Alberto Berretti
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Numero pondere et mensura Deus omnia condidit - Isaac Newton, 1643 – 1727.
Ciò che può essere detto, può essere detto in modo semplice - Ludwig Wittgenstein, 1889 – 1951.
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Indice
1. Fondamenti 8
1.1. Richiami di Logica e di Teoria degli Insiemi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8
1.1.1. I simboli della logica formale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8
1.1.2. Insiemi ed operazioni sugli insiemi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 10
1.1.3. Insiemi complessi, relazioni, funzioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13
1.2. I numeri reali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 18
1.2.1. Numeri naturali, interi e razionali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 18
1.2.2. Numeri reali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 23
1.3. Funzioni reali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 32
1.3.1. Proprietà elementari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 33
1.3.2. Funzioni elementari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39
1.3.3. Le funzioni in geometria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 58
1.4. Successioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 66
1.4.1. Proprietà elementari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 66
1.4.2. Alcune successioni notevoli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 69
1.4.3. Il fattoriale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 74
2. I numeri complessi 78
2.1. Il piano complesso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 78
2.1.1. Definizione ed operazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 78
2.1.2. Il diagramma di Argand ed le formule di De Moivre . . . . . . . . . . 85
2.2. Numeri complessi ed equazioni algebriche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 87
2.2.1. Radici di numeri complessi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 88
2.2.2. Equazioni algebriche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 93
2.2.3. Esercizi di ricapitolazione sulle equazioni nel campo complesso . . . . 98
2.3. Trasformazioni del piano complesso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 100
2.3.1. Trasformazioni lineari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 100
2.3.2. Trasformazioni lineari-frazionarie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 101
2.3.3. Altre trasformazioni del piano complesso . . . . . . . . . . . . . . . . . 103
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Alberto Berretti Analisi Matematica I
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Alberto Berretti Analisi Matematica I
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Alberto Berretti Analisi Matematica I
6. Integrali 233
6.1. La definizione dell’integrale di Riemann . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 233
6.1.1. Somme superiori ed inferiori e loro proprietà . . . . . . . . . . . . . . . 234
6.1.2. Definizione dell’integrale di Riemann . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 237
6.2. Funzioni integrabili . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 238
6.2.1. Un criterio di integrabilità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 239
6.2.2. Integrabilità delle funzioni continue . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 239
6.2.3. Integrabilità delle funzioni monotone . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 240
6.3. Proprietà dell’integrale di Riemann . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 240
6.3.1. Linearità ed additività . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 241
6.3.2. Il teorema fondamentale del calcolo e le sue conseguenze . . . . . . . . 247
6.3.3. Integrazione per sostituzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 251
6.3.4. Integrazione per parti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 253
6.4. Metodi di integrazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 255
6.4.1. Integrazione di funzioni razionali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 255
6.4.2. Integrazione di funzioni connesse con le coniche . . . . . . . . . . . . . 264
Z r
n ax + b
6.4.3. Integrali del tipo dxR x,
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 267
cx + d
6.4.4. Integrazione di funzioni razionali di sin x e cos x . . . . . . . . . . . . . 268
6.4.5. Integrazione di funzioni razionali di ex . . . . . . . . . . . . . . . . . . 272
6.4.6. Altri esempi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 273
6.5. Integrali impropri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 274
6.5.1. Definizione di integrale improprio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 274
6.5.2. Criteri di convergenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 278
6.5.3. Convergenza assoluta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 283
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Alberto Berretti Analisi Matematica I
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1. Fondamenti
La logica formale è una parte estremamente profonda e difficile della matematica, e non vo-
gliamo minimamente entrare nelle complesse problematiche che devono essere affrontate per
studiarla. Ci accontentiamo di introdurre alcuni simboli ed alcuni concetti molto elementari,
che saranno frequentemente utilizzati nel seguito.
Una proposizione è una affermazione che può essere vera o falsa. A partire da proposizioni
date si possono costruire delle proposizioni piú complesse la cui verità o falsità dipende ad
quella delle proposizioni con le quali sono costruite: in altri termini, possiamo introdurre
delle vere e proprie “operazioni” sulle proposizioni, il che conduce ad un vero e proprio
“calcolo proposizionale”. Nella tabella seguente introduciamo i simboli per le principali
operazioni sulle proposizioni.
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Alberto Berretti Analisi Matematica I
¬(p ∧ q) equivale a ¬p ∨ ¬q
¬(p ∨ q) equivale a ¬p ∧ ¬q
p⇔q equivale a (p ⇒ q) ∧ (q ⇒ p)
p∨p=p∧p=p idempotenza
p∨q=q∨p commutatività di ∨
p∧q=q∧p commutatività di ∧
p ∨ (p ∨ r) = (p ∨ q) ∨ r associatività di ∨
p ∧ (q ∧ r) = (p ∧ q) ∧ r associatività di ∧
p ∨ (q ∧ r) = (p ∨ r) ∧ (p ∨ r) distributività di ∨ rispetto a ∧
p ∧ (q ∨ r) = (p ∧ r) ∨ (p ∧ r) distributività di ∧ rispetto a ∨
¬(¬p) = p; p ∨ ¬p è vero; p ∧ ¬p è falso
¬(p ∨ q) = ¬p ∧ ¬q prima legge di De Morgan
¬(p ∧ q) = ¬p ∨ ¬q seconda legge di De Morgan
Possiamo andare piú a fondo ed “entrare” nelle proposizioni: in genere, una proposizione
consisterà in una affermazione su qualcosa, e quindi potrà essere considerata come qualcosa
che dipende da alcune “variabili”, la cui verità dipende dal valore di tali variabili: in tal caso
si parla di predicati. Una proposizione che può essere vera o falsa a seconda del valore che
assumono le variabili che in essa appaiono può essere, ad es., sempre vera o sempre falsa, o
vera per almeno qualche valore delle variabili. Per indicare tali situazioni, si introducono i
quantificatori:
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Alberto Berretti Analisi Matematica I
Consideriamo ovvie le seguenti equivalenze tra quantificatori, a cui occorre prestare molta
attenzione in quanto verranno utilizzate spesso nel seguito.
Abbiamo dunque espresso formalmente il concetto, di per sé ovvio, che se non è vero che
per ogni x P(x) è vera, deve essere falsa per qualche x, e se non esiste un x per cui P(x) è vera,
deve essere falsa per ogni x.
A volte sono comode le seguenti notazioni:
Inoltre, nelle formule, la frase “tale che” viene scritta spesso con il simbolo “|” (barra
verticale).
Siamo fortemente tentati dal definire un insieme nel modo seguente: un insieme è un
aggregato qualsiasi di oggetti detti elementi.
In realtà, è quasi ovvio e ben noto sin dalla fine del XIX secolo che c’è qualcosa che non
va in tale (pseudo-)definizione (“pseudo”-definizione perché, dicendo che un insieme è un
aggregato, sta semplicemente sostituendo una parola con un’altra). Infatti, se ammettiamo
che un insieme possa essere una collezione arbitraria di oggetti, allora cadiamo in una serie
di paradossi logici di cui il seguente è il piú semplice: basta chiedersi se l’insieme di tutti gli
insiemi che non contengono se stessi contenga o no se stesso; se contiene se stesso, allora non
può contenere se stesso perché contiene se stesso, mentre se non contiene se stesso allora per
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Alberto Berretti Analisi Matematica I
definizione contiene se stesso (si tratta sostanzialmente di una variante dell’antico paradosso
di Epimenide il Cretese). La migliore via di uscita da tale pantano logico, via a cui si è giunti
dopo un travaglio concettuale durato decenni – sostanzialmente tutta la prima metà del XX
secolo – consiste nel non definire gli insiemi, bensí nell’enunciare degli assiomi che permettano
di parlarne in modo rigoroso, senza porsi il problema di cosa un insieme effettivamente sia.
Noi non seguiremo questa strada, perché perderemmo molto tempo a capire il significato
di tali assiomi e sostanzialmente ci aggireremmo nei bassifondi della matematica senza mai
ottenere, al nostro livello, risultati concreti. La moderna teoria assiomatica degli insiemi è
dovuta sostanzialmente a Ernst Zermelo (1871-1953) e Abraham Halevi Fraenkel (1891-1965).
Per indicare che l’oggetto x è un elemento dell’insieme S (ovvero che x “appartiene” ad S)
si scrive x ∈ S. La sua negazione (x non è elemento di S, ovvero x non appartiene ad S) si
scrive x < S.
Se due insiemi hanno gli stessi elementi, allora sono lo stesso insieme (questo in effetti
sarebbe il primo assioma nella teoria degli insiemi, l’assioma di estensionalità).
Un insieme privo di elementi (ed ovviamente esiste solo un insieme privo di elementi!) è
detto insieme vuoto ed è indicato con il simbolo ∅ (la sua esistenza è il secondo assioma nella
teoria degli insiemi).
Si noti la differenza fra un oggetto a e l’insieme {a}: il secondo non è a, ma l’insieme il cui
unico elemento è a; sono due cose diverse.
Se tutti gli elementi di A sono anche elementi di B (ma in B ci possono essere elementi che
non sono anche in A) allora si dice che A è un sottoinsieme di B e si scrive A ⊆ B oppure
B ⊇ A. Se ogni elemento di A è contenuto in B e ci sono elementi di B che non sono in A allora
si dice che A un sottoinsieme proprio di B e si scrive A B oppure B ! A. Le notazioni
suggerite non si prestano ad equivoci; è molto frequente, però, l’utilizzo dei simboli ⊂, ⊃;
in questo caso vi è un ambiguità: secondo alcuni autori, tali simboli sono sinonimi di ⊆, ⊇,
mentre altri autori considerano i simboli ⊆, ⊇, ⊂, ⊃ simili ai simboli ≤, ≥, <, > e pertanto ⊂, ⊃
sarebbero sinonimi di , !. Noi cercheremo sempre di essere chiari nell’utilizzo dei simboli
per i sottoinsiemi, ma tendiamo ad utilizzarli nella seconda interpretazione indicata.
Ovviamente l’insieme vuoto è un sottoinsieme di qualsiasi insieme.
L’insieme di tutti i sottoinsiemi di A viene detto insieme potenza o insieme delle parti di
A ed indicato con P(A) oppure con la notazione (apparentemente bizzarra) 2A . Ad es., se
A = {0, 1, 2}, allora abbiamo:
P(A) = {∅, {0}, {1}, {2}, {2, 3}, {1, 3}, {1, 2}, {1, 2, 3}}.
La ragione per cui l’insieme delle parti viene anche detto insieme potenza ed indicato come una potenza
di 2 è che l’insieme delle parti di un insieme di n elementi è formato da esattamente 2n elementi, come
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Alberto Berretti Analisi Matematica I
x ∈ A \ B ⇔ x ∈ A ∧ x < B. (1.1)
A △ B = (A \ B) ∪ (B \ A), (1.2)
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Alberto Berretti Analisi Matematica I
La cosa interessante è che con gli insiemi possiamo costruire altri insiemi.
Dati due insiemi A e B il prodotto cartesiano A × B è l’insieme delle coppie ordinate (a, b)
tali che a ∈ A e b ∈ B. È importante sottolineare che (a, b) è molto diverso dall’insieme {a, b}:
infatti, ad es. {a, b} = {b, a} mente invece (a, b) , (b, a).
Questa è una definizione informale. Una definizione formale di A × B è, ad es., la seguente:
cioè l’insieme formato da coppie di oggetti: il primo è a sua volta un insieme di due elementi formato
da un elemento del primo insieme ed uno del secondo, mentre il secondo è l’elemento che deve essere
considerato il primo nella coppia ordinata. Sottolineiamo che non vi è nulla di “magico” in questa
definizione, semplicemente occorre introdurre il concetto di “primo elemento di due” in qualche
modo e tale definizione lo fa in modo semplice.
Analogamente possiamo definire terne, quaterne, ed in generale n-uple ordinate di elementi
di tre, quattro ed in generale n insiemi Ai . Se A , B i due insiemi A×B e B×A sono ovviamente
diversi. Se A = B, si scrive A2 invece che A × A, e cosí via per terne, quaterne etc.
Una relazione tra due insiemi A e B è un predicato binario r(a, b) con a ∈ A e b ∈ B, cioè
una affermazione che può essere vera o falsa e che dipende da due oggetti a ∈ A e b ∈ B. Il
sottoinsieme di A × B per cui r(a, b) è vera viene detto grafico di r e si indica con Γr o graph(r).
Viceversa dato un sottoinsieme G ⊆ A × B è automaticamente definita la relazione:
Vero se (a, b) ∈ G,
rG (a, b) =
Falso se (a, b) < G,
di cui G è il grafico.
Definiamo ora tre tipi importanti di relazioni.
Relazioni d’ordine
Una relazione r(a, b), dove a, b ∈ A, è una relazione d’ordine (che indichiamo nel seguito
con la notazione a 4 b ovvero b < a, leggi a precede b ovvero b segue a) se:
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Alberto Berretti Analisi Matematica I
Esempio 1. L’insieme delle parti di un insieme dato è ordinato dalla relazione di inclusione
⊆. Ovviamente si tratta di una relazione d’ordine parziale (due sottoinsiemi possono essere
disgiunti e quindi non confrontabili).
Esempio 2. L’insieme dei punti che giacciono su una retta orientata è un insieme totalmente
ordinato dalla relazione “P1 giace a sinistra di P2 ”.
Ritorneremo piú avanti a riflettere sugli insiemi ordinati, nel contesto di insiemi numerici.
Funzioni
Cosa vuol dire questa definizione? (1.4a) vuol dire che ad ogni a ∈ A corrisponde un
elemento di B che è in relazione con a, e (1.4b) vuol dire che se b1 , b2 sono in relazione con
a allora b1 = b2 , cioè che l’elemento di B con cui a ∈ A è in relazione è unico. Visto che ciascun
elemento di A è in relazione con un unico elemento di B, possiamo pensare alla funzione
come ad una “regola” che, dato a ∈ A, genera un ben definito b ∈ B. Se indichiamo tale
“regola” con f , allora scriviamo la funzione come b = f (a) invece che r(a, b), dove f indica la
funzione, e l’unico elemento di B che è in relazione con a ∈ A viene quindi indicato con f (a). È
importante sottolineare che non dobbiamo pensare ad una funzione come ad una ricetta di calcolo
esplicitamente data tramite una formula: una qualunque relazione che soddisfa le condizioni
(1.4a) e (1.4b) è una funzione, anche se una formula nel senso tradizionale del termine non è
data. Definire una funzione è una cosa, sapere come calcolarla grazie ad una formula o altro è
completamente un altro problema.
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Alberto Berretti Analisi Matematica I
Per scrivere che f è una funzione dall’insieme A all’insieme B si può scrivere nel modo
seguente:
f
f : A 7→ B oppure A →
− B.
Esempio 3. La funzione che fa corrispondere ad ogni numero reale (da definire piú avanti!) il
suo quadrato è una funzione, perché possiamo calcolare il quadrato di ogni numero e perché
il quadrato di un numero è unico.
L’insieme A viene detto dominio della funzione, e si scrive A = dom( f ). Il dominio è parte
integrante della definizione di una funzione! Se abbiamo due funzioni f : A 7→ B, g : C 7→ B,
tali che A ⊂ C e che ∀x ∈ A f (x) = g(x), si dice che g estende f . Talora per abuso di linguaggio
si usa il medesimo simbolo per le due funzioni, anche se, visto che il dominio è parte integrante
della definizione di una funzione come abbiamo appena detto, trattasi a rigore di due funzioni
differenti. Viceversa sia f : A 7→ B, D ⊂ A. Allora possiamo considerare una nuova funzione
g : D 7→ B tale che ∀a ∈ D : g(a) = f (a) (cioè tale che f sia un’estensione di g). Allora g è detta
restrizione di f ad D e viene di solito indicata con il simbolo f |D .
Il codominio (“range” in inglese) è il sottoinsieme degli elementi di B che sono in relazione
funzionale con qualche elemento di A, ovvero è l’insieme di tutti gli elementi di B che possono
essere scritti come f (a) per qualche a ∈ A, ovvero è l’insieme dei valori che può assumere f .
Viene indicato con il simbolo ran( f ).
Se ran( f ) = B, cioè se il codominio di f consiste nell’intero B, si dice che f è suriettiva. Se
inoltre:
∀a1 , a2 ∈ A f (a1 ) = f (a2 ) ⇒ a1 = a2 , (1.5)
cioè se ogni valore di f (a) può essere ottenuto solo a partire da un unico elemento di A
(leggere la formula precedente: se a1 e a2 danno lo stesso valore di f , allora a1 e a2 sono
uguali) allora si dice che la f è iniettiva. Una funzione f iniettiva e suriettiva allo stesso
tempo viene detta biiettiva o corrispondenza biunivoca: fa infatti corrispondere ad ogni
elemento di A un unico elemento di B e viceversa. Se esiste una corrispondenza biunivoca fra
due insiemi allora si dice che i due insiemi sono equipotenti ovvero che hanno la medesima
cardinalità. È ovvio che due insiemi finiti equipotenti hanno lo stesso numero di elementi
(in realtà questa è – quasi! – la definizione di quelli che in teoria degli insiemi si chiamano numeri
cardinali; ma noi non ci vogliamo addentrare in simili problematiche).
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Alberto Berretti Analisi Matematica I
h
f g #
A /B /C (1.7)
oppure:
f
A❄ /B (1.8)
❄❄
❄ g
❄❄
h ❄❄
C
cioè tale che g ◦ f = IdA , f ◦ g = Idran( f ) . Infatti, essendo f iniettiva, b deriva dall’applicazione
della funzione f ad un unico elemento a di A, che viene preso come valore della g su b. g
viene detta funzione inversa della f e si indica con il simbolo f −1 . Se f è anche suriettiva,
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Alberto Berretti Analisi Matematica I
allora ancora meglio: f in tal caso è una corrispondenza biunivoca, che fa corrispondere ad
ogni elemento di A un unico elemento di B viceversa, per cui la funzione inversa è definita su
tutto B e non c’è bisogno di fare riferimento al codominio di f .
Relazioni di equivalenza
Sia A un insieme, e r(a, b) una relazione tra elementi di A. Si dice che r è una relazione di
equivalenza, che indichiamo con il simbolo a ≈ b, se soddisfa le seguenti proprietà:
ovvero g calcolata sulla classe di equivalenza di a è pari alla classe di equivalenza di f (a).
È un semplice esercizio che permette di verificare la comprensione di quanto finora letto
verificare che la definizione (1.12) è ben posta se f soddisfa (1.11). Infatti se rappresento la
classe [a] mediante un altro elemento a′ ∈ A tale che a′ ∼ a, f (a′ ) ≡ f (a) per cui [ f (a′ )] = [ f (a)] e la
proprietà (1.4b) della definizione di funzione è soddisfatta dalla g.
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Alberto Berretti Analisi Matematica I
Gli oggetti fondamentali dell’analisi matematica sono i numeri reali e le loro funzioni. Una
introduzione relativamente rigorosa alla costruzione dei numeri reali è essenziale per una
comprensione approfondita dell’analisi.
Numeri naturali
Gli oggetti fondamentali della matematica sono i numeri naturali, cioè, grossolanamente, i
numeri che “si contano con le dita” (ammettendo di avere dita a sufficienza), e che esprimono,
per dirla in modo molto approssimato, la molteplicità degli insiemi (“quest’insieme ha tot
elementi”) o la posizione all’interno di una relazione d’ordine totale (“il primo, secondo, etc.
di una fila”).
I numeri naturali possono essere “costruiti” a partire dagli assiomi della teoria degli
insiemi, oppure possono essere presi come oggetti primitivi, definiti da un loro sistema di
assiomi (sostanzialmente dovuto al matematico italiano Giuseppe Peano, 1858-1932). Di
nuovo, non ci addentriamo nei bassifondi della matematica e consideriamo il concetto di
numero naturale (0, 1, 2, . . . ) come elementare e ben noto.
L’insieme di tutti i numeri naturali viene indicato con il simbolo N. L’insieme dei numeri
naturali è totalmente ordinato dalla relazione d’ordine ≤. Le operazioni elementari (somma,
moltiplicazione e loro operazioni inverse – sottrazione e divisione –, cosí come le potenze di
esponente intero positivo) sono ben note.
Un insieme infinito che può essere messo in corrispondenza biunivoca con l’insieme dei
numeri interi viene detto numerabile. Lavorare con insiemi infiniti è sempre una cosa
delicata, e quindi l’idea intuitiva che due insiemi in corrispondenza biunivoca hanno lo stesso
numero di elementi viene messa in questione nel caso di insiemi infiniti. Ad es. l’insieme
dei numeri pari è un sottoinsieme proprio dei numeri naturali, per cui intuitivamente “piú
piccolo”, ma può cionondimeno essere messo in corrispondenza biunivoca con l’insieme dei
naturali in modo estremamente semplice: ad es. ad n pari facciamo corrispondere l’intero
n/2 (che esiste perché n è pari!), e all’intero m facciamo corrispondere il pari 2m; che si tratti di
una corrispondenza biunivoca è immediato. Esistono insiemi infiniti che non possono essere
messi in corrispondenza biunivoca con i naturali, e quindi che non sono numerabili? La
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Alberto Berretti Analisi Matematica I
risposta a questa domanda è affermativa: vedremo piú avanti che l’insieme dei numeri reali
non è infatti numerabile, ma ha una cardinalità maggiore (contiene cioè “molti piú elementi”
di N).
L’unico punto importante da sottolineare parlando dei numeri interi è il seguente prin-
cipio logico, in cui la successione degli interi ha un ruolo essenziale e che è molto usato in
matematica: il principio di induzione matematica.
0∈A (1.13a)
∀n ∈ N : n ∈ A ⇒ n + 1 ∈ A (1.13b)
allora A ⊇ N.
Dimostrazione. Supponiamo che m ∈ N, m < A. Allora deve essere anche m − 1 < A, e quindi
anche m − 2 < A, e cosí via; dopo m passi, arriviamo a 0 < A, contraddicendo (1.13a). Quindi
deve essere m ∈ A.
Numeri interi
Per “numeri interi” si intendono i numeri interi dotati di segno. Di nuovo, le loro proprietà
sono ben note fin dalle scuole inferiori. L’insieme dei numeri interi viene indicato con il
simbolo Z (dal tedesco Zahl, numero).
Ricordiamo la definizione di valore assoluto o modulo di n, indicato con il simbolo |n|,
come il piú grande fra n e −n:
|n| = max{n, −n}. (1.14)
|n| ≥ 0, (1.15a)
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Alberto Berretti Analisi Matematica I
|n| = 0 ⇒ n = 0, (1.15b)
|n + m| ≤ |n| + |m|. (1.15c)
Si osservi che se n ≥ 0 allora |n| = n, mentre se n < 0 allora |n| = −n. Le (1.15a), (1.15b), (1.15c)
ci dicono che il valore assoluto “è una norma”. La (1.15c) si chiama disuguaglianza triangolare
ed è molto importante.
La dimostrazione di queste tre proprietà è elementare. Per quanto riguarda la prima,
osserviamo che se n = 0 allora |n| = e quindi è soddisfatta; se n > 0 allora |n| = n > 0 e quindi
è soddisfatta; se n < 0 allora |n| = −n > 0 e quindi à ancora soddisfatta. La seconda è ovvia
(da quanto appena detto, se n , 0 allora |n| > 0).
La disuguaglianza triangolare può essere dimostrata considerando i varî casi. Se n, m > 0
allora n + m > 0 e pertanto |n + m| = n + m = |n| + |m|, e quindi è verificata. Se n, m < 0
allora |n + m| = −n − m = |n| + |m| e quindi è verificata. Se n > 0, m < 0 con n > −m, allora
|n + m| = n + m = n − (−m) < n + (−m) = |n| + |m| e quindi è verificata. Se n > 0, m < 0 con
n < −m, allora |n + m| = −(n + m) = −n − m < n − m = |n| + |m|, e quindi è verificata. Gli altri
due casi (n < 0, m > 0 con m > −n e n < 0, m > 0 con m < −n) sono identici ai due precedenti
(basta scambiare n con m). Se inoltre n o m sono 0 la disuguaglianza diventa ovvia.
Diamo per scontate le nozioni di divisore, di massimo comun divisore (indicato con gcd),
di minimo comune multiplo, di numero primo e di scomposizione di un intero in fattori
primi.
È abbastanza facile costruire i numeri interi a partire dai numeri naturali come classi di equivalenza
di coppie di numeri naturali.
Consideriamo l’insieme N2 delle coppie ordinate (n, m) di numeri naturali. In tale insieme
introduciamo una relazione di equivalenza ∼ nel modo seguente:
Tale relazione di equivalenza non è scelta a caso; infatti due coppie sono equivalenti se la differenza
tra n e m è uguale: il problema è che se n < m la differenza negli interi non ha senso. Quindi
sostanzialmente identifichiamo i numeri negativi con l’insieme di tutte le possibili sottrazioni che
generano il numero negativo considerato.
è un esercizio banale verificare che effettivamente le proprietà riflessiva, simmetrica e transitiva
sono soddisfatte. Quindi definiamo Z come l’insieme quoziente N/∼. Definiamo poi somma e
moltiplicazione come:
Definiamo inoltre l’operazione “cambio di segno” ponendo −(n, m) = (m, n). Tali operazioni sono
compatibili con la relazione di equivalenza ∼ e quindi definiscono operazioni sulle classi di equiva-
lenza (cioè su Z). A questo punto identifichiamo N con le classi della forma [(n, 0)] (interi positivi),
20
Alberto Berretti Analisi Matematica I
ed indichiamo le classi della forma [(0, n)] con −n (interi negativi). La relazione d’ordine totale ≤
viene definita in Z distinguendo i segni: se n,m sono positivi, li interpretiamo come numeri naturali e
definiamo la relazione d’ordine nel modo usuale; se uno è negativo e l’altro positivo, allora il positivo
è sempre maggiore del negativo, e se entrambe sono negativi, poniamo n ≤ m se −m ≤ −n (−m, −n
sono positivi!). Infine, definiamo |n| (modulo o valore assoluto di n) come il piú grande tra n e −n. È
elementare verificare che queste definizioni sono scelte esattamente in modo tale da generare le note
proprietà di quelli che sono noti alle scuole inferiori come numeri relativi.
L’insieme dei numeri interi è numerabile. Ecco una corrispondenza biunivoca fra interi e
naturali:
Z 0 1 −1 2 −2 3 −3 ...
N 0 1 2 3 4 5 6 ...
Anche se non abbiamo scritto esplicitamente la formula l’idea dovrebbe essere chiara.
Esempio 5. Esistono infiniti numeri primi. Infatti, ammettiamo che esistano un numero
finito di numeri primi (chiamiamoli p1 , p2 , . . . , pN ) e che quindi l’ultimo numero primo sia pN .
Poniamo allora:
M = p1 · p2 · . . . · pN + 1.
Chiaramente M − 1 è divisibile per ogni numero primo (minore o uguale ad pN , cioè per
ipotesi tutti), per cui M darebbe resto 1 alla divisione per qualsiasi numero primo, quindi
sarebbe primo, ed è palesemente maggiore di pN : abbiamo ottenuto una contraddizione, per
cui l’ipotesi di partenza (e cioè che i numeri primi siano finiti) deve essere falsa.
La dimostrazione, mutatis mutandis, è dovuta ad Euclide di Alessandria (325 a. C.-265 a. C.).
Da oltre duemila anni si cerca, invano, di scorgere delle regolarità nella successione dei numeri
primi, che, come dice il matematico D. Zagier, “crescono come gramigna nella successione dei numeri
interi”. Il piú grande numero primo noto ad oggi (maggio 2014) è 257885161 −1 ed ha 17425170 cifre deci-
mali, e mantiene tale record dal gennaio 2014. La pagina web http://primes.utm.edu/largest.html
contiene informazioni aggiornate sui piú grandi numeri primi noti.
Numeri razionali
21
Alberto Berretti Analisi Matematica I
che verranno utilizzate pesantemente in tutto il corso, continuano a valere per i numeri
razionali.
I numeri razionali possono essere costruiti molto facilmente a partire dagli interi usando il linguag-
gio delle classi di equivalenza, semplicemente formulando in tale linguaggio la teoria delle frazioni.
Anzi, il linguaggio delle classi di equivalenza costituisce una generalizzazione del linguaggio della
teoria delle frazioni a relazioni di equivalenza arbitrarie.
Infatti, è immediato verificare che l’insieme delle frazioni è l’insieme Z×Z∗, dove con Z∗ indichiamo
l’insieme degli interi diversi da 0 (il denominatore non può essere 0!), e che la relazione di similitudine
fra frazioni è una relazione di equivalenza.
L’insieme dei numeri razionali è totalmente ordinato. Infatti, siano x = p/q, y = r/s numeri
razionali, scritti come frazioni ridotte ai minimi termini con q, s ≥ 0. Allora diremo che x ≤ y
se ps ≤ rq. La verifica che si tratta davvero di una relazione d’ordine totale è elementare.
I numeri razionali godono di due importanti proprietà.
Proposizione 2 (Densità dei numeri razionali). Dati due razionali distinti esiste sempre un
razionale compreso fra i due:
Dimostrazione. Sia x = p/q, y = r/s, p, q, r, s > 0 interi. Allora basta prendere n > rq:
p r
nx > rq = rp > .
q s
22
Alberto Berretti Analisi Matematica I
frazione ridotta ai minimi termini con denominatore positivo nella forma p/q, chiamiamo
“altezza” di r l’intero |p| + q. Ad es. non esistono numeri di altezza 0, l’unico numero di
altezza 1 è 0 = 0/1, i numeri di altezza 2 sono −1 = −1/1 e 1 = 1/1, e cosí via; per ogni
valore dell’altezza cè un numero finito di razionali. Possiamo quindi numerare i razionali
disponendoli prima in ordine di altezza, e all’interno di quelli della medesima altezza li
ordiniamo in modo crescente. Ad es.:
|p| + q 1 2 3 4 ...
p/q ∈ Q 0/1 −1/1 1/1 −2/1 −1/2 1/2 2/1 −3/1 −1/3 1/3 3/1 ...
m∈N 0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 ...
p
Esercizio 1. Rappresentare le frazioni q geometricamente come punti di Z2 , utilizzando p e
q come coordinate (ovviamente rimuovendo il semipiano q ≤ 0!), ed evidenziare le frazioni
che hanno la medesima “altezza”.
è evidente che esistono molti altri modi, alcuni geometricamente intuitivi, per realizzare
la corrispondenza biunivoca fra naturali ed interi.
Si potrebbe pensare che i numeri razionali siano sufficienti per gli usi che se ne devono fare
in geometria ed in fisica. In realtà non è cosí, come è noto sostanzialmente da Pitagora (569
a. C.-475 a. C.). Infatti, consideriamo un quadrato di lato 1, e calcoliamone la diagonale.
Utilizzando, appunto, il teorema di Pitagora, otteniamo che la diagonale d del quadrato
soddisfa d2 = 12 + 12 = 2. Il problema è che non esiste alcun numero razionale il cui quadrato
è 2.
Infatti, sia p/q ∈ Q tale che p2 /q2 = 2. Allora deve essere p2 = 2q2 . In realtà ciò è impossibile;
se infatti scomponiamo sia p che q in fattori primi, ciascuno di essi avrà un certo numero di
fattori 2 nella scomposizione in fattori primi; pertanto p2 , essendo un quadrato, avrà un numero
pari di fattori 2, ed analogamente q2 . Ma allora 2q2 ha un numero dispari di fattori due (quelli
di q2 piú uno!) e quindi non può essere uguale a p2 .
Questo fatto si può generalizzare a intere classi di numeri al di là della radice quadrata di 2. Vale
infatti la seguente proposizione.
xn + a1 xn−1 + a2 xn−2 + · · · + an = 0,
in cui tutti i coefficienti ai siano interi, non può avere radici razionali che non siano anche intere.
23
Alberto Berretti Analisi Matematica I
In altri termini, tutte le sue radici o sono intere o non sono razionali. Tale proposizione, dunque, ci
permette di costruire un’ampia classe di numeri reali irrazionali come radici di equazioni algebriche.
pn
− = a1 pn−1 + a2 pn−2 q + · · · + an qn−1 ,
q
Questa dimostrazione, dovuta al matematico tedesco Carl Gauss (1777-1855), è presa da G. H. Har-
dy, A Course of Pure Mathematics, Cambridge 1955.
La costruzione dei numeri reali è piuttosto complessa, ed esistono diverse varianti. La
costruzione piú famosa, storicamente la prima e concettualmente la piú chiara, è quella
dovuta al matematico tedesco Richard Dedekind (1831-1916). Nel seguito introdurremo i
numeri reali nel modo in cui sono definiti alle scuole inferiori, e cioè come sviluppi decimali
non periodici, e descriveremo la costruzione di Dedekind in dettaglio come complemento:
tale costruzione ci permetterà di dimostrare che una proprietà dei numeri reali, essenziale per
l’analisi matematica, effettivamente vale.
Assumendo nota la notazione posizionale per i numeri razionali (nel seguito useremo
quasi esclusivamente quella in base 10, o notazione decimale) assumiamo come note ed
elementari le seguenti proprietà:
dove ai ,bi e ci sono cifre decimali (cioè interi compresi fra 0 e 9), e le parentesi intorno
agli ci indicano che la quella successione di cifre si ripete infinitamente. Se gli ai non
ci sono vuol dire che la parte intera del numero decimale è nulla; gli bi formano il
cosiddetto antiperiodo, che può non esserci (poniamo in tal caso k = 0), e la sequenza
periodica degli ci , che può anche lei non esserci (n = 0), è il periodo.
2. Viceversa, uno sviluppo decimale della forma (1.19) definisce un unico numero razio-
nale r (che piú avanti impareremo a calcolare).
È importante osservare che ogni numero decimale non periodico può essere sempre scritto
come periodico, con un periodo che consiste nella singola cifra 9: ad es. 1 = 0.(9), o
24
Alberto Berretti Analisi Matematica I
0.37 = 0.36(9). Per eliminare tale ambiguità, imporremo che i numeri con periodo costituito
dalla singola cifra 9 siano immediatamente riscritti come numeri decimali non periodici.
I numeri decimali che non rientrano nella categoria precedente, e cioè i numeri decimali
che non terminano e la cui infinita sequenza di cifre non è periodica vengono detti numeri
irrazionali. I numeri reali, il cui insieme viene denotato con il simbolo R, sono i numeri
razionali e i numeri irrazionali. Le operazioni sono definite su di essi nel modo noto fin dalle
scuole inferiori, cosí come la relazione d’ordine totale ≤. Definiamo quindi il modulo di un
numero reale nel modo solito:
|x| = max{x, −x};
Definiamo ora alcuni concetti molto importanti relativi all’ordinamento di insiemi numerici.
Consideriamo nel seguito insiemi di numeri, che potranno essere naturali, interi, razionali
o reali: la cosa importante è che sia definita la relazione d’ordine ≤ (e quindi i simboli associati
≥, <, >).
Sia S un insieme numerico (e cioè uno degli insiemi fino ad ora introdotti: l’insieme dei
numeri naturali, dei numeri interi, dei numeri razionali o dei numeri reali), e sia A ⊆ S. x ∈ S
è un maggiorante di A se ∀y ∈ A x ≥ x; è un minorante di A se ∀y ∈ A x ≤ x. A è limitato
superiormente se possiede almeno un maggiorante, ed è limitato inferiormente se possiede
almeno un minorante. È limitato se è limitato sia superiormente che inferiormente.
Un maggiorante di A che fa anche parte di A è un massimo di A; un minorante di A che fa
anche parte di A è un minimo di A.
Il lettore dovrebbe fermarsi a riflettere un attimo su queste definizioni formali, e comprendere che
effettivamente sono la versione rigorosa dell’idea intuitiva di massimo, minimo, e di limitatezza di
un insieme.
25
Alberto Berretti Analisi Matematica I
max A massimo di A
min A minimo di A
sup A estremo superiore di A
inf A estremo inferiore di A
26
Alberto Berretti Analisi Matematica I
e quindi il rigore vuole che tutte le proprietà del massimo e del minimo vengano dedotte
formalmente da tali definizioni, e non appellandosi al significato che tali parole hanno nel
linguaggio comune (che non è formalmente rigoroso come il linguaggio matematico). A
volte diremo che un certo teorema o una certa proposizione è ovvia: ciò non significa che una
dimostrazione non è necessaria perché al senso comune il fatto appare scontato, ma vuole dire che
il lettore giunto al livello di sofisticazione matematica necessario è in grado di fornire una
dimostrazione formalmente rigorosa dopo qualche attimo di riflessione. A volte gli enunciati
che al senso comune appaiono piú ovvî in matematica sono di dimostrazione molto ardua,
o comunque non banale.
L’esistenza o meno degli estremi superiore o inferiore di un insieme limitato superiormente
o inferiormente è la proprietà fondamentale che distingue i numeri reali dai numeri razionali.
Infatti, i numeri reali godono della importante proprietà di completezza o proprietà di
Dedekind, che i numeri razionali non possiedono:
A = {x ∈ Q : x2 ≤ 2}
La costruzione di Dedekind
L ∪ R = Q, (1.20a)
∀x ∈ L, y ∈ R : x < y. (1.20b)
La coppia (L, R) viene detta coppia di classi contigue di numeri razionali o taglio di Q.
Per chiarire il concetto di taglio, facciamo qualche esempio notevole.
27
Alberto Berretti Analisi Matematica I
L viene detta classe sinistra e R viene detta classe destra (infatti, se rappresentiamo i razionali
come punti su una retta orientata verso destra come d’abitudine, i numeri in L stanno a sinistra di
quelli in R). La coppia o taglio (L, R) viene detta coppia di classi contigue per la seguente ragione.
∃ε > 0 ∀x ∈ L, y ∈ R : y − x ≥ ε. (1.21)
Siano allora x̄ ∈ L, ȳ ∈ R qualsiasi. Per la proprietà di densità dei razionali ∃N ∈ N tale che:
ȳ − x̄
δ= < ε.
N
Consideriamo gli N + 1 razionali:
Per definizione di classi contigue, essi devono tutti appartenere a L o a R, anzi, per l’esattezza, i primi
– diciamo fino a che l’indice è minore o uguale a k – devono appartenere a L, e gli altri – quindi
quelli con indice che è maggiore di k – devono appartenere ad R. Ora, xk ∈ L, e xk+1 ∈ R, ma la loro
differenza è δ < ε, che contraddice la (1.21). La (1.21) non può quindi essere vera (perché implica una
contraddizione!) per cui deve essere vera la tesi.
Si osservi che L è limitato superiormente (da qualsiasi numero in R) e che R è limitato inferiormente
(da qualsiasi numero in L). Potrebbero avere massimo o minimo. Sono infatti possibili tre tipi di
tagli: (1) L ha massimo e R non ha minimo (ad es. l’esempio 10), (2) L non ha massimo e R ha
minimo (ad es. l’esempio 9), (3) L non ha massimo e R non ha minimo (ad es. l’esempio 11). Il
quarto caso che potrebbe teoricamente essere dato (L ha massimo e R ha minimo) non è in realtà
possibile. Sia infatti l = max L e r = min R; l e r sono razionali (essendo massimi e minimi fanno parte
dei rispettivi insiemi: ed in ogni caso null’altro che i razionali v’è al momento!). Ma allora (l + r)/2
sarebbe razionale, maggiore di l e minore di r (essendone la media!), quindi non sarebbe contenuto
né in L né in R, contraddicendo la definizione di taglio.
Ovviamente, tutte le classi del tipo (1) sono della forma:
28
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Quindi se consideriamo equivalenti le coppie (L′ , R′ ), (L′′ , R′′ ) definite come sopra, l’insieme dei tagli di tipo
(1), (2) è in corrispondenza biunivoca con Q, perché ad ogni razionale r corrispondono esattamente
due tagli, uno di tipo (1) ed uno di tipo (2). Noi pertanto identifichiamo con Q l’insieme dei tagli di tipo
(1), (2), avendo avuto cura di identificare le coppie equivalenti. A questo punto estendiamo Q aggiungendo
le coppie di classi del tipo (3), che palesemente non corrispondono a nessun numero razionale. Una
classe di tipo (3) definirà un numero irrazionale α.
L’insieme di tutti i numeri razionali ed irrazionali (cioè di tutti i tagli, avendo avuto cura di
identificare i tagli corrispondenti di tipo (1) e (2)) è l’insieme dei numeri reali, denotato con il
simbolo R.
Nonostante le apparenze, si tratta di una definizione intuitiva: infatti un numero irrazionale non può
mai essere enunciato nella sua interezza, con precisione assoluta, perché occorrerebbe dare un numero
infinito di cifre (mentre un numero razionale ha uno sviluppo decimale periodico o addirittura finito).
Quindi dobbiamo immaginare che, “in pratica”, una quantità reale (continua) sia determinata da
un susseguirsi di approssimazioni per difetto e per eccesso, vieppiú precise, che la determinano
approssimandola dall’alto e dal basso.
è facile mostrare come R sia un insieme totalmente ordinato. Infatti, diremo che due numeri reali
α, β diversi tra loro sono in relazione α < β se le classi corrispondenti (Lα , Rα ), (Lβ , Rβ ) soddisfano:
Lα ⊂ Lβ , Rα ⊃ Rβ .
è necessario escludere α = β perché allora, nel caso in cui entrambe siano razionali, sorgerebbe qualche
problema se rappresentiamo α con una classe del tipo (2) e β con una classe di tipo (1). Ovviamente
α ≤ β se α < β o α = β.
Definiamo ora le operazioni elementari sui numeri reali. Abbiamo innanzitutto:
α + β = γ = (Lγ , Rγ ),
dove:
Lγ = {x + y, x ∈ Lα , y ∈ Lβ }, Rγ = {x + y, x ∈ Rα , y ∈ Rβ }.
è banale verificare che (Lγ , Rγ ) è un taglio, e che nel caso in cui α e β siano razionali il risultato
corrisponde al razionale somma di α e β, e cioè che tale definizione estende senza contraddire la
definizione di somma tra razionali ai reali. L’opposto −α è definito dalle classi:
29
Alberto Berretti Analisi Matematica I
È opportuno fermarsi un attimo a riflettere per convincersi che le due classi formano effettivamente
un taglio, e che tale definizione estende senza contraddire la nozione di prodotto fra razionali ai reali;
è necessario costruire la classe sinistra in quel modo apparentemente macchinoso perché, se fosse
definita semplicemente in analogia con la definizione della classe destra, non otterremo un taglio:
infatti il prodotto di due grandi numeri negativi nelle classi sinistre di α e β darebbe un grande numero
positivo e quindi “fuori posto” nella classe sinistra del prodotto.
Se α, β sono positivi definiamo poi:
1
Se α > 0, definiamo α tramite le classi:
1 1
R1/α = x ∈ Q, ∈ Lα , e x > 0 , L1/α = x ∈ Q, ∈ Rα ∪ {x ∈ Q, x ≤ 0},
x α
e poniamo 1/(−α) = −(1/α). Definiamo quindi α/β, con β , 0, come α · (1/β).
è facile, anche se piuttosto laborioso, dimostrare che le operazioni cosí definite sui reali estendano
senza contraddire le nozioni delle analoghe operazioni sui razionali, e che le note proprietà delle
operazioni elementari effettivamente valgono sui reali.
Accingiamoci ora a dimostrare il teorema di completezza 1. Per farlo, cosideriamo coppie di classi
contigue di numeri reali o tagli dell’insieme R dei numeri reali, invece che razionali. La definizione è
identica al caso dei razionali, e cioè diremo che (L, R) è un taglio dei reali se L ∪ R = R e se ∀x ∈ L,
∀y ∈ R vale y > x. In modo del tutto analogo al caso razionale, si dimostra che ∀ε > 0 ∃x ∈ L, ∃y ∈ R
tali che y − x < ε. Vale allora il seguente teorema.
Teorema 2 (Dedekind). Se (L, R) è un taglio dei reali, allora ∃α ∈ R tale che L contiene tutti i reali minori di
α, R contiene tutti i reali maggiori di α e α appartiene o a L o a R.
Dimostrazione. Come nel caso dei numeri razionali, sono possibili in linea di principio 4 casi: (1) L
ha massimo l e R ha minimo r, (2) L ha massimo l e R non ha minimo, (3) L non ha massimo e R ha
minimo r, (4) L non ha massimo e R non ha minimo. Ora, il caso (1) non è possibile: se fosse vero
allora l < (l + r)/2 < r ed (l + r)/2 non apparterrebbe allora né a L né a R, come nel caso dei tagli dei
razionali. Ma, a differenza del caso dei tagli dei razionali, ora nemmeno il caso (4) è possibile!. Infatti,
se tale caso è possibile, poiniamo L′ = L ∩ Q, R′ = R ∩ Q. Ovviamente (L′ , R′ ) è taglio dei razionali e
quindi definisce un numero reale β. β deve appartenere a L o a R; se appartiene a L, allora deve essere
il massimo di L (altrimenti detto β′ un elemento di L maggiore di β, fra β e β′ c’è almeno un razionale
β′′ ∈ L′ maggiore di β e quindi in R ed essendo razionale anche in R′ , il che contraddice il fatto che
(L′ .R′ ) è un taglio dei razionali); se appartiene a R allora deve necessariamente esserne il minimo (per
un ragionamento analogo al precedente). Quindi il caso (4) non può essere dato.
A questo punto il teorema di Dedekind è dimostrato perché nel caso (2) α = l mentre nel caso (3)
α = r, e non sono possibili altri casi.
30
Alberto Berretti Analisi Matematica I
è evidente che (L, R) è un taglio dei reali. Essa definisce pertanto un numero reale α per il teorema di
Dedekind. Dimostriamo ora che α = sup A.
Se α > sup A, esisterebbe un maggiorante di A in L il che è assurdo. Se α < sup A, esisterebbe in
R un reale che non è maggiorante di A, il che contraddice la definizione di R. Quindi non può che
essere α = sup A.
Osserviamo a questo punto che le operazioni sui numeri reali possono essere interpretate come
operazioni sui tagli dei reali allo stesso modo in cui sono state definite sui tagli dei razionali.
L’insieme dei reali viene anche detto continuo. Il concetto di numero reale è centrale nell’analisi,
e con esso quello di continuità.
(i)
dove le a j è la j-esima cifra decimale del i-esimo numero reale nella lista. Un numero reale
non compreso nella lista è allora quello il cui sviluppo decimale è:
β = 0.b1 b2 b3 b4 . . . ,
(i)
dove le cifre decimali bi soddisfano bi , ai (scelta che è sempre possibile fare, avendo cura
di scegliere bi , 9 e i numeri nella lista scritti in modo “normale”, senza cifre 9 periodiche).
Ci si soffermi un attimo a riflettere che effettivamente β non appare nella lista; se apparisse,
sarebbe il primo, o il secondo, o il terzo, etc.: ma le cifre di β sono scelte appunto in modo da
evitare che possa essere il primo (perché la prima cifra differisce), il secondo (perché la seconda
cifra differisce), il terzo (perché la terza cifra differisce), e cosí via. L’idea della dimostrazione,
dovuta al matematico tedesco Georg Cantor (1845-1918), è detta metodo diagonale.
31
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Un numero reale che è radice di una equazione algebrica a coefficienti razionali viene
√ √
detto algebrico: ad es. tutti i razionali sono algebrici, 2 è algebrico, ( 5 − 1)/2 è algebrico
cosí come qualsiasi espressione costruita mediante operazioni elementari a partire da radici
quadrate o in generale n-esime, e la radice di x5 + x − 1 = 0 è un numero algebrico anche se
non è possibile scriverla in termini di radici ed operazioni elementari.
Un numero reale che non è algebrico viene detto trascendente. Ad es. è noto che il
numero π, pari al rapporto tra l’area del cerchio ed il quadrato del suo raggio, è trascendente.
In generale, le dimostrazioni della trascendenza di un numero irrazionale sono difficili.
Si osservi che +∞ e −∞ non sono numeri ma sono solo dei simboli che caratterizzano l’il-
limitatezza dell’intervallo in questione. In pratica, la parentesi quadra indica l’inclusione
dell’estremo nell’intervallo e la parentesi tonda la sua esclusione; non essendo numeri, ±∞
sono sempre esclusi.
Introduciamo ora i concetti piú elementari relativi alle funzioni di una variabile reale, e poi
introduciamo le piú note funzioni elementari: potenze, esponenziali, logaritmi, polinomi,
funzioni razionali, funzioni trigonometriche e poche altre. Studieremo quindi come ricavare
le proprietà elementari di funzioni composte a partire da queste, e introdurremo in modo
assolutamente introduttivo ed elementare alcune applicazioni geometriche interessanti (i
32
Alberto Berretti Analisi Matematica I
sistemi di coordinate curvilinee nel piano e nello spazio, le equazioni di alcune curve e
superfici elementari).
Studiamo ora le proprietà elementari delle funzioni reali di una variabile reale:
f : A ⊂ R 7→ R,
Crescenza e decrescenza
Sia I ⊂ R un intervallo in cui la funzione f è definita ( f potrebbe essere definita anche fuori da
I!). Valgono le seguenti definizioni.
Nei primi due casi si dice anche che la f è monotòna, mentre negli altri due casi si dice che è
strettamente monotòna. È evidente che una funzione strettamente crescente o strettamente
decrescente è anche crescente o decrescente! in altri termini, “strettamente” specifica che non
può essere costante ma deve effettivamente crescere o decrescere. È anche evidente che una
funzione può essere crescente in alcuni intervalli contenuti nel suo dominio, e decrescente in
altri.
È importante capire che le proprietà di crescenza o decrescenza sono proprietà di una
funzione in un intervallo; qualora questo non venga menzionato, si sottintende l’intero dominio
di definizione (come è stato fatto nel capitolo precedente in un contesto astratto).
Esempio 12. La funzione costante f (x) = a, dove a ∈ R qualsiasi, è sia crescente che
decrescente nell’intero dominio di definizione R, ma non strettamente tale.
L’unica funzione contemporaneamente crescente e decrescente in un intervallo è la funzione ivi
costante.
Esempio 13. La funzione identità sui reali f (x) = x è ovviamente strettamente crescente
nell’intero dominio di definizione R.
33
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Esempio 14. La funzione f (x) = x2 è strettamente crescente nell’intervallo [0, +∞) e stret-
tamente decrescente nell’intervallo (−∞, 0]. Si verifichi, utilizzando la definizione di stretta
crescenza e decrescenza, che gli entrambe gli intervalli di crescenza e decrescenza contengono lo zero.
Esempio 16. La funzione f (x) = sin x è strettamente crescente nell’intervallo [−π/2, π/2]
e strettamente decrescente nell’intervallo [π/2, 3π/2]. Non è né crescente né decrescente
nell’unione dei due intervalli [−π/2, 3π/2]!
Richiameremo la definizione e le proprietà delle funzioni indicate piú avanti; intanto assumiamo
che lo studente le conosca già dalle scuole superiori.
È facile rendersi conto che la composta di due funzioni crescenti è crescente, che la composta
di due funzioni decrescenti è crescente, e che la composta di una funzione crescente ed una
decrescente è decrescente. Inoltre la somma di due funzioni crescenti è crescente, la somma di due
funzioni decrescenti è decrescente, mentre non possiamo dire nulla della somma di una funzione
crescente ed una funzione decrescente (quella crescente potrebbe “crescere di piú” di quanto
quella decrescente decresca, o viceversa!). Per quanto riguarda il prodotto la situazione è piú
complicata a causa del segno; il prodotto di due funzioni crescenti e positive è crescente; infatti, se:
cioè la crescenza del prodotto. Analogamente per la decrescenza. Gli altri casi possono
essere dedotti tenendo conto delle proprietà delle disuguaglianze.
Esempio 17. La funzione (sin x)2 , funzione composta di sin x e x2 , è crescente nell’intervallo
[π, 3π/2]: infatti (i) nell’intervallo [π, 3π/2] la funzione sin x è decrescente e negativa, (ii) per
valori negativi del suo argomento, la funzione quadrato è decrescente quindi la composta di
due funzioni decrescenti negli intervalli considerati è crescente.
Infine, il reciproco 1/ f (x) di una funzione crescente e positiva f (x) è decrescente; infatti, se:
34
Alberto Berretti Analisi Matematica I
abbiamo che la funzione, definita nell’intero intervallo [−1, 1], è crescente in ciascuno degli
intervalli [−1, 0) e [0, 1], ma non nell’intero intervallo di definizione perché, ad es., f (−1/2) =
1/2 > f (1/2) = −1/2 (v. fig. 1.1). V. anche l’esempio 16 sopra.
0.5
-1 -0.5 0.5 1
-0.5
-1
Figura 1.1.: Funzione crescente in due intervalli ma non nella loro unione.
Dimostrazione. È infatti evidente che f deve essere iniettiva, cioè due valori uguali di f (x)
non possono essere ottenuti per valori diversi di x, perché altrimenti la funzione non potrebbe
essere monotona.
35
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Positività
Una funzione si dice positiva se per ogni x nel suo dominio f (x) ≥ 0, strettamente positiva
se f (x) > 0, negativa se f (x) ≤ 0, strettamente negativa f (x) < 0.
Se f (x) è una funzione reale qualsiasi, allora possiamo definire la sua parte positiva:
| f (x)| + f (x)
f + (x) = = max{ f (x), 0}, (1.22)
2
e la sua parte negativa:
| f (x)| − f (x)
f − (x) = = − min{ f (x), 0} = max{− f (x), 0}. (1.23)
2
Si noti che f + (x) + f − (x) = | f (x)|, f + (x) − f − (x) = f (x).
Ovviamente f − (x) ≤ f (x) ≤ f + (x).
Estremi
analogamente:
min f (x) = min{ f (x), x ∈ A}. (1.25)
x∈A
Il o i valori di x ∈ A per i quali f (x) = maxx∈A f (x) (che devono esistere per definizione di
massimo di un insieme!) vengono detti punti di massimo. Il o i valori di x ∈ A per i quali
f (x) = minx∈A f (x) vengono analogamente detti punti di minimo.
Definizioni simili valgono per gli estremi superiore ed inferiore:
sup f (x) = sup{ f (x), x ∈ A}, inf f (x) = inf{ f (x), x ∈ A}. (1.26)
x∈A x∈A
36
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Non si deve fare confusione con gli estremi locali di una funzione reale, che saranno definiti e studiati
piú avanti.
contiene numeri reali positivi arbitrariamente piccoli, ma non contiene lo zero; quindi non esiste un
numero piú piccolo di tutti, perché preso un qualsiasi numero in tale insieme, per quanto piccolo,
ne esiste sempre un altro nell’insieme ancora piú piccolo (ad es. la sua metà). L’estremo inferiore
invece esiste: infatti ogni numero negativo e lo zero sono suoi minoranti, e di tale insieme lo zero è il
massimo.
Simmetrie
e dispari se soddisfa:
f (−x) = − f (x). (1.28)
Ovviamente affinché tali definizioni abbiano senso, la funzione f deve essere definita in un
dominio A simmetrico rispetto all’origine, cioè tale che:
x ∈ A ⇒ −x ∈ A. (1.29)
37
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Se f (x) è una funzione definita in un insieme A simmetrico rispetto all’origine, possiamo definirne
la parte pari:
f (x) + f (−x)
f (e) (x) = (“e” per “even”), (1.30)
2
e la parte dispari:
f (x) − f (−x)
f (o) (x) = (“o” per “odd”). (1.31)
2
È immediato verificare che f (e) (x) è pari e che f (o) (x) è dispari, e naturalmente f (e) (x) + f (o) (x) = f (x).
In fig. 1.2 abbiamo un esempio di una funzione pari e di una funzione dispari.
15
10
20
10
-2 -1 1 2
-10
-20
Le proprietà di parità di una funzione sono delle proprietà di simmetria rispetto all’origine, perché
hanno a che fare con l’inversione rispetto all’origine x 7→ −x. Si potrebbero definire analoghe proprietà
di simmetria rispetto ad altri punti. Ad es. l’inversione rispetto al punto x = x0 è data dalla formula:
x 7→ x0 − (x − x0 ) = 2x0 − x, (1.32)
per cui una funzione pari rispetto ad x0 è una funzione tale che f (2x0 − x) = f (x), ed una funzione
dispari rispetto a x0 è una funzione tale che f (2x0 − x) = − f (x). Va da sé che il dominio di definizione
dovrà essere simmetrico rispetto al punto x0 .
38
Alberto Berretti Analisi Matematica I
f (x + T) = f (x). (1.33)
Si dice che il numero T è un periodo della funzione f . È evidente che se T è un periodo, allora
anche 2T, 3T, ed in generale nT, dove n è un intero, sono periodi della funzione. Il periodo
T > 0 della funzione con il piú piccolo valore, se esiste, viene detto periodo fondamentale o
a volte semplicemente il periodo della funzione.
Le funzioni trigonometriche (seno, coseno, tangente) sono esempi famosi ed importanti di
funzioni periodiche.
È chiaro che una funzione periodica non può essere definita solo in un intervallo, perché la tra-
slazione espressa dalla definizione di periodicità porterebbe fuori dal dominio della funzione. Basta
riflettere un istante ad es. sul caso della funzione tan x per capire che non è necessario che il do-
minio sia tutto R: basta che anche gli eventuali punti in cui la funzione non è definita si ripetano
periodicamente con il medesimo periodo.
Introduciamo ora alcune funzioni elementari, in realtà ben note fin dalle scuole inferiori, e
studiamone le principali proprietà.
Potenze e radici
Sia a ∈ R, n ∈ N; allora:
an = a · . . . · a . (1.34)
| {z }
n volte
39
Alberto Berretti Analisi Matematica I
(L, R) è effettivamente un taglio dei reali perché per costruzione ogni reale appartiene a R o a L, e
perché essendo xn una funzione crescente di x, tutti i reali di L sono minori di quelli in R. Quindi (L, R)
√q
identifica un unico numero reale che indichiamo con a, per ogni a > 0. Bisogna inoltre dimostrare,
√q
affinché la definizione sia di qualche ausilio, che ( a)q = a. Ma ciò è ovvio interpretando la potenza
q-esima in termini di tagli dei reali:
√q
( a)q = (L′ , R′ ),
dove:
R′ = {y > 0 e y ≥ a}, L′ = {y < 0 o y < a},
Le proprietà delle potenze dei numeri reali sono quelle ben note fin dalle scuole inferiori
e non verrano ripetute qui.
Infine, definiamo ax nel caso in cui a ∈ R, a ≥ 0 e x ∈ R qualsiasi, quindi anche irrazionale.
Definiamo quindi per a > 1:
40
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Per una trattazione completa ed esaustiva della questione si possono consultare ad es. gli appunti di
Analisi Matematica 1 di Paolo Acquistapace http://www.dm.unipi.it/~acquistp/ana1.pdf.
Per 0 ≤ a < 1, definiamo: x
x 1
a = , (1.40)
a
essendo 1/a > 1, e per a = 1 definiamo 1x = 1.
Avendo risolto il problema della definizione di potenze e radici, studiamo le loro proprietà
ed il loro andamento.
Consideriamo dapprima le potenze f (x) = xn con n ∈ N, cioè naturale. Il dominio è sempre
l’intero insieme dei reali.
Se n = 0 allora f (x) = 1, e la funzione è costante.
Se n , 0 allora f (0) = 0.
Se n = 1 allora f (x) = x e la funzione è la funzione identità.
Se n , 0 è pari, la funzione è pari, strettamente crescente in [0, +∞) e strettamente
decrescente in (−∞, 0].
Se n è dispari, la funzione è dispari, strettamente crescente in tutto R.
È evidente che se n , 0 allora xn può essere arbitrariamente grande: basta osservare che
xn > x se x > 1 e n > 0. Quindi sup xn = +∞, dove si intende che l’estremo superiore è preso
in tutto R. Se n è pari, xn ≥ 0; se n è dispari, invece, è positiva sui positivi e negativa sui
negativi (essendo dispari!). Ne segue che, sempre per n > 0, inf xn = 0 per n pari (in effetti
l’estremo inferiore è un minimo) e inf xn = −∞ per n dispari.
In fig. 1.3 vediamo il grafico di alcune potenze intere.
Osserviamo infine che se x ∈ (0, 1) allora xn diventa sempre piú piccolo man mano che n
cresce: infatti moltiplicando per ulteriori fattori x, 0 < x < 1 non facciamo altro che diminuire
il prodotto (v. fig. 1.4); al contrario, per x ∈ (1, +∞) xn diventa sempre piú grande man mano
che n cresce: infatti moltiplicando per ulteriori fattori x > 1 non facciamo altro che ingrandire
il prodotto.
Consideriamo ora potenze intere negative. Basta in realtà considerare f (x) = 1/x, e poi
comporre tale funzione con le potenze intere positive viste precedentemente.
Innanzitutto, la funzione 1/x non è definita se x = 0, è (strettamente) positiva per x > 0
e (strettamente) negativa per x < 0. In ciascuno degli intervalli (−∞, 0) e (0, ∞) essa è
decrescente. Si osservi che nell’unione di tali intervalli non possiamo dire che la funzione 1/x
è decrescente! Infatti ad es. −1 < 1 ma 1/(−1) < 1/1 e non il contrario.
Anche se la nozione precisa di limite verrà introdotta piú avanti, si verifica immediatamente
che se x è preso molto piccolo, sufficientemente piccolo allora 1/x diventa molto grande,
41
Alberto Berretti Analisi Matematica I
8
10
7
7.5
6
5
5
2.5
4
-2 -1.5 -1 -0.5 0.5 1 1.5 2
3
-2.5
2
-5
1
-7.5
(a) x, x2 , x4 e x8 (b) x, x2 , x3 , x4 e x5
Polinomi
Ricordiamo che un polinomio di grado n in una variabile x è una espressione della forma:
42
Alberto Berretti Analisi Matematica I
0.8
0.6
0.4
0.2
Funzioni razionali
Una funzione razionale è una funzione che, eventualmente dopo semplificazioni algebriche, può
essere scritta come quoziente di due polinomi:
P(x)
R(x) = . (1.42)
Q(x)
Una funzione razionale può dunque essere anche scritta come una piú generale espressione
algebrica, che però contenga solo potenze della variabile x, somme, sottrazioni, moltiplicazio-
ni e divisioni. Una tale espressione può sempre essere scritta nella forma (1.42); occorre però
osservare che, nel corso dei passaggi e delle semplificazioni che portano alla forma (1.42),
il dominio della funzione può subire delle modifiche. Ad es. la seguente è una funzione
43
Alberto Berretti Analisi Matematica I
20
15 2
10
1
5
-2 -1 1 2
-4 -2 2 4
-5
-10
-1
-15
-20 -2
√ √ √
Figura 1.5.: Grafici di 1/x, 1/x2 , 1/x5 , Figura 1.6.: Grafici di x, 3
x, 4
x.
1/x6 .
razionale:
1 1
R(x) = + ,
x(x + 1) x(x − 1)
peché è costruita usando esclusivamente le operazioni anzidette; il dominio di R(x) è formato
da tutti gli x reali e diversi da 0, 1 e −1. Ora, è anche vero che:
2
∀x ∈ R, x , 0, 1, −1 : R(x) = ,
x2 −1
come un semplice calcolo mostra immediatamente, ma ora la funzione 2/(x2 − 1) è definita
per ogni x reale diverso da ±1, 0 incluso! Quindi durante i passaggi che hanno portato
dalla forma “estesa” della funzione R alla sua rappresentazione (1.42) come quoziente di
polinomi è avvenuta una semplificazione di un fattore x a numeratore e denominatore, che ha
portato all’estensione del dominio della funzione. In altri termini, le due funzioni:
1 1 2
+ e
x(x + 1) x(x − 1) x2 −1
devono essere considerate, a rigore, due funzioni diverse perché il dominio delle due funzioni
è diverso, anche se poi ovviamente esse sono uguali ovunque siano entrambe definite. Nei
corsi di matematica elementare si parla di diverse “condizioni di esistenza”, come lo studente
accorto capisce quando realizza che per fare la semplificazione indicata occorre assumere
x , 0.
In opportuno contesto, la differenza fra due funzioni come sopra verrà sostanzialmente cancellata.
È anche evidente che da qualunque punto di vista “pratico”, nelle applicazioni concrete, le due
funzioni sono “la stessa cosa”. Ciò non vuol dire che non si debba stare attenti a cosa succede al dominio di
una funzione quando si fanno passaggi e semplificazioni apparentemente inoffensivi!
44
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Esponenziale e logaritmo
Il caso a = 1 è insignificante (in tal caso infatti ax = 1 per ogni x e la funzione è costante!), per
cui nel seguito assumeremo sempre 0 < a < 1 o a > 1.
Piú avanti vedremo che c’è un valore “speciale” di a che sarà particolarmente interessante, che si
denota con la lettera e, e per funzione esponenziale si intenderà quella che ha per base appunto il
numero e.
Una funzione esponenziale è definita per ogni x. Dalle proprietà delle potenze seguono
facilmente le sue proprietà. Innanzitutto, ax > 0 per ogni x reale. Inoltre, se 0 < a < 1
la funzione è monotona decrescente, mentre se a > 1 la funzione è monotona crescente.
Ovviamente, piú a > 1 è grande piú la fuzione “cresce in fretta” e piú a < 1 è piccolo piú la
funzione “decresce in fretta”; anche se ancora non sappiamo dare un significato rigoroso a
tali espressioni, una rapida occhiata ai grafici di fig. 1.7 dovrebbe far capire esattamente di
cosa parliamo.
14
12
10
-3 -2 -1 1 2 3
Si osservi anche che se a < 1 allora 1/a > 1 e ax = (1/a)−x , per cui possiamo ricondurre lo
studio di esponenziali di base compresa fra 0 e 1 a quello di esponenziali di base maggiore di
1 dopo aver fatto la sostituzione x 7→ −x (che graficamente vuol dire invertire l’asse delle x).
D’ora in poi consideriamo sempre basi maggiori di 1, visto che è sempre possibile ricondursi
a tale caso.
45
Alberto Berretti Analisi Matematica I
2.5
2 4 6 8 10
-2.5
-5
-7.5
-10
-12.5
I logaritmi sono stati introdotti dal matematico scozzese John Napier (1550-1617) nella sua opera
Mirifici logarithmorum canonis descriptio del 1614, quindi in una epoca piuttosto antica. Furono definiti
in modo un po’ diverso dal modo odierno, ed il loro principale scopo era quello dell’aiuto al calcolo
numerico. Una loro importante applicazione pratica da questo punto di vista,in uso fino a circa gli anni
’70, cioè all’epoca in cui le calcolatrici elettroniche sono diventate sufficientemente economiche, era il
regolo calcolatore, un semplicissimo dispositivo meccanico che permetteva di calcolare moltiplicazioni,
divisioni e potenze molto facilmente anche con 3-4 cifre decimali di precisione.
Chiaramente:
log 1 x = − loga x, (1.45)
a
per cui possiamo considerare solo il caso a > 1 (il caso a = 1 non si pone, perché 1y = 1
sempre!).
Poiché ay > 0, loga x esiste solo se x > 0. Inoltre, poiché a0 = 1, loga 1 = 0, Poiché ay è
funzione crescente di y, anche loga x è funzione crescente di x.
Il logaritmo soddisfa alcune proprietà, che dovrebbero essere ben note fin dalle scuole
superiori; le riassumiamo nella seguente tabella, in cui assumiamo che la base del logaritmo
sia sempre un reale positivo e diverso da 1.
46
Alberto Berretti Analisi Matematica I
∀x > 0 : aloga x = x
Le regole in tabella vanno applicate cum grano salis. Infatti se x < 0 abbiamo:
Occorre riflettere su queste due ultime identità e capire bene perché esse valgono, onde non
cadere in molteplici errori facendo calcoli utilizzando i logaritmi.
L’andamento qualitativo del logaritmo può essere facilmente ricavato da quello dell’espo-
nenziale, semplicemente “scambiando gli assi” x e y. In particolare, per valori maggiori di
1 della base è strettamente crescente, assume valori arbitrariamente grandi per valori del-
l’argomento sufficientemente grandi ed assume valori arbitrariamente grandi e negativi per
valori sufficientemente piccoli dell’argomento. Nella fig. 1.8 seguente vediamo ad es. il
grafico della funzione log2 x.
Funzioni trigonometriche
dove le lunghezze dei segmenti sono prese con il segno del semiasse in cui giacciono. Tali
funzioni sono dette rispettivamente seno e coseno di x.
47
Alberto Berretti Analisi Matematica I
R P
O Q A
Si osservi che in questo modo il numero π è automaticamente definito come l’area del cerchio
unitario.
Dobbiamo pensare che il numero x, che misura l’angolo PÔA, indichi effettivamente la
posizione del punto P sul cerchio: x vale 0 in A, e vale 2π quando si trova di nuovo in A
dopo aver fatto un giro intero; pertanto possiamo immaginare che x assuma qualsiasi valore
reale, inclusi valori negativi, e che valori reali che differiscano di 2π o suoi multipli interi
corrispondano alla medesima posizione sul cerchio. Ad es. se il punto P si trova nel quarto
quadrante potremo dire che x è compreso fra −π/2 e 0 – quindi negativo –, oppure che è
compreso fra 3π/2 e 2π (ma non fra 3π/2 e 0!). In tal modo le funzioni trigonometriche sono
automaticamente definite come funzioni periodiche di periodo 2π.
Definiamo inoltre:
sin x cos x 1 1
tan x = , cot x = , sec x = , csc x = , (1.49)
cos x sin x cos x sin x
dette rispettivamente tangente, cotangente, secante e cosecante di x; le ultime tre sono
usate di rado.
Si osservi che tan x è uguale alla lunghezza del segmento AB ovvero al doppio dell’area
del triangolo OAB, sempre facendo riferimento alla fig. 1.9. Ovviamente tenendo conto del
segno.
Quella che abbiamo dato in realtà è una definizione carente. Infatti, mentre è abbastanza chiaro
48
Alberto Berretti Analisi Matematica I
cosa vuol dire la lunghezza di un segmento1 , non è affatto chiaro cosa voglia dire l’area di una certa
regione geometrica, in particolare se limitata da una curva. Il concetto di area di una regione del
piano sarà reso rigoroso solo piú avanti mediante l’integrale. Una alternativa potrebbe essere definire
x come la lunghezza dell’arco AP: ma di nuovo non abbiamo ancora definito la lunghezza di una
curva, cosa che faremo piú avanti sempre per mezzo di un’integrale. Le definizioni tradizionali
delle funzioni trigonometriche sono pertanto equivalenti alle definizioni analitiche per mezzo di un
integrale. È importante sottolineare che non si tratta dell’unica definizione analitica delle funzioni
trigonometriche, e nemmeno della migliore. La definizione “liceale” tradizionale – utilizzando la
lunghezza dell’arco – è piú difficile da rendere rigorosa di quella che utilizza l’area del settore circolare
perché la nozione di lunghezza di una curva è piú difficile da rendere rigorosa di quella di area. 2 .
È facile dalla definizione di seno e coseno ricavare i loro grafici qualitativi e da questi quelli
delle altre funzioni trigonometriche, che riportiamo nella figura 1.10 seguente.
1 1 20
15
0.5 0.5 10
5
-6 -4 -2 2 4 6 -6 -4 -2 2 4 6 -6 -4 -2 2 4 6
-5
-0.5 -0.5 -10
-15
-1 -1 -20
-6 -4 -2 2 4 6 -6 -4 -2 2 4 6 -6 -4 -2 2 4 6
-5 -5 -5
-10 -10 -10
-15 -15 -15
-20 -20 -20
1
La lunghezza del segmento i cui estremi sono i punti P = (xP , yP ) e Q = (xQ , yQ ) è definita pari a dPQ =
p
(xP − xQ )2 + (yP − yQ )2 . Non introduciamo alcun concetto “operativo” – e cioè fumoso ed euristico – di
misura.
2
In realtà, la definizione piú conveniente delle funzioni trigonometriche, e cioè quella che rende piú semplice
determinarne le proprietà, è quella in termini di serie di potenze, dovuta al matematico tedesco Edmund
Georg Hermann Landau (1877–1938), ma richiede dei concetti che verranno introdotti nel corso di Analisi
Matematica 2.
49
Alberto Berretti Analisi Matematica I
da cui segue immediatamente che, com’è ovvio anche dalla definizione geometrica, | sin x| ≤
1, | cos x| ≤ 1. Si osservi che invece di scrivere (sin x)2 scriviamo, come è uso, sin2 x. È anche
evidente che la funzione seno è dispari e la funzione coseno è pari (da ovvie proprietà di
simmetria del cerchio trigonometrico), cosí come le seguenti formule, dette formule degli archi
associati:
π
sin(x + ) = cos x, (1.51a)
2
π
cos(x + ) = − sin x, (1.51b)
2
π
sin(x − ) = − cos x, (1.51c)
2
π
cos(x − ) = sin x, (1.51d)
2
sin(x + π) = sin(x − π) = − sin x, (1.51e)
cos(x + π) = cos(x − π) = − cos x, (1.51f)
ovvero:
cos(x − y) = cos x cos y + sin x sin y, (1.55)
50
Alberto Berretti Analisi Matematica I
D B
y
x x-y
O A
Figura 1.11.: Costruzione per calcolare il coseno della differenza di due angoli.
e con un po’ di sforzo si possono ricavare le formule per gli altri multipli di un angolo dato.
Dalle formule di duplicazione si ricavano le formule di bisezione:
r
x 1 − cos x
sin = ± , (1.57a)
2 2
r
x 1 + cos x
cos = ± , (1.57b)
2 2
dove bisogna scegliere il segno + o − a seconda del quadrante in cui giace x/2.
Notevoli sono anche le formule che esprimono il prodotto di seni e coseni in termini di
seni e coseni delle somme algebriche degli argomenti (dette formule di Werner dal matematico
tedesco Johann Werner (1468–1522)):
51
Alberto Berretti Analisi Matematica I
che si ricavano immediatamente dal teorema di addizione, e da cui si ricavano a loro volta
le formule di prostaferesi, anch’esse molto utili:
x−y x+y
sin x + sin y = 2 cos sin , (1.59a)
2 2
x+y x−y
sin x − sin y = 2 cos sin , (1.59b)
2 2
x−y x+y
cos x + cos y = 2 cos cos , (1.59c)
2 2
x+y x−y
cos x − cos y = −2 sin sin . (1.59d)
2 2
Consideriamo ora la funzione tangente. La funzione tan x è definita ovunque cos x , 0,
cioè per x ∈ R, x , π/2 + kπ, k ∈ Z.
Cosa vuol dire quello che abbiamo appena scritto? vuol dire che 1. x è reale, 2. x non deve essere
uguale a π/2 piú un qualsiasi multiplo intero di π.
Dalle (1.51e) ed (1.51f) si evince immediatamente che tale funzione è periodica di periodo
π (infatti se mandiamo x in x + π sia il seno che il coseno cambiano segno, e quindi il loro
quoziente non cambia). Anche per la tangente vale un teorema di addizione che si ricava
immediatamente da quello per le funzioni seno e coseno:
tan x + tan y
tan(x + y) = , (1.60)
1 − tan x tan y
da cui:
2 tan x
tan 2x = , (1.61)
1 − tan2 x
e: r
x 1 − cos x sin x
tan = ± = . (1.62)
2 1 + cos x cos x + 1
Consideriamo ora le funzioni trigonometriche inverse. Innanzitutto, le funzioni seno e
coseno non sono monotone nel loro dominio, per cui non possiamo pensare di invertirle.
Possiamo però considerare le loro restrizioni ad intervalli in cui esse sono monotone, ed
invertire tali restrizioni. È tradizione restringere la funzione seno all’intervallo [−π/2, π/2]
in cui essa è strettamente crescente, e la funzione coseno all’intervallo [0, π] in cui essa è
strettamente decrescente. Le inverse sono le funzioni arcoseno ed arcocoseno, indicate
rispettivamente con arcsin e arccos, di cui riportiamo i grafici nella figura 1.12 seguente.
Per quanto riguarda invece la tangente, essa è monotona crescente in ciascun intervallo di
periodicità (−π/2+kπ, π/2+kπ), k ∈ Z, per cui basta sceglierne uno e invertirne la restrizione a
tale intervallo; tipicamente si sceglie k = 0, cioè l’intervallo che contiene l’origine (−π/2, π/2);
tale funzione inversa prende il nome di arcotangente e si indica con il simbolo arctan x; ne
riportiamo il grafico in figura 1.12.
52
Alberto Berretti Analisi Matematica I
1.5 3
1 2.5
0.5 2
-0.5 1
-1 0.5
-1.5
-1 -0.5 0.5 1
-10 -5 5 10
-0.5
-1
-1.5
(c) arctan x
È chiaro che l’arcoseno e l’arcotangente sono funzioni strettamente crescenti mentre l’ar-
cocoseno è una funzione strettamente decrescente. Inoltre l’arcoseno e l’arcocoseno sono
definite nell’intervallo [−1, 1], mentre l’arcotangente è definita per ogni x reale; il codomi-
nio di arcsin x è l’intervallo [−π/2, π/2], il codominio di arccos x è l’intervallo [0, π] ed il
codominio di arctan x è l’intervallo (−π/2, π/2).
L’arcotangente soddisfa la seguente curiosa identità:
π
1
2 se x > 0,
arctan x + arctan = (1.63)
x − π2
se x < 0.
1 1 cos y sin( π2 − y) π
= = = π = tan( − y),
x tan y sin y cos( 2 − y) 2
da cui:
1 π
arctan = − arctan x,
x 2
che è la tesi. Poiché sia arctan x che arctan(1/x) sono funzioni dispari, segue la tesi anche nel caso
x < 0.
Nella tabella 1.1, infine, riportiamo i valori di seno, coseno e tangente per alcuni valori
speciali dell’argomento.
Una rassegna completa di trigonometria è chiaramente fuori luogo in questa sede. Si
rimanda chi fosse interessato a qualsiasi libro di trigonometria.
53
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Raccolte complete di formule trigonometriche, insieme a tante altre, si puossono trovare sulle
tradizionali “tavole dei logaritmi” o sul libro di trigonometria delle scuole superiori. Esistono poi
libri come ad es. M. Abramowitz, I. A. Stegun, Handbook of Mathematical Functions with Formulas,
Graphs and Mathematical Tables, U. S. National Bureau of Standards, 1972 che contengono raccolte
piú che complete di tabelle e formulari per le funzioni trigonometriche e molto, molto altro. Infine
sul sito http://functions.wolfram.com/ si trova un formulario assai completo per una quantità di
funzioni.
Ovviamente, l’uso di tabelle e formulari non solo non sostituisce la conoscenza diretta delle cose,
ma necessita tale conoscenza, altrimenti non si è nemmeno in grado di cercare la formula desiderata
ed interpretare le tabelle.
54
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Altre funzioni
Quelle che abbiamo nominato sono solo alcune funzioni elementari che sono note ed utilizzate
fin dalle scuole superiori. Introduciamo ora altre funzioni a cui vale la pena dare un nome a
causa del loro frequente utilizzo.
La parte intera di un numero reale x è definita come:
cioè come il piú grande intero minore o uguale al reale considerato. Ad es. [1.5] = 1, [3] = 3,
[−2.5] = −3 (si raccomanda di riflettere su quest’ultimo caso!).
A volte conviene distinguere due tipi di funzione parte intera, la funzione pavimento e la funzione
soffitto:
In parole, la funzione pavimento è la stessa cosa della parte intera come precedentemente definita,
mentre il soffitto di un reale x è il piú piccolo intero maggiore o uguale al reale dato; ad es. ⌈1.5⌉ = 2,
⌈3⌉ = 3, ⌈−2.5⌉ = −2 (si confronti con la funzione pavimento). La funzione pavimento dunque
approssima il suo argomento con il miglior intero dal basso, mentre la funzione soffitto approssima il
suo argomento con il migliore intero dall’alto, da cui i nomi.
La parte frazionaria di un numero reale x è definita come:
cioè il numero medesimo, meno la sua parte intera. Ovviamente la parte frazionaria di
qualsiasi numero intero è nulla.
In fig. 1.13 vediamo i grafici di queste tre funzioni.
La funzione segno è definita come:
−1 se x < 0,
sign(x) = (1.67)
0 se x = 0,
1 se x > 0.
In molte applicazioni non importa come venga definita la funzione segno quando il suo argomento è
nullo; noi abbiamo scelto che valga 0 per semplicità, a volte viene definita come 1 o −1 o addirittura
non definita nell’origine.
Ricordiamo che il valore assoluto di un numero reale x, detto anche modulo di x, è definito
come:
|x| = max{x, −x}. (1.68)
55
Alberto Berretti Analisi Matematica I
3 3
2 2
1 1
-3 -2 -1 1 2 3 -3 -2 -1 1 2 3
-1 -1
-2 -2
-3 -3
0.5
-3 -2 -1 1 2 3
(c) hxi
Figura 1.13.: Funzione parte intera (o pavimento), funzione soffitto, funzione parte fraziona-
ria.
Notiamo che:
−x se x < 0,
|x| = x sign(x) =
(1.69)
x se x ≥ 0.
Ricordiamo la proprietà:
|x + y| ≤ |x| + |y|, (1.70)
-4 -2 2 4
Conviene introdurre anche la funzione gradino o funzione di Heaviside (dal nome del
56
Alberto Berretti Analisi Matematica I
• Consideriamo la funzione:
0 se x < Q,
µ(x) =
(1.71)
1
se x ∈ Q,
cioè la funzione che è 0 sugli irrazionali e 1 sui razionali. È chiaro che per sapere quanto vale
dobbiamo sapere se il suo argomento è razionale o meno, il che non è detto che sia banale
(esistono numeri che sono definiti da formule molto semplici di cui a tutt’oggi non si sa se siano
razionali o meno). Inoltre non è possibile disegnare concretamente un grafico significativo di
tale funzione: infatti un tentativo di disegnarla non potrà che dare due linee orizzontali y = 0
e y = 1, su cui i punti che rappresentano la funzione sono densi.
• È noto, per ragioni che vedremo piú avanti, che una equazione algebrica di quinto grado (in
generale di grado dispari) ha sempre almeno una radice reale (eventualmente di piú, al massimo
in numero pari al grado dell’equazione). Quindi possiamo definire la funzione f (a) come la piú
grande radice reale ad es. dell’equazione di quinto grado x5 + ax4 + x3 + x + 1 = 0. È noto però
che non esiste alcuna formula in termini di funzioni elementari per scriverla, salvo casi particolari.
Quindi una funzione come la f (a) sopra definita può essere calcolata con la precisione che
vogliamo utilizzando dei metodi di calcolo numerico, ma è noto a priori che non esiste nessuna
formula per scriverla, in termini di funzioni elementari.
57
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Mediante composizione di funzioni possiamo definirne quante altre ce ne pare. L’unica cosa
a cui dobbiamo stare attenti che non abbiamo ancora considerato è cosa accade al dominio
della funzione composta.
Infatti, quando una funzione è assegnata, in pratica, da una formula, in genere non viene
specificato il dominio: si sottintende che il dominio è l’insieme dei reali per cui la formula
data ha senso. Il problema diventa appunto trovare tale insieme. Ad es., se abbiamo la
funzione h(x) = g( f (x)), non è detto che il dominio di h sia uguale al dominio di f , come
potrebbe sembrare a prima vista: infatti preso un x nel dominio di f , f (x) è certamente
ben definito, ma potrebbe giacere fuori dal dominio di g! Quindi non solo x deve giacere nel
dominio di f , ma i valori ottenuti di f (x) al variare di x devono essere contenuti nel dominio
di g; in questo modo è possibile che il dominio della funzione composta sia piú piccolo del
dominio della f . Facciamo un esempio.
Sia:
f (x) = log2 arcsin x.
Qui la nostra funzione è composta delle due funzioni arcsin e log2 . La funzione arcsin
è definita per x compresi nell’intervallo [−1, 1], ed è positiva per x nell’intervallo (0, 1],
negativa o nulla in [−1, 0]. La funzione log2 è definita per valori strettamente positivi del suo
argomento, quindi sono accettabili solo valori di x nel dominio della funzione composta tali
che arcsin x > 0. Quindi dom( f ) = (0, 1].
È chiaro che se la funzione considerata è composta da parecchie funzioni, allora può
diventare delicato ricavarne il dominio.
È noto che possiamo rappresentare i numeri reali su una retta, scegliendo un punto O
qualsiasi, detto origine, su tale retta, scegliendo una unità di misura per misurare le distanze
dall’origine e scegliendo una direzione sulla retta per definire la relazione d’ordine sui reali
(cioè in pratica scegliendo un altro punto U ed associandolo al numero reale 1). In tal senso
si parla di retta reale.
58
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Le coordinate cartesiane sono ben lungi dall’essere le uniche possibili, o le uniche utili,
anzi: in genere è opportuno scegliere nello studio di un determinato problema il sistema di
coordinate che meglio si adatta alle simmetrie del problema considerato.
Qui noi definiremo semplicemente tre sistemi di coordinate, uno nel piano e due nello
spazio, utili in molti problemi concreti. Ulteriori nozioni si possono trovare su qualsiasi
buon libro di geometria (ad es. B. A. Dubrovin, S. P. Novikov, A. T. Fomenko, Geometria
Contemporanea, Vol. 1, Ed. Riuniti, 1999; si tratta comunque di un testo relativamente
avanzato che presuppone alcune nozioni che studieremo solo piú avanti, in particolare
calcolo differenziale ed integrale per funzioni di piú variabili reali ed algebra lineare).
Le coordinate polari nel piano sono definite come segue. Nel piano individuiamo un
punto O, l’origine o polo, ed una semiretta t partente da O. Dato un punto P, le sue coordinate
polari sono la distanza r del punto P da O e l’angolo θ fra la semiretta OP e la semiretta t (per
convenzione preso positivo nel verso antiorario).
La relazione tra coordinate cartesiane e coordinate polari è ovviamente molto semplice,
se scegliamo come origine per le coordinate cartesiane quella delle coordinate polari e come
asse x la retta che contiene la semiretta t (v. fig. 1.15). Abbiamo infatti chiaramente:
x = r cos θ,
(1.72)
y = r sin θ,
59
Alberto Berretti Analisi Matematica I
e le inverse: p
x2 + y2 ,
r =
y
θ = arctan x se x > 0,
y
(1.73)
θ = arctan x + π se x < 0,
θ = π2 se x = 0, y > 0,
θ = − π2
se x = 0, y < 0.
L’espressione per θ è (apparentemente!) complicata perché la funzione arcotangente è sempre
compresa fra −π/2 e π/2, mentre θ varia in tutto il cerchio trigonometrico, quindi è necessario
distinguere il caso del primo e del quarto quadrante e quello del secondo e terzo quadrante
(che non sono nel codominio della arcotangente!). Un attimo di riflessione ci convincerà che
le formule precedenti sono corrette.
O Θ x
• r ≥ 0;
• l’angolo θ può essere preso variabile ad es. in un intervallo come [0, 2π), oppure (−π, π]
– basta che tale intervallo sia lungo 2π.
C’è dunque una sorta di “discontinuità” nella variabile θ: se ad es. scegliamo θ ∈ [0, 2π),
muovendo il punto P con continuità , quando questo attraversa il semiasse x negativo θ
60
Alberto Berretti Analisi Matematica I
“salta” da 0 a 2π (o viceversa); se scegliamo θ ∈ (−π, π], tale salto avviene quando il punto
P attraversa il semiasse x positivo. Ne segue che le coordinate polari non sono un “buon”
sistema di coordinate nell’origine, perché coppie di coordinate polari distinte corrispondono
al medesimo punto – l’origine –, ed in piú abbiamo il problema del “taglio” nella variabile θ,
a cui occorre prestare attenzione interpretando sempre θ come un angolo, cioè una variabile
reale definita a meno di multipli interi di 2π.
Esempio 20. Le semirette che partono dall’origine sono rappresentate in coordinate polari
dall’equazione θ = α, dove α è una costante. I cerchi con centro nell’origine sono rappresen-
tati da r = a, dove a > 0 è una costante. Le rette in coordinate polari hanno per equazione
r = p/ cos(θ − α), dove p > 0, α sono costanti (qual’è il significato geometrico di p e α?). L’e-
quazione r = 2a cos θ rappresenta un cerchio di centro (0, a) che passa per l’origine, mentre
l’equazione generale di un cerchio è data da r2 + c2 − 2rc cos(θ − α) = A2 , dove c, α e A sono
costanti.
Nello spazio ci sono due sistemi di coordinate simili alle coordinate polari del piano: le
coordinate cilindriche e le coordinate sferiche. In entrambe i casi, immaginiamo di avere
nello spazio un sistema di coordinate cartesiane ortogonali OXYZ, in cui le coordinate sono
espresse da una terna di numeri reali (x, y, z).
Le coordinate cilindriche del punto P nello spazio sono ottenute proiettando il punto P nel
piano XY, ottenendo su tale piano un punto P′ ; le coordinate cilindriche di P sono dunque i
tre numeri ρ, ψ, z, dove ρ, ψ sono le coordinate polari di P′ nel piano XY mentre la coordinata
z, detta quota di P per ovvî motivi, è la stessa di prima. Ne segue che la relazione fra le
coordinate cilindriche e le coordinate cartesiane è data dalle formule:
x = ρ cos ψ,
(1.74)
y = ρ sin ψ,
z = z.
61
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Le coordinate r, θ, ϕ variano rispettivamente negli intervalli [0, +∞), [−π, π], e ad es. [0, 2π).
Si noti che talvolta vengono usate notazioni leggermente diverse per le coordinate sferiche,
ad es. sin θ e cos θ sono scambiate.
p
Si osservi inoltre che r = x2 + y2 + z2 , cioè r è la distanza dall’origine. Per capire l’inter-
pretazione delle due coordinate “angolari” θ, ϕ, riflettiamo un attimo sulla loro costruzione
geometrica. Poiché z = r sin θ, l’angolo θ è l’angolo tra l’asse Z e la semiretta OP che parte
dall’origine e passa per il punto P. Indicando come prima con P′ la proiezione del punto P
sul piano XY, di coordinate (x, y) = (r cos θ sin ϕ, r cos θ cos ϕ), è evidente che le coordinate
polari di P′ sul piano XY sono r cos θ e ϕ, per cui ϕ è l’angolo tra l’asse X e la semiretta
OP′ sul piano XY. Gli intervalli di variazione delle variabili angolari seguono da queste
(semplici) considerazioni geometriche. Per ragioni piuttosto ovvie, la coordinata θ viene
detta latitudine e la coordinata ϕ viene detta longitudine.
Ovviamente l’insieme dei punti che soddisfano r = (cost.) è una sfera di raggio r, da cui il
nome di coordinate sferiche.
Non è nostra intenzione qui dare definizioni rigorose di curva e di superficie, che sarebbero
inevitabilmente complicate e sottili: ci accontentiamo dell’idea intuitiva di tali concetti.
Una curva nel piano può essere rappresentata analiticamente in forma esplicita:
(nel primo caso si parla di curva rappresentata esplicitamente rispetto a y e nel secondo di
curva rappresentata esplicitamente rispetto a x), oppure in forma implicita:
F(x, y) = 0, (1.77)
Si può passare dall’una all’altra forma, anche se i teoremi che garantiscono il passaggio
da una forma all’altra non sono banali e verranno presi in considerazione piú avanti. Nel
frattempo possiamo immaginare che si possa passare da una forma all’altra perlomeno
quando è possibile fare i conti esplicitamente.
62
Alberto Berretti Analisi Matematica I
(si osservi che sono due equazioni! una con il + ed una con il −; ciascuna descrive un semicherchio:
quella con il + il semicerchio superiore, quella con il − il semicerchio inferiore). In forma
implicita è data da:
x2 + y2 − 1 = 0,
È importante rendersi conto che una stessa curva può essere rappresentata da funzioni
diverse. Tanto per fare un esempio banale, tutte le equazioni del tipo:
(x2 + y2 − 1)n = 0
Il fatto che, in forma parametrica, una superficie ha bisogno di due parametri per essere rappresentata
ha ovviamente a che fare con il fatto che la superficie è un oggetto intrinsecamente bidimensionale. I
parametri u, v possono essere interpretati come coordinate locali sulla superficie medesima.
Non ha molto senso rappresentare una curva nello spazio in forma esplicita, in quanto
occorrerebbe esplicitare due variabili e la cosa non ha molto senso pratico. In forma implicita,
una curva nello spazio viene rappresentata da due funzioni:
pensando quindi alla curva come all’intersezione di due superfici. In forma parametrica
invece è data semplicemente da:
x = ϕ(t),
(1.81)
y = ψ(t),
z = χ(t).
63
Alberto Berretti Analisi Matematica I
cioè una curva rappresentata in forma implicita da un polinomio di secondo grado nelle due
variabil x, y. Il nome deriva dal fatto che una qualsiasi conica può essere ottenuta dall’intersezione
di un cono con un piano. È ben lontano dai nostri scopi fare qui la teoria generale delle coniche,
i cui aspetti salienti sono ben noti dal liceo e sono considerati acquisiti.
y2 = ax3 + bx2 + cx + d
sono delle cubiche (ovvero curve rappresentate in forma implicita da un polinomio di terzo
grado nelle due variabili x, y) particolarmente famose e sono dette curve ellittiche (anche
se non hanno praticamente nulla a che fare con le ellissi, per lo meno non in modo diretto).
Esercizio 3. Disegnare (anche rozzamente, per punti!) i grafici qualitativi delle curve di
equazione implicita:
y2 = x3 − x,
y2 = x3 + x,
y2 = x3 + x2 .
r2 = a2 cos 2θ.
64
Alberto Berretti Analisi Matematica I
da cui:
(x2 + y2 )2 = a2 (x2 − y2 ),
per cui la lemniscata è un’esempio di quartica, cioè di curva data in forma implicita da un
polinomio di quarto grado.
In fig. 1.16 abbiamo riportato il grafico della lemniscata con a = 1.
da cui: q
x2 + y2 − 2ax = 2a x2 + y2 ,
Tale curva è detta cardioide a causa della sua forma, come si vede dal grafico in fig. 1.17.
1.5
0.4 1
0.2 0.5
-1
-0.4
-1.5
La curva è simmetrica rispetto all’asse x, cioè non cambia se cambiamo il segno di y. Inoltre,
osservando la sua espressione in coordinate polari, ci accorgiamo che r = 0 per θ = ±π, e r ha
il suo valore massimo (r = 4a) per θ = 0. Fra −π e 0 r cresce monotonicamente da 0 a 4a, e fra
0 e π r decresce monotonicamente da 4a a 0. Inoltre siccome r è ben definita, come funzione
di θ, per ogni angolo valore del suo argomento, ne segue che lungo il lato di ogni angolo θ
incontriamo un (unico) punto della curva. Uno studio piú approfondito della curva richiede
un tipo di argomenti che verrà trattato piú avanti.
65
Alberto Berretti Analisi Matematica I
vengono dette quadriche. Esempi di quadriche sono la sfera, gli ellissoidi, i paraboloidi, gli
iperboloidi, i coni. Li vedremo con maggiore attenzione piú avanti.
Esempio 27. Un esempio di curva sghemba, cioè di curva nello spazio che non è contenuta
in nessun piano, è ad es. la seguente elica che si scrive in forma parametrica come:
x = a cos t,
y = a sin t,
z = bt,
t ∈ R.
Tale curva ha la forma di una molla: infatti la sua proiezione sul piano XY è un cerchio di
centro l’origine e raggio a, mentre la variabile z, che esprime la quota del punto che corre
sulla curva, cresce proporzionalmente a t.
1.4. Successioni
Una funzione f : N 7→ R, cioè dall’insieme dei numeri naturali ai reali, viene detta successio-
ne. È evidente che potremmo denotarle con il simbolo f (n) come si fa per qualsiasi funzione,
però per ragiono di comodità e di uso si preferisce indicarle con il simbolo fn , cioè indicando
l’argomento in un indice. La successione nel suo insieme, pensata come una funzione, viene
indicata in genere con il simbolo {cn }n∈N , leggasi “l’insieme dei cn al variare di n in N”, o
brevemente {cn }. Di nuovo, usiamo la lettera n per caso, potremmo usare qualsiasi altra
lettera purché ci si metta d’accordo che rappresenta un intero (in genere ma certamente non
sempre si usano le lettere tra i e n – le iniziali di “intero” e “numero” – per indicare i numeri
interi).
Non vi è nulla di speciale, in teoria, in una funzione definita sui naturali invece che sui reali;
in pratica, però, le successioni giocano un ruolo importante per cui si preferisce dargli un nome
(successioni) ed una notazione loro. Inoltre, potremmo considerare anche funzioni f : Z 7→ R; per
tali oggetti, che potremmo definire per ovvie ragioni successioni bilatere, la teoria non differisce
granché da quella delle successioni normali per cui non le menzioneremo oltre.
Le successioni sono funzioni definite su un insieme totalmente ordinato, per cui le definizioni
di crescenza, decrescenza, crescenza e decrescenza stretta, monotonia etc. si applicano alla
66
Alberto Berretti Analisi Matematica I
lettera. Ovviamente non ha senso parlare di funzione inversa di una successione, ed anche
la composizione di successioni in genere non ha senso (perché le successioni sono in genere
a valori in R, non in N, quindi comporne due non ha senso).
La cosa che piú si avvicina al concetto di funzione composta è la seguente. Se {kn } è una
successione strettamente crescente a valori in N, una sottosuccessione di una successione
data {an } è la successione {akn }, cioè la successione ottenuta prendendo, dalla successione {an },
prima il k1 -esimo elemento, poi il k2 -esimo elemento, poi il k3 -esimo, e cosí via.
Possiamo parlare di successioni positive o negative esattamente come per le funzioni. In
caso di successioni bilatere, potremmo persino parlare di successioni pari o dispari. Infine, ha senso
anche parlare di successioni periodiche, dove però il periodo deve essere un numero intero.
Lavorando con le successioni, capiterà spesso di voler applicare una operazione elementare
perlomeno ad una parte della successione, ad es. vogliamo poter scrivere in modo semplice
espressioni tipo “la somma dei primi 100 elementi di una successione”, o “il prodotto degli
elementi dal quindo al diciannovesimo di una successione” e cose an analoghe; ovviamente
potremmo usare le notazioni “con i puntini” tipo le seguenti:
67
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Infatti k varia da 1 a 100 dentro la sommatoria, per cui fuori non vuol dire nulla.
Per chi avesse un minimo di familiarità con qualche linguaggio di programmazione, il simbolo di
sommatoria ha una certa relazione logica con il for del linguaggio C e con il DO del FORTRAN.
Ovviamente l’operazione che viene fatta in un simbolo di sommatoria è sempre una
somma, per cui le ordinarie proprietà della somma continuano a valere. Ad es. possiamo
portare fattori comuni fuori dal simbolo di sommatoria applicando la proprietà distributiva
della moltiplicazione (o della divisione) rispetto alla somma; ad es.:
m m m m
X X X a l 1X
3a j = 3 ak oppure = a j,
b b
j=1 k=1 l=1 j=1
ma non:
m
X m
X
kak = k ak ← Non ha senso!
k=1 k=1
(si osservi che a volte abbiamo cambiato volutamente il simbolo utilizzato per l’indice di
sommatoria per rendere evidente come questo sia inessenziale; in pratica non si fa per
evitare di confondere le idee a chi legge la formula).
Per convenzione, la sommatoria vuota vale 0. Ad es.:
N
X
ak
k=1
68
Alberto Berretti Analisi Matematica I
in quanto ogni fattore nel prodotto contiene un fattore 2, ed avendo m fattori nella produttoria
(l varia da 1 a m!) possiamo mettere in evidenza un fattore 2m .
Per convenzione, la produttoria vuota vale 1 (perché mentre 0 è l’elemento neutro della
somma, l’elemento neutro del prodotto è 1).
Introduciamo ora alcune successioni particolari, che è utile conoscere per il loro frequente
utilizzo nel seguito.
Successioni lineari
Una successione lineare, detta anche progressione aritmetica, è una successione della forma:
an = pn + q, p, q ∈ R. (1.84)
cioè la somma dei primi N interi. Per farlo, osserviamo che possiamo rappresentare la somma
di tali numeri, rappresentando l’intero j con j palline, arrangiandoli a triangolo, come ad es.
nel modo seguente per rappresentare la somma degli interi da 1 a 5:
69
Alberto Berretti Analisi Matematica I
A questo punto è chiaro che il doppio di tale somma può essere rappresentata nel modo
seguente:
e cioè in forma di rettangolo di base N e altezza N + 1 (nel caso preso ad esempio, di base 5 e
di altezza 6). Per cui il numero di palline cercato sarà N(N + 1)/2, cioè la metà dell’area del
rettangolo (15 = (5 · 6)/2 nell’esempio considerato). Questa formula fu trovata dal matematico
tedesco Carl Gauss (1777-1855) quando a sette anni gli fu assegnato per punizione dal maestro di
calcolare la somma di tutti gli interi da 1 a 100.
Non è difficile, con un po’ di fantasia, capire come trovare la somma della potenza k-esima dei primi
N interi. Ovviamente il metodo inventato dal giovane Gauss non funziona. Però possiamo osservare
che la somma delle potenze 0-esime dei primi N interi, cioè la somma di N volte 1, è N, cioè una espressione
lineare – di grado 1 – in N, mentre la somma delle potenze prime dei primi N interi, che abbiamo appena
calcolato, è pari a (N2 + N)/2, cioè un polinomio di grado 2 in N. È facile congetturare che la somma
delle potenze k-esime dei primi N interi sia dunque un polinomio nella variabile intera N di grado
k + 1. Ad es. congetturiamo che la somma dei quadrati dei primi N interi sia:
N
X
j2 = a + bN + cN2 + dN3 .
j=1
70
Alberto Berretti Analisi Matematica I
1 1 1
a = 0, b= , c= , d= ,
6 2 3
e quindi la somma dei quadrati dei primi N interi sarebbe:
N
X 2N3 + 3N2 + N
j2 . (1.85)
6
j=1
Si può controllare a mano qualche altro caso e verificare che effettivamente la formula sembra essere
quella giusta: ma non è ancora stata dimostrata! Una dimostrazione – ora che siamo sostanzialmente
convinti che la formula trovata è quella giusta – può però facilmente essere ottenuta per induzione.
Infatti, Si verifica immediatamente che:
• Assumento che la formula sia vera per il valore N, allora è immediato verificare che vale anche
per il valore N + 1:
Progressione geometrica
viene detta progressione geometrica. È facile calcolare la somma dei termini con n che varia
da 0 ad N (i primi N + 1) di una progressione geometrica (ed è evidente che a tale scopo
71
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Ne segue:
SN+1 = SN + rN+1 = rsN + 1,
(1 − r)SN = 1 − rN+1 ,
da cui:
1 − rN+1
SN = , (1.87)
1−r
che è peraltro una regola ben nota di fattorizzazione dei polinomi.
La successione armonica
1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1
1+ + + + + + + + + + + + + + . (1.89)
2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15
Possiamo raggruppare i termini della somma in blocchi di lunghezza crescente, pari alle
successive potenze di 2 (prima un blocco loungo 1, poi un blocco lungo 2, poi un blocco
lungo 4, etc.); ad es. nel caso di c15 abbiamo quattro blocchi lunghi 1, 2, 4 e 8:
1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1
1 + + + + + + + + + + + + + + ; (1.90)
|{z} 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15
1
|{z} | {z } | {z }
>2
> 12 > 12 > 21
72
Alberto Berretti Analisi Matematica I
è dunque evidente che ad es. c15 > 4·(1/2) = 2, ma se la logica che soggiace al raggruppamento
dei termini nella somma è chiara, è evidente che:
1
c2K −1 > K · , (1.91)
2
e quindi la successione è illimitata (basta prendere K sufficientemente grande). Nota bene:
abbiamo dimostrato che i termini della forma c2K −1 sono illimitati; ma se una successione
possiede una sottosuccessione illimitata, è evidente che è anch’essa illimitata. Ripetiamo: se
la successione cn è limitata, vuol dire che:
per qualche L > 0; ma se la successione contiene una sottosuccessione illimitata, ciò vuol dire
che su alcuni elementi la stima nella (1.92) è violata, e ciò è sufficiente per dire che la (1.92) è
falsa.
La disuguaglianza aritmetico-geometrica
x j xk
x′j = γ, x′k = .
γ
73
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Chiaramente la media geometrica γ′ degli x cosí modificati non cambia, mentre cambia la
media aritmetica; infatti, poiché:
(x j − γ)(xk − γ)
x′j + x′k − x j − xk = ≤ 0,
γ
γ = γ′ = γ′′ , µ ≥ µ′ ≥ µ′′ .
Ripetendo l’argomento al massimo n − 1 volte, ci riconduciamo al caso in cui tutti gli x sono
oramai uguali, ed uguali precisamente a γ, per cui le loro medie aritmetiche e geometriche
coincidono (con γ) ed inoltre abbiamo ottenuto:
da cui la tesi.
1.4.3. Il fattoriale
n! n! n! 1
= n, = n(n − 1), = ,
(n − 1)! (n − 2)! (n + 1)! n + 1
e cosí via.
74
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Il doppio fattoriale
e cioè per n pari, il prodotto di tutti i pari minori o uguali ad n, e per n dispari, il prodotto di tutti i
dispari minori o uguali ad n.
Ovviamente:
L’unica non banale è la (1.100d), che comunque può essere verificata mediante un calcolo
diretto:
! !
n−1 n−1 (n − 1)! (n − 1)!
+ = + =
k−1 k ((k − 1)!(n − k)! k!(n − k − 1)!
!
(n − 1)!k + (n − 1)!(n − k) n(n − 1)! n
= = = .
k!(n − k)! k!(n − k)! k
75
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Tale formula può facilmente essere dimostrata per induzione utilizzando la (1.100d). Infatti,
innanzitutto la (1.101) è banalmente vera per n = 1: infatti in tal caso tale formula ci dice che
(a + b)1 = a + b, il che è ovvio. Quindi, è sufficiente dimostrare che, asssumendola vera nel caso
n − 1, è vera per n per averne dimostrata la validità per ogni n. Abbiamo dunque:
n−1 !
X n − 1
(a + b)n = (a + b)n−1 (a + b) = ak bn−1−k (a + b) =
k
k=0
n−1 ! n−1 !
X n − 1 k+1 n−1−k X n − 1 k n−k
= a b + ab =
k k
k=0 k=0
n−2 ! n−1 !
n
X n − 1 k+1 n−1−k X n − 1 k n−k
=a + a b + a b + bn =
k k
k=0 k=1
n−1 ! n−1 !
n
X n − 1 k n−k X n − 1 k n−k
=a + ab + a b + bn =
k−1 k
k=1 k=1
n−1 ! !!
n
X n−1 n − 1 k n−k
=a + + a b + bn =
k−1 k
k=1
n−1 ! n !
n
X n k n−k n
X n k n−k
=a + a b +b = ab ,
k k
k=1 k=0
(a + b)n = (a + b) . . . (a + b),
| {z }
n volte
76
Alberto Berretti Analisi Matematica I
e facendo uso delle proprietà commutativa ed associativa della moltiplicazione, otteniamo, svolgendo
i prodotti, esattamente 2n addendi: esattamente un addendo sarà ottenuto prendendo ogni volta a e
quindi sarà pari ad an proprio come esattamente un addendo sarà ottenuto prendendo ogni volta b
e quindi sarà pari a bn , esattamente n addendi saranno ottenuti prendendo un fattore b da ciascuno
degli n termini (a + b) da moltiplicare e un fattore a dagli altri n − 1 e quindi saranno pari a an−1 b e cosí
via. Si capisce dunque che il coefficiente binomiale nk non è altro che il numero di modi in cui posso
scegliere k oggetti tra n dati (infatti ciascun addendo ottenuto moltiplicando n volte il fattore a + b è
ottenuto scegliendo b k volte e a le altre n − k volte).
Ora, dato un insieme di n elementi, un sottoinsieme di k elementi è dato ovviamente da una scelta
qualsiasi di k suoi elementi, che per quanto detto posso fare in nk modi: pertanto un insieme di n
elementi ha esattamente nk sottoinsiemi di k elementi, e per la (1.102) il numero di sottoinsiemi di un
insieme di n elementi è 2n .
Sono definite moltissime altre funzioni aritmetiche, spesso apparentemente interessanti solo per chi
si occupa di argomenti astratte come l’algebra e la teoria dei numeri. In realtà, man mano che l’algebra
e la teoria dei numeri sono diventate discipline di interesse pratico a causa delle loro applicazioni
in crittografia, molte funzioni della teoria dei numeri hanno acquistato interesse pratico. Si rimanda
comunque ad un corso di algebra o di matematica discreta per ogni approfondimento.
77
2. I numeri complessi
Introduciamo ora una importante estensione dei numeri reali, che ci permetterà ad es. di
calcolare le radici quadrate – ed in generale di esponente pari – di qualsiasi numero, anche
quelli negativi, e piú in generale che permetterà di trovare le radici di qualsiasi equazione
algebrica. In altri termini, mentre se restiamo nei numeri reali esistono delle equazioni
algebriche che non hanno soluzione (ad es. x2 + 1 = 0), nei complessi ogni equazione algebrica
ha almeno una soluzione. I numeri complessi sono inoltre molto utili per rappresentare le
rotazioni nel piano, e come tali sono importanti in tutte quelle applicazioni in cui occorre
rappresentare matematicamente fenomeni ondulatori in cui il concetto di “fase” gioca un
ruolo importante.
Definiamo ora i numeri complessi come punti nel piano sui quali le usuali operazioni
algebriche sono definite in modo opportuno.
Si osservi che nei corsi di matematica elementari (ad es. al liceo scientifico o all’istituto
tecnico) è abitudine introdurre i numeri complessi dicendo “la radice di −1 che prima non
esisteva ora è i”. Questo però è un modo puramente intuitivo di procedere che non soddisfa
le esigenze di rigore anche piú elementari. Perché allora non dire “1/0 prima non esisteva ed
ora è <inserire simbolo a caso>”? Ogni oggetto matematico deve essere costruito a partire
da qualcosa di preesistente per poter essere definito.
Ci si può chiedere a che possa servire una tale definizione. La risposta a questa domanda è nei
paragrafi seguenti, in cui definiamo le principali operazioni algebriche sui numeri complessi
ed introduciamo una notazione speciale che ne rende la manipolazione particolarmente
agevole ed intuitiva.
78
Alberto Berretti Analisi Matematica I
L’insieme dei numeri complessi (e cioè l’insieme R2 delle coppie ordinate di numeri reali
dotato delle operazioni che andiamo a definire nel seguito) viene usualmente denotato con
il simbolo C.
Definiamo la somma di due numeri complessi z1 = (x1 , y1 ), z2 = (x2 , y2 ) come la loro somma
vettoriale:
z1 + z2 = (x1 + x2 , y1 + y2 ). (2.2)
È evidente che la somma cosí definita soddisfa tutte le ordinarie proprietà della somma, e
cioè è commutativa ed associativa, ed il numero complesso (0, 0) ne è l’elemento neutro.
L’opposto di z = (x, y) è definito nel modo ovvio come:
z1 − z2 = (x1 − x2 , y1 − y2 ). (2.4)
z+w
z w
79
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Tale operazione soddisfa tutto quello che ci aspettiamo da una moltiplicazione, eccetto che re-
sta una moltiplicazione tra reali e complessi, mentre noi vogliamo definire una operazione di
moltiplicazione fra complessi, e che inoltre soddisfi tutte le proprietà della ordinaria moltiplicazione
fra numeri reali.
È facile rendersi conto che la cosa apparentemente ovvia, e cioè la moltiplicazione compo-
nente per componente, non è una buona idea; infatti non sarebbe difficile verificare che non
sarebbero mantenute tutte le ordinarie proprietà della moltiplicazione, ed inoltre sarebbe
una definizione “stupida”, in quanto a questo punto non si capisce a cosa servirebbero le due
componenti di un numero complesso se esse non si “mescolano” mai mediante una qualche
operazione importante.
La corretta definizione di moltiplicazione fra numeri complessi è apparentemente curiosa
ed originale, e ci convinceremo che è quella buona solo piú avanti, quando ne avremo
compreso tutte le proprietà. Ponendo dunque z1 = (x1 , y1 ), z2 = (x2 , y2 ), definiamo:
z1 · z2 = (x1 x2 − y1 y2 , x1 y2 + x2 y1 ). (2.6)
(l’analoga proprietà per la somma è ovvia). Ciò vuol dire che possiamo identificare i numeri
reali con i numeri complessi della forma (x, 0), e le operazioni sui complessi possono essere
interpretate come generalizazione delle corrispondenti operazioni sui reali.
80
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Il numero i
Cosa sono “gli altri” numeri, cioè quelli che non corrispondono ai reali? Che proprietà
hanno? Cominciamo col calcolare il seguente semplice prodotto:
In altri termini, (0, 1) è quel numero complesso che, moltiplicato per se stesso, dà il reale
−1 (ovvero il numero complesso che corrisponde al reale −1: ma d’ora in poi identificheremo
i reali con i complessi che gli corrispondono). Dunque nei complessi, il quadrato di un numero può
essere un reale negativo e quindi l’introduzione dei numeri complessi ci permette di calcolare
le radici quadrate dei numeri negativi. In realtà i numeri complessi fanno molto di piú, e cioè nei
complessi è vero che qualsiasi equazione algebrica ammette almeno una soluzione, cosa che non è
vera nei reali, e che non è totalmente banale da dimostrare; si dice pertanto che i complessi sono un
completamento algebrico dei reali.
A questo punto è estremamente conveniente utilizzare la seguente notazione: scriviamo
direttamente tutti i numeri complessi della forma (x, 0) come il numero reale x corrispondente,
e denotiamo il numero (0, 1) con il simbolo i; numero complesso (x, y) può allora essere scritto
come x + iy, e tutte le proprietà delle operazioni elementari sui numeri complessi si ricavano dalle
corrispondenti proprietà delle operazioni elementari sui reali e dalla proprietà (2.7), cioè, con la
nuova notazione, i2 = −1. Si osservi che, com’è ovvio, anche (−i)2 = −1.
1. (1 + i)(1 − i),
√ √
2. ( 2 + i)( 2 − i),
√ √
3. (2 + 3i)( 3 − 2i),
Non vi è nulla di speciale nella definizione di potenza di esponente intero positivo di un numero
complesso: semplicemente si tratta di una moltiplicazione ripetuta, come per i numeri reali.
• (1 + i)2 ,
81
Alberto Berretti Analisi Matematica I
• (1 + i)4 ,
√
• (1 + 2i)3 ,
e quindi non è altro che la distanza del punto che rappresenta il numero complesso z nel
piano complesso dall’origine. Si osservi che, se z è reale, allora la definizione di modulo data
√
dalla (2.8) equivale a quella data precedentemente per i numeri reali, in quanto x2 = |x|. Si
osservi inoltre che:
zz = |z|2 . (2.9)
|z| ≥ 0, (2.10a)
|z| = 0 ⇒ z = 0, (2.10b)
|z1 · z2 | = |z1 | · |z2 |, (2.10c)
|z1 + z2 | ≤ |z1 | + |z2 |. (2.10d)
La (2.10a) è ovvia. La (2.10b) è anche essa ovvia in quanto se |z| = 0 allora la somma dei
quadrati delle parti reali ed immaginarie di z è nulla, e ciò è possibile solo se sia la sua parte
reale che la sua parte immaginaria sono nulle. La (2.10c) deriva da un calcolo diretto; infatti
ponendo z1 = x1 + iy1 e z2 = x2 + iy2 abbiamo:
q q q
(x1 x2 − y1 y2 ) + (x1 y2 + x2 y1 ) = x1 + y1 x22 + y22 ,
2 2 2 2
82
Alberto Berretti Analisi Matematica I
e svolgendo i quadrati otteniamo un’identità. Ovviamente la (2.10c) si può iterare per cui
abbiamo:
|z1 · z2 · . . . · zn | = |z1 | · |z2 | · . . . · |zn |.
Infine definiamo l’argomento di un numero complesso z, indicato con arg z, come l’angolo
tra la semiretta congiungente l’origine con il punto che rappresenta z sul piano complesso
ed il semiasse delle x positive. In altri termini, vale la formula:
arg z = arctan Im z
se Re z > 0,
Re z
arg x = arctan Im z + π se Re z < 0,
Re z
(2.11)
arg z = π
se Re z = 0, Im z > 0,
2
arg z = − π
se Re z = 0, Im z < 0.
2
83
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Im z z
ÈzÈ
0 arg z x
Re z
Figura 2.2.: Parte reale, parte immaginaria, modulo ed argomento di un numero complesso
La divisione di un numero complesso per un numero reale è calcolata nel modo naturale:
z Re z Im z
λ ∈ R, z ∈ C : = +i , (2.12)
λ λ λ
ovvero dividiamo parte reale e parte immaginaria di z separatamente per il reale λ. Ma come
procedere se dobbiamo dividere un complesso per un altro complesso? Ovviamente non
siamo liberi di prendere una definizione qualsiasi, perché la divisione deve essere l’opera-
zione inversa della moltiplicazione che è già stata definita. Quindi dobbiamo usare in modo
intelligente quanto sappiamo dell’algebra dei numeri complessi. Approfittando della (2.12),
ci riconduciamo a tale caso nel modo seguente:
z1 z1 z2 z1 z2
= = , (2.13)
z2 z2 z2 |z2 |2
84
Alberto Berretti Analisi Matematica I
È chiaro che il modulo e l’argomento di un numero complesso sono le coordinate polari del
punto che lo rappresenta nel piano complesso. L’interpretazione geometrica che ne consegue
dei numeri complessi prende tradizionalmente il nome di diagramma di Argand (dal nome
di Jean Robert Argand, 1768-1822, ragioniere svizzero e matematico dilettante, che la introdusse).
Ponendo dunque:
ρ = |z|,
(2.14)
ϕ = arg z,
85
Alberto Berretti Analisi Matematica I
abbiamo che (ρ, ϕ) sono le coordinate polari del punto che rappresenta il numero complesso
z sul piano complesso. Dunque:
Re z = ρ cos ϕ,
(2.15)
Im z = ρ sin ϕ.
Allora:
da cui ricaviamo che 1. il modulo del prodotto è il prodotto dei moduli (cosa già vista in
precedenza), 2. l’argomento del prodotto è la somma degli argomenti. Quest’ultimo è un fatto
importante per cui lo riproponiamo esplicitamente:
Ciò vuol dire che la moltiplicazione per un numero complesso z di modulo ρ = |z| ed argo-
mento ϕ = arg z equivale ad una rotazione di un angolo ϕ, e ad un riscalamento omogeneo
di un fattore ρ (una dilatazione se ρ > 1, una contrazione se ρ < 1). In particolare, i numeri
complessi di modulo 1 (e quindi della forma cos ϕ + i sin ϕ) corrispondono a rotazioni (di un
angolo ϕ) intorno all’origine del piano complesso.
Applichiamo ora quanto detto alle potenze di z = ρ(cos ϕ + i sin ϕ). Dalla (2.18), ponendo
z1 = z2 = z, abbiamo:
z2 = ρ2 (cos 2ϕ + i sin 2ϕ); (2.20)
86
Alberto Berretti Analisi Matematica I
è altresí evidente che possiamo continuare ad iterare l’applicazione della (2.18), ottenendo
dunque la formula generale per la potenza n-esima di un numero complesso in forma polare:
Le formule (2.18)-(2.21) prendono il nome di formule di De Moivre, dal nome del matematico
francese Abraham De Moivre (1667-1754) che le introdusse.
Tali formule sono intimamente legate alla definizione di prodotto di due numeri complessi (2.6).
Infatti, la somiglianza fra la (2.6) e le formule di somma di coseno e seno dovrebbe saltare agli occhi.
L’importante significato geometrico della moltiplicazione tra numeri complessi giustifica la scelta
della definizione della moltiplicazione tra numeri complessi che è stata fatta.
(1 + 2i)2 − (1 − i)3
1. ,
(3 + 2i)3 − (2 + i)2
√
2. (−1 + 3i)60 ,
3. (2 − 2i)7 ,
√
4. ( 3 − 3i)6 ,
√ !40
1 + 3i
5. ,
1−i
1−i 8
6. ,
1+i
(1 + i)9
7. ,
(1 − i)7
(1 + i)(3 − 3i)
8. √ √ .
( 2 + 6i)5
87
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Per capire meglio i concetti, cominciamo con il caso, facile, delle radici quadrate.
Sia z = ρ(cos ϕ + i sin ϕ) e w = σ(cos θ + i sin θ), e ricordiamoci che deve essere w2 = z.
Quindi, per De Moivre:
2
σ = ρ,
(2.22)
2θ = ϕ.
Ma ricordiamoci che nella prima delle (2.22) sia σ che ρ sono ≥ 0, e soprattutto che θ, ϕ
sono angoli, quindi l’identità (2.22) vale a meno di un multiplo qualsiasi di 2π; in altri termini, la
seconda delle (2.22) va interpretata nel modo seguente:
∃k ∈ Z : 2θ = ϕ + 2kπ; (2.23)
qualsiasi θ che soddisfa la (2.23) va bene. D’altra parte, dalla (2.23) si ricava immediatamente:
ϕ
θ= + kϕ, k ∈ Z. (2.24)
2
Ora, è cruciale osservare quanto segue. Mentre tutti gli angoli ϕ = 2kπ sono equivalenti (cioè
corrispondono al medesimo punto sul piano complesso), le loro metà non lo sono piú: infatti gli
angoli ϕ/2 + kπ differiscono fra di loro per multipli di π, non di 2π! Quindi quando trattasi di
multipli pari abbiamo angoli equivalenti, mentre quando trattasi di multipli dispari abbiamo
angoli opposti (cioè che differiscono di π).
Quindi a seconda che in (2.24) scegliamo un multiplo pari o dispari di π abbiamo due valori
della radice quadrata di z:
√ ϕ ϕ
cos sin per k pari,
w 1 = ρ 2 + i 2
(2.25)
√
w2 = ρ cos + π + i sin ϕ + π = − √ρ cos ϕ + i sin ϕ
ϕ
2 2 2 2 per k dispari,
dove si è fatto uso delle identità trigonometriche per gli angoli che differiscono di π nella
seconda. Quindi ogni numero complesso z , 0 ha due radici distinte ed opposte (che ovviamente
per lo zero sono la medesima radice, e cioè zero).
√
A rigore, la radice complessa non è una funzione. Infatti il simbolo z indica entrambe le
radici di z, e quindi non essendo univoco non può essere una funzione. Talvolta nell’analisi
88
Alberto Berretti Analisi Matematica I
complessa si introduce la nozione di funzione a piú valori per indicare tali casi: ma di questo
parleremo molto piú avanti. Inoltre, al contrario che nel caso reale, non è possibile sceglierne
una in modo non eccessivamente arbitrario per la ragione seguente.
√
È opportuno spendere qualche parola sul significato del simbolo . Se sotto radice appare
un numero reale, allora intendiamo la usuale radice quadrata reale di un numero reale,
che esiste solo per valori non negativi del suo argomento e che per convenzione si assume
√
positiva (utilizzando la esplicita menzione del segno − qualora si voglia indicare che serve
la radice negativa). Se invece sotto radice appare un numero complesso, si intende la radice
complessa.
per cui:
√ √
| 1| = 1, arg 1 = kπ,
per cui:
√ √ π
| −1| = 1, arg −1 = + kπ,
2
e quindi otteniamo +i o −i a seconda che k sia pari o dispari.
√ √
• i = ±(1 + i)/ 2. Infatti:
π
|i| = 1, arg i = (+2kπ),
2
per cui:
√ √ π
| i| = 1, arg i = + kπ,
4
√
e cioè il risultato indicato tenendo conto che sin π/4 = cos π/4 = 1/ 2.
√ √
• −i = ±(−1 + i)/ 2. (Perché. . . ?)
Nella figura 2.3 abbiamo disegnato il numero complesso 2 + 3i e le sue due radici quadrate.
Si osservino gli angoli che corrispondono agli argomenti delle radici e del radicando.
89
Alberto Berretti Analisi Matematica I
-3 -2 -1 1 2 3
-1
-2
-3
Il caso generale
Sia ora z = ρ(cos ϕ + i sin ϕ) e w = σ(cos θ + i sin θ), e ricordiamoci che deve essere wn = z.
Quindi, per De Moivre:
n
σ = ρ,
(2.26)
nθ = ϕ.
Di nuovo, la seconda delle (2.26) vale a meno di multipli di 2π, ovvero va interpretata come:
∃k ∈ Z : nθ = ϕ + 2kπ; (2.27)
qualsiasi θ che soddisfa la (2.27) va bene. D’altra parte, dalla (2.27) si ricava immediatamente:
ϕ 2kϕ
θ= + , k ∈ Z. (2.28)
n n
Quindi, quando k varia fra 0 ed n − 1 otteniamo n angoli distinti:
ϕ ϕ 2π ϕ 2π · (n − 1)
θ= , θ= + , ..., θ = + , (2.29)
n n n n n
mentre il successivo valore:
ϕ 2π · n ϕ
θ=
+ = + 2π (2.30)
n n n
è lo stesso angolo che ϕ/n, cioè il caso n = 0, e così via. Esistono quindi n radici n-esime,
che differiscono da loro per una fase pari a 2π/n, cioè per un fattore cos 2π/n + i sin 2π/n.
Si osservi che il caso n = 2 dà un fattore cos 2π/2 + i sin 2π/2 = −1, cioè due valori opposti,
come trovato in precedenza e come ben noto dalle scuole inferiori.
90
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Le radici di 1 e −1
Come esempio, determiniamo le radici n-esime di 1 e di −1. Cominciamo dal primo caso.
Abbiamo:
1 = 1 · (cos 0 + i sin 0)1, (2.31)
cioè - banalmente! - 1 ha modulo 1 ed argomento 0. Quindi la sua radice n-esima deve avere
modulo 1. Inoltre la fase deve essere data da:
2kπ
θ= , k = Z. (2.32)
n
Al variare di k tra 0 e n − 1 abbiamo gli n valori della radice n-esima:
√
n 2kπ 2kπ
1 = cos + i sin , k = 0, . . . , n − 1. (2.33)
n n
Tali valori sono disposti sul piano complesso a formare i vertici di un n-agono regolare,
iscritto al cerchio unitario, un cui vertice è nel punto che corrisponde al numero complesso
1 (perchè 1 è sempre radice n-esima di 1, in quanto 1n = 1 - è il caso k = 0 nella (2.33)).
Ad esempio, le tre radici cubice dell’unità sono date da:
√ √
2π 2π −1 + i 3 2π 2π −1 − i 3
1, cos + i sin = , cos − i sin = (2.34)
3 3 2 3 3 2
(rispettivamente i casi k = 0, 1, 2 con n = 3 nella (2.33)); le quattro radici quarte dell’unità
sono date da:
π π 3π 3π
1, cos + i sin = i, cos π + i sin π = −1, cos + i sin = −i. (2.35)
2 2 2 2
In figura 2.4 abbiamo disegnato le radici quarte e quinte di 1.
Nel caso di −1, abbiamo invece:
91
Alberto Berretti Analisi Matematica I
1.0 1.0
0.5 0.5
-0.5 -0.5
-1.0 -1.0
π π 1+i 3π 3π −1 + i
cos + i sin = √ , cos + i sin = √ ,
4 4 2 4 4 2
5π 5π −1 − i 7π 7π 1 − i
cos + i sin = √ , cos + i sin = √ . (2.39)
4 4 2 4 4 2
In figura 2.5 abbiamo disegnato le radici quarte e quinte di −1.
Esercizio 9. Disegnare sul piano complesso le radici terze e quarte di 1 e −1 che abbiamo
appena calcolato. Calcolare le radici seste di 1 e −1 e disegnarle sul piano complesso.
92
Alberto Berretti Analisi Matematica I
1.0 1.0
0.5 0.5
-0.5 -0.5
-1.0 -1.0
L’introduzione dei numeri complessi permette non solo di calcolare radici che nell’ambito
dei numeri reali non esistevano, ma permette di affermare l’importante teorema seguente.
Teorema 4 (Teorema fondamentale dell’algebra). Ogni equazione algebrica possiede almeno una
soluzione in C.
Sia n il grado del polinomio P(z). utilizzando un’elementare principio di fattorizzazione dei
polinomi – noto dalle scuole superiori come “regola di Ruffini” (Paolo Ruffini, 1765-1822) –
possiamo dunque dividere P(z) per il binomio z − z1 senza resto ed ottenere dunque:
93
Alberto Berretti Analisi Matematica I
dove Q(z) è un polinomio di grado n − 1. Questo a sua volta avrà una soluzione z2 che
ovviamente per la (2.42) è anche soluzione di P(z) = 0; Q(z) quindi a sua volta sarà divisibile
per z−z2 generando un nuovo polinomio di grado n−2 a cui applichiamo di nuovo il teorema
fondamentale dell’algebra, e cosí via finché possiamo dividere, cioè n volte. Otteniamo cosí
che una equazione algebrica di grado n possiede n soluzioni, che però ovviamente possono
essere in tutto o in parte coincidenti.
Non possiamo dire altro per ora sulle soluzioni di una equazione algebrica qualsiasi a
coefficienti complessi. Possiamo dire qualcosa di piú nel caso in cui i suoi coefficienti siano
reali. Osserviamo innanzitutto che, se z0 è una soluzione di P(z) = 0, allora il suo complesso
coniugato z0 è una soluzione dell’equazione P(z) = 0, cioè dell’equazione algebrica ottenuta
con il polinomio che ha per coefficienti i complessi coniugati dei corrispondenti coefficienti
di P:
n
X n
X
P(z) = a j z j ⇒ P(z) = a jz j,
j=0 j=0 (2.43)
P(z0 ) = 0 ⇒ 0 = P(z0 ) = P(z0 );
tenendo conto che il complesso coniugato della somma è la somma dei complessi coniugati,
che il complesso coniugato del prodotto è il prodotto dei complessi coniugati e che il com-
plesso coniugato della potenza è la potenza del complesso coniugato, si tratta di un fatto
assolutamente ovvio. Ora, se il polinomio P(z) ha coefficienti reali, allora P = P e quindi
abbiamo che se z0 è la soluzione di una equazione algebrica a coefficienti reali, allora anche
z0 è soluzione della medesima equazione. I casi possibili sono allora due: (i) z0 è reale, e
allora z0 = z0 e non abbiamo in realtà un’altra soluzione, (ii) z0 non è reale, ed allora abbiamo
un’altra soluzione dell’equazione, complessa coniugata della prima.
In altri termini, le soluzioni di una equazione algebrica a coefficienti reali sono o reali, o coppie di
soluzioni complesse coniugate.
ax2 + bx + c = 0. (2.44)
Come è ben noto fin dall’inizio delle scuole superiori, le sue soluzioni sono date da:
√
−b ± b2 − 4ac
x1,2 = . (2.45)
2a
Infatti, “completando il quadrato” otteniamo:
! !2
2 b b2 b2 b b2 − 4ac
a x +2· ·x+ 2 +c− =a x+ − = 0,
2a 4a 4a 2a 4a
94
Alberto Berretti Analisi Matematica I
y3 + py + q = 0 (2.48)
senza perdere in generalità, perché a detto caso ci si può sempre ricondurre con semplici
sostituzioni.
La cubica (2.48) può essere risolta in modo assai semplice riconducendola ad un sistema
simmetrico di due equazioni in due variabili nel modo seguente. Poniamo:
y = u + v, (2.49)
95
Alberto Berretti Analisi Matematica I
ed elevando alla terza potenza la seconda equazione del sistema precedente otteniamo infine
il sistema simmetrico nelle due incognite u3 , v3 :
3 3
u + v = −q,
3 (2.53)
u3 v3 = − p ,
27
che può essere risolto in modo elementare, riconducendolo alla soluzione di una equazione
di secondo grado. Infatti, poiché u3 e v3 devono avere per somma −q e per prodotto −p3 /27,
come è ben noto sono le due radici dell’equazione di secondo grado:
p3
z2 + qz − = 0, (2.54)
27
detta risolvente della cubica (2.48). Risolvendola e prendendo le radici cubiche delle soluzioni
abbiamo quindi:
s r s r
3
q q2 p3 3
q q2 p3
y= u+v = − + + + − − + . (2.55)
2 4 27 2 4 27
Le formule cosí ottenute prendono il nome di formule di Cardano, dal nome del matematico
italiano Girolamo Cardano (1501-1576) che per primo le pubblicò nel 1545, anche se in realtà
sono dovute a Scipione del Ferro (1465-1526), di cui non sono pervenute opere scritte.
Il problema, a parte la discussione del discriminante della risolvente q2 /4 + p3 /27, è il
fatto che ora sappiamo che una radice cubica ha tre valori possibili, e che quindi nella (2.55)
scegliendo in tutti i modi possibili i tre valori abbiamo nove soluzioni, un po’ troppe per una
equazione di terzo grado! Assumendo ora che il caso che ci interessa è quello dell’equazione a
coefficienti reali, discutiamo dunque il segno del discriminante q2 /4 + p3 /27 e, tenendo conto
della seconda delle (2.52), vediamo come dobbiamo scegliere le radici cubiche in modo tale
che u · v = −p/3 sia reale.
√ √
Sia ε = cos(2π/3) + i sin(2π/3) = (−1 + i 3)/2, cosí che 1, ε e ε2 = (−1 − i 3)/2 sono le tre
radici cubiche di 1. Osserviamo che ε2 = ε. Consideriamo i tre casi possibili.
[1] Il discriminante è positivo: q2 /4 + p3 /27 > 0. Allora otteniamo per u3 e v3 due valori reali
e distinti, e quindi:
r q
3
q2 p3
q
, u = u1 = εu0 , u = u2 = ε2 u0 ,
u = u 0 = − 2 + 4 + 27
(2.56)
r
q
3 2 3
v = v0 = − q − q + p , v = v1 = εv0 , v = v2 = ε2 v0 .
2 4 27
96
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Otteniamo valori reali di uv (anzi, lo stesso valore reale di uv, e cioè −p/3!) solo se combiniamo
u e v in uno dei tre modi seguenti: u0 v0 , u1 v2 e u2 v1 (dove ovviamente teniamo conto che
ε3 = 1!). Quindi le tre soluzioni dell’equazione di terzo grado sono:
y1 = u0 + v0 ,
(2.57)
y2 = u1 + v2 ,
y3 = u2 + v1 .
[3] Il discriminante è negativo: q2 /4+p3 /27 < 0. In tal caso u3 , v3 sono due numeri complessi,
coniugati fra loro. Anche le loro radici cubiche, dunque, sono numeri complessi coniugati fra loro:
2
u = u0 = α + iβ, u = u1 = εu0 , u = u2 = ε u0 ,
(2.58)
v = v0 = α − iβ, v = v1 = εv0 , v = v2 = ε2 v0 ,
dove α, β sono numeri reali. Di nuovo, gli unici modi in cui possiamo combinarli per ottenere
sempre lo stesso valore reale di uv = −p/3 sono u0 v0 , u1 v2 e u2 v1 (in quanto il prodotto dei due
numeri complessi coniugati è reale e ε3 = 1). Ma come sono le tre soluzioni corrispondenti
y1 , y2 e y3 ? Abbiamo:
y1 = u0 + v0 = 2α ∈ R,
y2 = u1 + v2 = ε(α + iβ) + ε2 (α − iβ) ∈ R, (2.59)
y3 = u2 + v1 = ε2 (α + iβ) + ε(α − iβ) ∈ R,
dove abbiamo utilizzato il fatto che ε2 = ε e che la somma di due numeri complessi coniugati
è reale. Dunque in questo caso le tre soluzioni sono reali e distinte!. Osserviamo che è proprio
nel caso in cui il discriminante è negativo, per cui è impossibile risolvere l’equazione di terzo
grado senza passare per i numeri complessi, che le tre soluzioni sono reali e distinte. Per
questa ragione il caso del discriminante negativo per l’equazione di terzo grado fu detto da Cardano
casus irriducibilis e sostanzialmente portò all’introduzione dei numeri complessi.
97
Alberto Berretti Analisi Matematica I
1. x3 − 4x2 − 22x + 52 = 0,
Nel seguito non faremo praticamente mai uso delle formule di Cardano, in quando ogni
volta che ci capirerà un’equazione di terzo grado, faremo in modo che sia una equazione riso-
lubile in modo “semplice”, riconducendoci ad un’equazione di grado inferiore o calcolando
immediatamente una radice.
Quando si tratta di risolvere un’equazione nel campo complesso, occorre ricordare che
l’uguaglianza tra due numeri complessi equivale a due uguaglianze fra numeri reali, ad es.
la parte reale e la parte immaginaria. Siano dunque L e R due espressioni complesse nella
variabile complessa z = x + iy, dove ovviamente x, y ∈ R. Allora:
L = R ⇔ Re L = Re R, Im L = Im R, L, R ∈ C.
Quindi una equazione nel campo complesso equivale ad un sistema di due equazioni reali
in due incognite reali x e y. Questo modo di procedere però non porta necessariamente alla
soluzione del problema nel modo piú semplice.
In alcuni casi ad es. invece che uguagliare le parti reale ed immaginaria del lato destro
e sinistro dell’equazione conviene uguagliare il modulo dei due lati dell’equazione, e poi
considerare che gli argomenti dei due lati devono essere uguali, a meno di multipli di 2π:
A volte è immediato ricavare l’argomento dell’incognita (ad es. ricavare che l’incognita è
reale, o è immaginaria pura), ed in questo caso il problema si semplifica immediatamente,
perché resta solo da determinare l’argomento.
1. z2 + 4z + 5 = 0,
2. z2 + 2iz + 3 = 0,
3. z2 − 2z + 1 − i = 0,
√
4. z2 − 2z − 3i = 0,
98
Alberto Berretti Analisi Matematica I
√
5. z2 + 2(2 3 + i)z + 7.
In queste equazioni basta usare ovviamente la semplice formula per la soluzione dell’equa-
zione di secondo grado.
1. z3 + 1 = 0,
2. z3 + z2 + z + 1 = 0,
3. z4 − 4z2 + 8 = 0,
4. z4 − 2iz2 − 2 = 0,
2z + 1 4
5. = 1,
2z − 1
6. z5 − 1 = 0,
7. (z + 1)5 − (z − 1)5 = 0,
8. z6 + 27 = 0,
1+i
9. z8 = √ .
3−i
In queste equazioni è sufficiente utilizzare i normali “trucchi” per la soluzione di equazioni
di grado superiore al secondo che vengono utilizzati anche per le equazioni reali (astute
fattorizzazioni, equazioni reciproche, biquadratiche, etc.).
3. z2 − i = |z|2 + Re(z),
4. z2 |z2 | = 16i,
5. z2 |z2 | = −81i,
z2 i
6. 2
= ,
1 + |z| 5
7. z2 (1 + |z2 |) = 2i,
8. z4 = |z2 |2 ,
99
Alberto Berretti Analisi Matematica I
9. z2 + |z|2 = 2iz̄,
Queste equazioni invece non sono rappresentate da espressioni “algebriche”, cioè espressio-
ni che contengono solo le quattro operazioni, potenze e radici; abbiamo infatti moduli, parti
reali ed immaginarie, complessi coniugati. Le equazioni vanno risolte pertanto riconducen-
dosi a parte reale ed immaginaria, a modulo ed argomento e, in alcuni casi, l’argomento
dell’incognita è evidente.
Esercizio 15. Quale funzione riflette i punti del piano complesso rispetto all’asse immagina-
rio?
Noi considereremo solo alcune semplicissime trasformazioni del piano complesso, in quan-
to si tratta di un argomento in realtà abbastanza avanzato e piuttosto profondo che verrà
trattato alla fine dei corsi di analisi.
Le trasformazioni lineari del piano complesso sono quelle date da funzioni del tipo:
f (z) = az + b, a, b ∈ C. (2.60)
È importante osservare che queste non sono le piú generali trasformazioni lineari del piano, ma
solo quelle realizzate mediante operazioni algebriche sui numeri complessi visti come punti
del piano.
100
Alberto Berretti Analisi Matematica I
czζ + dζ = az + b, (2.62)
da cui:
(cζ − a)z = −dζ + b, (2.63)
e quindi:
−dζ + b
z= . (2.64)
cζ − a
Si osservi che se ad = bc allora è impossibile passare dalla (2.63) alla (2.64) perché sparisce ζ
dalla (2.63)!
Tali trasformazioni sono importanti per una quantità di ragioni, tra cui la seguente.
Teorema 5. L’insieme di tutte le rette e di tutti i cerchi nel piano complesso è trasformato nell’insieme
di tutte le rette e di tutti i cerchi sotto l’azione di una trasformazione lineare-frazionaria.
101
Alberto Berretti Analisi Matematica I
In altri termini, data una retta o un cerchio qualsiasi nel piano complesso, se facciamo
agire su di esso una trasformazione lineare frazionaria, otterremo di nuovo o una retta o un
cerchio.
Dimostrazione. Dobbiamo innanzitutto scrivere l’equazione generale della retta e del cerchio
nel piano complesso, cioè usando non le coordinate x, y ma la “coordinata complessa” z.
Una retta nel piano complesso può essere scritta come:
βz + βz + γ = 0, (2.65)
αzz + βz + βz + γ = 0, (2.66)
dove α, γ ∈ R e β ∈ C; basta infatti tenere conto che zz = |z|2 = x2 + y2 . Ora, osserviamo che
la (2.66) è piú generale della (2.65), che altro non è che il caso a = 0 della (2.66). Quindi per
dimostrare l’asserto basta dimostrare che qualsiasi curva sul piano complesso di equazione
(2.66) diventa, dopo l’applicazione di una trasformazione lineare-frazionaria, una curva del
medesimo tipo, con altri coefficienti.
Poniamo allora:
az + b
ζ= , (2.67)
cz + d
la cui inversa è data dalla (2.64). Sostituendo dunque la (2.64) nella (2.66) otteniamo:
! ! !
−dζ + b −dζ + b −dζ + b −dζ + b
αzz + βz + βz + γ = α +β +β +γ=0⇒
cζ − a cζ − a cζ − a cζ − a
⇒ α(−dζ + b)(−dζ + b) + β(−dζ + b)(cζ − a) + β(−dζ + b)(cζ − a) + γ(cζ − a)(cζ − a) =
dove:
α̃ = d2 α − βcd − bcd − γcc ∈ R,
(2.69)
β̃ = −αdb + βda + βcc − γca ∈ C,
γ̃ = αbb − βba − βba + γaa ∈ R.
Abbiamo dunque ottenuto che nella nuova variabile ζ, l’equazione del luogo geometrico ottenuta
è ancora l’equazione di una retta o di un cerchio, a seconda che α̃ = 0 o meno.
Ovviamente non è detto un cerchio si trasformi in cerchio ed una retta si trasformi in retta:
abbiamo solo ottenuto che una l’insieme di tutte le rette e cerchi si trasforma nell’insieme di
tutte le rette e cerchi, con possibili “scambi”.
102
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Esercizio 16. In cosa si trasformano gli assi coordinati nel piano complesso:
Im(z) = 0, Re(z) = 0
Esercizio 17. Determinare in cosa si trasforma l’asse reale sotto l’azione della trasformazione:
z+i
ζ= . (2.70)
z−i
Esercizio 18. Determinare in cosa si trasforma l’asse immaginario sotto l’azione della tra-
sformazione:
z+1
ζ= . (2.71)
z−1
Esercizio 19. Determinare in cosa si trasforma il cerchio unitario |z| = 1 sotto l’azione della
trasformazione (2.71).
Lo studio delle proprietà geometriche di altre trasformazioni del piano complesso, sia pure
restringendosi alle semplici operazioni viste fino ad ora (potenze, radici) è relativamente
complicato, anche se risulta molto utile in una quantità di problemi pure legati ad applicazioni
concrete dell’Analisi Matematica, ad es. nei problemi di elettrostatica nel piano. Pertanto il
loro studio viene rimandato alla fine dei corsi di Analisi Matematica.
103
3. Limiti e funzioni continue
104
Alberto Berretti Analisi Matematica I
lim cn = l
n→∞
se:
∀ε > 0 ∃N tale che n > N ⇒ |cn − l| < ε.
Si osservi che dire che |cn − l| < ε vuol dire affermare che cn dista da l meno di ε (cioè è
“vicino” a l!). Quindi secondo la definizione data, cn tende a l se per possiamo rendere cn
vicino a l quanto vogliamo, cioè distante meno di un ε > 0 arbitrario, purché n sia sufficiente
grande, cioè maggiore di un N che naturalmente dipende da ε.
Si osservi inoltre che lim cn = l non vuol dire né che per qualche n cn = l, né il contrario, e
n→∞
cioè che cn non è mai pari ad l. Il limite di cn può infatti essere o no un valore assunto dalla
successione.
A volte ci interessa dire che una successione cn assume valori arbitrariamente grandi, e po-
sitivi, o arbitrariamente grandi, e negativi, man mano che n cresce. A tale scopo introduciamo
le seguenti definizioni.
lim cn = +∞
n→∞
se:
∀M > 0 ∃N tale che n > N ⇒ cn > M.
105
Alberto Berretti Analisi Matematica I
lim cn = −∞
n→∞
se:
∀M > 0 ∃N tale che n > N ⇒ cn < −M.
Cosa ci dicono queste due definizioni? La prima ci dice che possiamo rendere cn arbi-
trariamente grande, cioè maggiore di un M arbitrariamente scelto, purché si prenda n suffi-
cientemente grande, cioè maggiore di un N che dipende ovviamente da M. La seconda ci
dice che possiamo rendere cn arbitrariamente grande in valore assoluto e negativo, cioè minore
di un numero negativo −M, M > 0 arbitrariamente scelto, purché di nuovo si prenda n
sufficientemente grande, cioè maggiore di un N che dipende ovviamente da M.
Osservazione 1. Lo studente rifletta sul fatti che nelle due definizioni appena date la condi-
zione M > 0 è irrilevante e potrebbe essere omessa: se so già dimostrare che, ad es., cn > 100
quando n > 1000, è evidente allora che sempre per n > 1000 cn è maggiore di qualsiasi
numero negativo! Nel seguito a volte scriveremo esplicitamente la condizione M > 0 perché
ci aiuta a focalizzare la dimostrazione del limite dato nella direzione giusta, ma aggiungerla
non è essenziale.
Affermare che il limite della successione cn è l, pertanto, vuol dire avere a disposizione un
meccanismo, una specie di “scatola nera”, in cui “entra” la “tolleranza” che imponiamo a
cn (quanto ammettiamo che cn possa essere al massimo distante dal valore del limite l), ed
“esce” la condizione che dobbiamo imporre su n affinché la tolleranza desiderata sia ottenuta.
Mutatis mutandis se il limite è ±∞.
Si noti che non ha senso parlare di limite di una successione per n che tende a qualcosa di
diverso da ∞: infatti n, essendo una variabile discreta, non può avvicinarsi ad uno specifico
numero intero n0 : o è uguale a n0 , o dista da n0 al minimo 1.
In modo analogo possiamo definire il limite di una funzione f (x) quando x tende ad un
numero x0 o a ±∞. In tal caso, però, abbiamo una difficoltà aggiuntiva. Quando consideriamo
il limite per x che tende ad un numero reale x0 , allora devono essere chiari i seguenti punti.
Innanzitutto, non c’è alcuna ragione per la quale il numero x0 debba far parte del dominio
della funzione: ad es. se vogliamo prendere il limite per x che tende a 0 della funzione 1/x,
è evidente che si tratta di una richiesta perfettamente legittima anche se x = 0 non fa parte
del dominio della funzione (analogamente, ∞ non è un numero e purtuttavia facciamo il
limite per n → ∞ di una successione!). D’altra parte, è chiaro che se chiedo di fare il limite
106
Alberto Berretti Analisi Matematica I
√
per x → 2 di una funzione come 1 − x2 , che è definita solo per −1 ≤ x ≤ 1, ci stiamo
ponendo una domanda priva di senso: infatti al punto in cui voglio calcolare il limite, e
cioè 2, non ci posso arrivare arbitrariamente vicino. Pertanto richiederemo che, se vogliamo
definire i limite per x che tende a x0 di una funzione f (x), la funzione f sia definita almeno
in un intervallo I di cui x0 fa parte, o di cui è uno degli estremi pur senza farne parte (ad es.
se f non è definita in x0 ); se invece vogliamo definire il limite per x → +∞ o x → −∞, allora
richiederemo che la funzione f sia definita almeno per un intervallo illimitato della forma
(M, +∞), o rispettivamente (−∞, M).
Piú avanti vedremo che volendo c’è un modo piú preciso e rigoroso di porre una condizione sul
dominio della funzione per poterne definire il limite per x → x0 o x → ±∞, ma non è una condizione
necessaria per la maggior parte delle applicazioni del limite che ci interessano.
Chiarito quanto precede, definiamo i limiti per x → x0 di una funzione, in analogia con
quanto abbiamo fatto per i limiti di successioni.
Nelle seguenti definizioni, come abbiamo appena spiegato, supponiamo che il dominio
della funzione f (x) contenga un insieme del tipo I\{x0 }, cioè un intervallo I da cui abbiamo
tolto il punto x0 , perché, come abbiamo visto, vogliamo poter calcolare il limite di una
funzione anche quando il punto x0 non fa parte del dominio, ma ci possiamo avvicinare
ad esso arbitrariamente rimanendo nel dominio medesimo. Abbiamo allora le seguenti
definizioni.
Diremo che:
lim f (x) = l
x→x0
se:
Leggiamo bene cosa abbiamo scritto. Abbiamo scritto che per ogni ε > 0 possiamo avere
f (x) distante da l meno di ε, cioè che possiamo avere f (x) vicino a l quanto ci pare, purché
prendiamo x distante da x0 meno di δ, cioè purché prendiamo x sufficientemente vicino a x0 . A
quale scopo chiediamo |x − x0 | > 0? Lo chiediamo perché dobbiamo imporre che l’x qualsiasi
sufficientemente vicino a x0 non sia x0 , in quanto è possibile che f non sia nemmeno definita
in x0 , e comunque il valore del limite non ha a che fare necessariamente qualcosa con il valore della
funzione qualora questo esista, in generale. Ripetiamo: il fatto che la funzione f sia definita o
meno in x0 è totalmente irrilevante allo scopo di definire il limite di f : non solo f può essere
o non essere definita in x0 , ma nel caso in cui sia definita in x0 il suo valore in tale punto è
107
Alberto Berretti Analisi Matematica I
totalmente irrilevante allo scopo di sapere quant’è il suo limite (essendo il punto x0 escluso
dall’insieme dei valori di x in cui calcoliamo la f !).
Analogamente abbiamo i limiti infiniti:
Diremo che:
lim f (x) = +∞
x→x0
se:
Diremo che:
lim f (x) = −∞
x→x0
se:
Ovviamente dobbiamo definire i limiti quando, come nelle successioni, x tende a ±∞.
Sempre in analogia con quanto abbiamo fatto nelle successioni, abbiamo allora le seguenti
definizioni.
Diremo che:
lim f (x) = l
x→+∞
se:
∀ε > 0 ∃L > 0 tale che x > L ⇒ | f (x) − l| < ε.
Diremo che:
lim f (x) = +∞
x→+∞
se:
∀M > 0 ∃L > 0 tale che x > L ⇒ f (x) > M.
108
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Diremo che:
lim f (x) = −∞
x→+∞
se:
∀M > 0 ∃L > 0 tale che x > L ⇒ f (x) < −M.
Diremo che:
lim f (x) = l
x→−∞
se:
∀ε > 0 ∃L > 0 tale che x < −L ⇒ | f (x) − l| < ε.
Diremo che:
lim f (x) = +∞
x→−∞
se:
∀M > 0 ∃L > 0 tale che x < −L ⇒ f (x) > M.
Diremo che:
lim f (x) = −∞
x→−∞
se:
∀M > 0 ∃L > 0 tale che x < −L ⇒ f (x) < −M.
Quando abbiamo definito il limite per x → x0 , abbiamo assunto che f sia definita sia a
destra che a sinistra di x0 – ma non necessariamente in x0 , ripetiamolo ancora! –, e abbiamo
richiesto che f si avvicini arbitrariamente a l purché x sia sufficientemente vicino a x0 , senza
specificare da quale lato x debba avvicinarsi a x0 . Ovviamente potrebbe accadere che il limite sia
diverso se x si avvicina ad x0 da un lato o dall’altro, o che il limite esista da un lato ma non
dall’altro. Per questa ragione conviene introdurre il concetto di limite da destra e di limite da
sinistra come segue.
109
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Diremo che:
lim f (x) = l
x→x+0
se:
Diremo che:
lim f (x) = +∞
x→x+0
se:
Diremo che:
lim f (x) = −∞
x→x+0
se:
Diremo che:
lim f (x) = l
x→x−0
se:
Diremo che:
lim f (x) = +∞
x→x−0
se:
110
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Diremo che:
lim f (x) = −∞
x→x−0
se:
111
Alberto Berretti Analisi Matematica I
δ
0 < |x − x0 | < 2 è irrilevante. Questo fatto ritorna utile in pratica, quando vogliamo calcolare
qualche limite direttamente dalla definizione e dobbiamo fare delle stime (maggiorazioni
o minorazioni): queste non dovranno essere ottimali, potranno essere anche molto grezze.
Applicheremo questo principio molte volte nel seguito.
Dopo aver definito il limite, dimostriamo le principali proprietà ed i principali teoremi sui
limiti. Prima di calcolare anche i limiti piú elementari, infatti, dovremo avere a nostra dispo-
sizione degli strumenti che ci permettano di ricavare il limite senza dover passare attraverso la
112
Alberto Berretti Analisi Matematica I
definizione, cioè senza dover trovare ad es. un δ > 0 che dipende da un ε > 0 tale che etc.,
altrimenti non riusciremo a calcolare se non i limiti piú banali a caro prezzo.
Dimostrazione. La dimostrazione è molto facile. Assumiamo ad es. l1 < l2 , allora ∃ ε > 0 tale
che ε < (l2 − l1 )/2 (minore cioè della metà della distanza tra l1 e l2 ), e quindi l1 + ε < l2 − ε.
Ma ∀ε > 0, quindi anche per questo ε, esistono M1 , M2 tali che se n è maggiore di entrambe
allora:
l1 − ε < cn < l1 + ε < l2 − ε < cn < l2 + ε,
il che implica cn < cn che è assurdo. Il caso l1 > l2 viene escluso in modo identico, per cui i
due limiti non possono che essere uguali.
Il teorema della permanenza del segno ci dice che se un limite è positivo, o negativo, al-
lora vicino al punto in cui calcoliamo il limite (ovvero per valori grandi dell’indice n della
successione o della variabile x della funzione, se il limite è all’infinito) la funzione avrà il
medesimo segno. Enunciamo il teorema e dimostriamolo nel caso in cui il limite è positivo
(la dimostrazione nel caso in cui il limite è negativo è sostanzialmente identica).
lim cn = l > 0.
n→∞
Analogamente, se:
lim f (x) = l > 0 ovvero lim f (x) = l > 0
x→+∞ x→−∞
113
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Dimostrazione. Dimostriamolo esplicitamente solo nel caso del limite di successione e nel
caso di limite di funzione per x → x0 (l’altro caso è simile).
Nel primo caso, abbiamo che:
Basta quindi prendere ε = l/2 per avere cn > l − l/2 = l/2 > 0 non appena n > M.
Nel secondo caso, abbiamo che:
Basta quindi prendere ε = l/2 per avere f (x) > l − l/2 = l/2 > 0 quando 0 < |x − x0 | < δ.
Osservazione 8. Al contrario, se una funzione f (x) ammette limite per x → ±∞ non è affatto
detto che sia limitata! Basta ad es. prendere f (x) = 1x : tende a 0 per x → ±∞ ma non è limitata
perché diverge in x → 0.
114
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Un teorema assolutamente identico, con ovvie differenze puramente “tecniche”, vale per i
limiti di funzioni. Per semplicità lo enunciamo e lo dimostriamo solo nel caso del limite per
x → x0 , ma la il caso x → ±∞ è praticamente la stessa cosa.
Teorema 9 (Teorema del confronto, funzioni). Siano f (x), g(x), h(x) definite in A = (x0 − η, x0 ) ∪
(x0 , x0 + η) per qualche η > 0. Allora:
1. Se f (x) ≤ g(x) in A e f (x) → +∞ per x → x0 , allora anche g(x) → +∞ per x → x0 .
2. Se f (x) ≤ g(x) in A e g(x) → −∞ per x → x0 , allora anche g(x) → −∞ per x → x0 .
3. Se f (x) ≤ g(x) ≤ h(x) in A e f (x), h(x) → l per x → x0 , allora anche g(x) → l per x → x0 .
L’insieme A nelle ipotesi del teorema del confronto per le funzioni gioca il ruolo dell’av-
verbio “definitivamente” nell’analogo teorema per le successioni.
Il teorema del confronto è uno strumento essenziale per il calcolo dei limiti. È necessario
che lo studente ne abbia ben chiaro sia l’enunciato che la dimostrazione.
115
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Dimostriamo ora il teorema che ci permette di ricondurre il limite della somma, del prodotto,
del quoziente e cosí via ai limiti elementari. Lo enunciamo e dimostriamo nel caso delle
successioni, ma come al solito il teorema vale anche per limiti di funzioni, con una dimostrazione
sostanzialmente identica.
Dimostrazione. Le dimostrazioni di molte delle affermazioni fatte nel teorema sono sostan-
zialmente identiche e differiscono solo per qualche segno, per cui dimostriamo solo i casi
essenziali. In questa dimostrazione è essenziale ricordarsi dell’osservazione 3, a cui non faremo
riferimento esplicito ogni volta che la usiamo perché la usiamo praticamente in continuazione.
Nel caso 1, abbiamo che se n > M, allora an ∈ (l − ε, l + ε); quindi se α > 0, αan ∈
(αl − αε, αl + αε), se α < 0, αan ∈ (αl + αε, αl − αε), e quindi in entrambe i casi il limite è αl. Se
α = 0, αan = 0 ∀n ed il limite è ovviamente 0 = αl.
Nel caso 2, abbiamo che se n > M, allora an > L; quindi se α > 0, αan > αL ed il limite è
sempre +∞. I casi 3, 4 e 5 sono identici.
Nel caso 6, se n > M1 allora l − ε < an < l + ε e se n > M2 allora m − ε < bn < m + ε;
quindi se n > max{M1 , M2 } sommando membro a membro le due disuguaglianze abbiamo
116
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Ora, il denominatore di quest’ultima frazione tende a l2 , per cui ∃M̄ tale che se n > M̄ allora
l2
|l||bn + l| > 2. Allora ∀ε > 0 ∃M′ tale che se n > M′ allora |bn | < ε, perché bn → 0. Quindi se
n > max{M̄, M′ } allora:
|bn | 2ε
< 2,
|l||l + bn | l
da cui per l’arbitrarietà di ε la tesi.
Il caso 18 segue dal caso 10 e dal caso 17.
3.2.5. Sottosuccessioni
Nella seconda parte abbiamo definito cos’è una sottosuccessione. Enunciamo ora un sem-
plicissimo risultato sul limite delle sottosuccessioni di successioni di limite noto. Torneremo
sull’argomento limiti di sottosuccessioni piú avanti in un altro contesto.
Teorema 11. Se lim an = l ∈ R o ±∞, allora ogni sottosuccessione di an tende al medesimo limite.
n→∞
Dimostrazione. Se lim an = l, allora ∀ε > 0 ∃M tale che se n > M allora |an − l| < ε. Sia ank una
n→∞
sottosuccessione di an , nk ր +∞. Allora ∀M > 0 ∃N tale che se n > N allora nk > M. Quindi
∀ε > 0 ∃N tale che se n > N allora nk > M e quindi |ank − l| < ε.
117
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Teorema 12. Sia h(x) = f (g(x)), dove il dominio di f contiene il codominio di g. Sia lim g(x) = y0 ,
x→x0
lim f (y) = l. Assumiamo inoltre che ∃ β > 0 tale che se 0 < |x − x0 | < β allora g(x) , y0 . Allora
y→y0
lim h(x) = l.
x→x0
Avendo posto y = g(x), dato ε > 0 esiste un η > 0, e per tale η > 0 esiste un δ > 0, tale che
se 0 < |x − x0 | < min(β, δ) allora |y − y0 | < η perché 0 < |x − x0 | < δ, e 0 < |y − y0 | perché
|x − x0 | < β, e quindi | f (y) − l| < ε, e cioè la tesi.
Ci si può chiedere l’origine dell’ipotesi secondo la quale deve esistere β > 0 tale che se
0 < |x − x0 | < β allora g(x) , y0 . Bisogna ricordare che nella (3.1) è richiesto, come deve essere
per la definizione di limite, che sia 0 < |y − y0 | < η, e la (3.2) ci assicura che solo la seconda
disuguaglianza, non la prima (e cioè y , y0 ), e quindi è necessaria un’ipotesi aggiuntiva. Per
capire meglio questo fatto, facciamo un esempio.
Allora è evidente che h(x) = f (g(x)) = 1 identicamente, per cui lim h(x) = 1, anche se
x→0
lim g(x) = 0 e lim f (y) = 0, e non 1.
x→0 y→0
Il caso piú semplice, e quello che si manifesta piú frequentemente in pratica, è quello in
cui ∃ β > 0 tale che nell’insieme {0 < |x − x0 | < β} la funzione g(x) è monotona.
Se g(x) è monotona nell’intervallo considerato, allora è anche invertibile. Se prendiamo
f (y) = g−1 (y), abbiamo quindi:
per cui:
lim g−1 (y) = x0 .
y→y0
118
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Sottolineiamo infine che il teorema 12 viene spesso utilizzato per calcolare i limiti “per
sostituzione”; in altri termini, dovendo calcolare lim f (x), cerchiamo una funzione g(t), che
x→x0
soddisfi le ipotesi del teorema (e cioè in pratica invertibile dove necessario) tale che, scrivendo
il limite dato come lim f (g(t)), la funzione composta f (g(t)) sia piú semplice della funzione
t→t0
originale f (x).
In molti casi, l’applicazione della definizione di limite risulta essere in pratica problematica
perchè, per stabilire che una funzione o una successione ha un determinato limite usando la
definizione occorre conoscere il valore del limite medesimo. In molti casi importanti, vogliamo
dimostrare che una successione o una funzione ammette limite, senza che tale limite sia
precedentemente noto. Il caso tipico, che affronteremo fra poco, è quello del numero e,
definito appunto come limite di una successione, la cui esistenza dovrà essere dimostrata
con altri mezzi in quanto non è precedentemente noto il valore del limite stesso.
Uno strumento prezioso da questo punto di vista (ma non l’unico) è il seguente teorema.
Teorema 13. Sia {cn } una successione monotona crescente. Se cn è limitata superiormente allora
∃l ∈ R tale che lim cn = l. Se cn è illimitata superiormente allora lim cn = +∞. Analogamente, se
n→∞ n→∞
{cn } è monotona decrescente e limitata inferiormente allora ammette limite finito mentre se è illimitata
inferiormente allora tende a −∞.
Il teorema analogo per i limiti di funzioni monotone è analogo, e solo leggermente piú
complesso per ragioni puramente tecniche che a questo punto dovrebbero essere evidenti.
119
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Teorema 14. Consideriamo l’intervallo (a, +∞) e sia la funzione f (x) definita e monotona crescente in
tale intervallo. Se è anche limitata superiormente, allora ∃l ∈ R tale che lim f (x) = l; se è illimitata
x→+∞
superiormente, allora lim f (x) = +∞.
x→+∞
Consideriamo l’intervallo (a, x0 ) e sia la funzione f (x) definita e monotona crescente in tale in-
tervallo. Se è anche limitata superiormente, allora ∃l ∈ R tale che lim+ f (x) = l; se è illimitata
x→x0
superiormente, allora lim+ f (x) = +∞.
x→x0
Risultati analoghi valgono per funzioni monotone decrescenti, per limiti a −∞ e per x → x−0 .
Osservazione 9. Una funzione f monotona in (a, b) è limitata in ogni intervallo [c, d], a < c <
d < b (infatti ∀x ∈ [c, d] f (c) < f (x) < f (d)). Una funzione f monotona crescente nell’intervallo
(a, b) è limitata superiormente in ogni intervallo (a, c] (infatti ∀x ∈ (a, c] f (x) < f (c)), ed è
limitata inferiormente in ogni intervallo [c, b) (infatti ∀x ∈ [c, b) f (c) < f (x)). Una funzione
f monotona decrescente nell’intervallo (a, b) è limitata inferiormente in ogni intervallo (a, c]
(infatti ∀x ∈ (a, c] f (x) > f (c)), ed è limitata superiormente in ogni intervallo [c, b) (infatti
∀x ∈ [c, b) f (x) < f (c)).
Introduciamo ora alcune disuguaglianze che saranno molto utili nel seguito (v. G. H. Hardy,
A Course of Pure Mathematics, Cambridge University Press, p. 143 e seg. e G. H. Hardy, J. E.
Littlewood, G. Pólya, Inequalities, Cambridge University Press, p. 39 e seg.).
Sia α > 1 e r un intero positivo. Allora è evidente che:
infatti a destra abbiamo r addendi ciascuno minore di αr . Moltiplicando ambo i membri per
α − 1 otteniamo:
rαr (α − 1) > αr − 1,
120
Alberto Berretti Analisi Matematica I
αr −1
e cioè che la successione ar = r è una successione crescente. Quindi ar > a1 , e cioè, come si
verifica immediatamente:
αr > 1 + r(α − 1). (3.3)
Ponendo α = 1 + x, x > 0, tale disuguaglianza può essere dunque scritta come (1 + x)r > 1 + rx.
Viceversa, sia 0 < β < 1 e r come sopra. Allora analogamente:
moltiplicando per 1 − β:
rβr (1 − β) < 1 − βr ,
sommando r(1 − βr ):
r(1 − βr+1 ) < (r + 1)(1 − βr ),
Ponendo β = 1 + x, −1 < x < 0, anche questa disuguaglianza può essere scritta come
(1 + x)r > 1 + rx.
Abbiamo cosí dimostrato il seguente lemma.
Osservazione 10. La (3.5) può essere anche dimostrata per induzione nel modo seguente.
Il caso r = 1 è ovvio: infatti se r = 1 allora la disuguaglianza si riduce ad un’identità.
Assumiamola vera per r e dimostriamola vera per r + 1:
Il vantaggio della dimostrazione, piu’ complessa, che abbiamo dato è che come vediamo
adesso può essere generalizzata al caso in cui r non è intero, oltre al fatto che abbiamo
ottenuto dei risultati intermedi che ci saranno presto utili.
121
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Le disuguaglianze di cui sopra valgono anche nel caso in cui r sia un numero razionale
positivo. Infatti la disuguaglianza di Bernoulli discende direttamente dal fatto che le suc-
cessioni ar e br sopra definite sono rispettivamente crescente e decrescente, cioè che se r > s
allora:
αr − 1 αs − 1 1 − βr 1 − βs
> , < . (3.6)
r s r s
In realtà le (3.6) valgono appunto anche nel caso in cui r, s siano razionali positivi. Prendendo
ad es. la prima, poniamo r = a/b, s = c/d; allora ad > bc poiché r > s. Ponendo poi α = γbd e
dividendo ambo i membri per bd otteniamo immediatamente:
γad − 1 γbc − 1
> ,
ad bc
e ci siamo dunque ricondotti al caso di esponenti interi. Analogamente per la seconda delle
(3.6). Ne segue che le (3.3), (3.4) valgono anche per r ∈ Q, r > 1. Non solo, ma sia ora s ∈ Q,
0 < s < 1. Allora prendendo r = 1 nella (3.6) otteniamo:
as − 1
< α − 1,
s
da cui:
as < 1 + s(α − 1), (3.7)
e:
1 − bs
> 1 − β,
s
da cui:
βs < 1 + s(β − 1). (3.8)
Si osservi che le (3.7), (3.8) sono rispettivamente uguali alle (3.3), (3.4) ma hanno 0 < s < 1 invece che
r > 1 ed il verso della disugaglianza invertito. Ponendo nelle (3.3), (3.4), (3.7), (3.8) α, β = 1 + x
otteniamo dunque la generalizzazione della disuguaglianza di Bernoulli al caso di esponente
razionale.
122
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Osservazione 11. In realtà come si può facilmente immaginare tale disuguaglianza vale
αr −1 1−βr
per qualsiasi r reale e positivo. Utilizzando la monotonia di r e r in r, r razionale, e
la definizione di numero reale di Dedekind si potrebbe ottenere una di mostrazione, però
troppo complicata per noi. Piú avanti avremo degli strumenti utili per poter dimostrare la
disuguaglianza di Bernoulli anche nel caso reale in modo semplice. D’ora in poi consideremo
valida la (3.9) anche nel caso di esponenti reali.
Otteniamo ora un’altra serie di utili disuguaglianze, conseguenza diretta della disuga-
glianza di Bernoulli.
Abbiamo sopra dimostrato che se r, s sono razionali, r > 1 e 0 < s < 1, e α, β sono numeri
reali, α > 1 e 0 < β < 1, allora valgono le seguenti disuguaglianze che sono banalmente
equivalenti alle (3.3), (3.4):
Sostituendo allora α = 1/β, 0 < β < 1 nella prima e β = 1/α, α > 1 nella seconda otteniamo
facilmente:
αr − 1 < rαr−1 (α − 1), 1 − βr > rβr−1 (1 − β). (3.12)
Analogamente, dalle:
αs − 1 < s(α − 1), 1 − βs > s(1 − β). (3.13)
(che sono banalmente equivalenti alle (3.7), (3.8)) otteniamo per mezzo della medesima
sostituzione:
αs − 1 > sαs−1 (α − 1), 1 − βs < sβs−1 (1 − β). (3.14)
Possiamo ora utilizzare queste disuguaglianze per calcolare il limite di una potenza per
esponenti razionali (per esponenti interi il risultato discende dal caso 10 del teorema 10; per
esponenti reali, il risultato vale ugualmente perché, come abbiamo detto nell’osservazione
11, le disuguaglianze che stiamo utilizzando valgono in realtà anche per r, s reali).
123
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Proposizione 9.
lim xa = xa0 .
x→x0
lim ta = 1.
t→1
Ma tale limite discende immediatamente dalla (3.15) (limite da destra, a > 1), dalla (3.16)
(limite da sinistra, a > 1), dalla (3.17) (limite da destra, a < 1) e dalla (3.18) (limite da sinistra,
a < 1), per il teorema del confronto.
Dimostrazione. Per dimostrare che lim ax = ax0 , poniamo y = x − x0 e quindi ax = ay ax0 . Basta
x→x0
quindi dimostrare che lim ay = 1.
y→0
Ora, se a > 1 la (3.15) implica il limite desiderato quando y tende a 0 da destra e la (3.17)
quando y tende a 0 da sinistra; se a < 1 la (3.16) implica il limite desiderato quando y tende
a 0 da destra e la (3.18) quando y tende a 0 da sinistra.
Ovviamente dobbiamo tenere conto che, essendo ay una funzione monotona definita ovun-
que, in qualsiasi intervallo limitato la funzione è limitata, il che ci permette di ottenere il
risultato grazie al caso 9 del teorema 10.
Osservazione 12. Utilizzando il teorema sul limite delle funzioni composte otteniamo anche:
Il teorema seguente può essere utilizzato sia per dimostrare l’esistenza di un limite, sia per
determinare che una determinata funzione non tende a nessun limite, e costituisce un legame
tra il limite di una funzione ed il limite delle successioni che da questa si possono ricavare.
124
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Il teorema può essere adoperato per determinare il limite di f (x), nel caso – raro – che
calcolare il limite di f (cn ) per ogni successione cn sia piú facile che calcolare direttamente il
limite di f (x). Ma può essere anche utilizzato per determinare che f (x) non ammette limite,
ad es. trovando due successioni distinte {an } e {bn }, entrambe tendenti a x0 , tali che f (an ) e
f (bn ) tendono a limiti diversi.
Dimostrazione. Dimostriamo prima che (1) implica (2). lim f (x) = l vuol dire che ∀ε > 0
x→x0
∃ δ > 0 tale che 0 < |x − x0 | < δ ⇒ | f (x) − l| < ε. Se cn tende a x0 , allora ∀δ > 0 ∃M tale
che n > M ⇒ |cn − x0 | < δ, ed inoltre abbiamo che cn , x0 . Allora ∀ε > 0 ∃ δ > 0, e in
corrispondenza di tale δ > 0 esiste un M – quindi ∀ε > 0 ∃M – tale che n > M ⇒ | f (cn ) − l| < ε.
Dimostriamo che (2) implica (1) per assurdo. Assumiamo dunque che la (2) sia vera e la
(1) falsa, e ricaviamo una contraddizione.
Se la (1) è falsa, cioè se non è vero che il limite di f (x) per x → x0 è 0, allora, negando la
definizione di limite, otteniamo:
∃ ε > 0 tale che ∀δ > 0: ∃x tale che 0 < |x − x0 | < δ e | f (x) − l| > ε.
Preso dunque tale ε, scegliamo δ = 1/n, e per ciascun tale valore di δ esisterà allora un valore
di x = xn tale che 0 < |xn − x0 | < 1/n e | f (xn ) − l| > ε. Abbiamo cosí costruito una successione
{xn } che tende a x0 , perché |xn − x0 | < 1/n, e tale che f (xn ) non tende a l, perché per un certo
ε > 0 | f (xn ) − l| > ε. ciò contraddice la (2), che si assumeva vera.
Osservazione 13. Il teorema continua a rimanere valido anche nel caso di limiti per x → ±∞
e nel caso di limiti infiniti.
Esempio 30. Il limite per x → +∞ (ed ovviamente anche −∞!) di sin x non esiste. Infatti, sia
an = πn e bn = π/2+ 2πn. Allora sin an = 0 e sin bn = 1, per cui lim sin an = 0 , 1 = lim sin bn .
n→∞ n→∞
Introduciamo ora alcuni concetti importanti ed una utilissima notazione, che sarà molto utile
per calcolare in pratica i limiti e che permette di scrivere in modo molto semplice ed intuitivo
ma rigoroso taluni limiti.
Si dice che una successione an è infinitesima o è un infinitesimo se lim an = 0. Se invece
n→∞
lim an = ±∞ si dice che la successione è infinita o che è un’infinito. Analogamente, se
n→∞
consideriamo il limite per x → x0 , +∞ o −∞ di una funzione è infinitesima o è un infinitesimo
se il limite considerato è 0, mentre è infinita ovvero è un’infinito se il limite considerato è
±∞.
125
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Osservazione 14. Importante: Per una successione an possiamo solo considerare il limite
per n → ∞, mentre per una funzione possiamo considerare una molteplicità di limiti, per
x che tende a diversi valori. La natura infinitesima o infinita di una funzione dipende
dunque dal limite che stiamo considerando.
Siano date due successioni infinitesime an e bn . Diremo che an tende a zero piú velocemente
di bn se lim an /bn = 0, diremo che an tende a zero piú lentamente di bn se lim an /bn = ±∞.
n→∞ n→∞
Abbiamo delle buone ragioni per non parlare di successioni che tendono a 0 allo stesso modo
in termini eccessivamente semplici (v. infra).
Analogamente, siano date due successioni infinite an e bn . Diremo che an tende a infinito
piú velocemente di bn se lim an /bn = ±∞, diremo che an tende a infinito piú lentamente di
n→∞
bn se lim an /bn = 0.
n→∞
Si parla in questo caso di confronto fra infinitesimi o infiniti.
È evidente che il confronto fra infinitesimi o infiniti può essere fatto anche per due funzioni
f e g; ovviamente, ricordando quanto sottolineato nell’osservazione 14, il confronto fra
funzioni andrà fatto specificando a cosa tende x.
Per rendere precise queste considerazioni, introduciamo i simboli di Landau o, O, ∼
(rispettivamente ‘o piccolo”, ‘o grande” e ‘asintotico”). Nel seguito assumiamo bn > 0,
g(x) > 0.
• Se:
an
lim = 0,
n→∞ bn
allora scriviamo:
an = o(bn ).
• Se:
f (x)
lim = 0,
x→x0 g(x)
allora scriviamo:
f (x) = o(g(x)) per x → x0
allora scriviamo:
an = O(bn ).
• Se:
∃K > 0 tale che | f (x)| < Kg(x) quando 0 < |x − x0 | < δ, δ > 0,
126
Alberto Berretti Analisi Matematica I
allora scriviamo:
f (x) = O(g(x)) per x → x0
allora scriviamo:
an ∼ bn .
• Se:
f (x)
lim = 1,
x→x0 g(x)
allora scriviamo:
f (x) ∼ g(x) per x → x0
Osservazione 15. Importante: o(. . .), O(. . .) sono a rigore insiemi, non funzioni. Non
esiste nulla che è davvero uguale a o(. . .) o a O(. . .), qualsiasi cosa ci sia dentro i simboli
o, O. Le uguaglianze che abbiamo introdotto sono solo delle notazioni simboliche che
esprimono l’appartenenza all’insieme considerato e quindi la relazione fra due successioni o
due funzioni in un passaggio a limite.
Detto in altri termini: stabilito un passaggio a limite (per n → ∞, per x → x0 ), scrivere
an = O(bn ), an = o(bn ), f (x) = O(g(x)), f (x) = o(g(x)) significa dire che an , f (x) appartengono
ad un certo insieme di successioni o funzioni (nei casi indicati sopra, le successioni che
127
Alberto Berretti Analisi Matematica I
divise per b(n) danno luogo ad una successione limitata, le successioni che tendono a 0 più
rapidamente di bn , le funzioni che divise per g(x) sono limitate, le funzioni che tendono a 0
più rapidamente di g(x). Scrivere ad es. sin x = x + o(x) per x → 0, cosa che dimostreremo
più avanti, vuol dire che sin x è uguale a x piú qualcosa che tende a zero piú rapidamente di
x per x → 0, senza aver specificato esattamente cosa.
Osservazione 17. L’espressione o(an ) va interpretata come “qualcosa che tende divisa per an
tende a zero”. Non una cosa in particolare, ma qualsiasi cosa (analogamente per le funzioni).
Quindi ad es.:
• x + o(1) = o(1), x → 0: infatti l’unica cosa che possiamo dire di x piú qualcosa che
tende a 0, magari anche molto lentamente (o(1)) è che tende a 0, magari anche molto
lentamente.
• o(x) + o(x2 ) = o(x), x → 0: infatti o(x) indica una cosa qualsiasi che divisa per x tende a
0, per cui se la divido per potenze maggiori di x potrebbe non tendere piú a zero.
Osservazione 18. Occorre fare molta attenzione se si vuole introdurre il concetto di “ordine
di infinito”/“ordine di infinitesimo”, come se fosse qualcosa di numerico che può essere
misurato e quantificato. La natura infinita o infinitesima di una successione, o di una
funzione in un certo limite, può solo essere confrontata con un’altra, ma non quantificata
in termini assoluti. Qualsiasi tentativo al riguardo può portare a paradossi e a conclusioni
errate se applicato come se fosse una metafora, senza fare attenzione alla sostanza delle cose.
Noi eviteremo pertanto di dare un significato ad espressioni come “l’ordine di infinitesimo
di 1/n2 è 2” e simili, che preferiremo quindi evitare.
Nel seguito faremo largo utilizzo dei simboli di Landau, e diventeranno il principale
strumento per calcolare i limiti riconducendoli ai limiti notevoli che dimostreremo fra poco.
Abbiamo ora tutti gli strumenti necessari per calcolare i principali limiti notevoli (non del
tutto banali).
128
Alberto Berretti Analisi Matematica I
129
Alberto Berretti Analisi Matematica I
e:
n!
lim = 0.
n→∞ nn
Dimostrazione. Il primo è ovvio se 0 < a ≤ 1, quindi assumiamo a > 1. In tal caso abbiamo:
an aa a a a a a a
0< = · ...· = ·... · · · . . . · < a⌈a⌉−1 · → 0.
n! 1 2 n 1 ⌈a⌉ − 1 ⌈a⌉ n n
| {z } | {z }
⌈a⌉−1 fattori ≤ a fattori ≤ 1
Quindi, il fattoriale tende a +∞ piú rapidamente di qualsiasi esponenziale con base arbitrariamente
grande, ma piú lentamente di nn .
O Q
130
Alberto Berretti Analisi Matematica I
e che se −π/2 < x < π/2 allora cos x > 0, e la (3.22) è ovvia date le (3.20) e (3.21).
Per dimostrare la (3.20), si faccia riferimento alla figura 3.1. L’area del triangolo OPQ è
minore dell’area del settore circolare OPQ; quindi se x > 0:
sin x x
0< < ,
2 2
e quindi per il teorema del confronto lim+ sin x = 0. Essendo la funzione sin x dispari, il
x→0
medesimo limite vale anche per x → 0− .
Utilizzando i simboli di Landau possiamo scrivere le (3.20), (3.21) e (3.22) come sin x = o(1),
cos x = 1 + o(1) e tan x = o(1), per x → 0.
131
Alberto Berretti Analisi Matematica I
ed invertendo:
sin x
cos x < < 1,
x
se 0 < x < π/2. Per il teorema del confronto allora il limite richiesto è ottenuto per x → 0+ .
Tenendo conto che la funzione sin x/x è pari, il medesimo limite vale anche se x → 0− ,
dimostrando quindi la (3.23).
sin x
= 1 + o(1),
x
e quindi:
sin x = x + o(x).
Analogamente abbiamo:
1
cos x = 1 − x2 + o(x2 )
2
e:
tan x = x + o(x).
3.3.3. Il numero e
Dimostriamo ora che il seguente limite esiste ed è un numero compreso fra 2 e 3 che
chiameremo e (numero di Nepero).
1 n
e = lim 1 + . (3.26)
n→∞ n
Vale inoltre 2 < e < 3.
132
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Da ciò si evince immediatamente che cn è una somma di termini positivi, che il numero di
tali termini cresce con n (infatti nella sommatoria (3.27) ci sono esattamente n + 1 termini!), e
che ciascun termine di tale sommatoria è una funzione crescente di n, come è evidente dall’ultimo
modo di scrivere cn nella (3.27) (somma di prodotti di fattori positivi crescenti in n). Quindi
cn è una successione crescente, e quindi se illimitata tende a +∞, se limitata tende a limite
finito per il teorema 13.
Resta da dimostrare dunque che cn è una successione limitata. Noi dimostreremo che
2 < cn < 3 se n ≥ 3, da cui la tesi.
Se n ≥ 3, allora è evidente che cn > 2: infatti cn è crescente e c3 = 64/27 > 2. Utilizzando di
nuovo la (3.27) abbiamo:
n !
1 1 2 k−1 1 1 1
X
cn = 2 + 1· 1− · 1− · ... · 1 − < 2 + + + ... + <
k! n n n 2! 3! n!
k=2
n−1 n−1
1 1 1 X 1 X 1
<2+ + 2 + . . . + n−1 = 2 + < 2 + lim = 3. (3.28)
2 2 2 2k n→∞ 2k
k=1 k=1
Gli ultimi due passaggi nella (3.28) sono giustificati dalle seguenti osservazioni. Innanzi-
n−1
X 1
tutto, è ovvio che la successione è una successione crescente, quindi se tende a limite
k=1
2 k
finito allora è minore del limite. Infine usando la formula per la somma della successione
geometrica abbiamo:
n−1
X 1 1 1 − 1/2n−1
= →1
2k 2 1 − 1/2
k=1
per n → ∞.
È molto semplice infine ottenere le seguenti generalizzazioni del limite appena dimostrato.
133
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Dimostrazione. La (3.29) viene dimostrata facendo uso del teorema ponte. Sia {bn } una
successione a valori in N che tende a +∞; quindi:
1 k
∀ε > 0 ∃L > 0 : k > L ⇒ e − ε < 1 + <e+ε
k
per la definizione di limite di successione. Quindi abbiamo che:
1 bn
∀ε > 0 ∃M > 0 : n > M ⇒ bn > L ⇒ e − ε < 1 + < e + ε.
bn
Quindi abbiamo dimostrato che:
1 bn
lim 1 + = e.
n→∞ bn
Sia ora an una qualsiasi successione che tende a +∞. Se dimostriamo che per ogni tale
successione lim (1 + 1/an )an = e, allora per il teorema ponte abbiamo dimostrato la (3.29). Per
n→∞
dimostrare questo, utilizziamo le ovvie disuguaglianze ⌊an ⌋ ≤ an ≤ ⌈an ⌉, ⌈an ⌉−1 ≤ an ≤ ⌊an ⌋+1:
1 ⌈an ⌉
1+ ⌈an ⌉
1 ⌈an ⌉−1
1 an
1 ⌊an ⌋+1
1 ⌊an ⌋
1
= 1+ ≤ 1+ ≤ 1+ = 1+ 1+
1 + ⌈a1n ⌉ ⌈an ⌉ an ⌊an ⌋ ⌊an ⌋ ⌊an ⌋
1 ⌈an ⌉
ma {⌊an ⌋}, {⌈an ⌉} sono sottosuccessioni di {n}, per cui per l’osservazione precedente 1 + ⌈an ⌉
⌊an ⌋
→ e, 1 + ⌊a1n ⌋ → e, e 1 + ⌈a1n ⌉ → 1, 1 + ⌊a1n ⌋ → 1, da cui la tesi.
Per quanto riguarda la (3.30), ponendo y = −x → +∞, abbiamo:
!−y !−y !y !y !y−1 !
1 x
1 y−1 y 1 1 1
1+ = 1− = = = 1+ = 1+ 1+ → e.
x y y y−1 y−1 y−1 y−1
| {z } | {z }
→e →1
Infine la (3.31) segue dalla (3.29) o dalla (3.30) a seconda se α/x sia positivo o negativo (ed
è ovvia se α = 0). Infatti:
!α
α x 1 x/α
1+ = 1+ ,
x x/α
e x/α → ±∞.
134
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Dimostriamo ora altri limiti notevoli relativi a esponenziali e logaritmi in base e. Tali limiti
notevoli, importantissimi, chiariranno l’importanza del numero di Nepero e. Nel seguito
scriveremo sempre log x, senza indicare la base, intendendo loge x, cioè il logaritmo base e
(logaritmo naturale o neperiano). Si tratta di limiti molto semplici da ricavare.
Innanzitutto, dalle (3.29), (3.30) e dall’osservazione 12 ricaviamo immediatamente:
!y
log(1 + x) 1/x 1
lim = log lim(1 + x) = log lim 1 + = 1.
x→0 x x→0 y→±∞ y
Utilizzando i simboli di Landau possiamo scrivere questo limite come:
Consideriamo ora:
ex − 1
lim .
x→0 x
Ponendo y = ex − 1 → 0 per x → 0 abbiamo:
ex − 1 y
= →1
x log(1 + y)
per x → 0. Utilizzando i simboli di Landau scriviamo questo limite come:
ex = 1 + x + o(x), x → 0. (3.33)
Osservazione 19. Nel caso in cui la base del logaritmo o dell’esponenziale non sia e, ci
riconduciamo facilmente ai casi (3.32) e (3.33) nel modo seguente:
log x x
loga x = = + o(x), x → 0, (3.35)
log a log a
e:
ax = ex log a = 1 + x log a + o(x), x → 0. (3.36)
Possiamo scrivere la medesima cosa come:
loga (1 + x) 1 ax − 1
lim = , lim = log a.
x→0 x log a x→0 x
135
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Generalizziamo ora la nozione di limite. Iniziamo dal caso del limite di successione.
Definiamo il limite superiore di una successione nel modo seguente:
Se la successione {cn } è illimitata superiormente, allora ∀n sup ck = +∞ e quindi il limite superiore della
k≥n
successione è +∞. Se invece la successione è limitata superiormente, allora sup ck è una successione
k≥n
decrescente: infatti al crescere di n determiniamo l’estremo superiore di una porzione sempre piú
piccola della successione ck , e quindi l’estremo superiore non può aumentare. Poiché una successione
monotona decrescente o tende a limite finito o tende a −∞, abbiamo che il limite superiore di una
successione qualsiasi esiste sempre, finito o infinito. Non solo: essendo la successione sup ck monotona
k≥n
decrescente, il suo limite sarà il suo estremo inferiore, per cui possiamo anche dire che:
Se la successione {cn } è illimitata inferiormente, allora ∀n inf ck = −∞ e quindi il limite inferiore della
k≥n
successione è −∞. Se invece la successione è limitata inferiormente, allora la successione inf ck è crescente,
k≥n
e quindi il limite inferiore esiste finito o è +∞. Anche il limite inferiore dunque esiste sempre, finito o
infinito, e per ragioni analoghe a quanto visto per il limite superiore può essere scritto come:
Una notazione alternativa per il limite superiore ed il limite inferiore che viene talvolta utilizzata è la
seguente: lim cn e lim cn .
n→∞ n→∞
Osservazione 20. Dalla definizione di limite superiore e limite inferiore segue immediatamente che
lim inf cn ≤ lim sup cn .
n→∞ n→∞
Teorema 20. Se lim sup cn = lim inf cn , allora esiste anche lim cn ed è uguale ai limiti inferiore e superiore.
n→∞ n→∞ n→∞
Viceversa, se il limite della successione esiste (finito o infinito), allora i limiti superiore ed inferiore coincidono
con esso.
Dimostrazione. Sia lim inf cn = +∞. Allora inf ck → +∞ cioè ∀L > 0 ∃M tale che se n > M allora
n→∞ k≥n
inf ck > L. Ma allora in particolare cn > L da cui segue che anche il limite di cn deve essere +∞.
k≥n
Sia lim sup cn = −∞. Allora sup ck → −∞ cioè ∀L > 0 ∃M tale che se n > M allora sup ck < −L. Ma
n→∞ k≥n k≥n
allora in particolare cn < −L da cui segue che anche il limite di cn deve essere −∞.
136
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Infine, sia lim sup cn = lim inf cn = l. Allora tenendo conto della monotonia delle successioni sup ck ,
n→∞ n→∞ k≥n
inf ck , abbiamo:
k≥n
∀ε > 0 ∃ M1 : n > M1 ⇒ l < sup ck < l + ε,
k≥n
e quindi in particolare se n > M2 allora l − ε < cn . Quindi se n > max(M1 , M2 ) allora l − ε < cn < l + ε,
il che implica che il limite di cn esiste ed è l.
L’ultima affermazione può essere dimostrata in modo elementare. Se cn tende a +∞, cioè se
∀L > 0 ∃M tale che n > M ⇒ cn > L , allora inf ck ≥ L se n > M e quindi il limite inferiore è +∞
k≥n
e per l’osservazione 20 anche il limite superiore. Se cn tende a −∞, cioè se ∀L > 0 ∃M tale che
n > M ⇒ cn < −L , allora sup ck ≤ −L se n > M e quindi il limite superiore è −∞ e quindi anche il
k≥n
limite inferiore.
Se infine cn tende a l, allora ∀ε > 0 ∃M tale che n > M ⇒ l − ε < cn < l + ε, e quindi se n > M
l − ε ≤ inf ck ≤ sup ck ≤ l + ε, da cui segue che sia il limite inferiore che quello superiore sono pari a
k≥n k≥n
l.
e:
lim inf f (x) = lim inf f (x).
x→x0 η→0 x∈(x0 −η,x0 +η),
x,x0
Il senso di queste definizioni dovrebbe essere ovvio. Il caso di limite superiore e inferiore per x → ±∞
è sostanzialmente analogo a quello delle successioni. In ogni caso, i limiti superiore ed inferiore di
funzioni godono delle medesime proprietà di quelli delle successioni, come sarebbe facile dimostrare
ricorrendo alle medesime tecniche utilizzate nel caso dei limiti di successioni.
Per poter andare avanti e dimostrare risultati importanti, abbiamo bisogno di qualche altro
concetto generale che ci permetterà peraltro di comprendere meglio il concetto di limite.
Le nozioni che introduciamo in questo paragrafo fanno parte di quella parte dell’analisi
matematica che prende il nome di topologia, di cui esponiamo le idee piú elementari.
Noi lavoreremo sempre in R, cioè nella retta reale; tutti i concetti qui esposti si generalizzano
però senza problemi, in genere senza alcuna modifica sostanziale alle dimostrazioni, a Rn , n > 1,
137
Alberto Berretti Analisi Matematica I
cioè a spazi di dimensione (finita) qualsiasi, come vedremo piú avanti. Qualche teorema può
avere una dimostrazione piú semplice se si sfrutta esplicitamente l’unidimensionalità, ma
noi preferiremo la dimostrazione facilmente generalizzabile al caso multidimensionale.
Esempio 32. Se A = (a, b) è un intervallo aperto, tutti gli x tali che a < x < b (cioè tutti i punti
di A) sono interni, tutti gli x tali che x < a o x > b sono esterni, a e b sono di frontiera.
Esempio 33. Se A = [a, b] è un intervallo chiuso, tutti gli x tali che a < x < b sono interni, tutti
gli x tali che x < a o x > b (cioè tutti i punti che non fanno parte di A) sono esterni, a e b sono
di frontiera.
Esempio 34. Sia A = {1/n}, n ∈ N. Nessun punto è interno; tutti gli x ∈ R tali che x , 0 e
x , 1/n sono esterni, 0 e tutti i punti di A sono punti di frontiera.
Esempio 35. Consideriamo l’insieme Q dei numeri razionali come sottoinsieme dei reali.
Allora nessun punto è interno né esterno ed ogni numero reale (razionale o meno) è un
punto di frontiera. Infatti ogni intervallo (α, β), per quanto piccolo, contiene sia numeri razionali
che numeri irrazionali.
L’interno o parte interna di un insieme A è l’insieme dei suoi punti interni, e si indica
con il simbolo Å. La frontiera di un insieme A è l’insieme dei suoi punti di frontiera e si
indica con il simbolo ∂A.
Esempio 36. Facendo riferimento agli esempi precedenti, l’interno di un intervallo aperto
(a, b) coincide con l’intervallo medesimo, l’interno di un intervallo chiuso [a, b] è l’intervallo
aperto (a, b), l’interno dell’insieme A dell’esempio 34 e l’interno dell’insieme dei razionali è
l’insieme vuoto. La frontiera di un intervallo aperto o chiuso coincide con i suoi estremi, la
138
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Esempio 37. Sempre facendo riferimento agli esempi precedenti, sia nel caso dell’esempio 32
che in quello dell’esempio 33, tutti i punti di un intervallo, aperto o chiuso che sia, cosí come
i suoi estremi sono punti di accumulazione, e nessun punto è isolato; nel caso dell’esempio
34 solo 0 è un punto di accumulazione e tutti i punti di A sono isolati, mentre ogni numero
reale è un punto di accumulazione dei razionali (e nessun punto è isolato). La verifica di
queste affermazioni è banale.
Proposizione 13. Se b è un punto di accumulazione per l’insieme A, allora ogni intorno di b contiene
infiniti punti di A.
139
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Sia x0 un punto di accumulazione del dominio D della funzione f ; allora diremo che lim f (x) = l
x→x0
se ∀ε > 0 ∃ δ > 0 tale che x ∈ D, 0 < |x − x0 | < δ ⇒ | f (x) − l| < ε.
Infatti non è necessario chiedere che la funzione f sia definita ovunque nell’intervallo
0 < |x − x0 | < δ, ma è necessario che mi possa avvicinare arbitrariamente a x0 rimanendo nel
dominio D di f , e cioè che comunque scelga δ > 0 l’insieme 0 < |x − x0 | < δ contenga punti
di A, cioè che l’intervallo (x0 − δ, x0 + δ) contenga punti di D diversi da x0 , ovvero che x0 sia
appunto un punto di accumulazione per D. Questa definizione, leggermente generalizzata,
permette di dare senso a limiti come:
sin 1x
lim = 1.
x→0 sin 1x
sin(1/x)
Infatti la funzione sin(1/x) è definita per x ∈ R ma x , 0 e x , 1/kπ, k ∈ Z, e vale 1 laddove
essa è definita. La definizione data precedentemente di limite per x → 0 non sarebbe stata
applicabile, perché non esiste alcun intervallo della forma (0, a) o (b, 0), a > 0, b < 0, in
cui la funzione è definita (infatti per ogni a, b tali intervalli contengono punti della forma
1/kπ in cui la funzione non è definita, per qualche k sufficientemente grande). Ma l’origine
è chiaramente un punto di accumulazione del campo di definizione per cui è possibile
utilizzare la definizione, piú generale, data dianzi.
Un insieme A viene detto aperto se A = Å, cioè se tutti i punti di A sono interni; in altri
termini, A è aperto se ∀x ∈ A ∃ ε > 0 tale che (x − ε, x + ε) ⊂ A. Detto ancora in un altro modo,
un insieme è aperto se ogni punto dell’insieme ammette un intorno contenuto nell’insieme
medesimo. L’insieme vuoto ∅ viene considerato aperto per definizione. Un insieme A viene
detto chiuso se il suo complementare è aperto.
Esempio 38. R è chiuso, perché il complementare, l’insieme vuoto, per definizione è aperto.
R è aperto, perché ogni numero reale possiede un intorno (qualsiasi intorno!) contenuto in
R. Quindi l’insieme vuoto, che è il complementare di R, è chiuso. Abbiamo cosí verificato
che tutto R e l’insieme vuoto sono contemporaneamente aperti e chiusi. Si potrebbe dimostrare
che sono gli unici insiemi contemporaneamente aperti e chiusi.
Esempio 39. Un intervallo aperto è un insieme aperto. Infatti, sia A = (a, b); allora x ∈ A vuol
dire a < x < b, e quindi basta prendere 0 < ε < min(x − a, b − x) per avere x − ε > a, x + ε < b
per cui (x − ε, x + ε) ⊂ (a, b). Analogamente (−∞, b) e (a, +∞) sono insiemi aperti.
Esempio 40. Un intervallo chiuso è un insieme chiuso. Infatti, sia A = ∁[a, b] il complemen-
tare dell’intervallo chiuso [a, b], e dimostriamo che A è aperto. Ora, se x ∈ A, allora x < a o
140
Alberto Berretti Analisi Matematica I
x > b. Nel primo caso, sia 0 < ε < a − x: allora x + ε < a per cui (x − ε, x + ε) ⊂ A. Nel secondo
caso, sia 0 < ε < x − b: allora x − ε > b per cui (x − ε, x + ε) ⊂ A. Analogamente anche (−∞, b]
e [a, +∞) sono chiusi.
Esempio 41. Intervalli del tipo (a, b] e [a, b) sono esempi di insiemi né aperti né chiusi.
Enunciamo il primo dei due principali teoremi sugli insiemi aperti e chiusi. Per farlo
dobbiamo introdurre una semplice notazione.
[
Sia S un insieme arbitrario di sottoinsiemi di R. Indichiamo con A o semplicemente con
S A∈S
A l’unione di tutti gli insiemi A che fanno parte di S, cioè:
[
x∈ A se ∃A ∈ S tale che x ∈ A.
A∈S
\ T
Indichiamo con A o semplicemente con A l’intersezione di tutti gli insiemi A che fanno
A∈S
parte di S, cioè:
\
x∈ A se ∀A ∈ S : x ∈ A.
A∈S
Si noti che in questo modo abbiamo dato significato all’unione o all’intersezione di un numero
infinito di insiemi.
Vale allora il seguente teorema.
Teorema 21. Le unioni ed intersezioni di insiemi aperti o chiusi soddisfano le seguenti proprietà:
[
1. L’unione A di un insieme arbitrario S di insiemi aperti è aperto.
A∈S
\n
2. L’intersezione di un numero finito di insiemi aperti Ak è aperto.
\ k=1
3. L’intersezione A di un insieme arbitrario S di insiemi chiusi è chiuso.
A∈S
n
[
4. L’unione di un numero finito di insiemi chiusi Ak è chiuso.
k=1
[
Dimostrazione. Se x ∈ A vuol dire che esiste un A0 ∈ S tale che x ∈ A0 . Essendo A0 aperto,
A∈S [
∃ ε > 0 tale che (x − ε, x + ε) ⊂ A0 e quindi anche (x − ε, x + ε) ⊂ A, da cui il punto 1 del
A∈S
teorema.
n
\
Siano ora A1 , . . . , An insiemi aperti. Se x ∈ Ak allora x ∈ Ak , k = 1, . . . , n, quindi
k=1
∃ ε1 , . . . , εn > 0 tali che (x − ε1 , x + ε1 ) ⊂ A1 , . . . , (x − εn , x + εn ) ⊂ An . Ponendo ε =
min(ε1 , . . . , εn ) > 0 abbiamo dunque che per k = 1, . . . , n (x − ε, x + ε) ⊂ (x − εk , x + εk ) ⊂ Ak , e
\n
quindi (x − ε, x + ε) ⊂ Ak , da cui il punto 2 del teorema.
k=1
141
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Nel caso dell’intersezione di aperti e dell’unione di chiusi l’ipotesi della finitezza del
numero di insiemi è essenziale. Infatti, consideriamo il seguente insieme infinito di intervalli
aperti:
1 1
Ik = −1 − , 1 + , k ∈ N, k ≥ 2.
k k
L’intersezione di tutti gli intervalli Ik è allora l’intervallo chiuso [−1, 1]: infatti tutti gli x ∈ R,
−1 ≤ x ≤ 1 sono contenuti in tutti gli Ik , mentre ogni x > 1, x < −1 non è contenuto in tutti gli
Ik con k sufficientemente grande (basta prendere k > 1/(x − 1) se x > 1 ovvero k > 1/(−x − 1)
se x < −1). Analogamente, consideriamo il seguente insieme infinito di intervalli chiusi:
1 1
Jk = −1 + , 1 − , k ∈ N, k ≥ 2.
k k
L’unione di tutti gli intervalli Jk è allora l’intervallo aperto (−1, 1): infatti tutti gli x ≥ 1, x ≤ −1
non fanno parte di nessun Jk , mentre ogni x tale che −1 < x < 1 fa parte di tutti i Jk con k
sufficientemente grande (basta prendere k > 1/(1 − x) se 0 < x < 1 ovvero k > 1/(x + 1) se
−1 < x < 0).
Esempio 42. Ogni insieme finito {x1 , . . . , xN } è chiuso. Infatti il suo complementare è l’unione
degli intervalli aperti (−∞, x1 ), (x1 , x2 ), . . . , (xN , +∞).
Dimostrazione. Sia x ∈ Å: allora ∃ε > 0 tale che (x − ε, x + ε) ⊂ A. Dimostriamo ora che
tutto l’intervallo (x − ε, x + ε) è in realtà contenuto in Å: prendiamo x′ ∈ (x − ε, x + ε) e
sia min(x′ − (x − ε), (x + ε) − x′ ) la distanza di x′ dagli estremi dell’intervallo in questione;
prendendo 0 < δ < min(x′ − (x − ε), (x + ε) − x′ ) abbiamo che (x′ − δ, x′ + δ) ⊂ (x − ε, x + ε) ⊂ A
per cui anche x′ ∈ Å, cioè tutti i punti dell’intervallo (x − ε, x + ε) fanno parte di Å, che quindi
è aperto.
Ā = A ∪ ∂A.
142
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Osservazione 21. La parte interna Å di un insieme è “il piú grande” insieme aperto contenuto
in A. La chiusura Ā di un insieme A è “il piú piccolo” insieme chiuso contenente A.
143
Alberto Berretti Analisi Matematica I
tra i due semi-intervalli uno che contenga infiniti elementi di A (se entrambe contengono
infiniti elementi di A, ne scegliamo uno arbitrariamente, ad es. scegliamo quello piú a destra).
Tale nuovo intervallo lo chiamiamo [a1 , b1 ]: chiaramente o a1 = a, b1 = c o a1 = c, b1 = b, a
seconda se abbiamo preso quello di destra o quello di sinistra. Ma se anche [a1 , b1 ] contiene
infiniti elementi di A, possiamo ripetere la costruzione appena fatta dividendo tale intervallo
a metà e scegliendo una delle due metà che contiene infiniti elementi di A, ottenendo un
intervallo [a2 , b2 ] che contiene anch’esso infiniti elementi di A e così via.
In definitiva, abbiamo ottenuto una successione {[ak , bk ]} di intervalli, tutti contenuti l’uno
dentro l’altro, e che contengono tutti infiniti elementi di A. Osserviamo che:
1. la successione {ak } è crescente: ak+1 ≥ ak ;
2. la successione {bk } è decrescente: bk+1 ≤ bk ;
3. la successione {ak } è limitata dall’alto: ak < b;
4. la successione {bk } è limitata dal basso: bk > a.
Ne segue che per il teorema 13 ak → α e bk → β per k → ∞. Ma bk − ak = (b − a)/2k , per cui
bk − ak → 0, e quindi β = α.
Abbiamo dunque definito un punto α. Dimostriamo ora che α è un punto di accumulazione
per A.
Sia ε > 0 qualsiasi, anche molto piccolo, e consideriamo l’intervallo (α − ε, α + ε). Poiché
ak ր α esiste k1 tale che ∀k ≥ k1 ak ∈ (α − ε, α), e poiché bk ց β = α esiste k2 tale che ∀k ≥ k2
bk ∈ (α, α + ε). Ponendo K = max(k1 , k2 ), abbiamo allora che l’intervallo [aK , bK ] è contenuto in
(α − ε, α + ε). Poiché [aK , bK ] contiene infiniti elementi di A, ne contiene almeno uno diverso
da α, che quindi è un punto di accumulazione.
3.4.4. Compattezza
Teorema 24. Sia A un insieme chiuso e limitato. Allora A ammette massimo e minimo.
Dimostrazione. Noi sappiamo già che un insieme semplicemente limitato ammette estremo
superiore ed estremo inferiore. Si tratta ora di dimostrare che se è anche chiuso allora gli
estremi superiore ed inferiore sono rispettivamente il massimo ed il minimo.
Sia α = inf A. α non può essere interno ad A, perché allora esisterebbero elementi di A
minori di α e quindi α non sarebbe un maggiorante, e non può nemmeno essere esterno ad
A, perché innanzitutto essendo un minorante non possono esistere elementi di A minori di α,
144
Alberto Berretti Analisi Matematica I
e se fosse esterno esisterebbero anche numeri maggiori di α che non fanno parte di A e quindi
α non sarebbe il massimo dei minoranti. Quindi è un punto di frontiera, ed essendo l’insieme
A chiuso per il teorema 22 α ∈ A, e quindi è il minimo.
Si ragiona in modo simile per l’estremo superiore. Sia β = sup A. Per ragioni analoghe, β
deve essere punto di frontiera per A, ed essendo A chiuso β ∈ A e quindi è il massimo.
Il seguente teorema caratterizza gli insiemi compatti in termini delle successioni in essi
contenute.
Teorema 25. Ogni successione a valori in un insieme chiuso e limitato A ammette una sottosucces-
sione convergente con limite in A. Viceversa, se ogni successione a valori in un insieme A ammette
una sottosuccessione convergente con limite in A, allora A è chiuso e limitato.
Dimostrazione. Dimostriamo la prima delle due affermazioni. Sia A chiuso e limitato, e sia {ak }
una successione contenuta in A: ak ∈ A. Ora, si osservi che i valori assunti dalla successione
al variare di k non devono essere necessariamente tutti diversi, quindi l’insieme dei valori
assunti dalla successione non è necessariamente infinito; ad es. se A = [−2, 2] e ak = (−1)k ,
l’insieme dei valori assunti dalla successione {ak } è formato solo dai numeri −1 e 1 e quindi è
un insieme finito.
Assumiamo dunque che {ak } assuma un insieme finito di valori in A. Allora almeno uno
di questi valori α ∈ A deve essere assunto per una infinità di valori dell’indice k, che posso
ordinare in modo crescente:
akn = α, kn ր ∞,
145
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Osservazione 22. In realtà un insieme viene definito compatto se ogni successione a valori in esso
possiede una sottosuccessione convergente. Il teorema precedente dunque dimostra che in R ogni
insieme compatto è chiuso e limitato, e viceversa. In realtà tale teorema vale, come tutti gli altri in
questo paragrafo, anche in Rn , cioè in spazi di dimensione n > 1. Esistono insiemi chiusi e limitati che
non sono compatti (cioè per i quali il teorema precedente è falso) solo in spazi infinito-dimensionali,
e quindi largamente al di sopra del nostro livello. Per questo abbiamo scelto di dare la definizione
piú semplice di insieme compatto come insieme chiuso e limitato.
cioè tale che A sia contenuto nell’unione degli insiemi aperti di F (si dice anche che A è ricoperto
dagli insiemi U che fanno parte di F ). In altre parole, ogni x ∈ A è anche elemento di qualche U ∈ F .
Sia F un ricoprimento di A, e sia F1 ⊂ F , cioè un sottoinsieme dell’insieme F degli aperti U che
ricoprono A, tale che anche il sottoinsieme F1 ricopra A: gli aperti U contenuti in F1 sono sufficienti
in altri termini a ricoprire A. Allora F1 viene detto sottoricoprimento del ricoprimento F . Un
ricoprimento viene detto finito se è formato da un numero finito di insiemi aperti U1 , . . . , UM .
Vale allora il seguente fondamentale teorema.
Dimostrazione. Dimostriamo prima che se A è chiuso e limitato allora ogni ricoprimento di A ammette
un sottoricoprimento finito.
A è limitato, quindi A ⊂ [a, b]. Assumiamo per assurdo che esista un ricoprimento F di A che non
ammetta alcun sottoricoprimento finito. Utilizzando la stessa tecnica utilizzata per dimostrare il teorema
di Bolzano-Weierstrass, dividiamo l’intervallo [a, b] in due parti uguali [a, c] e [c, b]; allora A ∩ [a, c] e
A ∩ [c, b] sono anch’essi chiusi e limitati, ed esistono due sottoinsiemi F ′ e F ′′ di F tali che F ′ ricopre
A ∩ [a, c], F ′′ ricopre A ∩ [c, b] e F ′ ∪ F ′′ = F (si tratta di una affermazione banale: basta mettere in
F ′ tutti gli U di F che hanno intersezione non vuota con A ∩ [a, c] e in F ′′ tutti gli U di F che hanno
intersezione non vuota con A ∩ [c, b]). Almeno uno dei due ricoprimenti F ′ di A ∩ [a, c] e F ′′ di A ∩ [c, b]
non deve ammettere un sottoricoprimento finito: se entrambe ammettessero un sottoricoprimento finito,
146
Alberto Berretti Analisi Matematica I
l’unione dei due sottoricoprimenti finiti sarebbe un sottoricoprimento finito di F ma noi abbiamo fatto
l’assunzione che tale sottoricoprimento finito non esista. Sia dunque [a1 , b1 ] uno dei due intervalli
[a, c], [c, b], tale che A1 = A ∩ [a1 , b1 ] ha un ricoprimento F1 che non ammette un sottoricoprimento
finito (F1 è F ′ o F ′′ a seconda di quale intervallo abbiamo scelto).
A1 si trova nelle medesime condizioni di A, per cui possiamo ripetere la medesima costruzione ed
ottenere un insieme A2 ricoperto da F2 il quale non ammette un sottoricoprimento finito, e cosí via.
Ragionando come nella dimostrazione del teorema di Bolzano-Weierstrass, abbiamo due succes-
sioni ak ր α, bk ց β = α, ed esiste un K grande a piacere tale che AK ⊂ [aK , bK ], che contiene elementi
di A1 , è ricoperto da Fk che non ammette sottoricoprimento finito. Ma ciò e impossibile. Infatti, sia
a ∈ Ak ⊂ [aK , bK ], e sia U ∈ F , U ∋ a. Essendo U aperto, se K è sufficientemente grande [aK , bK ] ⊂ U,
e quindi posso mettere in Fk solo U, ottenendo un ricoprimento finito la cui esistenza era stata negata per
assurdo. La prima parte del teorema è quindi dimostrata.
Per quanto riguarda la seconda parte del teorema, dimostriamo prima che l’insieme A è limitato.
Possiamo costruire un ricoprimento di A considerando l’insieme F degli intervalli della forma (x −
1, x + 1), ∀x ∈ A: è evidente che si tratta di un ricoprimento. Se esiste un sottoricoprimento finito,
formato da M intervalli, allora l’insieme A è contenuto nella loro unione, e quindi è contenuto al
massimo in un intervallo lungo M, e quindi è limitato.
Per dimostrare la seconda parte del teorema, dobbiamo dimostrare che A è chiuso. Se A è vuoto, è
chiuso. Se A è un insieme finito, è pure chiuso. Resta quindi solo da considerare il caso in cui A sia
un insieme infinito. Dimostreremo in questo caso per assurdo che l’insieme A contiene i suoi punti
di accumulazione e quindi è chiuso per il teorema 22.
Se A è infinito, essendo limitato per quanto osservato sopra deve possedere almeno un punto di
accumulazione x0 , per il teorema di Bolzano-Weierstrass, ed ammettiamo per assurdo che x0 < A.
Costriuamo un ricoprimento F nel modo seguente: per ogni x ∈ A, sia 0 < ε(x) < |x − x0 |, cioè
un numero positivo minore della distanza tra x ed il punto di accumulazione x0 (x0 non fa parte
di A quindi la distanza tra un punto qualsiasi di A e x0 è sempre maggiore di 0), e ricopriamo
A con F = {(x − ε(x), x + ε(x))}. F è ovviamente un ricoprimento di A, in quanto ogni punto x
di A è contenuto in almeno uno degli intervalli che costituiscono F (ad es. (x − ε(x), x + ε(x))); si
osservi che nessuno di tali intervalli contiene il punto di accumulazione x0 . Ma per ipotesi ammettiamo
che esista un sottoricoprimento finito di F : sia tale sottoricoprimento finito formato dagli intervalli
Ik = (xk − ε(xk), xk + ε(xk), k = 1, . . . , M. Ora, nessuno di tali intervalli contiene x0 , e quindi nemmeno la
[M
loro unione B = Ik . Ma la distanza di x0 da ciascun intervallo Ik è maggiore di 0 e quindi anche la
k=1
distanza da B da x0 è maggiore di 0, e quindi x0 è esterno a B. Ma siccome B contiene A (è l’unione di
intervalli che formano un ricoprimento di A), x0 è anche esterno a A, il che contraddice l’ipotesi che
x0 sia un punto di accumulazione.
1
Ak non può essere vuoto. Infatti se lo fosse allora potrei prendere Fk vuoto e ricoprire il nulla col nulla,
ottenendo un ricoprimento finito, perché costituito da 0 elementi.
147
Alberto Berretti Analisi Matematica I
cioè se n > N allora la successione è compresa fra aN+1 − 1 e aN+1 + 1. D’altra parte, se n ≤ N,
abbiamo un numero finito di elementi della successione, ed un insieme finito di numeri
ammette sempre massimo e minimo: sia pertanto an1 il piú piccolo e an2 il piú grande degli
a1 , . . . , aN . Allora chiaramente:
ε
∀ε > 0 ∃ N : n > N ⇒ |an − l| < .
2
Quindi se sia n che m sono maggiori di N abbiamo:
ε ε
|an − am | = |an − l + l − am | ≤ |an − l| + |am − l| < + = ε,
2 2
e la prima metà del teorema è dimostrata.
Viceversa, sia {an } una successione fondamentale. Per la proposizione 16, {an } è limitata e
per il teorema 25 ammette una sottosuccessione {ank } convergente:
lim ank = l,
k→∞
148
Alberto Berretti Analisi Matematica I
cioè:
ε
∀ε > 0 ∃ K : k > K1 → |ank − l| < .
2
Ma nk → ∞ e quindi:
∀M > 0 ∃ K2 > 0 : nk > M,
Una funzione continua è intuitivamente una funzione “che non fa salti”. Questo concetto
intuitivo è tuttavia molto lontano da una formulazione matematica esatta, in grado di portare
a risultati utili. Definiamo ora in modo matematicamente corretto il concetto di continuità
di una funzione di una variabile reale, e studiamo le proprietà elementari delle funzioni
continue di una variabile reale.
Per poter parlare di continuità della funzione f nel punto x0 , pertanto, non solo il punto
x0 deve far parte del dominio della funzione (altrimenti non possiamo scrivere f (x0 )), ma
deve avere senso parlare di limite per x → x0 : pertanto per poter dare un senso alla (3.39)
dobbiamo assumere che x0 sia un punto di accumulazione del dominio della funzione: ad es.
(ma non solo) un punto interno al dominio, o, se il dominio è un intervallo, uno degli estremi
dell’intervallo. La definizione data dunque non si applica se il punto x0 è un punto che fa
parte del dominio della funzione, ma non è un punto di accumulazione, e cioè se x0 è un
punto isolato del dominio; tipicamente una funzione viene definita continua “per default” in
un punto isolato, ma la continuità delle funzioni definite in un solo punto non è un argomento
che ci appassiona.
149
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Noi siamo passati dal definire la continuità di una funzione in un punto utilizzando il
limite alla (3.39) utilizzando la definizione di limite in modo diretto, “in termini di ε e δ”.
Si osservi che non abbiamo scritto 0 < |x − x0 | < δ, ma solo |x − x0 | < δ: infatti essendo la
funzione definita in x0 non abbiamo bisogno di escludere tale punto, ed essendo il valore del
limite esattamente uguale al valore della funzione in x0 il secondo membro dell’implicazione
contenuta nella (3.39) è automaticamente soddisfatto quando x = x0 .
Una funzione è continua in un insieme I ⊂ dom( f ) se è continua in ogni punto dell’insieme
I.
Se lim+ f (x) = f (x0 ) si dice che la funzione f è continua da destra in x0 . Analogamente se
x→x0
lim− f (x) = f (x0 ) si dice che la funzione f è continua da sinistra.
x→x0
Esempio 43. Tutti i teoremi che abbiamo dimostrato precedentemente sui limiti ci forniscono
una ampia dotazione di funzioni continue. In particolare:
• Una funzione costante f (x) = c è continua.
• La funzione identità f (x) = x è continua.
• La somma di due funzioni continue è una funzione continua.
• Il prodotto di due funzioni continue è una funzione continua.
• Il quoziente di due funzioni continue è una funzione continua.
• La funzione f (x) = xα , α ∈ R, è continua per ogni x in cui è definita (cioè per ogni x se
α ≥ 0, e per ogni x , 0 se α < 0).
• Le funzioni f (x) = ax (a > 0), f (x) = loga x (a > 0, a , 1) sono continue nel loro dominio.
• Un polinomio è una funzione continua.
• Una funzione razionale è una funzione continua dove è definita (cioè dove il denomi-
natore non si annulla).
È utile rintracciare i teoremi e le osservazioni sui limiti che permettono di verificare tali
asserzioni.
Esempio 45. Sia h(x) = f (g(x)), dove il dominio di f contiene il codominio di g, sia g continua
in x0 e f continua in g(x0 ). Allora h(x) è continua in x0 : ciò segue immediatamente dal teorema
sul limite delle funzioni composte. Si osservi che la condizione aggiuntiva, per la quale in
un intorno di x0 la funzione g deve assumere il valore g(x0 ) solo in x0 , non è necessaria per la
medesima ragione per la quale nella definizione di continuità (3.39) scriviamo solo |x− x0 | < δ
e non 0 < |x − x0 | < δ.
150
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Esempio 48. In questo esempio abbiamo un esempio di una funzione definita ovunque ed
ovunque discontinua. Sia µ(x) la funzione di Dirichlet:
0 se x ∈ R \ Q,
µ(x) =
1
se x ∈ Q.
Allora µ(x) è discontinua ∀x ∈ R. Infatti in ogni intervallo (x − δ, x + δ), sia se x è razionale sia
se x è irrazionale, esistono sempre sia numeri razionali che numeri razionali, per quanto sia
piccolo δ > 0, e quindi in ogni tale intervallo esistono punti in cui la funzione vale 0 e punti
in cui la funzione vale 1, che quindi non può essere continua.
Esempio 49. È immediato verificare che la funzione xµ(x) è continua per x = 0 e discontinua
per ogni altro numero reale.
Esempio 50. Quest’esempio è ancora piú “esotico” ed è piuttosto lontano dal concetto in-
tuitivo di funzione continua perché “non fa salti”. Scriviamo ogni numero razionale x come
frazione p/q, ridotta ai minimi termini (gcd(p, q) = 1): come è noto, ciò può essere fatto in
modo unico, a meno del segno. Definiamo quindi:
0 se x ∈ R \ Q,
f (x) =
12
q
se x ∈ Q.
Allora f (x) è continua sugli irrazionali e discontinua sui razionali. Infatti, se x0 è razionale,
f ha un valore 1/q2 > 0, ma in ogni intervallo (x0 − δ, x0 + δ) esistono degli irrazionali
(infiniti irrazionali), in cui la funzione vale 0: pertanto, per quanto piccolo prenda δ, la
differenza fra f (x0 ) = 1/q2 e alcuni dei punti in (x0 − δ, x0 + δ) (gli irrazionali in cui f vale 0)
151
Alberto Berretti Analisi Matematica I
resta pari a 1/q2 e quindi non può essere resa piccola a piacere; quindi f è discontinua sui
razionali. Viceversa, se x0 è irrazionale, consideriamo di nuovo l’intervallo (x0 − δ, x0 + δ);
allora f (x0 ) = 0, e man mano che prendiamo δ sempre piú piccolo i razionali contenuti in
(x0 − δ, x0 + δ) approssimano sempre meglio l’irrazionale x0 , e quindi hanno dei denominatori
q sempre piú grandi: pertanto nei razionali dell’intervallo (x0 − δ, x0 + δ) la funzione f ha un
valore pari a 1/q2 > 0 ma q → ∞ quando δ → 0 pertanto f (x) → 0 = f (x0 ) quando x → x0 , da
cui la sua continuità.
Un altro teorema sui limiti che si generalizza immediatamente alle funzioni continue è il
seguente.
Teorema 28 (Permanenza del segno). Sia f (x) definita in un intervallo I, sia x0 ∈ I e sia f continua
in x0 , f (x0 ) > 0. Allora esiste un intorno di x0 in cui f (x) > 0.
Dimostrazione. Segue immediatamente dal teorema della permanenza del segno per il limite
e dalla definizione di funzione continua.
È utile anche classificare la natura dei punti in cui una funzione non è continua. Se
lim f (x) = lim− f (x) , f (x0 ), cioè i limiti per x → x0 da destra e da sinistra esistono e sono
x→x+
0
x→x0
uguali ma differiscono dal valore della funzione in x0 , si dice che x0 è una discontinuità
rimuovibile: in fatti in tal caso cambiando la definizione della funzione in un punto – definendo
cioè f (x0 ) pari al limite richiesto – la funzione può essere trasformata in una funzione continua
in x0 . Se invece lim+ f (x) , lim− f (x), cioè i limiti da destra e da sinistra in x0 esistono ma sono
x→x0 x→x0
diversi, si dice che x0 è una discontinuità di prima specie o di salto, per ovvie ragioni. In
tutti gli altri casi (ad es. anche uno solo dei due limiti da destra o da sinistra non esiste o è
infinito) si parla di discontinuità di seconda specie.
152
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Il teorema dell’esistenza degli zeri enuncia una delle proprietà piú importanti delle funzioni
continue, e giustifica il nome che viene loro dato.
Teorema 29. Sia f una funzione continua nell’intervallo chiuso e limitato [a, b] e sia f discorde agli
estremi dell’intervallo (cioè f (a) f (b) < 0). Allora esiste α ∈ (a, b) tale che f (α) = 0.
In parole povere, se una funzione continua “parte da a” e “arriva fino a b”, in a ha un certo
segno ed in b ha il segno opposto, “da qualche parte in mezzo” è passata per lo 0, “senza
saltare”, appunto.
153
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Dimostrazione. Daremo ben due dimostrazioni di questo risultato, perché entrambe sono
interessanti di per sé. In entrambe le dimostrazioni assumiamo che f (a) < 0, f (b) > 0: l’altro
caso è sostanzialmente identico.
Prima dimostrazione. Sia A = {x ∈ [a, b] : f (x) < 0} =⊂ [a, b]. L’insieme A non è vuoto,
perché contiene almeno a. L’insieme A è limitato superiormente, perché tutti gli x in A sono
minoridi b. Poiché A è non vuoto e limitato superiormente, possiede un estremo superiore
α. f (α) non può essere positivo: infatti se lo fosse per il teorema della permanenza del segno
esisterebbe δ > 0 tale che se x ∈ (α − δ, α) allora f (x) > 0, e quindi l’estremo superiore di A
sarebbe inferiore a α. f (α) non può essere negativo: infatti se lo fosse per il teorema della
permanenza del segno esisterebbe δ > 0 tale che se x ∈ (α, α + δ) allora f (x) < 0, e quindi
l’estremo superiore di A sarebbe superiore a α. Quindi f (α) deve essere 0.
Seconda dimostrazione. Dividiamo l’intervallo [a, b] in due parti uguali [a, c] e [c, b], c =
(a + b)/2. I casi sono tre: f (c) = 0, f (c) > 0 o f (c) < 0. Nel primo caso abbiamo trovato lo
zero richiesto ed il teorema è dimostrato. Nel secondo caso poniamo a1 = a, b1 = c. Nel terzo
caso poniamo a1 = c, b1 = b. Ci ritroviamo comunque con un intervallo lungo la metà tale
che f (a1 ) < 0, f (b1 ) > 0. Possiamo quindi ripetere la costruzione prendendo c1 = (a1 + b1 )/2
ed ottenendo o f (c1 ) = 0, in qual caso la dimostrazione del teorema è terminata, o un nuovo
intervallo [a2 , b2 ] tale che f (a2 ) < 0, f (b2 ) > 0 e lungo la metà del precedente, e cioè un quarto
di quello di partenza. La costruzione può essere iterata finché non arriviamo ad un k tale che
f (ck ) = 0, in qual caso la dimostrazione del teorema è terminata, o in caso non termini mai
può essere iterata all’infinito. In questo secondo caso, abbiamo ottenuto due successioni {ak },
{bk }, tali che (i) ak ր (ii) bk ց (iii) ak < b (iv) bk > a (v) bk − ak = (b − a)/2k → 0. Ragionando
come nella dimostrazione dei teoremi di Bolzano-Weierstrass e di Heine-Borel, esiste allora
un α ∈ [a, b] tale che lim ak = lim bk = α. f (α) non può essere positivo: se lo fosse, ∃ δ > 0
k→∞ k→∞
tale che in (α − δ, α) f > 0 per il teorema della permanenza del segno; ma in tale intervallo,
poiché ak ր α, esistono sempre degli ak (basta prendere k sufficientemente grande!) nei quali
f (ak ) < 0, ottenendo dunque una contraddizione. f (α) non può essere negativo: se lo fosse,
∃ δ > 0 tale che in (α, α + δ) f < 0 per il teorema della permanenza del segno; ma in tale
intervallo, poiché bk ց α, esistono sempre dei bk (basta prendere k sufficientemente grande!)
nei quali f (bk ) > 0, ottenendo dunque un’altra contraddizione. Dunque f (α) = 0, e quindi
ovviamente α non può essere né a né b quindi α ∈ (a, b).
Si noti che il teorema dell’esistenza degli zeri ci dimostra che nelle ipotesi indicate esiste
almeno uno zero. In realtà potrebbe esisterne piú di uno, come è ovvio.
Le seguenti sono alcune conseguenze, piú o meno elementari, del teorema dell’esistenza
degli zeri.
154
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Corollario 1. Sia f definita e continua nell’intervallo [a, b] e sia f (a) < y, f (b) > y; allora ∃ α ∈ (a, b)
tale che f (α) = y.
Corollario 2. Siano f , g funzioni definite e continue nell’intervallo [a, b], e sia f (a) < g(a), f (b) >
g(b); allora ∃α ∈ (a, b) tale che f (α) = g(α).
Corollario 3. Sia f definita e continua in un intervallo I. Allora f assume in I tutti i valori compresi
tra inf f e sup f .
I I
Dimostrazione. Si osservi che non è necessario che I sia chiuso e limitato. Se inf f < y < sup f ,
I I
allora esistono a, b ∈ I tali che f (a) < y < f (b). Se consideriamo l’intervallo [a, b] se a < b,
ovvero [b, a] se a > b, siamo nelle condizioni del corollario 1.
Corollario 4. Sia f una funzione continua in un intervallo I. Allora l’immagine f (I) è un intervallo.
Dimostrazione. È una conseguenza diretta del corollario precedente e del significato della
parola “intervallo”.
La continuità della funzione inversa non è automaticamente vera. È facile infatti trovare dei
controesempi, cioè delle funzioni continue in ogni punto del loro dominio la cui inversa non
è continua. Un esempio classico è il seguente.
155
Alberto Berretti Analisi Matematica I
2.0
1.5
1.0
1.0
0.5
0.5
- 0.5
- 0.5
-1.0 -1.0
Teorema 30. Sia f : I 7→ R una funzione continua e invertibile nell’intervallo I. Allora la funzione
inversa è continua.
Dimostrazione. Siano x1 , x2 , x3 ∈ I tali che x1 < x2 < x3 . Dobbiamo dimostrare che o f (x1 ) <
f (x2 ) < f (x3 ) o f (x3 ) < f (x2 ) < f (x1 ).
Sia f (x1 ) < f (x3 ), e assumiamo che f (x1 ) < f (x3 ) < f (x2 ). Allora per il corollario 1 esiste
un x̄ ∈ (x1 , x2 ) tale che f (x̄) = f (x3 ) il che contraddice l’invertibilità della f . Se assumiamo
che f (x2 ) < f (x1 ) < f (x3 ), allora per il medesimo corollario deve esistere x̄ ∈ (x1 , x2 ) tale
che f (x̄) = f (x3 ) contraddicendo di nuovo l’invertibilità della f , e pertanto deve essere
f (x1 ) < f (x2 ) < f (x3 ).
Sia f (x3 ) < f (x1 ), e assumiamo che f (x3 ) < f (x1 ) < f (x2 ). Allora esiste x̄ ∈ (x1 , x2 ) tale che
f (x̄) = f (x3 ), contraddicendo l’invertibilità di f . Se assumiamo che f (x2 ) < f (x3 ) < f (x1 ),
allora esiste x̄ ∈ (x1 , x2 ) tale che f (x̄) = f (x3 ) contraddicendo ancora l’invertibilità di f , e
pertanto deve essere f (x3 ) < f (x2 ) < f (x1 ).
156
Alberto Berretti Analisi Matematica I
differisce di poco. Anche la f −1 è dunque crescente, e quindi esistono i limiti l+ = lim+ f −1 (y),
y→y0
−1
l− = lim− f (y), che soddisfano l− ≤ l+ . Se l− = l+ allora f −1 è continua e quindi abbiamo
y→y0
fatto. Se l− < l+ allora ∃x̄ tale che l− < x̄ < l+ ; in tal caso, per la monotonia di f abbiamo che
∀δ > 0:
f (l− − δ) < f (x̄) < f (l+ + δ)
f (x̄) ≥ y0 , f (x̄) ≤ y0
(per la monotonia della f e per la definizione di limite, ovvero facendo tendere δ a 0 nella
formula precedente). Quindi f (x̄) = y0 . Ne segue una alternativa fra due cose entrambe
impossibili: o in (l− , l+ ) c’è un solo punto in cui la f è definita, e quindi il suo dominio
contrariamente all’ipotesi non è un intervallo, o ∀x ∈ (l− , l+ ) la f vale y0 , ma allora non è
invertibile perché non iniettiva.
Teorema 31. Sia f : [a, b] 7→ R una funzione continua nell’intervallo chiuso e limitato [a, b]. Allora
f è limitata in [a, b].
157
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Ora, osserviamo che essendo f continua in [a, b] e quindi anche in α, ∀ε > 0 ∃ δ > 0 tale che
se x ∈ (α − δ, α + δ) allora f (α) − ε < f (x) < f (α) + ε, e quindi ∃ δ > 0 tale che in (α − δ, α + δ)
la f è limitata. Ma poiché ak ր α e bk ց α, ∀δ > 0 ∃K tale che [aK , bK ] ⊂ (α − δ, α + δ), ed
essendo f illimitata in [aK , bK ] abbiamo ottenuto una contraddizione.
Teorema 32 (Weierstrass). Sia f continua nell’intervallo chiuso e limitato [a, b]. Allora f ammette
in tale intervallo massimo e minimo.
Corollario 5. Nelle ipotesi del teorema precedente, f ([a, b]) = [m, M].
158
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Cosa è cambiato rispetto alla (3.40)? Abbiamo “solo” spostato un quantificatore (il ∀x ∈ I)
dopo la condizione di esistenza di δ, che pertanto non dipende da x: in altri termini, ora
quanto devono essere vicini x e x′ affinché f (x) e f (x′ ) siano vicini quanto richiesto (cioè meno di ε)
non dipende da x e x′ .
Osservazione 25. Dunque una funzione f soddisfa la (3.40) e ∃ δ̄ε : 0 < δ̄ε ≤ δε,x ∀x ∈ I se e
solo se la f è uniformemente continua. In altri termini, è possibile scegliere δε,x nella (3.40)
in modo tale che inf δε,x = δ̄ε > 0 se e solo se f è uniformemente continua in I.
x∈I
Osservazione 26. Mentre ha senso parlare di continuità di una funzione in un punto, anzi
il concetto di continuità è un concetto che vale per una funzione in un punto, e poi si dice
che è continua in un insieme se è continua in tutti i punti dell’insieme, non ha senso parlare
di continuità uniforme di una funzione in un punto. Il concetto di uniformità vuol dire che
qualcosa non dipende dal punto, e quindi non ha senso applicarlo quando il punto in cui
studiamo la questione non varia.
Esempio 57. Sia f (x) = x2 , I = [0, 1]. Allora abbiamo che ∀x1 , x2 ∈ [0, 1] |x21 − x22 | = |x1 + x2 | |x1 −
x2 | < 2|x1 − x2 |, pertanto se prendiamo δε = ε/2, abbiamo che |x1 − x2 | < δε ⇒ |x21 − x22 | < ε, da
cui l’uniforme continuità della funzione nell’intervallo indicato.
Esempio 58. Sia f (x) = 1/x e sia Iα = [α, 1], 0 < α < 1. Allora f è uniformemente continua in
[
ogni intervallo Iα , ma non nella loro unione [α, 1] = (0, 1]. Infatti:
α∈(0,1)
1 1 |x − x | |x − x |
′ ′
− = ≤ ,
x x′ |x x′ | α2
per cui scegliendo δε = α2 ε abbiamo che |x − x′ | < δε ⇒ |1/x − 1/x′ | < ε. Ma non possiamo
prendere α = 0 perché deve essere δε > 0. In effetti, la funzione non è uniformemente continua
in (0, 1]; infatti, prendiamo x′ = x + δ, allora:
1 1 δ
x − x′ = x(x + δ) ,
che, fissato δ, tende a +∞ per x → 0+ . Pertanto non è possibile scegliere δ cosí piccolo da
rendere |1/x − 1/x′ | < ε indipendentemente da x.
159
Alberto Berretti Analisi Matematica I
√
Esempio 59. La funzione f (x) = x è uniformemente continua tutto il suo dominio [0, +∞).
Infatti se a, b ≥ 0 vale la seguente, banale, disuguaglianza:
|a − b| ≤ a + b
Fortunatamente il seguente teorema ci permette di evitare di stimare δε,x ogni volta che
dobbiamo determinare se una funzione è uniformemente continua.
Lemma 3. Sia f uniformemente continua negli intervalli [a, c] e [c, b]. Allora f è uniformemente
continua nell’intervallo [a, b].
∀ε > 0 ∃δ1 > 0 ∀x′ , x′′ ∈ [a, c] : |x′ − x′′ | < δ1 ⇒ | f (x′ ) − f (x′′ )| < ε.
∀ε > 0 ∃δ2 > 0 ∀x′ , x′′ ∈ [c, b] : |x′ − x′′ | < δ2 ⇒ | f (x′ ) − f (x′′ )| < ε.
Cosa succede se però x′ ∈ [a, c] e x′′ ∈ [c, b]? In questo caso, sfruttiamo il fatto che f è continua
in c e pertanto:
ε
∀ε > 0 ∃δ3 > 0 : |x − c| < δ3 ⇒ | f (x) − f (c)| < ,
2
quindi se x′ ∈ [a, c], x′′ ∈ [c, b] e |x′ − x′′ | < δ3 abbiamo:
ε ε
| f (x′ ) − f (x′′ )| = | f (x′ ) − f (c) + f (c) − f (x′′ )| ≤ | f (x′ ) − f (c)| + | f (x′′ ) − f (c)| < + = ε.
2 2
Quindi comunque prendiamo x′ , x′′ nell’intervallo [a, b] abbiamo che:
160
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Supponiamo ora che f : [a, b] 7→ R sia continua in [a, b] ma non uniformemente continua.
Come nelle dimostrazioni dei teoremi sopra citati, dividiamo l’intervallo [a, b] in due metà
[a, c] e [c, b], dove c = (a + b)/2. Allora per il lemma precedente f non è uniformemente
continua in almeno uno dei due intervalli [a, c] o [c, b]. Scegliamo dunque di questi due
intervalli uno in cui la f non è uniformemente continua, e chiamiamolo [a1 , b1 ]. Ripetendo
l’argomento, otteniamo due successioni ak , crescente e limitata superiormente da b, e bk ,
decrescente e limitata inferiormente da a, e tali che bk − ak = (b − a)/2k → 0. Pertanto
entrambe convergono e convergono al medesimo limite α ∈ [a, b].
Ora, la f è continua in α quindi ∀ε > 0 ∃δ > 0 tale che se |x − α| < δ allora | f (x) − f (α)| < ε/2,
quindi ∀ε > 0 ∃δ > 0 tale che se x′ , x′′ sono contenuti in (α − δ, α + δ) allora | f (x′ ) − f (x′′ )| ≤
| f (x′ ) − f (α)| + | f (x′′ ) − f (α)| < ε. Ma ∃k tale che ak ∈ (α − δ, α), bk ∈ (α, α + δ) e quindi
[ak , bk ] ⊂ (α − δ, α + δ); siccome l’intervallo [ak , bk ] è stato costruito in modo che la f non
sia uniformemente continua in tale intervallo, ∃ε > 0 tale che ∀δ > 0 ∃x′ , x′′ ∈ [ak , bk ] ⊂
(α − δ, α + δ) tali che | f (x′ ) − f (x′′ )| ≥ ε, il che costituisce una contraddizione.
Osservazione 27. Non è difficile, utilizzando il medesimo argomento utilizzato nella dimo-
strazione del teorema di Heine-Borel, dimostrare che se f è continua in un qualunque insieme
I chiuso e limitato (non necessariamente un intervallo) allora è uniformemente continua in I.
Raccogliamo qui alcuni esercizi di ricapitolazione sul calcolo dei limiti e sul confronto fra
ordini di infinito o infinitesimo.
161
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Soluzione. Abbiamo:
3 (x + o(x))2
ex − cos(sin x) = 1 + x3 + o(x3 ) − cos(x + o(x)) = 1 + x3 + o(x3 ) − 1 + =
2
x2
= + o(x2 ),
2
e:
log(1 + tan 3x2 ) = log(1 + 3x2 + o(x2 )) = 3x2 + o(x2 ),
per cui:
3
ex − cos(sin x) x2 /2 + o(x2 ) 1/2 + o(1) 1 1
2
= 2 2
= = + o(1) → .
log(1 + tan 3x 3x + o(x ) 3 + o(1) 6 6
Esercizio 22. Disporre in ordine di infinitesimo crescente per x → 0+ le seguenti funzioni:
x2
1−e1−e
f (x) = log tan x,
g(x) = (log(1 + tan x))2 ,
2
h(x) = (ex /2 − cos x) log sin x.
Soluzione. Abbiamo: 2 2
1 − e−x +o(x ) x2 + o(x2 )
f (x) = = ,
log(x + o(x)) log x + o(1)
perché log(x + o(x)) = log(x(1 + o(1)) = log x + log(1 + o(1)) = log x + o(1), pertanto:
x2 (1 + o(1)) x2 (1 + o(1))
f (x) = = ,
(1 + o(1)/ log x) log x (1 + o(1)) log x
Poi:
g(x) = (log(1 + x + o(x)))2 = (x + o(x))2 = x2 + o(x2 ).
Infine:
162
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Esempio 60. Sia f (x) = x e g(x) = x + log x. Allora per x → +∞ f (x) ∼ g(x), cioè sono del
log x
medesimo ordine, in quanto ovviamente lim (x+ log x)/x = lim (1+ ) = 1. Componendo
x→+∞ x→+∞ x
però f e g con la medesima funzione non è detto che continuino ad essere del medesimo ordine!
Ad esempio, se f˜(x) = e f (x) = ex e g̃(x) = eg(x) = xex allora g̃(x) tende a +∞ piú rapidamente di
f˜(x).
163
4. Derivate e studio di funzioni
Il concetto di derivata, introdotto sostanzialmente da Isaac Newton nel XVII secolo, rende
matematicamente rigoroso il concetto di tasso di variazione istantaneo di qualche quantità,
e quindi è cruciale per poter parlare in fisica di velocità, accelerazione etc.; praticamente
tutte le leggi fondamentali della fisica (ed in primis la seconda legge di Newton, F = ma) si
esprimono in termini di derivate.
164
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Il limite nella (4.1) potrebbe non esistere perché i limiti da destra e da sinistra esistono ma
sono diversi tra di loro. In tal caso definiamo la derivata destra e la derivata sinistra nel
modo naturale:
f (x0 + h) − f (x0 ) f (x) − f (x0 )
f+′ = lim+ = lim+ , (4.3)
h→0 h x→x0 x − x0
f (x0 + h) − f (x0 ) f (x) − f (x0 )
f−′ = lim− = lim− . (4.4)
h→0 h x→x0 x − x0
f (x) − f (x0 )
∆(x) = .
x − x0
Allora f (x) = f (x0 ) + ∆(x)(x − x0 ). Se ∆(x) tende a limite finito per x → x0 allora chiaramente
f (x) deve tendere a f (x0 ).
Osservazione 28. Si osservi che il risultato è valido anche se f ammette in x0 derivata sinistra
e derivata destra diverse.
1.2
1.1
1.0
Retta tangente
0.9
f(x)
0.8
Retta secante
165
Alberto Berretti Analisi Matematica I
La derivata ha una semplice interpretazione geometrica (v. fig. 4.1). Consideriamo una
funzione f definita ad es. in un intervallo I, e siano x0 , x1 ∈ I. Allora la secante al grafico di f
che passa per i punti (x0 , f (x0 )) , (x1 , f (x1 )) ha equazione:
f (x1 ) − f (x0 )
y = f (x0 ) + (x − x0 ), (4.5)
x1 − x0
per cui il rapporto incrementale è il coefficiente angolare della secante al grafico della funzione
f tra i punti indicati.
Al tendere di x1 a x0 , il rapporto incrementale tende – se il limite esiste – alla derivata
f ′ (x0 ), e la retta secante tende alla retta tangente al grafico della curva nel punto (x0 , f (x0 )):
da cui l’interpretazione importante della derivata di una funzione in un punto come coefficiente
angolare della retta tangente al grafico della funzione nel punto considerato.
Il rapporto incrementale di una funzione f (x) tra i valori x0 e x1 della variabile indipendente
x esprime il tasso di variazione medio tra x0 e x1 della quantità espressa dalla funzione f al variare
di x (“quanto varia f diviso quanto varia x”). Il suo limite quando x1 tende a x0 può essere
quindi interpretato come tasso di variazione istantanea della quantità espressa da f al variare
di x per x = x0 .
Sia ad es. x = f (t) la legge oraria che esprime la posizione x di un punto che si muove
su una retta al variare del tempo t. Allora la velocità media tra gli istanti di tempo t0 e t1 è
data dal rapporto incrementale ( f (t1 ) − f (t0 ))/(t1 − t0 ) , e la velocità instantanea nell’istante
di tempo t0 è data dal suo limite per t1 → t0 pari alla derivata f ′ (t0 ).
f (x) − f (x0 )
Se il limite del rapporto incrementale tende a +∞ o a −∞ per x → x0 allora
x − x0
la posizione della retta tangente è verticale: in questo caso si dice che f ha in x0 un punto a
tangente verticale. Se la derivata destra e la derivata sinistra esistono (finite) e sono diverse,
allora si dice che f ha in x0 un punto angoloso. Se invece i limiti del rapporto incrementale
tendono a +∞ da un lato e a −∞ dall’altro, si dice che la funzione presenta in x0 una cuspide
(v. fig. 4.2).
166
Alberto Berretti Analisi Matematica I
1.0 1.0
0.8 0.8
0.6 0.6
0.4 0.4
0.2 0.2
0 .5
- 1 .0 - 0 .5 0 .5 1 .0
- 0 .5
- 1 .0
Esempio 64. La funzione f (x) = xn , n ∈ N, ha come derivata nxn−1 . Infatti, facendo uso della
cosiddetta “regola di Ruffini”, otteniamo:
−✘x✘
Pn−1 k n−1−k
f (x) − f (x0 ) xn − xn0 ✘(x✘ 0 ) k=0 x0 x
= = → nxn−1 (4.10)
x − x0 x − x0 ✘✘x✘
x− 0
0
quando x → x0 .
Esempio 65. Le funzioni utilizzate per i grafici della figura 4.2 sono:
2 se x ≥ 0,
x
f (x) =
1 − (1 + x)2 se x < 0
√ √
nel caso del punto angoloso in 0, f (x) = |x| nel caso della cuspide in 0 e f (x) = 3 x nel caso
della tangente verticale in 0.
167
Alberto Berretti Analisi Matematica I
d2 f
= f ′′ (x) = f¨(x) = D2 f (x), (4.12)
dx2
a seconda che si usi la notazione di Leibnitz, Lagrange, Newton o Eulero.
Possiamo iterare l’operazione, e definire per induzione - se esiste - la derivata di ordine n
di una funzione come la derivata della derivata di ordine n − 1. Indicheremo tali derivate
come:
dn f
= f (n) (x) = Dn f (x). (4.13)
dxn
In fisica raramente occorrono derivate di ordine superiore al secondo pertanto la notazione
di Newton per le derivate di ordine qualsiasi non esiste.
È evidente che se una funzione ammette derivata n-esima tutte le derivate di ordine
inferiore esistono e sono funzioni continue.
L’insieme di tutte le funzioni derivabili con derivata continua in D viene indicato con il
simbolo C1 (D) (si legge “C uno”), e tali funzioni vengono dette funzioni di classe C1 in D.
L’insieme delle funzioni derivabili fino all’ordine n con derivata n-esima continua viene indicato
con il simbolo Cn (D) (si legge “C enne”) e tali funzioni vengono dette funzioni di classe
Cn in D. L’insieme delle funzioni che ammettono derivate di ogni ordine viene indicato con
il simbolo C∞ (D) (si legge “C infinito”), e tali funzioni vengono dette funzioni di classe
C∞ . Per analogia, l’insieme delle funzioni continue (ma non necessariamente derivabili) in
D viene indicato con il simbolo C0 (D).
Esempio 66. Per quanto riguarda le derivate di ordine superiore di una potenza, abbiamo le
seguenti formule degne di nota:
Ne segue che la derivata n-esima di un polinomio di grado n è una costante e che la derivata
n + 1-esima, coí come quelle di ordine superiore, è nulla.
168
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Determiniamo ora le prime proprietà delle derivate, in particolare quelle che ci permette-
ranno di calcolare le derivate di funzioni senza dover necessariamente passare per il calcolo
del limite del rapporto incrementale e quelle legate alla crescenza e alla decrescenza delle
funzioni.
(α f )′ = α f ′ , (4.15)
( f + g)′ = f ′ + g′ , (4.16)
( f g)′ = f ′ g + f g′ , (4.17)
!′
1 f′
= − 2, (4.18)
f f
!′
f f g − f g′
′
= . (4.19)
g g2
Ovviamente nel penultimo caso assumiamo che f (x0 ) , 0 e nell’ultimo che g(x0 ) , 0.
Le prime due formule di questo teorema ci dicono invece che la derivata è una operazione
lineare: la derivata di una combinazione lineare di due funzioni è la combinazione lineare
delle derivate delle funzioni:
(α f + βg)′ = α f ′ + βg′ . (4.20)
f (x)g(x) − f (x0 )g(x0 ) f (x)g(x) − f (x0 )g(x) + f (x0 )g(x) − f (x0 )g(x0 )
lim = lim =
x→x0 x − x0 x→x0 x − x0
169
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Osserviamo che si tratta della medesima combinatoria che appare nella formula del
binomio di Newton dimostrata alla fine del cap. 2.
170
Alberto Berretti Analisi Matematica I
La dimostrazione della formula per la derivazione delle funzioni composte è un po’ piú
complessa.
derivabile, e sia:
f : (y0 − η, y0 + η) 7→ I,
pure derivabile. Allora la funzione composta f (g(x)) è anche essa derivabile e la sua derivata è:
Considerando il punto x0 come variabile possiamo quindi dire semplicemente che se le fun-
zioni derivabili f e g hanno domini e codomini tali da essere possibile la loro composizione,
vale la regola ( f (g(x)))′ = f ′ (g(x))g′ (x).
cioè la tesi. Questa dimostrazione però non funziona se non esiste nessun intorno di x0 in
cui g(x) non vale mai g(x0 ) (ad es. nel caso banale in cui g è costante!), perché l’oggetto del
primo limite cessa di essere definito (assumendo la forma 0/0) nell’intorno del punto y0 e
quindi il limite non è definito. Occorre quindi ragionare in modo leggermente diverso.
Definiamo dunque:
f (y) − f (y0 )
y − y0 se y , y0 ,
F(y) =
f ′ (y0 )
se y = y0 .
Ovviamente F è continua e limitata in un intorno di y0 (perché?), ed inoltre vale:
Infine occorre trovare la formula per la derivata della funzione inversa di una funzione
data. Questa segue immediatamente dalla regola della catena.
171
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Teorema 36 (Derivata della funzione inversa). Siano date f (x), g(y), tali che nell’intervallo I
valga:
g( f (x)) = x, ∀x ∈ I.
Allora:
1
g′ (y) = . (4.23)
f ′ (g(y))
Dimostrazione. La dimostrazione di per sé è ovvia, in quanto (g( f (x)))′ = 1 dalle ipotesi, e per
la regola della catena (g( f (x)))′ = g′ (y) f ′ (x). Ma ponendo y = f (x) abbiamo x = g(y) e la tesi
segue immediatamente.
Proposizione 20. Sia f una funzione derivabile. Se f è una funzione pari, f ′ è una funzione dispari
e se f è una funzione dispari f ′ è una funzione pari.
Abbiamo ora gli strumenti per calcolare le derivate delle funzioni elementari, e a partire
da esse possiamo calcolare le derivate di quasi tutto utilizzando le regole del paragrafo
precedente (manca ancora una regola di derivazione, che estende la regola della catena, e
che introdurremo piú avanti).
Abbiamo già calcolato la derivata di una potenza intera n:
1 1
Dxn = D −n
= − −2n (−n)x−n−1 = nx2n−n−1 = nxn−1 (4.25)
x x
(ricordarsi che −n è un intero positivo!).
Calcoliamo ora la derivata dell’esponenziale e del logaritmo (in base e). Abbiamo: ex+h −
ex = ex (eh − 1); dividendo per h e passando al limite per h → 0 otteniamo immediatamente:
Dex = ex , (4.26)
172
Alberto Berretti Analisi Matematica I
ossia la derivata dell’esponenziale è l’esponenziale medesima (in base e). La derivata dell’espo-
nenziale in altre basi si calcola immediatamente riconducendola all’esponenziale in base e:
infatti ax = ex log a , da cui Dax = ax log a. Il logaritmo è la funzione inversa dell’esponenziale,
per cui, ponendo x = ey , abbiamo che:
1 1 1
D log x = y
= y = . (4.27)
De e x
Scrivendo il logaritmo in base arbitraria in termini del logaritmo in base e otteniamo banal-
mente la sua derivata:
D log x 1
D loga x = = . (4.28)
log a x log a
Possiamo ora calcolare la derivata di una potenza di esponente arbitrario:
α
Dxα = Deα log x = eα log x = αxα−1 , (4.29)
x
e cioè la medesima formula che vale per nel caso di esponente intero.
Calcoliamo ora le derivate delle funzioni trigonometriche. Abbiamo innanzitutto:
1
D arctan x = , dove x = tan y,
D tan y
per cui:
1 1
D arctan x = = . (4.34)
1 + tan y 1 + x2
2
173
Alberto Berretti Analisi Matematica I
del seno varia in [−π/2, π/2], e la funzione arcocoseno viene definita come l’inverso della
funzione coseno quando l’argomento del coseno varia in [0, π]. Ricordandoci di questo,
proseguiamo con l’utilizzo della formula per la derivata della funzione inversa:
1 1
D arcsin x = = .
D sin y cos y
Come abbiamo detto sopra, y ∈ [−π/2, π/2]; in x = ±1, che corrisponde a y = ±π/2, l’arcoseno
non è dunque derivabile. Quando y ∈ (−π/2, π/2), invece, cos y è positivo: se lo esprimiamo
in termini di x = sin y otteniamo dunque:
1
D arcsin x = √ . (4.35)
1 − x2
Per quanto riguarda l’arcocoseno, ragioniamo in maniera analoga:
1 1
D arccos x = − =− .
D sin y sin y
In x = ±1, che corrisponde a y = 0, π, l’arcocoseno non è dunque derivabile. Quando
y ∈ (0, π), invece, sin y è positivo: se lo esprimiamo in termini di x = cos y otteniamo dunque:
1
D arccos x = − √ . (4.36)
1 − x2
Riassumiamo le derivate delle funzioni elementari nella seguente tabella.
f (x) f ′ (x)
xα αxα−1
ex ex
1
log x
x
sin x cos x
cos x − sin x
1
tan x = 1 + tan2 x
cos2 x
1
cot x − 2 = −1 − cot2 x
sin x
1
arcsin x √
1 − x2
1
arccos x −√
1 − x2
1
arctan x
1 + x2
174
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Studiamo ora le proprietà delle funzioni derivabili in un intervallo. L’ipotesi tipica sarà
quella di avere una funzione f (x) definita per x ∈ [a, b], continua in [a, b] e derivabile in (a, b).
Teorema 37 (Fermat). Sia f derivabile nel punto x0 , e sia tale punto un punto di massimo o di
minimo locale. Allora f ′ (x0 ) = 0.
175
Alberto Berretti Analisi Matematica I
f (x) − f (x0 )
lim− ≥ 0,
x→x0 x − x0
f (x) − f (x0 )
lim+ ≤ 0,
x→x0 x − x0
È evidente che tale teorema sarà uno strumento potente per lo studio delle funzioni, come
vedremo piú avanti. Ma ha anche altri utilizzi.
Il teorema di Rolle fornisce una semplice condizione per l’esistenza di punti critici di una
funzione derivabile in un intervallo. Pur essendo non particolarmente utile di per sé, è uno
strumento importantissimo per la dimostrazione dei risultati che seguiranno. In fig. 4.3
possiamo vederne il significato geometrico.
Teorema 38 (Rolle). Sia f una funzione continua in [a, b] e derivabile in (a, b). Se f (a) = f (b) allora
esiste almeno un c ∈ (a, b) tale che f ′ (c) = 0.
Dimostrazione. Se f è continua nell’intervallo chiuso e limitato [a, b], allora per il teorema
di Weierstrass (dimostrato nel cap. 4) essa ammette massimo e minimo assoluto. Esistono
pertanto nell’intervallo [a, b] due punti xm , xM , rispettivamente di minimo e di massimo
assoluto. Ora, vediamo dove possono stare tali punti. Se stanno entrambe agli estremi, e cioè
xm = a e xM = b o viceversa, allora f (xm ) = f (xM ), cioè il massimo ed il minimo di f sono
uguali, e quindi la funzione è costante: quindi la sua derivata si annulla ovunque in (a, b).
Se invece almeno uno dei due punti di estremo assoluto giace all’interno dell’intervallo (a, b),
questo è anche un punto di estremo locale, in cui per il teorema di Fermat la derivata si deve
annullare.
176
Alberto Berretti Analisi Matematica I
0 .4
0 .2
- 1 .0 - 0 .5 0 .5 1 .0
- 0 .2
- 0 .4
È allora evidente che f è continua nell’intervallo chiuso [0, 1] e derivabile solo nell’intervallo
aperto (0, 1), e che esistono molti punti in (0, 1) in cui f ′ (x) = 0 (in effetti, infiniti punti).
Osservazione 30. La continuità di f agli estremi però è necessaria: senza di essa il massimo
o il minimo di f potrebbero infatti anche non esistere.
Il teorema di Lagrange fornisce una sorta di relazione quantitativa tra valore del rapporto
incrementale e derivata della funzione. È di fondamentale importanza nel seguito.
Teorema 39 (Lagrange). Sia f una funzione continua in [a, b] e derivabile in (a, b). Allora esiste
almeno un c ∈ (a, b) tale che:
f (b) − f (a)
f ′ (c) = . (4.37)
b−a
In fig. 4.4 possiamo vedere il significato geometrico del teorema di Lagrange. Si osservi
che se f (a) = f (b) il teorema di Lagrange è il teorema di Rolle, a cui comunque si riconduce
banalmente nella dimostrazione.
177
Alberto Berretti Analisi Matematica I
- 1 .0 - 0 .5 0 .5 1 .0 1 .5 2 .0
- 1
Dimostrazione. Si ponga:
f (b) − f (a)
h(x) = f (x) − (x − a).
b−a
Chiaramente h è continua in [a, b], derivabile in (a, b) e h(a) = h(b) = f (a), pertanto h soddisfa
le ipotesi del teorema di Rolle. Esiste dunque c ∈ (a, b) tale che h′ (c) = 0, e quindi:
f (b) − f (a)
f ′ (c) − = 0,
b−a
cioè la tesi.
Il teorema di Lagrange ha anche altre formulazioni leggermente diverse sul piano verbale
ma totalmente equivalenti.
Ad es. possiamo scrivere x al posto di a e x + h al posto di b se h > 0, x al posto di b e x + h
al posto di a se h < 0, e riformulare il teorema dicendo che, nelle opportune ipotesi:
Viceversa, se una funzione definita in un intorno del punto x soddisfa la (4.39), allora si
dice che f è differenziabile in x. Per il teorema di Lagrange, l’espressione “derivabile” e l’e-
spressione “differenziabile” possono essere usate in modo sostanzialmente intercambiabile,
nel caso di funzioni di una variabile. Vedremo piú avanti che nel caso di funzioni di piú variabili
il concetto di derivabilità e quello di diffenrenziabilità sono due cose diverse.
178
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Il seguente teorema è una generalizzazione del teorema di Lagrange che ci sarà utile piú
avanti in alcune dimostrazioni.
Teorema 40 (Cauchy). Siano f , g funzioni continue in [a, b], derivabili in (a, b), e sia inoltre
g(b) , g(a). Allora esiste c ∈ (a, b) tale che:
f (b) − f (a)
h(x) = f (x) − (g(x) − g(a)).
g(b) − g(a)
Infatti chiaramente h soddisfa le ipotesi del teorema di Rolle (con h(a) = h(b) = f (a)), e da
h′ (c) = 0 si ricava immediatamente la (4.40).
La formula di l’Hôpital spesso viene usata per calcolare limiti di “forme indeterminate”, e cioè
limiti che possono essere ricondotti al quoziente di due funzioni o successioni che tendono
entrambe a 0 o ad ∞. Noi preferiamo utilizzare altri metodi, ed in particolare gli “o piccolo”,
pertanto l’utilizzo della formula di l’Hôpital è fortemente sconsigliato negli esercizi e nelle
applicazioni. Enunciamo e dimostriamo la formula di l’Hôpital solo ed esclusivamente per la
sua importanza storica e per il fatto che è necessaria per dimostrare una delle versioni della
formula di Taylor, che costituisce la parte centrale di questo paragrafo.
Il teorema di L’Hôpital ha diverse varianti, che vengono dimostrate in modo leggermente
diverso. La differenza principale è quella tra il “caso 0/0” ed il “caso ∞/∞”.
179
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Teorema 41 (L’Hôpital, caso 0/0, limite al finito da sinistra). Siano f , g funzioni continue in
(a, b], derivabili in (a, b), e sia g(x) , 0 in (a, b). Sia inoltre lim− f (x) = lim− g(x) = 0. Allora
x→b x→b
abbiamo:
f (x) f ′ (x)
lim− = lim . (4.41)
x→b g(x) x→b− g′ (x)
Dimostrazione. La dimostrazione è una semplice applicazione del teorema di Cauchy dimo-
strato nel paragrafo precedente.
Si osservi che la condizione di continuità in b, necessaria per l’applicazione del teorema
di Cauchy, non è davvero una limitazione: infatti, se f , g non fossero continue in b, il loro
limite per ipotesi dovrebbe ugualmente esistere ed essere 0. In tal caso, nulla cambia se le
due funzioni vengono ridefinite in b in modo da essere continue (è necessario ricordarsi che
il valore di una funzione nel punto in cui viene calcolato il limite non ha nulla a che fare
con il valore del limite medesimo!). Pertanto in quanto segue teniamo conto che assumiamo
f (b) = g(b) = 0.
Dunque abbiamo:
f (x) f (x) − f (b) f ′ (cx )
lim = lim = lim ′ ,
x→b− g(x) x→b− g(x) − g(b) x→b− g (cx )
dove cx ∈ (x, b). Ma se x → b− anche cx → b− e quindi abbiamo:
f ′ (cx ) f ′ (x)
lim = lim
x→b− g′ (cx ) x→b− g(x)
e quindi la tesi.
Teorema 42 (L’Hôpital, caso 0/0, limite al finito da destra). Siano f , g funzioni continue in [a, b),
derivabili in (a, b), e sia g(x) , 0 in (a, b). Sia inoltre lim+ f (x) = lim+ g(x) = 0. Allora abbiamo:
x→a x→a
f (x) f ′ (x)
lim+ = lim+ ′ . (4.42)
x→a g(x) x→a g (x)
Dimostrazione. La dimostrazione è identica a quella del caso precedente, con le modifiche del
caso.
Teorema 43 (L’Hôpital, caso 0/0, limite al finito bilatero). Siano f , g funzioni continue in
(a, b)\{x0 }, derivabili in (a, b)\{x0 }, e sia g(x) , 0 in (a, b)\{x0 }. Sia inoltre lim f (x) = lim g(x) = 0.
x→x0 x→x0
Allora abbiamo:
f (x) f ′ (x)
lim = lim ′ . (4.43)
x→x0 g(x) x→x0 g (x)
Dimostrazione. La dimostrazione si ottiene combinando i due teoremi precedenti.
180
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Teorema 44 (L’Hôpital, caso 0/0, limite all’infinito). Siano f , g funzioni continue in (b, +∞),
derivabili in (b, +∞), e sia g(x) , 0 in (b, +∞). Sia inoltre lim f (x) = lim g(x) = 0. Allora
x→+∞ x→+∞
abbiamo:
f (x) f ′ (x)
lim = lim ′ . (4.44)
x→+∞ g(x) x→+∞ g (x)
Dimostrazione. La dimostrazione si riconduce ai primi due teoremi: basta porre infatti y = 1/x
ed i limiti per x → ±∞ diventano limiti per y → ±0. In altri termini, invece che fare ad es. il
limite per x → +∞ di f (x)/g(x), facciamo il limite per y → 0+ di f (1/y)/g(1/y). Si osservi che:
d f (1/y)
dy (−1/y2 ) f ′ (1/y) f ′ (1/y) f ′ (x)
= = = ,
dg(1/y) (−1/y2 )g′ (1/y) g′ (1/y) g′ (x)
dy
Teorema 45 (L’Hôpital, caso ∞/∞, limite al finito da sinistra). Siano f , g funzioni derivabili
f ′ (x)
in (a, b), e sia g(x) , 0 in (a, b). Sia inoltre lim− f (x) = lim− g(x) = +∞ e lim− ′ = l. Allora
x→b x→b x→b g (x)
abbiamo:
f (x) f ′ (x)
lim− = lim− ′ = l. (4.45)
x→b g(x) x→b g (x)
f (x) − f (b − δ1 ) f ′ (c)
= ′ .
g(x) − g(b − δ1 ) g (c)
g(b − δ1 )
1−
f (x) g(x) f ′ (c)
= · ′ .
g(x) f (b − δ1 ) g (c)
1−
f (x)
181
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Poniamo:
g(b − δ1 )
1−
g(x)
h(x) = .
f (b − δ1 )
1−
f (x)
Abbiamo allora:
′
f (x) f ′ (c) f (c)
g(x) − l = h(x) g′ (c) − h(x)l + h(x)l − l ≤ |h(x)| g′ (c) − l + |h(x) − 1||l| = (A).
f ′ (x)
∀M ∃δ1 > 0 : x ∈ (b − δ1 , b) ⇒ > M.
g′ (x)
Proseguiamo il ragionamento come nel caso del limite finito, definendo h(x) in modo analogo
e verificando che h(x) → 1 per x → b− . Quindi:
1
∃δ2 : x ∈ (b − δ2 , b) ⇒ h(x) > ,
2
e quindi:
f (x) f ′ (c) M
= h(x) ′ ≥ ,
g(x) g (c) 2
da cui la tesi.
Valgono teoremi analoghi nel caso ∞/∞ quando il limite è al finito da destra, quando il
limite è bilatero, quando il limite è all’infinito. Inoltre abbiamo enunciato il teorema nel
caso +∞/ + ∞, le altre possibili combinazioni di segno sono ovvie. Omettiamo in questi casi
non solo le banali dimostrazioni, riconducibili a quelle delle altre versioni del teorema di
l’Hôpital, ma anche gli altrettanto banali enunciati.
Le ragioni per cui sconsigliamo fortemente l’utilizzo del teorema di l’Hôpital nel calcolo
dei limiti sono le seguenti. Innanzitutto, fatta eccezione per i casi piú semplici, il calcolo
del limite del quoziente delle derivate è tipicamente piú complesso del calcolo del limite
da cui si parte. Inoltre, i casi “semplici” in cui la tentazione di utilizzare il teorema di
182
Alberto Berretti Analisi Matematica I
l’Hôpital è forte sono quei casi “fondamentali” (come i limiti notevoli dimostrati nel capitolo
precedente) che è bene dimostrare in modo elementare (dove per elementare non si intende
un modo “facile”, ma un modo che dipende dal minor numero possibile di ipotesi); non
sin x
vogliamo fare le dimostrazioni di mezzo calcolo differenziale per capire che il limite di
x
è 1, quando abbiamo a portata di mano una dimostrazione che racchiude i concetti essenziali.
Infine, il metodo degli “o-piccolo” che abbiamo già visto nel capitolo precedente e che verrà
ora potenziato notevolmente dall’uso delle formule di Taylor ci dà uno strumento molto piú
potente per il calcolo di limiti complicati.
cioè la derivata del polinomio di Taylor di ordine n per f è il polinomio di Taylor di ordine n − 1 per la
derivata di f .
183
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Teorema 46 (Taylor con resto di Peano). Sia f derivabile n volte in (a, b) e sia x0 ∈ (a, b). Allora:
Da questo segue banalmente l’“unicità” dei polinomi di Taylor nel senso seguente.
Proposizione 21. Sia f derivabile n volte in (a, b) e sia x0 ∈ (a, b). Sia P(x) un polinomio di grado n
tale che f (x) = P(x) + o((x − x0 )n ) quando x → x0 . Allora P(x) = Tn, f (x).
184
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Abbiamo ricavato una approssimazione di una funzione f n volte derivabile nel punto x0 ,
ottenendo un resto caratterizzato semplicemente in termini di ordine di infinitesimo. Se
assumiamo che la funzione sia n + 1 volte derivabile, possiamo ottenere una stima piú
accurata del resto, in analogia con quanto segue.
Se f è semplicemente una funzione continua, allora abbiamo che f (x) = f (x0 ) + o(1) per
x → x0 ; se invece assumiamo anche che f sia derivabile, allora possiamo applicare il teorema
di Lagrange e precisare la natura del resto: quell’o(1) è piú precisamente f ′ (ξ)(x − x0 ), dove
ξ è compreso fra x e x0 (ed è dunque in realtà un O(x − x0 )).
La formula di Taylor con resto di Lagrange generalizza al caso di funzioni derivabili
piú di una volta questo fatto.
Teorema 47 (Taylor con resto di Lagrange). Sia f (n + 1) volte derivabile in (a, b) con derivata
n-esima continua in [a, b]. Allora esiste c ∈ (a, b) tale che:
n
X f (k) (a) f (n+1) (c)
f (b) = (b − a)k + (b − a)n+1 . (4.50)
k! (n + 1)!
k=0
Per n = 1 abbiamo:
f ′′ (c)
(b − a)2 .
f (b) = f (a) + f ′ (a)(b − a) +
2
La dimostrazione è concettualmente identica a quella del teorema di Lagrange, di cui questo
è generalizzazione: ci si riconduce, introducendo una opportuna funzione ausiliaria, al
teorema di Rolle.
Dimostrazione. Sia:
n
X f (k) (x)
g(x) = f (b) − (b − x)k .
k!
k=0
Si osservi che g(a) è esattamente il resto che dobbiamo stimare e che g(b) = 0. Poniamo poi:
!n+1
b−x
h(x) = g(x) − g(a).
b−a
Si verifica immediatamente che h(a) = g(a) − g(a) = 0 e che h(b) = g(b) − 0 · g(a) = 0. La
continuità di h in [a, b] e la derivabilità in (a, b) seguono subito dalle ipotesi enunciate su f .
Possiamo quindi applicare il teorema di Rolle e dire che ∃c ∈ (a, b) tale che h′ (c) = 0. L’unico
problema è calcolare, con un po’ di pazienza, h′ (x):
185
Alberto Berretti Analisi Matematica I
n n
(b − x)n X f (k+1) (x) X f (k) (x)
h′ (x) = (n + 1) g(a) − (b − x)k
+ (b − x)k−1 =
(b − a)n+1 k! (k − 1)!
k=0 k=1
n+1 n
(k) (x) (k) (x)
(b − x)n X f X f
= (n + 1) g(a) − (b − x)k−1 − (b − x)k−1 =
(b − a)n+1 (k − 1)! (k − 1)!
k=1 k=1
f (n+1) (x) f (n+1) (x)
!
(b − x)n n (b − x)n n+1
= (n + 1) g(a) − (b − x) = (n + 1) g(a) − (b − a) .
(b − a)n+1 n! (b − a)n+1 (n + 1)!
f (n+1) (c)
g(a) = (b − a)n+1 ,
(n + 1)!
cioè la tesi.
Esattamente come abbiamo fatto nel caso del teorema di Lagrange, possiamo dire che se f
è n + 1 volte derivabile tra x0 ed x, con derivata n-esima continua in tra x0 ed x estremi inclusi,
allora esiste uno ξ compreso tra x0 ed x tale che:
f (n+1) (ξ)
f (x) = Tn, f (x) + (x − x0 )n+1 . (4.51)
(n + 1)!
Esempio 67. Determiniamo i polinomi di Taylor per la funzione f (x) = 1/(1 − x). Il calcolo
di tutte le derivate della funzione è molto semplice:
1 2 3!
f ′ (x) = , f ′′ (x) = , f ′′′ (x) = ,...,
(1 − x)2 (1 − x)3 (1 − x)4
186
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Ovviamente la funzione considerata ammette derivate di ogni ordine, per cui (per Taylor-
Lagrange) quell’o(xn ) è in realtà un O(xn+1 ):
n
1 X
= xk + Rn+1 (x), (4.54)
1−x
k=0
dove:
xn+1
Rn+1 (x) = , (4.55)
(1 − ξ)n+2
dove ξ è compreso tra 0 e x.
In questo caso possiamo permetterci il lusso di calcolare esattamente, in forma esplicita, il resto
Rn+1 (x) e addirittura il valore di ξ nella formula del resto di Lagrange. Questo perché siamo talmente
fortunati da poter calcolare la somma del polinomio di Taylor in forma esplicita, come abbiamo visto
nel cap. 2:
n
X 1 − xn+1
xk = .
1−x
k=0
pertanto:
xn+1 1 1 − xn+1 xn+1
= Rn+1 (x) = − = .
(1 − ξ)n+2 1−x 1−x 1−x
Quindi:
√
n+2
ξ=1− 1 − x.
È elementare osservare che se |x| < 1 allora lo ξ cosí calcolato è compreso fra 0 e x ed inoltre per
n → ∞ Rn (x) → 0. Raramente saremo talmente fortunati da poter fare un calcolo altrettanto esplicito.
Si osservi inoltre che, come è naturale che sia, ξ dipende da n.
pertanto:
(−1) se k = 2m + 1,
m
(k)
f (0) =
0
se k = 2m.
Quindi nei polinomi di Taylor del seno sono presenti solo potenze dispari; possiamo dunque scrivere
(Taylor-Peano):
n
X (−1)m 2m+1
sin x = x + o(x2n+1 ). (4.56)
(2m + 1)!
m=0
187
Alberto Berretti Analisi Matematica I
la formula di Taylor-Lagrange:
n
X (−1)m 2m+1
sin x = x + R2m+3 (x), (4.57)
(2m + 1)!
m=0
dove:
D(2m+3) sin ξ 2m+3
R2m+3 (x) = x , (4.58)
(2m + 3)!
e quindi |R2m+3 (x)| = |x|2m+3 /((2m + 3)!). Osserviamo che da ciò segue che ∀x Rn (x) → 0
quando n → ∞.
Esempio 69. Un risultato analogo vale per il coseno. Sia dunque f (x) = cos x. Allora:
(−1)
m+1 sin x se k = 2m + 1,
(k)
f (x) =
(−1)m cos x
se k = 2m.
pertanto:
0 se k = 2m + 1,
f (k) (0) =
(−1)m
se k = 2m.
Quindi nei polinomi di Taylor del coseno sono presenti solo potenze pari; possiamo dunque scrivere
(Taylor-Peano):
n
X (−1)m
cos x = x2m + o(x2n ). (4.59)
(2m)!
m=0
dove:
D(2m+2) cos ξ 2m+2
R2m+2 (x) = x , (4.61)
(2m + 2)!
e quindi |R2m+2 (x)| = |x|2m+2 /((2m + 2)!). Osserviamo che da ciò segue che ∀x Rn (x) → 0
quando n → ∞.
Esempio 70. Sia ora f (x) = ex . Si tratta di un caso molto semplice: infatti in questo caso
f k (x) = ex e f k (0) = 1, per cui:
n
x
X xk
e = + o(xn ). (4.62)
k!
k=1
188
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Poiché f (x) ha derivate di ogni ordine, per Taylor-Lagrange quell’o(xn ) è in realtà un O(xn+1 )
ed inoltre:
n
x
X xk
e = + Rn+1 (x), (4.63)
k!
k=1
dove:
eξ
Rn+1 (x) = xk+1 . (4.64)
(n + 1)!
Si osservi che anche in questo caso ∀x Rn (x) → 0 per n → ∞.
Esempio 71. Sia f (x) = log(1 + x). Allora si ricava con qualche semplice calcolo che:
(k − 1)!
f k (x) = (−1)k−1 , e quindi f k (0) = (−1)k−1 (k − 1)!.
(1 + x)k
Ne segue che per la funzione indicata i polinomi di Taylor di ordine n sono dati da:
n
X xk
(−1)k−1 . (4.65)
k
k=1
Esempio 72. Se f (x) = (1 + x)α , allora è facile ricavare che il polinomio di Taylor di ordine n
centrato in 0 di f (x) è dato da:
n
X α(α − 1) . . . (α − k + 1)
xk . (4.66)
k!
k=0
1 1 1 1 1 1 1 1
−1 − 2 . . . − k + 1 = (−1)k−1 1 − 2− ... k − 1 − =
2 2 2 2 2 2 2 2
(−1)k−1 (−1)k−1 (2k − 3)!!
1 · 1 · 3 · . . . · (2k − 3) = ,
2k 2k
e pertanto:
√ n
X (−1)k−1 (2k − 3)!!
1
1+x =1+ x+ xk + O(xk+1 ). (4.67)
2 2k k!
k=2
Se invece α = −1/2, lavorando come nel caso precedente ricaviamo:
n
1 X (2k − 1)!! k
√ = 1+ (−1)k x + O(xk+1 ). (4.68)
1+x k=1
2 k!
k
189
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Tn−1, f ′ = (Tn, f )′ .
1
Sia ora f (x) = arctan x. Allora f ′ (x) = e quindi:
1 + x2
n
X
T2n, f ′ = (−1)k x2k ,
k=0
1
come si verifica immediatamente prendendo t = −x2 ed utilizzando lo sviluppo di che
1−t
x2k+1
abbiamo determinato sopra. Ovviamente x2k è la derivata di , e da questo segue subito
2k + 1
che:
n
X (−1)k x2k+1
T2n+1, f = (cost.) + ,
2k + 1
k=0
dove abbiamo dovuto aggiungere una costante che si annulla derivando. Ma tale costante,
che sarebbe il valore dell’arcotangente in 0, è nulla pertanto:
n
X (−1)k x2k+1
arctan x = + o(x2n+1 )
2k + 1
k=0
190
Alberto Berretti Analisi Matematica I
dove Pk (t) è un polinomio di grado 3k in t. Infatti tale affermazione è vera per k = 1 (come
abbiamo visto dal calcolo della derivata prima), e poi si può dimostrare per induzione; se
infatti è vero per la derivata (k − 1)-esima, allora che f (k) (0) sia 0 è ovvio per l’osservazione
precedente, mentre per x , 0 abbiamo che la derivata di ordine k è data da:
2 1 ′
−1/x2
e Pk−1 (1/x) + 2 Pk−1 (1/x) ,
x3 x
e l’espressione tra parentesi tonde è ovviamente un polinomio in 1/x di grado 3k. Quindi
tutte le derivate di f nell’origine sono nulle, e dunque i polinomi di Taylor di ogni ordine
centrati in 0 sono identicamente nulli. Si osservi che questo è perfettamente compatibile con i
teoremi di Taylor; ad es.:
2
∀n : e−1/x = 0 + o(xn )
2
vuol dire semplicemente che e−1/x tende a 0 piú rapidamente di qualsiasi potenza. In questo
caso, però, il resto – che coincide con la funzione medesima, essendo il polinomio di Taylor
nullo! – non tende a 0 per n → ∞.
Determinare un criterio per stabilire quali funzioni di classe C∞ hanno il resto di Taylor
che tende a 0 per n → ∞ e quali no è una questione molto importante, che però non può
essere risolta ora.
Questi sviluppi possono essere utilizzati per calcolare limiti di forme indeterminate senza
usare il teorema dell’Hôpital in cui avvengono “cancellazioni di ordine superiore”.
191
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Abbiamo che:
8x3 4x3
log(1 + 2x) = 2x − 2x2 + + O(x4 ), sin 2x = 2x − + O(x5 ),
3 3
8
cos 2x = 1 − 2x2 + O(x4 ), ex = 1 + O(x8 ),
4x3 + O(x4 ).
Inoltre:
2
√ x3
x arctan x = x2 + O(x4 ), ex = 1 + x2 + O(x4 ), 1 + x3 = 1 + + O(x6 ),
2
da cui ricaviamo che il denominatore è dato da:
x3
+ O(x4 ).
2
Quindi:
4x3 + O(x4 )
→8
x3 4
+ O(x )
2
per x → 0. Osserviamo che in questo caso le “cancellazioni di ordine superiore”, che
rendono necessario espandere le funzioni in polinomi di Taylor di ordine superiore al primo,
sono presenti solo al numeratore. Osserviamo anche che svolgere questo limite usando il
teorema dell’Hôpital avrebbe reso necessario calcolare le derivate terze del numeratore e del
denominatore, il che non è esattamente un calcolo banale.
Ci si può chiedere, in questo tipo di esercizi, di che ordine debbano essere i polinomi di
Taylor per poter calcolare un limite con questo metodo. La risposta è il piú basso possibile
che renda il limite, dopo aver svolto tutte le cancellazioni, non quello di una forma indeterminata.
Tipicamente si prova ad un ordine sufficientemente basso – ad es. al primo ordine – e se
si ottiene ancora una forma indeterminata si sale all’ordine successivo, finché non si ottiene
piú 0/0. Spesso con un po’ di pratica si capisce direttamente al primo colpo qual’è l’ordine
minimo necessario. Se si sviluppa ad un ordine troppo alto, non è tecnicamente un errore,
ma vengono fatti calcoli inutili che fanno perdere tempo.
192
Alberto Berretti Analisi Matematica I
sin 3x
e3x + − 4 − sin 3x
lim x .
x→0 (log(1 + x))3
Vogliamo ora fare uso del calcolo differenziale per studiare l’andamento di una funzione, e
quindi ricavare il suo comportamento qualitativo (regioni di crescenza, decrescenza, estremi,
concavità e convessità, punti di flesso, e cosí via) e riuscire a disegnarne un grafico che catturi
gli aspetti qualitativi essenziali della funzione medesima.
Iniziamo dallo studio della monotonia di una funzione e dalla sua relazione con il segno
della derivata.
1. f è crescente in I ⇒ ∀x ∈ I : f ′ (x) ≥ 0;
2. f è decrescente in I ⇒ ∀x ∈ I : f ′ (x) ≤ 0.
193
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Si osservi che una funzione può essere strettamente crescente ma avere in qualche punto
derivata nulla: ad es. f (x) = x3 è strettamente crescente ovunque ma la derivata nell’origine
vale 0.
3. ∀x ∈ I : f ′ (x) ≥ 0 ⇒ f è crescente in I;
4. ∀x ∈ I : f ′ (x) ≤ 0 ⇒ f è decrescente in I.
Chiaramente la dimostrazione del secondo, terzo e quarto caso è stata scritta facendo copia
e incolla e modificando un segno di maggiore in un segno di minore, di maggiore-o-uguale o
di minore-o-uguale. In questo caso ho scritto la dimostrazione esplicita di ciascun caso, ma
semplici varianti nell’enunciato e nella dimostrazione devono essere colte dal lettore senza
che sia necessario scriverle esplicitamente ogni volta.
194
Alberto Berretti Analisi Matematica I
A questo punto abbiamo uno strumento per determinare i punti di estremo locale – mas-
simi locali e minimi locali – di una funzione. Sia infatti f definita e derivabile nell’intervallo
(a, b) (ovviamente f può essere definita anche fuori da (a, b)!), e sia c ∈ (a, b). Se f è crescente
in (a, c) e decrescente in (c, b) allora c è un punto di massimo locale; se f è decrescente in (a, c)
e crescente in (c, b) allora c è un punto di minimo locale. Si parla di estremi locali perché la f
potrebbe essere definita anche fuori dall’intervallo (a, b) ed avere ivi valori maggiori o minori
rispettivamente di f (c).
Ovviamente se f ammette derivata continua in (a, b) allora possiamo individuare i punti
candidati ad essere punti di estremo locale risolvendo l’equazione f ′ (x) = 0. La natura di tali
estremi viene quindi determinata studiando il segno di f (x) intorno ad essi.
L’uso della derivata è utile anche per trovare gli estremi assoluti di una funzione in un
intervallo assegnato I in cui essa è definita. Sia infatti I = [a, b] e sia f derivabile in I. f è
anche continua e quindi, essendo I chiuso e limitato, ammette massimo e minimo assoluto.
Come determinarli? I punti in cui f ammette massimo e minimo assoluto o sono interni
all’intervallo I (sono cioè contenuti nell’intervallo aperto (a, b)) o sono in a o in b. Se sono
interni ad I, allora sono anche estremi locali, e quindi in essi f ′ (x) = 0. Per determinare gli
estremi assoluti di f in [a, b] dunque procediamo come segue:
2. Calcoliamo i valori che la funzione assume in tali punti e definiamo il loro insieme
S0 = { f (x1 ), f (x2 ), . . . , f (xN )}. Tali valori sono possibili massimi e minimi assoluti.
4. Troviamo il massimo ed il minimo di tali valori, prendendo nota del punto in cui sono
assunti da f : abbiamo cosí trovato il massimo ed il minimo assoluto di f in [a, b] ed i
relativi punti di massimo e di minimo assoluto.
195
Alberto Berretti Analisi Matematica I
f (x) = x2 e−2x
4.5.2. Convessità
196
Alberto Berretti Analisi Matematica I
La funzione f invece si dice concava se nelle (4.70), (4.71) vale la disuguaglianza opposta,
ovvero se − f è convessa. Geometricamente, vuol dire che il grafico della funzione tra due
punti P1 e P2 giace sempre sopra la retta che unisce tali punti.
Una funzione f si dice strettamente convessa o strettamente concava se le disuguaglian-
ze citate sono strette (<, > piuttosto che ≤, ≥, in analogia con “crescente” vs. “strettamente
crescente” etc.).
197
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Il lemma ed il corollario ci dicono sostanzialmente che, nel caso di una funzione f convessa,
il rapporto incrementale della f è è una funzione crescente dei valori tra i quali esso viene
calcolato.
Il principale strumento che abbiamo per determinare la convessità o concavità di una
funzione derivabile è dato dai due seguenti teoremi.
1. f è convessa in I ⇒ f ′ è crescente in I,
2. f è concava in I ⇒ f ′ è decrescente in I.
3. f ′ è crescente ⇒ f è convessa,
4. f ′ è decrescente ⇒ f è concava.
198
Alberto Berretti Analisi Matematica I
3. f ′′ ≥ 0 ⇔ f è convessa,
4. f ′′ ≤ 0 ⇔ f è concava.
Sia f definita in (a, b), c ∈ (a, b). Se f è convessa in (a, c) e concava in (c, b) o viceversa allora
si dice che c è un punto di flesso. Se f è due volte derivabile in (a, b) con derivata seconda
continua, allora nel punto di flesso f ′′ (c) = 0.
4.5.3. Asintoti
Sia f definita in (a, b). Allora si dice che f ha un asintoto verticale in x = a o in x = b se:
Osservazione 32. Non è vero che la retta y = l è la posizione limite della tangente al grafico
di f quando il punto di tangenza tende a ±∞. Basta considerare l’esempio:
sin x2
f (x) = .
x
199
Alberto Berretti Analisi Matematica I
È evidente che f (x) → 0 per x → ±∞, per cui la retta y = 0 è un asintoto destro e sinistro,
sin x2
ma f ′ (x) = 2 cos x2 − , che chiaramente non ammette limite per x → ±∞. Quindi
x2
l’asintoto cosí definito non è la posizione limite della tangente quando il punto di tangenza
tende all’infinito. Nell’esempio considerato, la retta tangente nel punto (x0 , sin x20 /x0 ) è data
da:
sin x2 sin x20
2 0
y = 2 cos x0 −
(x − x0 ) +
x20 x0
il cui coefficiente angolare pertanto non ha limite per x → ±∞ e pertanto la retta tangente in
x0 continua ad oscillare quando x0 → ±∞.
Sia ancora f definita in (a, +∞) o (−∞, a). Si dice che f ammette la retta y = mx + q come
asintoto obliquo se:
lim ( f (x) − mx) = q.
x→±∞
L’asintoto obliquo è a destra o a sinistra a seconda che il limite sia per x → +∞ o x → −∞.
Vale anche nel caso degli asintoti obliqui un’osservazione analoga alla precedente per gli
asintoti orizzontali. L’asintoto orizzontale ovviamente è il caso particolare dell’asintoto
obliquo quando m = 0.
Nel caso degli asintoti obliqui, un problema concreto può essere quello della determina-
zione del valore corretto di m. Si osservi che nel caso piú comune, in cui non solo vale la
condizione indicata ma anche:
∃ lim f ′ (x) = m,
x→±∞
Abbiamo ora a portata di mano tutti gli strumenti che possiamo utilizzare per determinare
un grafico (piú o meno) qualitativo di una funzione f di una variabile reale.
Riassiumiamo nella “checklist” seguente lo schema di risoluzione di uno studio di funzio-
ne.
1. Determinare il dominio di f .
3. Studiare la continuità di f .
200
Alberto Berretti Analisi Matematica I
4. Calcolare i limiti di f agli estremi del dominio e negli eventuali punti di discontinuità,
determinandone dunque la natura (rimuovibili, di prima specie o di seconda specie).
Osservazione 33. È possibile che la funzione da studiare abbia qualche punto di non deri-
vabilità: un caso tipico è quello in cui sia presente nell’espressione della funzione il valore
assoluto in modo tale da rendere non derivabile la funzione in qualche punto (il che non
accade sempre: ad es. |x|3 è derivabile ovunque, mentre |x| non è derivabile nell’origine).
In questo caso è opportuno suddividere il dominio della funzione in intervalli in cui essa
è derivabile e studiarla separatamente intervallo per intervallo, calcolando poi i limiti agli
estremi di tali intervalli per vedere come i “pezzi” del grafico si “attaccano” e per studiare
la continuità e la derivabilità in tali punti. Se presenti eventuali simmetrie della funzione
possono aiutare in questi casi.
Introduciamo ora alcune funzioni che, pur essendo banalmente esprimibili in termini dell’e-
sponenziale o del logaritmo, risultano essere comode in svariate circostanze.
Definiamo il seno iperbolico ed il coseno iperbolico tramite le seguenti formule
ex − e−x ex + e−x
sinh x = , cosh x = . (4.74)
2 2
201
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Chiaramente entrambe le funzioni sono definite su tutto R ed il seno iperbolico è una funzione
dispari mentre il coseno iperbolico è una funzione pari. È anche banale verificare che:
osserviamo di nuovo come queste formule siano analoghe a quelle per le funzioni trigono-
metriche ma di nuovo con un segno opposto; osserviamo anche come la seguente:
x = cosh t,
y = sinh t
cosh(x + y) = cosh x cosh y + sinh x sinh y, sinh(x + y) = sinh x cosh y + cosh x sinh y, (4.79)
ancora una volta uguali alle equivalenti formule trigonometriche, a parte il segno. Si dimo-
strano banalmente sostituendo la definizione di sinh e cosh nel lato destro di ciascuna uguaglianza,
espandendo i prodotti e facendo alcune cancellazioni.
Da esse si ricava:
Osserviamo poi che ∀x ∈ R cosh x > 0, e pertanto sinh x debba essere strettamente cre-
scente. Chiaramente sinh x > 0 se x > 0 e sinh x < 0 se x < 0, per cui cosh x è crescente in
x > 0 e decrescente in x < 0 ed il coseno iperbolico ha nell’origine un punto di minimo (che
è ovviamente assoluto). Poiché cosh 0 = 1, ne segue che in effetti cosh x ≥ 1. Alla luce delle
precedenti osservazioni sul segno di tali funzioni, possiamo dire che:
p p
cosh x = 1 + sinh2 x, sinh x = sign x cosh2 x − 1. (4.81)
202
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Osserviamo anche che non è necessario far uso delle derivate per ricavare la crescenza e
la decrescenza delle funzioni iperboliche. Infatti, poniamo y = ex ed osserviamo che y > 0
e che y è crescente con x. Quindi essendo sinh x = (y − 1/y)/2 abbiamo immediatamente
che il seno iperbolico è crescente, in quanto somma di due funzioni crescenti come y e −1/y
(la divisione per 2 essendo ovviamente irrilevante per la crescenza). Per quanto riguarda il
coseno iperbolico la faccenda è solo leggermente piú complessa. Essendo il coseno iperbolico
pari, ci basta dimostrarne la crescenza per x > 0 e allora avremo subito la decrescenza
per x < 0; se x > 0, y > 1, e dobbiamo dimostrare dunque che se 1 < y1 < y2 allora
y1 + 1/y1 < y2 + 1/y2 . Ma tale disuguaglianza equivale alla:
1 1 y2 − y1
− = < y2 − y1 ,
y1 y2 y1 y2
che equivale a:
1
<1
y1 y2
che è ovvia perché y1 , y2 > 1.
A volte può far comodo introdurre la funzione tangente iperbolica:
sinh x e2 − e−x
tanh x = = x . (4.82)
cosh x e + e−x
Lasciamo al lettore il semplice compito di determinare le sue principali proprietà.
In fig. 4.6 possiamo vedere i grafici delle funzioni iperboliche.
Introduciamo ora le funzioni iperboliche inverse.
Sia x = sinh y. La funzione seno iperbolico è definita ovunque ed ovunque strettamente
crescente, e quando y varia da −∞ a +∞ anche x varia da −∞ a +∞, per cui la funzione inversa
y = sectsinh x (settor seno iperbolico di x) è anch’essa definita su tutto R, strettamente
crescente e tende a ±∞ quando x tende a ±∞. Come il seno iperbolico anche la sua funzione
inversa è una funzione dispari.
Sia x = cosh y. La funzione coseno iperbolico è pari, per cui non è possibile invertirla
ovunque: siamo nella stessa situazione di quando definiamo la radice quadrata come inverso
del quadrato. Ad ogni valore di x ≥ 1 corrisponde uno o due valori di y: un solo valore, y = 0,
quando x = 1, e due valori opposti quando x > 1; dobbiamo sceglierne uno per avere una
funzione ben definita, e sceglieremo quello positivo. Quindi la funzione inversa del coseno
iperbolico, il settor coseno iperbolico che indicheremo con sectcosh x è una funzione che
ha come dominio l’intervallo [1, +∞), in esso positiva e strettamente crescente da 0 a +∞.
Osserviamo che usando lo stesso argomento utilizzato per determinare le derivate dell’ar-
coseno e dell’arcocoseno ricaviamo:
1 1
D sectsinh x = √ , D sectcosh x = √ . (4.83)
1 + x2 x2 − 1
203
Alberto Berretti Analisi Matematica I
c o sh x
2 si n h x
- 4 - 2 2 4
ta n h x - 2
- 4
ey − e−y
x= ,
2
da cui ricaviamo:
ey − 2x − e−y = 0,
(ey )2 − 2xey − 1 = 0,
che può essere interpretata come una equazione di secondo grado nell’incognita ey . Risol-
vendola otteniamo:
√
ey = x ± x2 + 1,
204
Alberto Berretti Analisi Matematica I
(ey )2 − 2xey + 1 = 0,
che può essere interpretata come una equazione di secondo grado nell’incognita ey . Risol-
vendola otteniamo:
√
ey = x ± x2 − 1.
La scelta corretta del segno è un po’ piú complicata. x ≥ 1 e per la scelta del segno che
abbiamo fatto definendo il settor coseno iperbolico, y ≥ 0 quindi ey ≥ 1. Ora, in x ≥ 1 la
√
funzione x + x2 − 1 è crescente, e vale 1 quando x = 1, per cui è sempre ≥ 1, per cui la scelta
corretta del segno è quella positiva.
√
Se avessimo scelto il segno meno, avremmo avuto x − x2 − 1, sempre per x ≥ 1. Ma:
√ 1
x− x2 − 1 = √
x + x2 − 1
√
come un semplice calcolo dimostra, e quindi x − x2 − 1 è una funzione decrescente. Poiché vale 1 in
x = 1, per x > 1 è minore di 1 e quindi è la scelta sbagliata.
Quindi:
√
y = sectcosh x = log(x + x2 − 1). (4.85)
Esempio 76. Non sempre è richiesto di fare uno studio completo di funzione. A volte ci
interessa qualche specifica proprietà di una funzione e vogliamo utilizzare gli strumenti
che abbiamo visto in questo capitolo per dimostrarne la validità. Ad es. sia richiesto di
dimostrare che:
sin πx
∀x ∈ (0, 1) : ≤ 4.
π<
x(1 − x)
A prima vista non sembra essere uno “studio di funzione”, ma per dimostrare questa stima
dovremo proprio studiare il comportamento della funzione indicata nell’intervallo (0, 1).
Poniamo dunque:
sin πx
f (x) = .
x(1 − x)
205
Alberto Berretti Analisi Matematica I
f (1 − x) = f (x),
come si verifica immediatamente. Inoltre f (1/2) = 4 e lim f (x) = π, per cui considerando
x→0 o 1
la simmetria della funzione, il valore in 1/2 ed i limiti agli estremi dell’intervallo assegnato,
se f fosse crescente in (0, 1/2) e quindi per simmetria decrescente in (1/2, 1) avremmo con-
cluso. Basta dunque dimostrare che f (x) è crescente per x ∈ (0, 1/2), la simmetria fa il resto.
Sembrerebbe facile: calcoliamo la derivata di f (x) e verifichiamo che f ′ (x) ≥ 0 in questo
intervallo. Ma:
πx(1 − x) cos πx − (1 − 2x) sin πx
f ′ (x) = .
x2 (1 − x)2
Essendo il denominatore ovviamente positivo, basterebbe dimostrare che per x ∈ (0, 1/2):
Un’idea potrebbe essere dividere tutto per (1 − 2x) cos πx e tentare di risolvere:
πx(1 − x)
tan πx ≤ .
1 − 2x
Il problema è che entrambe le funzioni di x a sinistra e a destra di questa disequazione sono
funzioni crescenti che tendono a 0 per x che tende a 0 e che tendono a +∞ per x che tende a 1/2
da sinistra: quindi è estremamente difficile riuscire a confrontarle; non abbiamo imboccato
una buona strada.
Consideriamo allora:
Abbiamo g(0) = g(1/2) = 0. Ma come si comporta g(x) tra 0 e 1/2? Proviamo a derivarla:
Ora, in (0, 1/2) sin πx > 0, per cui il segno di g′ è determinato dal polinomio di secondo grado
π2 x2 − π2 x + 2. Tale polinomio rappresenta una parabola con concavità rivolta verso l’alto,
vale 2 in 0, in 1/2 vale 2 − π2 /4 < 2 − 9/4 < 0 ed in 1 vale 2, pertanto le sue radici sono una
compresa tra 0 ed 1/2 e l’altra compresa tra 1/2 ed 1; in particolare, esiste c ∈ (0, 1/2) tale che
g′ > 0 in (0, c) e g′ < 0 in (c, 1/2). Quindi g cresce fra 0 e c e decresce fra c e 1/2; poiché vale 0
in 0 ed in 1/2 g > 0 in (0, 1/2), il che conclude la dimostrazione. [Quest’esempio è dovuto a
G. H. Hardy.]
206
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Esercizio 36. Determinare il dominio, i limiti agli estremi del dominio, gli eventuali asin-
toti, gli intervalli di crescenza e decrescenza, gli estremi locali, gli intervalli di concavità e
convessità ed i punti di flesso della seguente funzione:
x
f (x) = arctan .
|1 + x|
Esercizio 37. Determinare il dominio, i limiti agli estremi del dominio, gli eventuali asintoti,
gli intervalli di crescenza e decrescenza e gli estremi locali della seguente funzione:
1+x
f (x) = 3 arctan x − log .
1−x
Esercizio 38. Data la funzione:
1
f (x) = log
,
x2 − 7|x| + 12
determinarne il dominio, gli intervalli di crescenza e di decrescenza, gli eventuali massimi
e minimi locali, gli intervalli di convessità e di concavità, gli eventuali punti di flesso, e gli
eventuali asintoti. Disegnarne il grafico.
Esercizio 40. Determinare il dominio, le proprietà di simmetria, gli eventuali asintoti, inter-
valli di crescenza e decrescenza, gli estremi locali, gli intervalli di concavità e convessità, i
punti di flesso e disegnare un grafico approssimativo della funzione:
207
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Determinare il dominio, gli intervalli di crescenza e decrescenza, gli eventuali estremi, gli
intervalli di concavità e di convessità, gli eventuali flessi e gli eventuali asintoti di f (x).
Determinare il periodo di f (x).
4.6. Uno strumento utile: esponenziale, seno e coseno nel campo complesso
Quando abbiamo iniziato ad utilizzare le funzioni seno e coseno abbiamo sottolineato che la
loro definizione geometrica, come data alle scuole superiori, non è in pieno rigore accettabile,
perché non è chiaro cosa si intenda per la misura dell’angolo (la lunghezza dell’arco richiede-
rebbe il calcolo integrale per definire la lunghezza di una curva, cosa che ancora peraltro non
abbiamo fatto). Vi è stata inoltre una certa vaghezza nel considerare le potenze con esponenti
reali, ed un particolare l’esponenziale ex . Bene, non è ancora questo il momento per sciogliere
queste ambiguità: piú avanti, potremmo definire in termini di integrali le rispettive funzioni
inverse, in particolare l’arcoseno ed il logaritmo, e tramite esse ricostruire la teoria delle
funzioni trigonometriche e dell’esponenziale, ma ciò risulta essere complesso, anti-intuitivo
e particolarmente scomodo rispetto ad un altro metodo, che però richiede la teoria delle serie
di funzioni e pertanto è rimandato al corso di Analisi Matematica 2. Chi fosse interessato alla
teoria rigorosa dell’esponenziale e delle funzioni trigonometriche definite attraverso le loro
inverse, a loro volta definite tramite integrali, può consultare ad es. il libro di G. H. Hardy,
A Course of Pure Mathematics, già citato. Uno dei vantaggi dell’approccio basato sulle serie
di funzioni è che l’esponenziale e le funzioni trigonometriche vengono automaticamente
definite nel campo complesso e le loro relazioni risultano ovvie e naturali.
Poiché la relazione tra funzioni trigonometriche ed esponenziale nel campo complesso è
uno strumento estremamente utile, in particolare per la teoria (e per la risoluzione concreta)
delle equazioni differenziali lineari che tratteremo piú avanti, anticipiamo qualcosa ora,
anche se le definizioni che faremo avranno l’aria di essere arbitrarie e non scaturiranno da
una “visione” dello sviluppo della materia. Dopotutto le definizioni sono arbitrarie.
Definiamo quindi:
eiy = cos y + i sin y, y ∈ R. (4.86)
208
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Definiamo in altri termini la potenza con base e ed esponente immaginario puro nel modo
indicato.
Si osservi che grazie a questa definizione valgono le normali regole della potenza:
1
e−iy = , eiy1 · eiy2 = ei(y1 +y2 ) ,
eiy
come si verifica direttamente a partire dalla definizione facendo uso della definizione di
quoziente di numeri complessi per la prima e delle regole di somma del seno e del coseno
per la seconda.
Definiamo quindi la potenza con base e ed esponente complesso arbitrario in modo tale da
continuare a far valere le medesime proprietà delle potenze:
az = ez log a .
z = ρeiθ ,
e2ix − e−2ix (eix − e−ix )(eix + e−ix ) eix − e−ix eix + e−ix
sin 2x = = =2 = 2 sin x cos x.
2i 2i 2i 2
Ricavare tutte le altre formule trigonometriche facendo uso delle formule di Eulero è un
esercizio molto istruttivo.
Osserviamo inoltre che se w(x) = u(x) + iv(x) è una funzione a valori complessi di una
variabile reale x, allora possiamo definire la derivata w′ (x) nel modo ovvio facendo uso della
linearità della derivata:
w′ (x) = u′ (x) + iv′ (x).
209
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Le regole del calcolo differenziale per l’esponenziale in altri termini continuano a valere.
Si può verificare altrettanto facilmente che anche nel caso delle funzioni trigonometriche
valgono le medesime regole di derivazione.
La definizione di esponenziale, seno e coseno nel campo complesso mette in luce an-
che la relazione fra funzioni trigonometriche e funzioni iperboliche. Infatti si verifica
immediatamente che:
e−y +e y
cos iy = 2 = cosh y,
e−y −e y
sin iy = 2i = 2i (ey − e−y ) = i sinh y,
eiy +e−iy
cosh iy = 2 = cos y,
eiy −e−iy
sinh iy = 2 = i sin y.
210
5. Introduzione all’Analisi per funzioni di piú variabili
Buona parte dei concetti e dei risultati che abbiamo visto fino ad ora, ma non tutti, posso-
no essere generalizzati in un modo o nell’altro al caso di funzioni di piú variabili: limiti,
topologia, continuità e derivate. Ci sono alcune differenze, come vedremo, importanti.
Useremo spesso la notazione vettoriale:
x = (x1 , x2 , . . . , xn ).
Ovviamente:
x · y = y · x,
x · 0 = 0, dove 0 = (0, . . . , 0),
(λx) · y = λ(x · y) e x · (λy) = λ(x · y).
Si noti che ||x||2 = x · x. Si noti anche che, se x, y rappresentano due punti in Rn , allora ||x − y||
non è altro che la distanza tra i due punti. Ovviamente, inoltre, ||x|| ≥ 0 e ||x|| = 0 ⇒ x = 0 (la
norma euclidea di un vettore non è mai negativa e se è nulla allora il vettore è nullo).
Ci servono dapprima alcune disuguaglianze.
211
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Allora chiaramente:
u·v ✘
w·v =u·v− ✘ v ·✘
✘ v = u · v − u · v = 0.
v ·✘
✘ v
Quindi:
u·v
u=w+ v,
v·v
e cosí:
(u · v)2 ✟
u ·✟
v (u · v)2 (u · v)2
||u||2 = u · u = ||w||2 + 2v ✟ 2
+ · ✟
w
✟ v·v
= ||w|| + ≥ ,
||v||2 ✟ ||v||2 ||v||2
da cui discende immediatamente la tesi prendendo la radice quadrata di ambo i membri.
da cui semplificando:
u · v ≤ ||u|| ||v||,
che se il prodotto scalare a sinistra è negativo è ovvia, e se è positivo è vera per la disugua-
glianza di Cauchy-Schwarz.
212
Alberto Berretti Analisi Matematica I
1. ||v|| ≥ 0,
2. ||v|| = 0 ⇒ v = 0,
In Rn tutte le norme possibili sono equivalenti, in un senso molto preciso di questa parola, pertanto
si può utilizzare la norma piú conveniente dal punto di vista dei calcoli (ad es. la norma eucli-
dea che abbiamo introdotto sopra). Non è nostra intenzione addentrarci ulteriormente in queste
problematiche.
Esempio 77. In R il valore assoluto è una norma, in quanto soddisfa tutte e tre le proprietà elencate
sopra.
In analogia con le considerazioni fatte quando abbiamo definito i limiti di funzioni di una
variabile, definiamo per funzioni di n variabili il limite nel modo seguente:
Diremo che:
lim f (x) = l
x→x0
se:
Osservazione 36. L’unica cosa che è cambiata è l’utilizzo del simbolo di vettore e della norma al
posto del valore assoluto là dove necessario, e che pertanto il caso n = 1 della definizione appena
data coincide con la usuale definizione di limite in R. Poiché le proprietà della norma sono
le stesse del valore assoluto (il valore assoluto è una norma!) ne segue che tutte le proprietà
dei limiti che utilizzano solo le proprietà del valore assoluto continuano a valere anche nel
caso di limiti in Rn , e le corrispondenti dimostrazioni sono sostanzialmente identiche.
213
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Osservazione 37. Al contrario, non possiamo definire i limiti all’infinito in un modo sensato:
infatti mentre in una dimensione abbiamo due direzioni e basta (appunto distinguiamo il
limite per x → +∞ e per x → −∞), in piú di una dimensione abbiamo non solamente infinite
direzioni, ma infiniti modi nei quali un punto può allontanarsi dall’origine facendo tendere a +∞ la
sua distanza da essa.
Facciamo qualche esempio di come modificare le dimostrazioni dei teoremi sui limiti in R per
adattarle al caso di funzioni in Rn .
lim f (x) = l 0;
x→x0
Dimostrazione. Abbiamo:
Se prendiamo dunque ε = l/2 otteniamo che se 0 < ||x − x0 || < δ allora f (x) > l − l/2 = l/2 > 0.
Il teorema del confronto ed il teorema sulle operazioni algebriche sui limiti hanno una dimostrazione
assolutamente identica al caso delle funzioni di una variabile, basta sostituire il simbolo di norma || · ||
a quello di valore assoluto | · |.
Il teorema sul limite delle funzioni composte è piú complicato da enunciare e dimostrare, perché
non ha senso comporre due funzioni da Rn ad R. Il discorso può farsi complicato, amenoche’ non si
ricorra ad un punto di vista piú generale che però non è opportuno a questo livello. Ci accontentiamo
pertanto di dimostrare il seguente teorema.
ed inoltre sia:
lim f (y) = l, dove ȳ = ( ȳ1 , . . . , ȳn ).
y→ ȳ
e:
lim gk (x) = ȳk , k = 1, . . . , n.
x→x0
Assumiamo inoltre che ∃β > 0 e ∃j tali che se 0 < |x − x0 | < β allora g j (x) , ȳ j . Allora:
lim h(x) = l.
x→x0
Dimostrazione. Dobbiamo dimostrare che ∀ε > 0 ∃δ > 0 tale che se 0 < |x − x0 | < δ allora |h(x) − l| < ε.
Sappiamo che ∀η > 0 esistono δk > 0 tali che se 0 < |x − x0 | < δk allora |gk (x) − ȳk | < η, e sappiamo pure
p
che ∀ε > 0 ∃ζ > 0 tale che se 0 < (y1 − ȳ1 )2 + . . . + (yn − ȳn )2 < ζ allora | f (y) − l| < ε.
214
Alberto Berretti Analisi Matematica I
ζ
Prendiamo dunque η = √ e δ = min(β, δ1 , . . . , δn ) (ovviamente δ > 0). Dunque per 0 < |x − x0 | < δ
n
otteniamo che (y1 , . . . , yn ) , ( ȳ1 , . . . , ȳn ) (perché almeno uno degli yk , precisamente y j , è diverso da ȳ j !)
ζ2
e (y1 − ȳ1 )2 + . . . + (yn − ȳn )2 < n · = ζ2 e quindi la tesi.
n
(Confrontare con la dimostrazione del risultato analogo in R).
Il concetto di monotonia in Rn non ha molto senso per cui il teorema sui limiti delle funzioni
monotone non si generalizza.
Le nozioni di topologia che abbiamo visto nel capitolo precedente si generalizzano facilmente
a funzioni di piú variabili, con alcune difficoltà tecniche che per essere superate in modo
concettualmente limpido necessiterebbero di un approccio radicalmente diverso, cosa che di
nuovo non è opportuna al nostro livello.
Dato un punto a ∈ Rn un intorno di a è l’insieme Bε (a) = {x ∈ Rn : ||x − a|| < ε} , cioè l’insieme dei
punti x ∈ Rn tali che:
n
X
(xk − ak )2 < ε2 ,
k=1
ovvero la “sfera” n-dimensionale di centro a e raggio ε (superficie sferica esclusa: la cosiddetta palla
aperta di centro a e raggio ε). Dato un insieme A ⊂ Rn un punto b ∈ Rn si dice interno ad A se esiste
un intorno di b contenuto in A, cioè se esiste ε > 0 tale che Bε (b) ⊂ A; si dice che b è esterno ad A se è
interno al complementare di A, e che è di frontiera se non è né interno né esterno.
L’interno o parte interna di un insieme A è l’insieme dei suoi punti interni, e si indica con il
simbolo Å. La frontiera di un insieme A è l’insieme dei suoi punti di frontiera e si indica con il
simbolo ∂A.
Un punto b si dice punto di accumulazione per l’insieme A se ogni intorno di b contiene un
elemento di A diverso da b. L’insieme dei punti di accumulazione di A viene detto insieme derivato
di A e si indica con A′ .
Un punto b si dice punto isolato dell’insieme A se b ∈ A e ∃ ε > 0 tale Bε (b) non contiene altri
punti di A.
Proposizione 24. Se b è un punto di accumulazione per l’insieme A, allora ogni intorno di b contiene infiniti
punti di A.
215
Alberto Berretti Analisi Matematica I
insieme A viene detto chiuso se il suo complementare è aperto. Si potrebbe dimostrare che l’insieme
vuoto e tutto Rn sono gli unici insiemi contemporaneamente aperti e chiusi.
Continua a valere il seguente teorema.
Teorema 54. Le[unioni ed intersezioni di insiemi aperti o chiusi soddisfano le seguenti proprietà:
1. L’unione A di un insieme arbitrario S di insiemi aperti è aperto.
A∈S
\n
2. L’intersezione di un numero finito di insiemi aperti Ak è aperto.
\ k=1
3. L’intersezione A di un insieme arbitrario S di insiemi chiusi è chiuso.
A∈S
n
[
4. L’unione di un numero finito di insiemi chiusi Ak è chiuso.
k=1
Dimostrazione. Al solito, la dimostrazione è identica alla dimostrazione dell’analogo teorema nel caso
unidimensionale, purché si sostituisca ad ogni intervallo aperto di centro a e raggio ε la palla aperta
di centro a e raggio ε. [
Come esempio, dimostriamo il punto 1. Se x ∈ A vuol dire che esiste un A0 ∈ S tale che
A∈S [
x ∈ A0 . Essendo A0 aperto, ∃ ε > 0 tale che Bε (x) ⊂ A0 e quindi anche Bε (x) ⊂ A, da cui la tesi.
A∈S
Analogamente gli altri punti.
Come nel caso unidimensionale, segue immediatamente dalla definizione di punto interno di un
insieme che la parte interna di un insieme è un insieme aperto.
La chiusura di un insieme A è l’unione di A e della sua frontiera. Come nel caso unidimensionale,
la chiusura di un insieme è un insieme chiuso (la dimostrazione è identica al caso unidimensionale).
Come nel caso unidimensionale, un insieme A si dice denso in B se A ⊂ B e Ā = B.
Continua a valere il seguente teorema, con delle modifiche triviali nella dimostrazione.
216
Alberto Berretti Analisi Matematica I
contiene infiniti elementi di A, ne contiene almeno uno diverso da x = (α′ , α′′ ), che quindi è un punto
di accumulazione.
217
Alberto Berretti Analisi Matematica I
5.2.2. Compattezza
Teorema 57. Ogni successione a valori in un insieme chiuso e limitato A ammette una sottosuccessione con-
vergente con limite in A. Viceversa, se ogni successione a valori in un insieme A ammette una sottosuccessione
convergente con limite in A, allora A è chiuso e limitato.
Dimostrazione. Dimostriamo la prima delle due affermazioni. Sia A chiuso e limitato, e sia {ak } una
successione contenuta in A: ak ∈ A. Come nel caso unidimensionale, si osservi che i valori assunti
dalla successione al variare di k non devono essere necessariamente tutti diversi, quindi l’insieme dei
valori assunti dalla successione non è necessariamente infinito.
Assumiamo dunque che {ak } assuma un insieme finito di valori in A. Allora almeno uno di questi
valori α ∈ A deve essere assunto per una infinità di valori dell’indice k, che posso ordinare in modo
crescente:
akn = α, kn ր ∞,
e quindi abbiamo costruito banalmente una sottosuccessione convergente (addirittura costante!) che
ammette limite in A.
Assumiamo ora invece che {ak } assuma un insieme infinito di valori in A. Allora tale insieme
ammette almeno un punto di accumulazione α per il teorema di Bolzano-Weierstrass, essendo infinito
e limitato (perché contenuto in A, che è limitato per ipotesi). Essendo A chiuso, α ∈ A. Sia ora
εn = 1/n. Essendo α punto di accumulazione dell’insieme dei valori della successione, ∀n ∃ kn tale
che akn ∈ Bε (α), akn , α. Poiché in ciascuno degli intorni considerati di α per la proposizione 13 posso
scegliere kn grande a piacere, posso scegliere kn > kn−1 e quindi kn ր ∞. Abbiamo cosí costruito una
sottosuccessione {akn } che tende a α ∈ A poiché |akn − α| < εn → 0.
Dimostriamo ora la seconda affermazione contenuta nel teorema.
A deve essere limitato. Se A non è limitato allora contiene una successione (illimitata) che soddisfa
ad es. ||ak || > k, da cui non posso estrarre nessuna sottosuccessione limitata e dunque nessuna
sottosuccessione convergente.
Se A ha un numero finito di elementi allora è chiuso e non abbiamo altro da dimostrare. Assumiamo
pertanto che A ha un numero finito di elementi. Allora per il teorema di Bolzano-Weierstrass ammette
punti di accumulazione. Sia α un punto di accumulazione di A, e dimostriamo che α ∈ A. Utilizzando
la medesima tecnica di prima, sia εn = 1/n; quindi ogni palla aperta Bε (a) contiene un elemento an
di A diverso da α. Ma la successione cosí costruita converge ovviamente ad α, insieme a tutte le sue
sottosuccessioni, e quindi per ipotesi α ∈ A. Poiché dunque A contiene i suoi punti di accumulazione,
per il teorema 55 A è chiuso.
218
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Come nel caso dei limiti, è banale verificare che i principali teoremi sulle funzioni continue
continuano a valere, in particolare somme, prodotti e quozienti (quando il denominatore non
si annulla) di funzioni continue sono continue, e la composizione di funzioni continue dà
luogo a funzioni continue; vale altresí il teorema della permanenza del segno, mentre non
ha senso generalizzare a piú di una dimensione il teorema dell’esistenza degli zeri.
lim f (ϕ(t)) = l
t→0
qualunque siano le ϕ(t) scelte. Questo segue immediatamente dal teorema sulla continuità
delle funzioni composte.
Esempio 79. Sia f (x, y) = x2 + y3 . Tale funzione è continua per ogni (x, y) ∈ R2 .
219
Alberto Berretti Analisi Matematica I
mx2 m
lim =
x→0 x2 + m2 x2 1 + m2
che dipende da m, cioè dal cammino scelto per tendere all’origine. Si osservi che se conside-
riamo separatamente ciascuna variabile, cioè se prima prendiamo f come funzione di x con-
siderando y come un parametro, e poi come funzione di y considerando x come parametro,
allora la funzione risulta separatamente in ciascuna delle due variabili; esplicitamente:
Per capire, dunque, come dimostrare la continuità di una funzione di due o piú variabili,
ritorniamo alla sua definizione. Per essere concreti, consideriamo il caso di una funzione di
due variabili; abbiamo che f è continua in x0 se:
Poniamo x = x0 + r, ||r|| = r, e:
r1 = r cos θ,
r2 = r sin θ,
cioè scriviamo il vettore r in coordinate polari (in tre dimensioni avremmo usato le coordi-
nate sferiche, in piú di tre dimensioni avremmo usato l’opportuna generalizzazione delle
coordinate sferiche). Abbiamo allora:
Ponendo x0 = (x0,1 , x0,2 ) abbiamo f (x0 + r) = f (x0,1 + r cos θ, x0,2 + r sin θ), cioè una funzione
delle due variabili r e θ.
Apparentemente la (5.4) sembra voler dire che:
cioè:
∀θ lim f (x0 + r) = f (x0 ).
r→0
220
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Ciò però non è vero, perché nella (5.5) δ può dipendere da θ, mentre nella (5.4) non dipende da
θ, come è evidente dalla (5.3): il quantificatore “∃δ” precede la condizione “ ∀x : ||x − x0 || < δ”
e quindi δ non dipende dalla posizione di x nella disco di centro x0 e raggio r, cioè da θ. In
altri termini, per avere la continuità in x0 il limite in r deve essere uniforme in θ. Il concetto
di uniformità del limite verrà studiato in profondità nel corso di Analisi Matematica 2.
In pratica, il metodo migliore per ottenere il limite uniforme consiste nel fare una stima di
| f (x) − f (x0 )| in termini di qualcosa che dipende solo da r e non da θ, e poi dimostrare che
tale quantità tende a 0 per r che tende a 0.
Nel caso dell’esempio 79 abbiamo ad es., per (x, y) → (0, 0):
se r < 1.
Nel caso dell’esempio 80 abbiamo invece:
Ora, qualsiasi semiretta incidente nell’origine io scelga per tendere all’origine, lungo tale
semiretta il limite è sempre 0, e cioè, fissando θ:
221
Alberto Berretti Analisi Matematica I
1 .0
0
1
0 .5
- 1 .0 - 0 .5 0 .5 1 .0
0
- 0 .5
- 1 .0
∂f f (x1 , . . . , xk + h, . . . , xn ) − f (x1 , . . . , xk , . . . , xn )
= Dxk f = lim ; (5.6)
∂xk h→0 h
222
Alberto Berretti Analisi Matematica I
in altri termini, variamo xk e consideriamo tutte le altre variabili come parametri, mantenen-
dole costanti. Essendo le altre variabili dei semplici parametri, le usuali regole e proprietà
elementari delle derivate si applicano al calcolo delle derivate parziali.
Una funzione di n variabili ha dunque n derivate parziali, che insieme formano un vettore
detto gradiente della funzione f :
!
∂f ∂f
grad f = ∇ f = ,..., .
∂x1 ∂xn
Il simbolo ∇ si legge nabla; in genere noi useremo la notazione con il simbolo grad. Il nome
“nabla” sembra derivare da un antico strumento a corda della tradizione ebraica europea, di forma
simile ad un’arpa, a cui il simbolo somiglierebbe.
Ora, mentre nel caso di funzioni di una variabile la derivabilità è un concetto importante,
implica la continuità e tante altre proprietà interessanti di una funzione, in piú di una variabile
il concetto di derivabilità vuol dire molto poco. Una funzione derivabile non è nemmeno
detto che sia continua, come chiarisce l’esempio seguente.
Esempio 82. Sia f (x, y) la funzione dell’esempio 80. Possiamo verificare immediatamente
che f è derivabile nell’origine, anche se non è continua:
Questo fatto non deve sorprendere. La derivabilità di una funzione di due o piú variabili
ci dice solo qualcosa sul comportamento della funzione quando una variabile cambia ma le altre
restano costanti, cioè quando il punto in cui è calcolata la funzione si muove lungo direzioni
parallele agli assi coordinati. Non ci dice assolutamente nulla su come varia la funzione quando il
punto in cui è calcolata si muove lungo le altre direzioni.
Il concetto importante è quello di differenziabilità. Una funzione di n si dice differen-
ziabile in x0 quando:
In pratica, una funzione di n variabili è definita come differenziabile se per essa vale la
formula di Taylor al primo ordine.
È evidente che la differenziabilità implica la continuità e la derivabilità. Infatti si vede
subito dalla (5.7) che se x → x0 allora f (x) → f (x0 ). Per quanto riguarda la derivabilità, sia ek
223
Alberto Berretti Analisi Matematica I
il versore dell’asse x̂k (e quindi il vettore che ha tutte componenti nulle meno la componente
k-esima pari a 1); abbiamo quindi:
∂ f f (x0 + hek ) − f (x0 )
= lim = v · ek = vk ,
∂xk x=x0 x→x0 h
per cui:
il vettore v nella (5.7) = grad f (x0 ),
Ma in generale una funzione semplicemente derivabile non sarà differenziabile, perché po-
trebbe essere addirittura discontinua. Nel paragrafo seguente dimostreremo un teorema che
ci dirà sotto quali condizioni una funzione derivabile è anche differenziabile.
Ad es. nel caso di due variabili date f (x, y) e ϕ(t), ψ(t) potremmo scrivere:
224
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Teorema 58 (della Derivata Totale). Sia f una funzione di n variabili definita in D ⊂ Rn aperto e
ϕ1 , . . . , ϕn n funzioni di una variabile definite nell’intervallo I, e siano i loro codomini R1 , . . . , Rn
tali che R1 × . . . × Rn ⊂ D, in modo tale da poter definire in I F(t) = f (ϕ1 (t), . . . , ϕn (t)). Siano le ϕk
derivabili in I e la f derivabile in D con derivate continue. Allora F è derivabile e la sua derivata vale:
n
′
X ∂f
F (t) = (ϕ1 (t), . . . , ϕn (t)) ϕ′k (t) = grad f (ϕ(t)) · ϕ′ (t). (5.11)
∂k
k=1
In due variabili abbiamo la funzione f (x, y) definita in D e le funzioni ϕ(t), ψ(t) definite in
I, tali che al variare di t in I il punto (ϕ(t), ψ(t)) ∈ D in modo da poterle comporre con la f :
In tal caso, se la f è derivabile con derivate parziali continue e le ϕ, ψ sono derivabili, allora
anche la F è derivabile e la sua derivata vale:
∂f ∂f
F′ (t) = (ϕ(t), ψ(t)) ϕ′ (t) + (ϕ(t), ψ(t)) ψ′ (t). (5.13)
∂x ∂y
Dimostriamo ora la (5.13). La dimostrazione della (5.11) è identica, solo piú complessa
nella gestione degli indici.
f (x, y) − f (x0 , y)
se x , x0
Φ(x, y) = x − x0
∂ f
(x0 , y)
se x = x0 ,
∂x
e:
f (x0 , y) − f (x0 , y0 )
se y , y0
y − y0
Ψ(y) =
∂ f
∂y (x0 , y0 ) se y = y0 .
225
Alberto Berretti Analisi Matematica I
F(t) − F(t0 ) f (ϕ(t), ψ(t)) − f (x0 , y0 ) f (ϕ(t), ψ(t)) − f (x0 , ψ(t)) f (x0 , ψ(t)) − f (x0 , y0 )
= = + =
t − t0 t − t0 t − t0 t − t0
ϕ(t) − ϕ(t0 ) ψ(t) − ψ(t0 )
= Φ(ϕ(t), ψ(t)) + Ψ(ψ(t)) . (5.14)
t − t0 t − t0
Basta ora fare il limite per t → t0 per ottenere la tesi. La continuità delle derivate parziali è
stata necessaria perché la derivata parziale che definisce la Φ quando x = x0 è calcolata in y,
non in y0 , e dobbiamo assumere che tenda alla derivata parziale in y0 quando y tende a y0 .
Si noti che abbiamo “separato” le derivate parziali di f sommando e sottraendo un termine nella
(5.14). Con n variabili, avremmo dovuto sommare e sottrarre n − 1 termini complicando la dimostra-
zione nella forma ma non nella sostanza. In una variabile, non dobbiamo sommare e sottrarre nulla,
non c’è il problema che una derivata è calcolata in un punto leggermente spostato e non è quindi
necessaria la continuità della derivata della funzione esterna nella composizione. Si noti anche che
la continuità delle derivate parziali è richiesta in (x0 , y0 ), e che in effetti è richiesta solo la continuità
di una derivata parziale, quella rispetto a x nella nostra dimostrazione; in n variabili sarebbe in effetti
necessaria solo la continuità di n − 1 derivate parziali.
Il teorema della derivata totale assume una forma particolarmente suggestiva quanto
imprecisa nella (5.15) seguente, in cui viene spesso scritto nei testi di Fisica. In Fisica in genere
il nome di una funzione rappresenta una qualche quantità, e lo stesso nome viene usato per
la medesima quantità indipendentemente dalle variabili da cui viene fatta dipendere. Ciò è
fonte di numerosi problemi di notazione ad es. in Termodinamica. Se ad es. è data f (x, ψ(x))
(cioè il caso ϕ(x) = x), un fisico scriverebbe tranquillamente:
usando il medesimo simbolo per la f come funzione della sola x e come funzione della x e
della y = ψ(x), perché esse rappresentano la medesima quantità fisica. Derivando, abbiamo
la necessità di distinguere fra la derivata della f come funzione della sola x (la “derivata
totale”) e la f come funzione della x e della y (le “derivate parziali”):
df ∂ f ∂ f dψ
= + . (5.15)
dx ∂x ∂y dx
Questa è l’origine storica dei nomi “derivata parziale”, “derivata totale”, e del simbolo della
derivata parziale.
Ora abbiamo in mano lo strumento che ci permetterà in modo semplice di dimostrare la
generalizzazione del teorema di Lagrange alle funzioni di n variabili.
Teorema 59 (Lagrange). Sia f una funzione di n variabili definita in D aperto, derivabile con
derivate continue in x0 ∈ D. Sia B un intorno di x0 : B = {x : ||x − x0 || < r}, con r > 0. Allora se
226
Alberto Berretti Analisi Matematica I
x ∈ B abbiamo:
f (x) = f (x0 ) + grad f (ξ) · (x − x0 ), (5.16)
Dimostrazione. Poniamo:
F(t) = f (x0 + t(x − x0 )),
e poniamo:
ϕ(t) = x0 + t(x − x0 ).
Osserviamo che:
F(0) = f (x0 ), F(1) = f (x).
−✘
(1✘
F(1) = F(0) + F′ (τ)✘ ✘
0).
Quindi usando il teorema della derivata totale per scrivere la derivata di F (è immediato
ricavare che F′ (t) = grad f (ϕ(t)) · (x − x0 )) otteniamo:
Teorema 60. Sia f una funzione di n variabili definita in D aperto. Se f è derivabile in D con derivate
parziali continue, allora f è differenziabile.
dove naturalmente ξ → x0 . Ma la continuità delle derivate parziali di f ci dice che grad f (ξ) →
grad f (x0 ), cioè:
grad f (ξ) = grad f (x0 ) + o(1).
Quindi:
f (x) = f (x0 ) + grad f (x0 ) · (x − x0 ) + o(||x − x0 ||),
che è la tesi.
227
Alberto Berretti Analisi Matematica I
df f (x + hk̂) − f (x)
= lim . (5.17)
dk̂ h→0 h
Si tratta sostanzialmente della “derivata parziale nella direzione di k̂”. Infatti si verifica
immediatamente che, se êk è il versore dell’asse xk , allora la derivata parziale rispetto a xk è
appunto la derivata direzionale nella direzione di êk . Dalla definizione di differenziabilità di
f si ricava facilmente che:
df
= grad f · k̂.
dk̂
Il concetto di derivata direzionale viene talora utilizzato in Fisica.
Il teorema della funzione implicita permette di definire funzioni come soluzioni di equazioni.
Pertanto è di importanza fondamentale nell’analisi matematica, ed ha diverse versioni in
diversi contesti. Nel contesto delle funzioni differenziabili di n variabili è già anche troppo
complesso per essere qui trattato, ma è possibile una formulazione semplice di tale teorema
in due variabili, che ha fortunatamente una dimostrazione assai semplice, che purtroppo
non si applica al caso generale in n dimensioni.
Teorema 61 (della funzione implicita o del Dini, caso bidimensionale). Sia f una funzione
derivabile con derivate parziali continue definita nell’aperto D ⊂ R2 , e sia (x0 , y0 ) ∈ D tale che
∂f
f (x0 , y0 ) = 0; sia inoltre (x0 , y0 ) , 0. Allora esiste un intorno I = (x0 − δ, x0 + δ) di x0 ed una
∂y
funzione ϕ di x definita in I tale che:
∀x ∈ I : f (x, ϕ(x)) = 0.
f (x, y) = 0 ⇒ y = ϕ(x),
dando le opportune ipotesi sotto le quali ciò è possibile e ricavando che la ϕ ha sostanzial-
mente le stesse proprietà “analitiche” (in questo caso, differenziabilità) della f . Varî tipi di
228
Alberto Berretti Analisi Matematica I
teorema della funzione implicita si possono differenziare anche sulla base della categoria
di funzioni in cui lavoriamo: nel nostro caso, f e ϕ sono funzioni derivabili con derivate
continue; teoremi piú complessi possono ottenere condizioni piú strette sulla ϕ a partire dalle
medesime condizioni sulla f .
(x0 − m, y0 + l) (x0 + m, y0 + l)
(x0 , y0 + l)
(x, y)
(x0 , y0 )
(x0 , y0 − l)
(x0 − m, y0 − l) (x0 + m, y0 − l)
∂f
Dimostrazione. Sia f (x0 , y0 ) = 0, e assumiamo che (x0 , y0 ) > 0. Per il teorema della per-
∂y
manenza del segno esiste un intorno di (x0 , y0 ), ad es. B = {(x − x0 )2 + (y − y0 )2 < r2 }, in cui
∂f
(x, y) > 0. Allora, essendo f (x, y) una funzione crescente di y ad x fissato, ∃l > 0 tale che
∂y
f (x0 , y0 + l) > 0 e f (x0 , y0 − l) < 0, rimanendo sempre all’interno di B. Consideriamo ora
f (x, y) come funzione di x a y fissato; per il teorema della permanenza del segno, ∃m > 0 tale
che lungo tutto il segmento y = y0 + l, x0 − m ≤ x ≤ x0 + m la f resta positiva, e lungo tutto
il segmento y = y0 − l, x0 − m ≤ x ≤ x0 + m la f resta negativa, sempre restando all’interno
di B. Consideriamo ora il rettangolo di vertici (x0 − m, y0 + l), (x0 + m, y0 + l), (x0 − m, y0 − l),
(x0 + m, y0 − l); per le considerazioni appena fatte lungo il lato superiore f è positiva e lungo
il lato inferiore f è negativa. Fissiamo ora x tale che x0 − m ≤ x ≤ x0 + m, e consideriamo
f come funzione di y con y0 − l < y < y0 + l: per il teorema di esistenza degli zeri ∃y in
229
Alberto Berretti Analisi Matematica I
tale intervallo tale che f (x, y) = 0; per la monotonia di f come funzione di y, tale y è unico:
poniamo dunque y = ϕ(x).
Abbiamo dunque definito una funzione ϕ(x) definita in un intorno di x0 tale che f (x, ϕ(x)) =
0, come richiesto. Resta da dimostrare che ϕ(x) è continua e derivabile e calcolarne la derivata.
Ma questo segue immediatamente dal teorema di Lagrange; infatti abbiamo:
∂f ∂f
0 = f (x, ϕ(x)) − f (x0 , ϕ(x0 )) = (ξ, η)(x − x0 ) + (ξ, η)(ϕ(x) − ϕ(x0 )). (5.18)
∂x ∂y
Ora, quando x tende a x0 anche ξ tende a x0 , ma non sappiamo se anche η tende a y0 : infatti
non abbiamo ancora dimostrato che ϕ è continua e quindi non sappiamo se ϕ(x) tende a ϕ(x0 ),
e siccome tutto quello che sappiamo di η è che è compreso fra ϕ(x) e ϕ(x0 ) non possiamo
∂f
concludere nulla. Ma dalla (5.18), tenendo conto che in tutto B vale , 0, abbiamo che per
∂y
x → x0 deve essere ϕ(x) → ϕ(x0 ), e cio è la continuità della ϕ. Quindi anche η → y0 , e cioè
(ξ, η) → (x0 , y0 ) quando x → x0 . Sempre dalla (5.18) segue dunque:
∂f ∂f
ϕ(x) − ϕ(x0 ) (ξ, η) (x0 , y0 )
=− ∂x →− ∂x
x − x0 ∂f ∂f
(ξ, η) (x0 , y0 )
∂y ∂y
quando x → x0 .
∂f
Ovviamente se avessimo avuto < 0 in (x0 , y0 ) la dimostrazione vale ancora, con le ovvie
∂y
∂f
modifiche. Ugualmente se è ad essere , 0.
∂x
Come abbiamo definito le derivate di ordine superiore nel caso di funzioni di una variabile,
cosí possiamo definire le derivate parziali di ordine superiore: infatti se le derivate parziali
di una funzione di n variabili sono a loro volta funzioni di n variabili, possiamo pensare di
continuare a derivarle a loro volta. Se abbiamo però n derivate parziali del primo ordine,
abbiamo n2 derivate parziali del secondo ordine, n3 derivate parziali del terzo ordine, e cosí
via. Si pone ovviamente il problema dell’ordine in cui faccio le derivate parziali in un punto
dato: se derivo prima rispetto alla variabile xk e poi rispetto alla variabile xh o viceversa,
ottengo o no il medesimo risultato? Vale dunque l’importante teorema seguente.
Teorema 62 (Schwarz). Sia f derivabile n volte nel punto x0 , con derivate parziali n-esime continue
in x0 . Allora ciascuna derivata parziale n-esima non dipende dall’ordine in cui vengono fatte le
derivate.
230
Alberto Berretti Analisi Matematica I
dove nella prima trattiamo s come un parametro ∈ (−ε, ε) e nella seconda trattiamo t come
un parametro ∈ (−δ, δ). È evidente che ∀t, s:
(basta sostituire nella definizione per rendersene conto). Ma facendo uso del teorema di
Lagrange due volte abbiamo:
∂2 f
!
′ ∂f ∂f
ϕ(t) − ϕ(0) = tϕ (τ1 ) = t (x + 0 + τ1 , y0 + s) − (x0 + τ1 , y0 ) = ts (x0 + τ1 , y0 + σ1 ),
∂x ∂x ∂y∂x
dove τ1 è compreso fra 0 e t e σ1 è compreso fra 0 e s. Analogamente facendo di nuovo uso
del teorema di Lagrange due volte ma stavolta lavorando su ψ abbiamo:
∂2 f
!
′ ∂f ∂f
ψ(s) − ϕ(0) = sψ (σ2 ) = s (x + 0 + t, y0 + σ2 ) − (x0 , y0 + σ2 ) = st (x0 + τ2 , y0 + σ2 ),
∂y ∂y ∂x∂y
dove τ2 è compreso fra 0 e t e σ2 è compreso fra 0 e s. Quindi:
∂2 f ∂2 f
(x0 + τ1 , y0 + σ1 ) = (x0 + τ2 , y0 + σ2 ),
∂y∂x ∂x∂y
e facendo tendere t e s a 0 otteniamo per la continuità delle derivate parziali seconde che:
∂2 f ∂2 f
(x0 , y0 ) = (x0 , y0 ),
∂y∂x ∂x∂y
cioè la tesi.
231
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Diremo che una funzione è due volte differenziabile in x0 se esiste un vettore v ed una
matrice H = {hi, j }ni, j=1 (detta matrice hessiana) tali che per x → x0 :
n n
X 1X
f (x) = f (x0 ) + vk (xi − x0,i ) + hi, j (xi − x0,i )(x j − x0, j ) + o(||x − x0 ||2 ). (5.20)
2
i=1 i, j=1
Si potrebbe verificare facilmente che, come v = grad f (x0 ) è il vettore delle derivate parziali
di f , la matrice H ha per elementi di matrice le derivate parziali seconde di f , per cui grazie
al teorema di Schwarz possiamo dire che è una matrice simmetrica.
In generale diremo che f è m volte differenziabile in x0 se per x → x0 :
n
1 X ∂f
f (x) = f (x0 ) + (x0 )(xi − x0,i ) + . . . +
2 ∂xi
i=1
n
1 X ∂k f
+ (x0 )(xi1 − x0,i1 ) . . . (xik − x0,ik ) + . . . +
k! ∂xi1 . . . ∂xik
i1 ,...,ik =1
n
1 X ∂m f
(x0 )(xi1 − x0,i1 ) . . . (xim − x0,im ) + o(||x − x0 ||m ). (5.21)
m! ∂xi1 . . . ∂xim
i1 ,...,im =1
232
6. Integrali
Il concetto di integrale ha una storia molto antica che risale a ben prima del concetto di
derivata. Infatti l’integrale risolve problemi piú semplici ed immediati come calcolare la
lunghezza di una curva o l’area di una regione del piano. Le idee che stanno dietro al
concetto di integrale dunque risalgono ad un’epoca molto lontana, e precisamente al metodo
di esaustione di Eudosso (circa 370 a. C.) e ad Archimede. Un metodo analogo fu introdotto
dal matematico cinese Liu Hui nel III sec. a. C.
L’idea moderna di integrale è dovuta indipendentemente a I. Newton e a G. Leibniz nel
XVII sec.; ma solo nel XIX sec., grazie all’opera di B. Riemann, è stata data la prima definizione
matematicamente rigorosa (in senso moderno) dell’integrale.
Noi utilizzeremo appunto la nozione di integrale secondo Riemann. In epoca successiva
(a cavallo fra il XIX ed il XX sec.) è stata introdotta, ad opera del matematico francese H.
Lebesgue, una nozione di integrale distinta, che coincide nella maggioranza dei casi con
l’integrale di Riemann ma ne differisce in alcuni casi (nel senso che esistono funzioni che
non sono integrabili con la definizione di Riemann ma lo sono con quella di Lebesgue;
quando sono entrambi definiti, coincidono). La principale ragione per cui i matematici
moderni utilizzano in genere la definizione di Lebesgue non è tanto quella di permettere
l’integrazione di alcune funzioni non altrimenti integrabili secondo Riemann, quanto quella
di semplificare drasticamente alcuni teoremi, la cui dimostrazione sarebbe altrimenti assai
difficile utilizzando la definizione di Riemann. La teoria dell’integrazione di Lebesgue però
è piú complessa di quella di Riemann e si presta ad una esposizione molto astratta, pertanto
nei corsi standard di Analisi Matematica 1 si utilizza in genere la definizione di Riemann,
piú che sufficiente per gli usi elementari, lasciando ai corsi di Analisi Matematica Superiore
la definizione di Lebesgue.
233
Alberto Berretti Analisi Matematica I
e poi prendere il limite per n → ∞. In altri termini, potremmo mettere nell’intervallo [a, b] una
griglia di n − 1 punti uniformemente distribuiti, calcolare la somma dei valori della funzione in
tali punti e moltiplicare per la lunghezza dell’intervallino fra un punto e l’altro della griglia;
successivamente si prenderebbe il limite per n → ∞, migliorando dunque l’approssimazione
nel limite. Una procedura come questa però, che in teoria potrebbe anche sembrare una definizione
corretta, porta a notevoli difficoltà nel momento in cui si tenta di dimostrare qualche proprietà del-
l’integrale cosí definito. Infatti, non ha senso prendere una griglia di punti uniformemente
distribuita: quando ad es. volessimo dimostrare l’additività dell’integrale, e cioè che l’in-
tegrale in un intervallo piú l’integrale in un altro intervallo adiacente è pari all’integrale
nell’unione dei due intervalli, avremmo dei problemi perché le griglie nei due intervalli piú
piccoli sarebbero “incompatibili” tra di loro e con la griglia che dovremmo mettere nell’inter-
vallo piú grande. Dobbiamo quindi trovare un modo per definire l’integrale usando griglie
formate da punti qualsiasi e non equispaziati, e quindi siamo costretti a rinunciare all’utilizzo
del limite per definire l’integrale.
Osservazione 39. Esiste una suddivisione meno fine di tutte, quella formata dai soli estremi
dell’intervallo I: D0 = {a, b}. Viceversa, non esiste una suddivisione piú fine di tutte, perché
possiamo sempre aggiungere altri punti ad una suddivisione data.
Osservazione 40. È anche evidente che si tratta di un’ordinamento parziale e quindi esi-
stono suddivisioni non confrontabili; ad es. due suddivisioni potrebbero avere in comune
addirittura solo gli estremi a e b.
234
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Osservazione 41. Però, date due suddivisioni qualsiasi D1 e D2 è sempre possibile trovare
una sudddivisione D3 confrontabile con entrambe; basta ad es. prendere D3 = D1 ∪ D2 .
Definiamo inoltre:
|D| = max (xk − xk−1 ), (6.2)
k=1,...,n
e cioè la lunghezza dell’intervallino piú lungo tra quelli definiti dai punti che costituiscono
la suddivisione.
Se f è limitata in I, è ovviamente limitata in ciascuno degli intervallini [xi−1 , xi ] definiti da
una data suddivisione D; quindi esistono in [xk−1 , xk ] gli estremi superiore ed inferiore di f :
e la somma superiore:
n
X
S(D, f ) = Mk (xk − xk−1 ). (6.5)
k=1
Se f ≥ 0, allora il suo grafico giace interamente sopra l’asse x e s(D, f ), S(D, f ) hanno
un significato geometrico molto semplice. In ciascun intervallo [xk−1 , xk ] sostituiamo ad f
il suo estremo inferiore mk o il suo estremo superiore Mk rispettivamente, e consideriamo
i rettangoli di base xk − xk−1 ed altezza rispettivamente mk , Mk . La somma delle aree dei
235
Alberto Berretti Analisi Matematica I
rettangoli piú piccoli, di altezza mk , è allora la somma inferiore e la somma delle aree dei
rettangoli piú grandi, di altezza Mk , è allora la somma superiore.
È evidente che la somma inferiore per una suddivisione data è inferiore alla somma
superiore per la medesima suddivisione:
1. s(D2 , f ) ≥ s(D1 , f ),
2. S(D2 , f ) ≤ S(D1 , f ).
Prendendo cioè suddivisioni piú fini le somme inferiori crescono e le somme superiori
calano.
e:
j−1
X n
X
s(D2 , f ) = mk (xk − xk−1 ) + m′j(ξ − x j−1 ) + m′′j (x j − ξ) + mk (xk − xk−1 ),
k=1 k=j+1
≥ m j (ξ − x j−1 ) + m j (x j − ξ) − m j (x j − x j−1 ) = 0.
La dimostrazione per le somme superiori è identica, basta invertire il segno della disugua-
glianza.
Proposizione 26. Ogni somma inferiore è minore o uguale a qualsiasi somma superiore:
236
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Una conseguenza, banale ma importante, della proposizione 26 è che l’insieme dei valori
delle somme inferiori è limitato superiormente (ad es. dal valore di una qualsiasi somma
superiore), e l’insieme dei valori delle somme superiori è limitato inferiormente (ad es. dal
valore di una qualsiasi somma inferiore). Quindi esistono rispettivamente l’estremo superiore e
l’estremo inferiore:
∃ s( f ) = sup s(D, f ), S( f ) = inf S(D, f ),
D D
dove gli estremi superiori sono presi al variare di D tra tutte le possibili suddivisioni
dell’intervallo I. Chiaramente s( f ) ≤ S( f ), e ∀ε∃D1 , D2 : S( f, D1 ) < S( f ) + ε, s( f, D2 ) >
s( f ) − ε.
Diremo allora che la funzione f , definita e limitata nell’intervallo I = [a, b], è integrabile
secondo Riemann o brevemente integrabile se s( f ) = S( f ), cioè se:
Osservazione 42. La posizione del dx è totalmente irrilevante, può essere scritto indifferen-
temente prima o dopo la funzione, basta che sia scritto dopo il segno di integrale.
237
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Esempio 83. Sia f (x) = c (costante) in [a, b]. Allora un calcolo elementare dimostra che:
pertanto:
Z b
c dx = c(b − a)
a
Esempio 84. Sia:
1 se x ∈ Q,
f (x) =
0
altrimenti,
cioè la funzione che vale 1 sui razionali e 0 sugli irrazionali (la funzione di Dirichlet). f è
ovviamente limitata ma non è integrabile secondo Riemann. Infatti in ogni intervallo esistono
sia razionali che irrazionali, per cui s(D, f ) = 0 e S(D, f ) = b − a per ogni suddivisione D
di [a, b]. Quindi m j = 0 e M j = 1 per ogni j, cosicché ogni somma inferiore vale 0 ed ogni
somma superiore vale b − a.
Questa definizione di integrabilità non servirebbe a nulla se non avessimo da una parte
dei semplici criteri di integrabilità e dall’altra un’ampia classe di funzioni importanti che
risultano integrabili.
238
Alberto Berretti Analisi Matematica I
La seguente proposizione ci fornisce uno strumento che verrà utilizzato per dimostra-
re l’integrabilità di due classi importanti di funzioni, le funzioni continue e le funzioni
monotone.
Proposizione 27. Una funzione f definita e limitata nell’intervallo [a, b] è integrabile secondo
Riemann se e solo se vale la seguente condizione:
∃ε ∀D : S(D, f ) − s(D, f ) ≥ ε,
e quindi:
inf(S(D, f ) − s(D, f )) ≥ inf S(D, f ) − sup s(D, f ) ≥ ε,
D D D
Teorema 63. Sia f continua in [a, b]. Allora f è integrabile in [a, b].
239
Alberto Berretti Analisi Matematica I
In realtà è sufficiente richiedere che la f abbia nell’intervallo [a, b] al massimo una quantità
numerabile di punti di discontinuità. Dopo aver dimostrato l’additività dell’integrale, di-
mostreremo una versione leggermente piú debole dell’enunciato, assumendo che la f abbia
in [a, b] al massimo un numero finito di discontinuità.
Teorema 64. Sia f monotona nell’intervallo [a, b]. Allora f è integrabile in [a, b].
Studiamo ora le principali proprietà degli integrali di Riemann, e ricaviamo gli strumenti
fondamentali per il loro calcolo.
240
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Teorema 65. Sia a < b < c e siano f , g integrabili in [a, b], [b, c], α, β ∈ R. Allora abbiamo:
Z b Z b
1. α f è integrabile e α f (x)dx = α f (x)dx;
a a
Z b Z b Z b
2. f + g è integrabile e ( f (x) + g(x))dx = f (x)dx + g(x)dy;
a a a
Z b Z b Z b
3. α f + βg è integrabile e (α f (x) + βg(x))dx = α f (x)dx + β g(x)dx;
a a a
Z b Z b
4. se in [a, b] f (x) ≤ g(x) allora f (x)dx ≤ g(x)dx;
a a
Z b Z b
5. | f | è integrabile e f (x)dx ≤ | f (x)|dx;
a a
Z b
6. f (x)dx ≤ (b − a) sup | f (x)|;
[a,b]
a
Z c Z b Z c
7. f è integrabile in [a, c] e f (x)dx = f (x)dx + f (x)dx.
a a b
241
Alberto Berretti Analisi Matematica I
e:
inf S(D, α f ) = inf(αs(D, f )) = α sup s(D, f ), sup s(D, α f ) = sup(αS(D, f )) = α inf S(D, f )
n
X n
X n
X
S(D, f + g) = (xk − xk−1 ) sup ( f + g) ≤ (xk − xk−1 ) sup f + (xk − xk−1 ) sup g =
k=1 [xk−1 ,xk ] k=1 [xk−1 ,xk ] k=1 [xk−1 ,xk ]
e analogamente:
n
X n
X n
X
s(D, f + g) = (xk − xk−1 ) inf ( f + g) ≥ (xk − xk−1 ) inf f+ (xk − xk−1 ) inf g =
[xk−1 ,xk ] [xk−1 ,xk ] [xk−1 ,xk ]
k=1 k=1 k=1
da cui:
S(D, f + g) − s(D, f + g) ≤ S(D, f ) − s(D, f ) + S(D, g) − s(D, g). (6.11)
242
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Abbiamo quindi:
cioè S( f + g) ≤ s( f + g). Poiché abbiamo già dimostrato che S( f + g) = s( f + g), tutti i ≤ sono
in effetti dei segni di uguaglianza e la tesi è dimostrata.
Il caso 3 segue immediatamente dai casi 1 e 2.
Z b
Per quanto riguarda il caso 4, consideriamo che se f ≥ 0 allora f (x)dx ≥ 0; infatti tutti
a
gli mk , Mk nelle definizioni delle somme inferiori e superiori sono ≥ 0 e quindi anche le
somme inferiori e superiori sono ≥ 0, e quindi anche l’integrale. Il caso 4 segue allora dal
caso 3 considerando la funzione f − g.
Per quanto riguarda il caso 5, dimostriamo intanto che f+ = max( f, 0) e f− = − min( f, 0)
sono integrabili. Sia S un intervallo qualsiasi in cui f è definita; allora abbiamo che se in S
f ≤ 0 allora supS f+ − infS f+ = 0 ≤ supS f − infS f perché in tal caso in S f+ = 0; se invece in S
f ≥ 0 allora in S f+ = f e quindi supS f+ − infS f+ = supS f − infS f ; se invece in S la f è a volte
> 0 e a volte < 0, abbiamo che supS f+ = supS f e infS f+ = 0 > infS f , pertanto in questo caso
supS f+ − infS f+ < supS f − infS f . Pertanto in ogni possibile caso vale sempre:
243
Alberto Berretti Analisi Matematica I
dove abbiamo usato il fatto che f+ ed f− sono positive e quindi i loro integrali sono positivi
e possiamo dunque omettere i valori assoluti.
Il caso 6 segue banalmente dai punti 4 e 5 tenendo conto che in [a, b] | f (x)| ≤ sup[a,b] | f (x)|.
Per quanto riguarda il caso 7, essendo f integrabile sia in [a, b] che in [b, c], ∀ε > 0 esistono
una suddivisione D′ε di [a, b] ed una suddivisione D′′
ε di [b, c] tali che:
ε
S(D′ε , f ) − s(D′ε , f ) < ,
2
′′ ′′ ε
S(Dε , f ) − s(Dε , f ) < .
2
244
Alberto Berretti Analisi Matematica I
e poniamo: Z a
f (x)dx = 0. (6.13)
a
Con queste definizioni è immediato, ancorché leggermente noioso, verificare quanto affer-
mato.
Siano I = [a, b] e J = [c, d] due intervalli che hanno al piú un estremo in comune. Scriviamo:
Z Z b Z Z d
f (x)dx = f (x)dx, f (x)dx = f (x)dx.
I a J c
245
Alberto Berretti Analisi Matematica I
È suggestivo definire I + J come l’unione dei due intervalli I e J. In tal caso, se i due intervalli sono
adiacenti (b = c) abbiamo dimostrato che:
Z Z Z
f (x)dx = f (x)dx + f (x)dx. (6.14)
I+J I J
Se i due intervalli non sono adiacenti, I + J non è un intervallo e quindi a priori l’integrale non è
definito. È tuttavia suggestivo usare la (6.14) per definire l’integrale esteso all’unione di due intervalli
anche quando questi non sono adiacenti. Possiamo inoltre pensare che l’intervallo I sia pensato come
orientato dal suo estremo inferiore verso il suo estremo inferiore, e denotare l’intervallo orientato in
senso opposto (dal suo estremo superiore al suo estremo inferiore) con −I. In questo caso abbiamo
allora: Z Z
f (x)dx = − f (x)dx.
−I I
Questo modo di pensare sarà utile nel corso di Analisi Matematica 2 quando generalizzeremo in varî
modi il concetto di integrale a funzioni di piú variabili.
È facile ora dimostrare che una funzione che ha al piú un numero finito di discontinuità in
un intervallo [a, b] è in esso integrabile.
Teorema 66. Sia f una funzione limitata in [a, b] e con al piú un numero finito di discontinuità in
tale intervallo. Allora f è integrabile in [a, b].
e quindi ricondurci a casi in cui i punti di discontinuità siano agli estremi dell’intervallo di
integrazione. Dividendo poi ulteriormente, se necessario, l’intervallo di integrazione in due
in un punto in cui la funzione è continua ci possiamo ricondurre al caso in cui la discontinuità
sta in un solo estremo dell’intervallo di integrazione. In quanto segue supponiamo dunque
di voler dimostrare l’integrabilità di f in [a, b] quando la funzione è continua in [a, b); la
dimostrazione nel caso di continuità in (a, b] è analoga.
Per ipotesi f è limitata, quindi ∃K tale che | f (x)| < K in [a, b]. Allora ∀ε > 0 sia x̄ ∈ [a, b] tale
ε
che b − x̄ < . f è continua in [a, x̄] e quindi integrabile, pertanto ∃D′ε , una suddivisione di
4K
[a, x̄], tale che:
ε
S(D′ε , f ) − s(D′ε , f ) < .
2
Consideriamo allora Dε = Dε ∪ {b}, che è una suddivisione di [a, b]. Poniamo M̄ = sup f (x),
′
[x̄,b]
m̄ = inf f (x). Abbiamo:
[x̄,b]
ε ε
S(Dε , f ) − s(Dε , f ) = S(D′ε , f ) − s(D′ε , f ) + (M̄ − m̄)(b − x̄) < + 2K = ε,
2 4K
da cui l’integrabilità per la proposizione 6.2.1.
246
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Dimostriamo ora alcuni teoremi fondamentali che costituiscono il legame tra il calcolo diffe-
renziale ed il calcolo integrale e che ci permetteranno, tra le altre cose, di “costruire” la nostra
tabella di integrali “fondamentali” a partire dei quali possiamo calcolarne altri con metodi
piú complessi.
Iniziamo con il teorema della media integrale.
Teorema 67 (della media). Sia f integrabile in [a, b] e siano m = inf f , M = sup f . Allora:
[a,b] [a,b]
Z b
1
m≤ f (x)dx ≤ M. (6.15)
b−a a
Se f è anche continua in [a, b], allora m = min f , M = max f , e vale il seguente corollario.
[a,b] [a,b]
F′ (x0 ) = f (x0 ).
247
Alberto Berretti Analisi Matematica I
e cioè la tesi.
Corollario 9 (Teorema fondamentale del calcolo). Sia f continua in [a, b], c ∈ [a, b]. Allora:
Z x
F(x) = dξ f (ξ)
c
F′ (x) = f (x).
Inoltre se G è una funzione definita in [a, b] tale che G′ (x) = f (x), allora:
Z b
dx f (x) = G(b) − G(a). (6.16)
a
Una funzione G che soddisfa le ipotesi del corollario 9 viene detta funzione primitiva o
semplicemente primitiva di f .
Lemma 6. Siano F, G derivabili in [a, b], tali che in [a, b] F′ (x) = G′ (x). Allora G(x) = F(x) + (cost.).
Dimostrazione. Sia g(x) = G(x) − F(x). Allora in [a, b] g′ (x) = 0. Basta dimostrare che g è
costante in [a, b]. Siano x1 , x2 ∈ [a, b]; applicando il teorema di Lagrange abbiamo:
e quindi g è costante.
248
Alberto Berretti Analisi Matematica I
G(x) = F(x) + k,
e quindi:
Z b Z b Z a
dx f (x) = dx f (x) − dx f (x) = F(b) − F(a) = G(b) − k − G(a) + k = G(b) − G(a).
a c c
senza indicare gli estremi di integrazione, una qualsiasi primitiva della funzione f . La scrittura
(6.17) viene detta integrale indefinito della funzione f e non indica una funzione, ma un insieme
di funzioni che differiscono a meno di una costante arbitraria detta costante di integrazione, in
quanto sono tutte funzioni che hanno la medesima derivata. Quando si indica il valore di un
integrale indefinito, va sempre indicata la costante arbitraria di integrazione.
In generale, quando dobbiamo calcolare l’integrale definito di una funzione, calcoleremo
una sua primitiva, ovvero l’integrale indefinito, e poi faremo uso del teorema fondamentale
del calcolo 9.
Osservazione 45. In realtà andando a fondo nell’argomento potremmo scoprire che in ge-
nerale è piú difficile calcolare gli integrali indefiniti che gli integrali definiti. Questo perché
esistono delle tecniche che permettono di calcolare specifici integrali definiti di certe fun-
zioni in intervalli speciali, anche in mancanza di un metodo che consenta di determinare la
primitiva. Queste tecniche richiedono conoscenze superiori di analisi e non sono oggetto del
nostro corso.
Grazie al teorema fondamentale del calcolo, leggendo la tabella delle derivate del capitolo
precedente al contrario abbiamo una tabella di integrali noti sostanzialmente gratis, senza
dover passare attraverso il calcolo – che sarebbe estremamente laborioso – di somme integrali
e loro estremi.
249
Alberto Berretti Analisi Matematica I
R
f (x) f (x)dx
xα+1
xα , α , −1 + (cost.)
α+1
1
log |x| + (cost.)
x
ex ex + (cost.)
Osservazione 46. La derivata di log x è 1/x, ma un calcolo banale mostra che anche la derivata
di log(−x) è 1/x, da cui il valore assoluto nella primitiva di 1/x.
√
Osservazione 47. Il fatto che possiamo scrivere la primitiva di 1/ 1 − x2 sia come arcsin x
che come − arccos x vuol dire semplicemente che l’arcoseno e l’arcocoseno, laddove sono
entrambe definite, differiscono per una costante. In effetti è banale verificare che arcsin x +
arccos x = π/2.
Purtroppo c’è una differenza notevole tra come vengono calcolate le derivate e come
vengono calcolati gli integrali. Infatti, mentre per le derivate esistono formule per calcolare
esplicitamente la derivata non solo di una combinazione lineare di funzioni, ma anche il
prodotto di funzioni e la composizione di funzioni, nel caso degli integrali abbiamo solo
la linearità dell’integrale e in generale non abbiamo alcun metodo per calcolare l’integrale del
prodotto di due funzioni o l’integrale della composta di due funzioni, anche quando sappiamo calcolare
250
Alberto Berretti Analisi Matematica I
gli integrali dei fattori o dei componendi. Questo rende il calcolo degli integrali qualcosa di meno
meccanico e piú complesso del calcolo delle derivate.
Osservazione 48. Questo fatto non deve stupire né deve generare sconforto. Ad es. noi
possiamo definire: Z x
2
Q(x) = dξe−ξ .
0
Il fatto che non sappiamo scrivere Q(x) in termini di funzioni già note vuol dire solamente
che abbiamo definito una nuova funzione attraverso l’integrale.
Osservazione 49. In effetti, abbiamo già detto all’inizio del corso che la definizione delle
funzioni trigonometriche non era matematicamente accettabile, perché non avevamo una
definizione precisa di angolo che ci permettesse di dire chi è x quando scriviamo sin x (non
avendo ancora una definizione di lunghezza di una curva e avendo appena ricavato una
definizione di area di una regione piana tramite l’integrale definito). Una possibile via di
uscita consiste appunto nel definire:
Z x
dξ
arcsin x = p ,
0 1 − ξ2
Abbiamo bisogno di altre regole oltre alla linearità per calcolare esplicitamente integrali.
Possiamo sfruttare il teorema fondamentale del calcolo e “leggere al contrario” le regole di
derivazione per ricavare alcune regole utili. Iniziamo con l’integrazie per sostituzione,
ottenuta dalla regola della catena.
251
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Sia f continua in [a, b] e g di classe C1 in [c, d]; sia inoltre g : [c, d] 7→ [a, b] suriettiva.
Esistono allora α, β ∈ [c, d] tali che g(α) = a, g(β) = b. Sia inoltre F una primitiva di f , cioè
F′ = f , in [a, b]. Allora:
d
∀x ∈ [c, d] : F(g(x)) = F′ (g(x))g′ (x) = f (g(x))g′ (x),
dx
il che vuol dire che F(g(x)) è una primitiva di f (g(x))g′ (x). Quindi:
Z b Z β
dt f (t) = F(b) − F(a) = F(g(α)) − F(g(β)) = dx f (g(x))g′ (x).
a α
Questa formula può essere scritta nel modo seguente per gli integrali definiti:
Z g(β) Z β
dt f (t) = dt f (g(x))g′ (x), (6.18)
g(α) α
Osservazione 50. Questa regola è facile da ricordare se dopo aver posto t = g(x) uno immagina
che la seguente scrittura abbia senso:
dt = g′ (x)dx,
dg(x)
che sembrerebbe (se avesse senso) seguire da g′ (x) = , ricordando che t = g(x).
dx
Sottolineiamo che ciò non ha sostanzialmente senso, e che è solo una metodologia mnemonica.
Esempio 86. Facciamo prima un esempio banale. Supponiamo di conoscere la primitiva F(x)
1
di f (x). Allora la primitiva di f (αx) è F(αx). Infatti basta porre s = αx, s′ = α e quindi:
α
Z Z Z
1 1 1 1
dx f (αx) = dxα f (αx) = ds f (s) = F(s) = F(αx).
α α α α
Z
Esempio 87. Calcoliamo dx cos3 x. Abbiamo:
Z Z Z
3 2
dx cos x = dx cos x cos x = dx(1 − sin2 x)(sin x)′ ;
252
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Ora bisogna ricordarci che ci è stato richiesto di calcolare l’integrale di una funzione di x, non
di t, quindi occorre scrivere il risultato di nuovo in termini di x ponendo t = sin x e quindi:
Z
1
dx cos3 x = sin x − sin3 x + (cost.).
3
Esempio 88. Calcoliamo l’integrale della tangente:
Z Z Z
sin x 1
dx tan x = dx = dx sin x;
cos x cos x
se poniamo dunque t = cos x, t′ = − sin x abbiamo:
Z Z
1
dx tan x = − dt = − log |t| + (cost.) = − log | cos x| + (cost.).
t
Osservazione 51. Facendo finta di prendere sul serio la notazione a cui si allude all’osser-
vazione 50, possiamo facilmente ricordarci come si integra per sostituzioni scrivendo ad
esempio (facendo riferimento all’esempio precedente):
per cui:
dx sin x = −dt,
per cui: Z Z Z
1 1
dx tan x = dx sin x =− dt = etc.
cos x t
Esempio 89. Il caso seguente è abbastanza comune nelle applicazioni:
Z
f ′ (x)
dx = log | f (x)| + (cost.).
f (x)
La sostituzione impiegata è ovvia.
Abbiamo quindi dai due lati dell’uguaglianza la stessa funzione. Quindi i rispettivi integrali
indefiniti saranno uguali:
Z Z Z
′ ′
dx( f (x)g(x)) = dx f (x)g(x) + dx f (x)g′ (x),
253
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Esempio 91. I seguenti usano il medesimo principio ma sono leggermente piú complessi.
Calcoliamo l’integrale dell’arcoseno:
Z Z Z
x
dx arcsin x = dx1 · arcsin x = x arcsin x − dx √ .
1 − x2
L’integrale che abbiamo ottenuto si calcola per sostituzione, ponendo t = 1−x2 ; allora t′ = −2x
e quindi:
Z Z Z √
x 1 1 1
dx √ =− dx √ (−2x) = − dtt−1/2 = −t1/2 + (cost.) = − 1 − x2 + (cost.),
1 − x2 2 1 − x2 2
per cui: Z √
dx arcsin x = x arcsin x + 1 − x2 + (cost.).
254
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Esempio 92. La formula di integrazione per parti può ovviamente essere iterata una o piú
volte. Ad esempio:
Z Z Z !
2 x 2 x x 2 x x x
dxx e = x e − 2 dxxe = x e − 2 xe − dxe =
Esempio 93. Il seguente esempio è piú complesso e costituisce un buon esempio di quello che
R R
si può fare con l’integrazione per parti. Vogliamo calcolare C = dxex cos x e S = dxex sin x.
Applicando la formula di integrazione per parti 6.20 prendendo nell’integrando f = ex e g il
coseno o il seno abbiamo:
Z Z
x x
dxe cos x = e cos x + dxex sin x
e: Z Z
x x
dxe sin x = e sin x − dxex cos x,
cioè:
C − S = e cos x,
x
C + S = ex sin x,
Facendo uso degli strumenti a nostra disposizione, e cioè, oltre agli integrali ottenuti diretta-
mente invertendo la tabella delle derivate e oltre alla linearità, la formula di integrazione per
sostituzione e la formula di integrazione per parti, vediamo come integrare esplicitamente
alcune classi interessanti di funzioni.
255
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Ax + B Ax2 + Bx + C 1
, , .
(x − a)2 2 2
(x + px + q) 1 + x4
Infatti nel primo il numeratore è un polinomio di grado uguale, e non minore, del polinomio
irriducibile che appare a denominatore a parte la potenza a cui esso è elevato, e la stessa cosa
accade nel secondo caso. Il denominatore che appare nel terzo caso è riducibile:
√ √ √
1 + x4 = 1 + 2x2 + x4 − 2x2 = (1 + x2 )2 − ( 2x)2 = (1 + 2x + x2 )(1 − 2x + x2 ).
È evidente in quanto segue che lo studente non deve imparare a memoria le formule che
andiamo ricavando, ma deve capire la procedura che è stata usata e riutilizzarla quando è
necessario nel caso concreto.
I seguenti integrali sono ovvî:
Z Z
1 1 1 1
dx = log |x − a| + (cost.), n≥2: dx =− + (cost.). (6.22)
x−a (x − a)n n − 1 (x − a)n−1
Consideriamo ora integrali della seguente forma:
Z
1
dx 2 .
x + px + q
256
Alberto Berretti Analisi Matematica I
x2 + px + q = (x − a)(x − b),
2 2 !
2
2
4q − p 4
p 4q − p 2x p
x2 + px + q =
+ 1 =
1
x + + = p +
4q − p2
p
4 2 4
4q − p2 4q − p2
dove:
4q − p2 p 2
A= , B= p , y= p x. (6.26)
4 4q − p2 4q − p2
Pertanto:
Z Z
1 2 1 2
dx 2 = p dy 2
= p arctan(y + B) + (cost.) =
x + px + q 4q − p2 (y + B) + 1 4q − p2
2 2x + p
= p arctan p + (cost.).
4q − p2 4q − p2
257
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Infatti:
Ax + B A 2x + p B − pA/2
= + 2 ,
x2 + px + q 2
2 x + px + q x + px + q
dove nella prima espressione fratta a secondo membro il numeratore è la derivata del
denominatore. Pertanto:
Z Z !Z
Ax + B A 2x + p pA 1
dx 2 = dx 2 + B− dx 2 =
x + px + q 2 x + px + q 2 x + px + q
!Z
A 2 pA 1
= log |x + px + q| + B − dx 2 ,
2 2 x + px + q
ed abbiamo già visto come calcolare l’integrale rimasto.
Vogliamo ora capire come calcolare integrali del tipo:
Z
1
dx 2 .
(x + px + q)2
Se il polinomio a denominatore ha discriminante positivo, allora applicheremo il metodo
della scomposizione in fratti semplici descritto piú avanti. Se ha discriminante nullo, allora
siamo in uno dei casi banali indicati all’inizio di questo paragrafo. Dobbiamo capire dunque
cosa fare se il discriminante è negativo ed il polinomio a denominatore non è quindi fattoriz-
zabile. Senza ripetere calcoli noiosi ma banali, possiamo usare il trucco del completamento
del quadrato e ricondurci, come nel caso precedente, al seguente integrale:
Z
1
dx .
(1 + x2 )2
Questo integrale può essere calcolato in almeno tre modi: per parti, mediante un’astuta
assunzione che viene verificata a posteriori e mediante una sostituzione trigonometrica. Il
terzo metodo ci porterebbe ad un integrale trigonometrico di un tipo non ancora discusso e
pertanto ne omettiamo la discussione; vediamo gli altri due. Volendo risolvere tale integrale
per parti abbiamo:
Z Z ! Z
1 1 1 1 1 1 1
−2x
dx = dx − =− · − dx · 2 =
(1 + x2 )2 2
2x (1 + x )2 2x 1 + x2 2 2
1+x x
|{z} | {z }
1
g, g′ = f ′, f = 1
2x2 1+x2
Z
1 1 1 1 1 1 1 1 1
=− · − dx − =− · + + arctan x + (cost.) =
2x 1 + x2 2 x2 1 + x2 2x 1 + x2 2x 2
1 1 1 1
x
= 1− + arctan x + (cost.) = + arctan x + (cost.).
2x 1 + x2 2 2 1 + x2
Un metodo alternativo, che si generalizza piú facilmente al caso di potenze maggiori di 2 di
1 + x2 , si basa sulle seguenti considerazioni. Osserviamo innanzitutto che la funzione inte-
granda è una funzione pari, quindi una sua primitiva (a meno della costante di integrazione
258
Alberto Berretti Analisi Matematica I
x
arbitraria!) è una funzione dispari. Osserviamo inoltre che le funzioni arctan x e sono
1 + x2
appunto dispari e le loro derivate “somigliano” in un certo senso alla funzione integranda:
1 x 1 − x2
D arctan x = , D = .
1 + x2 1 + x2 (1 + x2 )2
x
Abbiamo un “−x2 ” di troppo a numeratore nella derivata di , ma si può sperare – e
1 + x2
chi ha occhio se ne accorge subito – che una opportuna combinazione lineare di arctan x e
x
sia la primitiva cercata, perché con la scelta giusta dei coefficienti si potrebbe ottenere
1 + x2
la cancellazione del termine in piú a numeratore. Proviamo:
A − Ax2 (A + B) − (A − B)x2
Ax B
D + B arctan x = + = .
1 + x2 (1 + x2 )2 1 + x2 (1 + x2 )2
Basta dunque imporre:
A + B = 1,
A − B = 0
1
per avere la soluzione, il che dà immediatamente A = B = , e quindi:
2
1 1
x
D 2
+ arctan x = ,
2 1+x (1 + x2 )2
e quindi abbiamo trovato la primitiva cercata.
L’integrazione per parti indicata si applica anche al caso di integrali simili ma con potenze
maggiori di 2, ad es.: Z
1
dx ,
(1 + x2 )3
ma è abbastanza complicato. In questi casi il secondo metodo ci porta rapidamente al
risultato. Non vale la pena fare i calcoli – molto intricati – nel caso generale, ma qui faremo
vedere solamente come calcolare l’integrale sopra indicato.
Abbiamo anche in questo caso che la funzione integranda è una funzione pari, e quindi
cerchiamo una primitiva dispari. Ora a denominatore abbiamo (1 + x2 )3 , quindi dobbia-
mo provare con qualcosa che a denominatore abbia (1 + x2 )2 , in modo da ottenere il cubo
derivando. Proviamo con:
Ax3 + Bx
+ C arctan x.
(1 + x2 )2
Infatti il denominatore della frazione algebrica è di quarto grado, pertanto proviamo con un
denominatore di terzo grado, in cui abbiamo omesso termini in x2 e costanti in quanto avreb-
bero distrutto la natura dispari della funzione. Derivando e facendo qualche semplificazione
abbiamo:
!
Ax3 + Bx (B + C) + (3A − 3B + 2C)x2 + (C − A)x4
D + C arctan x = .
(1 + x2 )2 (1 + x2 )3
259
Alberto Berretti Analisi Matematica I
1
Otteniamo dunque se:
(1 + x2 )3
B + C = 1,
3A − 3B + 2C = 0,
−A + C = 0.
3 5 3
A= , B= , C= ,
8 8 8
da cui: Z !
1 1 3x3 + 5x
dx = + 3 arctan x .
(1 + x2 )3 8 (1 + x2 )2
È chiaro che integrali del medesimo tipo con potenze ancora piú grandi possono essere
calcolati in modo analogo ma con maggiore difficoltà tecnica.
Esempio 96. Z !
1 1 15x5 + 40x3 + 33x
dx = + 15 arctan x .
(1 + x2 )4 48 (1 + x2 )3
Esempio 97.
Z !
1 1 105x7 + 385x5 + 511x3 + 279x
dx = + 105 arctan x .
(1 + x2 )5 384 (1 + x2 )4
L’idea del metodo consiste nel fatto che possiamo sempre ricondurci al calcolo di integrali di
fratti semplici, che sappiamo, in linea di principio, calcolare utilizzando le tecniche viste sopra.
Il metodo è semplice se applicato a casi semplici, anche se la sua formulazione generale può
intimidire nella sua complicazione, che però non è di sostanza.
Osserviamo innanzitutto che possiamo sempre assumere che il grado di P sia inferiore al
grado di Q: infatti se non lo è, allora possiamo scrivere:
P(x) P2 (x)
= P1 (x) + ,
Q(x) Q(x)
dove P1 (x) è il quoziente e P2 è il resto della divisione di P per Q; sappiamo calcolare l’integrale
di un polinomio e il grado di P2 è inferiore al grado di Q.
Possiamo anche immaginare che il coefficiente del termine di grado maggiore di Q sia 1,
cioè che, se Q ha grado m, allora Q(x) = xm + termini di grado inferiore (se cosí non fosse,
possiamo sempre raccogliere una costante dall’integrale e ricondurci a questo caso).
260
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Dall’Algebra abbiamo che ogni polinomio Q(x) può essere sempre fattorizzato in un pro-
dotto di polinomi di primo grado, eventualmente elevati a potenza, e di polinomi irriducibili
di secondo grado, eventualmente elevati a potenza:
È evidente che i denominatori dei fratti semplici a destra nell’uguaglianza sono quelli corretti
per ottenere come denominatore comune Q(x). Osserviamo inoltre che nei numeratori dei
(•) (•) (•)
fratti semplici appaiono esattamente M = m1 + · · · + mk + 2n1 + · · · + 2nh costanti A• , B• , C• ,
e cioè esattamente tante quante le costanti che appaiono come coefficienti nel polinomio P(x),
che è di grado al massimo M − 1. Quindi risolvendo un sistema lineare di M equazioni nelle
(•) (•) (•)
M incognite A• , B• , C• possiamo scrivere la funzione razionale indicata come somma di
fratti semplici. Ovviamente resterebbe da dimostrare che tale sistema lineare è effettivamente
risolvibile (utilizzando il teorema di Rouché-Capelli), ma questo è un problema di Algebra
Lineare, complicato ma non sostanzialmente difficile, che esce dagli scopi di questo corso.
Inoltre nell’applicazione concreta del metodo la risolubilità del sistema lineare è un fatto che
viene constatato praticamente mediante la sua risoluzione effettiva.
Una volta fatta la scomposizione in fratti semplici, basta saper integrare ciascun fratto
semplice, cosa che in linea di principio sappiamo fare perché abbiamo visto come si fa nel
paragrafo precedente.
Noi ci accontenteremo di saper fare in pratica tale scomposizione in casi semplici. Il modo migliore
per ottenere questo risultato è quello di fare qualche esempio.
261
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Dunque:
A B C −A + (−B + C)x + (A + B + C)x2
+ + = ,
x x+1 x−1 x(x + 1)(x − 1)
e quindi:
−A = 1,
−B + C = 0,
A + B + C = 0,
1 1
da cui A = −1, B = , C = . Quindi:
2 2
Z Z Z Z
1 1 1 1 1 1
dx 2 = − dx + dx + dx =
x(x − 1) x 2 x+1 2 x−1
p
1 |x2 − 1|
= − log |x| + log |x2 − 1| + (cost.). = log + (cost.).
2 |x|
Esempio 99. Calcoliamo: Z
1
dx .
4 + x4
Abbiamo:
Si osservi che i discriminanti dei polinomi in cui abbiamo fattorizzato il denominatore sono
pari a 22 − 4 · 4 = −12 < 0 e pertanto sono i polinomi sono irriducibili. Effettuiamo la
scomposizione in fratti semplici.
1 Ax + B Cx + D
= 2 + 2 =
x4 + 4 x + 2x + 2 x − 2x + 2
(2B + 2D) + (2A − 2B + 2C + 2D)x + (−2A + B + 2C + D)x2 + (A + C)x3
=
x4 + 4
da cui:
2B + 2D = 1,
2A − 2B + 2C + 2D = 0,
−2A + B + 2C + D = 0,
A + C = 0.
Questo sistema lineare, anche se in quattro incognite, è facile da risolvere: basta infatti usare
la prima equazione per eliminare D e la quarta equazione per eliminare C ottenendo un
sistema lineare nelle sole due incognite A e B, banale da risolvere, e da A e B troviamo C e D
usando la prima e la quarta equazione rispettivamente. In questo modo si ricava facilmente:
1 1 1 1
A= , B= , C=− , D= .
8 4 8 4
262
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Quindi: Z Z Z
1 1 x+2 1 x−2 1 1
dx = dx 2 − dx 2 = I1 − I2 .
4+x 4 8 x + 2x + 2 8 x − 2x + 2 8 8
Dobbiamo quindi calcolare gli integrali I1 e I2 con il metodo del completamento del quadrato.
Abbiamo:
Z Z Z
1 2x + 2 1 1 2 1
I1 = dx 2 + dx 2 = log(x + 2x + 2) + dx 2 =
2 x + 2x + 2 x + 2x + 2 2 x + 2x + 2
Z
1 2 1 1
= log(x + 2x + 2) + dx 2
= log(x2 + 2x + 2) + arctan(x + 1) + (cost.);
2 (x + 1) + 1 2
e poi:
Z Z Z
1 2x − 2 1 1 2 1
I2 = dx 2 − dx 2 = log(x − 2x + 2) − dx 2 =
2 x − 2x + 2 x − 2x + 2 2 x − 2x + 2
Z
1 1 1
= log(x2 − 2x + 2) − dx = log(x2 − 2x + 2) − arctan(x − 1) + (cost.).
2 (x − 1)2 + 1 2
Pertanto:
Z
1 1 1 1 1
dx = log(x2 + 2x + 2) − log(x2 − 2x + 2) + arctan(x + 1) + arctan(x − 1) + (cost.).
4 + x4 16 16 8 8
Esempio 100. Calcoliamo: Z
x+2
dx 2 .
x (x + 1)
Abbiamo:
x+2 A B C B + (A + B)x + (A + C)x2
= + + = .
x2 (x + 1) x x2 x + 1 x2 (x + 1)
Quindi:
B = 2,
A + B = 1,
A + C = 0.
Quindi:
A = −1, B = 2, C = 1,
e quindi:
Z Z Z Z
x+2 1 1 1 2
dx 2 = − dx + 2 dx 2 + dx = − log |x| − + log |x + 1| + (cost.).
x (x + 1) x x x+1 x
Esercizio 46. Calcolare:
Z Z Z
x x x3
dx , dx , dx
(x − 1)(x2 + 1) 1 + x3 (x − 1)2 (x3 + 1)
[Esercizi d’esame a Cambridge rispettivamente nel 1924, 1926, 1934.]
263
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Un problema che si pone spesso in molte applicazioni consiste nel calcolare integrali del tipo:
Z
dxR(x, y),
Facendo uso del trucco del completamento del quadrato otteniamo analogamente alle (6.25),
(6.26):
p 2 p2 − q p2 − q
!
2
4
p 2
x + px + q = x + − = x+ −1 =
2 4 4 p2 − 4q 2
2
p2 − 4q 2x p
= p x + p − 1 = C((y + D)2 − 1), (6.27)
4
p2 − 4q p2 − 4q
264
Alberto Berretti Analisi Matematica I
p2 − 4q p 2
C= , D= p , y= p x. (6.28)
4 p2 − 4q 2
p − 4q
Quindi:
Z Z
1 1
dx p = dy p = sectcosh(y + D) + (cost.) =
x2 + px + q (y + D)2 − 1
p
2x + p 2x + p + 2 x2 + px + q
= sectcosh p + (cost.) = log p + (cost.).
p2 − 4q p2 − 4q
√
Caso (ii) - Raccogliamo 1/ −a e scrivendo p = −b/a, q = −c/a ci riconduciamo a:
Z
1
dx p .
2
−x + px + q
p 2 p2 − q p2 − q
!
2
4
p 2
− x + px + q = − x − + = 1− 2 x− =
2 4 4 p − 4q 2
2
p2 − 4q 2x p
= C(1 − (y − D)2 ), (6.29)
= 1 − p 2 x− p
4 p − 4q p2 − 4q
dove però stavolta p2 −4q < 0. Possiamo dunque usare direttamente le (6.25), (6.26) e scrivere:
Z Z
1 1
dx p = dy p = sectsinh(y + B) + (cost.) =
x2 + px + q (y + B)2 + 1
p
2x + p 2x + p + 2 x2 + px + q
= sectsinh p + (cost.) = log p + (cost.).
4q − p2 4q − p2
265
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Z
Ax + B
Integrali del tipo dx √
ax2 + bx + c
Questi integrali si riconducono in modo elementare a quelli del paragrafo precedente. Infatti:
A 2aB − Ab
Ax + B = (2ax + b) + ,
2a 2a
pertanto:
Z Z Z
Ax + B A 2ax + b 2aB − Ab 1
dx √ = dx √ + dx √ =
2
ax + bx + c 2a 2
ax + bx + c 2a 2
ax Z+ bx + c
A√ 2 2aB − Ab 1
= ax + bx + c + dx √ ,
a 2a 2
ax + bx + c
dove il primo integrale è stato calcolato per sostituzione e l’integrale rimasto si calcola come
nel paragrafo precedente.
Z √
Integrali del tipo dx ax2 + bx + c
che corrispondono rispettivamente ai casi (i) ∆ < 0 e ovviamente a > 0, (ii) ∆ > 0, a < 0,
(iii) ∆ > 0, a > 0.
Caso (i) - Calcoliamo il primo integrale. Abbiamo:
Z √ Z
√ √ Z
x2
I= dx 1 + = x2 2 2
dx1 · 1 + x = x 1 + x − dx √ =
1 + x2
√ Z Z √ Z
2
1 1 + x2 2
1
=x 1+x + dx √ − dx √ =x 1+x + dx √ − I;
1 + x2 1 + x2 1 + x2
quindi:
1 √
I= x 1 + x2 + sectsinh x + (cost.). (6.30)
2
Caso (ii) - Analogamente:
Z √ Z √ √ Z
x2
I= dx 1 − x2 = dx1 · 1 − x2 = x 1 − x2 + dx √ =
1 − x2
√ Z Z √ Z
2
1 1 − x2 2
1
=x 1−x + dx √ − dx √ =x 1−x + dx √ − I;
1−x 2 1−x 2 1 − x2
266
Alberto Berretti Analisi Matematica I
quindi:
1 √
I= x 1 − x2 + arcsin x + (cost.). (6.31)
2
Caso (iii) - Infine:
Z √ Z √ √ Z
x2
I= dx x2
−1= 2 2
dx1 · x − 1 = x x − 1 − dx √ =
x2 − 1
√ Z
1
Z
x2 − 1 √ Z
1
2
=x 1−x − dx √ − dx √ =x 1−x − 2 dx √ − I;
x2 − 1 x2 − 1 x2 − 1
quindi:
1 √ 2
I= x x − 1 + sectcosh x + (cost.). (6.32)
2
Esempio 101. Calcoliamo: Z √
I= dx x − x2 .
1 1 2 1
x − x2 = − x− = 1 − (2x − 1)2 .
4 2 4
Poniamo t = 2x − 1. Quindi applicando la (6.31):
Z √ Z Z √
1 p 1
dx x − x2 = dx 1 − (2x − 1)2 = dt 1 − t2 =
2 4
1 1 p 1
= (2x − 1) 1 − (2x − 1)2 + arcsin(2x − 1) + (cost.) =
4 2 8
1 √ 1
= (2x − 1) x − x2 + arcsin(2x − 1) + (cost.).
4 8
Esercizio 48. Calcolare:
Z Z Z
1 x 2x + 1
dx √ , dx √ , dx √ .
x2 + 2x + 2 x4 + 2x2 + 2 x2 + x + 3
Z r
n ax + b
6.4.3. Integrali del tipo dxR x,
cx + d
Questi integrali, in linea di principio, si riconducono ad integrali di funzioni razionali usando
la sostituzione:
ax + b
tn = .
cx + d
È chiaro che tipicamente verranno integrali piuttosto complicati. Vediamo un esempio
relativamente semplice.
267
Alberto Berretti Analisi Matematica I
da cui:
1 1 1 1
A=− , B= , C= , D= ,
4 4 4 4
pertanto:
Z
t2 1 1 1
− 2 dt = log |t + 1| − log |t − 1| + + + (cost.) =
(t2 − 1)2 2 t+1 t−1
t 1 t + 1
= 2 + log + (cost.).
t −1 2 t − 1
Sostituendo t otteniamo:
r
x
x − 1 + 1
p 1
x(x − 1) + log r + (cost.),
2 x
− 1
x−1
espressione che volendo potrebbe essere ulteriormente semplificata lavorando sul logaritmo.
Gli integrali di funzioni razionali di sin x e cos x possono essere sempre ricondotti al caso
degli integrali di funzioni razionali per sostituzione mediante l’uso delle cosiddette formu-
le parametriche che esprimono una funzione trigonometrica in termini della tangente del
semiangolo:
2t 1 − t2
sin x = , cos x = ,
1 + t2 1 + t2
268
Alberto Berretti Analisi Matematica I
x
ed inoltre, poiché t = tan e quindi x = 2 arctan t abbiamo:
2
2
“dx = dt′′ .
1 + t2
Ovviamente questo metodo è un metodo “di ultima istanza”, in quanto la funzione razionale
di t che risulta dalla sostituzione è in genere piuttosto complicata. Vediamo quindi alcuni
casi particolari.
Integrali di prodotti di potenze di sin x e cos x - Consideriamo integrali della forma:
Z
dx sinm x cosn x.
Consideriamo prima il caso in cui una delle due potenze m, n è un intero dispari, ad es.
m = 2p + 1. In tal caso possiamo sostituire t = cos x nel modo seguente:
Z Z
dx sin x sin x cos x = − dt(1 − t2 )p tn
2p n
1 − cos 2x 1 + cos 2x
sin2 x = , cos2 x = .
2 2
Esempio 103. Abbiamo:
Z Z
2 1 1 1
dx sin x = dx(1 − cos 2x) = x − sin 2x + (cost.),
2 2 4
Z Z
1 1 1
dx cos2 x = dx(1 + cos 2x) = x + cos 2x + (cost.).
2 2 4
Esempio 104. Calcoliamo: Z
I= dx sin2 x cos2 x.
269
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Altri esempi di integrali trigonometrici - Vediamo ora altri esempi di integrali trigonometrici
che possono essere calcolati con trucchi specifici o con uso delle formule parametriche.
270
Alberto Berretti Analisi Matematica I
per cui:
Z Z
1 1 1 1 1
s
ds = ds + 3+ = log |s| − 2 − log(1 − s2 ) + (cost.),
(1 − s2 )s3 s s 1−s2 s 2
da cui: Z
1 1
dx 3
= log | sin x| − log | cos x| −
+ (cost.).
cos x sin x sin2 x
Esempio 108. Un trucco divertente è il seguente. Immaginiamo di dover calcolare gli integrali
definiti:
Z 2π Z 2π
2
dx sin x, dx cos2 x.
0 0
Ovviamente abbiamo calcolato le primitive per cui il calcolo dell’integrale definito è cosa
fatta. Ma c’è un metodo che ci permette di calcolare quegli integrali definiti, per quegli estremi
di integrazione che corrispondono ad un intero periodo delle due funzioni senza fare nemmeno un
calcolo degno di questo nome. Infatti, poiché sin e cos differiscono solo per una differenza di fase
di π/4, i due integrali, essendo estesi all’intero periodo, sono uguali (quello che “esce” da
una parte del grafico “rientra” dall’altra). Quindi ciascuno è uguale alla metà dell’integrale
della somma. Ma la somma delle funzioni integrande è 1, che integrata fra 0 e 2π dà appunto
2π. Quindi ciascun integrale vale π.
271
Alberto Berretti Analisi Matematica I
dove R è una funzione razionale. È piú facile capire perché tramite qualche esempio.
1
log(e2x + 1) + (cost.).
2
Esempio 110. Calcoliamo: Z
1
.dx
+ e3x ex
Poniamo sempre t = ex come nell’esempio precedente. Abbiamo allora:
Z
1
dt 2 4 .
t +t
1 1 1
= 2− 2
t2 (t2+ 1) t t +1
Esempio 111. Ricordandici la definizione delle funzioni iperboliche, è quindi facile calcolare
integrali di funzioni razionali di funzioni iperboliche. Ad esempio:
Z Z
1 1 sinh x − cosh x cosh 2x sinh 2x
dx = − + (cost.), dx = − + (cost.).
2
sinh x tanh x sinh x + cosh x 2 2
Lasciamo i dettagli per esercizio.
272
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Utilizzando le regole, i metodi e le idee che abbiamo visto possiamo calcolare, riflettendoci
sopra un attimo, moltissimi altri tipi di integrali. Spesso basta solo un po’ d’occhio.
Esempio 112. Z
sinh x + cos x
dx = log(cosh x + sin x) + (cost.),
sin x + cosh x
infatti si vede subito che il numeratore è la derivata del denominatore. Si osservi che non c’è
bisogno del valore assoluto nell’argomento del logaritmo perché ∀x ∈ R cosh x + sin x > 0.
Esempio 113. Z
x 1
dx √ = arcsin x2 + (cost.).
1−x 4 2
Basta infatti accorgersi che “d(x ) = 2xdx” per capire che la sostituzione t = x2 risolve il
2
problema.
273
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Fino ad ora abbiamo assunto che (i) l’intervallo di integrazione sia limitato (ii) la funzione
integranda sia limitata nell’intervallo di integrazione . Se anche una di queste due condizioni
non è rispettata, non si può porre il problema dell’integrazione. Questa è però una condizione
troppo restrittiva, perché nelle applicazioni è spesso necessario calcolare integrali di funzioni
illimitate, o estesi ad intervalli illimitati. In questo caso si può definire l’integrale mediante
una procedura di limite, ottenendo quelli che vengono chiamati integrali impropri.
Osservazione 53. Noi daremo piú definizioni, ciascuna valida in un caso particolare. Una
teoria generale ci porterebbe inevitabilmente fuori dalla teoria dell’integrazione di Riemann.
Supponiamo come prima cosa di avere un intervallo di integrazione limitato ma una funzione
integranda illimitata in tale intervallo. Supponiamo per concretezza di avere f definita in
[a, b), limitata in [a, c] per ogni c ∈ (a, b) e illimitata in (c, b); ad es. può essere lim f (x) = ±∞.
x→c
In tal caso, essendo f limitata in [a, c], possiamo porre la questione dell’integrabilità di f in
[a, c]. Supponiamo quindi che ∀c ∈ (a, b) f sia integrabile in [a, c]: ad es. potrebbe essere
continua, o monotona. Definiamo allora:
Z b Z c
dx f (x) = lim− dx f (x) (6.33)
a c→b a
274
Alberto Berretti Analisi Matematica I
se il limite esiste; in tal caso si dice che l’integrale improprio è convergente. Se il limite non
esiste si dice che l’integrale improprio è divergente.
In altre parole, restringiamo l’intervallo di integrazione ad un intervallo [a, c] in cui la f
è limitata e integrabile, e poi prendiamo il limite dell’integrale quando c tende all’estremo
desiderato b.
Analogamente se f è limitata ed integrabile in [c, b] ∀c ∈ (a, b) definiamo:
Z b Z b
dx f (x) = lim+ dx f (x), (6.34)
a c→a c
se il limite esiste.
Un caso leggermente piú complicato è quello in cui il punto “intorno al quale” la funzione
integranda è illimitata è interno all’intervallo di integrazione. Supponiamo ad es. che f sia
definita in [a, c) ∪ (c, b], e limitata ed integrabile in [a, c′ ], [c′′ , d] ∀c′ ∈ (a, c) e ∀c′′ ∈ (c, b) ma
illimitata in (c′ , c), (c, c′′ ). Allora definiamo:
Z b Z c′ Z b
dx f (x) = lim
′ −
dx f (x) + ′′lim+ dx f (x), (6.35)
a c →c a c →c c′′
275
Alberto Berretti Analisi Matematica I
dove c è un punto arbitrario e dove si assume che entrambe i limiti esistano finiti; altrimenti
l’integrale improprio è divergente.
per b → +∞, per cui l’integrale improprio converge ed ha il valore indicato. Se infine α = 1
abbiamo: Z b
1
dx = log b → +∞
1 x
per b → +∞, per cui l’integrale improprio diverge.
Esempio 119. Il caso α = 1 è pertanto il “caso limite” negli esempi precedenti. Consideriamo
ora: Z +∞
1
dx .
2 x logβ x
276
Alberto Berretti Analisi Matematica I
1
Sostituiamo y = log x, “dy = dx ”, ottenendo:
x
Z b Z log b
1 1
dx β
= dy β .
2 x log x log 2 y
Abbiamo dunque ottenuto un caso sostanzialmente uguale a quello dell’esempio precedente.
Pertanto ragionando in modo analogo otteniamo che l’integrale improprio converge se β > 1
e diverge se β ≤ 1.
Esercizio 51. Ragionando come negli esempi precedenti, discutere la convergenza dell’inte-
grale improprio: Z +∞
1
dx
10 x log x log logγ x
al variare di γ.
Osservazione 54. Se abbiamo un integrale improprio ad es. del tipo (6.36), la sua natura
convergente o divergente non dipende da a, ma dal comportamento della funzione f per
x → +∞ (qualora convergente, il valore dell’integrale improprio dipenderà da a!). Analoga-
mente, se abbiamo un integrale improprio del tipo (6.33), la natura convergente o divergente
dell’integrale non dipende da a, ma dal comportamento della funzione f per x → b− . E cosí
via per gli altri casi.
Osservazione 55. Si potrebbe erroneamente pensare che, nel caso di integrali impropri del
tipo (6.36), se l’integrale improprio converge allora debba essere necessariamente f (x) → 0
per x → +∞. Non è possibile produrre un esempio elementare di questo fatto senza aver
fatto la teoria delle serie.
277
Alberto Berretti Analisi Matematica I
È chiaro che se ogni volta che dobbiamo stabilire la convergenza di un integrale improprio
dovessimo essere in grado di calcolare la primitiva della funzione integranda per poter fare
poi il limite avremmo seri problemi. È necessario trovare dei criteri che ci permettano di
stabilire se un integrale improprio converge o diverge senza dover necessariamente calcolare
la primitiva della funzione integranda.
È naturalmente piú facile, in generale, dimostrare la convergenza di integrali impropri di
funzioni positive. Infatti, in caso di funzioni il cui segno varia, la convergenza può avvenire
grazie a cancellazioni fra regioni in cui la funzione integranda è positiva e regioni in cui la
funzione integranda è negativa, che possono essere molto difficili da individuare e da tenere
in considerazione. Prendiamo pertanto in considerazione inizialmente la convergenza di
integrali impropri di funzioni positive.
Proposizione 28 (Criterio del confronto). Sia I un intervallo finito o infinito, e sia 0 ≤ f (x) ≤ g(x)
in I. Allora:
278
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Proposizione 29 (Criterio del confronto asintotico). Sia [a, b) un intervallo limitato, e siano f ,
g ≥ 0 in [a, b), e siano inoltre limitate in [a, c] ed illimitate in (c, b) per ogni c ∈ (a, b). Sia inoltre
f (x)
f ∼ g per x → b− , cioè → 1 per x → b− . Allora gli integrali impropri di f e g nell’intervallo
g(x)
[a, b) convergono o divergono insieme.
f (x)
lim− = 1,
x→b g(x)
f (x)
∀ε > 0∃δ > 0 : x ∈ (b − δ, b) ⇒ 1 − ε < < 1 + ε,
g(x)
cioè:
(1 − ε)g(x) < f (x) < (1 + ε)g(x),
279
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Analogamente si dimostra:
Ovviamente nel caso di un intervallo finito (a, b] con integrale improprio in a o nel caso di
intervallo infinito (−∞, b] valgono criteri analoghi.
Osservazione 56. Esattamente come nel caso dei limiti, è sufficiente che le proprietà richieste
per i criteri del confronto siano valide in un intorno del punto in cui l’integrale risulta improprio,
e cioè vicino a b nel primo caso, per x grande nel secondo caso, ovvero devono essere valide
definitivamente per x → b− o per x → +∞ etc.
con 0 ≤ f (x) e f (x) → 0 per x → +∞. Allora l’integrale improprio considerato converge se
1 1
f (x) ∼ α , α > 1, e diverge se f (x) ∼ α , α ≤ 1. Questo segue immediatamente dall’esempio
x x
118.
280
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Vediamo dunque che lo studio degli ordini di infinito o infinitesimo relativi fra due funzioni
diventa uno strumento utilissimo per valutare la convergenza o la divergenza degli integrali
impropri.
log(1 + xα ) 3 log(1 + xα )
≤ f (x) ≤ ,
x2 x2
pertanto basta studiare la convergenza dell’integrale improprio con funzione integranda
log(1 + xα )
.
x2
Se α < 0 allora xα → +∞ per x → 0+ e quindi log(1 + xα ) ∼ log xα = α log x. Ci siamo
ricondotti quindi a:
α log x
,
x2
che tende a ∞ per x → 0+ piú rapidamente di 1/x2 (e, per la cronaca, piú lentamente di
1/x2+η , ∀η > 0). Quindi diverge.
Se α = 0 ci riconduciamo a 1/x2 e quindi l’integrale improprio diverge.
Se α > 0 invece log(1 + xα ) ∼ xα , per cui ci si riconduce a:
xα 1
2
= 2−α ,
x x
pertanto l’integrale improprio converge se α > 1.
281
Alberto Berretti Analisi Matematica I
eα(x+4) − e8 e4α − e8
∼ ;
tan x · log sin x x log x
Z b
1
ma l’integrale improprio come abbiamo visto diverge, pertanto per il criterio del
0 x log x
confronto asintotico anche l’integrale dato diverge.
In questo esempio è necessario osservare un fatto banale ma importante. Abbiamo
confrontato la funzione originale con 1/x log x solo per x → 0, non nell’intero intervallo
(0, 1), cosa che ci avrebbe portato ad un risultato sbagliato (1/x log x diverge anche quando
x → 1!). Infatti per x → 1 non è vero che tan x · log sin x ∼ x log x, ed infatti per x → 1
tan x · log sin x → tan 1 · log sin 1 ≈ 1.73001 . . . , 0. Ricordiamo che ogni volta che si scrive
“∼ . . .”, oppure “o(. . .)” o “O(. . .)” un limite x → . . . è sempre considerato, esplicitamente
indicato o inteso implicitamente dal contesto.
282
Alberto Berretti Analisi Matematica I
√
Z 5 3
ex +α − e3
4. dx
0 sin(x7/2 )
√
Z 2 2
ex +α − e2
5. dx
0 log(1 + x5/2 )
Chiaramente:
| f (x)| = f+ (x) + f− (x), f+ (x), f− (x) ≤ | f (x)|.
pertanto se l’integrale improprio di | f | converge allora convergono anche gli integrali im-
propri di f+ , f− per il criterio del confronto, e quindi converge l’integrale improprio di
f = f+ − f− .
Osservazione 57. Ovviamente non è vero il contrario, e cioè un integrale improprio può
convergere ma non essere convergente assolutamente. Un esempio di questo fatto sarebbe
troppo complicato da fare a questo punto.
Qual è l’utilità del concetto di convergenza assoluta? Questa domanda è purtroppo pre-
matura ed una idea chiara dell’utilità del concetto di convergenza assoluta si potrà avere solo
nel contesto delle serie, che sono “parenti” molto strette degli integrali impropri. Intanti ci
basti considerare che i criteri di convergenza che abbiamo enunciato sopra sono validi solo
per integrali di funzioni positive, e pertanto se abbiamo una funzione che ad es. diverge
oscillando non abbiamo strumenti utili per dimostrare la convergenza o la divergenza di un
suo integrale improprio, amenoché in qualche modo non ne dimostriamo la convergenza
assoluta e cioè ci riconduciamo ad una funzione positiva.
283
7. Serie numeriche
In questo capitolo inizieremo lo studio delle serie, e cioè lo studio delle proprietà delle
“somme infinite” di numeri. Vogliamo cioè dare un senso ad espressioni del tipo:
∞
X
ak . (7.1)
k=0
Pn
Si osservi che mentre una scrittura tipo k=0 ak ha perfettamente senso per ogni n, in quan-
to trattasi della somma di un numero finito di termini, la (7.1) non ha senso perché non
sappiamo cosa vuol dire sommare un numero infinito di numeri. In questo capitolo ci pre-
occuperemo solo di studiare le proprietà di espressioni come la (7.1) quando i termini della
serie sono espressioni numeriche, senza preoccuparci del fatto se possano o meno dipende-
re da parametri e quindi senza preoccuparci di come la somma risultante dipende da tali
parametri: quest’ultimo problema è il problema dello studio delle serie di funzioni, in cui
il concetto di convergenza uniforme gioca un ruolo importante, e verrà studiato nel corso di
Analisi Matematica 2.
Come definire dunque una somma infinita di numeri? Il concetto di limite ovviamente ci
viene subito alla mente, per cui definiamo:
∞
X n
X
an = lim an .
n→∞
k=0 k=0
In altri termini, sommiamo i primi n termini, e prendiamo il limite per n che tende a ∞ del
risultato. Se tale limite esiste e vale S, si dice che la serie converge ad S. Se tale limite diverge,
∞
X
si dice che la serie diverge. Se tale limite è ±∞ si può scrivere ak = ±∞
k=0
284
Alberto Berretti Analisi Matematica I
viene detta somma parziale n-esima della serie; pertanto il valore di una serie convergente è
dato dal limite della successione delle somme parziali:
∞
X
S= an = lim Sn .
n→∞
k=0
La quantità ak che appare sotto il simbolo di sommatoria viene invece in genere detta termine
generico della serie.
Vediamo ora alcuni esempi di serie convergenti o divergenti.
∞
X
Esempio 126. Consideriamo la serie 1. Chiaramente Sn = n → ∞ e la serie è divergente.
k=1
detta serie geometrica. Nel paragrafo 1.4.2 del capitolo 1 abbiamo dimostrato che:
n
X 1 − rn+1
rk = .
1−r
k=0
1 − rn+1 1
lim = ,
n→∞ 1 − r 1−r
1
e pertanto la serie converge a . Se invece |r| > 1 allora |rn+1 | → ∞ e quindi la serie
1−r
X∞
diverge. Se r = 1 la serie diventa 1, le somme parziali sono date da Sn = n + 1 → ∞ e la
k=0
285
Alberto Berretti Analisi Matematica I
serie diverge. Se infine r = −1 allora si verifica con un po’ di pazienza che le somme parziali
sono date da:
S2m = 0,
S2m+1 = −1;
la successione delle somme parziali chiaramente oscilla senza convergere, per cui la serie è
divergente. In definitiva, la serie geometrica (7.2) converge se |r| < 1 e diverge se |r| ≥ 1.
Osservazione 59. In relazione all’ultimo esempio, si osservi che la somma della serie geome-
trica, che converge solo per r < 1, è una funzione di r che in realtà è definita anche quando la
serie diverge (non è definita solo per r = 1). Si potrebbe pensare che una serie divergente non
abbia significato, ma in realtà non è cosí. Esistono circonstanze ad es. in Fisica in cui quantità
misurabili empiricamente sono date da serie divergenti, a cui pertanto occorre trovare un
modo per assegnare un senso. Ovviamente si tratta di un argomento avanzato fuori posto
nel corso di Analisi Matematica 1.
Il risultato piú semplice che possiamo dimostrare sulle serie è dato dal seguente teorema.
∞
X
Teorema 69. Sia data la serie ak . Se la serie è convergente, allora ak → 0.
k=0
Questo teorema ci fornisce un semplice criterio di divergenza per una serie: se il termine
generico della serie non tende a 0 la serie diverge. Ovviamente se il termine generico della
serie è infinitesimo non è detto che la serie converga: ad es. nel caso della serie armonica vista
1
sopra, il termine generico della serie tende a 0 ma la serie diverge.
k
Dimostrazione. Abbiamo:
n
X n−1
X
an = ak − ak = Sn − Sn−1 → S − S = 0.
k=0 k=0
286
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Come abbiamo visto, una serie è essenzialmente un limite. Come tale, tutte le proprietà
pertinenti dei limiti si applicano alle serie. In particolare vale il seguente teorema.
∞
X ∞
X
Teorema 70. Siano date le due serie ak e bk . Allora:
k=0 k=0
∞
X
• se ak converge allora:
k=0
∞
X ∞
X
αak = α ak ;
k=0 k=0
∞
X ∞
X
• se ak diverge e α , 0 allora αak diverge;
k=0 k=0
• se una delle due serie converge e l’altra diverge, la somma delle due serie diverge.
Ovviamente non possiamo dire nulla della combinazione lineare di due serie divergenti:
il risultato potrebbe essere convergente o divergente.
287
Alberto Berretti Analisi Matematica I
Le serie a termini positivi (quelle cioè con ak > 0) sono particolarmente semplici, in quanto
la successione delle somme parziali in questo caso è monotona crescente. e quindi la serie
o converge ad una somma finita o diverge a +∞; ad esempio, per il teorema 13 del capitolo
3 se si riesce a dimostrare che la successione delle somme parziali è limitata la serie risulta
convergente, mentre se si riesce a dimostrare che la successione delle somme parziali è
illimitata la serie risulta divergente (abbiamo già usato questo tipo di considerazione per
dimostrare la divergenza della serie armonica poco sopra). Per esse possiamo dunque
enunciare alcuni criteri di convergenza particolarmente semplici ma molto importanti.
Osservazione 61. Ovviamente se una serie ha termini negativi non cambia nulla: l’importante
è che i termini della serie abbiano segno costante. Le modifiche in quanto segue per una serie
a termini negativi sono ovvie.
Osservazione 62. Non è importante che la serie abbia termini positivo ∀k: è sufficiente che
i termini siano positivi ∀k > k0 , cioè a partire da un determinato valore dell’indice. Questo
tipo di argomento l’abbiamo già visto studiando i limiti di successione: ad es., il teorema sui
limiti delle successioni monotone si applica non solo alle successioni monotone per ogni n, ma
anche alle successioni monotone a partire da un certo n0 . Come abbiamo già visto nel capitolo
sui limiti, il limite di una successione non cambia se modifichiamo i primi n0 elementi della
successione, qualsiasi sia n0 , e la somma di una serie non è altro che il limite della successione
delle somme parziali.
Questo criterio è un semplice corollario del criterio del confronto per i limiti di successione.
288
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∞
X
Teorema 71 (Criterio del confronto per le serie). Sia 0 ≤ ak ≤ bk ∀k > k0 . Allora se bk
k=0
∞
X ∞
X ∞
X
converge allora ak converge, mentre se ak diverge allora bk diverge.
k=0 k=0 k=0
La dimostrazione è praticamente ovvia, l’unica ragione per cui potrebbe risultare legger-
mente complessa è perché teniamo conto esplicitamente dal fatto che la positività dei termini
e la loro relazione d’ordine valgono a partire da un certo valore k0 dell’indice.
∞
X
Dimostrazione. Sia {Sn } la successione delle somme parziali per la serie ak e {Tn } la
k=0
∞
X
successione delle somme parziali per la serie bk . Sia n > k0 ; abbiamo:
k=0
n
X n
X n
X n
X n
X k0
X n
X
Sn = ak = Sk0 + ak , Tn = bk = Tk0 + bk , ak = ak +
k=0 k=k0 +1 k=0 k=k0 +1 k=0 k=0 k=k0 +1
∞
X
Nel primo caso, la serie bk converge e quindi la successione monotona {Tn } è limitata,
k=0
per cui:
Sn ≤ Sk0 − Tk0 +Tn ,
| {z }
termine costante
289
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Teorema 72 (Criterio del confronto asintotico per le serie). Sia ak , bk > 0. Abbiamo allora:
∞
X ∞
X
1. se ak ∼ bk e ak converge allora anche bk converge;
k=0 k=0
∞
X ∞
X
2. se ak ∼ bk e ak diverge allora anche bk diverge;
k=0 k=0
∞
X ∞
X
3. se ak = o(bk ) e bk converge allora anche ak converge;
k=0 k=0
∞
X ∞
X
4. se ak = o(bk ) e ak diverge allora anche ak diverge.
k=0 k=0
Infine, molti casi importanti a cui poi ci si riconduce facendo uso dei teoremi del confronto
sopra dimostrati si possono determinare in modo semplice facendo il confronto con un
integrale improprio.
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Teorema 73 (Criterio del confronto con l’integrale improprio). Per k ≥ k0 sia ak = f (k), dove
X ∞
f (x) è definita per x ≥ k0 , f (x) > 0 e monotona decrescente. Allora la serie ak converge se
Z ∞ k=0
Inoltre f è integrabile essendo monotona, e poiché f > 0 la sua primitiva F deve essere
monotona crescente. Pertanto F(x) tende a limite finito per x → ∞ se l’integrale improprio
Z ∞
dx f (x) converge e tende a +∞ se l’integrale improprio diverge.
k0
Supponiamo ora che l’integrale improprio converga. Abbiamo allora:
n
X Z n+1
Sn = Sk0 −1 + ak ≤ Sk0 −1 + dx f (x) = Sk0 −1 + F(n + 1) − F(k0 ),
k=k0 k0
291
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∞
X
Esempio 130. Abbiamo già considerato la serie geometrica rk . Se 0 < r < 1 il criterio del
k=0
confronto asintotico ci fornisce direttamente la convergenza della serie, essendo il seguente
integrale improprio: Z Z
∞ ∞
x
dx r = dx e−x·log(1/r)
1 1
convergente (log(1/r) > 0 perché 0 < r < 1).
1
Se α ≤ 0 non tende a 0 (tende a ∞ se α < 0 e ad 1 se α = 0) e quindi la serie diverge.
kα
Consideriamo quindi α > 0. Applichiamo il criterio del confronto con l’integrale improprio
1
prendendo f (x) = α . Sappiamo dalla teoria degli integrali improprio che l’integrale impro-
Z ∞ x
1
prio dx α converge se α > 1 e diverge se α < 1, per cui anche la serie (7.4) converge se
1 x
α > 1 e diverge se α ≤ 1.
1 log|β| k 1
Se β < 0 allora per k > 2 β
= > e per il criterio del confronto (con la serie
k log k k k
armonica) la serie considerata diverge. Consideriamo pertanto β > 0. Applichiamo
Z ∞ il criterio
1
del confronto con l’integrale imprioprio, utilizzando l’integrale improprio dx ,
2 x logβ x
che abbiamo considerato nell’esempio 119 del capitolo 6. Facendo riferimento al risultato di
quell’esempio, otteniamo che la serie converge se β > 1 e diverge se β < 1.
Cosa si può dire sulla convergenza delle serie arbitrarie, i cui termini hanno segno qualsiasi?
In generale, molto poco, in quanto la convergenza può dipendere da cancellazioni arbitrarie
fra termini qualsiasi, rendendo il problema di determinare la convergenza di una serie
arbitraria un problema potenzialmente molto complesso.
Lo strumento principale che abbiamo per dimostrare la convergenza di una serie qualsiasi
consiste nel ricondurci al caso di serie a termini positivi, introducendo la convergenza assoluta.
292
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∞
X ∞
X
Diremo che la serie ak converge assolutamente se converge la serie |ak |, formata
k=0 k=0
con i valori assoluti del termine generico ak .
Questa proposizione, se vista esclusivamente con gli occhi della lingua italiana, è fastidio-
samente ovvia: dopotutto abbiamo espresso un concetto – quello di convergenza assoluta –
aggiungendo un aggettivo (“assoluta”) – al sostantivo “convergenza”. Si tratta però di una
questione puramente linguistica, e l’utilizzo di un semplice aggettivo vicino a “convergenza”
è proprio giustificato dal fatto che vale tale proposizione. Quindi c’è effettivamente qualcosa
da dimostrare.
Allora:
ak = bk − ck , |ak | = bk + ck ,
come si verifica immediatamente. Abbiamo:
0 ≤ bk ≤ |ak |,
0 ≤ ck ≤ |ak |,
X∞ ∞
X
e quindi per il criterio del confronto convergono le serie bk e ck . Quindi converge
k=0 k=0
∞
X ∞
X
anche la serie (bk − ck ) = ak .
k=0 k=0
Osservazione 63. Se però una serie è convergente, non è detto che sia assolutamente con-
vergente. Quindi per dimostrare la convergenza di una serie possiamo tentare la strada
della convergenza assoluta: ma se la serie in questione non fosse assolutamente convergente,
potrebbe convergere ugualmente. In altri termini, la convergenza assoluta e’ una condizione
sufficiente, ma non necessaria, per la convergenza. Nel prossimo paragrafo vedremo alcuni
esempi di serie convergenti ma non assolutamente convergenti.
Una famiglia di serie non a termini positivi la cui convergenza è spesso facile da determinare
è quella delle serie a segni alterni:
∞
X
(−1)k ak , con ak ≥ 0.
k=0
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Teorema 74 (Criterio di Leibniz). Sia {ak } una successione positiva che converge monotonicamente
a 0:
ak ≥ 0, ak ց 0.
∞
X
Allora la serie (−1)k ak converge.
k=0
da cui si vede subito che si tratta di una successione crescente, in quanto per ottenere il
termine seguente dobbiamo sommare a2n+2 − a2n+3 che è positivo come tutte le altre coppie
di termini che abbiamo raggruppato in parentesi (per la decrescenza di {ak }). Inoltre:
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Prendiamo x = 1; allora:
ξn+1
|Rn+1 (1)| = , ξ ∈ (0, 1),
n+1
1
e chiaramente |Rn+1 (1)| ≤ → 0 per n → ∞, da cui otteniamo immediatamente:
k+1
∞
X (−1)k
= − log 2.
k
k=1
xk
Se |x| > 1 la serie diverge: infatti in questo caso 9 0 e quindi non è verificata la condizione
k
necessaria per la convergenza.
Se |x| < 1 la serie converge: infatti se |x| < 1 allora ∃c: |x| < c < 1 e:
xk k
x ck
=
.
k c k
|{z} |{z}
(A) (B)
Ora, il fattore (A) tende a 0 esponenzialmente, ed il fattore (B) tende a 0 anche esso ed è
pertanto limitato:
(B) ≤ C,
pertanto:
xk k
x
≤ C ,
k c
x
e quindi la serie converge per il confronto con la serie geometrica di ragione < 1. Si
c
osservi che avento fatto uso dei valori assoluti, la convergenza è assoluta.
Se x = 1, la serie coincide con la serie armonica ed è quindi divergente. Se x = −1 la serie
coincide con quella dell’esempio precedente, e quindi converge ma non assolutamente.
In definitiva, possiamo dire che la serie considerata converge assolutamente se x ∈ (−1, 1)
e converge se x ∈ [−1, 1).
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1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1
1− − + − − + − − + − − + ... =
2 4 3 6 8 5 10 12 7 14 16
1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1
= 1− − + − − + − − + − − + ... =
2 4 3 6 8 5 10 12 7 14 16
1 1 1 1 1 1 1 1
= − + − + − + − + ... =
2 4 6 8 10 12 14 16
log 2
1 1 1 1 1 1 1 1
= 1 − + − + − + − + ... = ,
2 2 3 4 5 6 7 8 2
e cioè un valore diverso! Quindi in generale non possiamo riordinare i termini di una serie mantenendo
necessariamente il suo valore. Questo fatto, che appare paradossale, deve in realtà apparire
come una cosa naturale: la somma di una serie non è una somma ordinaria, ma un limite.
Se riordiniamo i termini della serie, stiamo facendo il limite di un’altra successione, e pertanto
non vi è nessuna ragione a priori per cui debba venire lo stesso risultato.
In realtà si può dimostrare il Teorema di Riemann del riordinamento, che afferma che data una serie
convergente ma non assolutamente convergente, esiste sempre un riordinamento dei suoi termini tali
che essa converga a qualsivoglia numero, o che diverga.
Fortunatamente, nel caso delle serie assolutamente convergenti i termini della serie pos-
sono essere riordinati senza cambiare il valore della serie. Abbiamo bisogno prima della
seguente proposizione.
∞
X
Proposizione 33. Sia ak una serie convergente a termini positivi. Allora ogni suo riordinamento
k=0
converge al medesimo limite.
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n
X n
X
Dimostrazione. Sia ak = Sn , ap(k) = Tn , dove p(k) è una funzione biunivoca di N in N
k=0 k=0
(il riordinamento degli indici). Per ipotesi, Sn ր S e quindi anche An ≤ S. Vogliamo ora
dimostrare che Tn ≤ S. Infatti, ∀K ∈ N ∃M ∈ N tale che: