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LA FORMAZIONE DELLE NORME INTERNAZIONALI

Prima di procedere all’esame delle fonti, dobbiamo puntualizzare un


concetto fondamentale che costituisce la base del diritto
internazionale.
Noi sappiamo che un ORDINE regola i rapporti tra tutte le parti che
costituiscono un sistema politico. In politica interna, ad esempio,
sono le costituzioni a svolgere le funzioni di ordine, stabilendo il
tipo di Stato e il regime nel quale le istituzioni politiche e
governative devono operare.
Nell’ordinamento internazionale, invece, sussiste una sostanziale
differenza.
Mentre l’ordinamento interno è un’istituzione gerarchica, che poggia
sul ruolo dello Stato, l’ordinamento internazionale è un’istituzione
anarchica nel quale manca un governo mondiale.
La comprensione di questa importante differenza costituisce la
chiave per identificare la funzione svolta dalle istituzioni
internazionali.
Gli ordini internazionali, cioè, si reggono “sulla volontà dei principali
attori”. (Andreatta).
Essi non sono sottoposti ad un potere ad essi superiore, in quanto
vige il principio della uguaglianza formale degli Stati.
Questa caratteristica comporta che non vi sia un procedimento
formale di produzione giuridica che si imponga dall’esterno alla
volontà dei consociati, ma mette in luce il fatto che tutte le fonti in
esso sono AUTONOME, cioè sono gli stessi soggetti destinatari
delle norme a porle in essere.
Per cui, le norme del diritto internazionale generale, che vincolano
tutti gli Stati hanno natura consuetudinaria.

• La CONSUETUDINE INTERNAZIONALE è costituita da un


comportamento costante ed uniforme tenuto dagli Stati, cioè
dal ripetersi di un determinato comportamento con la
convinzione della vincolatività del comportamento stesso.

Due sono, quindi, gli elementi che caratterizzano questa fonte:

• LA DIUTURNITAS (o la prassi)
• L’ OPINIO JURIS AC NECESSITATIS (o convinzione della
giuridica necessità)
Quando si parla di prassi si fa riferimento ad un concreto
comportamento, ovvero ad atti giuridici che possono essere
dell’ordinamento interno o dell’ordinamento internazionale.
Ad esempio, atti giuridici dell’ordinamento internazionale possono
essere i trattati, le risoluzioni delle organizzazioni internazionali, le
proteste degli Stati o la corrispondenza diplomatica.
Gli atti interni rilevanti ai fini della prassi, invece, sono le sentenze
dei giudici, le leggi ordinarie, le leggi regionali o le norme poste in
essere da qualsiasi ente pubblico interno.

La prassi però deve avere una determinata qualificazione per


essere tale:

• in senso soggettivo deve provenire dai soggetti


dell’ordinamento internazionale (prevalentemente gli Stati)
• in senso oggettivo deve avere i caratteri della
o UNIFORMITA’ (o non contraddittorietà) garantisce che
non assumano rilievo motivazioni politiche degli Stati che
essi sfruttano per giustificare le loro azioni, ma solo quei
comportamenti che essi ritengono realmente giuridici.
o GENERALITA’ assicura che la norma sia posta in essere
da un numero significativamente rappresentativo di Stati
o CONTINUITA’ implica una certa persistenza nel tempo dei
comportamenti tenuti dalla maggioranza degli Stati

L’opinio juris, invece, presuppone che tali comportamenti siano


posti in essere con la convinzione della loro giuridica necessità, o
della loro necessità sociale.

Tale concezione (detta DUALISTICA) non ha avuto però unanimità


di consensi in dottrina.
Alcuni autori hanno sostenuto che la consuetudine sarebbe
costituita dalla sola prassi, in quanto, ammettendosi la necessità
dell’opinio juris, si arriverebbe a considerarla come nata da un
errore. Si dice, infatti, che se, nel momento in cui la norma va
formandosi, lo Stato crede che un comportamento sia obbligatorio,
cioè richiesto dal diritto, mentre in effetti il diritto non esiste, è
evidente che lo Stato è in errore.
Tuttavia, se si esamina la prassi dei Tribunali internazionali, si può
avere conferma della tesi secondo la quale, nella consuetudine
internazionale, entrambi gli elementi siano necessari. Non solo, ma
ci fa rendere conto di come la tesi dualistica della consuetudine
derivi da elementi di pura logica. Infatti:

• Essa è fondamentale ai fini della distinzione tra consuetudine


produttiva di norme giuridiche e comportamenti di pure
cortesia o doverosità morale.
• La sua esistenza o meno, inoltre, è il solo criterio utilizzabile
per ricavare una norma consuetudinaria dalla prassi
convenzionale.
• Infine, essa serve a distinguere il comportamento dello Stato
diretto a modificare il diritto consuetudinario preesistente dal
comportamento che costituisce ,invece, mero illecito
internazionale.

Per quanto riguarda gli organi che concorrono alla formazione della
norma consuetudinaria, si riconosce generalmente la possibilità di
partecipazione a tutti gli organi statali e non solo ai detentori del
potere estero.
Pertanto possono dare origine ad una norma consuetudinaria non
solo atti “esterni” degli Stati, ma anche atti “interni” (leggi,
sentenze, atti amministrativi), senza alcun ordine di priorità.
Un ruolo importante è svolto sicuramente dalla giurisprudenza, con
particolare riguardo alle Corti Supreme, le quali hanno il compito,
fra gli altri, di promuovere la revisione di consuetudini antiche che
contrastino con fondamentali e diffusi valori costituzionali.

Poiché le consuetudini creano diritto generale, vincolano tutti gli


Stati, indipendentemente dalla loro partecipazione alla sua
formazione.
Questo principio è stato a lungo posto in discussione dagli Stati
sorti dal processo di decolonizzazione, ossia dagli Stati che
attualmente costituiscono la maggioranza dei membri della
comunità internazionale.
La contestazione nasceva dal fatto che, essendosi tale diritto
formato in epoca coloniale, esso rispondeva ad esigenze del tutto
diverse da quelle del nostro tempo.
Il problema ha trovato soluzioni diverse a seconda che la
contestazione provenisse da un singolo Stato o da un gruppo di
Stati.
Nel primo caso, provenendo dal cd. persistent objector (obiettore
persistente) essa è irrilevante e non occorre neanche la prova
dell’accettazione della norma, poiché essa è diritto generale ed è
quindi comune a tutti gli Stati.
Diverso è invece il caso della contestazione che proviene da un
gruppo di Stati: essa non solo non può essere ignorata, ma non è
neanche da considerarsi esistente come regola consuetudinaria.
Tuttavia, prima di arrivare alla negazione totale della norma,
l’interprete deve fare ogni sforzo per cercare di trovare un minimo
comune denominatore nell’atteggiamento degli Stati, ai fini della
ricostruzione anche di principi generalissimi.

Oltre alle norme consuetudinarie generali esistono anche le


consuetudini particolari, ossia quelle vincolanti una ristretta
cerchia di Stati.
La loro figura è certamente da ammettersi e la sua applicazione più
rilevante è fornita dal diritto non scritto che può formarsi per
modificare o abrogare le regole poste da un determinato trattato.
In altre parole, accade che le parti che stipulano un accordo diano
inizio ad una prassi che modifica le norme a suo tempo pattuite.

Le norme consuetudinarie sono suscettibili di interpretazione


analogica?
L'analogia è una forma di interpretazione estensiva, che consiste
nell'applicare una norma ad un caso che essa non prevede, ma i cui
caratteri essenziali siano analoghi a quelli del caso previsto.
Nell'ambito del diritto consuetudinario, il ricorso all'analogia ha
senso solo con riguardo alle fattispecie nuove.

I PRINCIPI GENERALI DI DIRITTO RICONOSCIUTI DALLE NAZIONI


CIVILI

Tra le fonti di diritto internazionale generale non scritte, l’art. 38


dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia annovera “i
principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni Civili”.

Secondo l’interpretazione di tale articolo, detti principi sono indicati


al terzo posto, dopo gli accordi e le consuetudini, e si tratterebbe di
una fonte utilizzabile là dove manchino norme pattizie o
consuetudinarie applicabili ad un caso concreto.
Il ricorso a tali principi costituirebbe una sorta di analogia juris
destinata a colmare le lacune del diritto pattizio e consuetudinario
prima di concludere che non esistano obblighi internazionali in
ordine ad un caso concreto.
Essi rappresenterebbero dei principi generali di giustizia oppure
soltanto di logica giuridica, seguiti nei rapporti internazionali, e
connaturati all’idea stessa di diritto.
(Es: ne bis in idem; nemo judex in re sua; in claris non fit
interpretatio; etc....)
In realtà esiste una notevole varietà di opinioni in merito: alcuni
dicono che non si tratta affatto di norme giuridiche internazionali,
altri affermano la natura integratrice, altri ancora li collocano al
vertice della gerarchia delle fonti.
Obiettivamente non è facile orientarsi, anche perché ci si chiede
quali tra i principi generali più o meno seguiti in tutti gli
ordinamenti sarebbero applicabili a titolo di norme generali
dell’ordinamento internazionale.

Generalmente si ricorre a due condizioni o requisiti:

1. che tali principi esistano e siano uniformemente applicati nella


più gran parte degli Stati;
2. occorre che essi siano sentiti come obbligatori o necessari
anche dal punto di vista del diritto internazionale, che essi cioè
perseguano dei valori e impongano dei comportamenti che gli
Stati considerino come perseguiti ed imposti o almeno
necessari anche sul piano internazionale.

Così intesi non sarebbero altro che una categoria sui generis di
norme consuetudinarie internazionali.
Secondo una simile impostazione, allora, non sarebbero principi
destinati a colmare soltanto le lacune del diritto internazionale; il
loro rapporto sarebbe invece il normale rapporto tra norme di pari
grado: la norma posteriore abroga quella anteriore e la norma
speciale deroga quella generale.

Un’ultima precisazione: se tali principi vengono applicati dai giudici


di uno Stato anche quando essi non siano presenti nell’ordinamento
statale, potrà dichiararsi l’illegittimità costituzionale di una legge
ordinaria dello Stato, anche quando essa sia contraria ad un
principio generale.

ALTRE NORME GENERALI NON SCRITTE

Una parte della dottrina pone al di sopra delle norme


consuetudinarie (e distinte da esse) un’altra categoria di norme
generali non scritte: i principi.
Si è così sostenuta l’esistenza di una serie di “principi
costituzionali”, connaturati con la comunità internazionale, che
comprendono anche un principio che consentirebbe in ogni caso il
ricorso alla guerra.
Secondo il Quadri, vigoroso e originale sostenitore di questa teoria,
che parte da una concezione fortemente imperativistica del diritto, i
principi costituirebbero le norme primarie del diritto internazionale
poiché sono “l’espressione immediata e diretta della volontà del
corpo sociale” e, in definitiva, comprenderebbero tutte quelle
norme imposte dalle “forze prevalenti” nell’ambito della comunità
internazionale, in un determinato momento storico.
Tra questi principi, alcuni avrebbero carattere formale, poiché si
limiterebbero a istituire fonti ulteriori di norme, altri carattere
materiale, in quanto disciplinerebbero direttamente i rapporti tra
Stati.
I principi formali sarebbero due:

• CONSUETUDO EST SERVANDA


• PACTA SUNT SERVANDA

Pertanto, l’osservanza delle consuetudini e degli accordi sarebbe


imposta dalle forze prevalenti.
I principi materiali potrebbero avere qualsiasi contenuto, a seconda
che le forze prevalenti si combinino per volere una certa disciplina
in una determinata materia.
Tale concezione non è accettabile però, perché non si possono
ricostruire principi materiali indipendentemente dalla prassi e
imporli solo perché frutto della volontà di qualche, o anche di uno,
Stato. In questo modo, ogni abuso sarebbe legittimato
giuridicamente.
Inoltre, un operatore giuridico interno, nell’applicare tali principi, si
dovrebbe chiedere ogni volta se essi non siano il frutto di una
qualche imposizione. E’ vero che , in ogni caso, nei principi c’è
sempre una forza preponderante, ma a tale forza deve
accompagnasi la stabilità e la continuità della prassi affinché il
principio sia ammesso come tale.

LE CONVENZIONI DI CODIFICAZIONE

Resta ora da esaminare il problema se esistano norme


internazionali generali scritte.
Il problema della codificazione del diritto generale consuetudinario
comincia alla fine del secolo scorso con la trasfusione in testi scritti
delle norme del diritto bellico.
Ma è solo con le Nazioni Unite che l’opera di codificazione prende
slancio traducendosi in una serie di trattati multilaterali ai fini di:

• operare una razionalizzazione della consuetudine


• fare in modo che le norme internazionali rispondessero ai
nuovi interessi comuni fra gli Stati affermati dalla fine della
Seconda Guerra Mondiale.

Non esistendo, infatti, nel diritto internazionale alcun organo con


poteri legislativi, il TRATTATO è l’unico strumento per la
trasformazione del diritto non scritto in diritto scritto.

L'articolo 13 della Carta delle Nazioni Unite prevede che


l'Assemblea generale intraprenda degli studi e faccia
raccomandazioni per “incoraggiare lo sviluppo progressivo del
diritto internazionale e la sua codificazione.”

A tali fini l'Assemblea ha creato un'apposita Commissione incaricata


di provvedere alla preparazione di testi di codificazione delle norme
consuetudinarie relative a determinate materie, procedendo a studi,
raccogliendo dati e predisponendo in tal modo progetti di
convenzioni multilaterali internazionali che vengano poi adottati e
aperti alla ratifica e all'adesione da parte degli Stati stessi.
La Commissione ha finora studiato numerosi settori del diritto
internazionale e predisposto varie Convenzioni di codificazione.

Le più importanti sono :

• la Convenzione di Vienna del 1961 sulle relazioni ed immunità


diplomatiche;
• la Convenzione sulla piattaforma continentale;
• la Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati;
• la Convenzione di Vienna del 1986 sul diritto dei trattati
conclusi da Stati con organizzazioni internazionali e tra
organizzazioni;
• la Convenzione di Vienna del 1978 sulla successione dei
trattati;
• la Convenzione di Montego Bay del 1994 sul diritto del mare.

Le Convenzioni di codificazione, in quanto comuni accordi


internazionale, vincolano gli Stati contraenti. Alcuni autori, però,
hanno detto che, appunto perché essi propongono di codificare il
diritto generale, hanno valore per gli Stati non contraenti.
Ma bisogna essere molto cauti nel considerare gli accordi di
codificazione come corrispondenti al diritto consuetudinario
generale.

Innanzitutto non si può riporre un'illimitata fiducia nei lavori della


Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite, perché
spesso ci può essere l'influenza dell'interprete o anche di chi è
chiamato a far parte della Commissione stessa. Inoltre gli Stati
fanno quello che si fa sempre in sede di conclusione delle trattative
per la conclusione degli accordi internazionali: cercano di far
prevalere i propri interessi, le proprie convinzioni. Per queste
ragioni, gli accordi di codificazione vanno considerati come
normali accordi internazionali e quindi vincolano i soli Stati
contraenti che li ratificano.

La Corte Internazionale di Giustizia, in occasione della


Convenzione sulla delimitazione della piattaforma continentale del
Mare del Nord del 1969, ha ritenuto che le convenzioni di
codificazione, nel processo di formazione delle norme internazionali
generali, potessero avere un triplice ruolo:

• FUNZIONE DI CRISTALLIZZAZIONE
• FUNZIONE GENETICA
• FUNZIONE DICHIARATIVA

1. La prima funzione si realizza quando già prima dell’accordo di


codificazione si è formata una prassi rilevante che consente di
affermare l’esistenza di una norma consuetudinaria. La
convenzione, in questo caso, mette solo per iscritto la norma
consuetudinaria e ne rende più facile l’accertamento.
2. La seconda funzione si ha nel caso opposto, cioè nel momento
in cui prima della convenzione non vi è alcuna norma
consuetudinaria e non vi è alcuna prassi. In tal caso, la
convenzione avvia il processo di formazione della norma
consuetudinaria e ne inaugura la prassi.
3. In questo caso, invece, la convenzione ha il compito di
concludere una prassi, già avviata , ma insufficiente ad creare
la norma, dando attuazione, indirettamente, alla norma
consuetudinaria stessa.
LE DICHIARAZIONI DI PRINCIPI

Si inquadra nel tema del diritto internazionale generale anche il


problema del valore delle Dichiarazioni di Principi emanate
dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Si tratta di Dichiarazioni contenenti una serie di regole che talvolta
riguardano i rapporti tra Stati, ma più spesso riguardano rapporti
interni alle varie comunità statali, quali i rapporti dello Stato con i
propri sudditi o con gli stranieri.
Bisogna anzitutto sottolineare che le Dichiarazioni di Principi non
costituiscono una autonoma fonte di norme internazionali generali,
poiché l’Assemblea non ha poteri legislativi mondiali (tanto che si
esprime mediante raccomandazione, che ha valore di esortazione
non vincolante).

Tuttavia le Dichiarazioni svolgono un ruolo assai importante ai fini


dello sviluppo internazionale e al suo adeguamento alle esigenze di
solidarietà e di interdipendenza.
Per quanto riguarda il diritto consuetudinario, le Dichiarazioni
vengono in rilievo, ai fini della sua formazione, in quanto prassi
degli Stati, in quanto somma degli atteggiamenti degli Stati che le
adottano, e non come atti dell’ ONU.

Certe dichiarazioni o parti di Dichiarazioni hanno, invece, valore di


veri e propri accordi internazionali: sono quelle che non solo
enunciano un principio ma in modo espresso e inequivocabile ne
equiparano l'inosservanza alla violazione della Carta.
Poiché l’Assemblea non ha poteri interpretativi sovrani che
vincolerebbe tutti gli Stati a quella interpretazione, anche le
Dichiarazioni restano delle mere raccomandazioni.
Hanno però carattere di accordo, come tali vincolano gli Stati che le
abbiano approvate, e vengono considerate come accordi in forma
semplificata.

Sovranità Territoriale
Abbiamo già accennato che il diritto internazionale si snoda
tutt’intorno ai limiti all’uso della forza da parte degli Stati; forza
diretta verso l’esterno e forza diretta verso l’interno dello Stato
stesso, la c.d. forza interna che non rappresenta altro che il potere
d’imperio di uno Stato ovunque esso sia esplicato.
Esaminiamo quali sono questi limiti all’uso della forza interna,
avendo riguardo soprattutto al diritto consuetudinario.

La sovranità territoriale

La prima e fondamentale norma consuetudinaria in tema di


delimitazione del potere di governo dello Stato è quella della
sovranità territoriale. Essa trova le sue origini e il suo
consolidamento all’epoca della monarchia assoluta, come una sorta
di diritto di proprietà dello Stato, o meglio del Sovrano, avente per
oggetto il territorio. All’epoca, il territorio era tutto: gli individui
erano pertinenze del territorio e il potere dello Stato sulle persone e
sulle cose non era altro che una derivazione del potere sul
territorio.

Il tema della “natura giuridica” del territorio è stato sempre molto


discusso in dottrina, ma tale discussione non ha potuto mutare in
nessun modo quello che è il vero contenuto della norma
internazionale sulla sovranità territoriale e cioè quello che gli Stati
possono fare sul loro territorio e non possono fare sul territorio
altrui.
In linea generale possiamo affermare che tale norma attribuisce ad
ogni Stato il diritto di esercitare in modo esclusivo il potere di
governo sulla sua comunità territoriale, cioè sugli individui (e sui
loro beni) che si trovano nell’ambito territoriale.
D’altra parte lo Stato ha l’obbligo di non esercitare in territorio
altrui, senza consenso, il proprio potere di governo. In ogni caso la
violazione della sovranità territoriale si ha solo in caso di presenza
fisica.

In altre parole, il potere di governo dello Stato ha, in linea di


principio, un potere esclusivo ed assoluto di esercizio della
sovranità.
E’ impossibile non accorgersi, però che man mano che il diritto
internazionale si è evoluto, questo potere assoluto si è andato
sempre più restringendo e tutte le norme internazionali compiute
fino ad oggi hanno comportato dei limiti sempre più fitti al potere di
governo esplicato nell’ambito del territorio.

Le eccezioni che per prime si sono andate affermando, sia sul piano
del diritto consuetudinario che sul piano del diritto pattizio, sono
costituite dalle norme che impongono un certo trattamento degli
stranieri, persone fisiche o giuridiche, degli organi stranieri, degli
agenti diplomatici. Molto più importanti però sono i limiti prodotti
dalle norme che perseguono valori di giustizia, di cooperazione e di
solidarietà tra i popoli.

La libertà dello Stato nell’ambito del suo territorio è ribadita da


alcuni principi del nuovo ordine economico internazionale, molto
cari ai Paesi in sviluppo:
il principio della sovranità permanente dello Stato sulle risorse
naturali, principio secondo il quale “ ogni Stato possiede ed esercita
liberamente una sovranità completa e permanente su tutte le sue
ricchezze , risorse naturali e attività economiche”;
il principio per cui ogni Stato ha il diritto di scegliere il proprio
sistema economico, oltre che i suoi sistemi politici, sociali e
culturali, conformemente alla volontà del suo popolo..”, nonché di “
scegliere i suoi obiettivi e i suoi mezzi di sviluppo, di mobilitare e di
utilizzare integralmente le sue risorse, di operare delle riforme
economiche e sociali progressive e di assicurare la piena
partecipazione del suo popolo ai processi di sviluppo”

Per quanto riguarda l’acquisto della sovranità territoriale, vale il


criterio della effettività: l’esercizio effettivo del potere di
governo, fa sorgere il diritto all’esercizio esclusivo del potere
stesso.
Nonostante i tentativi fatti per limitare la portata del principio
dell’effettività sin dall’epoca delle due guerre mondiali per
disconoscere l’espansione territoriale frutto di violenza o di gravi
violazioni di norme internazionali, la prassi sembra ancora oggi
sostanzialmente orientata nel senso che l’effettivo e consolidato
esercizio del potere di governo su un territorio comunque
conquistato comporti l’acquisto della sovranità territoriale. Tutto
ciò che può sostenersi è la formazione di una norma
consuetudinaria che vincola tutti gli Stati a negare gli effetti agli atti
di governo emanati su un territorio illegittimamente acquistato e
sempre che l’’acquisto sia contestato dalla maggior parta degli Stati
della comunità internazionale.
I limiti della sovranità territoriale

I limiti più importanti alla libertà dello Stato di comportarsi come


crede nell’ambito del suo territorio sono oggi costituiti dalle norme
internazionali, soprattutto dalle norme convenzionali, che
perseguono valori di giustizia, di cooperazione e di solidarietà tra i
popoli.

Con l’affermarsi di suddetti limiti si è andato


progressivamente erodendo il c.d. dominio riservato dello
Stato, espressione con cui si intende indicare le materie
delle quali il diritto internazionale si disinteressa e
rispetto alle quali lo Stato è conseguentemente libero da
obblighi (organizzazione delle funzioni di governo,
politica economica e sociale dello Stato etc). DIRITTI
UMANI - NORME CHE PERSEGUONO VALORI DI GIUSTIZIA

Le iniziative internazionali dirette a promuovere la tutela della


dignità umana ovunque l’individuo si trovi si sono tradotte, oltre
che nelle carte fondamentali quali la Dichiarazione universale dei
diritti dell’uomo o l’Atto finale della Conferenza di Helsinki sulla
sicurezza e la cooperazione in Europa, anche nella conclusione di
numerose convenzioni.

• La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti


dell’uomo e delle libertà fondamentali
• La Convenzione interamericana sui diritti umani
• La Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli
• I due Patti delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici e sui
diritti economici.

Tutte queste convenzioni, oltre ad istituire gli organi destinati a


vegliare sulla loro osservanza, contengono un catalogo dei diritti
umani che spesso risulta molto più dettagliato i quello delle
costituzioni stesse.
Molto estesi sono soprattutto i diritti che tutti gli Stati sono obbligati
a riconoscere a tutti gli individui sottoposti al loro potere senza
distinzione di sesso, di razza, di religione, di opinione politica: i
diritti economici (diritto al lavoro, ad un’equa retribuzione, alle
assicurazioni, alle forme di assistenza sociale…).
Per quanto riguarda i diritti civili e politici ( libertà personale, libertà
di pensiero, di coscienza e di religione, di associazione), questo
catalogo risulta ampliato specificato ed arricchito con i divieti che
formano oggetto anche del diritto consuetudinario: le c.d. gross
violations.

Infatti la materia dei diritti umani è stata oggetto anche della


formazione di norme del diritto consuetudinario, precisamente di
quei principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni Civili che,
appunto, protegge un nucleo fondamentale ed irrinunciabile di
diritti umani.

Si tratta del divieto delle gross violations, ossia delle violazioni gravi
e generalizzate cui si è soliti riportare quelle pratiche di governo
particolarmente disumane ed efferate come l’apartheid, la
distruzione di gruppi etnici, razziali o religiosi ( genocidio) la
tortura, i trattamenti disumani, le pulizie etniche, le sparizioni di
prigionieri politici e simili.
Sulla contrarietà di siffatte pratiche allo jus cogens internazionale
concordano tutti gli Stati.

L’obbligo degli Stati di rispettare i diritti umani è fondamentalmente


un obbligo negativo, o di astensione. Gli organi statali sono tenuti
ad astenersi dal ledere tlai diritti e dal compiere gross violations.
Ma il rispetto dei diritti umani costituisce anch el’oggetto di un
obbligo positivo o di protezione perché lo Stato deve vegliare
affinché sul suo territorio non siano commesse violazioni di tali
diritti umani, prendendo tutte le misure necessarie idonee secondo
standards di comune diligenza a prevenire e a reprimere dette
violazioni.

PUNIZIONE DEI CRIMINI INTERNAZIONALI


Con il tema dei diritti umani si intreccia la punizione dei crimini
internazionali. La caratteristica fondamentale delle norme sia
generali che convenzionali che disciplinano tali crimini è che esse
danno luogo ad una responsabilità propria delle persone fisiche che
ricommettono; si tratta quindi di norme che vengono considerate
come regole che direttamente si indirizzano agli individui
concorrendo alla formazione della soggettività internazionale di
questi ultimi.

La comunità internazionale sta tentando di attuare la punizione di


questi crimini attraverso l’istituzione dei tribunali internazionali, ma
si tratta di tentativi svolti in misura assai limitata. La punizione è
quindi in larga parte affidata ai tribunali interni, nell’esercizio della
sovranità territoriale.
I crimini internazionali possono essere distinti ,secondo una
ripartizione che risale all’Accordo di Londra del 1945, in:

• Crimini contro la pace


• Crimini contro l’umanità
• Crimini di guerra

Un elenco dettagliato è contenuto negli artt. 5-8 dello Statuto della


Corte penale internazionale, Statuto adottato a Roma il 17.07.1998
sotto forma di convenzione internazionale da una conferenza di
Stati, che però non è ancora entrato in vigore.
Lo Statuto prevede 4 tipi di crimine:

1. il genocidio
2. crimini contro l’umanità
3. crimini di guerra
4. crimine di aggressione.

Il Genocidio (art 6) è la distruzione totale o parziale di un gruppo


etnico, razziale e religioso, mentre ai crimini contro l’umanità ( art
7) vengono riportati atti quali omicidio, riduzione in schiavitù,
deportazione o trasferimento forzato di popolazioni, privazione di
libertà, tortura, violenza carnale, prostituzione forzata ed altre
forme di violenza sessuale, persecuzioni per motivi politici, razziali,
religiosi, di sesso etc., sparizione forzata di persone apartheid , altri
atti disumani o simili capaci di causare sofferenze gravi di carattere
fisico o psichico.
Tra i crimini di guerra lo Statuto (art 8) si riferisce a tutta una serie
di atti specifici del tempo di guerra come la violazione delle
convenzioni di Ginevra sul diritto umanitario di guerra,
l’arruolamento forzato dei prigionieri di guerra, la presa di ostaggi,
gli attacchi contro popolazioni e obiettivi civili. Questi atti però per
poter essere considerati crimini internazionali individuali, devono
far parte, secondo lo Statuto di un programma politico o cmq aver
luogo su vasta scala.

Circa, infine, i crimini contro la pace, lo Statuto rinuncia a dare


dell’aggressione una definizione, rinviandola alla modifica dello
Statuto.

Una precisazione: normalmente, l’individuo che commette un


crimine internazionale è un organo del proprio Stato, Soltanto gli
Stati infatti sono capaci di produrre attacchi estesi e sistematici
contro una popolazione civile; ciò comporta che quando è
commesso un crimine contro l’umanità ne consegue una duplice
responsabilità internazionale dello Stato e dell’individuo organo.

Non è escluso, tuttavia, che crimini contro l’umanità, e quindi atti


che provochino sofferenze gravi e facciano parte di un attacco
“esterno e sistematico”, possano essere commessi da gruppi di
privati, non agenti quali organi di uno Stato determinato. E’ questo
il caso degli atti di terrorismo commessi soprattutto negli ultimi
anni a partire dall’atto più clamoroso a New York e a Washington
che ha scatenato una grave crisi internazionale.

Il concetto di terrorismo designa una complessa realtà


fenomenologia in cui il terrore è certamente il fondamento non solo
etimologico, ma anche sostanziale, del fenomeno. La finalità
principale dei gruppi terroristici è, infatti, quella di porre in essere
azioni violente tali da generare uno stato di panico, di timore
collettivo, creando al tempo stesso una notevole sfiducia nelle
capacità degli organi istituzionali di garantire l'incolumità pubblica.

Infatti, il terrorismo è qualcosa di più della semplice violenza, che


presuppone solo due parti: un aggressore ed una vittima. Esso
implica anche una terza parte, che si vuole intimidire mostrandole
quello che accade alla vittima.
A parte la responsabilità internazionale individuale e la punizione
dei componenti del gruppo terroristico, si discute se l’attacco alle
torri debba essere considerato come un atto di guerra, in
conformità alla tesi sostenuta dagli Stati Uniti, che giustifichi la
risposta armata.

E’ dubbio invece, e gran parte della comunità vi è contraria, che


singoli atti terroristici, o atti che si inquadrino nel principio di
autodeterminazione dei popoli, siano qualificabili come crimini
contro l’umanità.

Ma in che cosa la punizione dell’individuo, che ha commesso un


crimine internazionale, differisce dalla punizione di un criminale
comune quando a punirlo è una Corte Interna?

Il principio che si è affermato a riguardo è quello dell’universalità


della giurisdizione statale: si ritiene che ogni Stato possa
procedere alla punizione ovunque il crimine sia stato commesso.

Normalmente la giurisdizione penale è esercitatile per quei reati che


presentano un collegamento con lo Stato del giudice (collegamento
che è dato dalla circostanza che il reato sia stato commesso nel
territorio di tale Stato - principio della territorialità della legge
penale -)
Tale principio di territorialità viene temperato prevedendosi la
possibilità di punire alcuni crimini più gravi quando questi siano
commessi dal cittadino (o dallo straniero) all’estero.

Per quanto riguarda il diritto internazionale generale, la regola è


che, mentre lo Stato è libero di esercitare la giurisdizione sui suoi
cittadini, lo straniero può essere giudicato solo se sussiste un
collegamento con lo Stato del giudice. Questa limitazione , però,
viene meno quando si tratta di un crimine internazionale. La ratio è
che lo Stato che punisce un crimine persegue un interesse che è di
tutta la comunità internazionale. La punizione dei crimini
internazionali può inoltre aver luogo anche quando il colpevole sia
stato catturato all’estero, violandosi la sovranità territoriale dello
Stato in cui questo si trovava. Lo Stato è inoltre libero di escludere
che tali crimini cadano in prescrizione.

Lo Stato infine può limitarsi a concedere l’estradizione ad uno Stato


che intende punire il criminale.
NORME CHE PERSEGUONO VALORI DI COOPERAZIONE E DI
SOLIDARIETA’

Numerosi sono i limiti che la sovranità territoriale incontra nel


diritto internazionale economico, disciplina che trova i suoi momenti
di maggior interesse nella parte che riguarda i rapporti tra Paesi
industrializzati e Paesi in via di sviluppo.

Però occorre sottolineare che il diritto internazionale economico è


quello tra i settori che in passato rientravano nel dominio riservato
degli Stati e che è il settore in cui norme di diritto consuetudinario
sono assenti, essendo un settore dominato dalle norme
convenzionali.

Una serie di principi sono stati enunciati dall’assemblea generale


delle Nazioni Unite, dall’UNCTAD e da altri organi dell’ONU o di altre
organizzazioni internazionali, come i principi sulla cooperazione
per lo sviluppo contenuti nella Dichiarazione sul nuovo ordine
economico internazionale, nella Carta dei diritti e doveri economici ,
nella Dichiarazione sulla rivitalizzazione dei Paesi in sviluppo e
infine nella Dichiarazione della Conferenza di Rio su ambiente e
sviluppo.

Si tratta di principi di carattere programmatico che descrivono


come i rapporti tra Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo
debbano essere convenzionalmente regolati. E’ proprio sulla base di
questi principi che si è formata tutta una rete di convenzioni
bilaterali e multilaterali, finalizzata alla cooperazione allo sviluppo,
rete che ha posto limiti alla libertà degli Stati di regolare i rapporti
economici come credono.

Oltre agli accordi di cooperazione e sviluppo, l materia è limitata da


numerosissimi accordi tendenti alla liberalizzazione del commercio
internazionale, in particolare all’abbattimento degli ostacoli alla
libera circolazione delle merci dei servizi e dei capitali
all’integrazione delle economie statali su scala regionale.

E’ importante ribadire che, nella materia economica, il potere di


governo dello Stato non incontra altri limiti di diritto
consuetudinario se non quelli relativi al trattamento degli interessi
economici degli stranieri.
In realtà alcuni tentativi sono stati fatti in dottrina per individuare
altri limiti di carattere generale e i più interessanti tentativi sono
quelli che si riferiscono alla irrogazione di sanzioni in base alla
legislazione antitrust o alla legislazione riguardante il commercio
internazionale. Si sono così affermate diverse teorie in base alle
quali lo Stato non debba cmq interferire negli interessi economici
essenziali stranieri, oppure che tali interessi debbano essere
oggetto di una ponderazione, o infine che ciascuno Stato debba
esercitare il proprio potere nella materia entro “ragionevoli limiti”.

Tutto ciò è stato detto per reagire soprattutto alla pretesa degli
Stati Uniti , manifestatasi soprattutto nel campo della legislazione
antitrust ed in quello del boicottaggio del commercio verso i Paesi
non amici, ad imporre obblighi alle imprese di tutto il mondo ,
ovviamente con la minaccia di colpirne beni ed interessi in territorio
statunitense. Una simile pretesa ha però sempre incontrato
l’opposizione degli altri Stati e in particolare dell’Unione europea. Si
tratta di una pretesa condannabile come fenomeno di imperialismo,
quanto meno giuridico.

In tema di protezione dell’ambiente vengono in rilievo i limiti alla


libertà di sfruttamento delle risorse naturali del territorio, onde
ridurre i danni causati dalle attività inquinanti o capaci di produrre
distruzioni di risorse irrimediabili.
Anzitutto ci si chiede se la libertà di sfruttamento incontra limiti di
carattere consuetudinario.

Il problema si è posto anzitutto nel quadro dei rapporti di vicinato,


soprattutto per quel che riguarda l’utilizzazione dei fiumi
internazionali e alle immissioni di fumi e sostanze tossiche dovute
ad attività industriali poste in prossimità dei confini. Il principio n.
21 della Dichiarazione adottata a Stoccolma nel 1972 ,dalla
conferenza di Stati sull’ambiente umano e ripreso nella
Dichiarazione di Rio del 92, ha affermato che “…gli Stati hanno il
diritto sovrano di sfruttare le loro risorse naturali conformemente
alla loro politica sull’ambiente e hanno l’obbligo di assicurarsi che le
attività esercitate entro i limiti della loro sovranità non siano danni
all’ambiente di altri Stati…”. Tali dichiarazioni però, non hanno di
per sé carattere vincolante. Può dirsi che l’obbligo che sanciscono
corrisponde al diritto consuetudinario internazionale, ma il Conforti
è dell’opinione che sia assai azzardato ricostruire norme di diritto
generale che impongano allo Stato obblighi precisi relativamente
agli usi nocivi del territorio. Forse può anche affermarsi che vi sia
un obbligo di informare gli altri Stati dell’imminente pericolo di
incidenti , ma per il resto mancano punti di riferimento tali da
giustificare la conclusione che gli Stati si sentano effettivamente
vincolati a impedire l’uso nocivo del territorio.

L’unico caso citabile a favore di un ipotetico vincolo è quello relativo


alla Fonderia di Trail e alla sentenza arbitrale emessa nel 1941 tra
Stati Uniti e Canada in cui si affermava che “ Secondo i principi di
diritto internazionale nessuno Stato ha il diritto di usare o
permettere che si usi il proprio territorio in modo tale da provocare
danni al territorio di un altro Stato o alle persone e ai beni che vi si
trovino…”

L’importanza di tale sentenza va molto ridimensionata nel momento


in cui si considera che Stati Uniti e Canada erano d’accordo nel
senso di un risarcimento. Ad ogni modo si tratta di un caso
circoscritto sul quale non è possibile costruire un obbligo, anche
perché in questi casi gli Stati sono sempre restii ad ammettere la
loro responsabilità e laddove si provvede ad un qualche indennizzo
alle vittime, si ha sempre cura di sottolineare il carattere cortese e
generoso dell’indennizzo stesso.

Per quanto riguarda il diritto pattizio, invece, gli accordi sia


bilaterali che multilaterali si moltiplicano sempre di più. Tuttavia è
raro che simili accordi comminino dei divieti precisi. Le convenzioni
si limitano a stabilire obblighi di cooperazione, di informazione e di
consultazione tra le parti contraenti ispirandosi ai criteri dello
sviluppo sostenibile, della responsabilità intergenerazionale e
dell’approccio precauzionale.

Il trattamento degli stranieri


Due sono i principi fondamentali in materia di trattamento degli
stranieri.

1. Il primo prevede che allo straniero non possano imporsi


prestazioni, e più in generale non possano richiedersi
comportamenti che non si giustifichino con un sufficiente
“attacco” dello straniero stesso con la comunità territoriale. In
altre parole, l’intensità del potere di governo sullo straniero e
sui suoi beni deve essere proporzionata all’intensità dell’
”attacco sociale”.
2. Il secondo prevede il principio dell’obbligo di protezione dello
straniero secondo il quale lo Stato deve predisporre misure
idonee a prevenire e a reprimere le offese contro la persona o
i beni dello straniero, l’idoneità essendo commisurata a quanto
di solito si fa per tutti gli individui (sudditi quindi compresi) in
uno Stato civile, cioè in uno Stato “il quale provveda
normalmente hai bisogni di ordine e sicurezza della società
sottoposta al suo controllo”. Per quanto riguarda le misure
preventive esse devono essere adeguate alle circostanze
relative ad ogni singolo caso concreto. Per quello che riguarda
le misure repressive, occorre che lo Stato disponga di un
normale apparato giurisdizionale innanzi al quale lo straniero
possa var valere le proprie pretese ed ottenere giustizia. Si
chiama diniego di giustizia l’eventuale illecito in questa
specifica materia.

Su questi due principi si innestano le rivendicazioni dei Paesi in


sviluppo aventi per oggetto la sovranità permanente sulle risorse
naturali, nell’ambito degli investimenti stranieri. Non è possibile
non tener conto di queste rivendicazioni, piuttosto si deve fare ogni
sforzo per attuare una sintesi tra le posizioni. In particolare può
farsi capo all’art. 2 lett. A e B della Carta dei diritti economici degli
Stati secondo cui ogni Stato sarebbe libero di disciplinare gli
investimenti “in conformità alle sue leggi e regolamenti ed alle
priorità ed obiettivi nazionali di politica economica e sociale” e di
adottare tutte le misure necessarie affinché tale disciplina sia
rispettata in modo particolare dalle multinazionali. Una simile
regola, il cui scopo è quello di evitare gli abusi, può essere
considerata come l’attuale regola generale di diritto internazionale
in materia di investimenti.
Nella materia del trattamento degli investimenti stranieri va
inquadrato il problema della disciplina internazionalistica delle
espropriazioni e delle altre misure restrittive di proprietà,
diritti e interessi degli stranieri.

Il problema si è posto soprattutto con riguardo alle


nazionalizzazioni nella seconda metà del secolo scorso.
Attualmente la prassi delle nazionalizzazioni si va esaurendo ma il
problema continua ad avere tutta la sua importanza con riguardo
alle altre misure che interferiscono nel godimento dei beni degli
stranieri. In realtà nessuno dubita dell’assoluta libertà dello Stato di
operare espropriazioni e nazionalizzazioni dei beni stranieri, né
tantomeno del fatto che il passaggio allo Stato dei beni debba
essere sorretto dal motivo della pubblica utilità.

L’unica importante questione è quella che riguarda l’indennizzo che,


secondo la correte di pensiero prevalente, sarebbe dovuto, alla luce
del fatto che nessuno Stao si è mai schierato contro tale obbligo,
che lo stesso è riconosciuto dalla Dichiarazione di principi sulla
sovranità permanente sulle risorse naturali del 1962, e che la
corresponsione si ricollega a quella di equa remunerazione del
capitale, l’unico limite allo Stato in materia di investimenti stranieri.
In realtà molta confusione si è creata circa le modalità di
pagamento e circa il quantum dovuto.
In definitiva, con riguardo all’espropriazione esso dovrebbe sempre
essere: pronto, adeguato ed effettivo.

Per quanto riguarda le nazionalizzazioni esso dev’essere corrisposto


onde nn produrre un indebito arricchimento a danno delle
compagnie straniere espropriate, ma nel calcolarlo, si deve anche
tener conto dell’indebito arricchimento derivato alle compagnie
stesse dai superprofitti conseguiti per effetto dello sfruttamento
delle risorse locali.
Agli stessi principi si ispira l’art 2 della Carta dei diritti e doveri
economici degli Stati che, pur riconoscendo il dovere di
indennizzare, prevede che lo Stato nazionalizzante determini
l’indennità “sulla base delle sue leggi, dei suoi regolamenti e di ogni
circostanza che esso giudichi pertinente”.

A questo stesso tema si riallaccia il problema del rispetto dei debiti


pubblici contratti con gli stranieri dallo Stato predecessore (nei casi
di distacco, smembramento etc…). La dottrina classica era
favorevole alla successione del debito pubblico, ma il nuovo
indirizzo tende a seguire i principi valevoli per la successione dei
trattati: si ammette la successione per i debiti localizzabili e non per
quelli generali dello Stato predecessore, salvo un accollo
convenzionalmente stabilito.

Nessun limite è previsto dal diritto internazionale per quanto


riguarda l’ammissione e l’espulsione degli stranieri essendo valida
in pieno la norma sulla sovranità territoriale, che permette allo
Stato la piena libertà di stabilire la propria politica nel campo
dell’immigrazione e di ordinare a stranieri di abbandonare il proprio
territorio.
Tuttavia, limiti particolari in tema di espulsione vengono dati dalle
convenzioni sui diritti umani. L’art. 3 della Convenzione delle
Nazioni Unite contro la tortura o altri trattamenti crudeli, disumani
o degradanti del 1984 , obbliga gli Stati a non estradare o espellere
una persona verso Paesi in cui questa rischia di essere sottoposta a
tortura. A questo va aggiunto l’art 8 della Convenzione che prevede
il rispetto della vita familiare, quando l’espulsione comporterebbe
una ingiustificata e sproporzionata rottura della vita familiare.

Se lo Stato non rispetta le norme sul trattamento degli stranieri


compie un illecito internazionale nei confronti dello Stato al quale lo
straniero appartiene. Pertanto, lo Stato della parte maltrattata
potrà esercitare la c.d. PROTEZIONE DIPLOMATICA , ossia
assumere la difesa del proprio suddito sul piano internazionale: egli
potrà agire con proteste, proposte di arbitrato, minacce di
contromisure contro lo Stato territoriale, al fine di ottenere la
cessazione della violazione ed il risarcimento del danno causato al
proprio suddito.

Prima però che lo Stato agisca in protezione diplomatica occorre


che lo straniero abbia esaurito tutti i rimedi previsti
dall’ordinamento dello Stato territoriale, purchè adeguati ed
effettivi, secondo la regola del previo esaurimento dei ricorsi
interni. Finchè tali rimedi esistono, e dunque lo Stato territoriale ha
la possibilità di eliminare l’azione illecita o di fornire una riparazione
adeguata alla straniero, le norme sul trattamento dello straniero nn
possono considerarsi violate (natura sostanziale della regola).
L’istituto ha oggi una posizione residuale, anche nel senso che non
devono esserci altri rimedi internazionali efficaci azionabili dagli
Stati stranieri stessi.
Occorre aggiungere che lo Stato che agisce in protezione
diplomatica è titolare esclusivo di questo diritto. Pertanto, egli potrà
in ogni momento rinunciare ad agire, sacrificare l’interesse del
suddito ad altri interessi, transigere, etc…

Va ancora notato, che l’istituto di protezione diplomatica è oggetto


di contestazione, limitatamente ai rapporti economici facenti capo a
stranieri, da parte di Stai in sviluppo. Questi si rifanno alla dottrina
Calvo, dottrina che prende il nome dall’internazionalista argentino
che l’abbozzò nel secolo scorso come risposta contro la pretesa
degli Stati europei di intervenire militarmente nei paesi dell’America
Latina col pretesto di proteggere i propri sudditi, e secondo la quale
le controversie in tema di trattamento degli stranieri sarebbero di
esclusiva competenza del Tribunale locale. Ad una simile dottrina si
sono sempre ispirati gli Stati latino americani, inserendo nei
contratti con le imprese straniere una clausola di rinuncia di queste
ultime alla protezione del proprio Stato.

Gli agenti diplomatici

Particolari limiti alla potestà di governo nell’ambito del territorio


sono previsti dal diritto consuetudinario per quanto riguarda gli
agenti diplomatici. Essi si concretano nel rispetto delle c.d.
immunità diplomatiche che riguardano gli agenti diplomatici presso
lo Stato territoriale e accompagnano l’agente nel momento in cui
esso entra nel territorio dello Stato per esercitarvi le sue funzioni,
sino al momento in cui ne esce.
La materia è regolata dalla Convenzione di Vienna del 1961 in
vigore dal 1965 e ratificata da un numero rilevante di Stati tra cui
L’Italia.

La presenza dell’agente è come quella di qualsiasi straniero, in tutto


e per tutto subordinata alla volontà dello Stato territoriale, volontà
che si esplica per quanto riguarda l’ammissione, attraverso il
gradimento e, per quanto riguarda l’espulsione, attraverso la c.d.
consegna dei passaporti e l’ingiunzione a lasciare entro un certo
tempo, il Paese.

1. Inviolabilità personale: L’agente diplomatico deve essere


innanzitutto protetto contro le offese alla sua persona
mediante particolari misure preventive e repressive. Questa
inviolabilità consiste anche e soprattutto nella sottrazione del
diplomatico straniero a qualsiasi misura di polizia diretta
contro la sua persona.
2. Inviolabilità domiciliare: intendendosi per domicilio sia la sede
diplomatica sia l’abitazione privata dell’agente.
3. Immunità dalla giurisdizione penale e civile: a tal proposito
bisogna distinguere tra atti compiuti dal diplomatico in quanto
organo dello Stato e atti da lui compiuti come privato. I primi
sono coperti da quella che viene chiamata immunità
funzionale: il diplomatico non può essere citato in giudizio per
rispondere penalmente o civilmente degli atti compiuti
nell’esercizio delle sue funzioni. Tale immunità è prevista sia
per garantire all’agente diplomatico l’indisturbato esercizio
della sua attività e sia dalla circostanza che simili atti non sono
imputabili a lui come individuo, ma allo Stato straniero.
Anche gli atti che l’agente compie come privato sono immuni
dalla giurisdizione civile e penale (immunità personale), salvo,
per quel che riguarda la giurisdizione civile, le azioni reali e
successorie o quelle riguardanti attività commerciali
dell’agente. Tuttavia, una volta che la sua qualità di agente sia
venuta meno, egli potrà essere sottoposto a giudizio anche per
gli atti compiuti quando egli rivestiva la carica.
4. Immunità fiscale: sussiste esclusivamente per le imposte
dirette personali

Tali immunità però, spettano anche:

• Ai capi missione
• A tutto il personale diplomatico delle missioni
• Alle famiglie degli agenti e di coloro che fanno parte del
personale
• Ai capi di Stato
• Ai Capi di Governo
• Ai Ministri degli Esteri

Il trattamento degli Stati stranieri

Il principio più classico e conosciuto è quello della “non ingerenza


negli affari di altri Stati”, ma la cui vera portata non è altrettanto
precisata e circoscritta. In realtà il principio è venuto via via
perdendo la sua sfera di autonoma sfera di applicazione con
l’affermarsi di altre e più importanti regole generali che ne hanno
assorbito il contenuto. La più importante è quella costituita dal
divieto di minaccia o di uso della forza, ma vengono in rilievo anche
gli interventi dello Stato diretti a condizionare le scelte di politica
interna e internazionale di un altro Stato (si pensi alle misure di
carattere economico). Anche se è difficile indicare quando tali
interventi si verificano, in linea di principio si può affermare che
esse devono considerarsi come vietate qualora siano
contemporaneamente e sistematicamente prese, ed inoltre abbiano
come unico scopo quello di influire sulle scelte dello Stato straniero
e non siano cioè dirette a reagire contro comportamenti illeciti.
E’ opportuno precisare che nel principio di non ingerenza non
rientrano le manifestazioni di condanna o di critica del sistema
politico o del regime economico e sociale di uno Stato straniero,
fatta eccezione chiaramente per quegli atti politici di propaganda
sovversiva e terroristica.

Un problema interessante in tema di trattamento degli Stati


stranieri è se questi siano assoggettabili alla giurisdizione civile
dello Stato territoriale.
Il Diritto Internazionale classico era favorevole alla cosiddetta
immunità assoluta degli Stati stranieri dalla giurisdizione civile
secondo il principio “par in parem non habet iudicium”.

Oggi, grazie alla giurisprudenza italiana e belga si è verificata


un’inversione di tendenza verso quella che si è chiamata
“immunità ristretta o relativa”.
Secondo tale teoria l’esenzione degli Stati stranieri dalla
giurisdizione civile è limitata agli atti jure imperii (quelli mediante i
quali si esplica la funziona pubblica dello Stato) mentre per gli atti
jure privatorum (cioè a carattere privatistico) non sussisterebbe.
La distinzione tra questi atti non è sempre di facile applicazione. Il
diritto consuetudinario lascia un ampio spazio all’interprete e in
particolare al giudice interno. Inoltre si può sostenere che in caso di
dubbio debba sempre concludersi a favore dell’immunità.

Uno dei campi in cui tale distinzione rileva maggiormente è quello


relativo alle controversie di lavoro in particolare riferimento al
lavoro presso ambasciate ecc. dove è piuttosto difficoltoso stabilire
quali aspetti del rapporto di lavoro stesso debbano essere
considerati per classificarli come pubblicistici o privatistici ai fini
dell’immunità.
Secondo la Convenzione europea sull’immunità degli Stati se il
lavoratore ha la nazionalità dello Stato straniero che lo recluta,
l’immunità sussiste in ogni caso; se il lavoratore ha la nazionalità
dello Stato territoriale, o quivi risieda abitualmente pur essendo
cittadino di terzo Stato, e il lavoro deve essere prestato nel
territorio, l’immunità è esclusa.

Il trattamento delle organizzazioni internazionali

Per quanto riguarda il trattamento dei funzionari delle


organizzazioni internazionali non esistono norme consuetudinarie
che impongano agli Stati di concedere loro particolari immunità, e
tanto meno le immunità diplomatiche; sicché solo mediante
convenzione lo Stato può essere obbligato in tal senso.
Lo Stato nel cui territorio opera ufficialmente un funzionario
internazionale che non abbia la sua nazionalità, è tenuto a
proteggerlo con le misure preventive e repressive previste dalle
norme consuetudinarie sul trattamento degli stranieri.
Ci si chiede poi se sussista un obbligo di protezione anche nei
confronti dell’organizzazione internazionale cui il funzionario
appartiene.
Allo stato attuale la risposta è affermativa, ma tale protezione può
riguardare solo il risarcimento dei danni causati all’organizzazione
in quanto tale e non di quelli recati all’individuo.

Inoltre, nei limiti in cui gli Stati stranieri sono immuni dalla
giurisdizione civile dello Stato territoriale, lo sono anche
le Organizzazioni internazionali. L’immunità delle
organizzazioni dalla giurisdizione può anche essere
prevista da una norma consuetudinaria essendo tante le
sentenze che l’hanno ammessa.

Il Diritto Internazionale Marittimo.

Vedere anche: Le norme Internazionali

La materia del Diritto Internazionale Marittimo ha formato oggetto


di due successive, importanti conferenze di codificazione, la
Conferenza di Ginevra del 1958 e la Terza Conferenza delle Nazioni
Unite sul diritto del mare tenutasi tra il 1974 e il 1982

La Conferenza di Ginevra del 1958 produsse 4 convenzioni:

• la convenzione sul mare territoriale e la zona contigua,


• la convenzione sull’alto mare,
• la convenzione sulla pesca e conservazione delle risorse
biologiche dell’alto mare,
• la convenzione sulla piattaforma continentale.

Inoltre nel 1982 è stata firmata a Montego Bay una nuova


convenzione per la ricodificazione del Diritto Internazionale
Marittimo (ben 320 articoli) che è entrata in vigore soltanto nel
novembre del 1994 ed è stata integrata da un "Accordo applicativo”
che modifica la sua parte XI relativa al regime delle risorse
sottomarine al di là del limite della giurisdizione nazionale. Il motivo
di tanto ritardo era proprio il rifiuto degli Stati industrializzati di
vincolarsi alla parte XI così come redatta a Montego Bay perché
molto sbilanciata per i Paesi industrializzati. Con l’adozione
dell’Accordo applicativo molte sue norme innovative sono state
accettate da tutti i Governi.
Secondo l’art 311 della Convenzione, questa sostituisce le 4
precedenti di Ginevra.

Per vari secoli il diritto internazionale marittimo è stato dominato


dal principio classico della “libertà dei mari”.
Essa significa che il singolo Stato non può impedire e neanche
soltanto intralciare l’utilizzazione degli spazi marini da parte degli
altri Stati né delle comunità che da altri Stati dipendono.
L’utilizzazione degli spazi marini, che viene così a tutti garantita,
incontra il limite che consiste nella pari libertà altrui.
In contrapposizione al principio della libertà dei mari si è sempre
manifestata la pretesa degli Stati ad assicurarsi un certo controllo
delle acque adiacenti alle proprie coste, ma tale principio ha avuto
la meglio sul principio di libertà dei mari solo alla fine del secolo
scorso, quando la tendenza si è invertita ricevendo una tutela nel
diritto internazionale senza precedenti.
Anzitutto si è andato diffondendo nella prassi la figura del mare
territoriale inteso come una zona sottoposta al regime del
territorio dello Stato.
Gli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra
mondiale hanno visto una estensione dei poteri dello Stato costiero,
con la generale accettazione della dottrina presentata dal
Presidente Truman in un proclama famoso del 1945 sulla
piattaforma territoriale: tale proclama rivendicava il controllo
degli Stati Uniti sulle risorse della piattaforma, vale a dire quella
parte del fondo e del sottosuolo marino, che costituisce il
prolungamento della terra emersa.

Dagli inizi degli anni 80, infine, la prassi si è orientata a favore di


un nuovo istituto, propugnato inizialmente dai Paesi dell’America
Latina e poi dalla più gran parte dei Paesi in sviluppo, costituito
dalla zona economica esclusiva, estesa fino e 200 miglia marine
dalla costa: tutte le risorse del sottosuolo e delle acque sovrastanti
sono così considerate di pertinenza dello Stato.

Ma le pretese non si sono fermate qui: alcuni Stati come il Cile,


l’Argentina e il Canada hanno cominciato a voler dichiarare di voler
tutelare il loro interessi in materia di conservazione della specie
ittica in alto mare anche al di là delle rispettive zone economiche
esclusive. Si è a tal punto, coniato un nuovo termine, il c.d. mare
presenziale, per indicare appunto la necessità della presenza dello
Stato costiero ai fini della lotta contro la depredazione della fauna
marina. Sebbene questo istituto abbia incontrato l’opposizione fino
ad oggi degli altri Stati, nulla vieta che in futuro potrebbe ricevere
un eventuale riconoscimento.

IL MARE TERRITORIALE: è, secondo il diritto consuetudinario,


sottoposto alla sovranità dello Stato così come i territori di terra
ferma. L’acquisto della sovranità è automatico: la sovranità
esercitata sulla costa implica la sovranità sul mare territoriale.

L’art 2 della Convenzione di Montego Bay stabilisce che: “La


sovranità dello Stato si estende, al di là del suo territorio e delle
sue acque interne…a una zona di mare adiacente alle coste
denominata mare territoriale”

Esso, ai sensi dell’art 3 della stessa Convenzione, può estendersi


fino ad un massimo di 12 miglia marine dalla costa.

Secondo una dottrina formatasi nel periodo tra le due guerre, lo


Stato costiero avrebbe il diritto di esercitare poteri di vigilanza
doganale in una zona contigua al mare territoriale. Tale dottrina
venne recepita dall’art 24 della Convenzione di Ginevra del 1958 e
poi trasferita nell’art 33 della Convenzione di Montego Bay il quale
recita: in una zona d’alto mare contigua al suo mare territoriale, lo
Stato costiero può esercitare il controllo necessario, in vista

a. di prevenire la violazione delle proprie leggi di polizia


doganale, fiscale, sanitaria e di immigrazione
b. di reprimere le violazioni alle stesse leggi, qualora siano
commesse sul suo territorio o nel suo mare territoriale.

Lo stesso art. 33 fissa a 24 miglia marine la larghezza massima


della zona contigua.
Per quel che riguarda l’Italia, la legge 24.08.1974 n. 359, articolo
unico ha modificato l’art 2 del codice della navigazione estendendo
il nostro mare territoriale a 12 miglia.
Ma da quali punti della costa si misura la distanza di 12 miglia?
L’art.5 della Convenzione fissa il principio generale secondo cui la
base di misurazione del mare territoriale è data dalla linea di bassa
marea. Più importante, però è l’art. 7 che riconosce la possibilità di
derogare a tale principio ricorrendosi al sistema delle linee rette.
Secondo tale sistema, la linea di base del mare territoriale è
segnata seguendo le sinuosità della costa ma congiungendo i punti
sporgenti di questa, o se vi sono isole o scogli in prossimità
congiungendo le estremità di questi, o ancora, in presenza di
caratteristiche naturali che rendano la costa instabile, unendo i
punti più avanzati.

La sporgenza massima utilizzabile deve essere stabilita seguendo


un criterio piuttosto elastico previsto dallo stesso art. 7 : “la linea di
base nn deve discostarsi in misura apprezzabile dalla direzione
della costa” e inoltre” le acque situate all’interno della linea devono
essere sufficientemente legate al dominio terrestre per essere
sottoposte al regime delle acque interne”.

Ancora, si può tener conto degli interessi economici attestati da un


lungo uso delle regioni costiere.
Altra norma importante è l’art. 10 della Convenzione riguardante le
baie.
Secondo i par. 4 e 5 dell’articolo, se la distanza fra i punti naturali
d’entrata della baia nn supera le 24 miglia, si traccia una linea retta
che congiunge detti punti e il mare territoriale viene misurato a
partire da questa linea, considerando le acque della baia come
acque interne; se la distanza eccede le 24 miglia, si traccia
all’interno della baia un alinea retta di 24 miglia in modo tale da
lasciare come acque interne la maggior superficie di mare possibile.

E’ importante precisare che l’art 2 della convenzione considera


come baie solo le insenature che penetrino in profondità nella
costa, la cui superficie si almeno eguale o superiore a quella di un
semicerchio dal diametro di 24 miglia.

L’art. 10 par. 6 parla invece delle c.d. “baie storiche” , cioè quelle
baie sulle quali lo Stato costiero può vantare diritti esclusivi
consolidatesi nel tempo grazie all’acquiescenza di altri Stati. Tali
baie sono da considerare come acque interne indipendentemente
dalla loro superficie. (baie di Chaleur, Chesapeake, Delaware…)
Molto importante è focalizzare un concetto: la determinazione della
linea di base non è tanto importante ai fini della misurazione del
mare territoriale, quanto ai fini della misurazione delle zone le cui
risorse sono di pertinenza dello Stato costiero. Spostandosi verso il
largo, aumenta la possibilità di accaparramento di queste risorse.
Ciò spiega perché molti Stati hanno provveduto alla “chiusura” di
molte baie negli ultimi anni.

Per quel che riguarda i poteri dello Stato sul mare territoriale,
questi sono , in linea di principio gli stessi poteri esercitati
nell’ambito del territorio, ovviamente con le limitazioni che si
accompagnano alla sovranità territoriale.

Il primo limite è costituito dal c.d. passaggio inoffensivo o innocente


da parte delle navi straniere di cui si occupano gli artt. 17 ss. della
Convenzione di Montego Bay.
Ogni nave ha il diritto al passaggio inoffensivo nel mare territoriale,
sia per traversarlo, sia per entrare nelle acque interne, sia per
prendere il largo provenendo da queste e purchè il passaggio sia
“continuo e rapido”.
L’art 19, inoltre, definisce il passaggio inoffensivo come quello che “
nn reca pregiudizio alla pace, al buon ordine o alla sicurezza dello
Stato costiero” precisando, allo stesso tempo, i casi (uso della
forza, esercizi o manovre con armi, propaganda ostile,
inquinamento, pesca, etc) in cui il passaggio nn può considerarsi
inoffensivo.
Se il passaggio non è inoffensivo, lo Stato costiero può prendere
tutte le misure atte ad impedirlo. Eccezionalmente lo Stato costiero
può anche chiudere al traffico per motivi di sicurezza. (art. 25 )
Un altro limite che può considerarsi come tuttora osservato dalla
prassi, riguarda l’esercizio della giurisdizione penale sulle navi
straniere. La giurisdizione penale non può essere esercitata in
ordine a fatti puramente interni alla nave straniera, cioè a fatti che
nn abbiamo alcuna ripercussione nell’ambito esterno e che nn siano
idonea a turbare il normale svolgimento della vita della comunità
territoriale. Su questo punto la Convenzione si discosta dal diritto
consuetudinario, perché l’art. 27 si limita a prescrivere che lo Stato
costiero “non dovrebbe” esercitare la giurisdizione sui fatti interni,
lasciando allo Stato la decisione se esercitare o meno la propria
potestà punitiva.

LA PIATTAFORMA CONTINENTALE: la sua disciplina è contenuta


negli artt. 76 ss. della Convenzione di Montego Bay. Fermo
restando la libertà di tutti gli Stati di utilizzare le acque e lo spazio
atmosferico sovrastanti (art 78), lo Stato costiero ha il diritto
esclusivo di sfruttare tutte le risorse della piattaforma (art 77),
intesa come quella parte del suolo marino contiguo alle coste che
costituisce il naturale prolungamento della terra emersa e che
pertanto si mantiene ad una profondità costante (200 m circa) per
poi precipitare o degradare negli abissi.
Il diritto esclusivo di esercitare il potere di governo sulle attività di
sfruttamento, viene acquistato in modo automatico a prescindere
da qualsiasi occupazione effettiva della piattaforma (art. 77). Tale
diritto, inoltre, ha natura funzionale: lo Stato può esercitare il
proprio potere di governo solo nella misura strettamente necessaria
per controllare e sfruttare le risorse della piattaforma.

Un problema importante è quello che riguarda la delimitazione della


piattaforma tra Stati che si fronteggiano o fra Stati contigui. La
Convenzione di Ginevra risolveva il problema ricorrendo al criterio
dell’equidistanza. Tale criterio consiste nel tracciare una linea i cui
punti siano equidistanti dalle rispettive linee di base del mare
territoriale. Tuttavia, una sentenza importantissima che costituisce
una delle pietre miliari nella materia, la sent. Del 1969 della Corte
Intern. di Giustizia, decretò che il criterio dell’equidistanza nn era
imposto dal diritto consuetudinario. Pertanto, la delimitazione
poteva essere effettuata soltanto mediante accordo tra gli Stati
interessati, ma sempre secondo principi di equità. Quest’ultima
affermazione appare, al Conforti, priva di senso. Infatti subordinare
l’accordo all’equità è insignificante poiché nel momento in cui un
accordo viene concluso, esso resta cmq valido, equi o iniqui i suoi
criteri. Occorre affermare, pertanto, che la giurisprudenza
internazionale, rifacendosi al criterio dell’equità, ha solo indicato dei
criteri pratici , non vincolanti, che hanno un mero carattere
correttivo del criterio dell’equidistanza (da considerare come criterio
base).
L’opinione della Corte è stata recepita dalla Convenzione di
Montego Bay, nell’ art. 83.

La dottrina sulla piattaforma continentale, facendo leva sulla


conformazione delle coste, risulta però, iniqua; infatti se alcuni
Stati hanno un’estesa piattaforma, altri devono fare i conti con una
sua totale assenza o con fosse profonde che la separano dalla
costa. A tale iniquità ha sopperito l’istituzione della zona economica
esclusiva che comporta comunque l’assegnazione allo Stato, a
prescindere dalla conformazione geografica, delle risorse del fondo
marino fino a 200 miglia dalla costa.

ZONA ECONOMICA ESCLUSIVA: a favore di essa si sono


pronunciati praticamente tutti gli Stati e numerosi sono i Paesi che
hanno già provveduto ad istituirla con apposite leggi senza
incontrare opposizioni, tanto che può ormai affermarsi che ci si
trova di fronte ad un istituto di diritto consuetudinario.
La Convenzione di Montego Bay se ne occupa agli artt. 55 ss.
La zona economica può estendersi fino a 200 miglia marine, limite
che essendo calcolato a partire dalla linea di base del mare
territoriale, finisce parecchio a largo…

La terza conferenza, sotto la spinta dei Paesi in sviluppo ha


attribuito allo Stato costiero il controllo esclusivo di tutte le risorse
economiche della zona, sia biologiche che minerali, sia del suolo e
del sottosuolo che delle acque sovrastanti e per la pesca. Gli artt.
61 e 62 della Convenzione stabiliscono che spetta allo Stato fissare
la quantità massima delle risorse ittiche sfruttabili, determinare la
propria capacità di sfruttamento e, solo se questa è inferiore al
massimo, consentire la pesca agli stranieri.

Per quanto riguarda i poteri degli Stati diversi dallo Stato costiero
sulla zona, l’opinione maggiormente difesa, e nn respinta, è che
l’attribuzione delle risorse allo Stato costiero nn debba pregiudicare
la partecipazione degli altri Stati alle altre possibili utilizzazioni della
zona; tutti gli Stati continueranno a godere della libertà di
navigazione, di sorvolo, di posa di condotta di cavi sottomarini.
In realtà è difficile inquadrare la situazione degli altri Stati nella
zona economica in termini di libertà dei mari. Occorre riconoscere
che oggi la situazione sta mutando e la disciplina nn si caratterizza
più per il principio di libertà dei mari. Da un lato vi è il diritto dello
Stato costiero di sfruttare totalmente, esclusivamente e
razionalmente le risorse marine, dall’altro permane la possibilità
degli altri Stati di navigare, di sorvolare, di posare cavi sottomarini
etc…ma si tratta di un regime che non è improntato né alla libertà
di tutti gli Stati, né alla sovranità dello Stato costiero. I diritti hanno
carattere funzionale, nel senso che all’uno e agli altri sono
consentite soltanto quelle attività indispensabili allo sfruttamento
delle risorse e alle comunicazioni e ai traffici marittimi e aerei.

IL MARE INTERNAZIONALE E L’AREA INTERNAZIONALE DEI


FONDI MARINI

Negli spazi marini situati oltre la zona economica esclusiva cessa


ogni tutela degli interessi degli Stati costieri. Il mare internazionale
è l’unica zona in cui trova ancora applicazione il vecchio principio
della libertà dei mari.
Tutti gli Stati hanno eguale diritto a trarre dal mare internazionale
le risorse che questo è in grado di offrire, dalla navigazione, alla
pesca, alla posa dei cavi…

Tali fini, però, non possono essere assicurati che attraverso l’azione
di uno Stato nei confronti delle proprie navi oppure attraversala
cooperazione internazionale.
Naturalmente, trattandosi spesso di risorse esauribili, non è
ammissibile che gli Stati se ne approprino a loro arbitrio fino al
punto di sopprimere ogni possibilità di utilizzazione da parte degli
altri Paesi.

Questo problema è stato affrontato nella Convenzione di Montego


Bay con la costituzione dell’Autorità internazionale dei fondi marini
destinata a presiedere allo sfruttamento delle risorse del fondo e
del sottosuolo del mare internazionale in modo che tutto avvenga
nell’interesse dell’umanità.
Gli organi principali sono : l’Assemblea, il Consiglio, il Segretariato
e l’Impresa.
Quest’ultima è un organo operativo attraverso il quale l’Autorità
partecipa direttamente allo sfruttamento.
L’ obiettivo della tutela degli interessi dell’umanità verrebbe
raggiunto attraverso il sistema dello sfruttamento parallelo,
dividendo ogni area da sfruttare in due parti uguali, l’una attribuita
allo Stato che l’ha individuata e l’altra direttamente sfruttata
dall’Autorità.

LA NAVIGAZIONE MARITTIMA

Il principio generale è che ogni nave è sottoposta esclusivamente al


potere dello Stato di cui ha nazionalità: lo Stato di bandiera o Stato
nazionale ha diritto all’esercizio esclusivo del potere di governo
sulla comunità navale e esercita siffatto potere attraverso il
comandante (considerato come organo dello Stato).
Vediamo ora le eccezioni che tale principio incontra allorché una
nave si avvicini alle coste di un altro Stato:

a. Acque internazionali. La nave pirata può essere catturata da


qualsiasi Stato e sottoposta a misure repressive. Lo Stato nel
cui territorio è in corso una guerra civile può visitare e
catturare qualsiasi nave che si proponga di recare aiuto (in
armi o armati) agli insorti.
b. Zona economica esclusiva. Lo Stato costiero può visitare e
catturare navi e relativo carico per infrazioni alle proprie leggi
sulla pesca o allo sfruttamento delle risorse sottomarine.
c. Mare territoriale. Rilevano i principi già analizzati del diritto
di passaggio inoffensivo e della sottrazione alla giurisdizione
penale dello Stato costiero dei fatti puramente interni alla
nave

Le navi da guerra o comunque destinate a servizi pubblici possono


inseguire una nave straniera che abbia violato le loro leggi purché
l’inseguimento sia continuo e abbia avuto inizio almeno nelle acque
contigue al mare territoriale. Se la nave inseguita entra nelle acque
territoriali di un altro Stato l’inseguimento cessa.
Per quanto riguarda la nazionalità delle navi occorre che tra queste
e lo Stato che concede la bandiera esista un legame sostanziale
(genuine link).

La protezione dell’ambiente marino

La lotta all’inquinamento marino non può non fondarsi su una


stretta cooperazione internazionale. Ecco perchè la Convenzione di
Montego Bay dedica all’argomento più di quaranta articoli. Tuttavia
nella prassi non vi sono elementi che inducano ad affermare
l’esistenza di obblighi particolari in materia in capo agli Stati.
Deve ritenersi pertanto che l’art. 192 della Convenzione, quando
dichiara che “gli Stati hanno il dovere di proteggere e preservare
l’ambiente marino”, sancisca un principio non codificatorio.
Al contrario, per quanto riguarda il diritto convenzionale numerosi
sono gli accordi, sia universali che regionali, stipulati in materia.
Il secondo problema consiste nello stabilire quale Stato possa
esercitare il proprio potere di governo sulle navi onde impedire
fenomeni di inquinamento.
Ad imporre divieti ed a comminare sanzioni saranno lo Stato della
bandiera e, nelle zone sottoposte a giurisdizione nazionale, lo Stato
costiero.
Inoltre, è ammesso l’intervento eccezionale su una nave altrui in
acque internazionali per prendere le misure strettamente
necessarie ad impedire o attenuare i danni derivanti da un incidente
già avvenuto.

LA VIOLAZIONE DELLE NORME INTERNAZIONALI E LE SUE


CONSEGUENZE

IL FATTO ILLECITO E I SUOI ELEMENTI COSTITUTIVI

E’ probabile che il diritto interno non riesca, nonostante le norme di


adattamento, ad evitare che lo Stato incorra in una violazione del
diritto internazionale o , come si dice, in un fatto illecito
internazionale.
Si pone allora il problema della responsabilità internazionale degli
Stati, problema che consiste nel chiedersi, anzitutto, quando
esattamente si ha un fatto illecito internazionale, ossia quali sono i
suoi elementi costitutivi, e poi quali conseguenze scaturiscono dal
medesimo, in particolare di quali mezzi si dispone nell’ambito della
comunità internazionale per reagire contro di esso.
E’ doveroso ricordare anzitutto, le importantissime ricerche di
ANZILOTTI, KELSEN e AGO, che hanno segnato svolte decisive nella
sistemazione della materia. Già all’epoca della Società delle Nazioni
vari tentativi di codificazione furono fatti sia ad opera di istituzioni
scientifiche sia in seno alla Società stessa, senza però lasciare
traccia. Dal lontano 1953 la Commissione di diritto internazionale
delle Nazioni Unite ha poi intrapreso lo studio dell’argomento, ma
un progetto definitivo di codificazione ha visto la luce solo nel 2001,
dopo quasi 50 anni; il che è prova della complessità della materia
nonché delle forti implicazioni politiche che essa presenta.

Nel 1980 la Commissione approvò in prima lettura, la prima parte


di un progetto di articoli (il vecchio progetto) redatto
sostanzialmente da AGO, progetto che si limitava ad occuparsi
dell’origine della responsabilità, ossia degli elementi dell’illecito
internazionale.
Il progetto definitivo ha visto la luce nell’agosto del 2001. Esso si
occupa, in 60 articoli, sia degli elementi, che delle conseguenze
dell’illecito.

Esso si suddivide in tre parti:

• PRIMA PARTE = origine della responsabilità che riprende la


quasi totalità delle formulazioni del relatore Roberto Ago e
tratta in 35 articoli degli elementi del diritto internazionale; il
testo costituisce la base della trattazione del tema della
responsabilità.
• SECONDA PARTE = contenuto, forma e gradi della
responsabilità, cioè le conseguenze dell’illecito ( artt. 35/53)
• TERZA PARTE = soluzione delle controversie (artt. 54/60).

La stesura del progetto relativo alla seconda e alla terza parte fu


portato avanti dal relatore Arangio Ruiz. Nel 1996 il testo completo
è stato approvato in prima lettura dalla Commissione e trasmesso
al Segretario Generale delle Nazioni Unite.

E’ entrato in vigore nel 2001.

Una caratteristica fondamentale delle varie parti del progetto, già


presente nella versione dell’80, è quella di considerare i principi
sulla responsabilità come valevoli in linea di massima per la
violazione di qualsiasi norma internazionale.
E in questo bisogna dare atto alla commissione di diritto
internazionale di aver compiuto finora uno sforzo notevole per
superare le difficoltà e tendere ad una unificazione.

Preme anzitutto chiarire cosa sia un illecito e come esso si formi. Si


tratta del problema della Responsabilità Internazionale che si
determina nel momento in cui un soggetto di diritto internazionale
violi degli obblighi internazionalmente assunti.
Per quanto riguarda l’origine della responsabilità (elementi del fatto
illecito internazionale), possiamo dire che sulle linee generali si sia
formato ormai un largo consenso.

Data la coincidenza tra Stato come soggetto di diritto internazionale


e Stato - organizzazione, possiamo liberamente affermare che il
fatto illecito consiste anzitutto in un comportamento di uno o più
organi statali, comprendendo tra questi tutti coloro che partecipano
all’esercizio di governo. Sono solo gli organi statali con i quali lo
Stato si identifica, i possibili autori delle violazioni del diritto
internazionale.
Il Progetto, dopo aver indicato all’art 2 come elementi del fatto
illecito un comportamento attribuibile allo Stato, specifica poi
all’art. 4 che il primo elemento (elemento soggettivo) consiste nel
comportamento di un qualsiasi organo dello Stato, sia esso
legislativo, esecutivo o giudiziario, del governo centrale o di un ente
territoriale, e che comunque sia tale in base al diritto interno.

Gli artt. 5 ss. prevedono poi varie ipotesi di comportamenti tenuti


da persone che non sono organi ma agiscono in fatto come tali
oppure agiscono sotto il controllo o dietro istruzioni dello Stato.

Una questione molto discussa è se la responsabilità dello Stato


sorga quando l’organo abbia commesso un’azione
internazionalmente illecita avvalendosi di tale qualità , ma al di
fuori della sua competenza.
La questione attiene ai soli illeciti commissivi (consistenti in azioni)
e riguarda essenzialmente azioni illecite condotte da organi di
polizia in violazione del proprio diritto interno e contravvenendo agli
ordini ricevuti.
Secondo una parte della dottrina ed anche secondo l’art. 7 del
Progetto, azioni del genere sarebbero comunque attribuibili allo
Stato, a dispetto del fatto che l’organo abbia esorbitato dai limiti
della sua competenza; secondo altri autori, invece, l’azione
resterebbe propria dell’individuo che l’ha compiuta e l’illecito dello
Stato consisterebbe nel non aver preso misure idonee a prevenirla.
Il Conforti ritiene che la soluzione dell’art 7 sia la più aderente alla
prassi com’è testimoniato anche dalla Commissione e dalla Corte
europea dei diritti dell’uomo.

Oggi può dirsi che dottrina e prassi siano concordi nel ritenere che
lo Stato risponda solo quando non abbia posto in essere le misure
atte a prevenire l’azione o a punirne l’autore.

Il Progetto si occupa agli artt. 16 ss. del secondo elemento del


fatto illecito, ossia dell’illiceità ( o dell’antigiuridicità) del
comportamento dell’organo statale. Si tratta dell’elemento
oggettivo, contrapposto all’elemento soggettivo.
L’art.16 lo definisce dichiarando: “ si ha violazione di un obbligo
internazionale da parte di uno Stato quando un fatto di tale Stato
non è conforme a ciò che gli è imposto dal predetto obbligo…”

Gli articoli successivi contengono alcune regole dirette a stabilire


quando, e a quali condizioni, una violazione del diritto
internazionale può considerarsi come definitivamente consumata.
Tra queste l’art.18 contiene la regola tempus regit actum, ossia
prevede che l’obbligazione debba esistere al momento in cui il
comportamento dello Stato è tenuto; a loro volta gli artt.24 e 25
stabiliscono quando deve ritenersi che si verifichi l’illecito (tempus
commissi delicti) negli illeciti istantanei, in quelli aventi carattere
continuo e negli illeciti complessi. La determinazione del tempus
commissi delicti è importante a vari fini ma soprattutto in relazione
all’interpretazione dei trattati di arbitrato e di regolamento
giudiziario, che di solito dichiarano di non volersi applicare alle
controversie relativa a fatti avvenuti prima della loro entrata in
vigore o comunque a una certa data critica.

All’elemento oggettivo dell’illecito internazionale attengono le


cause escludenti l’illiceità, che sono quelle circostanze che una
volta verificatesi escludono la responsabilità delo Stato, in quanto
viene meno l’elemento oggettivo della stessa, cioè l’antigiuridicità
del fatto. Di tali circostanze se ne occupa il cap. V, agli artt. 29/33
e sono:

• consenso dello Stato leso


• Forza maggiore o caso fortuito
• Estrema necessità
• Stato di necessità.

L’art. 29 recita: “ il consenso validamente dato da uno Stato alla


commissione da parte di un altro Stato di un fatto determinato
esclude l’illiceità di tale fatto nei confronti del primo Stato sempre
che il fatto medesimo resti nei limiti del consenso.”

La norma dell’art. 29 trova ampio riscontro nella prassi


internazionale ed ha quindi natura consuetudinaria. Si pensi ad
esempio, alle autorizzazioni dello Stato territoriale a che atti
coercitivi siano compiuti da organi stranieri.
Anche se apparentemente si presenta come un accordo, la causa di
esclusione dell’illiceità è sempre sostanzialmente un atto
unilaterale, per l’appunto un’autorizzazione dello Stato, che
altrimenti sarebbe leso, autorizzazione che esplica i suoi effetti in
virtù di una norma ad hoc di diritto internazionale generale.
(tipici sono i casi di intervento militare in territorio straniero,
consentito sotto violenza morale).
Il testo dell’art. 29 finisce col confermare la natura unilaterale del
consenso, riferendo chiaramente a questo il requisito della validità.
L’art. 29/2 il paragrafo 1 non si applica se l’obbligo deriva da una
norma imperativa del diritto internazionale generale.

Una delle più importanti cause di esclusione dell’illiceità è costituita


dall’autotutela ossia dalle azioni che sono dirette a reprimere
l’illecito altrui e che, per tale funzione non possono essere
considerate come antigiuridiche anche quando consistono in
violazioni di norme internazionali. (Artt. 30 e 34 del Progetto)

L’art. 31 annovera tra le cause di esclusione dell’illiceità la forza


maggiore.

E’ invece controverso se per il diritto internazionale, così come


avviene per il diritto penale interno, lo stato di necessità, ossia
l’aver commesso il fatto per evitare un pericolo grave, imminente e
non volontariamente causato, possa essere invocato come
circostanza che escluda l’illiceità.

Nessuno, in realtà, dubita che la necessità possa essere invocata


quando il pericolo riguardi la vita dell’individuo-organo che abbia
commesso l’illecito o degli individui a lui affidati ( distress), per ci
nessuno può dubitare della perfetta conformità al diritto
consuetudinario dell’art 33 del Progetto, dedicata appunto al
distress.

Le incertezze riguardano invece la necessità riferita allo Stato nel


suo complesso, vale a dire le azioni illecite commesse per evitare
che sia compromesso un interesse vitale dello Stato. La dottrina è
unanime nel ripudiare la vecchia tesi che legava la pretesa di un
diritto “ di conservazione” dello Stato e che su tale base finiva col
giustificare ogni sorta di abuso e fenomeni come la conquista e
l’ingrandimento a danno di altri Stati. La disputa, in definitiva
riguarda il punto se una sia pur limitata sfera di operatività allo
stato di necessità sia da ammettere.
L’art. 33 del Progetto si pronuncia in senso favorevole:

“ Lo Stato non può invocare lo stato di necessità come causa di


esclusione dell’illiceità di un fatto non conforme ad un obbligo
internazionale se nonquando tale fatto

A. Costituisca l’unico mezzo per proteggere un interesse


essenziale contro un pericolo grave ed imminente
B. il fatto nn leda gravemente un interesse essenziale dello Stato
o degli Stati nei confronti dei quali l’obbligo sussisteva, oppure
della comunità internazionale nel suo complesso.

In ogni caso lo stato di necessità non può essere invocato

A. se l’obbligo internazionale in questione esclude la possibilità di


invocare lo stato di necessità
B. se lo Stato ha contribuito al verificarsi di detta situazione. “

Per il diritto internazionale consuetudinario la prassi è


estremamente incerta al riguardo. Il Conforti condivide l’opinione
sulla configuarabilità della necessità come mezzo di protezione di
interessi vitali o essenziali dello Stato.
In realtà, una volta bandito l’uso della forza cogente in tutte le sue
manifestazioni, gli spazi per l’utilizzazione della necessità si
riducono a nulla.

Non è del tutto azzardata, inoltre, la tesi per cui l’illiceità sia esclusa
quando l’osservanza di una norma internazionale urti contro i
principi fondamentali della Costituzione dello Stato. La Corte
Costituzionale italiana ha annullato le norme interne di esecuzione
di norme internazionali pattizie contrarie a principi costituzionali.
Del resto nessuno Stato ha mai avanzato proteste in casi del
genere. Ma ciò non trova riscontro nel progetto, infatti tale tesi urta
contro l’art. 32 secondo cui il diritto interno non può avere alcuna
influenza sulle conseguenze dell’illecito internazionale.
Tuttavia questa è una posizione estremamente rigida.

GLI ELEMENTI CONTROVERSI: LA COLPA E IL DANNO

A parte gli elementi fin qui considerati ci si chiede se altri elementi,


o condizioni, siano necessari perché l’illecito si verifichi.
Una questione a lungo dibattuta riguarda la necessità o meno che
sussista la colpa dell’organo statale autore della violazione.
Con ampia generalizzazione possono distinguersi, in riferimento al
problema della colpa, tre tipi di responsabilità:

1. Dolo - si ha quando l’autore dell’illecito ha commesso quest’


ultimo intenzionalmente
2. Colpa grave - si verifica quando l’autore ha commesso il fatto
con negligenza, trascurando di adottare le misure necessarie
per prevenire il danno.
3. Responsabilità oggettiva
o Relativa: si ha quando la responsabilità sorge per effetto
del solo compimento dell’illecito, ma l’autore di quest’
ultimo può invocare, per sottrarsi alla responsabilità una
causa di giustificazione consistente in un evento esterno
che gli ha reso impossibile il rispetto della norma.
o Assoluta: sorge automaticamente dal comportamento
contrario ad una norma giuridica e non ammette alcuna
causa di giustificazione.

Venendo al diritto internazionale per molto tempo, sulle orme del


Grozio, la responsabilità dello Stato fu configurata come
responsabilità per colpa ritenendosi indispensabile ai fini del sorgere
della responsabilità, che il comportamento dello Stato fosse
intenzionale o frutto di negligenza.
Agli inizi del nostro secolo, l’Anzilotti diede un colpo vigoroso alla
tradizione sostenendo la natura oggettiva relativa della
responsabilità internazionale.

Nella definizione di responsabilità internazionale dello Stato si


afferma che essa sorge in capo allo Stato indipendentemente
dall’esistenza a suo carico di una specifica colpa, intesa come
violazione di un obbligo di diligenza, perizia o prudenza nell’evitare
che si produca l’evento dannoso. La soluzione generalmente accolta
dalla dottrina internazionalistica esclude che per aversi
responsabilità internazionale dello Stato sia necessario l’elemento
della colpa, al contrario il regime generale sarebbe quello della
responsabilità oggettiva secondo la quale quando si stabilisce un
legame tra il comportamento dell’organo (elemento soggettivo) e
l’antigiuridicità di tale comportamento (elemento oggettivo) lo Stato
è da ritenersi ipso facto responsabile, a prescindere da qualsiasi
elemento colposo. E’ comunque possibile per lo Stato accusato
dimostrare l’esistenza di una circostanza che escluda tale
responsabilità. La responsabilità oggettiva, quindi rappresenta la
soluzione più valida per assicurare migliori relazioni internazionali e
per garantire l’effettiva riparazione dell’illecito.

Tuttavia, se si esamina la giurisprudenza della Corte europea dei


diritti umani e della Corte comunitaria, ci si rende conto che
un’indagine sul dolo o sulla colpa degli organi dello Stato non è mai
stata condotta.
Il Progetto non dedica alla colpa alcun articolo e da tale circostanza
può dedursi che il regime di responsabilità oggettiva relativa sia
considerato come il regime generale applicabile.
Resta da chiedersi però come mai la commissione non abbia fatto
salvi neanche i regimi specifici di responsabilità per colpa.

Altra questione controversa è se elemento dell’illecito sia il danno


sia materiale che morale, ossia la lesione di un interesse diretto e
concreto dello Stato nei cui confronti l’illecito è perpetrato. La
Commissione ha preso posizione negativa a riguardo già all’epoca
del vecchio progetto, in vista del fatto che vi sono oggi norme di
diritto internazionale la cui inosservanza da parte di uno dei loro
destinatari è certamente sentita come un illecito nei confronti di
tutti gli altri, anche quando un interesse diretto e concreto di questi
ultimi non sia leso. La posizione della Commissione è certamente da
condividere.

LE CONSEGUENZE DEL FATTO ILLECITO

Una volta commessa una violazione del diritto internazionale lo


Stato deve risponderne. Ma in cosa consiste la sua responsabilità e
quali sono le conseguenze del suo fatto illecito?
La II parte del Progetto si riferisce al contenuto, forme e gradi della
responsabilità internazionale, si riferisce cioè a ciò che si deve fare
nel momento in cui si verifica un illecito internazionale.

Le conseguenze del fatto illecito internazionale hanno formato


oggetto di una estesa interpretazione che ha contribuito in modo
notevole alla sistemazione della materia.

ANZILOTTI
L’opinione oggi più diffusa è che le conseguenze dell’illecito
consistano in una nuova relazione giuridica tra lo Stato offeso e lo
Stato offensore, discendente da una norma apposita, la c.d. norma
secondaria contrapposta alla norma primaria ossia alla norma
violata.
Secondo L’Anzilotti, le cui indagini sono alla base di questa
opinione, le conseguenze del fatto illecito consisterebbero
unicamente nel diritto dello Stato offeso di pretendere, e
nell’obbligo dello Stato offensore di fornire adeguata riparazione:
quest’ultima comprenderebbe sia il ripristino della situazione quo
ante sia il risarcimento del danno, oppure, nel cosa di danno
immateriale, la “soddisfazione” dello Stato offeso.

Lo schema dell’Anzilotti è stato seguito da molti autori lungo tutto


questo secolo con varie aggiunte e modificazioni.

AGO
Importante è la tendenza a riportare sotto la norma secondaria
anche i mezzi di autotutela (che prima non avevano un autonomo
rilievo) in particolare le rappresaglie o contromisure: dal fatto
illecito discenderebbe per lo Stato offeso sia il diritto di chiedere la
riparazione, sia il diritto di ricorrere a contromisure coercitive aventi
il precipuo e autonomo scopo di infliggere una vera e propria
punizione allo Stato offensore.

KELSEN ribadisce l'inutilità di costruire le conseguenze dell'illecito


in termini di diritti/obblighi alla riparazione, ma l'unica conseguenza
immediata è il ricorso alle misure di autotutela e la riparazione
sarebbe solo eventuale e dipenderebbe dalla volontà dello Stato
offeso e offensore di evitare l'uso della coercizione e ricorrere ad un
accordo o all'arbitrato [concezione fortemente imperativistica del
diritto].

Noi crediamo che l'illecito non produca rapporti giuridici. La fase


patologica del diritto internazionale è poco normativa. Le misure di
autotutela sono fondamentalmente dirette a reintegrare l'ordine
giuridico, cioè a far cessare l'illecito e a cancellarne gli effetti. Se lo
Stato offensore ha l'obbligo di porre fine all'illecito e cancellarne gli
effetti, non lo deve fare in base ad un nuovo rapporto o una nuova
norma.

L'altra forma di riparazione (risarcimento del danno) è prevista da


un'autonoma norma di diritto internazionale generale.
Le conseguenze dell’illecito internazionale, pertanto, sono
essenzialmente tre:

1. obbligo di cessazione dell’illecito


2. obbligo di riparazione dell’illecito
3. obbligo di tollerare che lo Stato leso adotti delle misure di
autotutela nei confronti dell’autore dell’illecito.

ART. 41 – CESSAZIONE: Uno Stato il cui comportamento


costituisce un atto internazionalmente illecito avente carattere
continuato ha l’obbligo di cessare tale comportamento, senza
pregiudizio della responsabilità in cui sia già incorso. = La
cessazione ha senso solo quando si è in presenza di un illecito
continuato, un illecito di durata: quando si tratta di un illecito
istantaneo, l’illecito è già cessato, non è più in atto, pertanto non
ha senso chiedere la cessazione dell’illecito. Infatti, tale obbligo è
prescritto in ogni caso di violazione continuativa di una norma in cui
l’esistenza di una situazione illecita non si estingue in un’azione
puntuale ma si perpetua nel tempo. In questo caso si impone la
cessazione dell’azione o omissione contraria al diritto
internazionale, senza pregiudizio della responsabilità in cui lo Stato
autore del fatto è incorso.
Non si tratta di un nuovo obbligo, ma di un obbligo già esistente: se
lo Stato commette una violazione, tale Stato, cessando la sua
violazione, non fa altro che adempiere all’obbligo che già aveva di
non commettere l’illecito.

ART. 42/1 – RIPARAZIONE: Lo Stato offeso ha diritto di ottenere


dallo Stato che ha commesso un atto internazionalmente illecito
piena riparazione sotto forma di restituzione in forma specifica,
risarcimento, soddisfazione ed assicurazioni e garanzie di non
reiterazione, singolarmente o in combinazione. = Vengono messe in
evidenza varie forme di riparazione: prima di tutto la restituzione in
forma specifica, la quale indica l’obbligo per lo Stato autore
dell’illecito di cancellare tutte le conseguenze del fatto illecito e
ristabilire lo stato di cose che sarebbe verosimilmente esistito, se il
suddetto fatto non fosse stato commesso = (ART. 43). Si tratta
della forma principale di riparazione, che l’ART. 43 sottopone a
quattro condizioni:

• che sia materialmente possibile;


• che non comporti la violazione di una norma di jus cogens;
• che non sia eccessivamente onerosa per lo Stato autore del
fatto illecito internazionale;
• che non costituisca un pericolo per l’indipendenza politica e la
stabilità economica dello Stato che ha commesso l’illecito: tale
condizione è inefficace se gli stessi effetti si avessero sullo
Stato leso nell’ipotesi di mancata restituzione.

Questa forma di restituzione in forma specifica non sempre è


possibile, perché potrebbe essere diventata impossibile la
restituzione stessa, ad es. perché l’illecito ha portato alla
distruzione degli oggetti. Questa forma di restituzione si concilia
con il risarcimento (ART. 44), che rappresenta una forma di
riparazione del danno arrecato che si concretizza nella
corresponsione di una determinata somma, a titolo di indennizzo,
allo Stato leso. Esso è corrisposto:

• sia a titolo di riparazione per equivalente: lo Stato offensore è


tenuto a versare una somma di denaro equivalente al valore
che avrebbe avuto la reintegrazione dello status quo ante.
Tale pagamento sostituisce la restituzione in forma specifica;
• sia a titolo di riparazione dei danni provocati: la somma
dovuta sarà quindi o aggiunta alla precedente o corrisposta in
via autonoma.

Il risarcimento costituisce una forma di riparazione universalmente


accettata, finalizzata alla reintegrazione dei danni materiali e
diretti, subiti dallo Stato leso.
Abbiamo, infine, la soddisfazione (ART. 45), che costituisce una
forma di riparazione del pregiudizio morale arrecato dall’illecito e
prescinde dalla corresponsione del risarcimento dei danni. L’ ART.
45 indica diverse forme di soddisfazione:

• le scuse fornite da un organo ufficiale;


• il versamento di una somma simbolica di denaro a titolo di
sanzione o dissuasione per il futuro;
• la punizione agli individui responsabili secondo il diritto
interno;
• l’assicurazione e la garanzia della non ripetizione dell’illecito.

Parlando di risarcimento ai fini dell’ART. 44, si parla di danno


morale e patrimoniale subito dallo Stato; l’ART. 45 parla di danno
imputabile all’individuo da parte dello Stato.

AUTOTUTELA

La normale reazione all'illecito è l'autotutela: farsi giustizia da sé.


Ne consegue una scarsa efficienza e credibilità dei mezzi
internazionali di attuazione del diritto. Il moderno diritto
internazionale impone che l'autotutela non consista nella minaccia o
nell'uso della forza (art. 2 Carta delle Nazioni Unite e previsto
anche dalla consuetudine). L'unica eccezione è la risposta ad un
attacco armato già sferrato (art. 51 della Carta): il diritto naturale
di legittima difesa individuale e collettiva nel caso che abbia luogo
un attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite,
rispettando il principio di proporzionalità. Il divieto di uso della forza
armata non ha altre eccezioni: né per proteggere la vita dei propri
cittadini all'estero, né per grosse violazioni dei diritti umani nei
confronti dei propri cittadini. Quando si parla di uso della forza, non
rientra la forza interna nella sovranità territoriale e nella normale
potestà di governo di uno Stato sovrano.

La fattispecie più importante di autotutela è la rappresaglia o


contromisura. Consiste in un comportamento che in sé sarebbe
illecito, ma che diventa lecito in risposta ad un illecito altrui. Lo
Stato viola, a sua volta, gli obblighi che gravano su di lui.
Ovviamente esistono dei limiti alle contromisure:

1. PROPORZIONALITA' tra violazione e reazione. Non si deve


trattare di perfetta coincidenza tra le due violazioni, ma
mancanza di sproporzione.
2. RISPETTO DEL DIRITTO COGENTE
Non si può violare il diritto cogente, neanche quando si tratti
di reazione per violazione dello stesso tipo. L'unica eccezione è
l'uso della forza per respingere un attacco armato.
3. RISPETTO DEI PRINCIPI UMANITARI
L'art. 50 del Progetto dispone anche che a titolo di
contromisura non possa essere compromessa in alcun caso
l'inviolabilità degli agenti, locali, archivi e documenti consolari
e diplomatici.
4. PREVIO ESAURIMENTO DEI MEZZI PER UNA SOLUZIONE
CONCORDATA DALLA CONTROVERSIA (arbitrato,
conciliazione, negoziato).

La contromisura tende a reintegrare l'ordine giuridico violato. Lo


scopo afflittivo è secondario.
La ritorsione si distingue dalla rappresaglia perché non consiste in
una violazione di norma internazionale, ma in un comportamento
inamichevole (come l'attenzione o la rottura dei rapporti diplomatici
o della collaborazione economica). Non è una forma di autotutela
perché uno Stato potrebbe tenere questo comportamento anche
senza aver subito un illecito. Tuttavia, nella prassi dei rapporti tra
gli Stati, la ritorsione reagisce ad azioni di rilievo puramente politico
e a violazioni di diritto internazionale o ad entrambe
contemporaneamente, perché in genere gli Stati collaborano tra
loro. E' difficile, nella ritorsione, distinguere tra motivazioni politiche
e giuridiche, ma non si può non considerarla una forma di
autotutela quando le secondi sono presenti.

L'autotutela collettiva consiste in un intervento degli Stati che non


hanno subito nessuna lesione in risposta ad una violazione dei diritti
umani, obblighi erga omnes, crimini internazionali per i quali tutti
gli Stati possono considerarsi lesi.
Non si può dire che ciascuno Stato abbia diritto di reagire con
misure di autotutela in caso di violazione in nome dell'interesse
comune. Le norme consuetudinarie prevedono forme di intervento
per Stati terzi in ordine a specifici obblighi internazionali. Si
presuppone una richiesta da parte dello Stato aggredito.
Per le norme consuetudinarie all'autotutela collettiva si può
ricorrere per negare effetti extraterritoriali agli atti di governo
emanati in un territorio acquistato con la forza (per il principio di
autodeterminazione dei popoli) e nei casi di aiuti militari ai
movimenti di liberazione.

Il diritto pattizio tende a limitare piuttosto che estendere l'esercizio


dell'autotutela e prevede la creazione di meccanismi internazionali
di controllo che possono essere messi in moto da ciascuno Stato
contraente ma che comunque difettano di poteri sanzionatori.
Non esistono principi generali che consentano ad uno Stato di
intervanire a tutela di un interesse fondamentale della comunità
internazionale o di un interesse collettivo (solo singole norme
consuetudinarie). E' auspicabile che si consolidi una tendenza verso
l'autotutela collettiva come iniziativa dei singoli Stati che agiscono
in nome della comunità internazionale nel suo complesso, ma che
non sono esenti da atteggiamenti arbitrari.

Uno Stato può obbligarsi con trattato a non ricorrere a misure di


autotutela o a ricorrervi solo a certe condizioni. E' importante
comunque sottolineare che deve essere intesa come extrema ratio.
La WTO subordina l'adozione di contromisure in caso di mancato
rispetto delle decisioni di carattere giurisprudenziale emesse in seno
all'organizzazione, all'autorizzazione dell'organo per la soluzione
delle controversie. L'art. 51 del Progetto dispone che l'attacco
armato come legittima difesa può essere esercitato finché il
Consiglio si sicurezza non abbia preso le misure necessarie per
mantenere la pace e la sicurezza internazionale.

L’ACCERTAMENTO DELLE NORME INTERNAZIONALI E LA


SOLUZIONE
DELLE CONTROVERSIE TRA STATI

La funzione giurisdizionale internazionale

La funzione giurisdizionale internazionale ha ancora oggi natura


arbitrale, essendo ancorata al principio per cui un giudice
internazionale, comunque costituito, non può mai giudicare se la
sua giurisdizione non è stata preventivamente accettata da tutti gli
Stati parti di una controversia. Ed è proprio questo fatto che fa sì
che si privilegi il momento interno dell'applicazione del diritto
internazionale.
Gli Stati sono liberi di deferire ad un Tribunale internazionale una
qualsiasi controversia che riguardi i loro rapporti: ciò che importa è
che siano d'accordo sulla scelta e accettino come vincolante la sua
decisione.
Il processo internazionale ha quindi sostanzialmente carattere
arbitrale, poiché riposa sulla volontà degli Stati.
Il punto di partenza dell'evoluzione dell'istituto è l'arbitrato isolato.
Esso si svolgeva solitamente in questo modo: sorta una
controversia tra due o più Stati, si stipulava un accordo (il c.d.
compromesso arbitrale) con il quale si nominava un arbitro (ad
esempio, un Capo di Stato) o un collegio arbitrale, si stabiliva
eventualmente qualche regola procedurale, e ci si obbligava a
rispettarne la sentenza così emessa. L'istituto si è evoluto: per
facilitare l'accordo, alla fine del secolo scorso, si è cominciato a
ricorrere a degli accorgimenti per l'instaurazione del processo: sono
comparsi i c.d. trattati generali di arbitrato (chiamati anche "non
completi" per distinguerli da quelli successivi "completi") e le
clausole compromissorie. Questi obbligavano gli Stati a ricorrere
all'arbitrato per tutte le controversie che sarebbero sorte in futuro
in ordine all'applicazione e all'interpretazione della convenzione tra
gli Stati stessi.

Questi, quindi, creano soltanto un obbligo de contrahendo, cioè


l'obbligo di stipulare il compromesso arbitrale. Nella seconda fase,
con la fine della prima guerra mondiale, è stata creata la Corte
Permanente di Giustizia Internazionale all'epoca delle Società delle
Nazioni, e poi, nel 1945, la Corte Internazionale di Giustizia. Si
tratta di un corpo permanente di giudici, eletti dall'Assemblea
generale e dal Consiglio di Sicurezza. Resta comunque un tribunale
arbitrale. In questa fase, compare la figura della clausola
compromissoria "completa" e del "trattato generale di arbitrato"
completo. Questi non si limitano a creare l'obbligo di stipulare il
compromesso, ma prevedono direttamente l'obbligo di sottoporsi al
giudizio di un tribunale internazionale già predisposto.

Bisogna comunque sottolineare che la funzione giurisdizionale


internazionale va sempre cedendo il passo ai mezzi diplomatici.
Inoltre è necessario distinguere i tribunali internazionali (destinati a
risolvere le controversie tra Stati) dai tribunali istituiti all'interno
delle organizzazioni internazionali (che risolvono le controversie di
lavoro tra funzionari e l'organizzazione).

Un cenno meritano anche alcuni organi giurisdizionali settoriali che


presentano caratteristiche proprie: spicca, tra essi, la Corte di
Giustizia delle Comunità Europee (con sede a Lussemburgo), che
però si occupa a) dei ricorsi per violazione del Trattato da parte di
uno Stato membro, b) del controllo di legittimità sugli atti degli
organi comunitari e c) delle questioni c.d. pregiudiziali (esempio,
quando un giudice interno deve chiedere l'interpretazione del
Trattato CE, ha il dovere di sospendere il processo e di chiedere una
pronuncia della Corte al riguardo).
Nel 1988 è stato inoltre istituito il Tribunale di primo grado delle
Comunità europee.
La Corte europea dei diritti dell'uomo controlla il rispetto della
convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà
fondamentali da parte degli Stati contraenti.

I MEZZI DIPLOMATICI DI SOLUZIONE DELLE


CONTROVERSIE INTERNAZIONALI

Questi mezzi si distinguono dai mezzi giurisdizionale di soluzione


delle controversie in quanto tendono soltanto a facilitare l'accordo
delle parti: di conseguenza non hanno carattere vincolante per le
parti.
L'accordo può essere innanzitutto facilitato da negoziati diretti tra le
parti medesime, e in genere sono il mezzo più utilizzato.
Si parla poi di buoni uffici o mediazione, quando si verifica
l'intervento di uno Stato terzo, o di un organo supremo di uno Stato
o di un'organizzazione internazionale a titolo personale. La
differenza tra buoni uffici e mediazione è più teorica che pratica: di
solito con i primi ci si limita a indurre le parti della controversia a
negoziare; nella mediazione c'è invece una partecipazione più attiva
del terzo alle trattative.

Molto importante è anche la conciliazione, che si avvicina di più


all'arbitrato. Le commissioni di conciliazione sono di solito composte
da individui e da Stati ed hanno il compito di esaminare tutti gli
aspetti della controversia e formulare una proposta di soluzione che
le parti sono libere di accettare o meno. Le Commissioni di
inchiesta, invece, hanno il compito di accertare il fatto. Il ricorso
alla conciliazione è sempre succedaneo del ricorso all'arbitrato,
soprattutto nei trattati multilaterali. Sempre più spesso è previsto
come obbligatorio il ricorso alla conciliazione, con la conseguente
possibilità per uno degli Stati contraenti di dare unilateralmente
avvio alla procedura conciliativa.

Ai mezzi diplomatici vanno riportate anche le procedure di soluzione


non vincolanti che si svolgono in seno alle organizzazioni
internazionali.
La Carta delle Nazioni Unite stabilisce che gli Stati membri hanno
l'obbligo di risolvere le loro controversie con mezzi pacifici.
Una funzione importante è svolta anche dal Consiglio di Sicurezza,
che dispone di un potere di inchiesta, da esercitare sia
personalmente, sia per mezzo di un organo ad hoc, come ad
esempio un'apposita Commissione. Il Consiglio può anche
sollecitare le parti di una controversia a ricorrere ai mezzi e
procedimenti pacifici. Il Consiglio può rivolgere un invito generico o
indicare uno specifico procedimento.

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