosto. Montò a fatica le cime una dopo l’altra e guardò per la prima volta verso l’ampio
paesaggio. Non si fidò dei suoi occhi. Ciò che vide dietro le montagne superò tutte le sue
attese. Discese in fretta. Pieno d’eccitazione si allontanò quasi dal sentiero. Una caduta
dall’altura vertiginosa avrebbe avuto effetti cattivi. Luigi però uscì senza danno.
Non ci possiamo rendere conto di tutte le cose che gli incontrarono all’estero; questa
sarebbe un’altra storia. È certo però che incontrò con gente che sapeva contare oltre a dieci.
Pare che ciò l’avesse impressionato molto. Ritornò in fretta al suo villaggio, benché dovesse
superare di nuovo le montagne per sentieri pericolosi. I suoi amici, che erano rimasti nella valle,
stavano in pensiero per lui. Luigi arrivò senza fiato in mezzo a loro e annunciò la sua novità:
“Amici”, gridò eccitatamente, “amici, forse non mi crederete, ma anche là fuori, dietro le
montagne, vivono degli uomini intelligenti che sanno contare perfino oltre a dieci”. I amici si
meravigliarono. Per la prima volta dubitarono della verità delle sue parole, benché lui giurasse
ciò che aveva visto.
Karl Wiener

La cantante incapace

Qualcuno comincia a cantare


e pensa di armonizzare.

Questo è l’inizio di una canzone. Quei, che conoscono la canzone, sanno anche la fine della
favola succedente:

Non arriva un suono unico al luogo deserto, dove il viandante nella bosco fitto incontra
all’improvviso uno stagno nascosto. Canne palustre fiancheggiano le sue rive. I rami dei alberi
vicino all’acqua toccano il fior dello stagno e i raggi del sole penetranti per il fogliame, dipingono
delle macchie dorate sul muschio. Talvolta il silenzio è interrotto d’un pesce che salta fuori
dell’acqua. Il suolo paludoso è un posto ideale per covare delle zanzare che sono preda
benvenuto per le rane e gli uccelli. Per questo di giorno il bosco risuona delle canzoni degli
uccelli e al tramonto del sole le rane iniziano con alta voce il loro concerto.
Un giorno, verso mezzanotte, quando il chiaro di luna si rifletteva nell’acqua, a questo luogo
avvenne il caso, di che vorrei raccontare. Un usignolo aprì le sue ali, si alzò e volò su verso un
ramo d’un albero vicino allo stagno. Per attirare la sua amante intonò con nostalgia una
canzone che commuoveva i cuori. Tutti gli animali della foresta ammutolirono e ascoltavano la
voce meravigliosa. Soltanto una rana giù nella melma credeva di sapere cantare ugualmente
bene come l’uccello e si accinse immediatamente a dimostrare la sua arte. Si arrampicò
tormentosamente da una rama all’otre e arrivò senza fiato al posto dove l’uccello cantava la sua
canzone. Dopo una pausa per riprendere fiato, quando l’uccello aveva ammutolito per un
istante, la rana fece risuonare la sua voce, ma gracidò orribilmente invece di cantare. Il usignolo
si spaventò del disaccordo tanto che quasi sarebbe caduto dalla rama dove stava seduto.
Riuscì però a mala pena a mantenere l’equilibrio, volò sulla cima la più alta dell’albero e
continuava di cantare.
La rana non abbandonò. Saltò nell’inseguimento dell’uccello si del ramo. Invece di alzarsi
però, la sua caduta, non si può dire d’un volo, terminò giù nell’acqua, benché la rana remasse
colle sue zampe come l’uccello aveva fatto prima con le sue ali. Non sarebbe sopravvissuto, se
avesse battuto su una pietra, fortunatamente però batté con un tonfo sull’acqua. Allora, a causa
dell’urto la rana si sentiva stordita e soffriva di mal di pancia. Per un istante si comportava
immobile, ascoltava suo cuore e credeva d’essere morta. Dopo era convinta d’essere vivente
però, nuotò in fretta tra le foglie d’una ninfea. Da questo giorno la rana rimaneva nel suo
elemento. Nessuno sapeva nuotare e tuffarsi come lei, ma non si cimentava mai in cantare
oppure volare come un uccello.
Karl Wiener

La farfalla

Un bel giorno una testa di cavolo aveva invitato a una festa. La tavola si piegava al peso
dei piatti e gli invitati gustarono il menu, cantarono ad alta voce e bevvero alla salute dell’ospite.
Si sentiva risuonare la loro risate di gran distanza. Il rumore allegro aveva attirato anche un
piccolo bruco, che divorava a buon appetito le vivande deliziose. Dopo che gli ospiti erano
saziati, la musica li invitò a ballare. Ai grilli, che sonavano il violino, si accompagnavano i bombi
col loro basso. Il bruco guardava le farfalle danzanti ed ammirava i loro movimenti graziosi. Si
augurava sapere ballare ugualmente bene.
La festa continuava giorno dopo giorno. Sembrava che non finisse mai. Il bruco ingrossava
e ingrossava. Col tempo le giornate si accorciavano e le serate si raffreddavano. L’autunno era
venuto. La musica ammutolì. Gli ospiti si ritiravano l'uno dopo l'altro. Alla fine il bruco si sentiva
solo. Tremando dal freddo cercò rifugio nelle crepe della corteccia di una vecchia quercia. In
quel luogo sicuro si avviluppò in una coperta di seta filata di propria mano. In un sonno
profondo sognava di ballare come una farfalla alla sua propria festa di nozze. Fuori infuriavano
frattanto le tempeste invernale.
La primavera cominciò. Il sole scaldava la terra ed i cuori. I fiori aprirono i loro calici e l’api
sciamarono per raccogliere il miele. Anche il bruco si svegliò del suo sonno. Era oscuro nel suo
rifugio e si sforzava di scappare del buio. A mala pena scivolò del su involucro. Batteva gli occhi
abbagliati dalla luce, sbadigliò e si stirò. Poi guardò curiosamente intorno di sé. Si specchiò in
una pozzanghera che luccicava al sole e riconobbe il suo ritratto: una farfalla meravigliosa.
La farfalla respirava profondamente e sentiva la vita e la gioia nel suo cuore. Stese sue ali
e le ripiegò per provare le sue forze. Finalmente volò via. Svolazzò su tutti i fiori per assaggiare
il miele dei teneri calici. In poco tempo però tutto il suo cuore apparteneva a un bocciolo timido
che per le sue carezze si trasformò in una bella rosa rossa. La farfalla la vedeva le giornate
piovose e le giornate serene e qualche notte contarono insieme le stelle scintillanti nel cielo.
L’estate passava e durante l’anno anche la farfalla invecchiava. Un bel giorno, come
d’abitudine, uscì per vedere il fiore che amava de tutto cuore. Il freddo della sera la faceva
soffrire. Di tanto in tanto doveva fermarsi per respirare. A queste occasioni si addormentò
qualche volta e sognava di tempi passati. Svegliandosi dal sogno era in dubbio di essere una
farfalla oppure uno dei petali della sua amante. Si sentiva debole. A mala pena continuò il suo
cammino. Un colpo di vento però la prese con sé e la portò al più presto alla sua meta. Insieme
con gli ultimi petali della sua rosa la farfalla danzò verso del cielo. Là sopra sparirono per
sempre nelle nuvole.
Karl Wiener

La rana gonfia
Al principio de primavera, quando la neve scioglie sulle montagne, l’acqua si raccoglie nei
detriti e finalmente casca in forma di torrente nell’abisso, il piccolo fiume al basso nella valle
inonda i prati lungo le rive. Più tardi, dopo il sole ha leccato gli ultimi resti di splendore bianco
dai pendi, il livello dell’acqua abbassa e il fiume si ritira nel suo letto. Il suolo spugnoso tiene
l’umidità. Un tappeto di fiori colorati che non si trovano nella bassa pianura, copre il prato, e in
mezzo a questo splendore rimane uno stagno. Nessun uomo ha mai raggiunto questo luogo, i
suoi piedi si affonderebbero ai ginocchi nel suolo morbido. In quel luogo calmo però si trova vita
animata. Delle libellule volano con movimenti improvvisi sopra la superficie dell’acqua, e sciami
di zanzare si alzano dall’erba alla sponda fangosa.
I padroni reali dello stagno però sono le rane. Il loro gracidio suona ogni sera dall’inizio del
crepuscolo fino alla mezzanotte e risuona così come risata stridula. Le rane però lo prendono
per bel canto. Tra loro era un individuo che si considerava un cantante di talento eccezionale.
Credeva probabilmente di avere la fama mondiale. Si sentiva il re delle rane o per lo meno un
principe incantato. Le altre rane però, quando lei non ascoltava, la chiamavano solamente
“Gracidoforte”. Di sera, quando il concerto delle rane cominciava, lei gonfiava particolarmente
la sua gola e tentava di alzare la sua voce sopra quella degli altre. Ciò che suonava però era
solamente il gracidio di una rana gonfia.
Una coppia di cicogne ha costruito il suo nido sul campanile del paese vicino allo stagno
delle rane. Ogni anno in autunno, quando i giovani delle sono capaci di volare, le cicogne si
preparano al gran viaggio, per passare la stagione fredda in regioni più piacevoli. Volano fino
all’Africa del Sud, ritornano però nei loro nidi quando il sole primaverile ha scacciato il ghiaccio
e la neve sulle cime più alte delle montagne. Questo ritorno avvenne anche l’anno scorso.
La nostra coppia ha scelto con intenzione il luogo del loro nido vicino allo stagno. Alle
cicogne le gambe delle rane sembrano bocconi appetitose. Le rane sanno questa preferenza, e
gli abitanti dello stagno si guardano quando sentono crepitare un becco di cicogna. Gracidoforte
però ridevo di loro ed esclamò: “Siete paurosi, avete paura di una cicogna. Le Strapperò tutte le
sue penne e l’urterò nell’acqua profonda, dove affogherà miseramente”.
Sotto la sua vanteria Gracidoforte non si era accorta che le altre rane non la ascoltavano.
Mentre lei ancora continuava il suo discorso vanitoso, tutte loro erano saltate nell’acqua e
tentarono di nascondersi su una pietra al fondo dello stagno. La sua bocca però rimase aperta
con terrore, quando puntò i suoi occhi in alto per chiamare il cielo come testimone del suo
coraggio. Vide sopra di lei gli occhi de una cicogne avida di preda. Questa si era avvicinata di
soppiatto. La rana tremava di paura e non era in grado di muoversi. In quel momento però,
quando il becco della cicogna stette per spingere giù come un giavellotto, lei perse l’equilibrio e
cadde all’indietro nell’acqua. Per questo la sua vitalità si destò e lei si nascose sotto le foglie
delle piante acquatiche. In questo modo lei scappò dalla bocca della morte.
Questa volta la cicogna si appostò invano alla riva dello stagno. Le rane attendevano
immobili nei loro nascondigli. Emersero solo quando il nemico era andato via con irritazione.
Gracidoforte apparve per ultima alla superficie d’acqua. Lei ancora restava pallida, quando le
altre si erano riprese dallo spavento da molto tempo. Da allora in poi gli abitanti dello stagno la
deridevano se voleva cominciare a fare discorsi vanitosi. Pare che Gracidoforte abbia capito.
Mai più il suo gracidio vanitoso ha superato il concerto delle altre rane.
Karl Wiener

La vittima del proprio malfatto


Un bel giorno l’insegnante disse: ”Domani non suderemo nella scuola. Vogliamo usare il
bel tempo e apprendere dalla natura. Domani faremo una gita a piedi. Non dimenticate qualche
panino con burro o salame per la colazione e indossate scarpe robuste, sarà una camminata
nelle montagne”. Fu un gran giubilo. Augusto soprattutto aspettava con impaziente il giorno
successivo. Stare immobile e silenzioso nella panca scolastica gli riusciva difficile.
Secondo l’appuntamento, i ragazzi s’incontrarono la mattina successiva davanti alla
scuola. Avevano messo sulle spalle lo zaino con la colazione invece della cartella.
L’insegnante, dopo s’era convinto che tutti i ragazzi avevano riunito, ingiunse di partire e la
compagnia allegra si mise in cammino. Risate, chiacchiere e una canzone affrettavano i loro
passi. Di tanto in tanto l’insegnante riuniva i ragazzi e faceva presente qualcosa particolare.
Talvolta mostrava un fiore, un’altra volta faceva vedere una lucertola che prendeva il sole su
una pietra. In questo modo i ragazzi non si accorgevano della salita del sentiero. Il sole alto in
cielo faceva gocciolare qualche goccia di sudore dalle fronti dei camminatori.
Finalmente un posto ombroso invitò alla sosta e al pasto meritato. I ragazzi consumavano
di buon appetito il pane che avevano portato con sé. Si cavavano la sete da una sorgente pura.
Questa cosa fece indurre l’insegnante a spiegare il ciclo dell’acqua. Lui disse: “Ragazzi, quando
l’acqua si riscalda nella pentola della mamma, il vapore sale. Arrivato al vetro fresco della
finestra il vapore si condensa e ritrasforma in goccioli d’acqua. Certamente avete osservato
questo processo. Non è un’altra cosa nella natura. Il mare è la pentola del sole. Il sole riscalda
l’acqua del mare, il vapore sale e si muove in forma di nube di sopra il paese. Queste nuvole si
raffreddano sopra delle montagne, perché fa sempre più fresco in alto che in pianura. Si
formano dei gocci d’acqua che cadono sulla terra come pioggia oppure come neve. L’acqua
della pioggia si raccoglie in torrenti, s’infiltra in crepe e fessure e riappare ai piedi della
montagna come sorgente. Poi corre in ruscelli giù nella valle per riunirsi a fiumi che sfociano
finalmente di nuovo nel mare. L’uomo”, termina l’insegnante, “l’uomo s’ingerisce in questo
ciclo, usa le sorgenti, trivella pozzi, dirige l’acqua per tubi nelle sue case e quando vuole usare
questi regali della natura lui deve solamente aprire il rubinetto e l’acqua corre nelle sue
pentole”.
I ragazzi avevano ascoltato attentamente le parole del loro insegnante. Qualcuno si era
meravigliato per molto tempo e voleva volentieri sapere da dove viene l’acqua che scola nel
suo bicchiere dal rubinetto aperto. Nel momento quando la classe partì per scendere a valle,
Augusto andò di soppiatto da parte. Lui era il buffone della classe e sempre rifletteva come fare
uno scherzo. Questa volta voleva anche da parte sua far pervenire un regalo all’insegnante e
mescolò la sua acqua nel ciclo naturale. Per dire la verità, lui orinò nel piccolo ruscello accanto
al sentiero e gioiva al pensiero che l’insegnante, ritornato alla sua casa, avrebbe aperto il
rubinetto per usare i regali della natura al quale in questo caso aveva contribuito anche lui.
I ragazzi camminavano ridendo e scherzando baldanzosamente giù per la valle. La
marcia in giù era meno faticosa e sudorifera dell’ascensione, ma il tempo caldo li aveva resi
assetati e anche la chiacchierata non ammutolendo mai contribuiva la sua parte. Le gole erano
secche e desideravano una sorsata d’acqua fresca. A piedi della montagna mormorava una
fonte. I ragazzi corsero là gridando gioiosamente per cavarsi la sete. La lingua d’Augusto anche
s’appiccicava al palato secco. Come gli altri lui si piegò all’acqua viva. Tutto ad un tratto però si
ritirò. Il pensiero della conseguenza del suo malfatto, che avrebbe potuto finire proprio in questa
fonte, lo colpì come un fulmine. Passò segretamente da parte e preferì avere sete che vivere
con l’idea di avere bevuto la sua acqua propria. Passavano ancora molti giorni,prima che
Augusto potesse godere i regali della natura senza scrupoli.
Karl Wiener

La volpe
Un bel giorno un cane uscì dal suo canile per provare gli odori dei dintorni. Annusava qua e
annusava là e sentì un buon profumo. Ubbidiva al suo naso che lo conduceva a un tesoro. Nel
mezzo del sentiero lui trovò una salsiccia.
Il suo cugino, il lupo, l’osservava sospettosamente. Quando si accorse che il cane accelerò
i suoi passi, la curiosità lo spinse a vedere che cosa succedeva. Arrivò al luogo della scoperta
insieme col cane. Avidamente guardavano l’oggetto trovato e si leccavano la saliva. Ma
nessuno si arrischiava ad afferrare la preda, perché sapevano che sarebbe finita l’amicizia, se
l’uno o l’altro avesse provato a prenderla. Alla fine il cane non poteva resistere e fece un passo
verso l’oggetto desiderato. Il lupo però lo prese per la pelliccia e una lotta furiosa cominciò.
Per caso una volpe passava. Scorse i lottatori e l’oggetto della rissa e rifletteva sulla
possibilità d’impossessarsi del bocconcino. Se lo prenda, lei pensava, la rabbia dei due rivali si
dirigerebbe verso di lei. Doveva usare un trucco per arrivare alla meta. Offrì ai lottatori una
mano per ottenere un compromesso e promise di ripartire la salsiccia in due parti, così che
nessuno abbia di più dell’altro. Il lupo e il cane acconsentirono, perché è meglio avere solo una
parte della salsiccia che nient’altro che una pelliccia strappata.
Allora, la volpe ripartì la salsiccia in due parti. Le due porzioni però erano troppo disuguali.
Il cane e il lupo, tutt’e due cercando di addentare il pezzo più grande, volevano ricominciare la
lotta. Ma la volpe sapeva che fare. Per la giustizia, staccò coi suoi denti un boccone della parte
più grande. Ma anche questa volta l’uguaglianza riusciva male. Questo processo si ripeteva e
ogni volta, quando la volpe aveva preso un morso, i due cugini cercavano d’addentare il pezzo
più grande. Alla fine, dopo aver mangiato l’ultimo pezzo della salsiccia, la volpe si leccò la
bocca. Il lupo e il cane se ne andarono di soppiatto dal luogo dell’evento e effettivamente, come
la volpe aveva promesso, nessuno dei due aveva ricevuto più dell’altro.
Karl Wiener

La zanzara e l´elefante
Tutti i bambini conoscono il gioco divertente: I bambini siedono in circolo e uno di loro
bisbiglia qualunque parola nell’orecchio del suo vicino. Questa parola cambia da orecchio ad
orecchio e ciascuno ripete ciò che crede di avere capito. Poi l’ultimo dice ad alta voce la parola
che è arrivata a lui. La cosa avviene velocemente e a bassa voce, per questo avvengono
malintesi divertenti.
Come il gioco, spesse volte è anche la vita. Ciò però non è sempre divertendo. Si trasmette
sotto la mano e confidando nella discrezione un segreto di cui in realtà nessuno debba sapere.
Un segreto però pare di essere senza valore, se non è per lo meno un fiduciario, con cui si può
scambiare degli sguardi di cospirazione, e benché si abbia giurato discrezione, il segreto passa
in fretta dalla bocca all’orecchio senza essere pronunciato chiaramente. Prima di raccontare la
novità interessante al fiduciario seguente, ognuno deve fare la rima di quello che crede di avere
sentito. La storia successiva dimostra che in questo modo una piccola zanzara si trasforma
qualche volta in un elefante gigantesco.
Uno sciame di zanzare minuscole abitava sul prato umido accanto alla selva. I animali erano
tanto piccolo che si poteva appena vederli uno a uno. In comune però si sentivano forte. Le
zanzare giocavano come di solito nella luce chiara del sole. Il bosco oscuro gli faceva paura.
Benché avessero vissuto da generazioni vicino alla selva, non si erano fatte mai avanti nel buio.
I suoni però che provenivano dalla selva durante le notti estive destavano tanto paura quanto
curiosità. Volevano volentieri sapere che cosa si svolge là dentro. In mezzo a loro ce n’era una
che aveva un udito eccezionale. Si diceva che sentisse tossire le pulci. Questa zanzara pareva
essere più coraggiosa delle altre, perché s’offrì di farsi soletta avanti nel buio terribile per
risolvere gli enigmi della selva. Scortata degli auguri dei suoi compagni si mise immediatamente
in cammino verso l’incerto.
Non sappiamo nulla delle avventure che la zanzara coraggiosa doveva passare nella foresta
buia. Le zanzare sul prato però aspettavano ansiosamente il suo ritorno. Più il tempo passava,
più interpretavano ogni rumore uscente dalla selva come indizio degli atti eroici del loro
delegato. Il grido di un gufo alla caccia di preda oppure il fruscio di un riccio che faceva una
passeggiata al chiaro di luna le fece rabbrividire per rispetto e bisbigliare le loro supposizioni
nell’orecchio del vicino. In questo modo il piccolo insetto nella loro immaginazione pareva avere
cambiato a un grand’animale, che superava tutti i pericoli senza paura. Un giorno sentirono
dell’uno schiacciare e uno sbuffare che si avvicinò dalla selva. Le zanzare si prepararono già al
ricevimento del loro eroe, ma fuori della selva venne solamente un cinghiale. Questo animale
non poteva essere l’esploratore. Il loro bisbiglio sotto la mano aveva trasformato da molto
tempo la piccola zanzara in una creatura almeno così grande come un elefante. Nessuno però
si accorgeva la piccola zanzara che zoppicò con i piedi piagati fuori della selva e si inserì
modestamente nello sciame.
Karl Wiener

L´ombra

Una volta c’era un ragazzino che era conosciuto per i suoi scherzi. Il suo nome era Pietro. Il
birbante faceva i suoi tiri soltanto alla chiarezza del giorno. Di sera, quando il sole tramontava e
la notte scendeva, tutto il suo coraggio era sparito. Forse lo spaventavano i racconti orribili di
spettri e fantasmi, che aveva ascoltato o letto. In ogni caso il buio gli faceva paura.
Un bel giorno, dopo una giornata di gioco da un amico, Pietro ritornò a casa. Il buio già era
sceso. Pioviggina. La luce dei lampioni si specchiava nelle strade bagnate. Pietro andava con
passi rapidi, poiché inseguitori misteriosi gli facevano paura. Qualche volta questi gli seguirono
e talvolta saltellarono davanti a lui mais sempre erano presenti. Dopo ogni passo Pietro
guardava ansiosamente indietro. Tanto velocemente che corse, i inseguitori corsero più
rapidamente che lui. Quando si fermò al di sotto di un lampione per riprendere fiato, i inseguitori
erano riunito intorno a lui. Quando però cercò rifugio in un angolo scuro, i inseguitori erano
spariti e Pietro, tremolante di paura, cercava di scoprire il nascondiglio dove si erano nascoste
per aspettarlo.
Ad un tratto Pietro senti una dolce voce. “Eccomi”, la voce disse, “non temi niente. È
solamente la luce dei lampioni che gioca con la tua ombra”. Era una buona fata che voleva
calmarlo. Divaricò due dita della sua mano nella luce e sul muro della casa di fronte apparvero
un becco di una cicogna, che sembra di prendere in giro il ragazzino pauroso. Non servì nulla.
Pietro vedeva dappertutto delle fantasmi. La fata aveva de compassione e offrì di liberarlo dalla
sua ombra. Non so come faceva, certamente aveva un bastoncino della magia. Pietro si fece
coraggio e uscì dall’angolo. L’ombre erano sparito. Il ragazzino respirava con alleggerimento e
corse rapidamente a casa.
La mamma domandò a Pietro il motivo del ritardo. Lui però non svelò il suo mistero. Le
avventure gli avevano fatto venire di fame e di stanchezza. Dopo la cena andò nella sua
camera e si addormentò subito. Nel sogno tentava invano di fare le figure d’ombra, che la fata
gli aveva mostrato. Sognava anche di bambini che giocavano nelle strade illuminate e
tentavano di saltare sopra la propria ombra. Lui però doveva mettersi da parte e non poteva
partecipare al gioco dei altri. Aveva perduto la sua ombra. Si sentiva solo e escluso e
desiderava che la fata apparisse di nuovo per restituirgliela.
Pare che la fata avesse sentito il suo desiderio. La sera seguente Pietro sceso nella strada.
Non osava però di uscire nella luce dei lampioni. Temeva che i suoi amici deridano di lui perché
non aveva la sua ombra. Qualche tempo dopo però non poteva contenersi. Si unì coi altri
ragazzini e – che miracolo – la sua ombra lui ascortava. Gioiosamente tentò di saltare sopra la
sua ombra e l’inseguì per prenderla. Si diede primura, ma l’ombra sempre stava vittoriosa nella
competizione.
La mamma chiamò a cena e Pietro, stanco ma felice, ritornò a casa. Mangiò a buon
appetito e si coricò immediatamente dopo la cena. Nella luce penetrando per la finestra, i rami
dei alberi facevano apparire figure di ombra alla parete. Pietro si addormentò con calma.
D’allora in poi l’ombre erano le sue amici migliore.
Karl Wiener

Ospitalità
Nella selva profonda, dove la volpe e la lepre s’incontrano nel chiaro di luna, sta una vecchia
quercia nel mezzo di una radura assolata. Nel autunno, ornato delle sue foglie dorate, l’albero
presenta una vista straordinaria bella. Qualche tempesta l’a arruffato e sfrondato e qualche
inverno freddo a lasciato solchi profondi nella sua corteccia. Le sue radici vigorose però si
aggrappano al suolo tanto che anche la tempesta la più forte non possa rovesciarla. Il suo
tronco è tanto vigoroso che l’animale più grande della selva possa nascondersi dietro. Nessuno
sa l’età reale dell’albero e sebbene nessuno nella selva sia abbastanza vecchio che possa
immaginarsi la quercia come albero giovane, piegato dal vento, la quercia non si sente solo,
poiché molti animali trovano rifugio nella sua ombra. Una famiglia di topo a arredato il suo covo
sotto le radici e al piede del tronco un popolo di formiche assidue porta con fatica ogni sorta di
rametto, scorza ed erba per coronare il suo castello con una torre. Un picchio trova alimenti
gustosi sotto la corteccia e un ramo secco gli da occasione di dimostrare la sua abilità come
carpentieri. All’ombra delle foglie due scoiattoli si cacciano giocanti e in un covo nel tronco un
gufo assennato batte gli occhi. In alto però, nella parte superiore del fogliame, dove i rametti i
più sottili si stirano verso il sole, uno stormo d’uccelli si prepara con cinguettare al suo viaggio
verso mezzogiorno. Così dovete immaginare il luogo, dove successero gli avvenimenti
successivi.
Lontano al settentrione l’inverno aveva fatto anticipatamente il suo ingresso con ghiaccio e
neve. Gli animali che vivevano in questa regione, non avevano avuto del tempo bastante per
prepararsi alla stagione fredda. Per questa ragione dovevano mettersi in cammino verso regioni
più calde. Una piccola schiera di fuggitivi arrivò nella radura dove stava la vecchia quercia,. Una
talpa, una famiglia di ricci coi suoi bambini e due conigli, zoppi de la marcia faticosa, chiesero
tetto e nutrimento. Gli animali indigeni consideravano la radura la loro proprietà individuale. Gli
ospiti indesiderati non li piacevano. Temevano di dover ripartire le provviste che avevano
raccolto. Per non sembrare spietato si lamentarono della mancanza di cibo e dissero che le loro
case siano troppo strette per ricevere di ospiti.
La quercia agitò il suo fogliame quando sentì quest’assurdità e al gufo sull’albero si rizzarono
le penne:” Pensate che dorma durante tutta la giornata?”, chiamò dall’alto. “Ho guardato che
cosa avete ammucchiato avidamente. Vi rovinereste il vostro stomaco, se divoraste voi stessi
tutte le vostre provviste”. Le controversie fecero ammutolire gli uccelli. Si ricordarono
dell’ospitalità di cui avevano goduto durante i loro viaggi. Avevano visto tanto del mondo e
sapevano che in particolare i poveri ripartono l’ultimo pezzo di pane con quelli che hanno
di fame. Dopo essersi riavuti dallo stupore che l’arroganza dei vicini aveva suscitato,
raccontarono degli strapazzi, che avevano dovuto superare nei loro viaggi verso il mezzogiorno,
e la sete che avevano dovuto soffrire ad attraversare il deserto. Gli animali indigeni non li
avevano rifiutato mai da loro abbeveratoio. Gli uccelli riportarono i dettagli d’altri incontri e
d’esperienze interessanti nei paesi stranieri. Gli altri animali che non avevano riflettuto mai che
cosa avrebbe potuto avvenire, se fossero andati all’estero, ascoltarono attentamente. Alla fine
dei conti si vergognarono del loro egoismo e dettero il benvenuto ai nuovi vicini.
Karl Wiener

Tra ieri e domani


Una volta due fratelli abitavano in una piccola città lontano da qui. Il più vecchio dei fratelli
era un ragazzo serio e gentile, dava una mano ai genitori e faceva anche altre cose utile. Il più
giovane era un fannullone. Prendeva la vita sul gioco e scherzo e spariva sempre, quando i
genitori avevano bisogno il suo aiuto. Benché ambedue fossero di carattere così diverso, che
nessuno li prendeva a prim0 sguardo per fratelli, i fratelli erano amici durante la gioventù.
Secondo il consiglio dei genitori frequentavano le scuole le migliori del paese. Mentre però il più
vecchio studiava assiduamente e utilizzava il apprendistato come preparazione alla vita, il più
giovane non prendeva la scuola sul serio e non perdeva un pensiero unico al giorno di domani
e considerava i lezioni come passatempo.
Ambedue i fratelli erano cavallerizzi esperti, infatti erano pazzi di cavalli. Il proverbio però
dice: Come il cavallerizzo, così anche il cavallo. Il cavallo del fratello più vecchio era persistente
e di carattere equilibrato. Avrebbe portato il suo cavallerizzo alla fine del mondo, se avesse
avuto tempo bastante. Il cavallo del fratello più giovane era un stallone focoso, che raschiava
impazientemente coi zoccoli nella polvere quando sentiva la briglia. A questo motivo i fratelli
non potevano mai cavalcare insieme, perché l’uno trottava direttamente verso sua meta e l’altro
galoppava su e giù e arrivava solamente di rado a sua meta.
Quando erano cresciuto e non ancora avevano bisogno la mano proteggente dei genitori,
tutti i due fratelli presero il loro cammino proprio. Il più giovane godeva il giorno e festeggiava
senza fine con persone conoscenti che lui prendeva per amici. Quando però il denaro che i
genitori gli avevano danno come dotazione per il viaggio stava per finire, quei amici sparivano a
poco a poco. Lui però voleva proseguire le feste. Montò il suo cavallo quando il sole annunciò il
suo tramonto e inseguì il giorno, che sparì all’occidente. In questo modo ottenne che il sole per
lui non tramontava mai e la sua vita restava un unico giorno festivo. Questa vita però era molto
faticosa, perché il sole non si riposa mai e lui doveva seguirgli incessantemente intorno al
mondo intero affinché il suo giorno festivo non finisse.
Il fratello più vecchio anche sellò il suo cavallo e cavalcò fuori nel mondo. A differenza a su
fratello però la sua cavalcata lo portò all’oriente, là, dove il sole sorge di mattina. Il suo cammino
era faticoso e conduceva durante la notte buia attraverso della steppa seccha e una foresta
senza fine. Pericoli da parte di briganti e animali rapaci lo minacciavano, ma nonostante tutta la
fatica non si scoraggiava, poiché voleva essere arrivato a sua meta al sorgere del sole. Prima
che i primi raggi del sole luccicassero sopra dei monti, gli uccelli si svegliarono del loro sonno. Il
silenzio della notte, pieno di attesa, cedé al cinguettare attivo di questi piccoli abitanti della
selva. Il cavallo ansimava impazientemente. Il suo fiato caldo fumava nell’aria fresca della
mattina. Il cavallerizzo anche era curios0 di sapere che cosa il giorno gli porterà. Quando la
selva si diradò, davanti a suoi occhi si estendevano campi e prati illuminati del sole. Da lontano
scintillarono i campanili di una città. Le campane salutarono il giorno giovane. Il successo
valeva la pena del cammino faticoso, il ragazzo fu arrivato nel giorno di domani. Il suo fratello
però si sforzava incessantemente anche en seguito dell’inseguimento del giorno d’ieri.
Karl Wiener

Una domanda senza risposta


Un gallo maestoso sedeva sulla scala e osservava attentamente l’attività delle galline nel
cortile. Di tanto in tanto allungava il suo collo e cantava a squarciagola, affinché le galline non
dimenticassero chi è il padrone, mentre quelle, non impressionate, si dedicavano alle loro
attività. Camminavano a piccoli passi qua e là alla ricerca di un verme o tiravano un filo d’erba
dalla terra sabbiosa. Per spegnere la sete, tuffavano il becco nella scodella d’acqua, alzavano
la testa, e con il collo allungato e il becco aperto facevano stillare le gocce giù per la gola.
Il gallo al suo posto d’osservazione sbatteva gli occhi con noia. Niente sembrava disturbare
la pace nel cortile. Improvvisamente però, uno schiamazzo risuonò da un angolo lontano.
Sembrava che una lotta violenta scoppiasse tra le galline. Il gallo apprezzava per niente questa
cosa. Lui solamente aveva il diritto di provocare una lotta nel cortile dei polli, nessun altro.
Scese della scala per verificare ciò che succedeva e andò con fierezza all’angolo da dove
risuonava il rumore. Ogni suo passo ricordava il cambio di guardia davanti al palazzo del re.
Alzò la sua gamba sinistra, la spinse avanti come un calciatore e la mise con violenza sulla
terra. In seguito procedette con la gamba destra in modo uguale. Se avesse avuto gli speroni di
ferro come quelli degli stivali di un cavaliere, avrebbe prodotto un suono quasi come quello d’un
campanello. Il gallo credeva probabilmente che marciare a tali passi gravi impressionasse di
più le galline.
Il gallo s’avvicinò al luogo da dove il rumore delle galline eccitate veniva, si fermò, sollevò
una delle sue gambe e chinò la sua testa per udire meglio il motivo delle controversie. Una delle
galline aveva fatto la domanda antichissima: “Esisteva prima il pollo oppure l’uovo?”. Le galline,
come di solito in tal caso, non conoscevano alcuna risposta. Il gallo prese l’opportunità di
mostrare la sua superiorità e proclamò: “Prima di tutto era l’uovo. Ognuno di voi è sgusciato
come pulcino da un uovo, prima di diventare una gallina”. Per un momento la spiegazione del
gallo fece cessare la lite. La gallina però, che aveva causato la lite e non ancora sapeva che
nessuno contraddice mai il gallo, domandò ingenuamente: “ E quale gallina ha fatto il primo
uovo?”.
Mauro Montacchiesi

Omaggio al Dio Saturno


Titolo dell’opera
“Omaggio al Dio Saturno”
(Autore: Mauro Montacchiesi)
La presente opera è il risultato di una vasta ricerca documentale adattata secondo la
prospettiva dialettica dell’autore.

Nota introduttiva
*
Collocati ai declivi dei Monti Cimini che svettano a nord-est sovrastando la depressione del
Lago di Vico e la spianata di Viterbo e, a sud-ovest, collocati ai declivi dei Monti Sabatini, Sutri
ed il relativo circondario costituiscono uno dei maggiormente spettacolari "resort" dell'Etruria
Suburbicaria, sia nell'aspetto delle civiltà antiche sia in quello ecologico. La frazione, ubicata
sopra un contrafforte fusiforme (costituito, per lo più da materiale vulcanico incoerente,
cristallino e vetroso) con il quale si fonde in un'entità unica, compare, ex-abrupto, dal nulla, in
virtù, in primis et ante omnia, dei suoi bastioni e dei suoi merli e, a seguire, delle sue mura
medievali e delle sue architetture religiose. Sutri, circondata da alti pianori e da profonde vallate
irrigate da torrenti, emerge dai plessi inestricabili di una cornice silvestre e ripropone i paesaggi
tratteggiati dai giovani cresi dell' Aristocazia britannica, amanti del Grand Tour, a partire dal XVII
secolo. Costì non è raro rinvenire opere architettoniche impareggiabili e straordinarie, talora
ottimamente preservate, in atteggiamento di provocazione contro i secoli, i quali, nondimeno,
ineluttabilmente li smangiano. La Municipalità sutrina ha ottemperato, per il 2010, a tutte le
istanze contemplate dal Modello di Analisi Territoriale del Touring Club Italiano, per cui le è
stata nuovamente "ratificata" la "Bandiera Arancione". La Bandiera Arancione rappresenta
l'etichetta di pregio turistico ecologico per l'Hinterland. A concorrere nella conferma della
Bandiera Arancione vanno ricordati: valorizzazione del patrimonio culturale, tutela
dell'ambiente, cultura dell'ospitalità, accesso e fruibilità alle e delle risorse, ristorazione, prodotti
tipici, etc...
*
Cenni storici
*
Il più antico nucleo di "Sutrium" fu insediato rasente ad un varco naturale di raccordo tra
l'Hinterland dell'Etruria Meridionale e la striscia marina e, contestualmente, a ridosso della
direttrice di percorrenza dal Nord della Regione verso Roma. Dalla favorevole ubicazione
geografica e dalla reale potestà che poteva vantare su tale tragitto, verosimilmente, Sutrium
attinse la propria ragion d'essere e la propria rilevanza che, ad intermittenza, essa vantò fino al
Basso Medioevo. Nel tentativo di circoscrivere un periodo di riferimento relativo ai primi
insediamenti di Sutrium, va ricordato che, negli anni recenti, sono state effettuate ricerche
archeo-paleontologiche che hanno condotto all'individuazione, presso il margine nord del
pianoro sutrino, di talune schegge di sostanze da impastatura le quali, vuoi per morfologia, vuoi
per decorazioni, lasciano ipotizzare un periodo della più tarda Età del Bronzo Finale (X sec.
A.C.). Tra questi reperti vanno ricordati: tombe a fossa e a pozzetto, ceramiche...soprattutto in
Località La Ferriera (km 3,5 a sud-est di Sutri, lungo la Via Cassia). Altri reperti databili all'Età
del Ferro (VII sec. A.C.) sono stati rinvenuti sui rilievi orografici di Monte Rocca Romana e di
Monte Calvi (sette km circa, a sud di Sutri, verso Trevignano). Se da un lato va detto che tali
frammenti costituiscono una prova esigua, dall'altro va rammentato che essi sono, tuttavia,
l'unica testimonianza di insediamenti antropici protostorici. Tali reperti, nondimeno, non
consentono di delineare analiticamente l'iter strutturativo del protoinsediamento antropico. E' da
tenere in considerazione la possibilità che la fioritura del centro abitato primordiale, altro non sia
che il portato sincretico di più realtà umane che popolavano l'area, le quali, necessitate cogente,
nell'impellenza di inusitate possibilità ed istanze di mercato, di difesa e di organizzazione
urbana, abbiano quindi mandato ad effetto un processo di "polimerizzazione socio-genetica" tra
l'Area Falisca e l'Etruria in senso lato. Anteriormente all'egemonizzazione romana, Sutrium,
storiograficamente disquisendo, altro non era che un esiguo centro abitato, scusso di precise
rilevanze, aggregato, forse, all'area di influenza falisca o, verosimilmente, etrusco-veiana.
Anche per quel che concerne queste due ultime ipotesi mancano, tuttavia, chiari riferimenti
letterari e/o archeologici. In occasione dei primi sussulti imperialistici di Roma, ovvero con la
capitolazione dell'etrusca Veio, Sutri, in compagnia di Nepi, entrò nella sfera politico-egemonica
di Roma, particolarmente per la sua importanza strategico-bellica e per la sua ubicazione
fungente da displuvio con il mondo etrusco-falisco. Posteriormente alla caduta di Veio, quindi,
Sutri assunse il ruolo di avamposto di Roma nella conquista dell'Etruria. Nel 390 A.C. i Galli
Senoni, guidati da Brenno, saccheggiarono Roma che, indebolita, venne immediatamente
attaccata dall'etrusca Tarquinia, la quale assediò ed espugnò Sutri, ma i Romani, molto
rapidamente, riconquistarono l'importante centro in virtù della magistrale guida di Furio Camillo.
Logisticamente e strategicamente Sutri aveva per l'Urbe una valenza topica. Nel 383 A.C. Sutri
venne assurta a Colonia Latina e ciò la trasformò in un odeon di numerose ed interminabili
collisioni belliche tra Roma e le Lucumonie etrusche. Tali collisioni giunsero all'epilogo con la
risolutiva satellizzazione di Tarquinia (281 A.C.), l'annichilamento di Volsinii (264 A.C.) e di
Falerii (241 A.C.). L'epilogo dell'attività bellica sminuì il ruolo di Sutri in quanto avamposto
strategico-logistico e ciò, gradualmente, ne catalizzò la metamorfosi in agglomerato agricolo. Le
diuturne ed estenuanti guerre avevano verosimilmente prostrato anche Sutri, specialmente per
ciò che concerne l'economia. Nel 209 A.C., Sutri ed altri undici cittadine laziali ricusarono gli
annuali contributi obbligatori a Roma, che si stava duramente scontrando con Cartagine (2a
Guerra Punica).
Non fu un atteggiamento sedizioso a tutti gli effetti, bensì l'esplosione di un grande malumore
germinato dai gravami della guerra in corso. Alcune vestigia archeologiche che caratterizzano
l'area suburbana di Sutri, afferenti esigue strutture di base stanziative e lavorative, dimostrano il
progressivo fenomeno degli insediamenti permanenti, catalizzato poi, sul tardo III secolo,
dall'immigrazione di contadini campani, in virtù di un decreto repubblicano. Lo Storio-geografo
greco Strabone (Amasia-Ponto 64-63 A.C. ca.--20 D.C.), fa riferimento a Sutrium come ad una
delle più prospere realtà urbane dell'area e, ciò, a posteriori e come portato della sua posizione
politica e del suo intervento nello scontro perugino (41-40 A.C.) tra le milizie di Antonio e quelle
di Ottaviano. Tuttavia, uno dei principali motivi di questo benessere, va ascritto alla felice
ubicazione del centro sulla Via Cassia che, all'epoca, era uno dei precipui percorsi per i
mercanti itineranti tra il nord ed il sud della penisola. A margine della Cassia, sempre per motivi
commerciali, venne creato un articolato network viario. Testimonianza dell'aumento della
popolazione, conseguenza del benessere, viene fornita dalla presenza di un cospicuo anfiteatro
e da una notevole necropoli. Anche a posteriori del disfacimento dell'Impero Romano
d'Occidente nel 476 D.C., ovvero anche durante il Medioevo, la Cassia seguitò a rappresentare
l'elemento topico per quel che concerne il reiterato ruolo di riferimento logistico-strategico di
Sutri, quale centro nodale nei rapporti tra Nord Europa e Roma. Al sinodo romano del 465 D.C.
risale la nomina di Eusebius, quale primo Vescovo di Sutri. Relativamente al conclusivo
consolidamento del Cristianesimo ed alla sua osmosi con il tessuto sociale sutrino, mancano
documentazioni inconfutabili. A livello di testimonianza archeologica non va dimenticato che,
contiguamente all'odierno camposanto, vennero rinvenute, nel secolo XIII, le vestigia di un
ipogeo tufaceo, denominato "di San Giovenale", mutuando tale denominazione da un tempio di
culto cristiano, ivi ubicato, oggi svanito nel nulla. Si preserva oggi più o meno il 50% della
struttura del cimitero, includente cunicoli e corridoi che risalgono a varie epoche di
ingrandimento dell'area tombale, nonché includente camere sepolcrali e loculi. Sutri, entrata
nella sfera politica della Chiesa, venne rapidamente implicata negli agoni militari tra Longobardi
e Bizantini, il che gettò le basi per un'inusitata dinamica geopolitica dell'area, ratificata quindi dal
patto di non belligeranza del 607. Tale patto delineò la dicotomia "Tuscia Romanorum" (litorale
e hinterland, ad arrivare alla Via Clodia) e "Tuscia Longobardorum" ( contadi sutrino, volsiniese
e falisco). Nel 568 Sutri fu conquistata dai Longobardi di Alboino, ma, successivamente,
occupata da Romano, Esarca bizantino di Ravenna. Ed ancora, più tardi, Sutri venne
conquistata da Liutprando, Re longobardo, che, nel 728 D.C., ne fece ragalo a Papa Gregorio
II, andando così a costituire il primo tassello del Potere Temporale della Chiesa di Roma. Di
fatto, tuttavia, non si trattò di una donazione, bensì di una riconsegna del precedentemente
maltolto Castellum di Sutrium. Da quel momento in poi andò consolidandosi ed allargandosi il
patrimonio fondiario di San Pietro, in virtù, soprattutto, di lasciti, donazioni, acquisti, etc...
Relativamente al periodo che va dal IX al X secolo, non sono giunte documentazioni certe, tali
da poter tratteggiare una mappatura attendibile della storia sutrina dell'epoca. Ripetendosi nei
secoli la funzione non soltanto di posta postrema sulla Cassia alla volta di Roma, ma anche di
funzione logistico-difensiva, la fama di Sutri fu in auge anche per il transito di Vescovi,
Monarchi, uomini illustri provenienti dal Nord. Nell'anno 1046, l'Imperatore Enrico III indisse un
concilio con sede a Sutri. La scelta di Sutri fu dovuta, verosimilmente, in virtù della consolidata
rilevanza geo-politica del centro. A posteriori dell'esautorazione dei Pontefici scissionisti
Benedetto IX, Gregorio VI e Silvestro III, al trono di Pietro ascese Clemente II, già Vescovo di
Bamberga. Sempre a Sutri, nel 1059, ebbe luogo un successivo concilio, convocato dal
Pontefice Nicola II, al fine di esautorare Benedetto X Antipapa. Verso l'epilogo del secolo XI e
durante il XII, Sutri rimase implicata nelle logiche autonomiste ed espansioniste delle autorevoli
ed influenti Casate dell'Aristocrazia capitolina, cospicue latifondiste nella zona, la cui crescente
e machiavellica intrusione negli affari interni della Chiesa ne catalizzò un repentino affralimento
politico.
Nel diuturno agone tra Guelfi e Ghibellini o, più semplicemente, "Lotta per le investiture", Sutri si
ritrovò reiteratamente a rappresentare l'odeon di accrochage(s) militari e/o di diatribe politiche, il
che, di nuovo, ne documentò la rilevanza quale ganglio nodale di un'area in perpetue
compenetrazione, fusione, integrazione, ferma restando l'importanza della Cassia, quale
rachide esistenziale di un network di vie minori e di tantissimi centri abitati, nati e sviluppati
come fibre sinaptiche della stessa Cassia. Correva l'anno 1111 quando, ancora una volta nella
Storia, Sutri fu scelta quale luogo di rendez-vous tra Enrico V Re di Germania (che dapprima si
alleò con la Chiesa per esautorare il padre Enrico IV e poi riprese la lotta delle investiture contro
la stessa Chiesa) e Papa Pasquale II, convegno dal quale germinò un modus vivendi formale di
intesa, vergente all'epilogo della lotta per le investiture, da cui la denominazione: Iuramentum
Sutrinum. Volendo transitoriamente decontestualizzare la valenza politica dello Iuramentum
Sutrinum, tra l'altro tosto dimenticato e disconosciuto nella sua essenza, va sottolineata la
rilevanza del documento, se non altro in quanto includente i primi riferimenti oggettivi al centro
urbano che era cresciuto nei pressi della Cassia, al di là dei confini dell'antichissimo nucleo
romano. Maurizio Burdino (Antipapa Gregorio VIII), nel 1120, trasformò Sutri in personale
piazzaforte, in opposizione a Papa Callisto II. Sutri, prima cinta d'assedio dalle milizie del
Cardinale Giovanni di Crema e poi da quelle pontificie, consegnò a queste ultime l'Antipapa
Gregorio VIII. Questa serie di lotte fu conclusa in virtù del concordato di Worms (Renania-
Palatinato:Germania), stipulato il 23 settembre 1122 tra Callisto II ed Enrico V. Nel 1140,
tuttavia, Sutri venne conquistata da Giovanni degli Anguillara, inconcusso avversario del
Pontefice. Pochi anni dopo, nondimeno, il centro tornò nella sfera di influenza di Santa Madre
Chiesa. Era l'epoca, in Italia, della nascita e dello sviluppo dei Comuni, ma il forte legame di
Sutri con Roma ne inibì l'evoluzione in tal senso. Nel 1146 Sutri fu adottata quale transitorio
ostello da Papa Eugenio III, transfuga verso l'Oltralpe a seguito della sedizione del popolo
romano ordita e fomentata da Arnaldo da Brescia, le cui ceneri, dopo essere stato più tardi arso
vivo, furono disperse nel Tevere, proprio in quel punto che oggi prende il nome di :
"Lungotevere Arnaldo da Brescia"! Adriano IV e Federico Barbarossa si diedero convegno a
Sutri, nel 1155. Il nipote di quest'ultimo, Federico II, acuni anni dopo riacutizzò le
incomprensioni con la Chiesa e Papa Innocenzo IV fu costretto a riparare nell'apostolica Sutri.
Il borgo ed il castello di Sutri, al comando della guelfa Famiglia Farnese e di Pandolfo degli
Anguillara, nel 1264 furono espugnati da Pietro dei Prefetti Di Vice, comandante della fazione
ghibellina del Re di Sicilia: Manfredi. Questo fatto d'arme marcò il momento più decisivo, fino al
1356, nell'agone tra la Chiesa ed i Di Vice, per quel che concerne il dominio sui borghi della
Tuscia. Nel 1358 fu redatto il primo statuto di Sutri, vale a dire che la città, per la prima volta,
era veramente libera. I Di Vice, tuttavia, tentarono una riconquista agli inizi del '400, ma Sutri
ed altre città chiesero protezione ed alleanza politica a Papa Alessandro V. Nel XV secolo,
però, Sutri declinò velocemente. Nella logica delle guerre endemiche allo Stato Pontificio, Sutri
riprese ad essere proscenio di raid(s) di bande armate ostili al Pontefice e, nel 1433, fu dilaniata
e data alle fiamme dallo scellerato "masnadiere", il capitano di ventura Nicolò Fortebraccio. La
testimonianza dell'inconfutabile débacle economica e socio-demografica del centro va
identificata nella fusione della sede episcopale, nel 1435, con Nepi. Oltre a quanto già citato, il
declino fu vieppiù catalizzato dalla Famiglia Farnese, la quale decise di sviluppare sia
Ronciglione sia la Via Cimina, che vicariò, di fatto, la ormai secondaria Via Cassia. Sutri, di
fatto, era stata privata sia di tutte quelle caratteristiche che nei secoli l'avevano collocata al
centro di tutti gli avvenimenti più importanti dello Stato Pontificio sia dell'importanza della Via
Cassia. Sutri perse così le sue funzioni sociali, strategiche, di transito e divenne un nucleo
sostanzialmente irrilevante nei successivi fatti storici dello Stato Pontificio. Nel XVIII secolo
venne conquistata dai Francesi, ma, a seguito della Restaurazione, tornò allo Stato Pontificio e
ne condivise la storia fino al Regno d'Italia.
*
Sutri e le sue mitologiche ed arcane radici.
*
Giusta un remotissimo mito, Chrònos, alias il Dio Saturno, genitore del Pantheon mitologico, fu
il primo Sovrano della Saturnia Tellus, ovvero dell'Italia in generale e, del Lazio, in particolare.
Saturno si stabilì quindi nel Lazio e vi edificò le città più antiche. Il mito narra che anche Sutri
sia stata edificata da Saturno (molto più verosimilmente dai "Pelasgi", antico popolo di
navigatori orientali), in Etrusco "Sutrinas", da cui l'etimologia toponomastica della città,
acquisendo così l'epiteto di "antichissima"! Nell'emblema araldico di Sutri risalta, invero, Saturno
a cavallo che, inguainato il brando, impugna, sollevandolo, un mazzo di biondamente mature
ariste, emblema dell'ubertosità e della copiosità di queste contrade. Comunque, è inconfutabile
che le radici di Sutri siano antichissime. Verosimilmente, in età immediatamente antecedente
agli Etruschi, nell'area esisteva uno stanziamento di cospicua rilevanza, al quale datano i
numerosi spechi riconoscibili negli speroni e più tardi riconvertiti in sepolcreti. I sepolcreti,
invero, rappresentano uno dei fenomeni archeologici maggiormente rilevanti del Comune
viterbese. In ogni dove se ne possono rinvenire, come, ad esempio, sulla Via Cassia, a poca
distanza dal centro abitato, collocati in ordine, ma dalle morfologie eccentriche e capricciose.
*
Un panorama único
*
Una peculiarità del circondario sutrino si identifica nelle tantissime vestigia, in primis sia dell'alto
sia del basso medioevo, che lo costellano, solitarie. Per lo più in ogni dove ci si imbatte, di fatto,
in ruderi di piazzaforti, pievi e bastioni e, il tutto, avvolto da una sorta di mesmerizzante, orfica
organza. Tra gli autoctoni, sovente, molti asseriscono che l'area sia infestata da sinistre larve di
defunti. Un panorama, questo, irrefutabilmente falotico che non può non rievocare la grandezza
di SUTRIUM negli scorsi millenni. Un odeon, Sutri, di avvenimenti documentati e/o leggendari,
indelebili, che hanno lasciato un patente ed affascinante retaggio socio-culturale. Una prisca
tradizione affabula che, poco fuori Sutri, a poco più di un chilometro dalla piazza principale,
verso la Capitale, sul lato sinistro della Consolare Cassia, in uno dei numerosi sbancamenti
tufacei già avelli etruschi, avvenne la nascita del famoso e leggendario protagonista di epos: il
Paladino Orlando, Marchese del Chiaramonte, Conte di Blaye, nonché Gonfaloniere della
Chiesa Cattolica Apostolica Romana. Lo speco (una grotta a due ambienti sostenuti da una
colonna, verosimilmente tomba etrusca a camera), al quale si ha adito in virtù di un angiporto
degradante a valle, risulta tuttora riconoscibile. Giusta l'epopea letteraria, la consuetudine folk e
le narrazioni cortesi franco-venete del 1°100, Carlo Magno abiurò e bandì la sorella Berta,
perché rimasta incinta del soldato Milone, guerriero prode, ma senza titolo nobiliare. Anche
Milone fu messo al bando! Per il valente soldato fu d'uopo avere, per vivere, un nuovo Sovrano
da servire e, ricusato da tutti, tentò la via verso Roma, ovvero intese offrire i propri servigi al
Pontefice. Nel viaggio verso Roma, Milone e la gestante Berta trovarono momentaneo ostello
nella citata grotta e fu lì, in quell'occasione, che Berta partorì Orlando, detto anche Rolando, dal
fatto che, un giorno, cadendo e rotolando per un clivo, la madre Berta esclamò: "Oh, le petit
roland"! Gli anni corsero veloci ed Orlando, ormai divenuto un giovane florido e vigoroso, fu
nominato capo della gioventù di Sutri. Gli venne attribuito l'ufficio di "Re del Carnevale" e si
dedicò ad un'esistenza "sans-souci", sino al giorno in cui, a Sutri, arrivarono Carlo Magno ed il
suo entourage, di transito verso Roma, dove il Re Franco avrebbe ricevuto la Corona da
Imperatore dalle mani del Papa. L'entusiasmo generale intorno a Carlo Magno ed al suo
entourage furono enormi e ne rimase contaminato anche Orlando, il quale si affrettò nel farsi
notare. Il ragazzo, indossati gli abiti da servo, si insinuò nel convito di Corte e, con repentino
magistero, trafugò il calice del Franco Monarca. Il Re non si arrabbiò, anzi, invitò
provocatoriamente il ladro a ripetersi il giorno successivo, cosa che avvenne con lo stesso
esito. Tornando a casa, comunque, Orlando fu bloccato da tre funzionari reali, i quali
riconobbero Berta che si riappacificò con il potente fratello, seguendolo poi in Francia. Carlo
Magno cooptò Orlando nel suo entourage e, su istanza dello stesso nipote, anche il di questi
fraterno amico, sutrino verace, Oliviero. Orlando ed Oliviero furono innalzati alla dignità di
Paladini di Francia e, più tardi, il destino li unì anche nella morte, ovvero nella Battaglia di
Roncisvalle contro i Saraceni (778 D.C.). Nondimeno, la liaison franco-sutrina non risulta
minimizzabile alla pretta tradizione epica. A cavallo tra l'alto ed il basso medioevo, Sutri
rappresentava, invero, una delle precipue soste obbligate sulla Via Francigena, ovvero sulla
strada che, identificandosi a tratti con l'attuale SR2 Cassia, metteva in comunicazione Parigi e
Roma. Vestigia cospicue di tale relazione permangono pure nella consuetudine tradizionale, la
quale ha ascritto, a numerosi dei ruderi che intarsiano il pittoresco panorama sutrino, un'origine
transalpina. Si può mentovare, nella fattispecie, il famoso "Castello di Carlo Magno" (inglobato
nelle pertinenze della settecentesca Villa Savorelli), le cui radici edilizie non sono tuttora ben
note, ovvero il Castello ove si ipotizza sia occorso il rendez-vous tra Carlo Magno ed il
Pontefice Leone III. Tuttavia, parecchie delle rovine distinguibili manifestano, ad onor del vero,
peculiarità stilistiche francesi, particolarmente di espressione ogivale. Non di rado queste
vestigia sono conformi alle peculiarità di altre testimonianze architettoniche di area sutrina, a
confermare, se mai ce ne fosse bisogno, una diuturna presenza di artisti francesi, per lo meno
per tutto il XIII secolo, nella prefata area. Sovente ed espressamente si è reiteratamente
congetturato il transito in situ dei Cavalieri del Tempio, come proverebbe e dimostrerebbe la
Cappella di Santa Maria del Tempio. L'esistenza di questa chiesa rievoca, ipso facto, il
suggestivo ed esoterico Ordine Templare. Questo Ordine, inoltre (sarà un caso?), in area
laziale sembra essere costantemente relazionato a quei siti la cui mitica nascita viene ascritta al
Dio Saturno.
*
Anfiteatro
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In virtù degli sbancamenti di un poggio di tufo, realizzati tra il 1835 ed il 1838 per iniziativa della
Famiglia Savorelli, dopo che era rimasto sepolto per secoli, è stato rinvenuto un imponente e
grandioso edificio, divenuto poi il monumento-simbolo della città: l'anfiteatro di Sutri! E'
pressoché utopistico risalire all'epoca della sua erezione che, nondimeno, si azzarda ascrivere
alla fase imperiale romana (Età Augustea?). Al suo interiore, questo capolavoro di ingegneria
architettonica ad icnografia ellissoidale ed a grande effetto scenografico (è dotato di tre ordini di
gradinate e poteva contenere fino a cinquemila spettatori, distribuiti su vomitoria e scalinate),
presenta alcuni sottopassaggi ad arco. Soltanto uno dei due ingressi voltati sopravvive tuttora.
Un complesso di sepolcri dirupati di età romana comprende timpani, piccoli piedritti, camere
adibite a "columbaria" per le urne cinerarie (le più rilevanti presentano, esternamente, dei
frontoncini incisi) e loculi parietali, ben evidenti sui contrafforti del contiguo Poggio Savorelli
(incluso nel Parco Archeologico, preistorico-paesaggistico), molto riconoscibile dalla Via Cassia.
Questo sito, inoltre, è ricco in reperti di età pre-romana e romana e non è lontano dall'antica
porta di accesso a Sutri: Porta Franceta, alias Porta Vecchia. L'anfiteatro, lasciato esposto
all'erosione degli agenti atmosferici, è rivestito di incrostazioni verdastre e gialle, di pianticelle
briofite e funghetti. Lateralmente l'anfiteatro è stretto nell'amplesso dei sempreverdi, coriacei
lecci e gode dell'ombra delle loro foglie ovali. Si tratta, invero, di uno dei monumenti sutrini più
maestosi e seducenti. Il tempo, ovviamente, si fa sentire, soprattutto sui logoratissimi gradoni.
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Mithraeum o Santa Maria del Parto
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Anche il tempietto rupestre della Madonna del Parto è un'opera particolarmente affascinante e
sui generis: un sotterraneo collocato alle estremità di un'ulteriore rilievo tufaceo, Poggio
Savorelli, fuori dal borgo antico ed in piena area archeologica. L'opera consta di diversi vani:
inconfutabilmente tre avelli etruschi ottenuti per sbancamenti del tufo, più tardi collegati e
riconvertiti in tempio del Dio Mithra. Ancora evidente è un'incavatura praticata nella
pavimentazione pietrosa, incavatura che serviva, nel corso di rituali sincretici e misterici, a far
defluire verso l'esterno il sangue del toro immolato alla divinità di importazione iranico-induista.
Mithra, nei secoli dell'Impero, si propalò rapidamente a Roma dove, spesso, fu associato al Sol
Invictus, ad Helios e/o ad Apollo. Il Mitraismo iniziò ad attecchire nell'Urbe sul finire del I°
Secolo A.C., all'epoca di Giulio Cesare. Più tardi fu venerato come "Fautore dell'Impero
Romano" e così cantato dalle Legioni. Sul Monte Ararat, in uno speco, da una Vergine veniva
partorito il Dio Mithra. Era il 25 dicembre dell'anno 4.000 A.C., circa. I Mithraea iniziarono ad
essere edificati per solennizzare ed immortalare l'"Avvento" del Dio, nel nostro Universo, nella
"Grotta Cosmica"! Ogni mitreo aveva un responsabile superiore, denominato "Pater". Pure il
mitreo sutrino aveva una gerarchia di ministri del culto che, a piedi nudi, praticavano la
meditazione trascendentale. Il Pater Supremus di tutti i mitrei dell'Impero, ovvero il "Pater
Patrorum" (Pa.Pa.), risiedeva nelle Grotte Vaticane, a Roma. Il Dio Mithra, ovvero il Dio Sole,
disponeva di 12 discepoli, tanti quante erano e sono le sue costellazioni zodiacali. Nell'Urbe il
"Colosseo" (da non confondere con l'allora inesistente Anfiteatro Flavio) era l'ipostasi del Dio
Sole. Il "Colosseo" era un enorme colosso (da cui: colosseo, secondo alcune fonti) di bronzo,
più elevato (m.37) ed imponente di quello di Rodi, rivestito di lamelle auree, eretto per ordine di
Nerone. Per quel che concerne Sutri, gli iniziati ai Misteri del Culto ricevevano un battesimo
d'acqua dal fonte battesimale sul pavimento, per poi ricevere il Battesimo del Fuoco come
iniziati al IV livello (nel Mitraismo, dottrina incentrata sulla soteriologia, ovvero sull'opera
salvifica del Dio contro le Forze del Male, i livelli di iniziazione erano sette). Il Mithraeum di Sutri
fu convertito in tempio cristiano nel IV secolo D.C. ed il Taurobolium mitraico (lapide centrale) fu
asportato e successivamente collocato sul muro di un casale, frazione La Botte, a pochi passi
dalla Via Cassia. Quindi, il tempio al Dio Mithra venne più tardi riconvertito in sacello alla
Madonna del Parto. In virtù di questa trasformazione venne locupletato, nei secoli, di parecchi e
rilevanti dipinti (anche a carattere primitivo), come quelli sopra l'ingresso (Pellegrini in cammino
verso la grotta di San Michele Arcangelo-Salita al Monte Gargano) e quello sopra l'altare (Il più
antico presepe di Sutri). L'affresco rappresenta, invero, la nascita di Gesù ed ancor evidenti
sono pure la Sacra Famiglia, il bue e l'asinello, ed ancora: San Cristoforo e il Bambino.
Riepilogando: il Sacello della Madonna del Parto, prima di diventare tale, nasce come tomba
etrusca e viene più tardi convertito in mitreo romano. Essendo il tempio interamente scavato nel
tufo, non vi è nulla, all'esterno, che lasci presagire la presenza della chiesa.
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Villa Savorelli ed il Bosco Sacro
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Edificata sul Colle San Giovanni, sopra una pristina costruzione, nel cuore della cornice
mozzafiato del Parco di Sutri (sette ettari), Villa Savorelli, fastosa mansione signorile del '700
(parte del sistema difensivo di Sutri), troneggia da un elevato sperone di pietra (Poggio
Savorelli) trapunto, sul piano di appoggio, da diversi incavi di origine etrusco-romana. La Villa fu
costruita per iniziativa dei Marchesi Muti-Papazzurri che diventarono, per eredità di Eugenio,
epigono della guelfa e nobile Famiglia fiorentina degli Altoviti, proprietari del fondo. Nel 1730,
come si evince dagli archivi di Casa Muti, la Villa entrò a far parte del patrimonio della
Marchesa Ginevra Muti-Papazzurri. Estintosi il Casato della Marchesa Ginevra, la Villa passò in
eredità ai Conti Savorelli, poi in proprietà alla Famiglia Staderini e, a tutt'oggi, al Comune di
Sutri. Villa Savorelli (adibita dal Comune ad attività culturali e sociali, nonché a sede degli uffici
dei Guardaparchi), a pianta quadrata, che abbonda talora in vani incompatibili tra loro, offre il
proprio biglietto da visita grazie ai suoi gradevolissimi giardini all'italiana, i cui vialetti mostrano
la direzione verso le vestigia del Castello di Carlo Magno (successiva dimora degli Anguillara) e
verso la maestosa Chiesa di Santa Maria del Monte, di discenti del Borromini. I giardini,
elegantissimi, si estendono sulla propaggine meridionale del pianoro e presentano siepi di
bosso a labirinto, giusta i famosi stereotipi rinascimentali italiani. A renderli ancor più pregevoli
concorre una fontana in grigio e macchiettato piperino, con vasca circolare e mostra fregiata
con doppia voluta e mascherone centrale, con motivo terminale strobilomorfo, ovvero a pigna. Il
prospetto di Villa Savorelli sfoggia una porzione sottostante a scarpa, inglobata nelle bugnature
d'angolo, che ripropongono il leit motiv decorativo del portale d'ingresso ed è circoscritto,
superiormente, da una doppia cornice convessa, sulla quale posano le paraste angolari e le
quattro finestre del primo piano. Un altro piano è marcato da altre quattro finestre, simmetriche
a quelle sottostanti. Sopra il cornicione aggettante posa un rialzo a parete piena, glabro, a
pilastri angolari e campo centrale, inglobato in mezzo a due coppie di mensole a balaustro,
sormontato da un arco pieno a tutto sesto, con specchiature laterali. L'interiore, estremamente
rielaborato, è privo di rilievi architettonici. Sul versante opposto il parco subisce una radicale
metamorfosi. Avviluppate tra robusti rizomi, alcune vestigia medievali aprono ad un piccolo e
semibuio sentiero che mena al pluricentenario bosco di lecci: il Bosco Sacro! Tra il fogliame
ovale e scuro di questi lecci, edificata in massi tufosi, svetta una torretta, sempre di età
medievale. Procedendo in mezzo alle rigogliose verzure, si approda all'affascinante vista
sull'antico anfiteatro che, soltanto da questa prospettiva, può essere ammirato nel suo diorama,
ovvero nella sua veduta d'insieme. Quello di Villa Savorelli, rispetto ad altri, può essere
considerato un "parco in miniatura", tuttavia rigurgitante di bellezze suggestive che, similmente
ad una fatata dimensione atemporale, catturano lo sbigottito osservatore. Il territorio del parco,
quindi, si snoda principalmente nella zona circostante a Villa Savorelli, mentre la rimanente
porzione, protetta, si identifica in un rilievo collinare a substrato tufaceo, formato per deiezione
vulcanica del Cono Sabatino. Benché esiguo nelle sue dimensioni, il parco annoverà una flora
alquanto eterogenea: macchie di lecci, ornielli, filliree, viburni, mesofili, cerri, roverelle, aceri,
carpini, castagni, noccioli, pioppi, salici...
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La Via Francigena
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Per secoli milioni di "Romei", ovvero di pellegrini diretti a Roma, verso gli avelli ed i siti di tortura
dei Santissimi Pietro e Paolo, hanno percorso questa via maestra che iniziava a Canterbury, in
Gran Bretagna. Narra la tradizione che fu Sigerico, Arcivescovo di Canterbury, recandosi a
Roma, "ad limina petri", in visita a Papa Giovanni XV, a segnare l'inizio del percorso. La Via
Francigena era la più rilevante tra le strade che intersecavano l'Europa medievale. La Via
Francigena ufficializza la rilevanza del romeaggio nel Medioevo, allorché i pellegrini, anime alla
ricerca delle proprie radici religiose e mistiche, non si spostavano soli, ma in ampie comitive. Di
conseguenza e parallelamente al romeaggio, la Via Francigena fu altresì percorsa da eserciti e
da mercanti itineranti tra l'Europa Settentrionale e la Capitale del Cattolicesimo. Il nome
"Francigena" germina dal suo reiterato ed inderogabile uso da parte dei Franchi, ovvero dalla
sua funzione di trait-d'union tra la franca Mitteleuropa e l'area mediterranea. Per dare maggiore
importanza alla Via ed alla valenza allegorico-penitenziale della sua corvée odeporica, il tragitto
veniva effettuato preferibilmente "pedibus calcantibus": a piedi. Questa anabasi era latrice di
una coscienza religiosa, nonché di quella di spaziare in seno ad un vastissimo humus dottrinale
cosmopolita. Non va obliato che le strade romee in generale e la Francigena in particolare (in
virtù del suo amplissimo bacino di utenza), costituivano nel contempo un network di
comunicazione e di collegamento, anche nella logica di cospicue transazioni commerciali e di
manovre militari. Ergo: queste erano strade di potere politico-militare, di cultura, di economia, di
filosofia, di arte, di folklore. Elementi, questi, che ancor oggi le rendono affascinanti. Ma, tra
tutte queste strade, va ribadito il ruolo egemonico ed ante litteram della Via Francigena, che ha
iniziato a decorare già da allora, senza tema di smentita, l'intarsio della moderna Europa: non è,
infatti, errato dire che la Via Francigena ne ha testimoniato la remota e comune semente
culturale. La Via Francigena costituiva, invero, un reale plesso stradale, che inglobava spezzoni
di vetuste strade romane, in quel tempo ancor utilizzabili, e strade di nuova costruzione.
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Il Centro Storico

Edificato in struttura romanica, nel cuore del centro storico sutrino, spicca il Duomo
dell'Assunta. Non è da escludere che il tempio sia stato costruito a trasformazione ed
integrazione di una base paleocristiana già sostitutiva di un tempio pagano, con successivo
intervento, di impronta tardo-barocca, nel XVIII secolo. Gli albori architettonici del Duomo sono
testimoniati da due colonne (inglobate nei due pilieri interiori, contigui al presbiterio) a fusto
scanalato e capitello fregiato di foglie d'acanto, ovvero da due colonne corinzie. Cospicuo ed
icastico, nella navata mediana, è l'impiantito, vale a dire l'intarsio policromo in marmo, di
suggestiva perfezione artistica, di Scuola dei medievali Fratelli Cosmati (Italia Centrale-XII-XIV
secolo). Nel Duomo è altresì possibile ammirare il "SS.Salvatore Benedicente", su duecentesco
legno bizantino. A verso del coro, nell'ambulacro, consacrato all'ex Vescovo di Sutri, poi Papa
Pio V, troneggia un altare del XVI secolo. Santa Dolcissima, Patrona di Sutri, è rappresentata
da una scultura in legno, opera di discenti di Gian Lorenzo Bernini. Cupo, tuttavia affascinante,
è l'ipogeo romanico, con volte a crociera, diviso in otto navate decorate con fastosi capitelli.
Questo ipogeo, ubicato sotto l'abside, ed il pavimento cosmatesco, sono le ultime testimonianze
della proto-cattedrale, consacrata nel 1207. Altra chiesa sutrina da ricordare è quella di San
Silvestro, caratterizzata da un altare ricavato da un sarcofago. Nel vecchio ospedale, che
ingloba anche la biblioteca e l'archivio storico, ha sede il Museo del Patrimonium. Nel Museo è
possibile ammirare: reperti dall'Età Romana al Rinascimento, numerosi dipinti, lapidari, un
ciborio attribuito ad Andrea Bregno, paramenti sacri, un reliquiario di Pio V, un reliquiario di San
Liberato, un antico ostensorio. Il Museo ospita anche il codice della "Lombarda Vulgata" (XII
secolo), un gonfalone da processione ed un prezioso ornamento di età barocca (paramento
pontificale di Santa Dolcissima).
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Sutri e Sant'Antonio Abate
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L'epiteto di "Antichissima" fu conferito a Sutri dal Pontefice Innocenzo III, nel 1198. Il Pontefice
la citò come "presente" e "civile" già dal secolo VIII A.C.- Sutri affonda i propri rizomi socio-
culturali in un'etnìa indomita ed orgogliosa. Un'etnia solerte ed industriosa che, sin dai tempi più
remoti, consacrava corpo e mente all'improbo lavoro dei campi, cogliendone i dolci e meritati
frutti, spesso con il ruolo di antesignana delle tecniche di lavorazione e di distribuzione. Sembra
quasi scontato, quindi, che i Sutrini attribuiscano tanta importanza ad un Grande Santo, ad un
Santo Ecumenico, a Sant'Antonio Abate, Patrono degli animali, di quegli animali che sono la
linfa energetica della vita rurale. Circa un secolo fa, così narra la tradizione, Sant'Antonio
protesse gli animali di Sutri da un immane flagello epidemico. La Comunità Sutrina ha inteso
trasformare in esclusiva la festa del 17 gennaio in onore di Sant'Antonio. Due società, "La
Vecchia" e "La Nuova", ciascuna nella propria sfera di competenza, eleggono un "deputato"
che, per la circostanza della parata equina, denominata "La Cavalleria", prende in consegna il
vessillo con l'icona del Santo. Il cimelio è preservato, ben in vista, nelle singole abitazioni dei
due, su pittoresche "arule". Per sette giorni le case dei due deputati devono rimanere aperte, a
disposizione di tutti coloro i quali intendano prestare omaggio al Santo e/o rivolgergli una
devotissima prece, in cambio, se possibile, di una spontanea elargizione di ciambelle, vino o
altre leccornie tipicamente locali. Il 17 gennaio, a Sutri, è possibile rimirare vie guarnite a festa,
paludati cavalieri e cavalli che sfilano al cospetto della statua di Sant'Antonio, mentre un prete
impartisce la benedizione ed il popolo grida "Viva Sant'Antonio", innescando un indimenticabile
vortice di brividi d'emozione che cala profondo nel cuore. Il binomio Sutri-Sant'Antonio trasmette
un mistico alone all'ambiente e non si può, a quel punto, non indulgere nella libagione di in un
gotto del gustoso ed abbondante vino e/o nella sapida fragranza delle caratteristiche ciambelle
di Sant'Antonio, a tutti dispensate. L'ospitalità dei "Festaroli" sutrini è unica al mondo!
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Santa Maria del Tempio*Chiesa Templare

La Cappella dei Cavalieri di Malta, Cappella di Santa Maria del Tempio, Chiesa sconsacrata del
sommo Ordine Templare, la cui edificazione data, più o meno, al 1°250, è situata sulla Via
Francigena. Vi si giunge scendendo verso la Strada Statale N. 2 Cassia, direzione Roma, dopo
aver superato Vetralla e Capranica, poco prima del bivio che conduce in Sutri. Giusto sulla
strada affiorano le vestigia del quondam stanziamento templare che di questi, infatti, è una delle
più cospicue testimonianze. La località di Sutri era una delle tante “submansiones” marcate nei
vecchi percorsi della Via Francigena, che in quel tratto fiancheggiava l’itinerario della Via
Cassia. Sutri era una sosta obbligatoria per quelli che, di rientro dal Santo Sepolcro, si
approntavano a proseguire in direzione del settentrione, girando al largo della malsicura Selva
Cimino che, fin dai tempi dell’Antica Roma, infondeva una misteriosa paura. La stanza a Sutri
dell’Ordine del Tempio era vincolata al transito dei “Romei” ed alla loro tappa extra-moenia del
borgo. La mansione sutrina dell’Ordine Templare, in aggiunta a quella viterbese di Santa Maria
in Carbonara, era tra le più topiche dell’area, precipuamente per le grandi proprietà nei territori
limitrofi. Sulla scorta della toponimia della zona, è stata riscontrata la presenza di una collina di
proprietà dei Templari, chiamata ancor oggi “Poggio del Tempio” e posizionata ad un paio di
chilometri ad est del centro abitato. Santa Maria di Sutri disponeva pure di tenute nella
circostante contrada ed inconfutabilmente svolgeva il compito di presidio degli attraversamenti
dei fiumi. Gli edifici della mansione sono scomparsi. Rimane solo la chiesetta della Madonna
del Tempio, sita, appunto, sotto l’abitato di Sutri, sulla Via Cassia. E’ un piccolo edificio privo di
interesse dal punto di vista artistico. Rimessa a nuovo nel 2°000 ed attualmente usata come
Centro Servizi del Parco, istituito nel 1988, palesa una morfologia architettonica peculiare del
Rinascimento. Presenta un esiguo numero di modanature ed ornamenti esteriori. Interiormente,
consacrato a Santa Maria del Tempio, è preservato un altare, il solo della chiesa. Una cornice
con tre icone divine è sostenuta da una coppia di cherubini senza testa. In mezzo, opera
adespota, è situata un’icona mariana con bambino, dai tratti tardo-barocchi. Il mezzobusto
dell’Onnipotente, che impartisce la benedizione, è circondato da tre Cherubini, collocati proprio
sopra la cornice. Sempre all’interno sono visibili resti di affreschi risalenti a varie epoche. Un
piccolo campanile a vela, simile a quello di Santa Maria in Carbonara, è situato sul versante
destro della facciata. La proprietà della chiesa, a posteriori dello scioglimento dell’Ordine
Templare nel XIV secolo, è stata alienata all’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme (epoca
giovannita), similmente alla Commenda della viterbese Santa Maria in Carbonara, di cui sempre
è stata un possedimento. A ricordare questo dato vi è una targa marmorea collocata sopra il
portale d’ingresso. Vi si legge: “Questa chiesa con i suoi beni appartiene alla Commenda di
Santa Maria in Carbonara, di Viterbo, della sacra religione gerosolimitana”. L’iscrizione fu posta
dal Cavaliere di Malta, Fra’ Ottavio Quaneredo. Santa Maria del Tempio è pure nota con il
nome di “Chiesa di San Giovanni”, “Chiesa di San Giovanni del Tempio”, “Chiesa dell’Ordine
dei Cavalieri di Malta”! Mancano i documenti storici relativi al periodo in cui a Santa Maria di
Sutri operavano i Templari. Sotto la gestione giovannita, la Commenda fu dedicata al Patrono
San Giovanni, ma si pensa che la sola chiesa rimanesse con l’antico titolo di Santa Maria, dato
che ancora oggi viene detta Madonna del Tempio. Scarseggiano anche le notizie di epoca
giovannita. Da un documento conservato nell’Archivio dell’Ordine di Malta, a La Valletta, si
apprende che, nel 1441, la Commenda di San Giovanni di Sutri dipendeva da quella di Santa
Maria in Carbonara ed entrambe erano rette da un unico precettore. Ne da conferma un
inventario di questa Commenda, fatto nel 1449, dove si legge che San Giovanni era un suo
membro e che in quell’epoca possedeva ancora l’Ospedale e molte proprietà nei dintorni:

“…una cappelletta co’ una casa chiamata Lo Spidale nel borgo de Sutrio…
item uno pezo di terra chiamato *al pogio del Tempio”…Item uno pezo di terra chiamato “al
piano de Succiano” presso alla via publica…item uno pezo di terra nella valle della prata
chiamato “il guado della Mola”.

Nell’estratto del processo contro l’Ordine del Tempio, negli Stati della Chiesa vengono elencate,
fra le altre, le Chiese templari di Santa Maria in Carbonara di Viterbo e di San Biagio di Vetralla,
alle cui porte furono affisse le citazioni con i capi d’accusa.
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Nei paraggi
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L' Oasi Naturalistica di Sapientia è situata nei pressi delle meravigliose attrattive dell'area
sutrina e dello stesso borgo di Sutri. Attualmente tutto è sotto tutela del Parco archeologico. Nel
Museo dell'Oasi Naturalistica di Sapientia è possibile contemplare duplicati di dinosauri, in
resina epossidica e poliestere, ed una rilevante esposizione di minerali allo stato grezzo
(provenienti da ogni parte del mondo: rubini, topazi, diamanti), proprio nell'ipogeo di San
Giacomo, quattrocentesco monastero già residenza, nel secolo XVI, della Santa Inquisizione. I
reperti sono allogati in nicchie ipogeiche che riproducono l'habitat naturale dal quale i minerali
sono stati asportati. Nei pressi di Sutri non va dimenticata Caprarola, famosa per il suo
prestigioso Palazzo Farnese, fama dovuta anche perché, taluni ambienti che lo compongono
sono caratterizzati da singolari fenomeni acustici. Per concludere, ad una manciata di chilometri
da Sutri, Blera e Calcata.
***
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Samantah (Racconto-Saggio)

Domenica 02-10-2005, intorno alle h 19.00, presso il ristorante Ad Sutrinium di Sutri, ho


conosciuto Samantah, una donna particolare, una donna eccezionale! La serata era stata
organizzata da Roberto ("Romano de Roma" trapiantato a Sutri da una cinquantina di anni), il
gestore del locale, e prevedeva un buffet per l'aperitivo e l'antipasto e, alle 19.30, cena a tavola!
Il programma comprendeva, inoltre, alle 21.00, uno spettacolo teatrale incentrato sulla farsa
romanesca! Maurizio, un comune amico di Samantah e mio, nonché co-protagonista della
farsa, aveva preorganizzato i posti del nostro tavolo, proprio per far si che la donna ed io ci
conoscessimo! Ho conosciuto Maurizio 4 o 5 anni fa in una serata di Bulli e Pupe (serate
organizzate con cena e balli anni ’60)! Questo fenomeno, Bulli e Pupe, è importante proprio ed
anche per questo e, cioè, perché consente di spaziare repentinamente da un ambiente all'altro,
nonché di acquisire nuove conoscenze ed amicizie! Tutto ciò in felice contraddizione con quei
momenti in cui ti sembra che nulla ti possa fornire altre scelte o alternative! Il nostro tavolo era
quasi attaccato all'improvvisato palcoscenico, situato sulla mia sinistra! Io ero il capofila del
nostro lungo tavolo e Samantah era seduta proprio davanti a me! Il ristorante era gremito! Due
cose mi hanno subito disturbato e colpito di
Samantah:
01) i suoi occhiali scuri nella parte superiore delle lenti e chiari in quella inferiore! Ciò vuol dire
che lei poteva vedere l'espressione dei miei occhi, ma io non potevo vedere quella dei suoi;
02) fissava ed osservava continuamente la mia postura, i miei movimenti, la mia
gesticolazione...
Contestualmente all'arrivo del primo piatto, quasi distrattamente e casualmente, Samantah ha
distribuito ai commensali del tavolo alcune brochure contenenti un invito ad una serata da lei
organizzata per il successivo e prossimo 31-10-2005. Sulla brochure risaltava in grassetto la
scrittura "Ruota dell'anno", che era, che è, il leit motiv, il tema conduttore, delle sue serate!
Nessuno di noi sapeva cosa fosse la "Ruota dell'anno "sicché, dietro nostra richiesta, Samantah
si affrettò a darcene, in maniera estremamente critica ed anticonformista, una lunga ed
esaustiva spiegazione che durò, di fatto, fino alla fine della cena! Prima di narrare ciò che ha
detto Samantah, non posso prescindere dal descriverla e, questo, per meglio comprendere la
sua personalità e la sua "simbiosi" con la "Ruota dell'anno"! Ovviamente la descrizione che farò
di Samantah scaturisce da più fonti: l'impressione epidermica che ho avuto al primo impatto, le
testimonianze di terzi avvenute successivamente e le mie stesse impressioni maturate
conoscendola meglio! Samantah gestisce due attività commerciali: un negozio di Spagyria
(applicazione dell’alchimia alla produzione delle medicine) in viale Europa all'Eur ed un negozio
di esoterismo a piazza delle Muse ai Parioli, entrambi a Roma. Veste quasi sempre con dei
colori tendenti al blu, al violetto, al nero ed indossa monili con ciondoli di zaffiro blu, perchè, a
suo dire, questo colore e questa pietra le riequilibrano il sistema nervoso e le danno serenità! Il
suo profumo preferito è il mughetto, il più tenero dei fiori, che rievoca i prati primaverili imperlati
di fresca rugiada! Adora il suo bouquet unico e dolce che resiste nel tempo! Il mughetto, sempre
a suo dire, le trasmette ottimismo e le purifica lo spirito! Girare per il mondo, esplorare, per
Samantah è inconfutabilmente un'esigenza esistenziale! Pressata dalla sua generosa umanità,
è sempre pronta a prendere parte a trasferte filantropiche, laddove c'è necessità di supporto ed
assistenza alle genti più bisognose! Lo stesso zelo profonde aderendo personalmente,
finanziariamente e fisicamente ai problemi collegati all'ecosistema! Le sue ferie preferisce
passarle lontano dall'Italia, in luoghi dove può venire a contatto con civiltà radicalmente diverse
dalla sua! Ad esempio, lo scorso anno 2006, ha effettuato un viaggio di circa due mesi, aprile-
maggio, nello Yucatan ( da "yectean"= "non capisco", risposta che gli indigeni davano agli
invasori di lingua spagnola), per entrare in contatto e vivere personalmente i residui della Civiltà
Maya! Ha compiuto un giro stupendo: Palenque, Piedras Negras, Isla de Jaina, Uxmal, la Città
Santa di Chichèn Itzà, Tikàl, Copàn, etc. Questi Indios autoctoni preservano tuttora,
particolarmente tra i gruppi meno evoluti, il folklore e le consuetudini degli originari Maya dai
quali derivano! Samantah asserisce, ma è una sua teoria personale, che la Cultura Maya ha
molti elementi originali in comune con le antiche Civiltà del Mediterraneo! Questo l'ha indotta a
dar credito al concetto di "Pangea", ovvero di un monoblocco della crosta terrestre esistente
milioni di anni fa! L'esistenza di una pangea avrebbe permesso lo scambio di civiltà e cultura tra
molti popoli della terra! Nei nostri successivi incontri ha citato più volte alcuni esempi:

01) la loro complessa scrittura ideografico-geroglifica, non ancora decifrata (Egitto);


02) la loro struttura politica che si realizzava in città-stato (Grecia);
03) la loro struttura sociale che prevedeva una gerarchia sacerdotale, una gerarchia nobiliare-
guerriera,il popolo e gli schiavi (Egitto; Assiro-Babilonesi);)
04) il popolo era diviso in clan (Celti);
05) i sacrifici umani ( sacrifici umani in onore dei Baal-Ammon a Cartagine o sul Monte Zaphon
a nord di Ugarit in Fenicia);
06) la loro religione si identificava in un politeismo naturalistico e si concentrava, soprattutto, su
tre divinità: il Dio solare Itzamna (Horus-sole che nasce) figlio del Dio-sole Hunab (Osiride-sole
che muore) e della Dea-luna Ixchel (Iside-la luna) (Egitto);
07) la loro grande evoluzione in campo matematico, astronomico (eclissi lunari; calendario di
365 giorni; complessi calcoli astronomici) e astrologico (oroscopo maya) (bacino del
Mediterraneo orientale);
08) le piramidi, molto simili, se non addirittura fotocopie, a quella di Saqqara del faraone Gioser
ed altrettanto simili alla ziggurat di Chogha Zanbil, in Iran;
09) la Gran Plaza (agorà greche e/o fori latini);
10) le stele ed i mosaici (Grecia, Asia Minore, Egitto);
11) l'arte ceramica, che sembra ricalcare prototipi cinesi...

Samantah, comunque, che grazie alla sua apertura mentale non esprime mai giudizi
assolutistici di condanna, per par condicio si è chiesta fino a che punto, pur mantenendo un
grande rispetto per la Civiltà Maya, gli Spagnoli siano da ritenere crudeli e sanguinari, laddove
hanno trovato fenomeni sociali impostati sulla schiavitù e sui sacrifici umani! I Maya vennero
sovrapposti nel IX secolo dai Toltechi e questi, a loro volta, vennero sovrapposti dagli Aztechi
provenienti dalla più settentrionale Aztlan "terra del sole e degli aironi"! Gli Aztechi, che
costituivano la maggioranza delle popolazioni dello Yucatan all'arrivo degli Spagnoli, erano
bellicose tribù nomadi che depredavano ed assoggettavano i popoli che incontravano sul loro
cammino! Erano guerrieri e le loro guerre erano delle effettive campagne di rapina e
saccheggio! Pretendevano tributi umani da offrire in sacrificio al Dio-sole! Dai popoli sottomessi
esigevano, in cambio del rispetto della loro identità culturale e religiosa, dei forti tributi di altra e
variegata natura! Il potere era autoritario, teocratico e si autoproteggeva grazie a delle forti
guarnigioni militari! Basti pensare a Jaguar Paw (Artiglio di giaguaro), il protagonista del film
Apocalypto di Mel Gibson! Jaguar Paw viene scelto dai capi del suo villaggio come vittima
sacrificale e strappato alla moglie Seven ed al figlio! Riesce a scappare e viene inseguito! Il
protagonista tenterà di riunirsi alla famiglia e di vendicarsi dei suoi sanguinari capi, nel desiderio
di riportare pace e giustizia tra il suo popolo!
*
Secondo l'errata interpretazione di un vaticinio astrologico dei Maya, precise clessidre del
sistema solare, vale a dire inconfutabili custodi e signori del computo del tempo, nel 2012
dovrebbe avvenire la fine del mondo. In realtà ciò che avverrà sarà la fine di un'Era (Era dei
Pesci) e l'inizio di un'altra Era (Era dell'Acquario). Giusta la teoria di alcuni studiosi, i primi
prodromi dell'avvento dell'Era dell'Acquario vanno ricondotti al rinvenimento del 1947, dei
"Rotoli del Mar Morto" (Vangeli Apocrifi) dentro un'anfora, emblema del segno astrologico
dell'Acquario. Per poter congetturare quali saranno gli effetti dell'Era dell'Acquario, sul pianeta e
sul genere umano, è prioritariamente d'uopo comprendere cosa significa "Era" e cosa significa
"Acquario"! Astrologicamente parlando, un' "Era" corrisponde ad un periodo di 2160 anni, vale a
dire al tempo indispensabile al Punto Vernale dell'Eclittica (punto equinoziale di primavera) per
percorrere un segno zodiacale del Grande Anno Platonico, dove ogni grado equivale a 72 anni
terrestri. Il Grande Anno Platonico altro non è che il tempo impiegato dalla Terra (25.868-25.920
anni) per percorrere, in moto "retrogrado", i dodici segni zodiacali. Tali spostamenti si
definiscono: "Precessione degli equinozi"! "Retrogrado": in Astrologia dicesi di pianeta, allorché
un'illusione ottica fa si che l'osservatore dal pianeta Terra abbia la sensazione che il pianeta stia
andando indietro invece che in avanti, soprattutto quando viene sorpassato da pianeti più
veloci. Ancora, è "retrograda" la Precessione degli Equinozi. Per maggiore chiarezza, come nel
nostro caso, la domanda più frequente è: -Ma se dopo il segno dei Pesci viene il segno
dell'Ariete, perché andiamo in Acquario? Semplice! In Astronomia si ha una visione
"eliocentrica" del Creato! In Astrologia si ha una visione "Geocentrica", per cui i segni cardinali
sono ribaltati, esempio: il nord è il sud e viceversa-l'est è l'ovest e viceversa! Lo Zodiaco (dal
greco "zo-ion=animale" e "diakos-kiklos=cerchio") è un cerchio di 360 gradi. I segni zodiacali
sono 12 e, di conseguenza, ciascuno di essi occupa 30 gradi (30x12=360). Il Punto Vernale
dell'Eclittica, omologabile soltanto per convenzione e praticità descrittiva con il punto estremo di
sinistra dell'equatore terrestre, si sposta di un grado ogni 72 anni. Ciò vuol dire che, per
transitare nell'intera estensione di un segno zodiacale, impiega 30 (i gradi) x 72 (anni necessari
per percorrere un grado) = 2.160. La Terra era entrata nell'Era dei Pesci nel 148 A.C., se ne
deduce che (-148)+(+2.160)= +2.012, inizio dell'Era dell'Acquario. Per calcolare il Grande Anno
Platonico avremo, quindi: 12 (i segni zodiacali) x 30 (i gradi di un segno) x 72 (anni necessari al
Punto Vernale per percorrere un grado) = 25.920. Questo vuol dire che il Punto Vernale, e di
conseguenza l'asse terrestre, impiega 25.920 anni per tornare al punto di partenza, in un moto
perpetuo, originando così le glaciazioni. Per fare un esempio, semplice ma concreto, nel 2012
la posizione di Roma (ma di qualsiasi punto della Terra), relativamente al Sole, avrà subito uno
scarto di 30 gradi rispettivamente al 148 A.C., ecco perché si assiste a mutamenti climatici,
fermo restando che possano esistere altri co-agenti atti a catalizzare il fenomeno. Bene, ora che
abbiamo compreso il concetto di "Era", possiamo passare al concetto di "Acquario"! Per
conoscere, seppur molto sinteticamente, il concetto di "Acquario", dobbiamo conoscere i suoi
due pianeti dominanti: Saturno ed Urano. Soltanto così potremo teorizzare quelli che saranno
gli influssi sul pianeta e sull'umanità nei prossimi 2.160 anni.

Saturno

Saturno è un pianeta neutro che governa l'Acquario nel suo domicilio diurno e il Capricorno nel
suo domicilio notturno. Le sue caratteristiche concernono il tempo, i cicli del divenire, il sapere,
la logica, il freddo calcolo...Saturno contrappone l'individuo nella sua singolarità ed il Genere
Umano nella sua molteplicità, alle situazioni più difficili della vita (periodicità e defettibilità),
agendo così coattivamente, grazie a delle vere e proprie ordalie esistenziali, nella logica di una
strutturazione animica e caratteriale, nella logica di un'emancipazione da ogni cosa che sia
diventata zavorra o ostacolo verso l'evoluzione personale. Saturno è il risveglio dall'ignoranza.
Saturno è la morte che apre ad una nuova vita, ad un livello superiore.
Urano

Dal Greco "Ouranòs"= "Cielo"! E' il pianeta della totale emancipazione, della singolarità,
dell'eccentricità, della rivoluzione. E' un pianeta sui generis a tutti gli effetti, l'unico sempre
retrogrado. Urano è creatività, autonomia, originalità. viene speso associato al mito di
prometeo, colui il quale ardì mettersi in competizione con gli Dei dell'Olimpo, desideroso di
veicolare il Sapere al Genere Umano. E lo stesso Sapere, Urano-Prometeo, intende
trasmetterlo all'Acquario come nativo del segno ed alla intera Umanità con l'avvento della sua
Era. Urano è genio, modernità, progresso, distacco dal passato. Urano, tuttavia, è anche
CHAOS. Il CHAOS è una fase interlocutoria in cui, in un sistema, deflagrano i vecchi schemi,
per lasciare il posto ai nuovi. Il CHAOS è rottura con il passato, verso un futuro molto più
evoluto, verso una nuova struttura. Sulla scorta di quanto enunciato, possiamo ventilare che il
2012 sarà l'anno dell'Apocalisse, ma non nell'accezione nefastamente ascrittale. Apocalisse,
dal Greco "Apokàlypsis", composto dal prefisso "Apo-"="Caduta"+"Kalyptein"="Nascondere,
Coprire", vale a dire: "caduta della copertura, rivelazione". Apocalisse è rimuovere la cortina che
obbliga a vivere nelle ombre della Caverna Platonica. Per il singolo individuo, Apocalisse
significa il dischiudersi dei "Sette Sigilli" o "Sette Chakra", "Apertura del terzo occhio",
"Illuminazione"!
*
Stravagante ed eccentrica, libera ed incondizionata, estroversa e genialmente brillante,
Samantah è una donna che guarda sempre in direzione dell'avvenire, dell’indagine e
dell'invenzione! Persuasa paladina di auliche cause filantropiche, odia la grettezza e la falsità
ed i suoi impulsi caritatevoli le attirano l'apprezzamento e l'amicizia di tutti coloro che le
gravitano intorno! Spesso la identifico nel Comandante Kirk, dell'Enterprise di Star Trek! Una
bohémienne dello spazio! I ricordi antichi ed il conformismo non la riguardano a titolo personale,
bensì storico e culturale! La sua anima è proiettata in direzione dei limiti ed oltre i limiti del
cosmo e degli spazi temporali! I suoi credo sono sempre le relazioni, l'amore fraterno e la
solidarietà! Aborrisce la meschinità, l'ipocrisia e l'individualismo esasperato! E' una donna di
vaste speculazioni e spesso si cala nel personaggio della progressista radicale dalle idee
avanguardiste! E' inutile dire che spesso non viene compresa nell'immediato e, di conseguenza,
che viene considerata stravagante! Predilige tutto ciò che trascende le regole del conformismo,
talché è attratta da tutto ciò che spezza le regole dell'ambito umano, dell'estro creativo, dei
nuovi teoremi filosofici...Non sa che cosa sia la presunzione, l’irritabilità, la taccagneria, il
doppio gioco, pur essendo molto capace di ricavare profitto da un contesto che le appaia
appetibile! Le sue relazioni umane non conoscono l'ovvio e l'ordinario, al contrario sono
immancabilmente e mentalmente stimolanti, produttive! Vigile ed inattaccabile custode della sua
libertà è, parimenti, corretta ed osservante di quella del prossimo! Questo senso di fratellanza
istintiva la induce sovente a dar corpo ad un sentimento di ribellione contro le iniquità della vita!
L'eterogenea galassia del cambiamento produce su Samantah una seduzione fortissima, e
questo non esclude la sfera amorosa! La sua anima indipendente ed originale è incline a
relazioni impensabili con soggetti estremamente dissimili da lei e tra loro stessi! Al primo
impatto sembra una persona non complessa ed istintiva, ma di fatto è difficile da interpretare! E'
difficile comprendere cosa le frulla in mente ed è sempre impegnata in qualcosa! Tuttavia, le
cose che la intrigano maggiormente sono: la ragione, l'interazione intellettuale, gli incontri-
scontri mentali che rinnovano e creano il rapporto sentimentale quotidianamente con ardore e
passione! Gli stereotipi della collettività massificata e le regole etiche che vincolano un uomo ed
una donna con la scusa dell'amore, a lei appaiono come subdoli ed illusoriamente ingannevoli!
Ciò che per lei è importante, per contro, è l'istinto dell'attimo, l'impulso autentico, l'energia che si
sprigiona tra due anime, tra due corpi che si attirano, privi di preclusioni e complessi! La corte e
le lusinghe amorose costituiscono per lei il momento più magico del rapporto sentimentale! In
ogni nuova relazione profonde un grande ardore, si trasforma nella donna più zuccherosa, più
tenera e schiude ai suoi uomini un universo favolosamente straordinario! Però, soddisfatta la
curiosità derivante dal nuovo amore, la sua necessità di indipendenza ritorna prepotente! Un
suggerimento a chi desidera farle il filo: sarà sufficiente lasciarle intendere senza ambiguità e
senza trucchi i propositi personali e sarà lei a creare e favorire le condizioni per concretizzare!
La cosa più essenziale è evitare di cadere nell'ovvio, nel cliché e nella gelosia! La sua nozione
di lealtà sentimentale permette al compagno una vasta possibilità di autonomia, sicché, come le
è capitato una volta, davanti ad un ex compagno reo confesso di infedeltà, dimostra benevole
umanità ed indulgenza! In un altro caso, però, in cui un altro ex compagno le ha nascosto le
proprie scappatelle, è esplosa come una bomba! Ma ora voglio descrivere, sommariamente,
una delle sue serate, che si svolgono sempre presso la struttura di Oasi di Saturno, un
agriturismo molto chic che si trova a Sutri, a metà strada tra la Via Cassia e Via delle Cassie. La
serata in questione è quella di Litha, del solstizio d’estate, della festa di Mid Summer o
Mezz’Estate. E’ la fase dell’anno della simbiosi prolifica tra Cielo e Terra, fase di
perfezionamento, liturgia del fuoco e della gioia. E’ una liturgia di servizio e condivisione.
Viviamo in surplace tra la luce del sole (il visibile) e le energie delle tenebre (l’invisibile). E’ un
momento di grazia e di equilibrio. Litha è uno degli otto sabbath maggiori della Ruota dell’anno.
In questo giorno, conosciuto come il più lungo dell’anno, il sole culmina allo zenith, ovvero si
trova nel punto più alto della volta celeste. Le giornate solstiziali nelle tradizioni precristiane
erano sacre ed ancora oggi ciò si riflette in una festività cattolica che cade qualche giorno dopo
il solstizio canonico, al 24 giugno, quando nel calendario liturgico della chiesa latina si ricorda la
natività di San Giovanni Battista. Quando, verso le 20,00, sono arrivato, era in corso un
concerto per solo violino: brani dai 24 Capricci di Niccolò Paganini, il compositore preferito di
Samantah. L’esecutore ha dimostrato, a mio avviso, un originalissimo estro nei suoi virtuosismi
e nel fascino del suono del suo violino, infondendo la stregonesca suggestione propria di
Paganini. Nelle altre stanze c’era invece una mostra di riproduzioni del pittore russo Marc
Chagall, il pittore preferito di Samantah. Chagall fu il pittore del fantastico, del paradosso, del
sogno, del ricordo, della rievocazione e del simbolismo. Tra le opere esposte: Anime Morte di
Gogol, Favole di La Fontaine e, neanche a farlo apposta, Il violinista verde e Sogno di una notte
di mezza estate. All’aperto, invece, un’astronoma munita di telescopio, invitava all’osservazione
del cielo, dando spiegazioni scientifiche. Quella sera Giove era particolarmente visibile, in tutto
il suo chiaro fulgore screziato di strisce rosso mattone. Ed ancora all’aperto, uno spettacolo di
quattro giovani ragazze, che interpretavano i ruoli di “streghe”, di quel periodo in cui una donna,
per il semplice fatto di avere una voglia rossa su una mano, era messa prima all’indice e poi al
rogo, come strega. Poco più in là, la possibilità di farsi predire il futuro attraverso la
molibdomanzia, similmente al Medioevo, quando un’arte divinatoria congenere era impiegata
dagli alchimisti, colando in acqua fredda piombo o stagno fusi. I due metalli, liquefatti, si
solidificavano velocemente strutturandosi in forme che il vaticinatore leggeva in base alle tavole
delle predizioni. Simile procedura fu chiamata molibdomanzia sul finir del XVIII secolo,
mutuando la denominazione da un metallo rinvenuto dal mineralogista Hielm: il molibdeno.
Questo metallo duttile, grigio-argenteo, solido, pressoché non fusibile e costituito di piombo,
venne quindi impiegato in fusione e collocato nell’acqua fredda a scopi di predizione,
principalmente per la sua duttilità. Ed ancora, per gli amanti della divinazione, le Rune celtiche.
Le Rune sono state impiegate come sistema di vaticinio fin dai tempi più remoti, precipuamente
in area gotica, presso i Celti, presso le tribù teutoniche e presso quelle settentrionali, per vaticini
e liturgie varie, anche curative. In seguito, consolidandosi il Cristianesimo, le Rune furono
paganizzate ed abolite. Runa in gotico, significa “segreto mormorato” (in tedesco RAUNEN-
mormorare) e , da lì, arcano, sortilegio, mistero. Invero, il loro impiego è stato sempre
trasmesso verbalmente. I caratteri erano sovente disegnati e colorati su pietre, amuleti, pugnali,
ecc…Ai nostri tempi l’uso delle Rune in quanto sistema divinatorio, si sta diffondendo sempre di
più. La cena, all’interno, era costituita da un vastissimo buffet, ovviamente di menù celtico.
Alcune loro specialità generiche nell’intero arco dell’anno: lumache (le loro corna
simboleggiavano il male e mangiarle facendo rumore, ai tempi nostri i botti di fine anno,
costituiva un esorcismo), confettura di mele cotogne per accompagnare maiale e cinghiale,
Cognà (mosto d’uva, confettura di mele, di pere, di nocciole, di noci) per accompagnare il
bollito, vino (una sorta di nebbiolo simile al Lambrusco), Idromele (bevanda sacra per
eccellenza, si pensa all’ambrosia citata nei miti greci), birra, gallina, orzo, miglio, ecc…Dopo il
buffet, consumato a tavola, fuochi (purificazione), danze (esorcismo) e rituali (liturgia) celtici. Ma
chi erano i Celti? La risposta a questa domanda, premessa necessaria alla Ruota dell’anno, l’ha
data Samantah durante la cena del 02-10-2005, presso il ristorante Ad Sutrinium, di Sutri:-I
Celti erano una variegata etnia iafetica stabilitasi all’incirca 2000 anni prima di Cristo, tra l’est
della Francia attuale ed il bacino settentrionale del Danubio. Propalatori nell’intero continente
della civiltà del ferro, tra il VII-VI sec. A.C. (Cultura di Hallstatt), superato il Reno colonizzarono il
Belgio e gran parte della Francia, restando però, il Danubio settentrionale, il fulcro della loro
civiltà. La “colonizzazione” si allargò a sud-ovest su tutta la penisola iberica e a nord-ovest sulla
Gran Bretagna. Bisogna comunque aspettare il V secolo a.C. per veder concretizzata una civiltà
integralmente celtica. Questa civiltà ebbe in La Tène (Svizzera) il suo fulcro e si estese fino alla
Marna, allo Champagne ed al bacino centrale del Reno. Questa civiltà fu egemone su gran
parte del continente ed iniziò scambi con popolazioni mediterranee. La cultura e l’economia
furono particolarmente fiorenti in questa fase storica. Agli inizi del IV secolo a.C. i Celti
iniziarono un movimento nomade di massa e giunsero a Roma (390 a.C.: presa di Roma da
parte di Brenno), successivamente assoggettarono alcune popolazioni illiriche nei Balcani ed
infine con il nome di Galati, si insediarono in Asia Minore. La tribù era l’elemento portante della
società dei Celti. La tribù era governata da un sovrano e costituita da più clan, costituiti, a loro
volta, da più famiglie. La tribù gestiva, spesso, un territorio alquanto ampio, articolato in molti
stanziamenti. Uno di questi stanziamenti veniva, di comune accordo, eletto a sito di protezione
di tutta la comunità, a sito di mercato e scambio commerciale ed a sito di culto.
L’organizzazione in tribù, influenzata dalla classe dei guerrieri, impedì la creazione di una forte
federazione dipendente da un unico monarca e, di conseguenza, la creazione di un impero. La
diffusione nel continente terminò intorno al 150 a.C., a causa dell’astro nascente di Roma e
della spinta dei popoli provenienti da est, per lo più germanici. I Celti tendevano alla fusione con
gli altri popoli, piuttosto che alla guerra. Soltanto uno stanziamento celtico in Europa, conservò
inalterati i tratti culturali, grazie soprattutto alle saghe: gli Scoti-Gaeli nelle isole della Gran
Bretagna. Nel 410 d. C., una parte di questi, cominciando a scricchiolare l’Impero Romano, fu
costretta dagli Angli ad un esodo in Bretagna. I Gaeli, nonostante l’avvento di Vichinghi,
Norvegesi, Danesi e Normanni, mantennero le loro tradizioni culturali e, questo, pure in virtù di
una pronta presenza della Chiesa di Roma in Irlanda, paese che, oggi, è il solo a maggioranza
di ceppo celtico.
*
La Ruota dell’anno

In parecchi culti del neopaganesimo, la Ruota dell’anno raffigura il succedersi delle quattro
stagioni, celebrato dalla liturgia di otto sabbath. Stando ai culti neopagani, gli eventi naturali
hanno un ciclo ripetitivo, incluso il fluire del tempo, raffigurato simile ad una ruota che, senza
sosta, continua a girare. L’eterno fluire delle quattro stagioni ha ripercussioni sulla nostra
esistenza: venire al mondo, diventare adulto, invecchiare, lasciare il mondo. I sabbath, otto,
marcano le soste da effettuare nella Ruota dell’anno e sono l’emblema dello stesso numero di
soste dell’esistenza del Dio, che, partorito dalla Dea, sviluppa fino alla fase adulta, copula
incestuosamente con la Dea-Madre, governa come un sovrano nel periodo estivo, invecchia e
muore, così marcando l’incipit di un nuovo ciclo. I sabbath si distinguono in quattro maggiori e
quattro minori. Per prassi culturale avevano un estensione temporale di tre giorni, iniziando dal
vespro serale del primo giorno, invero, nella tradizione celtica, era al vespro serale che iniziava
il nuovo giorno. Vediamo le date dei maggiori: Samhain 31 ottobre-Imbolc 2 febbraio-Beltane 1
maggio-Lughnasadh 1 agosto). Tali considerazioni astronomiche, relative all’età del ferro, ai
nostri tempi non sono più uguali, a cagione del risultato sinergico delle nutazioni (piccolo
spostamento angolare dell’asse di rotazione terrestre) e delle precessioni (leggero anticipo
annuo degli equinozi, dovuto al piano dell’equatore rispetto a quello dell’ellittica, in seguito al
movimento per cui l’asse terrestre descrive un cono in senso contrario a quello della rotazione
della terra). I quattro minori sono: Yule 21 dicembre-Ostara 21 marzo-Litha 21 giugno-Mabon
21 settembre, con riferimento agli equinozi ed ai solstizi. Tra alcune feste cristiane ed i sabbath,
esistono evidenti punti in comune. C’è da pensare che alcune date fissate per le celebrazioni
cristiane, siano state adottate per depaganizzare certe aree. E’ necessario, ad ogni modo,
rammentarsi che talune ricorrenze cristiane sono nate in area mediterranea, al contrario dei
sabbath, di moda in Europa centro-settentrionale. La matrice iafetica di Greci e Latini, comune a
quella di Germani e Celti, deve far riflettere sull’eventuale comune origine dei culti, anche se
oggi inconciliabilmente diversi.
-
Ed ancora sui sabbath: E’necessario liberarci la mente da tutti i pregiudizi creati in merito. Il
demonio non ha nulla a che vedere con tutto ciò. Non ci sono pedo-fagismo, usurpazioni di
chiese o avelli, liturgie demoniache, ecc…Queste antiche festività pagane sono state
sovrapposte da quelle cattoliche, al fine di favorire l’evangelizzazione delle popolazioni e la
cancellazione degli antichi culti. Ma questa opera non ha avuto un successo completo. In molte
sagre rurali dell’Italia, soprattutto settentrionale, si possono ancora riscontrare particolarità di
antiche liturgie camuffate, sicuramente, sotto il maquillage del cattolicesimo. Il sabbath è
celebrazione, esistenza, felicità, oro solare e argento lunare. E’ la festa delle stagioni, della
campagna, della divinità, dei fiori, delle piante. Si mangia, si balla, si canta, si riflette, si prega.
-Samhain-Halloween 31 ottobre. Il primo sabbath in ordine cronologico. Cosa vuol dire
"halloween", questa parola astrusa che sembra rievocare il demonio? Vuol dire esattamente il
contrario! La parola è Inglese puro. Infatti "hallow", che vuol dire "santo", è la radice di ceppo
germanico corrispondente al sinonimo "saint", di ceppo latino. "een" è la contrazione della
parola inglese "even", sinonimo poetico di "evening", cioè "sera". Nell'Inglese popolare
colloquiale, spesso la "V" in mezzo a due "E" cade, vale a dire che "een", come in taluni casi, si
dovrebbe scrivere "e'en", laddove l'apostrofo sostituisce la "V". Ne risulta, dunque, che
"halloween" significa "sera santa, Vigilia". Halloween è il capodanno dei pagani. Per i Celti
l’estate è terminata e l’inverno comincia. Celebrazione dell’ultimo raccolto, ovvero il terzo. In
alcune tradizioni la Dea cade nel sonno ed il Dio assume il potere. Ma è inverno ed il Dio,
stanco, pare morire. Insieme a lui pure la natura pare morire, per ridestarsi a primavera insieme
alla Dea. In altre culture, la Dea non dorme, bensì cala nel cuore della terra, rifuggendo la luce
ed assumendo il volto tetro, peculiare della stagione fredda. Secondo altre culture, invece, in
questo periodo muore il Dio, che rifiorirà a Yule, 21 dicembre, partorito dalla Dea. Samhain è
una fase di meditazione, distacco da tutto ciò che è antico e proiezione verso il futuro. Si deve
fare una pausa, si deve meditare su ciò che è stato realizzato nel tempo appena passato e su
ciò che si vorrà fare. Similmente alla natura, pure noi cadremo nel sonno, per recuperare le
energie che ci serviranno per il nuovo ciclo. Nelle ore di transizione tra il 31 di ottobre ed il 1
novembre, le distanze tra le dimensioni “scompaiono” e l’incontro tra esse è possibile. Per
questo motivo, anticamente, si pensava che in queste ore le anime dei morti ricomparissero
sulla terra, per rivedere i vivi. Le luci e le lanterne che un tempo si mettevano fuori dell’uscio,
servivano ad illuminare la strada ai defunti.
-
-Yule-Saturnalia
21-24 dicembre. Uno dei 4 sabbath minori. Solstizio d’inverno. Coincide con il Natale dei
Cristiani, che fu istituito il 25 dicembre dell’anno 395. In questa data i Romani festeggiavano il
Sol Invictus (vedasi omologie e corrispondenze con il Mitraismo). Iniziò così un “sincretismo” di
cerimonie e simbologie catto-pagane. L’agrifoglio, le ghirlande, l’abete sono di origine celtico-
pagana. L’abete è il simbolo della Dea-Madre. La ghirlanda è il simbolo della Ruota dell’anno.
L’agrifoglio era una pianta sacra per i Celti e ben augurale per i Romani. Il Dio muore e rinasce
quasi contemporaneamente. Secondo alcune culture celtiche (ricordo che usanze e tradizioni
variavano molto, data la grandissima estensione dell’area di colonizzazione), in questo giorno il
Dio espletava una “catabasi”, ovvero calava agli inferi. Li incontrava la Dea-Madre che si
risvegliava e si consumava l’incesto che avrebbe prodotto il nuovo Dio. All’epoca era tradizione
accendere dei falò, al fine di esortare il sole ad irradiar nuova luce.
-
-Imbolc-Candelora
2 febbraio. Le parole simbolo di questa festività sono: rinnovamento e purificazione. Per i Celti
segnava la fine dell’inverno e l’inizio della primavera. I Celti ricominciavano a vivere all’aperto.
Finiva il letargo per alcune specie animali e alcune gemme iniziavano a spuntare dal suolo e
dagli alberi. E’ la festa del ritorno della luce. La natura, e quindi la Dea, si desta dal torpore
invernale. Molte sono le streghe wicca (la stregoneria wicca è una religione basata sulla natura
e sulla difesa della vita che nulla ha a che vedere con il demonio) che celebrano la Dea-Madre,
che assume più nomi come, ad esempio: Dea Brigid, la Santa Brigida dei Cattolici, da cui deriva
Brixia, Brescia (città di origine celtica, come molte dell’Italia Settentrionale). Nuove candele
vengono preparate e consacrate per la loro utilizzazione nell’anno a venire. Si pulisce a fondo la
casa (pulizie di primavera?), si tolgono polvere ed aria stantia. Ci si deve purificare per l’anno
che viene.
-
-Ostara-Primiera
21 marzo. Uno dei quattro sabbath minori. Equinozio di primavera. Si festeggia la rinascita della
fecondità della terra. Gli insetti, spargendo il polline, fecondano i fiori. Festa di fidanzamento tra
la Dea ancora illibata ed il Dio, preludio all’unione di Calendimaggio. Anticamente si coloravano
le uova e si donavano come simbolo di ricchezza e di abbondanza (di qui il cattolico uovo di
Pasqua). Dal nome celtico di Ostara, derivano la parola inglese Easter e quella tedesca Oster,
entrambe significanti Pasqua.
-
-Beltane-Calendimaggio
1 maggio. Come Samhain, a cui è in opposizione, è una festa importantissima. Celebrazione
dell’abbondanza. Il Dio e la Dea si uniscono, fecondando la natura di cui, in estate, si
raccoglieranno i frutti. Altro nome :Walpurgisnacht/Notte di Valpurga. I rami di abete, preservati
a Yule (21 dicembre) vengono bruciati. Nel Nord-Europa si eseguiva, il 1 maggio, il ballo del
palo. Nastri rosa e bianchi venivano legati intorno ad un palo, intorno al quale si danzava. Era
una danza di buon auspicio per la prosperità. La cristianità ha posteriormente censurato come
diabolica questa celebrazione di pregnanza, nozze, ubertosità, allegria. Diversamente da
Samhain, non si è riusciti a soffocarla con una festività cattolica, ma se ne è trovata, molto più
tardi, una civile: La Festa dei Lavoratori. Questa festa è stata trasformata in simbolo di
pervertimento, cattiveria, messe sataniche, ecc…Una vera campagna di detrazione. L’allegoria
di questa celebrazione era l’unione del maschio e della femmina, per il proseguire della vita,
ripetendo gli interminabili cicli.
-
-Litha-Midsummer
21 giugno. Uno dei quattro sabbath minori, in prossimità della cattolica S. Giovanni Battista (24
giugno). Solstizio d’estate. La luce dura più del buio. Il Dio è all’apogeo del suo fulgore e lo si
festeggia con dei falò. La Dea, dal canto suo, porta avanti la gestazione del frutto delle loro
nozze. La natura esplode rigogliosamente. Anticamente si appiccavano dei fuochi in ossequio
al sole e dal suo fumo veniva purificato il bestiame. Il fuoco era anche di buon auspicio per il
raccolto e l’abbondanza. Secondo la magia, invece, le prime ore del 24 giugno erano le più
indicate per selezionare le piante e le erbe da raccogliere nei campi. Si raccoglieva e
conservava anche la rugiada, elemento essenziale per successive liturgie magiche. Le erbe
caratteristiche della notte del nascente 24 giugno erano: artemisia, sambuco, verbena, iperico
(o erba di San Giovanni) e vischio. Le prime ore di questo giorno erano considerate, anche
secondo la tradizione italiana, particolarmente fauste per la predizione dei matrimoni. Una
tradizione narra che vicino Benevento, esattamente vicino al fiume Noce, vi fosse un
fiumiciattolo dove le ragazze sterili si immergevano per ottenere la fecondità. Nell’Europa
Settentrionale, invece, la tradizione voleva che le donne si sdraiassero nude sopra la rugiada, al
fine di ottenere buona salute, bei capelli e figli.
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-Lughnasad-Festa del raccolto

1 agosto. Celebrazione della prima messe dell’anno, particolarmente quella del grano. Era
infatti anche chiamata Festa del pane. Festa dei cereali e della vita bucolica. Celebrazioni in
ossequio del Dio Lugh (omologabile, per certi aspetti, al Dio Saturno dell'emblema di Sutri). Il
Dio man mano diventa tetro, si indebolisce e diventa tiepido. L’autunno è alle porte. La Dea
distribuisce i primi frutti, necessari per garantire la vita fino al nuovo giro di ruota. In tempi remoti
questa fase era accomunata all’olocausto dello spirito del grano, una allegoria del Dio. Nelle
celebrazione della messe si festeggiano, invero, la morte e la rinascita dello spirito del grano
che, reciso dalla falce, si trasforma in farina e, quindi, in pane e successivo seme per un altro
ciclo. Dopo la trasformazione della morte, una vita nuova. L’equilibrio di cui la Ruota ha bisogno
per proseguire il suo moto perpetuo. E’ una fase di festa e ringraziamento agli Dei, per tutte le
cose che ci hanno regalato. Tuttavia è anche una fase di meditazione, relativamente a tutto ciò
che, interiormente ed esteriormente, stiamo raccogliendo. E’la preparazione per la parte oscura
della ruota che sta per sopraggiungere.
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-Mabon-Secunda
21 settembre. Uno dei quattro sabbath minori. Seconda celebrazione della messe. Si fanno i
bilanci relativamente a ciò che si è seminato e a ciò che si sta raccogliendo.

P.S.
SAMANTAH, OVVERO: ‘ UNA STREGA WICCA PER AMICA ?!
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Santa Maria in Carbonara
"Casa Viterbese degli Scudieri del Papa "Etrusco" Alessandro III
Al Secolo Rolando Bandinelli
Siena-Inizio sec. XII * Civita Castellana-1181"
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Santa Maria in Carbonara

Semi-defilata tra le tegole ocra degli antichi edifici limitrofi, una semplice e tuttavia pittoresca,
suggestiva torre campanaria, può essere intravista sporgendosi un po' dalla balaustra sinistra
dell'imponente, romanico duomo viterbese di San Lorenzo, il cui colle è collegato al resto della
città da un ponte etrusco, costruito in grossi blocchi di peperino che si sostengono,
sovrapponendosi, senza cemento. Si tratta del campanile a vela della Chiesa di Santa Maria in
Carbonara, una delle più originali, struggenti e, storiograficamente parlando, rilevanti chiese di
Viterbo. Anticamente, in questa chiesa, si recavano a pregare ed a portar fiori le "zitelle", vale a
dire le donne in cerca di un marito. Questo tempio cristiano, che ha perso la maggior parte dei
fregi decorativi di un tempo, è situato nell'attuale Via S. Antonio, che transita proprio sotto il
ponte del Duomo. Quando fu edificata, Santa Maria in Carbonara si trovava ai bordi di uno
scosceso e dirupato pendio che fungeva da "crinale naturale" della medievale, verde contrada
"La Valle"! Tale singolare epiteto, "...in Carbonaia", germinò dall'esistenza, costì, di una
carbonaia, alias "carbonara". Le "carbonare" erano delle lunghe fosse che, in quel tempo,
venivano artificialmente create nei pressi dei bastioni, ovvero dei terrapieni perimetrali di difesa
urbana. Le "carbonare" venivano ricolmate di sostanze altamente infiammabili e solertemente
incendiate in occasione di assalti militari dall'esterno. E' pressoché utopistico identificare il
periodo di costruzione della chiesa. Le fonti più antiche datano all'aprile 1236. Santa Maria in
Carbonara risultò, in quel tempo, menzionata in un contratto preliminare di compra-vendita
fondiario-immobiliare, catalogata come "chiesa minore"! Fu soltanto sette anni dopo, nel 1243,
che il suo nome tornò alla ribalta, ovvero quale sito di formalizzazione di alcuni documenti
relativi all'edificazione di una reggia per Federico II di Svevia. Nondimeno, talune similitudini
formali con altre chiese di Viterbo, come ad esempio il presbiterio di S. Giovanni in Zoccoli e/o
l'abside di S. Maria Nuova, nonché le caratteristiche architettoniche della stessa S.Maria in
Carbonara, permettono di ipotizzare un'epoca di costruzione di gran lunga anteriore. La data di
costruzione della chiesa è più concretamente collocabile alle origini del secolo XII. Un'incisione
all'interno del luogo di culto, anticamente decifrabile, evidenziava un nome: "Petrus Filius
Bentivegna". Ed è tuttora il reliquato di quella incisione ad avvalorare l'ipotesi della datazione.
Non sono giunti documenti probatori circa la proprietà di S. Maria in Carbonara, vale a dire che
non è noto se fosse un bene patrimoniale del Clero di Viterbo. Un'ipotesi è che appartenesse
all'Abbazia di Farfa, influente ed autorevole centro benedettino del Reatino, proprietaria di
latifondi nel Viterbese e di immobili nella stessa città di Viterbo. Per contro, è storicamente
inconfutabile che appartenne ai Cavalieri dell'Ordine del Tempio, in quanto reiteratamente citata
nei documenti dello scellerato processo che questi dovettero subire. Ai Templari della
Commenda di Viterbo fu affidata la sorveglianza della Via Francigena e delle vie di accesso
all'Abbazia di San Martino al Cimino, appartenente ai Monaci Cistercensi. Il ruolo svolto dai
Templari si rivelò determinante sia nelle nomine dei Pontefici, sia nella pianificazione delle
Crociate,sia nelle relazioni diplomatiche con altri Stati Cistiani. Fu nella viterbese Vetralla,
infatti, che Papa Innocenzo II (sollecitato da Bernardo di Chiaravalle, poi S. Bernardo, fondatore
dell'Ordine Cistercense, a cui i Templari si ispirarono per il proprio ordinamento)bandì la
Seconda Crociata, quella, invero, che vide formarsi l'Ordine del Tempio. Della Via Francigena,
Viterbo costituì una posta importante per tutti i pellegrini diretti a Roma e/o in Puglia, per
l'imbarco verso la Terra Santa. I Templari, protettori dei pellegrini,
possedevano quindi un caposaldo nella zona. La prossimità di tale caposaldo alla cinta muraria
viterbese e, quindi, alla Porta di Valle, permetteva ai Cavalieri del Tempio di prestare soccorso
e sostegno ai pellegrini che entravano in città provenienti dalla Cassia. Oltre a ciò, il sito di S.
Maria in Carbonara era favorevole alle istanze dei rapporti diplomatici dei Templari, poiché
vicino ai due fulcri del potere dell'epoca, vale a dire il Palazzo dei Papi (Sede Pontificia nei
secoli XII e XIII e Sede dell'Episcopio) e Piazza S. Silvestro, sito delle assise dei magistrati
comunali. . I Cavalieri del Tempio edificarono costì, a precipizio sul fosso Caldano, un altro loro
caposaldo, inglobante un chiostro in miniatura e taluni vani di servizio. In questa epoca attuale
la struttura è stata trasformata ed adibita a folkloristico e pittoresco ristorante: "La Taverna dei
Templari"!
L'emblema della TAU Templare…

La croce taumata fu assunta emblematicamente dai Cavalieri del Tempio già nel loro primo
periodo storico. Una TAU rossa sul mantello rappresentava gli "Scudieri", per divenire poi
"Croce Patente Intera" nel rango superiore di "Cavaliere"! Nell'alfabeto ebraico il TAU è l'ultima
lettera e simboleggia l'atto finale della Creazione, il soggetto in cui principia la successiva parte
dell' "Opera"! Il Principio che conclude la Sintesi: Pane Quotidiano e Verbo Divino. Vale a dire
istanze fisiche ed anagogia, nel rispetto del messaggio evangelico: "Non in solo pane vivit
homo", ma anche di ogni verbo pronunciato da Dio! Alcune fonti associano il/la Tau ad un
tesoro, altre semplicemente al sito che lo cela! Tuttavia, è dato più banalmente ritenere che il
TAU sia stato assunto dai Templari come riferimento alla Croce o come iniziale di "Templum"!
In quanto emblema templare e facile trovarlo su stemmi collocati su mansioni o su chiese delle
loro storiche e gloriose Commanderie.

...che i Templari adottarono unitamente alla CROCE PATENTE, sta a significare l'appartenenza
di un tempo all'Ordine.

Santa Maria in Carbonara è costruita in pietra nuda, con tetto a capriate ed è mono-ambiente.
Guardando verso l'altare maggiore, sulla sua destra, si vede una porticciuola che mena dritto al
sacrario e, quindi, al verziere. L'accesso al convento (ex convento) si trova vicino alla porta
della chiesa, dove risulta ben evidente l'insegna del Commendatore Giovanitta Fra' Vincenzo
Ginori di Firenze, il quale gestì la Commenda al declinar del '500. Tanto è vero che, a posteriori
della soppressione dei Templari, la chiesa ed altre proprietà dell'Ordine furono trasferite ai
Giovannitti ed a loro rimasero fino a tempi recentissimi, allorché furono inglobate tra i cespiti
della Cattedrale di Viterbo. Per un periodo, a partire dal 16° secolo, la chiesa fu affidata ai
Cavalieri di Rodi (Oggi: Cavalieri di Malta)e fu proprio grazie al Sovrano Militare Ordine di Malta
se, nel 1964, venne restaurata. Nella chiesa, per molto tempo, fu conservato il dipinto bizantino
della "Madonna della Carbonara", attualmente collocata nel Museo del Colle del Duomo, mentre
nel Duomo stesso ne è esposta una copia. Dovevano passare circa ottocento anni perché i
Templari tornassero a Viterbo! Agli inizi del 2010, con un rito in espressione medievale dove
non potevano mancare spade e mantelli crociati, è stata fondata, alla presenza del Gran Priore
d'Italia, la nominata "Commenda" dell' "Ordo Supremus Militaris Templi Hierosolymitani"
(OSMTH) di Santa Maria in Carbonara. La "Taverna dei Templari" è diventata oggi la sede
ufficiale della Commenda, che comprende: un Commendatore, sei Cavalieri (Nobili), uno
Scudiero e, per il momento, nessun Sergente (Borghesi)! Donata al Culto della Comunità
Rumena, Santa Maria in Carbonara, attualmente,rientra negli auspici della Metropolia
Ortodossa Autonoma Occidentale, Arcidiocesi di Milano ed Aquileia.
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Omaggio a Jacques de Molay
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Nota introduttiva dell’autore

Il 27 gennaio di ogni anno si celebra il “Giorno della memoria” dell’Olocausto, mentre il 10


febbraio di ogni anno si celebra il “Giorno della memoria” delle Foibe, “per non dimenticare”! Ed
allora, perché non istituire un “Giorno della memoria” del Martirio dei Templari, “per non
dimenticare”??? E quale più consono giorno potrebbe essere se non il 18 marzo, ovvero il
giorno (1314) del martirio sul rogo del Martire Templare per antonomasia, ovvero del Gran
Maestro Jacques de Molay? Questo breve saggio storico tende proprio a questo, ovvero a
mantenere vivo il ricordo del Martirio Templare. Tuttavia il saggio non indugia sulla figura storica
dei Templari, bensì su quella di Ugo Capeto, capostipite della Dinastia Capetingia e su quella
del suo tardo successore, Filippo IV “Il Bello”, ovvero sul carnefice dei Templari. Ugo Capeto
viene coinvolto, scomodando Dante Alighieri, poiché fondò la Dinastia Capetingia sulla base
della violenza, dell’usurpazione del trono e della corruzione, che utilizzò per accattivarsi i favori
necessari all’ascesa. Tutto ciò vuole significare che l’ascesa al trono di Filippo IV era già
illegalmente e proditoriamente viziata a monte, ovvero alle origini dinastiche. Riferimenti
vengono fatti alla decadenza della società francese durante il Regno di Filippo IV. Viene altresì
riportata un’epigrafica monografia sull’Ordine Templare. Il saggio si conclude con una massima
di saggezza, vergente ad enfatizzare la nefandezza e l’orripilanza interiori del Bel Sovrano di
Francia.
*
Struttura del saggio:
I Capetingi
Ugo Capeto (987-996)
Ugo Capeto nel Purgatorio-Canto XX
Filippo IV di Francia
La Francia durante il Regno di Filippo IV Il Bello Templari “Omnia mea mecum porto”
*
I Capetingi

Genealogia reale francese che, fraudolentemente, succedette ai Carolingi, succeduti ai


Merovingi, sul trono di Francia. Mutuò l’appellativo da Ugo Capeto (così soprannominato a
causa del piccolo mantello con cappuccio, in francese “cape”, che era solito indossare),
Monarca di Francia nella fase conclusiva del secolo decimo, proclamato Re a Noyon, il 3 luglio
987. Dante lo citò nel “Purgatorio” con il nome di “Ugo Ciapetta”. Ad Ugo Capeto seguirono sul
trono, in linea retta, per finire con Carlo IV Il Bello, deceduto nel 1328, quattordici Monarchi.
Partendo dal fulcro primigenio della loro potenza, l’Ile-de-France, ebbero il nefando magistero,
progressivamente, usurpando e prevaricando su un cospicuo numero di nobili, principi e sovrani
dell’epoca, di allargare il loro influsso su porzioni sempre più vaste della regione francese
(precipuamente nel sud della Francia, a grave danno dei regni formatisi con lo sfaldamento
dell’Impero Carolingio) e di organizzare aggressioni esterne a quest’area. Nondimeno, al di là
della conquista di ulteriori territori, l’operato dei Capetingi si identificò nella strutturazione della
monarchia francese, che essi corroborarono e consolidarono, …

(in questa logica essi potenziarono cospicuamente l’autorità regia in Francia, dogmatizzando i
principi di ereditarietà maschile della successione al trono, di primogenitura e di indivisibilità dei
territori del regno)

…non soltanto militarmente e fiscalmente, ma pure e, soprattutto, nella direzione di un’ideologia


fortemente autocratica e cinicamente negligente dei diritti altrui. I Capetingi furono, invero, i più
tetragoni fautori del concetto di intangibilità del potere monarchico e dell’immedesimazione della
nazione con il suo stesso monarca. I Capetingi, pressoché arrogandosi diritti teocratici,
ascrissero al loro potere uno stigma ierocratico, compendiato nei motti : “Re Cristianissmo” o
“Per Grazia di Dio” (sec. XIV). A partire dal XII secolo, postularono l’assunto del “Re Imperatore
nel suo Regno”, assunto che rappresentò la “condicio sine qua non” ideologica per l’evoluzione
di una monolitica monarchia nazionale. Le numerose propaggini della famiglia ed il sistema
degli utilitaristici e subdoli “Matrimoni di Stato”, permise ai Capetingi di allogare, su vari troni
europei, epigoni…

(Angiò, Borgogna, Borbone, Condé, Longueville, Orléans, Valois)

…del proprio Casato, epigoni con i quali, tra l’altro, si trovarono sovente in forte attrito. I
Capetingi giunsero fino all’Impero di Costantinopoli. Ai Capetingi, per via indiretta, succedettero
prima i Valois e poi i Borbone.

Molte fonti e tradizioni storiografiche parlano di “cupidigia” della stirpe capetingia e, soprattutto,
degli ultimi rappresentanti. Una virulenta sferzata alla politica della Dinastia Capetingia fu data
da Luigi VI (1108-1137), il quale ricusò qualsiasi dialettica con il sistema feudale, anzi
soffocandone con la violenza qualsiasi opposizione, con selvaggio spirito e brutale astuzia. A
far seguito dall’assimilazione della Provenza, arrecata come dote nel 1245 da Beatrice a Carlo
D’Angiò, il quale la unì al Regno di Napoli, cominciarono una sequela di annessioni, ottenute
con le armi o con l’imbroglio, nella logica di una fausta, ma bièca strategia di unificazione
interna e di dilatazione esterna. Alle inique e fraudolente annessioni si addizionarono ulteriori
crimini tra cui, molto importanti: la condanna a morte di Corradino di Svevia, l’assassinio di San
Tommaso D’Aquino, lo “Schiaffo di Anagni”, lo scioglimento dell’Ordine dei Templari. Episodi,
questi, tutti ripetutamente rammentati e citati da Dante.
*
Ugo Capeto (987-996)

Deceduto Lodovico V, ultimo Re Carolingio (967-987), Ugo Capeto, con denaro e corruzione, si
procurò consenso dispensando terre ai suoi elettori. Sebbene la Nobiltà Francese non fosse, in
un primo momento, intenzionata a sostenere la creazione di una dinastia capetingia, Ugo si
valse ad imporre la sua autorità e a far incoronare co-reggente suo figlio, Roberto II. I Capetingi
si garantirono, in questo modo, la successione alla corona, per discendenza maschile, per più
di tre secoli (987-1328), ovvero per diritto ereditario e non per diritto di elezione. Iniziò così una
serie ininterrotta di Re appartenenti alla medesima genealogia. Quando Ugo Capeto fu eletto, a
Senlis, dall’Assemblea dei prezzolati Feudatari, l’Arcivescovo di Reims, Adalbertone, che
presenziò ed avallò, sanzionò palesemente che la Corona di Francia era elettiva, come in
Germania. Tuttavia, mentre in Germania rimase elettiva, in Francia i Capetingi procurarono ben
presto l’insorgere del principio che il Re “non muore” e che il suo potere passa “ipso iure” al
figlio. Dante Alighieri asserisce che Lodovico V fu “renduto in panni bigi” (Pg. XX, 54), ovvero
che l’ultimo dei “li regi antichi”,ovvero dei Carolingi, fu costretto coattivamente a ritirarsi nella
clausura di un chiostro. In altri termini “fu fatto prigioniero”. Altresì Dante fa risalire Ugo Capeto
ad un’umile origine ed asserisce che era figlio di un ricchissimo mercante di bestiame, i cui soldi
servirono a corrompere i feudatari ed a comprare il loro appoggio. De facto, Dante accusa Ugo
Capeto (che nella Divina Commedia colloca, disteso bocconi e legato, nel V Girone, ovvero tra i
prodighi e gli avari) di usurpare il trono: “Figliuol fu’ io d’un beccaio di Parigi” (Pg. XX, 52).
Tuttavia non lo condanna tanto per aver usurpato il trono, quanto per aver dato origine ad una
dinastia scellerata.
*
Ugo Capeto nel Purgatorio
Canto XX

Sollecitato da Papa Adriano V (dei Fieschi), molto cautamente, Dante, pressoché sulla punta
dei piedi, transita per il quinto terrazzamento della montagna, facendo attenzione a non pigiare
l’umano manto dei prodighi e degli avari (bocconi a terra e legati), allorché il grido di una larva,
mescolato tra i singulti, lo induce ad arrestare il suo incedere. Versa lacrime amare quella larva,
finora anonima, che adesso, ancor più singultando, proferisce due paradigmi della virtù
antitetica al suo vizio. Quel grido, quella voce, dopo aver verbalmente e severamente attaccato
il peccato capitale dell’avarizia, origine di tanta iniquità, rammenta, ancor piangendo, tre
esempi, due di povertà ed uno di generosità, ovvero: quello di Maria che diede alla luce Gesù,
quello del Console Romano Fabrizio che non si lasciò corrompere dalle ricchezze offerte dal
nemico e quello di San Nicola, Vescovo di Bari, che salvò tre fanciulle dal meretricio. Dante,
quindi, si rivolge alla sconosciuta anima, per conoscerla. Quel grido, quella implorazione altro
non sono che l’impetrazione patetica di Ugo Capeto, progenitore della genealogia dei Reali di
Francia, che costituisce l’incipit del canto XX del Purgatorio. Quindi il dolore si frammischia alla
collera, man mano che il “proto-capetingio” enuclea le fasi trucemente salienti della sua bièca
schiatta, che egli stesso, con una requisitoria, condanna per la brama di potere e di ricchezza,
per la frode e la violenza, per la prevaricazione poste in essere. Ugo Capeto cita quindi Carlo
D’Angiò (che provocò la morte di Corradino di Svevia e di San Tommaso D’Aquino), Carlo di
Valois (che ebbe un ruolo topico nel fomentare l’uso delle armi e l’anarchia in Firenze), Carlo II
D’Angiò (che mandò in moglie l’ancor giovanissima figlia Beatrice ad Azzo VIII D’Este, in
cambio di una somma di denaro), arrivando a Filippo Il Bello, mandante del delitto di “lesa
maestà” nei confronti di Papa Bonifacio VIII (fatto ascritto negli annali di Storia come “Lo
schiaffo di Anagni”), nonché mandante dell’efferato delitto di persecuzione e scioglimento
dell’Ordine dei Templari. Il biasimo per la violenza e l’avidità che Ugo Capeto indirizza al suo
postero e successore Filippo IV, è, ovviamente, musica per le orecchie del fiorentin, nel
Purgatorio, itineranteVate. Ugo Capeto si rivolge ancora a Dante, dicendogli che le anime dei
prodighi e degli avari recitano di giorno esempi di povertà e di generosità e di notte, invece,
ricordano personaggi che sono stati negativamente famosi a causa di prodigalità ed avarizia:
Crasso, Polimestere, Pigmalione, Mida, Acan, Anania, Satira, Eliodoro…
Dante e la sua guida, Virgilio, si son or ora allontanati da Ugo Capeto, allorché il primo ode:
“come cosa che cada/tremar lo monte; onde mi prese un gelo/qual prender suol colui ch’a
morte vada”
La montagna del Purgatorio è quindi violentemente scrollata da un sisma, intanto che le anime
di tutte le cornici intonano in coro “Gloria in excelsis Deo”. I due poeti si bloccano e restano
immobili e sospesi. Quindi riprendono la loro marcia. Dante vorrebbe sapere il perché di quel
terremoto, ma non ha l’ardire di domandarlo a Virgilio. Più tardi saprà che un’anima ha finito di
espiare in Purgatorio ed è ascesa al Paradiso. Vale a dire che il fenomeno si ripete ogni volta
che quest’ultimo evento si verifica.
*
Filippo IV di Francia

(Filippo Il Bello “Le Bel” “Capeto”)


(Fontainebleau, 1268-Fontainebleau, 29 novembre 1314)

Filippo salì al trono di Francia a 17 anni, alla morte del padre, nel 1285 e regnò fino alla sua
morte. Rampollo della genealogia dei Capetingi, Filippo vide i propri natali nel Palazzo di
Fontainebleau. Nipote di Luigi IX, figlio del Re Filippo III L’Ardito (o “L’Audace”) e di Isabella
D’Aragona. Fratello di Carlo di Valois. Filippo fu soprannominato “Il Bello” per il suo avvenente
aspetto. Regio enfant gaté, già nella sua adolescenza manifestò cospicui prodromi di crudeltà,
egoismo e cinismo. Come Re, Filippo, consacrò una larga porzione della sua esistenza ad
un’azione di assestamento e di potenziamento della monarchia, che lo portò ad avviare
un’opinabile e controversa struttura burocratica, che defilava, invero, una vigorosa, tetragona ed
adamantina autocrazia. Un anno prima di ascendere al trono, Filippo sposò Giovanna I, Regina
di Navarra. Era il 16 agosto 1284. Connubio, questo, estremamente topico in ambito territoriale,
considerando che Giovanna, tra l’altro, era pure Contessa di, ovvero regnava anche su
Champagne e Brie, regioni contigue all’Ile-de-France, che si fusero ai possedimenti del
Capetingio Monarca, con il risultato di un immenso regno. Filippo, con spregiudicato ed
individualistico utilitarsismo, dilatò in questo modo, rapidamente, a dismisura e gratuitamente, i
domini capetingi. Filippo assunse allora il titolo di Re di Francia e di Navarra, fino al 1304, anno
in cui Giovanna morì. Da Giovanna ebbe quattro figli: Isabella (la “Lupa di Francia”), Luigi X (Il
Litigioso), Filippo V (Il Lungo) e Carlo IV (Il Bello). Il Regno di Francia era, all’epoca dell’ascesa
al trono di Filippo IV, assai prospero e vi abitava un terzo della Cristianità Latina, ovvero dai 13
ai 15 milioni di persone. Il novello Re, coadiuvato da un entourage di mentori esperti di diritto (i
giuristi), fu il primo sovrano moderno di uno Stato forte e centralizzato. Nondimeno, diverse
riforme fallirono. Nell’utopia di controllare il proprio Regno nella sua vastità, il Re non fu capace
di gestire con equilibrio le imposte dirette e/o di riorganizzare un’amministrazione ben
funzionante. Già nel 1285, vale a dire non appena salì al trono, Filippo si prodigò nella lacerante
ed esosa guerra contro l’Aragona (conflitto che aveva prodotto la morte del padre, nel 1291), in
sostegno degli Angioini dell’Italia Meridionale, pesantemente e pericolosamente coinvolti nella
“Guerra del Vespro” (1282-1303). Il conflitto contro gli Aragonesi si protrasse per un decennio e
terminò con il Trattato di Anagni (1295), in virtù dell’imprescindibile e determinante azione
diplomatica di Papa Bonifacio VIII. Nel triennio 1294-1296, Filippo occupò con le armi, ovvero
violandone i diritti territoriali, la Guienna o “Guyenne” (una delle precipue ragioni di frizione con
Edoardo I d’Inghilterra), il Barrois, Lion Viviers. Nel 1296, avendo già inferto un duro colpo agli
Ebrei per far fibrillare e per tonificare la languente economia francese, in una congiuntura
negativa per il rinnovamento politico delle strutture del regno ed avendo istanza di capitali per la
guerra contro Edoardo I, Filippo deliberò, unilateralmente e monocraticamente, l’imposizione di
una tassa straordinaria, anche al Clero, ovvero ingiunse un contributo alla Chiesa francese,
provocando, così, una prima diatriba con Roma, esulceratasi nel 1301, per l’arrogazione del
diritto di giudicare un Vescovo. (*01) Il 25 febbraio 1296, Papa Bonifacio VIII replicò alla
decisione di Filippo con la bolla “ Clericis laicos”. Con questa bolla il Papa inibì al Clero
francese di erogare tasse al Sovrano, ovvero ad un’istituzione laica, senza il previo placet
pontificio. La bolla reiterava, vieppiù, l’egemonia del potere spirituale su quello temporale e
contemplava scomuniche per quei laici che, d’ufficio e coattivamente, avessero reclamato dal
Clero l’esazione di indebite imposte. Di fatto, la ricusazione del Clero di Aquitania a
qualsivoglia metodo di contribuzione a favore della guerra contro gli Inglesi, diede l’aire al
conflitto contro il Papato. Il 17 agosto 1296, Filippo precluse ogni invio di oro e di argento verso
Roma, ovvero verso lo Stato della Chiesa. In un primo momento Papa Bonifacio controbatté
con la bolla “Ineffabilis amoris”, quindi, paventando rappresaglie, nel 1297, la revocò. Non meno
critico, prostrante ed esoso della “Guerra Aragonese”, fu l’attrito con Edoardo I d’Inghilterra
(alleato dei Conti di Fiandra), che raggiunse il parossismo, ovvero divenne conflitto aperto nel
1294. Questo conflitto vide il proprio epilogo nel 1298, per virtù dell’intercessione spirituale di
Papa Bonifacio VIII (Trattato di Montreuil 1299, siglato da Filippo Il Bello e da Guy, Conte di
Fiandra). Nel corso di questa guerra, nel 1297, per castigare i Dampierre (*02), …

(*02)Famiglia francese che ebbe tra i suoi maggiori esponenti GUY(1225-1305), Conte di
Fiandra, che combatté contro Filippo Il Bello (da quest’ultimo proditoriamente ed abiettamente
attirato in trappola a Parigi nel 1300, dopo la firma del Trattato di Montreuil, imprigionato,
esautorato e sostituito da un governatore d nomina reale), sostenuto da Edoardo I d’Inghilterra.
Guy, con il bieco inganno, fu sopraffatto ed i suoi possedimenti furono coattamente ed
illegalmente fagocitati dall’avida Corona francese, sia pure per un esiguo lasso di tempo.

…alleati di Edoardo I, il Bel Capeto invase le Fiandre, occupandole ed usurpandole con


inquietanti prepotenze, nonché con asprissimi e vergognosissimi abusi di potere, il che egli
continuò a fare anche altrove, al fine di procacciarsi i capitali ed i mezzi inderogabili per
condurre le proprie imprese di violazione dei diritti dei popoli. Nondimeno, a posteriori del citato
Trattato di Montreuil, per quel che concerne l’Inghilterra, si trattò di una situazione di stand-by,
la quale approdò ad un’apprezzabile normalizzazione nel 1308, grazie al regal imenèo tra
Edoardo II d’Inghilterra e la figlia di Filippo IV, Isabella di Francia. Papa Bonifacio VIII aveva
auspicato questo matrimonio già nel 1298. Tuttavia, illo tempore, non se ne fece nulla a cagione
del veto di Edoardo I, il quale trapassò nel 1307 lasciando, di fatto, via libera alle nozze. Tra il
Trattato di Montreuil (1299) e le nozze tra Edoardo II ed Isabella di Francia (1308), contro la
Francia, a questo punto prostrata e lacerata dal conflitto, si sollevarono in armi le Fiandre, le cui
milizie urbane infersero a Filippo una storica e catastrofica débacle a Courtrai (Battaglia “Degli
Speroni d’oro” “Guldensporenslag”-Piana di Groninga-Kortriyk-Fiandra, 11 luglio 1302). Molto
presto, nell’umida bruma, nella fioca luce dell’alba incipiente, di quel 18 maggio 1302, i
Fiamminghi, a Bruges, massacrarono 3.000 soldati francesi, innocenti vittime della crudele
ambizione e della famelica cupidigia del loro stesso, scellerato Sovrano. Nondimeno, il Barbaro
Capetingio (perché questa è la sua schiatta) cinicamente gioì di una sua vanitosa, superba,
orgogliosa rivincita, guidando personalmente la cruentissima battaglia di Mons.en-
Pucelle/Pélève (1304), a cui seguì il Trattato di Athis-sur-Orge (1305), in virtù del quale il
Capetingio si annetté le città di Bèthune, Lilla e Douai. Furono barbaramente trucidati 80.000
Fiamminghi, che si immolarono stoicamente, sublimando il loro martirio per la libertà,
l’autonomia, i diritti e l’onore della propria gente.

(*01)Ottobre 1301.
Sotto il Nobile Pierre Flotte(^) (caduto combattendo contro i Fiamminghi), Giurisperito,
Guardasigilli e Gran Cancelliere di Filippo IV, …

(^) Pierre Flotte fece spesso riferimento al “legum doctor” Azzone da Bologna “1150-1225”, uno
dei più grandi giuristi-glossatori medioevali, ovvero fece spesso riferimento al suo principio “rex
in regno suo est imperator”, al fine di costituire il pilastro fondamentale per lo Stato moderno di
Francia. Parimenti e per lo stesso motivo, fece riferimento anche al Domenicano, giurista e
filosofo, Jean de Paris “Paris 1260-Bordeaux 1306”, il quale ricusava qualsiasi vassallaggio del
Sovrano al potere temporale del Papa e prefigurava il conferimento al Sovrano di poteri anche
in materia religiosa.

…lavorava un partito antiguelfo, con il quale collaborarono i fuoriusciti Colonna. Riesplosero i


dissidi sulle immunità ecclesiastiche. Le difficoltà economiche della Francia furono
l’incontrovertibile motivo della tenzone tra Filippo IV e Papa Bonifacio VIII (Bonifacio in questo
anno fondò l’Università di Avignone), tenzone che si esacerbò quando Filippo fece arrestare il
legato pontificio, il Vescovo di Senlis Pamiers, Bernard Saisset, tacciandolo di eresia e
tradimento. Bonifacio VIII intervenne nelle questioni interne francesi, richiamando a Roma i
vescovi gallicani, gli abati, i canonisti, i rappresentanti dei capitoli (ante promotionem nostram, 5
dicembre 1301). Nella bolla sincrona “Ausculta Fili…” stigmatizzò il rivale, avvertendolo:
“…extra ecclesiam, nemo salvatur. Constituit Nos Deus super reges et regna”! Nell’entourage di
Pierre Flotte esercitava Pierre Du Blois, Normanno, avvocato reale a Coutances, politologo,
protopubblicista, autore di una « Summaria brevis et compendiosa doctrina felicis expeditionis
guerrarum ac litium regni Francorum”, databile al 1300. Du Blois aveva in mente la “Monarchia
Universale Francese”. Primo passo: Sua Maestà rimuova il Pontefice dagli Stati Romani; rivolga
i suoi interessi alla pingue Lombardia; alloghi Suo fratello Carlo di Valois (*03)sul trono
costantinopolitano, facendogli impalmare l’ereditiera; …

(*03)Carlo di Valois, Conte di Valois dal 1286, Conte di Angiò e del Maine dal 1290, Conte di
Alençon dal 1291 e Conte di Chartres dal 1293 fino alla sua morte. Fu inoltre Imperatore
consorte titolare dell’Impero Romano d’Oriente dal 1301 al 1308 e Re titolare d’Aragona dal
1283 al 1295. Nel 1283 il tredicenne Carlo fu designato da Papa Martino IV a succedere sul
trono di Aragona, a Pietro III d’Aragona, esautorato e colpito da scomunica quello stesso anno.
Nel 1290 il matrimonio con Margherita d’Angiò gli permise di entrare in possesso delle Contee
d’Angiò e del Maine, costituenti le doti della moglie. Carlo, dopo poco tempo, prese in moglie
Caterina di Courtnay, figlia di Filippo I di Courtnay (a sua volta figlio dell’ultimo Imperatore
Latino di Costantinopoli, Baldovino II), cercando una rapida corsia preferenziale verso il trono
dell’Impero Romano d’Oriente, potendo Caterina rivendicarne i diritti. Durante la guerra che si
stava aspramente combattendo in Sicilia, tra Aragonesi ed Angioini, il Papa Bonifacio VIII si
valse a sensibilizzare il Re di Francia, Filippo Il Bello che, nel 1301, inviò un esercito al
comando del fratello Carlo di Valois. Carlo, giunto in Italia col suo esercito, intervenne a Firenze
nel tentativo, almeno ufficialmente, di riportare la pace tra i Guelfi Bianchi e Neri. Egli favorì i
Neri, mettendo al bando i Bianchi dalla città (tra questi Dante) nel 1301. Carlo, poi, novello,
truculento Attila, bruciando, depredando e saccheggiando, proseguì la marcia verso la Sicilia
con un palese piano di conquista, ma la malaria e la paura di un attacco da parte del Re
Aragonese di Sicilia, Federico, lo fecero abdicare al suo intento. Carlo di Valois intervenne
ancora in Italia, nel 1308, quando, alleato di Venezia, si trovò coinvolto nella lotta di
successione del Marchesato di Ferrara, dopo la morte del Marchese Azzo VIII d’Este.

…soccorra il cugino Alfonso de la Cerda, mirando agli insediamenti spagnoli; guardi


all’Ungheria ed alla Germania (*04); . …

(*04)Carlo di Valois, con il patrocinio del fratello Filippo Il Bello, nella loro nefanda e comune
logica di espansione territoriale, di usurpazione e di conquista, tentò di raggiungere il Soglio
Imperiale d’Asburgo, sia dopo l’assassinio di Alberto I (1308) sia dopo la morte di Arrigo VII
(1313), ma non vi riuscì.

…all’interno acquisisca il monopolio reale sulle giurisdizioni “usurpate” dalla Chiesa. Basta non
paventare anatemi. Si riporti la Casa di Lussemburgo sul trono imperiale (*05); …

(*05)Secondo questo piano il Regno di Arles doveva essere donato a Carlo di Valois, ma il Re
di Napoli e Conte di Provenza, Roberto Il Saggio, fece, per fortuna, abortire il piano.
…si mantenga l’ordine nella Fiandra (*06).

(*06)Carlo di Valois morì nel 1325, anno in cui aveva guidato l’esercito per reprimere
ferocemente nel sangue alcune sedizioni, proprio nell’irredentista Fiandra.

Alla bolla “Ausculta fili…” Filippo Il Bello replicò convocando (1302) gli Stati Generali (Clero,
Nobiltà e Borghesia) nella chiesa di Notre-Dame di Parigi, dove fu letta la dichiarazione di
indipendenza della Francia e dei suoi Re al cospetto del potere spirituale. Anche il Clero
francese votò a favore del Re. Per quel che concerne Bonifacio VIII, egli, con la notissima bolla
“Unam Sanctam” del 1302, riaffermò l’assunto dell’egemonia della Chiesa sul potere civile.
Filippo IV, scomunicato (1303), si oppose con efferata risolutezza e reagì postulando un
processo per eresia e per infirmare l’elezione di Bonifacio VIII, ovvero inviando il suo
machiavellico Longa Manus, il Cancelliere Guglielmo di Nogaret a Roma, a capo di alcuni
soldati, per intimare al Pontefice, con la complicità del sordido Sciarra Colonna, di revocare la
bolla pontificia “Super Petri Solio” che conteneva la scomunica. Il Papa fu sorpreso ad Anagni
e, catturato coattivamente (*07)“Schiaffo di Anagni”, fu recluso nel profanato Palazzo di Anagni.
I due sacrileghi aguzzini cercarono di costringerlo, oltre che ad abiurare la bolla, anche ad
abdicare. L’episodio fu risolto da una sedizione popolare degli indignati ed inferociti cittadini di
Anagni, che liberarono Bonifacio VIII. …

(*07)Lo “Schiaffo di Anagni”, talvolta citato anche come “Oltraggio di Anagni”, è un episodio
occorso nella cittadina laziale il 7 settembre 1303. Si tratta, invero, di uno schiaffo
materialmente dato dall’empio Sciarra Colonna all’anziano ed inerme Pontefice, Bonifacio VIII.
L’oltraggio riempì di sdegno anche molti avversari della politica di Papa Bonifacio VIII, come
Dante Alighieri, che considerò l’irriverenza come rivolta a Cristo stesso. L’episodio fu cantato da
Dante nella sua Divina Commedia: Purgatorio, XX, 85-90:

“ Perché men paia il mal futuro e ‘l fatto,


veggio in Alagna intrar lo fiordaliso,
e nel vicario suo Cristo esser catto.
Veggiolo un’altra volta esser deriso;
veggio rinovellar l’aceto e ‘l fele
e tra vivi ladroni esser inciso.”

Dante estrinsecò sempre una pesantissima valutazione sia sull’aspetto etico sia sul
comportamento politico di Filippo IV, che, per immane dispregio, non menzionò mai nella
Commedia con il suo nome, ma esclusivamente con l’interminabile teoria dei suoi “peccati”. Lo
descrisse come “novo Pilato” (Pg. Xx, 91), poiché, come Pilato si lavò le mani della condanna di
Cristo, nello stesso modo Filippo ebbe l’impertinenza di professarsi alieno dall’infamia di
Anagni.

…Nel 1303, morto Bonifacio VIII, Filippo IV impose il proprio controllo sul Papato e non trovò
resistenza nella persona del Papa successore, Benedetto XI, il quale cassò tutte le scomuniche
del suo predecessore. Il 2 aprile 1305, nel castello di Vincennes, morì la Regina Giovanna I di
Navarra, moglie di Filippo IV ed il Vescovo di Troyes, Guichard, venne ignobilmente tacciato di
aver fatto morire la Regina con la stregoneria ed il sortilegio. Morto anche Benedetto XI (viene
lecito chiedersi se Bonifacio e Benedetto non siano stati “aiutati” a morire), Filippo IV si adoperò
con gran magistero per far eleggere Papa un Francese, l’Arcivescovo di Bordeaux, Bertrand de
Got, Clemente V, che, nel 1309, assecondando l’istanza del Tiranno di Francia, trasferì la Santa
Sede, ovvero la Curia, ad Avignone. Iniziò così la “Cattività di Babilonia”. Il Pontefice perse gran
parte della sua autorità, divenendo uno strumento passivo della Francia, così da esser
tratteggiato come “Cappellano del Re di Francia”! Dante Alighieri, nella sua Divina Commedia,
in seno ad una celebrazione nel Paradiso Terrestre pregna di allegorie, velatamente descrisse
Filippo come “gigante” che “delinque” con la Curia, con patente antifona ai mutui privilegi, di
diversa natura, formalizzati tra la Curia del Francese Clemente V e la Monarchia di Francia (
Pg. XXXIII, 45). Filippo si valse ad ottenere la revoca parziale della Bolla “Unam Sanctam” e
l’istituzione di un processo post-mortem a Bonifacio VIII (mai portato a termine). Continuamente
costretto a far fronte ad ingenti spese, Filippo IV pensò di rifarsi alterando le monete (Maltote),
perseguitando (1306 e 1311) gli Ebrei ed i Lombardi (Mercanti Italiani) ed inglobando
illecitamente gran parte dei beni del ricchissimo Ordine dei Templari, di cui era fortemente
debitore. Il potentissimo Ordine dei Templari, che aveva precedentemente respinto una
domanda di ammissione all’Ordine presentata dal “postulante” Filippo IV Il Bello, fu oggetto di
detrazioni, di accuse false e travisate, ovvero di accuse di empietà. Contro questi ultimi,
particolarmente, Clemente V, “il Papa non Papa”, fu lo strumento di cui Filippo Il Bello si servì
per porli sotto accusa nel 1312 e per poi destituirli dei loro patrimoni nel 1314. Alcuni dei Capi
Templari, mendacemente tacciati di stregoneria e di idolatria, furono mandati al patibolo, con il
placet di Clemente V, in particolare il Gran Maestro Jacques de Molay, nel 1314. Nella Divina
Commedia, Dante Alighieri adombrò Filippo IV come colui il quale introdusse “senza
decreto,/…nel tempio le cupide vele” (Pg. XX, 91-93), il quale, vale a dire, anticipando,
dolosamente e motu proprio, il decreto apostolico del 1312, unico atto che potesse legalmente
sancire (ferma restando la strumentalizzazione di potere) lo scioglimento dell’Ordine dei
Templari, ordinò le sevizie ed il massacro di un vastissimo numero di Cavalieri, ovvero l’arresto
e la taccia di eresia financo del già citato Gran Maestro Jaques de Molay e la conseguente
confisca-depredazione dei beni templari. Lo scandalo che coinvolse le nuore di Filippo IV, detto
“ de la tour de Nesle”, tacciate di adulterio, deflagrò nello stesso anno ed incise segnatamente
l’epilogo del turpe regno dello stesso Filippo. Gli amanti furono giustiziati. Filippo morì il 29
novembre 1314, nel corso di una battuta di caccia (*08)(secondo alcuni Storici, invece, a causa
di una grave malattia sconosciuta) e fu seppellito nella Necropoli Reale della Basilica di Saint-
Denis, dov’è conservato tutt’oggi un suo sarcofago. Gli succedette il figlio Luigi X di Francia.

(*08)In alcuni versi del “Pd. XIX, 118-120”, Dante riportò l’accusa contro Filippo IV di coniare
falsa moneta, vale a dire di far coniare monete d’oro con un titolo più basso di quello dichiarato
(mistificatoria istanza derivante dalle cospicue spese sostenute nella guerra contro le Fiandre).
Nello stesso contesto Dante riportò la dinamica della morte di Filippo, caricato da “…colpo di
cotenna”.
La “cotenna” è la pelle del cinghiale e, per estensione semantica, il cinghiale stesso. Filippo,
tuttavia, non ebbe pace neanche da morto, poiché durante la Rivoluzione Francese, ad
evidenziare l’odio del suo stesso popolo, alcuni sconosciuti si introdussero in Saint Denis,
tempio parigino, i quali si recarono alla tomba che racchiudeva il sarcofago del Sovrano,
riesumarono i resti e li scaraventarono con disprezzo in una fossa, chiudendola poi con della
calce.

“Lì si vedrà il duol che sovra Senna


induce, falseggiando la moneta,
quel che morrà di colpo di cotenna.”
*
La Francia durante il Regno di Filippo IV Il Bello

« Qui ventum seminabunt et turbinem metent »

Proverbio relazionato ad Osea, Profeta Ebraico (Cap. VII v.7-Libro di Osea)


Osea intende rammentare a chi fa del male, che riceverà in cambio un male maggiore.

Filippo Il Bello regnò dal 1285 al 1314, ne consegue che l’anno centrale del suo regno fu il
1300. Come già enunciato, Filippo ereditò un Regno assai prospero, ma, appena salì al trono,
la situazione generale iniziò a degenerare. Tale degenerazione subì una catalizzazione proprio
a partire dal 1300. L’etica, durante questo periodo, fu caratterizzata da una degradazione
globale. Degenerazione dei costumi, adulterio, frode e cattiveria erano molto estesi tra i ceti più
elevati della società. Nei ceti meno abbienti, anzi popolari, era comunissimo trovare
contraffattori, lestofanti, profittatori, clochard, nomadi, che durante il giorno popolavano le vie
urbane, ma che, durante la notte, a Parigi, trovavano ostello nel nascente Astro della Corte dei
Miracoli. “La Cour des Miracles” era il vetusto quartiere circoscritto da « Rue du Caire » e da
« Rue Réaumur », oggi Secondo Arrondissement. I lestofanti ed i clochard si impadronirono di
questo quartiere ed assunsero il vezzo di nominarne un Monarca. “La Cour” fu definita “des
miracles”, poiché le fasulle invalidità e malattie dei clochard, qui, di notte, taumaturgicamente
guarivano. In questo luogo di menzogna, di abietti tradimenti, di assassinii e di spergiuri di ogni
sorta, ovvero in questo luogo dove l’uomo dimostrò di aver smarrito ogni sentimento morale, in
questo luogo i gitani ammaliavano gli “indigeni” con prestigi e sortilegi, tentando, in questo
modo, di procacciarsi qualcosa per campare e, sovente, depredando e turlupinando i
malcapitati. La Corte dei Miracoli, un posto torvamente arcano, dove si rifugiavano le peggiori
risme di manigoldi. La Corte dei Miracoli: un grande melodramma dove collidevano le forze del
bene e del male. La pedicazione era divenuta costume diffuso e consolidato, parimenti al
meretricio ed all’infedeltà coniugale. Era divenuta una prassi ormai conclamata, ovvero una
consuetudine, la realtà che Dignitari di Corte, uomini e/o donne, a qualsiasi livello, avessero
amanti. I legami matrimoniali rientravano nella logica delle questioni di Stato e, per quanto
riguarda l’amore ed il sesso, ci si poteva indirizzare altrove. Le Donne di Corte non erano
inferiori, in questo, ai loro consorti. Le Dame, invero, giungevano a farsi formalmente vanto
delle loro tresche erotiche. Anche il Clero, in compagnia della Classe dei Mercanti, svolgeva un
ruolo notevole in questo senso. Nel 1301 apparve una cometa, contemplata come foriera di
terribili sventure. Nel 1313 un’immane carestia flagellò la Francia. Nel 1314, anno della
soppressione dell’Ordine dei Templari e della morte sulla pira del loro Gran Maestro Jacques de
Molay, esplosero gravissime pandemie di dissenteria. Le campagne si svuotarono delle loro
popolazioni e si gremirono di arbusti, rovi, ovvero divennero selvaggiamente brulle ed incolte.
Altresì si disseminarono di carogne di animali morti. Le strade rurali, ancor più di quelle urbane,
erano divenute insicure e vi regnava la violenza, ovvero gli istinti selvaggi vi lasciavano adito a
rapina e sangue. Iniziò la peste, la quale raggiunse il parossismo nel 1320-1321. Di ciò vennero
accusati gli Ebrei ed i lebbrosi, molti dei quali arsi vivi. Il 1314 si concluse, 29 novembre, con la
morte dell’abietto tiranno: Filippo IV Il Bello, proprio poco dopo la morte di Nogaret e di
Clemente V. Il 1315 iniziò con piogge torrenziali e tempeste, talmente cospicue che i più
pensarono ad un imminente Diluvio Universale. La carestia si accentuò e si arrivò persino a
casi di antropofagia. Nel 1316 morì il primo dei figli di Filippo IV, Luigi X, dopo soli due anni di
regno. Il breve regno di Luigi X non fu particolarmente degno di nota. Questo esiguo periodo fu
contrassegnato dall’incessante agone tra le fazioni nobili. Tutto lasciò e lascia pensare al
verificarsi del vaticinio proferito sul rogo dal morente Gran Maestro Jacques de Molay, il quale
profetizzò che poco dopo la sua morte sia Filippo sia i suoi discendenti lo avrebbero seguito
nella tomba:
ET FACTUM EST!!!

Come già enunciato, la Francia, in questo periodo, si era trasformata in una « Sodoma e
Gomorra » ! Volendo assumere come incontrovertibile postulato il motto latino “Caput imperare,
non pedes!” (E’la testa a comandare, non i piedi), va ricercato in Filippo IV Il Bello il maggiore,
se non l’unico responsabile di questa dolorosa e travagliata fase storica, nonché delle sue
conseguenze. Secondo La Bibbia, Dio distrusse Sodoma e Gomorra a causa della corruzione
dei costumi delle loro popolazioni (Genesi-19). “Sodoma e Gomorra” è divenuta un’espressione
il cui significato allegorico è: “sodomia, omosessualità, corruzione, decadimento morale ed
umano.” Proprio ciò che occorse nella Francia “Filippina”. Fu proprio un Poeta Francese nel XIX
secolo, Alfred de Vigny, nella poesia “La colère de Samson”, a darne una parziale definizione: “
La Femme aura Gomorrhe/ et l’Homme aura Sodome” (La donna avrà Gomorra *lesbismo* e
l’uomo avrà Sodoma *pedicazione*). Filippo IV Il Bello, verosimilmente, aveva commesso un
grande errore: Si era rinchiuso nella sua “Turris Eburnea”, ovvero nel “Misoneismo”!
Misoneismo intriso di vanità, presunzione, orgoglio, egoismo, a tal punto da non comprendere
che stava sfidando e profanando “Il Sacro” e “L’Intangibile”, ovvero “Il Vicario di Cristo in Terra”
ed “I Drudi del Santo Sepolcro in Terra Santa”!
*
Templari

I Templari (alle origini vi fu un piccolo gruppo di Cavalieri in quel di Gerusalemme “1118”),


furono Cavalieri dell’Ordine Religioso-Militare del Tempio, ufficialmente istituito da Ugo Di
Payns nel 1119, a Gerusalemme, con l’obiettivo di presidiare i Luoghi Santi e di assicurare
l’incolumità dei Fedeli Cristiani che si recavano in pellegrinaggio al Santo Sepolcro, conquistato
dai Crociati. Come Ordine Religioso-Militare, i Templari fusero gli ideali di cavalleria e di
spiritualità monastica. Il nome origina da Christi Militia, trasformato in Militia Templi o Fratres
Militiate Templi, a posteriori del trasferimento nel Palazzo Reale di Gerusalemme, presso il
Tempio di Salomone. I Membri dell’Ordine accettavano i voti di obbedienza, di castità e di
povertà e venivano distinti in: Cavalieri, Sacerdoti-Cappellani, Scudieri-Inservienti. I Templari
rispettavano una condotta di vita giusta una regola propria, redatta nel 1128 (in questo stesso
anno l’Ordine fu riconosciuto da Onorio III) sul modello di quella dei Monaci Cistercensi, fatta
ratificare da S. Bernardo di Clairvaux al Concilio di Troyes. A capo dell’Ordine, che nel 1139 fu
sottoposto a diretto controllo papale, vi era un Gran Maestro, elettivo. L’insegna dei Templari
era una croce rossa su veste bianca per i Cavalieri, su veste nera per gli altri. L’Ordine era
organizzato in province (tre orientali e sette occidentali) e costituiva una sorta di Stato sovrano
senza territorio, ma ricco di beni sparsi, destinato istituzionalmente a raccogliere e a veicolare in
direzione della Terra Santa, uomini e denaro. I Templari, diretta espressione del movimento
crociato, assiduamente ed indefessamente impegnati nelle guerre contro i Musulmani, ebbero
particolare rilievo nelle battaglie di Acri (1189), Gaza (1244), Al-Mansura (1250). Propagatisi in
numero, molto rapidamente, sull’intero continente europeo, a motivo della loro potenza e della
loro ricchezza ed avendo un ruolo topico nelle transazioni commerciali con l’Oriente (si erano
stabiliti a Cipro dopo la caduta di S. Giovanni d’Acri, ultimo baluardo crociato in Terrasanta)
suscitarono ben presto l’invidia e la gelosia di molti nefandi ed inetti Sovrani. L’avido Re di
Francia, Filippo IV Il Bello, bramoso di depredare le ricchezze dei Templari, tacciandoli
falsamente di blasfemia ed altro, fece abolire l’Ordine dal suo abietto “Pupo”, il Papa Francese
Clemente V (Concilio di Viennes, 1312). Filippo IV avocò a sé (il processo si protrasse dal 1307
al 1314) tutti i patrimoni dei Templari e martirizzò gli appartenenti all’Ordine con atroci sevizie e
condanne alla pira. Tra questi ultimi il Gran Maestro, l’ultimo, Jacques de Molay (Molay 1243-
Parigi 1314). Quando de Molay fu eletto, sull’Ordine aleggiava già, nefastamente, lo spettro
della repressione e della soppressione. Filippo Il Bello, tramite Clemente V, lo chiamò a Parigi e
lo fece proditoriamente arrestare con l’accusa di idolatria. Con lo stratagemma di voler dibattere
l’unificazione dell’Ordine del Tempio con quello dei Cavalieri Ospitalieri, disegno ricusato da
ambo gli Ordini, Papa Clemente V invitò il Gran Maestro Templare, Jacques de Molay, dalla
protetta dimora di Cipro, a Parigi. Venerdi 13 ottobre 1307, Filippo di Francia fece arrestare
Jacques de Molay e tutto il suo entourage, che comprendeva il cerchio interno dell’Ordine
Templare. Contestualmente, con un’operazione a sorpresa, allestita minuziosamente, Filippo si
valse ad imprigionare la maggior parte dei Templari residenti sul suolo francese. L’addebito,
“…eccessivamente spaventoso da parafrasare. Delitti abominevoli, turpitudini aborrevoli,
efferatezze blasfeme, etc…”, è di “aver arrecato a Cristo vilipendi più turpi di quelli patiti sul
Calvario”. La dichiarazione di eresia fu pronunciata dal Responsabile dell’Inquisizione di
Francia, Guillaume de Paris, in ottemperanza all’ordine di Clemente V, il Papa eletto con il
subdolo patrocinio di Filippo IV Capeto. I giudici ottennero le confessioni mediante tortura,
confessioni che servirono Filippo IV per realizzare i propri progetti. Prima dell’esecuzione della
condanna a morte, de Molay riuscì a protestare la sua innocenza al cospetto di tre cardinali,
tuttavia Il Capeto fu irreversibile sulla sua decisione. Così l’ultimo Gran Maestro Templare morì
sul rogo: era il 18 marzo 1314.

*
“Omnia mea mecum porto”

Si tratta di un aforisma latino che Cicerone (Paradoxa 1,1,8) ascrive ad uno dei “Sette Savi”,
ovvero a Biante di Piene (VI Secolo A.C.). Letteralmente sta a significare: “Tutte le mie cose le
porto con me” o, per estensione: “Ogni cosa che in me c’è di buono, la porto con me!” o,
ancora: “La vera ricchezza è quella dello spirito”. L’aforisma è stato ascritto pure al dialettico
megarico Stilpone (Maestro di Zenone di Cizio, con cospicua incidenza sull’indirizzo stoico), il
quale, allorché Demetrio il Poliorcete, conquistando Megara, gli chiese se avesse dimenticato
qualcosa, replicò: “Niente! Tutte le mie cose le ho con me!” (Seneca: Epistulae Morales, 9 18-
19). Ed ancora, la paternità della frase viene attribuita anche a San Paolo il quale, ascrivendole
una semantica aulicamente etica, enuncia che la santità si edifica sulle esperienze mondane
che ciascuno reca seco. Allegoricamente, la semantica dell’aforisma può essere parafrasata in
questo modo: “Le sole cose che invero ci appartengono sono: la nostra dignità e la nostra
intelligenza.” Questi due valori sono verosimilmente tra i più topici di quelli che un essere
umano possiede. Sono i valori inconfutabilmente ed inderogabilmente necessari per condurre
un’esistenza all’insegna della giustizia e dell’onestà, sia nei confronti del prossimo sia nei
confronti di sé stessi. Perché parafrasare questo aforisma? Perché “Filippo IV Il Bello”, di “Bello”
verosimilmente aveva soltanto il sembiante esteriore, ma, anagogicamente, era l’ipostasi della
più esatta antitesi dell’inclito aforisma.

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