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8 aprile 2013

"Tutti in questa sala siete analfabeti visuali". Peter Greenaway ha iniziato con una provocazione la sua lectio
magistralis, "Come raccontare un'opera d'arte", nell'ambito della rassegna "Il gioco serio dell'arte", curata da
Massimiliano Finazzer Flory, che si è tenuta lunedì sera a Palazzo Barberini di Roma. Un appuntamento gratuito,
giunto alla sua settima edizione, sponsorizzato da Il gioco del Lotto-Lottomatica, rappresentato in sala da Marzia
Mastrogiacomo, direttore di Lotto. Gli unici sollevati forse dall'accusa scherzosa del regista gallese erano i due
coprotagonisti della serata: Anna Lo Bianco, direttore di Palazzo Barberini, che ha paragonato il lavoro di
avanguardia che Greenaway fa tra opere d'arte e immagini digitali a quello di Urbano VIII, fondatore della
galleria Barberini; e Massimiliano Finazzer Flory, che ha recitato un brano tratto dall' "Aleph" di Jorge Louis
Borges, uno degli autori amati in giovinezza dall'artista britannico.
La sala gremita, quattrocento persone raccolte sotto il magnifico affresco di Pietro da Cortona "Il trionfo della
Divina Provvidenza", non ha nemmeno avuto il tempo di reagire alla provocazione di Peter Greenaway che subito
il regista ha rassicurato gli spettatori: "Non è colpa vostra, ma dell'educazione che vi hanno impartito. Nel
periodo più fertile dell'apprendimento, 9, 10, 11 anni, vi hanno dato in mano solo testi, testi e ancora testi. Il
cinema potrebbe migliore questa lacuna, ma la maggior parte dei film è basata su testi, fatta di dialoghi e le
immagini non riescono a sprigionare la loro forza creativa".
La pittura è un elemento centrale nei film di Greenaway – basti citare "I misteri del giardino di Compton House"
(1982), "Il cuoco, il ladro, sua moglie e l'amante" (1989), che ha al suo centro un dipinto di Veronese e uno di
Hals, o "Nightwatching" (2007), che racconta la genesi di un quadro di Rembrandt "La ronda di notte" -, ma
anche nelle ultime performance multimediali in cui il regista utilizza colori, numeri e tracce audiovisive con cui
ricreare i capolavori dell'arte mondiale. Tra queste, la "Ronda di notte" di Rembrandt al Rijksmuseum di
Amsterdam nel 2006, "L'ultima cena" di Leonardo da Vinci a Palazzo Reale a Milano nel 2008 e "Le nozze di
Cana" di Paolo Veronese alla Fondazione Cini nel 2009. Ognuno di queste tele viene "sezionata" in minimi
particolari da fasci di luce, "assolutamente innocui" tiene a precisare l'autore, e di ombre che raccontano i segreti
e il significato che il pittore voleva dare al quadro.
"Nei musei le didascalie accanto a un dipinto danno notizie assolutamente inutili su un quadro, descrivendo
l'oggetto del dipinto, mentre noi dovremmo fare come Picasso che dipingeva quello che pensava non quello che
vedeva. E questa è la missione che dovrebbe perseguire il cinema. Non c'è niente di più straordinario
dell'immaginazione dell'uomo e un film deve riuscire a tirarla fuori".
E proprio interagendo con il suo computer, Greenaway fa rivivere sullo schermo un lavoro progettato per la
Triennale di Milano nel 2007, in cui proietta contemporaneamente su cinque forme geometriche, un quarto di
cerchio, dei rettangoli, un trapezio e un arco di trionfo, immagini diverse che si muovono indipendentemente,
creando un effetto di estremo fascino e sorpresa: uomini e donne che avanzano nudi in penombra, lettere che
vergano un testo antico, capolavori che sono parte ormai del nostro immaginario. E ancora, il Cenacolo vinciano
che si scompone, rendendo lo spettatore partecipe del dolore di Gesù, prima della sua crocifissione,
semplicemente isolando la sua solitudine tra luci e ombre.
"Voglio essere blasfemo. Noi dobbiamo avere un nuovo dio che è la nuova tecnologia, possibile attraverso
l'interazione di tre strumenti: il computer, il cellulare, la videocamera. A Time Square a New York ci sono oltre

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1700 schermi, quello è il teatro del futuro, multisensoriale, non certo i film tridimensionali, come "Avatar" in 3D
di James Cameron, che per me è un esperimento effimero. In questa sala, voi come un teatro tradizionale
guardate verso lo schermo e invece dovreste guardare il soffitto, l'opera di Pietro da Cortona".
Il regista, che è anche pittore, è appassionato del Rinascimento e del Barocco italiano, oltre che della pittura
fiamminga e sì è detto onorato di essere ricevuto a palazzo Barberini, dove è custodita una tela, "Il ritratto di
Stefano IV Colonna" del Bronzino, dei suoi autori preferiti, assieme a Tiepolo e a Veronese. Ma ci sono anche "La
madonna in trono con bambino" di Filippo Lippi, la "Fornarina" di Raffaello, "Giuditta che taglia la testa a
Oloferne" di Caravaggio e altre tele firmate da Lotto, Tintoretto, Tiziano, Guercino, Canaletto e statue di Bernini,
solo per nominarne alcune.
E infatti l'ultima parola, dopo aver proiettato anche "Le nozze di Cana" di Paolo Veronese, è rivolta proprio
all'affresco di Pietro da Cortona: "Spero la prossima volta di poter lavorare su questo soffitto".

8 aprile 2013

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