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I mercati finanziari dal 1945 ad oggi

Giuseppe Conti, Giuseppe Della Torre, Laure Quennuoëlle-Corre e Maria


Carmela Schisani*

1. Introduzione
Il security capitalism si affermò a partire dalla seconda metà del XIX secolo
sull’onda delle grandi operazioni finanziarie legate allo sviluppo delle costruzioni
ferroviarie e di grandi opere pubbliche. Tutto ciò fu reso possibile da due
trasformazioni istituzionali: l’avvento della moderna società per azioni e quello di
mercati dei capitali organizzati su basi d’asta aperti sempre più ai titoli industriali e
privati. Quando entrò in crisi, nel periodo tra le due guerre mondiali e durante la
grande depressione, si chiuse l’epoca di liberalizzazione finanziaria che aveva
caratterizzato lo sviluppo dei mercati finanziari per titoli di proprietà (mercati
azionari) e per debiti (mercati obbligazionari). Al liberismo finanziario, più o meno
senza regole (se non quelle minime riguardanti le società e la formazione dei prezzi di
borsa), seguì un’epoca di forte regolazione dell’intero mercato mobiliare. Ciò servì a
limitare l’attività delle grandi banche di deposito, ad imporre la loro specializzazione,
ad assicurare una maggiore stabilità all’intero sistema e a permettere un controllo sui
tassi d’interesse da parte delle banche centrali.
I mercati mobiliari, fino ad allora relativamente aperti, tesero a chiudersi. La
regolazione gettò sabbia nei loro ingranaggi rallentandone funzionamento, reattività
ed efficienza. L’aumento dei costi di transazione fu selettivo, segmentando così i
mercati e trasferendo una serie di operazioni verso gli intermediari finanziari, bancari
e non bancari. In Italia il disegno finanziario che ispirò la legge bancaria del 1936,
rimasta in vigore fino all’inizio degli anni ’90, tentò di introdurre criteri e strumenti
volti a garantire la stabilità del sistema finanziario a costo di sacrificarne l’efficienza.
Un percorso analogo avvenne in Francia dopo la legge bancaria del 1941 e il riordino
dei mercati ma con una prima moderata liberalizzazione avvenuta alla metà degli anni
’60, per pervenire infine alla liberalizzazione della fine degli anni ’80. Mentre in
Francia le nazionalizzazioni bancarie e industriali del dopoguerra e il controllo stretto
sul mercato finanziario furono una scelta politica deliberata, il Italia lo Stato
banchiere e industriale fu una scelta obbligata per salvare l’economia nazionale e
implicò un riassetto che cambiò in profondità la mappa del capitalismo italiano con
effetti di lungo periodo più persistenti che si protrarranno fino alle soglie del XXI
secolo con le scelte di privatizzazione e di rivitalizzazione dei mercati.
La legge italiana cercò di definire un ordinamento capace di evitare crisi
bancarie disastrose imputate a un eccesso di partecipazioni industriali assunte dalle
grandi banche. L’intervento dello Stato evitò un crollo rovinoso e una crisi industriale
di vaste proporzioni. La legge riconobbe nel credito un «bene pubblico» da tutelare e
disciplinò l’attività bancaria e, in maniera ancor più rigida, il funzionamento dei
*
Può essere superfluo, ma è opportuno ricordare che la parte relativa alla Francia è da attribuire a
Laure Quennuoëlle, mentre quella italiana è frutto di una riflessione a tre, con la parte
specificatamente istituzionale svolta da M.C. Schisani. Ringraziamo il dr. Alberto Bianchi per l’aiuto
fornito nella predisposizione di alcuni dati statistici.

1
mercati finanziari. Per rendere efficace il governo della moneta e del credito si stabilì
un rigido controllo dei flussi finanziari, compresi specialmente quelli che
interessavano il mercato dei titoli. Gli intermediari bancari furono vincolati, in
maniera più o meno cogente, a non utilizzare (o creare) depositi per l’acquisto di
partecipazioni o per operare sul mercato mobiliare. Una volta circoscritto il campo
d’azione delle banche, limitata la possibilità di movimentare capitali da un comparto
all’altro del sistema, erano poste le premesse per la stabilità dell’intero sistema
finanziario ed economico. Restava aperta la questione del finanziamento all’industria
e per la formazione di capitale fisso pubblico (investimenti fissi in impianti e
macchinari in servizi di utilità pubblica). A tal fine occorreva uno sviluppo di
intermediari specializzati in grado di rafforzare anche le funzioni dei mercati di
riferimento nel fornire capitali di rischio e a lunga scadenza alle imprese e di rendere
relativamente liquidi gli impieghi degli investitori istituzionali e del pubblico.
L’evoluzione del mercato finanziario nei decenni postbellici si inquadra in tale
contesto. In Italia il mercato azionario risultò condizionato dalla struttura di governance
emersa negli anni ’30 con il passaggio delle partecipazioni industriali dalle banche
miste all’IRI. Quello stesso schema di regolazione venne istituzionalizzato con la
costituzione di altri enti pubblici autonomi (Cassa per il Mezzogiorno nel 1950, ENI
nel 1953, e altri ancora negli anni seguenti). In Francia, seppure la nazionalizzazione
delle grandi banche nel 1945 sottraesse dal mercato azionario una parte importante
del listino, la quota di società possedute dallo Stato o da enti para-pubblici non fu tale
da rendere meno significative le quotazioni. Diverso il peso esercitato sulle dinamiche
del mercato obbligazionario condizionate, in Italia, dalla forte presenza di un
comparto pubblico, compresi gli istituti di credito speciale (Ics) costituiti e controllati
da banche e enti pubblici, e, in Francia, dal circuito finanziario del Tesoro. Mercati
così strutturati vedevano scissa la funzione finanziaria di allocazione delle risorse, da
quella di market for corporate control. L’espansione dei mercati finanziari dipendeva da
una rigida regolazione all’accesso ai mercati stessi (autorizzazione alle emissioni,
quotazioni, ecc.) e risentiva, specialmente in Italia, della mancanza di autorità di
controllo che facilitassero una diffusione di informazioni accurate per superare
problemi di trasparenza (la Consob venne istituita nel 1974, mentre la francese COB
risaliva al 1967). Ristrettezza dei mercati (per numero e volumi trattati) e sottigliezza
del flottante ingessavano la governance societaria o, a ogni piccola scossa di
assestamento nelle compagini proprietarie, rendevano frequenti incursioni
spericolate attuate per lo più da pochi insiders e gruppi societari che approfittavano
della situazione per regolare rapporti di forza interni a scapito degli azionisti di
minoranza, ma soprattutto dei risparmiatori diffidenti e poco propensi agli
investimenti mobiliari come forma per tutelare il proprio risparmio finanziario.
A partire dagli anni ’70 e, specialmente, dal decennio successivo fu la massa
ingente di titoli di Stato a dar profondità all’intero mercato mobiliare italiano. Fino
alla metà circa degli anni ’80 gli assetti di fondo del sistema finanziario francese come
di quello italiano erano caratterizzati il primo da un’économie d’endettement e il secondo
da sistema fortemente bank-based. In entrambi il ruolo delle banche nel finanziamento
industriale era comunque preminente rispetto ai mercati. I mercati azionari e
obbligazionari rispettivi erano sottoposti a forme di regolazione che li rendevano
ristretti e segmentati in funzione di una politica monetaria volta a tenere sotto
controllo i flussi di finanziamento dell’economia attraverso il sistema bancario
(Francia) e ottenere un sentiero di crescita finanziaria stabile, relativamente flessibile

2
nelle forme di decentramento di circuiti finanziari autonomi nelle scelte ma orientati
da flussi di fondi amministrati (Italia).
Quelle condizioni strutturali cominciarono a venir meno verso la fine degli
anni ’80. In Francia, prima che in Italia, si colse l’opportunità di una riforma del
sistema finanziario fondata sull’integrazione internazionale, specialmente su scala
europea, e per mezzo di ruolo nuovo da assegnare ai mercati finanziari stessi. Questi
ultimi si svilupparono in Italia trascinati, sempre negli stessi anni, dall’espansione del
debito pubblico, da una serie di innovazioni finanziarie accompagnate da una
regolazione meno restrittiva. Ma, al tempo stesso, le condizioni della finanza pubblica
contribuirono a rallentare il processo di integrazione finanziaria che avrebbe
implicato una mobilità di capitali, un processo di privatizzazioni più celere e,
ovviamente, un rafforzamento della piazza di Milano, la quale tuttavia non aveva le
opportunità di quella di Parigi. Ad ogni modo, il mercato mobiliare nel suo
complesso riprese a svilupparsi negli ultimi due decenni del XX secolo. Anche il peso
e l’importanza dei rapporti relativi e reciproci tra istituti di credito e mercati dei
capitali cambiarono profondamente e con essi anche le caratteristiche di orientamenti
dei sistemi finanziari che fino ad allora sembravano alternativi1.

2. Il quadro istituzionale

2.1. L’organizzazione dei mercati

L’organizzazione delle borse in Francia non ha subito cambiamenti profondi


dopo l’inizio del XIX secolo2. Alcuni aspetti istituzionali meritano comunque di
essere messi in evidenza. Fino al 1962, le borse «à parquet» erano otto: Parigi, Lione,
Marsiglia, Bordeaux, Lille, Tolosa, Nantes e, dal 1946, Nancy. Le borse senza
parquet, che operavano con meno di sei agenti di cambio, si trovavano in altri
dipartimenti. Queste ultime scomparvero anche perché, nel loro caso, gli agenti di
cambio non avevano alcuna facoltà di negoziazione e i mezzi a loro disposizione
erano del tutto inadeguati.
Il principio dell’unicità della quotazione, instaurato con la riforma del 1961,
accelerò il declino delle borse di provincia, poiché le stesse imprese preferivano
quotarsi a Parigi. Nonostante la riunificazione di tutte le Compagnies d’agents de
change in una sola Compagnie nationale nel 1967, su Parigi continuava a concentrarsi
fra il 90 e il 95% della capitalizzazione a livello nazionale.
Il codice di commercio del 1807 aveva attribuito agli agenti di cambio il
privilegio di negoziare in titoli del debito pubblico e in altri titoli quotati. L’agente di
cambio riuniva così tre funzioni: di pubblico ufficiale (in grado di autenticare la
D. COBHAM, S. COSCI e F. MATTESINI, The Italian Financial System: Neither Bank
1

Based nor Market Based, «The Manchester School», 67, 1999, pp. 325-345; F. ALLEN e
D. GALE, Comparing Financial Systems, Cambridge, Cambridge University Press, 2000;
A. DEMIRGÜÇ-KUNT e R. LEVINE (a cura di), Financial Structure and Economic Growth: A
Cross-Country Comparison of Banks, Markets, and Development, Cambridge (MA)
2001; D. VERDIER, Moving Money. Banking and Finance in the Industrialized World,
Cambridge, Cambridge University Press, 2002.
2
Sul XIX secolo, v. il capitolo di A. Riva e, per una trattazione più completa, Les
Bourses de valeurs dans le monde, Paris 1975, p. 534.

3
negoziazione di titoli), di intermediario per operazioni a pronti e a termine (indotto
per questo a assumere rischi in proprio) e di operatore solidale con gli altri agenti (per
la necessità di apportare i capitali necessari allo svolgimento della professione).
Nonostante il monopolio goduto, nel corso del XIX secolo, la Compagnie des agents
de change dovette subire la concorrenza di un mercato ufficioso, la coulisse, il mercato
libero al di fuori del parquet. Per un secolo e mezzo, nella sola Bourse de Paris
coesisterono due professioni: quella di agente di cambio, pubblico ufficiale sul
mercato ufficiale e quella di operatori finanziari in valori sul mercato della coulisse,
riconosciuta de facto nel 1893 dall’amministrazione fiscale. Questi ultimi intervenivano
sia su titoli ammessi alla quotazione ufficiale che su titoli non iscritti. Dopo diversi
decenni di conflitti, dal 1901 fu raggiunto un compromesso che stabiliva una
complementarità tra le due attività. Così, alla vigilia del 1940, le due professioni
d’intermediazione mobiliare avevano fissato un modus vivendi sotto l’egida del
ministero delle Finanze.
Dopo aver riorganizzato l’attività bancaria nel 1941, il regime di Vichy
regolamentò le professioni di borsa con la legge 14 febbraio 1942, poi prorogata
dall’ordonnance del 18 ottobre 1945. Sorse allora, a fianco della Compagnie des agents
de change, una nuova associazione dei Courtiers en valeurs mobilières (che
rimpiazzava gli intermediari in valori) con alcuni privilegi in materia di negoziazioni,
uno statuto proprio e un’organizzazione comune. La concorrenza tra le due
corporazioni crebbe dopo la guerra fino a che non fu disciplinata dalla legge 29 luglio
1961 con la quale i due mercati parigini venivano fusi, sanzionando la fine dei courtiers
in valori e in compensazioni.
Nel 1975, in Francia operavano 133 agenti di cambio, ripartiti tra Parigi (90),
Lione (13), Nantes (8), Marsiglia (7), Nancy (5), Lille (4), Bordeaux (4)3. Pur
beneficiando del privilegio di negoziare in titoli, agli agenti erano attribuite funzioni
specifiche e limitate risorse finanziarie: prima della legge del 28 dicembre 1966, gli
agenti non erano autorizzati a gestire un portafoglio di valori mobiliari. Fino al 1972,
era loro interdetto di svolgere da controparte negli ordini dei loro clienti. Infine, nel
1988, la Compagnie des agents de change fu rimpiazzata dalla Société des Bourses
françaises, divenuta poi Paris Bourse alla quale spettava la gestione dei quattro
principali mercati mentre le Sociétés de Bourse acquisivano tutti i compiti prima
svolti dagli agenti di cambio.
Sotto il profilo istituzionale la situazione italiana non fu molto diversa da
quella appena descritta per la Francia. L’impianto ottocentesco dell’organizzazione
delle borse valori fu «importato» in blocco dall’ordinamento napoleonico e, anche la
riforma del 19134 non modificò i caratteri di fondo: il marchio d’origine rimase a
lungo anche nello stesso lessico di borsa. Alcune divergenze dal modello francese
emersero più tardi.
Dopo la crisi degli anni ’30, l’ordinamento giuridico in materia di banche e
mercati finanziari considerava la concorrenza un disvalore perché fonte di instabilità 5.
Il tentativo di istituzionalizzare una separazione dei circuiti creditizi da quelli
finanziari, impedendo intrecci proprietari tra banca e industria, rientrava pertanto
nell’intento di garantire stabilità. La preferenza accordata agli intermediari si incentrò
3
La Borsa di Tolosa fu soppressa nel 1967.
4
S. BAIA CURIONI, Regolazione e competizione. Storia del mercato azionario in Italia
(1808-1938), Bologna, Il Mulino, 1995.
5
P. CIOCCA, La nuova finanza in Italia. Una difficile metamorfosi (1980-2000), Torino,
Bollati-Boringhieri, 2000, p. 44

4
sulla tutela del risparmio privilegiando la figura del depositante rispetto a quella
dell’investitore finanziario, le cui prerogative erano difese dalla disciplina generale dei
contratti e dalle norme del diritto societario. L’ordinamento specifico
all’organizzazione dei mercati non fu sottoposto a nuove norme disciplinari per
superare alcune basilari discriminazioni nei confronti delle minoranze azionarie, né
per evitare procedure poco trasparenti sulle operazioni di acquisizione e
trasformazione societaria. In materia di borsa rimase in vigore la normativa del 1913
e del 1932, sulla quale si stratificarono nel corso degli anni interventi privi di disegno
unitario. Le basi dell’ordinamento rispondevano alla mera esigenza di garantire lo
scambio in termini di volontarietà ed equità, secondo quanto stabilito dal codice
civile. La normativa esistente non forniva incentivi sufficienti per superare gli
inconvenienti del mercato finanziario italiano (del mercato azionario e
obbligazionario, sia «in» che «fuori borsa») e riconducibili ai seguenti: 1) ristrettezza e
poca profondità, 2) scarsa trasparenza, 3) alti costi di transazione, e, di conseguenza,
4) inefficienza nell’allocazione delle risorse e nel riposizionare i rischi. I primi tre
elementi contribuivano a intrappolare ogni sviluppo dei mercati in un circolo vizioso
senza vie d’uscita. Tutto ciò trovava conferma in tre aspetti istituzionali: a) il sistema
degli scambi, b) quello dei controlli, della debolezza delle garanzie giuridiche, e c) del
profilo dei mediatori. Fino alla riforma del 1991, non c’era l’obbligo di concentrare in
borsa gli scambi. Una parte cospicua dei medesimi si svolgeva fuori dal mercato
ufficiale attraverso l’intermediazione degli istituti di credito, rendendo meno
rappresentativi i prezzi del listino ufficiale. Spesso ne facevano la spesa i piccoli
azionisti sistematicamente esclusi dagli eventuali capital gains realizzati «fuori borsa».
La presenza di più borse oltre a quella di Milano (dislocate al 1947 in altre otto
principali città: Torino, Genova, Venezia, Trieste, Bologna, Firenze, Roma e Napoli,
alle quali, in seguito, si aggiunse anche Palermo) rendeva frammentario il
meccanismo delle transazioni e meno trasparenti i processi di formazione dei prezzi.
La ristrettezza del mercato obbligazionario dipendeva anche dai limiti imposti
alle società per azioni, le sole a poter emettere obbligazioni fino ad un importo non
eccedente il capitale sociale versato (più le riserve per le società quotate, mentre la
parte eventualmente non coperta doveva essere garantita da titoli di Stato e di enti
territoriali o da ipoteca su immobili della società). Inoltre per le emissioni superiori al
milione di lire era prevista fin dal 1935 un’autorizzazione del ministero delle
Corporazioni.

2.2. Le autorità di tutela

In Francia l’autorità di sorveglianza generale cui spettava l’organizzazione del


mercato di borsa era la direzione del Tesoro, presso il ministero dell’Economia e
delle Finanze. Il direttore del Tesoro era presente nel Comité des bourses de valeurs,
a fianco del direttore dell’Office des changes, del rappresentante degli agenti di
cambio, di quello dei courtiers e delle banche.
Al Comité des bourses de valeurs, costituito nel 1942, spettò la sorveglianza
sulla Borsa fino al 1967, quando venne rimpiazzato dalla Commission des
Opérations de Bourse, la COB. Incaricata del controllo dell’informazione sui valori
mobiliari, del buon funzionamento delle borse, la COB era presieduta da un alto
funzionario nominato dal ministro delle Finanze. Il suo potere si estese di pari passo

5
allo sviluppo della borsa durante gli anni ’80. Nel 1989 la nozione di insider trading (in
francese «délit d’initié») entrò nel linguaggio corrente. Ma la COB ebbe difficoltà a far
applicare sanzioni non disponendo di potere giudiziario. Attualmente l’autorità di
mercato, l’Autorité des marchés financiers, è il risultato della fusione della COB e del
Conseil des marchés financiers.
In Italia, i principali ostacoli ad un corretto funzionamento delle operazioni di
borsa erano costituiti dalle norme riguardanti le informazioni sulle società (poche e
molto a discrezione di queste ultime6), la regolazione delle transazioni e la formazione
delle quotazioni. Come in Francia la struttura degli organi di controllo del mercato
era rigidamente gerarchica (ministero del Tesoro, camere di commercio, deputazione
di Borsa e comitato direttivo degli agenti di cambio) ingenerando spesso conflitti di
competenza. La mancanza di un unico organo di vigilanza autonomo introduceva
elementi di non completa uniformità di trattamento da una borsa all’altra, impediva
interventi tempestivi, incisivi e coerenti.
Ad esempio, i conflitti d’interesse tra azionisti-risparmiatori e grandi gruppi
finanziari entrarono in una fase acuta dopo la nazionalizzazione delle società
elettriche avvenuta nel 1962 con la cancellazione dal listino di alcune tra le maggiori
società quotate e con la conseguente ondata di incorporazioni da parte di società ex
elettriche indennizzate dallo Stato. Lo stesso avveniva qualche anno dopo per le
scorrerie di un Michele Sindona in lotta per il controllo della Montedison7.
Con la legge 7 giugno 1974, che istituiva la Consob come autorità sulla borsa
e sulle società, si tentò un primo riordinamento normativo uniformando, almeno in
parte, la legislazione italiana a quella di altri paesi, per introdurre una maggior
trasparenza sugli atti societari e sulle operazioni di mercato (ad esempio, con la
disciplina sulle o.p.a. e l’uniformità di informazioni da parte delle società che
operavano sul mercato). Tuttavia il processo di piena trasparenza solo avviato
incontrò ostacoli di varia natura prima di essere portato a compimento. In primo
luogo la «tutela del risparmio» veniva affidata a due autorità differenti (la Consob e la
Banca d’Italia), con sovrapposizioni di competenze che lasciavano ancora persistere
disomogeneità tra regolazione delle attività di borsa e diritto societario, indebolendo
di fatto i poteri della Consob. A ciò si aggiungeva l’immobilismo sostanziale dei
principali gruppi finanziari che tendevano a mantenere strutture di blocco degli
assetti proprietari incentrati ancora sulle poche famiglie del capitalismo italiano e sui
più ristretti gruppi di controllo che mantenevano un potere di veto sulle operazioni
che potevano passare per il mercato8.

2.3. Da mercati poco aperti a mercati in via d’integrazione

6
G. CONTI, Creare il credito e arginare i rischi. Il sistema finanziario tra nobiltà e
miserie del capitalismo italiano, Bologna, Il Mulino, 2007, cap. 4.
7
E. SCALFARI e G. TURANI, Razza padrona. Storia della borghesia di stato, Milano, Etas,
1974; F. AMATORI e F. BRIOSCHI, Le grandi imprese private: famiglie e coalizioni, in Storia
del capitalismo italiano dal dopoguerra a oggi, a cura di F. BARCA, Roma, Donzelli,
1997, pp. 117-153.
8
G. ROSSI, Trasparenze e vergogne. Le società e la borsa, Milano, Il Saggiatore, 1982; F.
BRIOSCHI, L. BUZZACCHI, e M. G. COLOMBO, Gruppi di imprese e mercato finanziario. La
struttura di potere nell'industria italiana, Roma, La Nuova Italia, 1990.

6
In Francia dopo la legge del 1916, l’emissione di valori esteri sul mercato dei
titoli fu sottoposta al potere di deroga del ministero delle Finanze e poi del Comité
des bourses de valeurs (la decisione finale spettava al direttore dell’Office des
changes, in funzione dei controlli valutari).
La scarsità di capitali dopo la guerra e i bisogni della ricostruzione dettero
priorità agli investimenti interni anche per il fatto che la Francia aveva perso la
posizione di paese creditore nei confronti dell’estero. Il controllo dei cambi e
l’interdizione sulle emissioni di valori stranieri sul mercato di Parigi influirono
pesantemente sugli investimenti esteri in Francia. Dopo una fase di dure restrizioni
negli anni 1945-1950, fu stabilita una debole apertura alle emissioni estere (per la
quotazione e soprattutto per nuove emissioni) fino alla fine degli anni ’60, con alcune
autorizzazioni secondo l’andamento dei cambi e dei corsi nei confronti di Germania,
Stati Uniti e Gran Bretagna.
Parigi perse così gran parte la propria posizione di piazza internazionale fin
dagli anni ’30 e, poi, fino agli anni ’60. La quota di emissioni estere nella
capitalizzazione di borsa crollò attorno al 10% quando, prima del 1914 era sei volte
più importante, e tre volte maggiore prima della crisi degli anni ’30. Ma ciò segnalava
una debolezza soprattutto nei riguardi delle maggiori piazze europee, fatto salvo per
quella di Milano, totalmente chiusa alle emissioni di valori esteri per più decenni
consecutivi.
Nel caso italiano un ruolo meno marginale della borsa e un allargamento del
volume delle contrattazioni implicavano anche un riassetto dell’intero sistema
d’intermediazione finanziaria e uno sviluppo di nuovi strumenti finanziari. All’inizio
degli anni ’80 la stessa Banca d’Italia sollecitava un ampliamento dello spettro
istituzionale e degli strumenti finanziari di mercato9. Una prima regolamentazione dei
fondi comuni di investimento avvenne con la legge 23 marzo 1983 (modificata da
quelle del 1993 e 1994).
A partire dalla metà degli anni ’80, ma specialmente nel corso degli anni ’90, il
processo di convergenza dei mercati finanziari su scala europea portò alla rimozione
di vari ostacoli normativi. La legge «Amato» del 1990 avviò un processo, non ancora
del tutto concluso, di privatizzazione di istituti di credito come casse di risparmio e
altre banche in forma di ente morale. Il testo unico bancario del 1993 liberalizzava
l’attività bancaria, abolendo le restrizioni introdotte dalla legge del 1936.
In parallelo, si rinnovavano procedure e norme che interessavano i mercati.
Nel 1988 venne istituito il mercato telematico all’ingrosso dei titoli di Stato (MTS),
nel 1990 fu emanata la legge antitrust e istituita l’apposita autority, nel 1991 furono
regolate le società di intermediazione mobiliare (s.i.m.), introdotte norme sull’insider
trading e, nel 1992, si riformò la disciplina sulle offerte pubbliche d’acquisto (o.p.a.) e
fu abbandonato il sistema di fissazione di un prezzo base per le emissioni dei titoli di
Stato. Riguardo agli investitori istituzionali furono introdotte le SICAV (nel 1992), i
fondi comuni di investimento chiusi, sia mobiliari che immobiliari (nel 1993 e 1994).
Infine fu prevista l’introduzione dei fondi pensione seguendo modelli già affermati in
altri paesi. Nel corso del 1994 venne istituito il mercato di borsa dei contratti
uniformi a termine (futures) e, l’anno successivo, quello per le options. Nel 1996 fu
concesso alle banche di negoziare direttamente in borsa in un regime di apertura e di
liberalizzazione del mercato finanziario italiano alla concorrenza di intermediari
finanziari comunitari, in una borsa che, dal 1998, veniva gestita e organizzata da una
società per azioni secondo il principio di autoregolamentazione. Infine nel 1998 le
9
CIOCCA, La nuova finanza, cit.

7
nuove discipline furono sistemate nel testo unico in materia di intermediazione
finanziaria portando a compimento la svolta istituzionale avviata negli anni
precedenti.
Come si può vedere attraverso l’evoluzione delle regolamentazioni e delle
strutture istituzionali, la politica in favore dello sviluppo del mercato finanziario è
evoluta nel corso del cinquantennio, ma con una forte accelerazione dagli anni ’80,
ma specialmente dal decennio successivo.

3. Dai controlli alla disintermediazione e alla liberalizzazione

3.1. Emittenti e detentori di titoli

Lo stock di attività finanziarie negoziabili su mercati organizzati rispetto al


totale delle attività finanziarie raggiungeva il 31,4% in Francia al 1950 e il 39,3 in
Italia nel 1951, rispetto al 52,1 e al 42% di Gran Bretagna e Stati Uniti alla stessa
epoca. Dagli anni ’20 e ’30 in poi titoli privati e pubblici tesero a diminuire in tutte le
principali economie industriali, e specialmente in Italia e Francia. La separazione
ormai convenzionale tra economie «market-based» e «bank-based», cioè tra il modello
di sistema finanziario dei paesi anglosassoni distinto da quello dell’Europa
continentale e del Giappone, non emerge a livello della configurazione finanziaria
generale, considerata in termini di consistenze di titoli (azionari e obbligazionari)
emessi da società finanziarie e non finanziarie (esclusi i titoli del settore pubblico),
mentre, fino ad almeno la metà degli anni ’80, si delinea nettamente in termini sia di
stock che di flussi finanziari emessi dalle sole imprese non finanziarie 10. La
componente rappresentata dalle azioni (in stock) rispetto all’intera ricchezza
finanziaria era in Francia altrettanto elevata di quella esistente negli Stati Uniti fino
all’inizio degli anni ’70 e superiore a quella delle altre principali economie, mentre dal
1950 fin verso la fine degli anni ’70 non vi erano differenze di rilievo riguardo al
volume di obbligazioni societarie tra Francia e Italia11.
Nel secondo dopoguerra si consolidarono comunque modelli di capitalismo
finanziariamente diversi per il ruolo svolto dai mercati finanziari e dalle istituzioni
creditizie nel finanziamento industriale. Tali differenze influirono principalmente
sulla diversa regolazione della corporate governance12.
In Francia, dal 1945 fino alla fine degli anni ’70 e oltre, funzionò un sistema
finanziario fondato, da un punto di vista istituzionale, su un’alleanza tra Stato e
banche che, sul versante della finanza d’impresa, implicava una preminenza dei
finanziamenti esterni, attraverso l’intermediazione creditizia, rispetto
10
G. CONTI, Alternative Financial Systems in Industrial Economies (1970-85), in Finance
and the Enterprise: Facts and Theories, a cura di V. ZAMAGNI, London, Academic Press,
1992, pp. 207-246.
11
R. W. GOLDSMITH, Comparative National Balance Sheets. A Study of Twenty Countries,
1688-1978, Chicago – London, The Chicago University Press, 1985.
12
M. ALBERT, Capitalisme contre capitalisme, Paris, Seuil, 1991 (trad. it. Capitalismo
contro capitalismo, Bologna, Il Mulino, 1991) e R. DORE, Stock Market Capitalism
Welfare Capitalism: Japan and Germany versus the Anglo-Saxons, Oxford, Oxford
University Press, 2000 (trad. it. Capitalismo di borsa o capitalismo di welfare?, Bologna,
Il Mulino, 2001).

8
all’autofinanziamento e a scapito del ricorso a emissioni azionarie e obbligazionarie
sui mercati finanziari. Durante il periodo 1980-1990, la Francia conobbe profondi
cambiamenti nella propria geografia finanziaria grazie allo sviluppo dell’attività
borsistica (in volume e non solo in valore) e alla crescente importanza assunta
gradualmente dai mercati dei capitali.
In Italia l’insieme dei valori mobiliari emessi fu in continua crescita rispetto al
Pil fino al 1973. Dopo entrò in una fase di stagnazione che durò fino alla metà degli
anni ’80, allorché il boom dei valori e delle emissioni impresse una forte e rapida
spinta (con la sola rottura avvenuta negli anni 1994-96; v. graf. 1*). Le componenti
che sostennero tali andamenti furono comunque varie e seguirono anche evoluzioni
differenti. La quota dei valori azionari si mantenne stabile attorno al 45-50% fino al
1963. Scese rapidamente negli anni seguenti fin verso la fine degli anni ’70 e riprese
dopo la metà degli anni ’80, interrotta da un picco di risalita con vertice nel 1981-82.
I titoli di Stato, stabili attorno al 30% circa fino al 1956, scesero verso il 16% del
totale nel 1964. Da allora risalirono costantemente, con due impennate principali, la
prima nella seconda metà degli anni ’70, interrotta da un’inversione di tendenza fino
al 1981, e la seconda, molto intensa fino alla metà degli anni ’80 (quando i titoli di
Stato superarono il 60% del totale) e culminata nel 1995. Invece le obbligazioni
emesse da società pubbliche e private, finanziarie e non, aumentarono dalla seconda
metà degli anni ’50 fino al culmine dei primi anni ’70 (attorno al 38% circa del totale
dei valori mobiliari), per ridiscendere rapidamente fino al 1986 e restare dopo allora
attorno a valori poco superiori al 10%.
Se si considera, invece, la composizione per categorie di detentori di valori
mobiliari si possono osservare tre andamenti principali. In primo luogo, il mercato
dei titoli a reddito fisso era un mercato “interno” alle istituzioni creditizie tra la fine
degli anni ’50 e l’inizio anni ’80. Se prima e dopo di allora, i titoli di Stato erano
detenuti per il 40-45% dal complesso delle istituzioni creditizie, in quello stesso
periodo la quota da esse detenuta crebbe sino a toccare quasi il 90% nel 1977. Su ciò
influirono le misure di politica monetaria riguardanti la riserva obbligatoria (inclusi
titoli di Stato e garantiti dallo Stato, ma comprese anche obbligazioni di istituti di
credito speciale dal 1965), le politiche di pegging dei tassi a lunga (che tra il 1965 e il
’69 incentivarono la sottoscrizione di obbligazioni degli istituti di credito speciale da
parte delle banche ordinarie), e infine l’introduzione del vincolo di portafoglio, dal
1973 fino all’inizio degli anni ’80, portando così al culmine il fenomeno della
cosiddetta «doppia intermediazione»13, in corrispondenza di una forte riduzione della
quota dei valori mobiliari detenuti dalle famiglie. Un’altra importante conseguenza
era la crescita della quota di azioni detenuta da società non finanziarie: la proprietà di
queste ultime era detenuta da altre società attraverso un rafforzamento dei grandi
gruppi industriali e degli intrecci societari.

3.2. Finanza pubblica e ristrettezza dei mercati dei capitali


(1945-1964)

Nazionalizzazioni, dirigismo creditizio, finanziamenti pubblici agevolati:


queste le soluzioni verso le quali si orientarono le grandi decisioni di politica
13
La doppia intermediazione avveniva perché operazioni di credito a lungo termine condotte da
intermediari finanziari specializzati erano realizzate grazie a mezzi forniti dalle banche di deposito che,
tecnicamente, acquisivano e detenevano titoli emessi dagli istituti di credito speciale.

9
economica e monetaria dalla Liberazione che appesantirono durevolmente le attività
di mercato in Francia. Le scelte monetarie del 1945 condussero da un lato a un
aumento della pressione fiscale e dall’altro a una forte inflazione che ebbero effetti
deleteri sulla formazione del risparmio e sulle forme per garantire potere d’acquisto e
rendimento. Inoltre, la capitalizzazione di borsa si ridusse di circa due terzi in seguito
alle nazionalizzazioni del 1945-1948. Infine, le scelte in materia pensionistica a favore
del sistema a ripartizione, invece di quello a capitalizzazione, non incentivò
l’investimento in valori mobiliari, né ad orientare l’investimento delle casse e dei
fondi pensionistici verso il mercato dei capitali.
Nonostante ciò il risparmio dei francesi, tradizionalmente abbondante,
continuò anche a mantenersi molto liquido e disperso, a causa dell’inesistenza del
risparmio istituzionale. Inoltre, soprattutto le pressioni inflazionistiche e l’erosione
monetaria che accompagnarono la crescita economica francese dopo il 1945 finirono
per scoraggiare i risparmiatori. D’altronde, l’imposta sui valori mobiliari subì spesso
inasprimenti, giungendo a livelli superiori a quelli vigenti in altri paesi europei. Il
quadro divenne completo se si considerano anche i provvedimenti fiscali adottati che
non premiavano il risparmio e scoraggiavano gli investimenti finanziari almeno fino
al 1965, quando fu introdotto il sistema dell’«avoir fiscal» *** (che tuttavia non
favoriva l’investimento da parte di non residenti). Infine, tale tendenza si invertì solo
nel 1978, con la legge Monory che permise la costituzione delle SICAV (società
d’investimento a capitale variabile) invertì quella tendenza.
Tutto ciò contribuiva a rafforzare l’importanza e il ruolo dell’intermediazione
nell’intercettare il risparmio: in principio da parte dello Stato stesso, poi da parte delle
banche, ma sempre da entrambi in un rapporto di reciprocità. Dopo la guerra, lo
Stato svolse un ruolo preponderante nei circuiti finanziari, controllandoli
direttamente o indirettamente, attraverso istituti di credito specializzati come la
Caisse des dépôts et consignations, il Crédit national, il Crédit foncier e altri. La
finanza pubblica ricorreva comunque al mercato finanziario in maniera regolare fino
a quasi tutti gli anni ’60.
Dopo il 1940, lo Stato (tecnicamente attraverso la direzione del Tesoro)
divenne, ad un tempo, tutore e attore del mercato. Tali compiti erano svolti
attraverso un controllo molto rigido del mercato finanziario esercitato su diversi
livelli: una regolazione delle emissioni e delle operazioni di borsa e una rigida scala di
priorità. La regolazione riguardava anzitutto il calendario e i volumi delle emissioni
private che erano approvati dal Tesoro (per gli importi superiori ai 25 milioni di
franchi, plafond reso meno stringente nel 1957 e ancora nel 1968). Inoltre, le
commissioni sulle operazioni di borsa dovevano rispettare norme precise e uniformi
fino al 1986. Infine, il Tesoro fissava una gerarchia fra i vari emittenti: Stato,
collettività locali, imprese pubbliche, imprese private e, infine, imprese straniere. Il
volume delle emissioni pubbliche e i tassi d’interesse sui buoni del Tesoro
determinavano un razionamento dei capitali sul mercato finanziario. Fino al 1959 il
collocamento dei titoli pubblici era la priorità della politica monetaria e fiscale e, a tal
fine, si cercava di andare incontro alle esigenze dei risparmiatori offrendo loro
diversità di prodotti, indicizzazione sull’oro, defiscalizzazione, ecc.. accrescendo
ulteriormente l’incidenza del crowding out dei titoli di Stato su quelli privati (v. graf.
****).
Dopo il 1959, una politica più ortodossa e liberale spinse verso una
diminuzione consistente delle emissioni pubbliche fino al 1973, permettendo di

10
riorientare il risparmio verso le imprese. Il mercato finanziario restava tuttavia molto
poco sviluppato, quasi asfittico il mercato azionario.
Se dagli anni ’50 i pronunciamenti ufficiali delle autorità pubbliche ribadivano
la necessità di ridar respiro al mercato finanziario sostenendo l’importanza di una
internazionalizzazione, in realtà, la politica finanziaria e monetaria francese non fece
poco o nulla in tal senso. Qui stava tutta l’ambiguità della politica finanziaria che, da
una parte, predicava il ritorno al mercato e, dall’altra, manteneva ben stretti i lacci che
impedivano al mercato di poter prosperare.
A parte tale politica monetaria e finanziaria, e la regolamentazione molto
restrittiva che ne discendeva, il mercato aveva alcuni elementi di debolezza propri che
scoraggiavano l’investimento estero. Il primo di questi era la fragilità di un mercato
secondario che impediva un grado di liquidità sufficiente al mercato. Da un altro lato,
le commissioni sulle emissioni erano molto più elevate rispetto ad altre piazze
finanziarie in ragione dei costi di collocamento e di vendita porta a porta
(«démarchage») a carico degli intermediari per convincere risparmiatori e detentori di
patrimoni in cerca di remunerazione e sicurezza14. Parallelamente, il costo del credito
era mantenuto molto basso, favorendo così l’intermediazione creditizia piuttosto che
la finanza diretta.
A fine 1945 in Italia il capitale azionario nominale delle società per azioni era
di 68 miliardi di lire. Una quota rilevante, 26 miliardi, apparteneva a società
controllate indirettamente dallo Stato, e circa 36 miliardi a società private (il residuo
apparteneva a società straniere, cooperative per azioni e società controllate da
comuni). Questo carattere di economia mista trovò nel secondo dopoguerra varie
consacrazioni per garantire la cosiddetta libera iniziativa, impedendo un’ingerenza
diretta dello Stato (attraverso forme di vera e propria nazionalizzazione) e
salvaguardando gli assetti di proprietà esistenti da scalate e conflitti finanziari come
quelli che avevano accompagnato verso il crollo degli anni ’30.
Nell’immediato dopoguerra ciò implicò il mantenimento di un circuito
finanziario parapubblico di titoli a reddito fisso, uno sviluppo limitato dei mercati dei
capitali, la cui debolezza non era tanto, e solo, in termini di capacità di finanziamento,
ma anche, e soprattutto, di capacità di incidere su strategie d’impresa e di gruppi
industriali e di attrazione nei confronti di piccoli risparmiatori, quali potenziali
detentori di valori mobiliari privati, come solo modo autentico per rendere aperta e
contestabile la direzione delle imprese. Il ruolo stesso delle istituzioni finanziarie
specializzate nel credito mobiliare non operò al fine di integrare e sostenere l’azione
dei mercati ma, piuttosto, per chiudere il circuito risparmio-investimento offrendo
alle classi medie titoli garantiti e alle imprese flussi finanziari stabili per finanziare le
opere pubbliche e altri piani d’investimento privati. Le autorità italiane in questo
periodo furono coerenti e non tentarono di avviare riforme volte ad allargare i
mercati e a rendere più trasparenti le loro operazioni. Le operazioni di mercato
finivano così per far da complemento agli scambi «fuori borsa», negoziati su basi
bilaterali e senza pubblicità prima di essere definiti e conclusi, per consolidare la
governance dei principali gruppi industriali il cui potere si fondava proprio sulle
partecipazioni incrociate e a catena nella logica del massimo potere di controllo
attraverso il minimo esborso di capitale di rischio15.
14
Cfr. L. QUENNOUËLLE-CORRE, The state, banks and financing of investment in France
from World War II to 1970s, «Financial History Review», 12, 2005, pp. 63-86.
15
F. BARCA, Compromesso senza riforme nel capitalismo italiano, in Storia del
capitalismo italiano cit., pp. 43-54; N. COLAJANNI, Il capitalismo senza capitale, Milano,

11
Un’ulteriore smacco nei confronti delle logiche di mercato venne inflitto dalla
nazionalizzazione delle società elettriche nel 1962, per il modo con cui venne
realizzata16. La stagnazione delle quotazioni rese meno convenienti le nuove
emissioni e le ricapitalizzazioni effettuate con capitali «freschi». Tuttavia le imprese,
in generale, continuarono ad aumentare i mezzi propri attraverso l’accantonamento
di utili non distribuiti, di conferimenti da parte dei soci e di altre operazioni contabili
in esenzione fiscale, più facili e spedite specialmente per le imprese minori e per
quelle non quotate17.
Tali forme di equity financing si inaridirono progressivamente con la caduta dei
profitti a partire dagli anni ’60. La forbice dei saldi finanziari negativi delle imprese si
aprì ulteriormente dopo la crisi dei primi anni ’70 quando il mantenimento dei livelli
di investimento dipese da tassi d’indebitamento crescenti e molto elevati si configurò
come «via finanziaria allo sviluppo». Era contraddistinta da un indebitamento
sostenuto – come già anticipato – dai meccanismi amministrativi della «doppia» e
«tripla» intermediazione che caricava in definitiva sugli intermediari finanziari tutto il
peso del finanziamento industriale senza un allungamento effettivo delle scadenze,
una trasformazione e redistribuzione dei rischi, o possibilità di commutare debiti in
capitale di rischio. In mancanza di investitori istituzionali e in presenza di compagnie
di assicurazione poco propense ad abbandonare gli investimenti nel settore
immobiliare e in titoli di Stato era molto difficile per le imprese ricapitalizzarsi e di
farlo senza mettere in questione gli assetti proprietari. In tale contesto si giustificava
la debole propensione delle famiglie a investire parte dei propri risparmi finanziari in
valori mobiliari rischiosi (preferendo impieghi più liquidi e, talora, con rendimenti
non inferiori).

3.3. Tra liberalizzazioni e repressione finanziaria: le strade


divergono (1965-1984)

Lo sviluppo degli scambi internazionali, l’ingresso della Francia nel Mercato


comune nel 1958 comportarono una serie di riforme finanziarie e bancarie nel corso
degli anni ’60. In due o tre anni, la fisionomia del sistema finanziario francese
cambiò, ma senza che, in un primo tempo, ne risentisse il mercato dei capitali.
Nel 1966-1967, intervenne una riforma che mirava a rafforzare la capacità di
finanziamento delle banche introducendo la despecializzazione bancaria, la
liberalizzazione all’apertura degli sportelli, l’aumento delle possibilità di detenere
partecipazioni nelle imprese, e inoltre altre misure per consentire prestiti a medio e
lungo termine. A ciò si aggiunse una politica espressamente in favore del risparmio
attraverso la creazione di fondi per gli alloggi (compte épargne logement), e altre
forme di remunerazione per forme di raccolta con rimborso non immediato.
Dal punto di vista del mercato finanziario, furono presi diversi provvedimenti
per rilanciare il suo sviluppo e migliorare le condizioni di funzionamento con la
costituzione della COB, l’introduzione di misure fiscali, la creazione di un mercato
Rizzoli, 1991, p. 27.
G. Carli riconobbe che la linea da lui proposta in quell’occasione, di indennizzare le società e
16

non gli azionisti, avesse procurato gravi guasti al sistema finanziario, in Intervista sul capitalismo italiano, a
cura di E.Scalfari, Roma-Bari, Laterza, 1977.
17
F. CESARINI, Sistema bancario e offerta di capitale di rischio in Italia, in A. LAMFALUSSY,
I mercati finanziari europei, Torino, Einaudi, 1972, pp. 188-189.

12
ipotecario, l’introduzione di procedure di offerte pubbliche d’acquisto, l’attenuazione
dei vincoli autorizzativi da parte del Tesoro.
Dal punto di vista internazionale, la fine del controllo dei cambi e le politiche
per un franco forte portarono progressivamente alla riapertura della borsa ai valori
esteri. Parallelamente, dal 1965 in poi, la crescita degli euromercati sostenne lo
sviluppo delle emissioni internazionali in divise estere e favorì l’ingresso in Francia di
banche non residenti. Tutto ciò poteva essere interpretato come un segno tangibile di
un risveglio della piazza parigina. Secondo i dati OCSE, lo slanciò sembrò robusto a
partire dal 1973 per numero di filiali e succursali di banche estere: da 33 nel 1960
passarono a 136 nel 1973 e a 183 nel 1980.
Sul mercato delle obbligazioni, dal 1968, si assisté a un riassetto dei valori a
reddito fisso e all’aumento del 22% delle SICAV tra il 1965 e il 1975, in particolare
grazie all’abbassamento dei tassi d’interesse a lunga scadenza e a incentivi di ordine
fiscale sulle SICAV (con la legge Monory). La crisi e il ritorno a un intervento forte
da parte dello Stato nell’economia a partire dal 1974 rimisero in questione il peso e
l’effetto di spiazzamento da parte dei valori pubblici sul mercato delle emissioni a
lungo termine. Dopo la regola dell’«abstention d’appel» stabilita nel 1959 per
contingentare le domande pubbliche di emissione sul mercato finanziario, ma
raramente osservata, il disimpegno dello Stato beneficiò soprattutto gli istituti di
credito specialmente fino alla fine degli anni ’70 (tab. ***). Questi ultimi se ne
avvalsero infatti per recuperare risorse, dato che il massimale sui depositi e sul credito
(«encadrement du crédit») introdotto nel 1973 non si applicava per i fondi in leasing e
per quelli ottenuti attraverso l’emissione di titoli. Anche quando lo Stato riprese le
proprie emissioni a partire dal 1978, il mercato obbligazionario non risentì di tale
alterazione dovuta all’«emprunt 7%» del gennaio 1973, all’«emprunt 10%» del giugno
1976, del maggio 1977, ai quali si aggiunsero le quattro emissioni del 1978 (per 13,5
miliardi di franchi), tutte provviste di incentivi fiscali, o di indicizzazione sull’unità di
conto europea (ECU) come nel caso di quelle del 1973 e 1977.
Rispetto agli anni ’50, a partire dalla metà degli anni ’70 i titoli di Stato
cominciarono a svolgere un ruolo propulsore sul mercato obbligazionario. Nel
contempo, lo sviluppo finanziario legato alla crescita economica e
all’internazionalizzazione delle economie occidentali spinsero i governi a cambiare il
sistema di regole e di istituzioni riguardanti le attività di mercato. Ma la loro
realizzazione si mostro particolarmente lenta. L’evoluzione del mercato finanziario
restava dominata dal Tesoro che, fra l’altro, intendeva mantenere un pieno controllo
sul calendario delle emissioni18. Così fu negli stessi ambienti del Tesoro che venne
avanzata l’idea di spingere le imprese pubbliche francesi a indebitarsi sull’estero, al
fine di favorire la copertura dei disavanzi della bilancia dei pagamenti e per
sgombrare sul mercato interno gli eccessi di domanda, ma con la conseguenza di
finire di pesare negativamente sul mercato dei cambi per la scelta della
denominazione in valuta dei debiti contratti19. Per la stessa ragione il Tesoro continuò
a controllare l’accesso di imprese straniere alla borsa francese e le emissioni in
eurofranchi.

18
Voir L. QUENNOUËLLE-CORRE, La direction du Trésor1947-1967. L’Etat-banquier et la
croissance, Paris 2000, cap. X.
19
Per maggiori informazioni, v. L. QUENNOUËLLE-CORRE, Dette publique et marché de
capitaux au XXe siècle, in La dette publique de l’Antiquité à nos jours, colloque tenu à
Bercy les 3 et 4 octobre 2002 ***.

13
In Italia verso la metà degli anni ’60 si formò un nuovo orientamento di
sviluppo finanziario. Esso si basava su un sistema di copertura dei bisogni finanziari
delle imprese continuando però ad impedire alle banche ordinarie di trasformarsi in
miste. Il principio di tenere separato il credito dalla finanza comportò la
strutturazione di circuiti di intermediazione artificiosi e ancorati sulla centralità dei
depositi bancari, in mancanza di uno sviluppo del mercato obbligazionario. Le
banche imbottivano i propri portafogli con titoli emessi da istituti semi-statali o
parastatali (istituti di credito speciale, Iri, Eni e Enel), con i quali potevano ottenere
anticipazioni da parte della banca centrale. Il circuito era tutto interno al sistema
bancario. I risparmiatori non erano attratti perché le remunerazioni dei titoli
medesimi non si discostavano troppo da quelle offerte dai depositi bancari. Del resto,
gli istituti di credito incentivano la raccolta dei depositi per finanziare l’economia.
La «via finanziaria allo sviluppo» era ovviamente lastricata di debiti,
specialmente in condizioni di forte flessione dell’autofinanziamento. Le imprese
ricorrevano in maniera crescente all’indebitamento bancario incentivate, specialmente
dopo il primo shock petrolifero, da un’alta inflazione, da tassi d’interesse reali
negativi e da prospettive di crescita guidata dalle sempre più frequenti svalutazioni
del cambio. Questo modello di finanza d’impresa durato quasi due decenni era il
risultato dello stato di impasse in cui si trovava il mercato azionario, sottile e poco
efficiente anche per la mancanza di intermediari di mercato specializzati. Le vicende
sopra richiamate, insieme alla nominatività obbligatoria per le azioni e a un regime di
doppia imposizione sui dividendi costituirono un forte deterrente dal lato dell’offerta
e da quello della domanda.
Sempre attorno alla metà degli anni ’60 si rafforzarono gli interventi dello
Stato in materia di incentivi alle imprese e agli investimenti. La crescita degli istituti di
credito speciale si legava anche a questo sistema di intermediazione dei fondi pubblici
in forma di crediti agevolati. Dal 1964 al 1979 si stima che per le sole imprese
manifatturiere circa un quarto degli investimenti totali fu coperto dal credito
agevolato e da altri trasferimenti pubblici20. L’emissione di obbligazioni di istituti di
credito speciale si intrecciava al sistema del credito agevolato. Le banche ritenevano
di assicurare i propri rischi di credito attraverso meccanismi tecnici come il roll over di
carta che – secondo Mattioli – era «rapidamente ‘monetizzata’» trasformando la
medesima in «banconota con cedole».
In questa maniera si realizzarono importanti collocamenti di obbligazioni che
servirono a finanziare l’industria elettrica nazionalizzata, varie altre iniziative
riguardanti il Mezzogiorno, ristrutturazioni industriali nella siderurgia e nella
petrolchimica e i disavanzi del settore pubblico.
Il problema del collocamento dei titoli a reddito fisso divenne critico dopo il
1974 perché il rendimento, artificialmente basso in periodo di alta inflazione, portava
le banche a preferire i crediti a breve scadenza. La Banca d’Italia abbandonava le
politiche di twist dei tassi d’interesse volte ad allungare la durata delle scadenze e solo
l’introduzione di vincoli amministrativi per controllare l’espansione del credito
imponeva alle banche scelte di portafoglio condizionate per permettere anche la
chiusura dei circuiti finanziari che fino ad allora avevano operato con un sistema di
doppia intermediazione volontaria. Dal 1972 la quota di titoli presso le banche passò
dal 40% del totale a circa l’80% nel 1979-80 (graf. 3*). Ancora verso la fine degli anni
20
G. FEDERICO e R. GIANNETTI, Le politiche industriali, in Storia d'Italia. Annali, XV:
L'industria, a cura di F. AMATORI, D. BIGAZZI, R. GIANNETTI e L. SEGRETO, Torino, Einaudi,
1999, p. 1153.

14
’60 era assente un mercato dei titoli a breve scadenza: i Bot rappresentavano appena
lo 0,5% del debito pubblico e l’8,9% del Pil. I deficit pubblici dalla metà degli anni
’70 cominciarono a creare quel mercato importante per i successivi cambiamenti nella
struttura finanziaria.

3.4. L’espansione dei mercati in Francia e i ritardi italiani


(1984-2000)

Dalla fine degli anni ’70, e per fattori analoghi a quelli di altre economie
occidentali, la Francia dovette sostenere la pressione di movimenti internazionali di
capitali prima di aprire i propri mercati finanziari. L’apertura fu ritardata dalla crisi
economica successiva allo shock petrolifero, ma tra il 1984 e il 1987 la
modernizzazione finanziaria fece bruscamente irruzione sulla scena economica
nazionale attraverso una serie di misure di liberalizzazione prese dal governo
socialista che permisero alla fine il decollo dei mercati dei capitali (graf. ***). Si trattò
principalmente di riforme tecnicamente dirette ad una semplificazione e
liberalizzazione dei mercati finanziari: quotazione continua pour le CAC***,
smaterializzazione dei titoli, concorrenza aperta sulle commissioni, accesso al
mercato monetario da parte delle grandi imprese (attraverso i certificati di deposito),
riforma del mercato ipotecario, rimozione dell’autorizzazione preventiva per le
emissioni inferiori a un milione di franchi, riapertura del mercato degli eurofranchi
nel 1985.
A tutto questo si aggiunse nel 1986 la creazione di nuovi mercati come il
mercato a termine degli strumenti finanziari (Marché à terme des instruments
financiers, o MATIF), il mercato delle opzioni negoziabili (MONEP) nel 1987 e la
costituzione di concorrenti temibili per le banche, come gli OPCVM (organismes de
placements collectifs en valeurs mobilières).
Tuttavia, verso la fine degli anni ’80 il sistema finanziario francese restava
ancora molto segmentato e concentrato. I circuiti finanziari delle banche di deposito,
delle banche cooperative, delle istituzioni di credito a lunga scadenza risultavano
affiancati e non in concorrenza tra loro. Occorreva attendere le riforme degli anni ’90
per assistere a un processo di disintermediazione e di abbattimento di barriere.
In Italia si continuò più a lungo a seguire la strada sulla quale il sistema si era
immesso ed, anche se le pressioni internazionali spingevano in una direzione precisa,
l’epoca delle riforme fu rinviata finché fu possibile. Dall’inizio degli anni ’80 si
realizzò un cambiamento di paradigma nella politica monetaria italiana. Il processo di
disinflazione guidato dalla politica di altri tassi reali d’interesse e la politica di stabilità
del cambio imposero una differente cornice entro la quale si dovettero rinnovare le
strategie finanziarie delle imprese, degli enti pubblici e dello Stato stesso. Su scala
europea le premesse del cambiamento furono poste nel 1979 con l’adesione allo Sme
e l’avvio di un processo di integrazione monetaria e finanziaria. A livello nazionale
nel 1981 il «divorzio» tra Tesoro e Banca d’Italia pose termine alla creazione
automatica di base monetaria per finanziare il Tesoro in occasione delle nuove
emissioni. Una prima conseguenza fu un onore crescente sul servizio del debito
pubblico. La politica monetaria «qualitativa» fu praticata fino alla metà circa degli
anni ’80, mediante il ricorso a controlli amministrativi (tipo il massimale sugli
impieghi bancari), e a interventi indiretti per promuovere impieghi e attività
finanziarie alternative ai depositi. Il dominio della politica fiscale nel finanziare i

15
disavanzi del settore pubblico non era messo in discussione e si coniugava con un
mercato dei titoli sottile sul quale la Banca d’Italia poteva intervenire per controllare
corsi e tassi d’interesse21. L’adozione di politiche monetarie «quantitative»
rappresentò una rottura col passato e pose le basi per politiche volte a «favorire il
mercato» piuttosto che a «evitarlo»22. Il debito pubblico detenuto da famiglie
aumentava dal 28% del 1979 al 55% del 1989, grazie anche a scelte riguardanti
emissioni di titoli, come i Cct a tasso variabile e a più lunga scadenza, e
abbandonando le emissioni di titoli a lunga a tasso fisso.
Attraverso le nuove forme di gestione del debito pubblico venne creato un
mercato sempre più liquido per titoli a breve e a lungo termine nel quale operavano
intermediari che potevano conoscere in anticipo i bisogni del Tesoro senza attendersi
tentazioni di un ritorno al passato, e secondo le tappe di riforma già descritte nel par.
2.
In Francia la borsa ritrovò un ruolo propulsivo per lo sviluppo delle imprese
dei settori più innovativi: nel 2000, la «nuova economia» aveva un peso del 25% nella
capitalizzazione di borsa. Sull’intero periodo 1984-1999, il mercato azionario divenne
particolarmente attraente in tremini di rendimenti e capital gain, e preferito rispetto al
mercato delle obbligazioni e degli immobili. La sua crescita fu accompagnata da
un’espansione dei nuovi prodotti derivati; anche se il MATIF risentì della
concorrenza delle altre piazze finanziarie più importanti come Chicago, Londra,
Francoforte. Il mercato finanziario francese era ormai organizzato in quattro
compartimenti: il primo mercato (Premier marché, l’ex quotazione ufficiale), il
Second marché (creato nel 1983), il Nouveau marché (sorto nel 1996) e il Marché
libre (l’ex mercato non ufficiale, o «hors-cote»).
Il risultato fu la rinascita di Parigi come centro finanziario internazionale. Nel
1998, Parigi, divenuta un’interessante piazza finanziaria, era una meta per
l’insediamento di banche estere tanto che in Francia se ne contavano 187 rispetto alle
172 banche nazionali. La creazione di Euronext nel 2000, dalla fusione di Paris
Bourse, Brussels Exchange e Amsterdam Exchange, mise a disposizione degli
investitori una sola piattaforma di negoziazione superando Londra in termini di
transazioni di azioni nazionali. Nel 2000, Parigi era diventata una delle tre principali
piazze finanziarie nell’Unione europea e si poneva tra le cinque più importanti a
livello internazionale.
Alla fine del XX secolo, la Francia poteva considerarsi uno dei paesi
occidentali che più di altri si era avvicinato verso il modello finanziario anglo-
americano, ma il suo sistema finanziario restava ancora dominato dalla forte presenza
e dal ruolo sempre importante delle banche e degli intermediari finanziari.

4. Conclusioni
In quanto collettori del risparmio, intermediari di borsa e fornitori di credito,
le banche sono rimaste in Francia e in Italia i principali intermediari finanziari. Da un
21
T. PADOA SCHIOPPA, Reshaping Monetary Policy, in Macroeconomics and finance.
Essays in honor of Franco Modigliani, a cura di R. DORNBUSH, S. FISHER e J. BOSSONS,
Cambridge (Mass.) 1987, pp. 264-286.
22
P. PAESANI e G. PICA, Cause e gestione del debito pubblico in Italia. Politiche
macroeconomiche, gestione del debito pubblico e mercati finanziari, Bologna, Il Mulino,
2002.

16
lato, le banche hanno sopperito alla debolezza di altri intermediari di borsa: la scarsa
capacità finanziaria degli agenti di cambio, le ridotte possibilità di collocamento da
parte dei fondi pensionistici. Le compagnie di assicurazione, che in Francia sono tra i
primi tre investitori sul mercato obbligazionario dal 1946 in poi, non svolgono alcun
ruolo nel collocamento di titoli né in quello delle emissioni.
Si pone allora la questione del perché le banche piuttosto che il mercato
abbiano continuato a svolgere un ruolo così importante. Si possono avanzare alcune
ipotesi relative alla specificità sociale della Francia: preferenza alla tesorizzazione,
dispersione del risparmio, difficoltà di drenaggio; tutti fattori che possono aver
favorito la diffusione territoriale delle banche di deposito e di altre istituzioni di
credito23. Da un altro lato, il ruolo delle banche nel sistema finanziario era rafforzato
dalla politica monetaria e creditizia avviata dopo il 1945 (basso costo del credito,
dirigismo in materia di emissioni, riforme tardive per permettere una loro espansione
solo dal 1967 in poi).
Nel caso francese l’intermediazione finanziaria ha così dominato per circa un
mezzo secolo avvantaggiando soprattutto le grandi banche di deposito: nel 1962 per
il collocamento delle obbligazioni delle 100 prime imprese francesi, le 4 grandi
banche di deposito sono state i capofila nel 59% delle emissioni di obbligazioni e nel
49% delle emissioni azionarie. Per quelle stesse imprese, le medesime hanno fornito
crediti per circa il 73%. La saldatura tra mercato finanziario e grandi banche di
deposito per il collocamento dei titoli pubblici ha consentito la formazione di un
cartello ristretto e durato circa quarant’anni. Ciò ha avuto effetti soprattutto sul costo
delle commissioni bancarie, rendendo il mercato finanziario francese poco
competitivo in rapporto alle altre piazze finanziarie e alle altre fonti di finanziamento.
Soprattutto le grandi banche di deposito e una banca d’affari, la Banque de
Paris et des Pays-Bas, rimasero attive sui mercati finanziari. Cinque istituti (poi
quattro) animavano il mercato, sostenevano le emissioni, consigliavano le imprese in
materia di operazioni sul capitale sociale e gli investitori riguardo alle opportunità di
impiego.
In compenso le banche commerciali francesi hanno mantenuto da tempo un
portafoglio titoli molto esiguo rispetto alle banche di altri paesi, rivestendo un ruolo
di intermediari di borsa ma non di investitori istituzionali. Le ragioni di tutto ciò
possono essere rintracciate nei timori per la propria solvibilità, o piuttosto, e più
realisticamente, perché in Francia fino al 1967 è rimasto in vigore il divieto per le
grandi banche di deposito di detenere più del 20% di valori di un’impresa non
finanziaria.
Il sistema ha sviluppato ugualmente alcune istituzioni di credito specializzate:
Caisse des dépôts et consignations, Crédit national, Crédit foncier. Alcune di queste
istituzioni non hanno possibilità di raccogliere depositi ma possono avvalersi di
emissioni sul mercato per far credito alle imprese (tab. 2*). Il caso più importante è
quello del Crédit national. Gli altri istituti intervenivano come regolatori del mercato
a proprio nome o per conto dello Stato, come nel caso della Caisse des dépôts et
consignations fin dal XIX secolo.
In Francia e in Italia, la tutela del risparmio si è estesa anche alla protezione
dell’investitore in titoli, a scapito delle possibilità di sviluppo della piazza finanziaria
andando così a sostenere la stabilità più che la concorrenza sui costi e lo snellimento
delle procedure. Sotto la pressione internazionale, in France si è affermata una
liberalizzazione dei circuiti di finanziamento e, nel contempo, un processo di
23
Cfr. il lavoro di Plessis e Polsi nel presente volume.

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disintermediazione. Ma ancora negli anni ’90 restava un paese nel quale il
finanziamento bancario predominava, come succedeva anche per l’Italia ma qui per
una ristrettezza strutturale dei mercati finanziari e di quella della borsa in particolare.
Si è così formato un sistema ibrido, sempre fondato sulla finanza indiretta, ma
rispetto ad altri paesi come la Germania o l’Italia, si riscontra ancora un ruolo
persistente dei poteri pubblici accanto ad una convergenza più rapida verso il
modello anglo-sassone di finanziamento dell’economia.
Anche per tutti gli anni ’80, la Francia non trovava classificazione adeguata
nella tipologia market-based o bank-based, che sembra semplicistica e inappropriata. Le
banche hanno accompagnato e permesso lo sviluppo della capitalizzazione della
borsa e quest’ultima ha rafforzato la posizione delle banche stesse in quanto
intermediari mobiliari, consulenti finanziari delle imprese e sottoscrittrici di titoli
attraverso la loro rete di filiali specializzate nella gestione dei portafogli (SICAV,
FCP). Le banche hanno nuovamente sviluppato mestieri diversi per adattarsi
all’evoluzione dei mercati finanziari e per mantenersi nella posizione di cardine
centrale del sistema.
Anche l’Italia, ma con un certo ritardo, si trovò ad avere un’economia non
più «orientata alle banche», ma nemmeno «orientata al mercato», come nei paesi
anglosassoni: all’inizio del nuovo secolo si trovava a mezza strada e con avvii di
processi di riforma non conclusi e dagli esiti incerti.
Il ritardo italiano era anzitutto rispetto agli obiettivi di integrazione finanziaria
messi in atto nei principali paesi europei per completare la liberalizzazione dei
mercati interni. Ciò era dipeso da una tradizione dura da scalfire e dall’inefficacia
delle stesse politiche volte a stabilire un maggior grado di concorrenza nei mercati dei
servizi, compresi quelli finanziari, a proprietà pubblica o privata. I problemi di
governance e di concorrenza sono andati di pari passo intralciandosi a vicenda. I ritardi
sono stati recentemente attribuiti ad una «cultura acquisitiva orientata alla rendita
piuttosto che al profitto»24 non scalfita nemmeno a seguito dell’industrializzazione e
dello sviluppo economico del secondo dopoguerra. La segmentazione dei mercati è
stata sia un esito «naturale» che il risultato di spinte regolative volte ad assicurare
protezioni di vario genere a soggetti diversi anche in funzione della stabilità a livello
politico e sociale. Il debito pubblico che, per molti versi, con una crescita dirompente
ha creato un vasto mercato a cui tutti gli operatori finanziari hanno fatto riferimento,
per altri versi, ha ostacolato un completamento della struttura complessiva del
sistema finanziario. Le banche si sono così mostrate deboli nel fornire servizi
finanziari alle imprese che nella riorganizzazione della governance. Tutto questo
nonostante i cambiamenti avvenuti sul piano normativo e di riforma istituzionale con
il recepimento di due direttive comunitarie in materia bancaria (nel 1985 e 1992), con
la trasformazione di molti istituti di credito in società per azioni (legge Amato del
1990 e poi con la legge Ciampi del 1999), l’assegnazione della tutela della
concorrenza nel mercato del credito alla Banca d’Italia da parte della legge antitrust
del 1990, il processo di liberalizzazione degli sportelli, la liberalizzazione dei modelli
organizzativi e l’abbattimento dei vincoli operativi precedentemente stabiliti da una
rigida specializzazione (principi recepiti nel testo unico bancario del 1993). Lo Stato
ha così abbandonato il capitale delle principali banche (nel 1992 oltre i tre quarti del
sistema bancario era di proprietà pubblica mentre nel 2001 la quota era trascurabile
essendo scesa allo 0,12%), portando ad un completo riassetto dei gruppi bancari

R. Costi e M. Messori (a cura di), Per lo sviluppo. Un capitalismo senza rendite e con capitale, Bologna, Il
24

Mulino, 2005, p. 12.

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attraverso un processo di fusioni e acquisizioni. Sul lato dei mercati azionario e delle
obbligazioni societarie le potenzialità di un loro sviluppo offerto dai cambiamenti
normativi (specialmente con il testo unico sulla finanza del 1998 riguardante però le
società quotate, mancando fino ad anni recenti una legge per la tutela del risparmio e
una di riforma del diritto societario e fallimentare) si sono scontrate con la strutturale
mancanza di investitori istituzionali (come fondi pensione, società di gestione del
risparmio, compagnie di assicurazione e fondazioni bancarie), ma anche per la stessa
frantumazione del sistema produttivo, per la fragilità finanziaria delle piccole e medie
imprese, poco propense a farsi quotare.

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