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Michail Bakunin
Viaggio in Italia
elèuthera
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Indice
Introduzione 9
di Lorenzo Pezzica
CAPITOLO PRIMO
La situazione italiana 53
CAPITOLO SECONDO
Le cinque nazioni 73
CAPITOLO TERZO
Sporchi, brutti e cattivi 85
CAPITOLO QUARTO
Nessuno può restare indefinitamente in preda alla disperazione 91
CAPITOLO QUINTO
La valanga 97
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APPENDICE
Introduzione
L’Italia, come è noto, è stata per lungo tempo una tappa obbligata
del «Grand Tour»2 che spingeva l’intellighenzia europea a visitare
i luoghi della classicità. Ogni uomo di cultura europeo che si rispet-
tasse doveva aver compiuto almeno un viaggio in Italia. Anche l’a-
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Bakunin trascorre in Italia tre anni della sua esistenza, dal 1864
al 1867, visitandola in lungo e in largo, a piedi, sui piroscafi, in
carrozza e in treno. Sono gli anni in cui si gettano le fondamenta
dello Stato unitario ed è tutto un fermento di nuove idee, di istanze
e di rivendicazioni laiche, emancipatrici e umanitarie. Bakunin fa-
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Gli schizzi riprodotti in queste pagine sono stati disegnati a Napoli negli
anni Sessanta dell’Ottocento da Natalya, moglie di Pavel Bakunin.
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Note all’Introduzione
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luni hanno creduto di averlo definitivamente relegato nel campo della curiosità e
dell’aneddotica sociale. Disinvolti utilizzi a fini di battaglia politica, usi e soprat-
tutto abusi del suo pensiero e della sua stessa figura, dispute smaccatamente ideo-
logiche e irrimediabilmente datate, nonostante alcuni spunti seri e interessanti,
appaiono oggi in tutta la loro evidenza. Molto è stato scritto dagli avversari politici
di Bakunin anche sulla scarsa organicità dei suoi testi, utilizzata come stereotipo per
descrivere un rivoluzionario disordinato e inconcludente tanto nei suoi pensieri
quanto nelle sue azioni. È vero che il pensiero di Bakunin ha nell’aspetto formale
un carattere non sistematico, a volte persino confuso (anche se mai contradditto-
rio), ma una lettura attenta di tutta la sua opera fa emergere con grande nettezza
uno sviluppo logico e una sostanziale unità. Eppure, questa mancanza di compiu-
tezza formale ha fatto scrivere a moltissimi critici di diversa estrazione ideologica
che il pensiero di Bakunin è un pensiero impressionistico, episodico e sostanzial-
mente poco originale. Per loro, il rivoluzionario russo sarebbe solo un grande assi-
milatore con letture oltretutto superficiali. E invece la sua dimensione originale
nasce proprio da questa natura solo apparentemente disorganica, una provviso-
rietà e transitorietà che esprimono non solo il momento storico in divenire ma
anche il farsi di un pensiero politico inedito come quello anarchico. La mancanza
di sistematicità rappresenta dunque non il limite ma la grandezza del suo pensiero,
che gli ha consentito di elaborare alcune intuizioni folgoranti che sono andate ben
oltre la sua epoca.
Per lo studio del pensiero di Bakunin, cfr. Giampietro N. Berti, Un’idea esage-
rata di libertà. Introduzione al pensiero anarchico, Milano 1996, e dello stesso au-
tore, Il pensiero anarchico dal Settecento al Novecento, Manduria-Bari-Roma 1998.
Sulle dispute storico-ideologiche del passato, in particolare sulla questione dell’in-
fluenza di Bakunin nella formazione del nascente movimento operaio e socialista
italiano, cfr. per esempio Pier Carlo Masini, Testimonianza del soggiorno napoletano
di Michele Bakunin, in Michele Bakunin, Scritti napoletani (1865-1867), Ber-
gamo 1963, pp. 101-106.
4. Salvatore Lupo, L’unificazione italiana. Mezzogiorno, rivoluzione, guerra civile,
Roma 2011, p. 5.
5. Giulio Bollati, L’italiano, in AA.VV., Storia d’Italia. I caratteri originari, Vol. 1,
Torino 1972. Nel suo celebre saggio, lo storico Bollati contesta la fondatezza della
nozione di «carattere nazionale» non solo mostrando come questa sia il frutto di
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ha vissuto tutta la sua vita persuaso che non solo un altro mondo
fosse indispensabile ma che fosse possibile realizzarlo «qui e ora».
Bakunin è l’anarchismo, e per lui essere anarchico ha significato
conservare la libertà dello sguardo e riconoscere da una parte i mec-
canismi dell’oppressione, della manipolazione e dello sfruttamento
del potere, e dall’altra sentirsi solidale con gli oppressi, gli umiliati,
gli sfruttati, gli offesi, ovunque si trovassero.
1814
Maggio. Russia. Nel villaggio di Pruyamukhino, nella provincia
di Tver’ (oggi Kalinin), il 30 maggio (il 18 del calendario giuliano)
nasce un ribelle. Il suo nome è Michail Aleksandrovicˇ Bakunin.
Michail, che prende il nome dal nonno, è il terzogenito di una
famiglia della nobiltà terriera, composta da dieci figli: quattro fem-
mine e sei maschi. Il padre, Aleksandr Bakunin, è di tendenze mo-
deratamente liberali. La madre, una Muravev, è imparentata con
esponenti del movimento decabrista.
A Pruyamukhino Michail, insieme ai suoi fratelli e sorelle, cre-
sce pieno di entusiasmo, in semplicità e libertà, educato alla mu-
sica, alle lettere, e pronto, in coerenza con il pensiero di Jean-Jac-
ques Rousseau, a far sua ogni idea radicale. Lungo l’intero corso
della sua vita, due cose, oltre alla rivoluzione, avranno il potere di
commuovere Michail in tutte le sue fibre: Pruyamukhino e la mu-
sica.
1827
Marzo. Il 26 muore a Vienna Ludwig van Beethoven. Nel 1824
il compositore tedesco aveva completato la sua ultima sinfonia, la
famosa Nona in Re minore op. 125. Beethoven è il musicista più
amato da Bakunin fin dall’infanzia. Rivoluzione o no, quando può
Michail cercherà sempre di ascoltarne la musica. Nel 1842, quando
è a Dresda, va spesso a casa dell’amico compositore Adolf Reichel
ad ascoltarlo suonare il suo prediletto Beethoven. Il 1° aprile 1849,
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1828
Autunno. Michail ha quattordici anni e mezzo e in quanto pri-
mogenito maschio è destinato alla carriera militare. Il padre de-
cide di mandarlo a San Pietroburgo, dove si sarebbe preparato per
entrare l’anno successivo nella Scuola dei cadetti di artiglieria; non
può immaginare che suo figlio sarebbe diventato un famoso rivo-
luzionario oltre che un convinto antimilitarista.
Nell’attesa della partenza, Michail fantastica: «Il pensiero dei
viaggi mi ossessionava, divenne persistente e contribuì a sviluppare
la mia fantasia. Durante il tempo libero mi abbandonavo al sogno,
mi vedevo lontanissimo dalla casa paterna, in cerca d’avventure.
[…] Questa era la mia attitudine morale quando entrai nell’acca-
demia di artiglieria come cadetto».
1832
Termina la scuola allievi ufficiali di San Pietroburgo e viene no-
minato ufficiale. L’impegno scolastico è stato mantenuto, ma Mi-
chail è decisamente insofferente alla disciplina militare. Le puni-
zioni non si fanno attendere, e presto viene inviato in una sperduta
guarnigione della Lituania per sbollire la sua irruenza. È talmente
sperduta che non succede mai nulla. Michail ne approfitta per de-
dicarsi alla lettura e scoprire l’amore per la filosofia. La scelta viene
da sé: abbandona la carriera militare e decide di frequentare l’uni-
versità a Mosca.
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1835
Si trasferisce a Mosca per studiare filosofia, dove rimane fino al
1839. Qui frequenta il circolo animato da Nikolaj Vladimirovicˇ
Stankevic,ˇ letterato russo di tendenze idealistiche e liberali che ha
da poco abbandonato Kant per Fichte. Stankevicˇ esercita un forte
influsso su tutti i frequentatori del circolo, tra cui ci sono anche
Konstantin Sergeevic ˇ Aksakov e Vissarion Grigor’evic ˇ Belinskij.
L’Introduzione alla vita beata di Fichte diventa il compagno insepa-
rabile di Michail e citazioni dell’opera riempiono gran parte delle
sue lettere in questo periodo. L’anno seguente traduce la Vocazione
dello studente di Fichte, che gli frutta qualche rublo. Nel 1838 pub-
blica la prefazione alle Lezioni universitarie di Hegel.
1840
Luglio. L’interesse per la filosofia tedesca spinge Bakunin a tra-
sferirsi a Berlino per continuare gli studi. Durante il soggiorno ber-
linese, che si protrae fino al 1842, Michail precisa la sua vocazione
alla rivolta che non l’avrebbe più abbandonato. Un incontro deci-
sivo è quello con la sinistra hegeliana. Da quest’ultima, al cui svi-
luppo teorico apporta un contributo non irrilevante, Bakunin de-
riva l’interpretazione rivoluzionaria della dialettica, portandola alle
sue estreme conseguenze. Si avvicina anche alle dottrine socialiste,
stimolato dall’opera di Lorenz von Stein Il socialismo e il comuni-
smo nella Francia contemporanea.
1842
Si trasferisce a Dresda e inizia a collaborare con Arnold Ruge
alla stesura degli «Annali Tedeschi». Sugli «Annali» pubblica il sag-
gio La reazione in Germania, firmato con lo pseudonimo Jules Ely-
sard. La popolarità dello scritto raggiunge molti gruppi giovanili;
la sua conclusione fornisce una delle asserzioni più citate di Baku-
nin: Il desiderio per la distruzione è, allo stesso tempo, un desiderio
creativo. Sempre a Dresda diventa intimo amico del poeta Georg
Herwegh.
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1843
Insieme a Herwegh si trasferisce prima a Berna e poi a Zurigo,
dove incontra Moses Hess e Wilhelm Weitling, uno dei principali
leader della Lega dei Giusti, in seguito Lega comunista. Accusato di
blasfemia per l’opera Il Vangelo del povero peccatore, Weitling viene
arrestato e condannato a dieci mesi di prigione. L’arresto di Wei-
tling e il ritrovamento di un suo taccuino con il nome di Michail
inducono il governo zarista a processare in contumacia Bakunin e
condannarlo alla deportazione e ai lavori forzati in Siberia, oltre
che alla perdita di titolo e beni. Per sfuggire a un possibile arresto,
Bakunin si trasferisce a Bruxelles per alcuni mesi, e infine raggiunge
Parigi.
1844
A Parigi frequenta sia il gruppo della sinistra democratica e so-
cialista francese, sia il gruppo dell’emigrazione tedesca. Stringe rap-
porti cordiali con George Sand, conosce Pierre-Joseph Proudhon e
Karl Marx. L’incontro con Proudhon, in particolare, è intenso e
articolato, come lo stesso Aleksandr Herzen avrà modo di ricor-
dare. Uno scambio di idee fecondo per entrambi nella formula-
zione del loro pensiero politico.
1847
Novembre. Parigi. Al banchetto commemorativo dell’insurre-
zione polacca del 1830 Bakunin pronuncia un violento discorso
contro il governo russo, con il quale invoca la liberazione dei popoli
slavi e la caduta dell’impero zarista. L’ambasciata russa chiede al
governo francese la sua immediata espulsione e l’ambasciatore, per
screditarlo, sparge la voce che Bakunin sia in realtà una spia al soldo
dello zar. È una calunnia totalmente infondata che, ripresa in varie
occasioni dagli avversari del rivoluzionario russo, costringerà Baku-
nin a smentirla più volte nel corso della sua vita. Espulso dalla
Francia, è costretto a riparare a Bruxelles, dove incontra nuova-
mente Marx.
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1848
Febbraio. La rivoluzione di Parigi sorprende Bakunin ancora a
Bruxelles. Decide di tornare nella capitale francese, che raggiunge a
piedi dalla frontiera a causa del blocco dei treni. Preso dall’ebbrezza
di quei giorni, si rivela infaticabile: è presente a ogni convegno, ma-
nifestazione, riunione, barricata ecc. La rivoluzione si diffonde a
macchia d’olio in tutta Europa: Milano, Venezia, Vienna, Berlino,
Paesi Bassi, Danimarca. Bakunin opera principalmente affinché la
rivoluzione raggiunga la Polonia e la Russia, una terra che considera
centrale rispetto all’esplosione della causa rivoluzionaria europea.
Marx ed Engels lo criticano aspramente. Non possono immaginare
che nel 1917 sarà proprio in Russia (non in Inghilterra) che scop-
pierà la tanto attesa rivoluzione. Nel giugno, a Praga, Bakunin par-
tecipa al Congresso democratico come rappresentante degli slavi.
Luglio. Il giornale di Marx «Neue Rheinische Zeitung» pub-
blica un pettegolezzo proveniente da Parigi, e attribuito a George
Sand, secondo il quale Bakunin sarebbe un agente segreto dello
zar responsabile dell’arresto degli «sfortunati» polacchi. Immediata
è la reazione di Bakunin, che invia una smentita al giornale e scrive
alla Sand per chiederle spiegazioni. La scrittrice francese manda
una lettera al giornale, che viene pubblicata il 20 luglio, con la
secca smentita della notizia. La lettera è seguita da una breve nota
redazionale di scuse per l’errore, anche se non rinuncia ad aggiun-
gere: «Noi abbiamo compiuto il dovere della stampa di esercitare
una stretta sorveglianza sui personaggi pubblici, dando così nello
stesso tempo al signor Bakunin l’opportunità di dissipare un so-
spetto che era stato effettivamente avallato in alcuni circoli parigini»
[corsivo mio].
Dicembre. A Lipsia pubblica l’Appello agli Slavi.
1849
Maggio. Bakunin è a Dresda. Sull’onda dei moti rivoluzionari
che da un anno si manifestano in tutta Europa, il 3 maggio scop-
pia l’insurrezione nella città della Sassonia. Bakunin erige barricate
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1850
Gennaio. Bakunin è rinchiuso nel carcere di Königstein e viene
condannato alla pena di morte, poi commutata nel carcere a vita.
Wagner si nasconde in casa della sorella e riesce a fuggire prima a
Weimar e poi in Svizzera.
Luglio. Su richiesta del governo, Bakunin è estradato nell’im-
pero austro-ungarico, dove viene nuovamente condannato alla
pena di morte, poi commutata nell’ergastolo.
1851
Marzo. Mentre è in carcere a Praga e successivamente a Olmütz,
dove tenta il suicidio ingerendo lo zolfo contenuto in alcuni fiam-
miferi, lo zar Nicola I chiede all’Austria di estradare l’ex-ufficiale di
artiglieria. L’11 maggio Bakunin viene rinchiuso nei sotterranei
della sinistra fortezza di «Pietro e Paolo» a San Pietroburgo, la stessa
in cui due anni prima era stato detenuto Fëdor Dostoevskij, arre-
stato per partecipazione a società segreta con scopi sovversivi.
Bakunin riesce a far uscire segretamente un biglietto per l’ado-
rata sorella Tatiana: «La prigione è stata un bene per me. Mi ha
dato tempo per pensare e l’abitudine della riflessione ha, per così
dire, consolidato il mio spirito. Ma non ha cambiato in nulla i miei
sentimenti di un tempo; al contrario, li ha fatti più ardenti e più as-
soluti che mai; da qui in avanti, tutto ciò che rimane della mia vita
si potrà riassumere in una sola parola: Libertà».
Dopo due mesi di stretto isolamento Bakunin può finalmente
ricevere visite, tra cui quella del principe Orlov che gli suggerisce
caldamente di scrivere una confessione allo zar per invocare la gra-
zia. Lo zar Nicola I, che si dà arie di grande umanitario, è infatti di-
sposto a non fucilare Michail purché chieda perdono. E natural-
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mente Bakunin gli chiede perdono, perché non è uomo che si fac-
cia fucilare per così poco. Perché? Perché ha uno scopo nella vita:
fare la rivoluzione. E così scrive la famosa Confessione in cui appa-
rentemente rinnega del tutto il suo passato di rivoluzionario: «Sì,
Sire, io mi confesserò con Voi come con un padre spirituale da cui
ci si attende non il perdono terreno ma quello celeste», firmato:
«Il criminale penitente Michail Bakunin». Il manoscritto resta se-
polto negli archivi zaristi fino al 1921, quando il governo bolsce-
vico, lesto e contento, rende noto il ritrovamento, senza però pub-
blicare il testo. L’intento palese dei bolscevichi è quello di
presentare Bakunin come un bugiardo e un codardo, in modo tale
da rendere definitivamente compromessa la sua figura morale di ri-
voluzionario. Viceversa, l’intenzione della «confessione» è solo
quella di farsi liberare per continuare l’attività rivoluzionaria, come
dimostrano i quindici anni di intensa militanza seguiti alla fuga
dalla Siberia.
1854
Da San Pietroburgo Bakunin viene trasferito nella fortezza di
Schüsselberg, dove contrae lo scorbuto e perde tutti i denti.
1855
Nel bel mezzo della Guerra di Crimea, il 2 marzo muore lo zar
Nicola I. Dopo aver preso un semplice raffreddore sul campo di
battaglia, rifiuta di curarsi e muore di polmonite. Gli succede il fi-
glio con il nome di Alessandro II.
1857
Alessandro II grazia Bakunin. La pena è commutata dall’erga-
stolo all’esilio a vita in Siberia. Viene quindi trasferito a Tomsk.
1858
Sposa una giovane polacca, Antonia Kwiatkowska, figlia del de-
mocratico polacco Ksawery Kwiatkowski, e poco dopo, grazie al-
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1861
Giugno. Scappa dall’esilio siberiano. Con il pretesto di un viag-
gio di affari, raggiunge Nikolajevski, da dove si imbarca per il Giap-
pone. Giunge a Yokohama, e in ottobre salpa alla volta di San Fran-
cisco. In novembre è a New York. Da qui raggiunge Londra.
Finalmente libero! La notizia della fuga di Bakunin ha risonanza in
tutta Europa, Italia compresa.
Dicembre. Bakunin è a Londra. La sera del 27 irrompe in Orsett
House, Westbourne Terrace, a casa di Aleksandr Ivanovicˇ Herzen,
che è a tavola con il poeta Nikolaj Ogarëv, mentre Natalja, seconda
moglie di Ogarëv e amante di Herzen, è sdraiata sul divano. Mi-
chail siede a tavola con loro. È irrequieto, dovunque si trovi non
riesce a stare fermo.
«Che succede in Europa?», chiede Bakunin.
«Qualche dimostrazione c’è solo in Polonia» risponde Herzen.
«E in Italia?».
«Tutto calmo».
«E in Austria?».
«Tutto calmo»
«E in Turchia?».
«Tutto calmo»
«Che fare, allora?», sbotta Bakunin. «Andare a smuovere le acque
in Persia o in India? C’è di che impazzire; io non posso starmene
qui seduto con le mani in mano».
Michail ha quarantotto anni. Fisicamente è invecchiato, irruvi-
dito. Quasi non lo si riconosce. Tuttavia è ancora gigantesco, pesa
circa un quintale: un mastodonte per Herzen; un manzo per il più
prosaico Marx. Ha perso tutti i denti e si lascia crescere disordina-
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1862
Febbraio. Scrive su «Kolokol» (la Campana), la rivista di Herzen,
Ai miei amici russi e polacchi, e agli altri compagni slavi. Scrive anche
La causa del popolo: Romanov, Pugachev o Pestel?.
Giugno. Invia una lettera ad Aurelio Saffi per annunciargli l’in-
tenzione di trasferirsi in Italia: «Verrò assolutamente in Italia nel
mese di settembre». Passeranno invece diciannove mesi prima che
Michail si decida a raggiungere l’Italia.
Metà agosto. Bakunin lascia Londra per un breve soggiorno a
Parigi. Non è noto il motivo e neppure i particolari della visita nella
capitale francese. Certo è che Michail ha l’occasione di incontrare
e conoscere il grande fotografo Nadar, pseudonimo di Gaspard-
Felix Tournachon, decidendo di posare per lui. E così quest’ultimo
può aggiungere il famoso rivoluzionario russo tra i clienti speciali ri-
tratti nel Panthéon Nadar: Baudelaire, Delacroix, Dantan, Doré, i
pittori impressionisti Monet, Manet, Sisley, Pissarro, Morisot,
Degas, Cézanne, Renoir, e tanti altri (compreso Proudhon).
1863
Febbraio. Bakunin, che da Londra si è spostato a Stoccolma, è
completamente preso dalla questione polacca. Nel gennaio di quel-
l’anno è infatti scoppiata l’insurrezione in Polonia. Bakunin è con-
vinto che sia finalmente giunto il momento della rivoluzione slava.
Dalla capitale svedese tenta di unirsi a una legione russa costituitasi
in aiuto ai rivoltosi, ma il progetto non ha seguito. Il fallimento
dell’insurrezione polacca lo convince che una rivoluzione fondata
su ideali nazionalistici sia senza avvenire e che quindi la vera rivo-
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Aleksandr Herzen con alcuni amici e familiari nel giardino della sua ca-
sa londinese di Westbourne Terrace.
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1864
Nella notte tra il 10 e l’11 gennaio Bakunin e Antonia attraver-
sano il Moncenisio. Ha così inizio il «viaggio in Italia». L’11 Baku-
nin è a Torino, dove rimane fino al 15. È un inverno freddo quello
del 1864 in Piemonte, talmente freddo che a Bakunin ricorda
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1865
Giugno. Bakunin lascia Firenze e si trasferisce a Napoli, dove
rimane ininterrottamente fino alla fine dell’agosto 1867, caso raro
nella sua vita nomade. Napoli è la sua vera patria politica, il centro
ideale per la sua attività rivoluzionaria. Il periodo napoletano segna
la definitiva formazione anarchica del suo pensiero e la nascita del-
l’anarchismo come movimento di idee e azioni. A Bakunin piace
molto Napoli, per il clima, per il popolo vivo ed entusiasta, per la
cultura ricca di fermenti rivoluzionari e di una tradizione democra-
tica che risale alla Repubblica del 1799. Oltretutto Michail è un
amante del caffè, e Napoli e il caffè vivono in simbiosi: «Il caffè
per esser buono, deve essere nero come la notte, dolce come l’a-
more e caldo come l’inferno». Nella primavera del 1876, poco
prima di morire a Berna, Bakunin aveva deciso di tornarvi defini-
tivamente per finire lì i suoi giorni.
Nella città partenopea collabora, nel settembre e nell’ottobre
1865, al giornale garibaldino «Il Popolo d’Italia», con una serie di
lettere a firma «un francese» in cui, insieme alla proposta del suo
programma politico, sottolinea la necessità dell’incontro fra intel-
lettuali democratici e masse popolari. Sempre a Napoli conosce e
diventa amico di Giuseppe Fanelli, Saverio Friscia, Carlo Gam-
buzzi, Attanasio Dramis, Carlo Mileti, Alberto Tucci e molti altri
giovani rivoluzionari che diventeranno i primi internazionalisti
anarchici.
Bakunin non soggiorna sempre a Napoli città. Nei primi mesi
vive a Sorrento, a Villa Anastasia. Si trasferisce quindi a Napoli
prima in Vico Belladonna al n. 9 e poi in Vico S. Guido al n. 26,
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1866
Settembre. Svizzera. Si tiene a Ginevra il I Congresso dell’Inter-
nazionale, con una massiccia partecipazione di delegati francesi e
svizzeri, oltre che di rappresentanti inglesi e tedeschi. Si confron-
tano e scontrano le tendenze mutualiste e collettiviste. Importante
è la risoluzione a favore della lotta per la limitazione della giornata
lavorativa a otto ore, che verrà posta come uno dei principali obiet-
tivi dell’Associazione.
Ottobre. Bakunin scrive La situazione italiana, in cui traccia le
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1867
Febbraio. A Napoli gli amici italiani di Bakunin – Fanelli, Fri-
scia, Gambuzzi, Tucci e Caporusso – fondano il circolo Libertà e
Giustizia, che ad agosto inizia le pubblicazioni di un giornale di
tendenza socialista e collettivista con lo stesso nome.
Maggio. Bakunin si trasferisce a Lacco Ameno, nell’isola di
Ischia, dove rimarrà fino ad agosto. Poco prima di lasciare Ischia e
l’Italia, diretto in Svizzera, pubblica La questione slava su «Libertà
e Giustizia». È il primo scritto italiano in cui Bakunin si dichiara
esplicitamente anarchico. L’articolo prende spunto da una lettera di
Herzen pubblicata sullo stesso giornale.
Settembre. Grazie al proficuo lavoro di Bakunin, le società ope-
raie italiane entrano finalmente in contatto con la Prima Interna-
zionale. Sebastiano Tanari e Gaspare Stampa partecipano al Con-
gresso di Losanna. Nel frattempo Bakunin si stabilisce a Ginevra,
dove il 10 settembre pronuncia un discorso al Congresso inaugu-
rale della Lega per la pace e la libertà. Benché priva di qualunque
velleità rivoluzionaria, questa associazione raggruppa i democra-
tici di tutta Europa, tra cui Victor Hugo, John Stuart Mill, Louis
Blanc e Giuseppe Garibaldi. La speranza di Bakunin è di trasci-
narla su posizioni più radicali, ed è appunto con questi intenti che
l’anno successivo partecipa anche al II Congresso della Lega. In
questo periodo scrive il saggio Libertà, federalismo e antiteologismo.
Pur stabilendosi in Svizzera, Bakunin non perde affatto i contatti
con l’Italia. Non solo continua a incitare i suoi amici meridionali
a fondare sezioni dell’Internazionale, ma nella primavera del 1870
compie un breve viaggio a Milano, dove conosce Felice Cavallotti,
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1868
Nasce Carlo, primo figlio di Michail e Antonia.
Settembre. Durante il II Congresso della Lega per la Pace e la Li-
bertà (Berna, 22-26 settembre), l’ala rivoluzionaria guidata da
Bakunin, si separa dai «moderati» dando origine all’Alleanza in-
ternazionale dei socialisti democratici, che si scioglierà l’anno se-
guente per confluire nell’Associazione internazionale dei lavora-
tori. Bakunin aderisce alla sezione ginevrina. Ha inizio da questo
momento il confronto-scontro con Marx, il quale riuscirà con in-
ganni a farlo espellere dall’Associazione durante il Congresso del-
l’Aja del 1872.
Autunno-inverno. Bakunin, insieme a Tucci, scrive La situa-
zione. Lo scritto, pubblicato nel 1869 poche settimane prima dello
scoppio dei moti del macinato, analizza la condizione delle classi la-
voratrici italiane e incita alla rivoluzione sociale. Anche se non avrà
una diretta influenza sui moti del macinato, questo scritto, che
mostra l’urgenza della questione sociale e dell’azione rivoluzionaria,
viene ripreso sulle colonne della stampa democratica italiana, fra
cui «La Plebe» di Lodi [3 aprile 1869] e l’«Almanacco Istorico» di
M. Macchi [a. III, 1870].
L’imposta sulla macinazione del grano e dei cereali in genere,
comunemente nota come «tassa sul macinato», è un’imposta indi-
retta, ideata tra gli altri da Quintino Sella, che ha lo scopo di con-
tribuire al risanamento delle finanze pubbliche e raggiungere il pa-
reggio di bilancio. Promulgata per iniziativa di Luigi Menabrea il 7
luglio 1868, entra in vigore il 1º gennaio 1869: 1 lira in più per
ogni quintale di grano, 2 lire per ogni quintale di granturco.
1869
Marzo. Irrompe nella vita di Bakunin un giovane russo di ven-
tidue anni, Sergej Necaev,
ˇ autore del celebre Catechismo del rivolu-
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1870
Nasce Giulia Sofia, la secondogenita di Michail Bakunin.
Marzo. Marx fomenta l’odio per Bakunin tra i colleghi tedeschi
dichiarando che l’anarchico russo è una spia del partito panslavista,
che verserebbe a Bakunin ben 25.000 franchi all’anno. Ancora una
volta Bakunin deve difendersi da questa calunnia infamante.
Luglio. Scoppia la guerra franco-prussiana. Alle prime sconfitte
francesi, Bakunin intravede subito la possibilità di trasformare la
guerra nazionale in una lotta per la rivoluzione sociale, cosa che in
effetti avverrà nel marzo dell’anno successivo con la Comune.
Agosto-settembre. Bakunin scrive le sue Lettere a un francese, in
cui indica quale sia la via da seguire per provocare il sorgere e il
successivo diffondersi della rivoluzione sociale e quali siano gli
obiettivi da porsi per il suo successo.
Settembre. Lascia Locarno alla volta di Lione. Qui partecipa
attivamente all’insurrezione popolare con la speranza che, una
volta proclamata la rivoluzione sociale, questa possa espandersi
spontaneamente anche in altre città e in altre nazioni, prima fra
tutte l’Italia. Fallita l’insurrezione, immediatamente repressa,
Bakunin è costretto a fuggire inseguito da un mandato di arresto.
Scrive L’Impero Knuto-Germanico. Il titolo è volutamente provo-
catorio: lo knut è la frusta di cuoio non trattato usata per punire i
condannati.
1871
Marzo. Il 18 la popolazione di Parigi insorge. A seguito delle
sconfitte militari subite dalla Francia nella guerra contro la Prussia,
già il 4 settembre 1870 la popolazione parigina aveva imposto la
proclamazione della Repubblica, con lo scopo di ottenere riforme
sociali e la prosecuzione della guerra. Quando anche il governo
provvisorio delude le sue aspettative e l’Assemblea nazionale, eletta
l’8 febbraio 1871, impone la pace e minaccia il ritorno della mo-
narchia, il 18 marzo Parigi insorge cacciando il governo Thiers che
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1872
Primavera-estate. Bakunin soggiorna a Zurigo.
Agosto. Dal 4 al 6 si svolge a Rimini la Conferenza italiana del-
l’Internazionale socialista, cui partecipano i delegati di ventuno se-
zioni, in maggioranza romagnole e marchigiane. Presiede i lavori
Carlo Cafiero. La Conferenza sancisce la prevalenza della fazione
anarchica su quella marxista.
Settembre. Il Consiglio Generale dell’Associazione internazio-
nale dei lavoratori, in cui Marx ha acquisito un peso inaudito, con-
voca il V Congresso dell’Internazionale all’Aja (2-7 settembre
1872). La maggior parte dei delegati è marxista e proviene dal Bel-
gio, dalla Svizzera, dall’Italia, dalla Germania, mentre sono quasi
del tutto assenti i francesi e gli spagnoli. Proprio la mancanza dei
delegati franco-spagnoli fa pesare la bilancia dalla parte dei marxi-
sti. Gli anarchici accusano Marx di avere convocato il Congresso in
modo confuso così da non far arrivare in tempo i suoi oppositori.
Il 7 settembre la maggioranza marxista ratifica l’espulsione di Baku-
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presenti i delegati del Giura, dell’Italia, degli Stati Uniti, e anche al-
cuni delegati francesi e spagnoli, mentre non si presentano i tede-
schi, gli inglesi, i belgi. La riunione sconfessa il Congresso dell’Aja,
giudicandolo non valido in quanto manipolato dai marxisti, e di
conseguenza ne convoca un altro a Ginevra per l’anno successivo
(1-6 settembre 1873).
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1873
Estate. Grazie all’aiuto finanziario di Carlo Cafiero, Bakunin
acquista un ampio appezzamento di terreno a Minusio (nel Can-
ton Ticino), chiamato «La Baronata», dove costruisce una nuova
abitazione.
Scrive Stato e Anarchia, l’unico lavoro compiuto e di ampio re-
spiro scritto da Bakunin. Il libro avrà un grande successo, in parti-
colare in Russia. Viene infatti stampato anche in russo a Zurigo da
un gruppo di giovani fuoriusciti ed esce nei primi mesi del 1874. Ne
vengono stampate 1.200 copie senza il nome dell’autore. Tutte le
copie entrano clandestinamente in Russia, dove il libro passa di
mano in mano raggiungendo una vasta diffusione ed esercitando
un’enorme influenza sul pensiero della gioventù rivoluzionaria.
Neanche a dirlo, secondo Marx è «un’asineria da scolaro».
Nasce Maria, terza figlia di Michail e Antonia.
1874
Agosto. Lasciata Locarno, dove al momento vive anche Carlo
Cafiero, Bakunin raggiunge segretamente Bologna. In questa città
è stata pianificata un’insurrezione, ma il fallimento dell’impresa lo
costringe a riparare in Svizzera. Qui lascia «La Baronata», a causa di
una serie di incomprensioni con Cafiero (che saranno successiva-
mente appianate), e si stabilisce a Lugano.
1875
Nel corso dell’anno la salute di Bakunin inizia a peggiorare. No-
nostante ciò, la sua casa resta un punto di ritrovo per amici e cono-
scenti. In particolare, Bakunin riceve spesso la visita di Sergej Mi-
chajlovicˇ Kravcinskij,
ˇ un giovane scrittore e rivoluzionario russo
che diventerà in seguito famoso con lo pseudonimo Stepniak.
1876
Le condizioni di salute di Bakunin sono ormai irrimediabil-
mente peggiorate e in giugno viene ricoverato in un ospedale di
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Viaggio in Italia
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CAPITOLO PRIMO
La situazione italiana*
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tevano, come ricompensa per una fede così grande, un’unità dell’I-
talia dalla quale sarebbero scaturite gloria, libertà e prosperità na-
zionali. Dal 1859 sono stati i costituzionali a prevalere, e da qui è
derivata quella lunga serie di fatti, ben noti a tutti, che ha avuto
come esito l’unità dello Stato, con la monarchia sabauda e il sistema
parlamentare.
Oggi è arrivato il tempo di domandarci: a che punto siamo ar-
rivati? E di domandare alla monarchia: a che cosa sono serviti gli
innumerevoli e smisurati sacrifici che ha imposto? La risposta è
tanto facile quanto dolorosa. In nome dell’unità, cagione e ragione
della sua esistenza, la monarchia ha venduto Nizza e la Savoia al-
l’impero francese, ha rinunciato a Roma con la Convenzione di
settembre, e minaccia un imminente mercato di altre terre italiane.
La monarchia, che si è imposta al paese e lo ha calpestato in
nome della grandezza e della gloria d’Italia, di cui si è appropriata,
questa monarchia, che disponeva di 400.000 soldati per riconqui-
stare la corona di Belisario, ha fatto sì che 150.000 stranieri scon-
figgessero i suoi 400.000 prodi. Essa ha comprato con l’oro una co-
rona di ferro, ricevendo come elemosina da un altro straniero le
terre italiane per cui era scesa in campo e lasciando tra il Brenta e
il Tagliamento altre terre italiane sotto il tallone dell’austriaco, in-
sieme a 350.000 soldati.
Eppure, che cosa non ha fatto la nazione? Le si è detto: «Ab-
biamo ceduto Nizza e la Savoia perché, deboli come eravamo,
siamo stati costretti ad accettare e a pagare l’aiuto francese; per es-
sere forti abbiamo bisogno di denaro e di uomini». E la nazione ha
dato uomini e denaro. Si è strappata gli occhi dal viso e il cuore dal
petto. Una popolazione di circa 22 milioni ha sborsato in sei anni
9 miliardi e fornito 700.000 soldati alla monarchia, e questa con 9
miliardi e 700.000 soldati ha vilmente ceduto alla volontà antiuni-
taria di un despota straniero [Napoleone III]. Non solo, ha subìto
la vergogna di continui schiaffi da parte della diplomazia europea;
è venuta a patti con il papato – negazione della civiltà, flagello del-
l’umanità – riconoscendogli il diritto di corrodere il cuore stesso
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dell’Italia; si è fatta battere per terra e per mare; e alla fine, sacrifi-
cando tutto, ha perduto tutto: la gloria, la dignità, l’onore!
E non è finita. Nuove e ancor più disastrose calamità incalzano:
la fatale pace armata, la quasi certezza di una guerra di interesse
dinastico e straniero, l’assorbimento completo dell’individuo e dei
suoi beni a profitto dello Stato, la bancarotta inevitabile delle fi-
nanze, e infine, come logica conseguenza e in quanto unico mezzo
a portata di mano, la sostituzione delle attuali forme liberali con il
governo della sciabola tipico degli stati d’assedio.
Come e perché siamo arrivati a una situazione talmente infausta
e come ne usciremo? Ogni partito riversa sugli altri tutte le colpe.
I legittimisti degli ex-Stati della penisola accusano l’unità di es-
sere la causa di tutti i mali. A loro avviso, per attuare un falso prin-
cipio e realizzare un’utopia, abbiamo buttato ogni nostra forza e
tutto il nostro benessere. Ma hanno torto, o meglio mentono. Essi
sanno bene che l’unità di una nazione che parla la stessa lingua trae
la propria origine nelle tradizioni e nei costumi, che questo non è
un falso principio e tanto meno un’utopia. È piuttosto un fatto
che deve necessariamente svilupparsi e realizzarsi via via che si svi-
luppano e realizzano la libertà, il progresso e le istituzioni locali. Il
che spiega come mai i movimenti insurrezionali che hanno avuto
luogo nelle varie regioni d’Italia abbiano interessato l’intera peni-
sola, come mai nel 1848 tutti gli intellettuali e la gioventù bor-
ghese d’Italia si siano sentiti solidali con le Repubbliche di Roma e
di Venezia, come mai il Piemonte abbia, dal 1848 in poi, attratto
e trascinato la maggior parte dell’Italia nella sua vita costituzionale.
La ragione dell’unità, come noi la comprendiamo, sta dunque
nel carattere eminentemente solidale della libertà e del benessere;
una solidarietà inevitabile tra benessere e libertà individuali e locali
che cementa ed edifica in modo imperituro l’unità della nazione.
Che la vergogna ricada dunque su quegli uomini che hanno abbru-
tito il popolo, ricacciandolo nelle tenebre dell’ignoranza e della su-
perstizione del passato, su questi rappresentanti della massima di-
vide et impera. I loro principi e le loro convinzioni sono troppo
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legati alle storie efferate dei tirannelli d’Italia per sperare di attirare
il popolo dalla loro parte e costituirsi in un potente partito. Tornate
dunque nel vostro nulla, partigiani del papato romano, dei Bor-
boni di Napoli, dei ducati di Modena e di Toscana, dei Carignano
di Piemonte, voi siete morti con le dinastie che vi hanno comprati
e non risorgerete mai più.
Gli unitari costituzionali si accusano e denigrano a vicenda, ridu-
cendo la nostra attuale situazione a una questione di buona ammi-
nistrazione. Anche loro si sbagliano, oppure mentono. È ben vero
che in questo lasso di tempo l’Italia ha messo in scena il penoso
spettacolo della nullità e disonestà dei suoi uomini politici. Ed è
vero che con inconcepibile cecità e scandalosa depravazione si sono
sperperate tutte le risorse estorte alla nazione; che si è distrutto,
con una politica asservita e servile, la dignità del paese e la fiducia
in se stesso; che la malafede dei governanti non ha fatto progre-
dire in nulla l’istruzione popolare; che la loro incompetenza ha mi-
nato il commercio, paralizzato la nascente vita industriale, avvici-
nato la bancarotta, frustrato le aspettative dei suoi stessi partigiani
con le disfatte di Custoza e di Lissa. Ma è anche vero che è il par-
tito costituzionale nel suo insieme a essere complice di questi fatti.
Certo, il responso dell’urna elettorale ha premiato alcune celebrità
costituzionali, che per la maggior parte hanno seminato a piene
mani i cattivi semi di cui oggi si raccoglie il frutto. Ma le mino-
ranze, con il loro miserabile sistema di un’opposizione senza scopo
reale e dunque senza programma e senza moralità, sono state il
complemento morale e materiale della maggioranza. Nei sei anni
che sono stati loro accordati, i vertici di questo partito di opposi-
zione parlamentare non hanno saputo mettersi d’accordo su un
solo punto di una certa serietà; viceversa, hanno vanamente parla-
mentato, fino alla parodia.
Dopo i primi cinque anni, gli elettori si sono sbarazzati della vec-
chia maggioranza. Che cosa ha fatto la nuova? Non è forse la sini-
stra costituzionale che ha emanato la legge Crispi proprio come la
vecchia destra aveva emanato la legge Pica? Non è stata complice di
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del sacrificio che fanno con il loro sudore e il loro sangue? No. Lo
abbiamo visto in tutte le rivoluzioni, e domani sarà lo stesso o an-
cora peggio, perché il numero e l’amarezza dei disillusi è cresciuto.
Questa forza popolare, indispensabile all’Italia, invincibile di
fronte ai suoi nemici, non si avrà in nome dell’unità e della gran-
dezza nazionale, ma sarà necessario invocarla in nome di un’idea
che essa comprenda, sarà necessario trovare una leva potente che
possa farla insorgere. Questa leva è la giustizia, che per il popolo si-
gnifica una vera, completa e positiva emancipazione intellettuale, mo-
rale, politica, economica e sociale. Questa leva è la conquista della li-
bertà e del benessere di tutti e di ognuno nel proprio comune, nella
propria regione, nell’intera nazione.
Solo allora il popolo combatterà la sua prima e ultima battaglia.
E la vincerà grazie alla forza del numero, alla sua abnegazione, al-
l’odio accumulato e alla giusta sete di vendetta; la vincerà perché
sulla sua bandiera da un lato c’è scritto lavoro, cioè il motore dell’u-
manità, e dall’altro c’è scritto pane e libertà, cioè i bisogni essenziali
e i diritti inalienabili di ciascun uomo!
Se dunque l’Italia tutta non potrà essere libera, felice e grande se
non per mezzo della rivoluzione; se questa rivoluzione non potrà
farsi se non per mezzo del popolo; e se questo popolo non farà la ri-
voluzione se non a partire dalla propria emancipazione, allora
sgombriamo il campo dagli equivoci e indichiamo chiaramente in
che cosa essa consista.
Tre sono le tirannie secolari che hanno oppresso e abbrutito il
popolo; tre i nemici che deve vincere per avviarsi verso un avvenire
più radioso: la Chiesa, lo Stato centralista e i privilegi sociali che ne
derivano.
La Chiesa rappresenta per il popolo la tirannia della coscienza,
la scuola che inculca il servaggio politico e sociale, il furto e la frode
sul lavoro, l’ignoranza forzata delle classi operaie e contadine. La
Chiesa è il braccio destro, l’occhio vigile e spesso l’intelligenza della
monarchia e dello Stato; e anch’essa deve cadere travolta nel turbine
dell’ira popolare. Solo allora tutte le religioni e i culti saranno liberi
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CAPITOLO SECONDO
Le cinque nazioni*
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loro parenti. Ora, quale padre sarebbe così snaturato da votare con-
tro la carriera del figlio?
Lo Stato italiano è disastroso e disastrato. Si mantiene a stento
solo schiacciando il paese sotto il peso delle imposte; e quel tanto
di ricchezza che rimane a quest’ultimo, serve per foraggiare la con-
sorteria. Alla media borghesia non restano quindi che le briciole,
così la vita diventa ogni giorno più cara, il lusso sempre più raffi-
nato, e con il lusso diventa più raffinata anche la vanità borghese.
Questa vanità, abbinata alla scarsezza delle proprie risorse, la fa vi-
vere in continui imbarazzi che la prostrano, la demoralizzano, le
turbano il cuore e vanificano quel poco di dignità e di spirito che
ancora le restava. Lo ribadisco: questa classe, un tempo così po-
tente, intelligente e prospera, oggi cammina lentamente ma fatal-
mente verso la propria rovina, anzi è già morta, tanto intellettual-
mente quanto moralmente. Non ha più né fede, né pensiero, né
aspirazioni di sorta. Non vuole e non può tornare indietro, ma non
osa nemmeno andare avanti; così vegeta giorno per giorno, ango-
sciata dalle ristrettezze finanziarie e dalla vanità sociale, che ormai
le corrodono il cuore.
Da questa classe escono ancora […] dei bravi giovani pieni di
aspirazioni generose e di ideali, che però sono eccessivamente igno-
ranti, disorientati e spersi nella realtà arida, servile e corrotta che
contrassegna la vita della società borghese oggi in Italia. Tuttavia,
rendiamole giustizia. Tra tutte le gioventù dell’Europa occidentale,
la gioventù italiana è quella che ha dato il maggior numero di eroi
[…]. Ho anche detto che è eccessivamente ignorante; ma non ne
ha colpa. Le università e le scuole d’Italia, prime un giorno in Eu-
ropa, sono oggi rimaste indietro di un secolo, anche solo parago-
nate a quelle francesi. […] Nondimeno, essendosi abituata a cer-
care il proprio pensiero in quello di Mazzini e a cercare la propria
volontà in quella di Garibaldi, è diventata una gioventù dal cuore
grande ed eroica, ma del tutto priva di volontà e cervello propri. E
il peggio è che si è anche abituata a considerare con disprezzo le
moltitudini popolari, a non tenerne affatto conto. Il patriottismo
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astratto di cui si è nutrita per anni alla scuola dei suoi grandi mae-
stri, Mazzini e Garibaldi, finalizzato solo ed esclusivamente all’in-
dipendenza, alla grandezza, alla potenza, alla gloria, all’onore e, se
vogliamo, alla libertà dello Stato unitario, […] l’ha portata a con-
siderare il popolo come una sorta di materiale plastico a disposi-
zione di questo Stato, come una massa passiva, più o meno bruta,
che si deve ritenere onorata e felice di servire come strumento per
conseguire… che cosa? Ma la grandezza e (nel gergo mazziniano-
garibaldino) la libertà dell’Italia.
Se la gioventù si fosse presa la briga di riflettere, avrebbe forse
compreso da tempo che questa indifferenza ben sedimentata delle
masse popolari per i destini dello Stato italiano, lungi dall’essere di-
sonorevole, testimonia della loro intelligenza istintiva, grazie alla
quale intuiscono che questo Stato unitario e centralista non solo,
per sua stessa natura, è a loro estraneo, anzi ostile, ma è proficuo
solo per le classi privilegiate, la cui predominanza e ricchezza garan-
tisce a loro detrimento. La prosperità dello Stato comporta la mi-
seria della nazione reale, del popolo; la grandezza e la potenza dello
Stato comportano l’asservimento del popolo. […]
In definitiva, dopo aver compiuto un’opera gloriosa, la gioventù
italiana è adesso chiamata a compierne un’altra ancora più gloriosa:
deve aiutare il popolo italiano a distruggere quello Stato unitario
che ha fondato con le sue stesse mani. Deve contrapporre alla ban-
diera unitaria di Mazzini la bandiera federale della nazione italiana,
del popolo italiano.
Ma bisogna saper distinguere tra federalismo e federalismo. In
Italia esiste una tradizione federalista regionale che oggi è diventata
una menzogna politica e storica. Diciamolo una volta per tutte: il
passato non torna mai, e sarebbe una grave sventura se tornasse. Ri-
spetto ai liberi comuni e alle associazioni operaie di oggi, quel fe-
deralismo regionale sarebbe infatti solo un’istituzione aristocratico-
consortesca, ovvero un ordinamento politico dall’alto verso il basso.
Un ordinamento veramente popolare comincia invece con un mo-
vimento dal basso, con l’associazione dei municipi. Solo così, orga-
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CAPITOLO TERZO
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CAPITOLO QUARTO
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tanto diversi che spesso gli abitanti di una regione capiscono con
difficoltà o non capiscono affatto i dialetti delle altre. Si capirà al-
lora quanto lontana sia l’Italia dalla realizzazione dell’ideale politico
moderno che postula lo Stato unitario. Ciò non vuol affatto dire
che l’Italia sia socialmente divisa. Al contrario, e malgrado tutte le
differenze nei dialetti, negli usi e costumi, esiste un carattere gene-
rale, un tipo italiano, che permette di differenziare subito l’italiano,
anche meridionale, dagli individui di altra origine.
D’altra parte, una reale comunanza di interessi materiali e una
peculiare identità di aspirazioni morali e culturali uniscono nel
modo più stretto e solido le regioni italiane. Ma va anche rilevato
che tutti questi interessi e tutte queste aspirazioni si contrappon-
gono precisamente all’unità politica ottenuta attraverso la costri-
zione e tendono al contrario a realizzare l’unità sociale; si può
quindi affermare, e dimostrare attraverso innumerevoli fatti tratti
dalla vita italiana di tutti i giorni, che se la sua unità politica o sta-
tale, imposta con la violenza, ha avuto come risultato la divisione
sociale dell’Italia, per converso la distruzione del moderno Stato
italiano avrebbe come effetto necessario quello di consentire all’I-
talia di realizzare liberamente la sua unità sociale.
Tutto ciò evidentemente riguarda solo le masse popolari, perché
negli strati superiori della borghesia italiana, come in quella di tutti
gli altri paesi, insieme all’unità statale si è venuta creando, svilup-
pando, estendendo sempre più l’unità sociale della classe privile-
giata di coloro che sfruttano il lavoro del popolo.
Questa classe viene oggi genericamente definita in Italia la con-
sorteria. La consorteria comprende tutto il mondo ufficiale, buro-
cratico e militare, poliziesco e giudiziario; tutto il mondo dei grandi
proprietari, degli industriali, dei mercanti e dei banchieri; tutti gli
avvocati e i letterati ufficiali e ufficiosi; e tutto il parlamento, dove
la destra si appropria oggi di tutti i vantaggi offerti dal potere, men-
tre la sinistra fa di tutto per impadronirsene a sua volta.
Esiste dunque in Italia, come ovunque nel mondo, una classe
politica una e indivisibile composta da predatori che spogliano il
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terra e delle fabbriche, dei comuni, delle regioni, delle nazioni; e in-
fine, in un futuro più lontano, come la fratellanza universale il cui
trionfo avverrà sulle rovine di tutti gli Stati.
È significativo notare quanto poco successo abbia avuto il pro-
gramma comunista-statalista di Marx sia Italia sia in Spagna, dove
è stato invece largamente e appassionatamente adottato il pro-
gramma della famosa Alleanza dei socialisti rivoluzionari, la quale
ha dichiarato una guerra implacabile contro ogni tipo di domina-
zione o tutela governativa, contro ogni potere e autorità.
Solo a queste condizioni un popolo può emanciparsi, fondare e
organizzare la propria vita sulla più completa libertà di tutti e di
ciascuno; ed è appunto per questo che non si deve temere da parte
dell’Italia e della Spagna una politica di conquista, ma ci si deve
piuttosto aspettare da parte loro, e in tempi brevi, una rivoluzione
sociale.
Gli slavi sono invece sedotti dall’esempio del regno di Piemonte,
che a suo dire avrebbe liberato e unito tutta l’Italia. Al contrario, l’I-
talia si è liberata da sé, grazie agli innumerevoli ed eroici sacrifici
che ha pervicacemente compiuto nel corso di mezzo secolo. La sua
indipendenza politica la deve prima di tutto ai quarant’anni di
sforzi incessanti e irrefrenabili del suo grande cittadino Giuseppe
Mazzini, che ha saputo, per così dire, resuscitare la gioventù italiana
e poi educarla alla causa rischiosa ma gloriosa dell’azione patriottica
clandestina. Tant’è che nel 1848, quando il popolo insorse invi-
tando di nuovo il mondo europeo alla festa della rivoluzione, gra-
zie agli sforzi ventennali di Mazzini si ritrovarono in ogni città d’I-
talia, dall’estremo sud all’estremo nord, falangi di giovani audaci
che issarono il vessillo della rivolta. Tutta la borghesia italiana li
seguì. E nel regno Lombardo-Veneto, ancora sotto la dominazione
austriaca, tutto il popolo si sollevò, scacciando da solo, senza alcun
aiuto militare, le truppe austriache da Milano e dal Veneto.
Che cosa fece allora il regno di Piemonte? Che cosa fece il re
Carlo Alberto, padre di Vittorio Emanuele, lo stesso che – quando
era ancora principe ereditario (1821) – consegnò ai boia austriaci
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CAPITOLO QUINTO
La valanga*
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Giuseppe Garibaldi, figlio del popolo, è stato sin dalla sua gio-
vinezza un partigiano di quella scuola di politici sentimentali che
ha fondato sulle reminiscenze scolastiche della storia di Roma –
splendida ma infame – e su una pretesa necessità del primato ita-
liano una specie di religione patria; una religione edificata su un
mito derivato da quelle storiche e gloriose tradizioni e finalizzata
alla riconquista di quella passata grandezza e della sua sovranità,
quanto meno morale, sul mondo.
Questo programma d’altri tempi si adattava bene a quest’uomo
fatto per altri tempi; e infatti, dopo aver incontrato il capo e il mae-
stro di quella scuola, egli divenne il cuore e la spada di un gran
partito politico reclutato fra la generosa gioventù borghese d’Italia,
proprio come Mazzini ne era l’intelligenza. Queste due grandi fi-
gure le abbiamo viste insieme in Roma nel movimento repubbli-
cano del 1848-1849. In quell’occasione Garibaldi si rivelò un con-
dottiero senza pari, tanto da occupare meritatamente, da quel
momento in poi, un posto nella storia difficilmente immaginabile
nei tempi moderni. Ma a detrimento della causa della democrazia,
abbiamo anche visto il figlio del popolo, l’uomo del popolo, eclis-
sarsi davanti al repubblicano puro, al guerriero e al generale.
Garibaldi non poteva ignorare i bisogni, le miserie e i diritti di
quello stesso popolo dal quale era uscito, e tuttavia non ha mai
combattuto per il suo vero interesse, non si è mai posto come
obiettivo la sua emancipazione dalla secolare tirannia politica e so-
ciale, non ha mai anteposto all’Italia un popolo libero e felice, pre-
ferendo un popolo schiavo e miserabile pur di fare grande l’Italia.
Questo errore, questa pretesa tirannica che gli uomini servano alle
cose e non le cose agli uomini, sono stati fatali sia alla sua vita po-
litica sia al paese che tante speranze aveva legittimamente riposto in
lui. Le conseguenze di questo erroneo principio sono state di aver
immolato la sua fede repubblicana sull’altare della patria e di aver
stretto un’incestuosa alleanza con la monarchia nel 1857, insieme
a Manin e Pallavicino, poi suggellata nel sangue dei suoi prodi ca-
duti nelle guerre dinastiche del 1859. E da allora ha dovuto subire
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razione e il profondo affetto che nutriamo per lui; ma del suo si-
stema diremo quanto la verità ci impone e quanto il dovere di pro-
paganda dei principi nostri richiede.
Noi non siamo mazziniani, e anzi vediamo nell’ipotetico trionfo
del suo sistema – che d’altronde riteniamo impossibile – una sven-
tura per la nazione. Noi riteniamo il programma mazziniano insuf-
ficiente a soddisfare le esigenze democratiche e scientifiche dell’oggi,
impotente a cambiare positivamente le condizioni miserevoli del
paese. Un tempo la formula «Dio e Popolo» incitava a imprese ar-
dite e rendeva bello il patibolo alla gioventù borghese d’Italia; oggi
questa medesima gioventù corre a schierarsi fra le fila dei liberi pen-
satori e in nome della scienza rinnega quella idea tirannica di Dio
formulata in epoche oscure da uomini che l’hanno plasmata a pro-
pria immagine, attribuendole tutte le malvagie passioni che cova-
vano nel loro seno […]. Eppure Mazzini si ostina a mantenere in-
tegra questa formula. Non molto tempo fa fustigava i liberi
pensatori di Lombardia con severe parole di biasimo per aver atten-
tato all’esistenza di questa causa assoluta, che tramite la religione
del dovere, l’abnegazione e il sacrificio degli uomini deve far risor-
gere la Gran Madre latina, affinché essa possa compiere la sua mis-
sione umanitaria, ovvero riportare l’universo a nuova vita e diven-
tare la regina morale del mondo, così come lo era l’antica Roma. Ma
i tempi mutano, e in trent’anni nuove idee si sono sviluppate, nuovi
principi si sono affermati, nuovi bisogni si sono palesati, e doveri e
diritti stanno cercando il loro punto di appoggio su fondamenta e
correnti di pensiero diverse. Mazzini invece è rimasto uguale a se
stesso. Mentre i tempi cambiavano, richiedendo un ateo e un rivo-
luzionario, egli è rimasto un credente e un apostolo. E perché no?
Egli ha ben diritto di piazzare il Dio onnipotente della vendetta e
degli eserciti alla base del suo sistema, e la gioventù borghese gli
vada dietro se così ritiene di fare. Ma il popolo perché e come do-
vrebbe rientrare in questa formula, che oltretutto lo associa a un
vicino tanto pernicioso? Che cosa ne dovrebbe venir fuori?
Per Mazzini il popolo è una parola astratta che indica tutti gli
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ce lo dai, tu rubi e Dio ti punirà», noi gli diremo in nome della giu-
stizia: «Quello che crei con il lavoro delle tue mani e con il sudore
della tua fronte è tuo; il ladro che doveva essere punito e non lo è
stato è chi te lo ha sottratto per tanti secoli». Uomini della monar-
chia e del privilegio, noi siamo convinti che il popolo ci seguirà e
spezzerà il legame con il suo vecchio e implacabile Dio. Se non ne
siete convinti, se non avete capito che la libertà e il benessere sono
il vero Dio del proletariato, invocate pure i fulmini dell’Eterno,
ma fate presto! Invocateli subito, perché il socialismo vi incalza da
presso! Uomini del privilegio, ve lo dico ancora una volta: non sog-
ghignate nel sentire queste parole; i vostri padri, i ligi funzionari
che vi hanno insegnato a leggere, vi hanno persuaso che questa è
un’utopia, vi hanno convinto che la giustizia, il diritto e la legge
sono dalla vostra parte, e voi avete dormito sereni fra questi codici
e questi statuti. È possibile che alcuni di voi siano persino in buona
fede: vittime della grande proprietà, delle grandi industrie, delle
grandi banche, siete diventati a vostra volta carnefici, senza magari
rendervene conto, del contadino e dell’operaio. È a voi che ci rivol-
giamo, incitandovi ad avere coraggio e a guardare in faccia la que-
stione sociale: allora le illusioni spariranno e la verità emergerà se-
vera e inesorabile.
In tutte le statistiche del felice regno d’Italia due dati spiccano
con una semplicità e un’eloquenza straordinarie:
Popolazione: circa 25 milioni;
Contribuenti delle imposte su fabbricati, terre coltivate e attività
commerciali: circa 2 milioni.
Chi siano e che cosa facciano questi 2 milioni di bravi cittadini
contribuenti, tutti lo sanno. Una parte di essi suda tre volte l’anno
per esigere una pigione che si accresce ogni anno via via che i ma-
trimoni tra i figli del popolo si traducono in nascite di nuovi pigio-
nanti. Un’altra parte permette generosamente al contadino di lavo-
rare le terre che essa non sa e non vuole coltivare, lasciandogli con
magnanimità quel tanto del prodotto del suo lavoro sufficiente a
non farlo morire troppo presto di fame e di freddo. Un’altra parte
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Appendice
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Signore,
pur non avendo l’onore di cono-
scerla personalmente, approfitto della
raccomandazione del nostro amico
Mazzini per pregarla cortesemente di
farmi un piacere che spero non le sia
di troppo fastidio, e che nello stesso
tempo sarà per me di grande utilità.
Ho intenzione di stabilirmi per qual- Giuseppe Dolfi
che mese a Firenze, e poiché non dispongo di molto denaro, vor-
rei farlo nel modo più economico possibile. Per questo ho pregato
il mio compatriota, il signor Metchnikov, di cercarmi un alloggio
a buon mercato nel quale io possa sistemarmi a pensione presso
qualche buona famiglia borghese. I suoi amici, signore, mi assicu-
rano che lei non si rifiuterà di offrirmi la sua assistenza, che mi sarà
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Sua Nobiltà,
Le ho scritto dalla Svizzera una lunga lettera con il mio indi-
rizzo di Firenze e speravo, speravo tanto, di trovare qui una rispo-
sta. Mi sbagliavo, non l’ho trovata. Ora, dunque, non mi resta che
credere che lei o non abbia ricevuto la mia lettera, o non l’abbia tro-
vata degna di risposta, o ancora che fosse illeggibile e non sia riu-
scita finora a capirla e l’abbia affidata a una commissione scientifica
per decifrare i miei geroglifici. Mi sforzo oggi di scriverle in modo
tanto leggibile da rendere impossibile quest’ultima ipotesi; e sic-
come questa lettera le arriverà sicuramente, nel caso in cui persista
nel suo silenzio, la seconda ipotesi sarà l’unica possibile. Questa
lettera le sarà consegnata dal conte Roger Raczynski, un uomo sag-
gio, colto e quanto mai generoso e bravo, anche se con una testa
tentennante, colma di spirito di contraddizione. Così, per esempio,
qualche mese fa, stanco di sentire dappertutto insulti contro il mar-
chese Velepolski, ha scritto un opuscolo in sua difesa. Ciò detto,
sarei molto contrariato se la mia lettera dalla Svizzera fosse andata
smarrita: non c’era nulla di compromettente, né per lei né per nes-
suno, ma solo cose che sarebbe comunque meglio non cadessero
sotto gli occhi di terzi, soprattutto le due missive, una ai miei fra-
telli e l’altra alla madre di Antonia, che ci aveva promesso di far ar-
rivare dove dovevano arrivare alla prima occasione. Abbia la bontà,
contessa, di scrivermi giusto una riga per farmi sapere se ha ricevuto
la mia lettera dalla Svizzera.
Il mio indirizzo qui è:
Sig. Eugenio Vieusseux, Libraio a Firenze
e sulla busta all’interno: per il sig. Bakunin, o ancora per A.D.
Un secondo indirizzo è a nome della contessa Raczynska, con
preghiera di inoltrare a me. Quanto all’indirizzo della contessa,
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voluto morire per il bene della mia patria e per la libertà di tutti i
popoli. Avevo intenzione di andare in Polonia, ma i polacchi mi
hanno mandato a dire che laggiù sarei stato inutile e il mio arrivo
avrebbe provocato più male che bene, così ho rinunciato. Del resto,
anch’io suppongo di essere più utile per loro qui che non laggiù. Se
facciamo qualcosa in Italia, sarà di vantaggio anche per la Polonia
che, oggi come sempre, gode di tutta la mia simpatia».
Senza dubbio Garibaldi si prepara, con tutto il suo partito del
cambiamento, all’azione di primavera. In che cosa consisterà que-
sta azione, è ancora difficile dirlo. Gli ostacoli sono tanti. La guerra,
o ancor meglio la rivoluzione in Germania, possono far avanzare
singolarmente tutti noi. Ma di questo le parlerò in un’altra lettera
che le scriverò dopo che lei avrà risposto a questa mia e alla prece-
dente.
Ora ritorno a Garibaldi. È stato estremamente gentile e amabile
con mia moglie, con gran dispiacere dell’inglese ubriacona col naso
paonazzo. Una volta che era in nostra compagnia, ha fatto salire
mia moglie su una barchetta e ha preso egli stesso i remi mentre lei
raccoglieva con una lunga pertica i ricci, una sorta di frutti di mare
[in italiano nel testo].
Il 23 siamo tornati a Genova e il 26, via Livorno, siamo arrivati
a Firenze. E io, glielo rivelo in segreto, sono già innamorato dell’I-
talia e ho dato la parola a mia moglie che in un mese imparerò l’i-
taliano.
Ma che mi dice del «Kolokol»? Si è davvero rigenerato. Dopo
aver letto l’articolo di Herzen, Le 1er Janvier, e la lettera a Gari-
baldi, ho esclamato: «Cristo è resuscitato!»: il vigore, la fede, tutto
gli è ritornato. Ma di nuovo, anche questo nelle prossime lettere.
Oggi invece le rivolgo le mie più umili preghiere:
1. Baciare la fronte intelligente di suo figlio e stringere la mano
ai nostri comuni conoscenti: Wizicskij,ˇ Kaplinskij, Klaczko, Ka-
linka, Zaleski, Grinevic,ˇ se è tornato, così come Usov, al quale scri-
verò di sicuro, e Luginin, se è ancora a Parigi.
2. Dire a Markov-Vovcok ˇ che gli ho scritto fermo posta a nome
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Sono stato alla Posta e quale è stata la mia gioia! Ho ricevuto la
sua lettera, cara amica. Eravate sofferente e solo per questa ragione
siete rimasta in silenzio. Adesso vi siete ristabilita, grazie a Dio (per
così dire). Anzi, che Dio ci faccia dono anche del resto. Malgrado
tutto e tutti, sono almeno certo che la Polonia non soccomberà.
Nell’atmosfera politica si è accumulata tanta elettricità che dovrà
prima o poi esplodere. Per ora, alla mia prossima lettera; adesso
siamo tutti riuniti e Antosja, che l’ama di tutto cuore ma non sa
scrivere lettere, mi chiama per prendere il tè.
Il suo devoto amico
M. Bakunin
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Amico carissimo,
la tua lettera del 17 corrente ci ha
piacevolmente colpito. Abbiamo letto
con interesse le informazioni minu-
ziose e preziose riguardo alla situa-
zione politica e militare del campo dei
volontari. Tutti gli amici ne sono sod-
disfatti e contenti.
Giuseppe Fanelli
Cosa che invece non possiamo es-
sere nei riguardi di nostri due amici comuni, Fanelli e Mileti, il cui
mutismo assoluto ci ha sorpreso, perché non ce lo aspettavamo, e
addolorato, perché hanno scritto a tutti gli amici tranne che a noi,
come avrebbero invece dovuto. Ti preghiamo, se ne hai l’occasione,
di comunicare a entrambi il nostro sconcerto.
A te dobbiamo indubbiamente una risposta. Ma non potendo
rispondere a tutti i dettagli che ci hai trasmesso, che hanno oggi
minore importanza a causa delle sostanziali modifiche avvenute,
ci limiteremo qui a qualche osservazione generale.
Ci hai lungamente parlato dei tuoi tentativi presso certi ufficiali
superiori e uomini politici del campo di Garibaldi, e del loro totale
insuccesso. Per un verso, siamo contenti che questa esperienza ti
abbia fatto toccare con mano ciò che noi, grazie alla storia e alla lo-
gica, avevamo profetizzato in anticipo e a priori; l’augurio è che essa,
togliendoti dalla testa qualsiasi idea del genere per il futuro, ti leghi
a noi in modo indissolubile. Per l’altro verso, siamo al contempo un
po’ preoccupati per due ragioni. I tuoi tentativi verso quei signori
sono stati attuati attenendosi alla nostra logica, cioè conformemente
alla nostra ottica, alle nostre idee e alle nostre risoluzioni? O avevano
uno scopo squisitamente politico? Ci piacerebbe essere informati ac-
curatamente e chiaramente su questi due punti e speriamo che tu
non esiti a farlo con la tua ben nota franchezza e sincerità.
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Giuseppe Dolfi (1818-1869), fornaio, è tra le figure più note della de-
mocrazia toscana. Nel 1860 fonda a Firenze la Fratellanza artigiana
d’Italia, associazione operaia mazziniana.
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Opere
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