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La scomparsa dell’Italia industriale, L.

Gallino

Politici e manager senza visione del futuro hanno trasformato l’Italia in una colonia industriale. Per
recuperare terreno occorre una politica economica orientata verso uno sviluppo ad alta intensità di
lavoro e di conoscenza.

Introduzione: Dei criteri seguiti per disfare la grande industria senza crearne di
nuova
Nel XXI secolo un paese privo di una grande industria manifatturiera rischia di diventare una
sorta di colonia, subordinata alle esigenze economiche, sociali e politiche di altri paesi che tale
industria posseggono. Ciò vale in modo particolare per quei settori industriali essenziali per
l’economia del terzo millennio. È possibile che in quel paese (in quei particolari settori) operino
unità produttive controllate da imprese straniere. Una tale situazione implica, però, che tutte le
decisioni rilevanti saranno prese altrove, mentre i relativi costi economici, sociali e umani
ricadranno sul paese ospitante. Se questa soluzione potrebbe essere accettabile per i paesi in via di
sviluppo, per l’Italia (che è stata tra i primi paesi industriali del mondo) si tratterebbe di una
rovinosa caduta. L’Italia sta correndo precipitosamente questo rischio.
Vari i “criteri guida” cha ci hanno portato in tale situazione:
1) lo spreco dei capitali immessi nel sistema italiano
2) il tentativo di ricavare capitali dalle de-nazionalizzazioni (o privatizzazioni), inserendo nello
stesso paniere sia aziende insignificanti per l’economia del paese che imprese
elettromeccaniche ad alta tecnologia (che nel loro comparto erano leader mondiali)
3) la persistenza da parte di larghi strati di top manager italiani nell’impegnarsi in settori
produttivi nei quali non possedevano né preparazione né esperienze adeguate
4) la convinzione di molti top manager che l’industria sia una semplice appendice fastidiosa
della finanza, perché obbliga a faticare di più mentre fa guadagnare di meno. Convinzione
alla quale si appaia la credenza per cui un buon manager è onnicompetente: se è stato in
grado di dirigere un istituto finanziario, allora saprà anche dirigere un’industria (o viceversa)
5) l’affermazione della politica nazionale e internazionale sulla razionalità economica (oppure
di questa su quella) badando sempre a che il momento di decidere il primato della prima
sulla seconda (o viceversa) fosse quello sbagliato
6) l’inclinazione delle imprese ad adottare modelli organizzativi capaci di ottenere tassi di
produttività molto elevati da forze di lavoro con un livello di istruzione piuttosto basso,
anziché a investire più largamente in ricerca e sviluppo e in formazione
Per renderci conto della situazione in cui versa l’industria italiana possiamo guardare all’elenco
delle prime 500 società del mondo (per grandezza di fatturato) pubblicato dalla rivista “Fortune” nel
2002. In tale elenco, ne compare una sola italiana: la Fiat, al 49° posto. Solo tre anni prima essa
stava al 33° posto. Nello stesso elenco si incontrano numerose imprese industriali di paesi assai più
piccoli dell’Italia (quali Olanda, Svizzera, Svezia, Finlandia).
Tra le prime dieci corporation disposte in ordine di fatturato, 5 sono industrie manifatturiere
(General Motors, Ford, Daimler-Chrysler, General Electric, Toyota). Tre anni prima (nel 1999)
l’elenco analogo ne comprendeva solamente due (GM e Ford). Tra le restanti cinque ve ne sono tre
che senza l’industria manifatturiera non esisterebbero, o sarebbero molto più piccole: si tratta di
imprese petrolifere (Exxon, British Petroleum, Shell). Nel complesso, nel gruppo delle prime dieci
corporation del mondo, quelle manifatturiere rappresentano il 58% dei dipendenti e il 77% del
fatturato.
La rilevanza economica e sociale di tali industrie va, però, oltre il singolo dato numerico: oltre ad
avere entro di sé dei processi produttivi ad alta intensità di lavoro, ogni azienda manifatturiera
genera attorno a sé una quantità di posti di lavoro molto più elevata rispetto a quella delle aziende
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del terziario aventi dimensioni simili, perché acquista all’esterno una immensa quantità di merci e
di servizi.
Inoltre, un paese avanzato non può restare privo di aziende manifatturiere perché:
7) un’autentica innovazione di prodotto richiede un’intensa attività di ricerca e sviluppo.
Questa richiede grandi investimenti, a fronte del rischio di non riuscire a recuperarli in
futuro. Simili investimenti, con i relativi rischi, sono in generale al di fuori della portata
delle piccole e medie imprese. Un paese che conti prevalentemente su di esse per la propria
produzione industriale è condannato a importare tecnologia dall’estero assai più di quanta
non riesca ad esportarne. Senza godere dei benefici economici, occupazionali e intellettuali
del lavoro ad alta intensità di conoscenza che un ampio apparato di ricerca e sviluppo è
capace di generare

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Capitolo 1: “Un neo da estirpare”: l’informatica
La scomparsa dell’Italia informatica si identifica con il disfacimento di una delle aziende italiane
più avanzate e conosciute nel mondo: la Olivetti di Ivrea, la cui vicenda ha attraversato tre fasi.
L’inizio della prima fase risale al 1955. All’epoca, in Italia, non esisteva un imprenditore dotato di
una visione così anticipatrice della rilevanza industriale dell’elettronica quale Adriano Olivetti. Nel
1952 egli aveva istituito un “osservatorio” a New Canaan (Connecticut) al fine di seguire da vicino
con un gruppo di giovani tecnici gli sviluppi negli Stati Uniti del “calcolo elettronico” (l’odierna
informatica). Nel 1954, poi, l’azienda di Ivrea aveva siglato con l’Università di Pisa un accordo per
costruire un calcolatore elettronico. L’anno dopo la Olivetti aprì un proprio Laboratorio di Ricerche
Elettroniche a Barbaricina (nei pressi di Pisa).
Nel 1955 in Italia erano installati due soli calcolatori: il modello 102A della statunitense NCR (al
Politecnico di Milano) e il Ferranti Mark I di produzione britannica (al Cnr di Roma). Lo sesso anno
avevano cominciato ad apparire i primi calcolatori fondati sulla tecnologia dei transistor in luogo
delle valvole “termoioniche”.
Verso la fine del 1959 il lavoro di Adriano Olivetti dava i primi risultati industriali: dal Laboratorio
di Borgolombardo usciva l’Elea 9003, il primo calcolatore elettronico interamente progettato e
costruito in Italia. Con l’Elea la Olivetti si inseriva autorevolmente nella mezza dozzina di
produttori di mainframes che si spartiva il mercato mondiale. L’Elea era una macchina
d’avanguardia, velocissima, che accettava differenti modalità di ingresso dei dati e dei programmi.
Era in grado di eseguire tre programmi contemporaneamente ed il design (curato da Ettore Sottsass)
era superbo. In poco più di un anno se ne sarebbero venduti oltre quaranta.
Nel 1961 il Laboratorio di Ricerche Elettroniche di Borgolombardo lanciava un modello più
leggero e di minor costo della serie Elea, il 6001, concepito per le esigenze delle piccole e medie
aziende. In un quadriennio circa, del modello 6001 vennero fabbricate alcune centinaia di unità.
Il successo garantito da queste due macchine non era sufficiente per portare al pareggio il bilancio
di pertinenza della Divisione Elettronica, ma rappresentava una base tecnologica e industriale più
che adeguata per arrivare a competere in Italia e in Europa nel piccolo gruppo internazionale dei
produttori di mainframes.
Negli anni immediatamente successivi alla scomparsa di Adriano Olivetti (inizi del 1960), la
Olivetti incorse in difficoltà finanziarie che la famiglia non fu in grado di superare. Il controllo
dell’azienda venne, quindi, assunto nel 1964 da un gruppo di intervento formato da Fiat, Pirelli,
Mediobanca, IMI e Centrale. Tale gruppo, però, si dimostrò pessimista circa le prospettive
dell’azienda nel settore dell’elettronica. Pertanto, lo stesso anno venne costituita una società che
stando al nome attribuitole (Olivetti-General Electric – OGE), pareva presentarsi come un’alleanza
tra uguali. Tuttavia, il 75% delle azioni era assegnata alla General Electric. Nel 1967 la sua
partecipazione nella OGE salì al 100%, ma appena tre anni dopo decise di abbandonare il settore
informatico.
All’uscita della Olivetti dal settore dei grandi calcolatori contribuirono vari fattori accidentali:
1) il più forte sostenitore dell’ingesso dell’azienda in tale settore era stato Adriano Olivetti.
Dopo la sua scomparsa, il fratello Dino e il figlio Roberto non potevano compensarne il peso
di fronte alla famiglia, agli esponenti del gruppo di intervento e agli alti dirigenti
dell’azienda
2) inoltre, i commentatori della vicenda Olivetti hanno insistito soprattutto sulle difficoltà
finanziarie in cui era caduta l’azienda. Oggi si può, però, affermare che si tratta di un luogo
comune. In primo luogo, le difficoltà furono esagerate dagli stessi attori che dovevano farvi
fronte. In altri casi pesò nel formulare un giudizio negativo l’interesse di membri del gruppo
di intervento. Da ultimo va sottolineato che gli investimenti necessari per far crescere la
Divisone Elettrica e renderla maggiormente competitiva sarebbero stati tutt’altro che
spropositati

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3) ciò che mancò fu la capacità di afferrare l’importanza che l’informatica sarebbe andata
assumendo nella produzione, nel lavoro, nella ricerca, in tutta l’organizzazione sociale
Con il passaggio della Divisione Elettronica alla OGE nel 1964 si era chiusa la prima fase
dell’informatica Olivetti. Appena un anno dopo se ne apriva una seconda. Il citato gruppo di
ingegneri rimasto in azienda lavorava (guidato da Pier Giorgio Perotto) alla progettazione di una
calcolatrice elettronica di dimensioni non molto più grandi delle calcolatrici elettromeccaniche che
avevano contribuito ai successi della casa di Ivrea. A tale macchina fu dato il nome di Programma
101, poi abbreviato in P101 (o Perottina).
La P101 era il primo vero personal computer costruito in serie. Sebbene non avesse un video, in
essa tutte le funzioni di immissione dati, di programmazione (per la quale si usava una scheda
magnetica) e di elaborazione interna, erano elettroniche. Le dimensioni erano ridotte grazie all’uso
esclusivo di circuiti integrati.
La P101 era offerta ad un prezzo che assicurava un elevato margine di redditività (due milioni in
Italia e 3.200 dollari negli Stati Uniti). Tra il 1966 e il 1971, di essa vennero prodotti circa 44.000
esemplari. Fu sconfitta, però, dai giapponesi che (nella seconda metà degli anni 60) avevano invaso
il mercato con calcolatrici elettroniche dalle prestazioni simili alla P101, ma a prezzi molto più
bassi. La direzione Olivetti aveva commesso l’errore di credere che il vantaggio acquisito nel
campo della micro-informatica con la sua nuova creatura sarebbe durato a lungo, mentre avrebbe
dovuto immediatamente investire nella ricerca e sviluppo di una macchina di successiva
generazione. A causa di questo errore, si verificò un’uscita con minime possibilità di ritorno.
Nonostante tutto un ritorno ebbe luogo. L’informatica Olivetti, e italiana, avrebbe infatti conosciuto
una terza fase, fiorente ma breve, con la produzione di PC Ibm-compatibili. Il primo PC della
Olivetti (che nel 1978 era stata rilevata da Carlo De Benedetti) apparve nel 1982 con la sigla M20.
Fu un mezzo fallimento. Il successo arrivò due anni dopo, con il modello M24. Le vendite di PC
Olivetti si collocarono per alcuni anni al sommo delle classifiche europee. Ma già nei primi anni 90,
la Olivetti incontrava gravi difficoltà. I margini di profitto per unità prodotta erano diventati irrisori.
La causa dei problemi della Olivetti sul fronte del PC fu la quasi totale assenza di valore aggiunto
derivante da una propria autonoma innovazione tecnologica: la M24 era un’ottima macchina, ma di
propriamente olivettiano aveva solamente il design (dovuto a Sottsass). Per potersi affermare sul
mercato dei PC, Olivetti aveva dovuto trasformarsi in un assemblatore. Tuttavia, nel campo dei PC,
le possibilità innovative di un assemblatore al confronto con la concorrenza sono minime. Però, il
modo che avevano inventato per metterli insieme era genialmente originale. Ciò spiega come la
Olivetti riuscisse a vendere quelle macchine a prezzi pari a 4-5 volte il loro costo industriale.
Su tale attività pesavano, inoltre (negli anni 80 e 90) i costi di gestione di stabilimenti immensi e
onerosi, concepiti 30 o 40 anni prima: capolavori di architettura industriale, ma inadatti per
superfici, volumi e planimetrie per ospitare l’assemblaggio di microcomputer o anche la produzione
di parti di essi, ai quali bastano ambienti dieci volte più piccoli. L’insieme di questi fattori negativi
obbligò a ridurre la produzione.
Nel 1996, subentrato a De Benedetti nella proprietà dell’azienda, l’imprenditore mantovano
Roberto Colaninno avviò la trasformazione della Olivetti in “contenitore finanziario”, da utilizzare
per attività del tutto estrinseche alla sua vocazione e cultura industriale. Il suo principale contenuto
sarebbe stata la Telecom. L’uscita dalla produzione dei computer fu ratificata nel 1997.
Il 12 marzo 2003 il marchio Olivetti venne cancellato dal registro delle imprese italiane quotate in
borsa ad opera del finanziere milanese Marco Tronchetti Provera (suo ultimo proprietario): era
necessario accorciare la catena di società finanziarie che controllavano la Telecom (e la Olivetti era
un anello superfluo).

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Capitolo 2: L’aeronautica civile: l’impegno a restare piccoli
Confrontando i dati dell’industria aeronautica italiana relativamente agli anni 1918 e 2002,
possiamo notare come tale industria fosse enormemente più produttiva nel passato che non in epoca
recente.
L’elevato volume di produzione del 1918 era dovuto alla guerra (mentre quella del 2002 era per più
della metà civile). Tuttavia, gli addetti alla progettazione e costruzione di aerei dei gironi nostri
possono contare su un immenso capitale di conoscenze scientifiche e tecnologiche, e di saper fare
industriale, accumulatosi nel corso di un secolo. Quelli del 1918 potevano contare quasi solo sulla
propria capacità inventiva.
Il confronto fra l’industria aeronautica del 1918 e quella del 2002 suggerisce che quella piccola
Italia dimostrava di possedere le capacità tecnologiche e produttive per diventare effettivamente una
potenza aeronautica. L’Italia del 2002 non può, invece, ambire a tale definizione.
Superata la crisi post-bellica dei primi anni 20 (dovuta alla contrazione delle commesse militari)
l’industria aeronautica italiana conobbe un periodo di notevole espansione: tra la metà degli anni 20
e la metà dei 30 essa era presente con centri di ricerca e progettazione, o stabilimenti di costruzione
e montaggio, in quasi tutte le regioni italiane.
I velivoli fabbricati dalle aziende italiane erano concepiti da progettisti di fama internazionale (quali
Gianni Caproni, Mario Castoldi, Alessandro Marchetti, Filippo Zappata), al cui fianco lavoravano
esperti di metallurgia e di motoristica.
Il governo Mussolini fu abile a sfruttare per scopi di propaganda le capacità tecnologiche
dell’industria aeronautica italiana, ma non seppe avviare una seria politica di razionalizzazione e
concentrazione delle aziende esistenti. Inoltre, il governo fascista mandò i piloti italiani a
combattere nel 1940 in condizioni di tragica inferiorità.
A causa delle distruzioni e delle dispersioni di tecnici e dirigenti prodotte dalla guerra, dopo il 1945
si registrò la chiusura o la scomparsa come entità autonome di molte delle aziende esistenti.
Tuttavia, gran parte delle potenzialità che quelle aziende avevano rappresentato, e del loro capitale
umano, esistevano ancora nel periodo della ricostruzione. Per raggrupparle e coordinarle sarebbe
servita una politica industriale specifica per il settore aeronautico, ma questa non si vide.
L’occasione per diventare grande nel settore dell’aeronautica civile fu offerta all’Italia tra la metà
degli anni 60 e i primi anni 70. Nel 1969 a Bonn i governi francese e tedesco si accordano per
produrre un aereo civile di grande capacità in grado di opporsi al dominio delle case statunitensi.
Nel 1970 viene ufficialmente costituito un consorzio in un quadro giuridico francese: lo Airbus
GIE (formato dalla francese Aerospatiale e dalla tedesca Daimler-Benz Aerspace). Un anno dopo la
sua fondazione, entrano nel consorzio la britannica British Aerospace e la spagnola Construcciones
Aeronauticas S.A. (CASA).
Fu proposto anche all’Italia di partecipare al consorzio. Il nostro governo rifiutò, giudicando troppo
onerosa per il bilancio la quota di ingresso nel consorzio necessaria per avere in esso un peso
decisionale: fu la decisione più dannosa per la nostra aeronautica civile (e per il paese).
Gli inizi dell’Airbus non furono facili: ci vollero 23 anni per consegnare i primi 1.000 Airbus, ma
solo altri 6 per arrivare a 2.000 e solamente tre per superare i 3.000. Nel 2001 il consorzio si
trasformava in una società per azioni indipendente, con l’80% del capitale detenuta dalla EADS
(nata dalla fusione della francese Aerospatiale-Matra, la tedesca DaimlerChrysler Aerospace e la
spagnola CASA) e il 20% in mano alla britannica BE Systems. Nei primi mesi del 2003 la società
Airbus si presentava come un gigante con 46.000 dipendenti; 4 stabilimenti di produzione in
Francia, 7 in Germania, 3 in Spagna, 2 nel Regno Unito; 3.100 aerei consegnati sotto le insegne di
oltre 190 compagnie aeree; 300 consegne l’anno di aeromobili; circa 1.500 ordinativi in portafoglio
(corrispondenti al 57% del mercato mondiale degli aerei commerciali con più di 100 posti). E un
introito in preventivo di 20-22 miliardi di euro, a fronte dei 19,5 miliardi del 2002.
Nel 1999 l’Italia ebbe nuovamente l’opportunità di entrare nell’impresa Airbus, ma non la sfruttò.
La scelta italiana di non entrare nel consorzio (poi società) Airbus è costata molto cara:
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- in termini di forza lavoro: la perdita netta di posti di lavoro dovuta al rifiuto di partecipare
all’impresa dell’Airbus può essere valutata tra le 20.000 e le 30.000 unità
- l’occupazione creata dall’Airbus avrebbe, poi, contribuito a ridurre le distanze tra i rispettivi
volumi nazionali dell’occupazione complessiva nel settore aerospaziale, che vede l’Italia
ultima tra i maggiori paesi europei
- ancora, entrando nell’Airbus l’Italia avrebbe avuto l’opportunità di essere co-protagonista
della più grande e avanzata filiera tecnologica, industriale e logistica che esista oggi in
Europa
Per questo oggi si afferma che l’Italia ha scelto di restare piccola (o medio-piccola) nel campo
dell’aeronautica civile.

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Capitolo 3: Formule nocive per la chimica
Lo sgretolamento della grande industria chimica italiana è iniziato verso la metà degli anni 60 per
concludersi intorno al 2002. Tale disastro è stato generato dai vari tentativi di stabilire alleanze
volte a sopprimere la concorrenza.
A metà degli anni 50 del 900, la società Montecatini (fondata a Milano nel 1888, ma entrata nel
campo della chimica solo verso il 1920) possedeva circa 160 stabilimenti chimici e laboratori di
ricerca (oltre a parecchie miniere) e contava 55.000 dipendenti. La seconda industria italiana del
ramo (la SNIA Viscosa) contava alla stessa epoca circa 20.000 dipendenti. La Montecatini era
collocata tra le prime cinque imprese del settore chimico a livello mondiale (esclusi gli Stati Uniti).
Verso la fine del decennio la Montecatini era premuta da un problema, e attraversata da una meta:
a. il problema era l’accresciuta concorrenza internazionale, che metteva a rischio la posizione
di oligopolista che la società milanese deteneva da decenni
b. la meta consisteva nell’accaparrarsi la maggiore quota possibile degli ingenti capitali che in
quel periodo lo stato metteva a disposizione per le imprese che investivano nel Mezzogiorno
Per attenuare il problema e avvicinarsi contemporaneamente alla meta, i padroni della Montecatini
concepirono un’alleanza con la Shell, dando vita alla Monteshell. Il primo progetto della nuova
società fu la costruzione di un polo petrolchimico a Brindisi (progetto dalle dimensioni galattiche).
Tuttavia, né le previsioni produttive né quelle occupazionali si realizzarono. La stessa alleanza con
la Shell durò solamente 5 anni. Nel 1966 il Petrolchimico di Brindisi ritornò alla casa madre.
Nello stesso periodo, il maggior produttore italiano di energia elettrica era la Edison. In vista della
nazionalizzazione dell’energia italiana attuata dal governo nella seconda metà degli anni 50, la
Edison iniziò un programma di diversificazione, avventurandosi in settori nei quali il suo
management aveva limitata esperienza.
Il decreto di nazionalizzazione venne pubblicato nel 1962: la Edison era rimasta disoccupata (come
produttore di elettricità), ma con i relativi indennizzi si era ritrovata ricca. Nel frattempo, però, i
nuovi settori in cui si era avventurata non davano risultati particolarmente promettenti. Fu il
banchiere Enrico Cuccia di Mediobanca a indicare alla Edison la strada da seguire: acquisire
Montecatini mediante i fondi messi a disposizione dallo stato. Questo evento avvenne nel 1966. La
Edison e la Montecatini si fondevano (mediante incorporazione della seconda nella prima)
formando la Montedison.
Con questa fusione era nato un gigante che controllava il 20% del mercato europeo delle materie
plastiche, il 10% di quello delle fibre sintetiche e oltre il 15% dei prodotti intermedi. Un gigante
che, però, aveva i piedi di argilla.
L’Eni (gruppo pubblico) non aveva gradito la formazione di un supergruppo privato capace di
dominare la chimica italiana. Così, nel 1968, con la partecipazione dell’Iri e con l’assenso del
governo, acquistò il 15% delle azioni Montedison (partecipazione di controllo). Veniva, così, meno
la possibilità di una reale concorrenza tra il gruppo pubblico e il gruppo privato.
Eni e Montedison si accordarono nei primi anni 70 per costruire in Sardegna (a Ottana) due
giganteschi stabilimenti, per ottenere altri finanziamenti pubblici. La capacità produttiva dei due
impianti, però, eccedeva la domanda nazionale e internazionale dei prodotti che fabbricavano. Le
conseguenze furono perdite considerevoli. Tuttavia, mentre l’Eni poteva sopportare tali perdite, per
la Montedison esse si sommavano a quelle derivanti dall’andamento negativo della maggior parte
delle sue attività.
Nel 1981 venne tentata una nuova operazione di risanamento della società milanese su base
finanziaria. Le condizioni continuarono, però, a peggiorare. Non fu, quindi, difficile per un gruppo
industrial-finanziario emergente (il ravennate Ferruzzi) conquistare il controllo della Montedison.
Nel 1988 vengono avviate le trattative tra il gruppo Ferruzzi e l’Eni, allo scopo di costituire una
nuova società (la Enimont) alla quale conferire le rispettive attività chimiche.
Poco più di un anno dopo la nascita di Enimont, l’Eni decide di acquistare la totalità delle azioni
Montedison in Enimont. Nel 1991 la società controllata prenderà il nome di Enichem. Nel 1992
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questa si collocherà effettivamente tra le prime dieci società chimiche del mondo in termini di
fatturato. Supera, però, anche gli 8.000 miliardi di lire il debito consolidato dell’Enichem. Di fronte
a questa voragine, l’Eni corre ai ripari a colpi di dismissioni e di tagli all’occupazione. Nel 2002,
l’Eni costituisce una nuova divisione (la Polimeri Europa) alla quale l’Enichem conferisce tutti i
suoi stabilimenti esteri e la maggior parte di quelli italiani. Sempre nel 2002, l’Eni avvia una
trattativa con un gruppo di proprietà saudita (la Sabic – Saudi Basic Industries Corporation) per
cedergli il pacchetto di maggioranza posseduto in Polimeri Europa.
Nel frattempo, le attività chimiche della Montedison si potevano considerare estinte. Tra il 2001 e il
2002 viene, poi, ceduta anche Ausimont. Con queste cessioni la Montedison cessa di esistere. Sulle
macerie della chimica e della altre sue società si erge solitaria un’azienda specializzata nella
produzione e distribuzione di energia elettrica: la Edison.
La scomparsa della grande industria chimica ha lasciato dietro di sé un passivo dalle molte voci,
alle quali va aggiunto il danno al sistema paese derivante dall’essere passato da una posizione di
primo piano nel mondo (quanto alla chimica) a una quantomeno secondaria.
Oggi, esiste ancora in Italia un’industria chimica: nel 2001 essa contava circa 125.000 addetti
distribuiti in 900 aziende. Contro i 175.000 della Francia, i 185.000 del Regno Unito e i 400.000
della Germania. Sotto il profilo occupazionale, l’intero settore pesava dunque (in Italia) appena 1,8
volte di quanto non pesassero quasi mezzo secolo prima due sole aziende (Montecatini e SNIA).
L’incidenza sul totale delle piccole e medie imprese chimiche è salita dal 50% del 1980 all’84% del
2000. Circa il 40% della produzione del 2001 era ascrivibile a imprese italiane controllate da
imprese estere. Solo una parte minima dell’occupazione in tali imprese (il 4,5%) era dovuta a nuove
iniziative produttive. Su 259 nuovi impianti chimici pianificati e annunciati per il periodo 2000-
2006 (da localizzare in Europa occidentale) quelli previsti per l’Italia erano solamente 14. L’Olanda
ne prevedeva 24, 31 il Belgio (pesi molto più piccoli dell’Italia). Il deficit commerciale
dell’industria chimica italiana toccava (nel 2001) gli 8,5 miliardi di euro.
Numerosi commentatori si sono espressi favorevolmente circa la segmentazione della chimica
italiana in un numero elevato di piccole e medie imprese (considerandolo un indicatore di
modernizzazione del settore). Tale considerazione si espone, però, a due obiezioni:
[1] in primo luogo, la capacità innovativa delle piccole-medie imprese chimiche di oggi
proviene dal personale che ieri si era formato alla grande scuola della Montedison, per
trovare poi impiego in aziende minori. Tale popolazione di capaci ricercatori e tecnici sta
uscendo di scena (per ragioni di età) e non si vede come potrà essere sostituita
[2] in secondo luogo, senza le grandi imprese viene a mancare un’eccellenza nella ricerca
chimica che possa interagire con le piccole e le medie. In altre parole, le piccole-medie
imprese non sono in condizioni di fare ricerca di alto livello, la sola che assicuri
competitività a livello internazionale

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Capitolo 4: Il brevetto rifiutato e l’elettronica di consumo
Gli italiani sono dei formidabili adepti dell’elettronica di consumo (originando il quinto-sesto
mercato del mondo). Tuttavia, rispetto agli altri mercati di pari o maggiori dimensioni (Usa,
Giappone, Germania, Francia, Gran Bretagna), quasi nessuno dei prodotti disponibili sul mercato
nazionale deriva da un progetto originale di imprese italiane, e solo una quota modesta di essi è
fabbricata in Italia (per lo più da marchi stranieri). Il progresso tecnologico ha allargato di molto i
confini dell’elettronica di consumo. Eppure alla base di tale settore rimane la tecnologia radio.
Proprio nel modo in cui nacque e si sviluppò la radio-tecnologia si può vedere un segno anticipatore
della condizione attuale dell’industria dell’elettronica di consumo italiana. L’invenzione
determinante per lo sviluppo della “telegrafia senza fili” fu realizzata nel 1895 dall’italiano
Guglielmo Marconi. Dopo il successo dei primi esperimenti, egli avrebbe avuto bisogno di
agevolazioni burocratiche e di finanziamenti per proseguire le ricerche. Non le trovò in Italia, ma
gli furono promessi in Inghilterra. Nel 1896 Marconi provò ad offrire la sua invenzione in esclusiva
al ministero italiano delle Poste e Telegrafi, che respinse l’offerta non vedendone l’utilità.
Marconi ritornò, quindi, in Inghilterra, dove (nel 1896) depositava una descrizione completa del suo
sistema di telegrafia senza fili, con relativa domanda di brevetto. Stabiliva, inoltre, in quel paese la
sede delle proprie attività. Infatti, fondò nel 1898 la Wireless Telegraph and Signal Company, che
nel 1900 divenne la Marconi’s Wireless Telegraph Company. Tale società esiste ancora oggi, con il
nome di Marconi Corporation plc.
Con il rifiuto di acquisire quel brevetto in esclusiva, l’Italia aveva compromesso la propria
possibilità di diventare protagonista nello sviluppo delle ricerche e delle applicazioni industriali
della radio.
Un contributo significativo al consumo e alla produzione di apparecchi radio provenne negli anni 30
dal regime fascista (che vedeva nella radio un efficace mezzo di persuasione di massa).
All’epoca della rivoluzione post-bellica, l’industria italiana della radio aveva tre strade dinanzi a sé:
1. arricchita da nuovi marchi, essa avrebbe potuto sfruttare l’esperienza cooperativa fatta con il
modello standard costruito in comune per realizzare qualche forma di consorziamento, al
fine di accrescere e concentrare gli investimenti in ricerca e sviluppo
2. oppure (mediante un processo incrociato di fusioni e acquisizioni) avrebbe potuto creare un
gruppo consistente, capace di reggere alla concorrenza dei produttori europei
3. ancora, si poteva sperare che un singolo imprenditore avesse il talento per creare da solo
un’impresa di grandi dimensioni
Nessuna di queste strade venne, però, seguita: in pochi anni l’industria italiana degli apparecchi
radio venne spazzata via.
Settant’anni dopo il rifiuto opposto a Marconi, un altro diniego governativo finì per infliggere danni
gravissimi al settore che per tre decenni avrebbe dominato l’elettronica di consumo: la Tv a colori.
Le trasmissioni a colori iniziarono in Francia e nel Regno Unito nel 1967. Seguirono poco tempo
dopo la Germania Occidentale, l’Olanda e altri paesi. In Italia esse inizieranno solamente nel 1977.
Gli storici della televisione includono tra i fattori di un simile ritardo le pressioni dell’industria
automobilistica (timorosa di veder diminuire le proprie vendite se le famiglie si fossero chiuse in
casa a godersi il nuovo mezzo anziché fare gite in auto), nonché quelle degli editori di giornali e
periodici (preoccupati di veder scemare gli introiti pubblicitari). Tuttavia, la responsabilità
maggiore di tale decisione ricade sui governi di allora: i tempi (erano gli anni dello shock
petrolifero) imponevano un comportamento economico austero anche alle famiglie. Di
conseguenza, un televisore a colori (a giudizio del governo) era una forma politicamente
inaccettabile di spreco.
Le conseguenze industriali e commerciali di questo secondo rifiuto governativo si videro presto.
Nel 1980 gli abbonati Tv superavano già i 13 milioni, e si accingevano a sostituire gli apparecchi in
bianco e nero con quelli a colori. Però in quell’anno l’industria italiana produsse solamente 1,2

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milioni di apparecchi di questo tipo. Una festa per i marchi stranieri: in pochi anni furono sopraffatti
i due soli produttori italiani di apparecchi Tv in grande serie (la Zanussi e la Indesit).
Sebbene ai nostri giorni siano le importazioni a dominare il mercato dei televisori, una quota
apprezzabile della residua produzione nazionale è dovuta a case italiane che riescono a offrire a
basso prezzo apparecchi assemblati con pezzi di buona qualità sebbene tecnologicamente datati,
acquistati quasi per intero da case estere. Tolte tali eccezioni, nel resto dell’elettronica di consumo
la situazione è anche peggiore che non nel comparto Tv: tale mercato è occupato al 90-95% da
quattro-cinque marchi giapponesi, due-tre coreani, un paio di marchi statunitensi, più i tre grandi
europei (Philips, Siemens e Grundig). Gli scarsi marchi italiani si dividono i pochi punti percentuali
che rimangono sul totale del mercato nazionale.
Nel campo della telefonia cellulare, la produzione delle case italiane rappresenta una quantità
trascurabile. Il nostro mercato è dominato (per una quota che nel 2003 si aggirava sull’80%) da
quattro giganti di altrettante nazionalità (la finlandese Nokia, la svedese Ericsson, la statunitense
Motorola e la giapponese Panasonic). Diversi marchi esteri posseggono in Italia centri di ricerca e
impianti di produzione o di assemblaggio. Per contro (nel 2003) esistevano solamente due marchi
italiani di cellulari, dei quali uno solo si poteva definire propriamente nazionale quanto a progetto e
produzione. La loro quota di mercato non ha mai superato uno o due punti percentuali.
Può essere una parziale consolazione sapere che una quota consistente dei microprocessori utilizzati
da alcuni dei maggiori produttori stranieri di telefonia cellulare sono fabbricati in Italia. Resta il
fatto che il paese che inventò la radio non ha svolto né svolge alcun ruolo nella concezione, nella
progettazione, nelle strategie commerciali e nell’organizzazione produttiva della telefonia cellulare,
la più moderna delle tecnologie fondate sugli sviluppi della radio.

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Capitolo 5: Cessioni e smembramento di imprese high tech
Altri metodi hanno permesso di far scendere di parecchie posizioni le grandi imprese industriali
italiane:
1. la cessione delle imprese stesse a imprese o gruppi esteri (magari a prezzo scontato)
2. lo smembramento delle imprese, vendendone le parti separate a diversi acquirenti
3. i risultati sono ancora più appariscenti nel caso in cui si riesca ad applicare
contemporaneamente ambedue i metodi
Due esempi clamorosi di cessioni sono (nell’ambito delle privatizzazioni):
 il Nuovo Pignone di Firenze (maggior produttore mondiale nel campo dei compressori per
impianti petroliferi, petrolchimici, del trasporto di gas naturale e in quello delle turbine per
azionamento meccanico). Il 70% del capitale del Nuovo Pignone viene ceduto dall’Eni alla
General Electric nel 1994, la cui partecipazione salirà (nel 1998) oltre il 90%
 la Elsag Bailey Process Automation, una delle tante filiazioni della San Giorgio di Genova,
fondata ne 1905 e passata sotto il controllo di Iri-Finmeccanica negli anni 60 come Nuova
San Giorgio. Una sua divisione si specializza nelle nuove tecnologie e prende il nome nel
1969 di Elettronica San Giorgio (da cui l’acronimo Elsag). Tramite una ulteriore
gemmazione nascono negli anni 80 la Elsag Automazione e Gestione Servizi, e la Elsag
Bailey. Anche quest’ultima, quando viene privatizzata, è un leader mondiale nel suo campo,
centrato sull’automazione e l’ingegnerizzazione dei processi industriali. Nel 1998 la
Finmeccanica cede la maggioranza delle azioni Elsag Bailey al gruppo svizzero-svedese
ABB (Asea Brown Boveri)
Un caso celebre di smembramento è stato l’Ansaldo (controllata dall’Iri tramite Finmeccanica).
Fondata a Sampierdarena (Genova) nel 1853, l’Ansaldo ha prodotto bastimenti e automobili,
aeroplani e centrali nucleari, locomotori e turbine idrauliche, generatori elettrici e macchinari per la
movimentazione di materiali. Tra gli anni 60 e 80, l’Ansaldo aveva decine di società controllate,
attive in oltre quaranta paesi con 18.000 dipendenti. Intorno al 1980 esse erano raggruppate in
quattro principali settori: Energia, Automazione industriale, Trasporti, Altre Attività. Il settore
energia dovette subire una drastica riduzione di personale a causa dell’uscita dell’Italia dal nucleare,
della diminuzione della domanda di centrali termoelettriche e della crescente concorrenza
internazionale.
Tra il 1998 e il 2000, la Finmeccanica attua a spese dell’Ansaldo una sequenza impressionante di
dismissioni e riassetti societari, ricorrendo allo strumento delle privatizzazioni. Del colosso Ansaldo
di un tempo restano in Finmeccanica due pilastri: Ansaldo Energia, e Ansaldo-Breda, che costruisce
locomotive, autobus, sistemi di segnalamento ferroviario. Il primo è stato fortemente
ridimensionato. Per il secondo è stato avviato un percorso di disimpegno.
Altri due casi recenti che han contribuito a ridurre il peso e l’autonomia si collegano alla Fiat. Per
oltre vent’anni la Fiat Ferroviaria di Savigliano, in Piemonte, è stata leader mondiale nel campo
dei treni ad assetto variabile. Verso il 2000 il Gruppo Fiat cede il 51% di Fiat Ferroviaria alla
Alstom, la casa francese che costruisce i TGV (treni ad alta velocità), con diritto di prelazione sul
restante 49%, che non tarderà ad essere esercitato.
Tre anni dopo, viene ceduta anche Fiat Avio: la maggiore realtà italiana nel campo dei grandi
motori aeronautici per usi commerciali, dotata anche di una presenza importante nel campo dei
sistemi di propulsione per vettori specializzati nel mettere in orbita satelliti per telecomunicazione.
Nel 2003 viene deciso che Fiat Avio sarà scorporata entro pochi mesi da Fiat Holding per tramutarsi
in Avio spa, società il cui capitale sarà detenuto per il 70% da un fondo d’investimento privato
statunitense (Carlyle Group) e per il 30% da Finmeccanica.
Per giustificare tutte queste operazioni sopra indicate sono state addotte varie ragioni. In tre casi
(Nuovo Pignone, Elsag Bailey e Ansaldo) c’era sullo sfondo l’imperativo delle privatizzazioni. In
tutti e cinque i casi v’erano di mezzo anche impellenti esigenze finanziarie: la Finmeccanica nel
1997 era prossima al fallimento, così come di rischi di fallimento si parlava da tempo anche per la
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Fiat. Nel caso Fiat Avio la motivazione è duplice: ridurre l’indebitamento della holding (causato
principalmente da Fiat Auto) e ristrutturare l’assetto societario per renderlo più funzionale al core
business, la missione primaria (che rimane l’automobile). Infine, sono state illustrate ragioni
tecnico-organizzative più complesse (come l’apertura di prospettive di sviluppo e di crescita).
Molte di queste ragioni, però, mostrano crepe ed omissioni non trascurabili. In sintesi:
 un’organizzazione produttiva è un sistema cognitivo distribuito, tanto più complesso qualora
si abbia a che fare con l’elaborazione e l’applicazione industriale di tecnologie avanzate. Il
valore di un’organizzazione come sistema cognitivo ha poco a che fare con la sua
capitalizzazione in borsa, ma ha molto a che fare con il suo valore a lungo periodo, con gli
effetti positivi che induce nelle persone, nell’economia e nella vita sociale. Considerando
anche questo parametro, si può capire come aziende quali il Nuovo Pignone siano state
vendute per una parte a prezzo di mercato, e per il resto regalate
 mediante alcune delle cessioni in parola è stata accresciuta la capacità concorrenziale di
imprese estere a danno di quelle italiane, sul loro stesso territorio (si veda il caso Alstom)
 sono stati smantellati quei pochi gruppi italiani di elettromeccanica che avessero struttura e
dimensioni tali da poter reggere il confronto con i maggiori gruppi esteri, almeno in Europa
(è il caso dell’Ansaldo)
 è stata significativamente allargata la capacità di governo e di indirizzo dell’industria
italiana che risiede nelle mani di imprese estere: nel 2001 oltre il 42% del capitale azionario
industriale era in mani straniere e tale quota è oggi sicuramente cresciuta
 l’argomento della globalizzazione (secondo il quale la localizzazione della proprietà è
divenuta ininfluente) avrebbe un certo peso se tra le imprese italiane “globalizzate” e quelle
capaci di globalizzarne altre in paesi esteri esistesse un certo equilibrio. Ma nulla è più
lontano dalla realtà: nel periodo 1983-1998 i capitali stranieri hanno fatto registrare 2.774
acquisizioni industriali in Italia, mentre le imprese italiane hanno portato a termine soltanto
875 acquisizioni all’estero
Si può, allora, facilmente capire come il ciclo di cessioni a imprese estere, privatizzazioni e
smembramenti di grandi gruppi abbia concorso ad avvicinare l’Italia allo stato di colonia
industriale, dove le decisioni fondamentali vengono prese da soggetti stranieri, nell’interesse loro e
non della località in cui operano.

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Capitolo 6: L’automobile: strategie non riuscite per diventare grandi
In Italia parlare di automobile significa parlare della Fiat. Questa è un’anomalia italiana: in tutti i
principali paesi i produttori di auto per i mercati di massa sono almeno due o tre. Nel 2002 la crisi
produttiva e finanziaria della Fiat ha preoccupato enormemente l’opinione pubblica: se la Fiat
dovesse chiudere (o passare in mani straniere) scomparirebbe l’industria automobilistica italiana.
Esaminando il caso Fiat, si possono identificare (nella sua storia) due cicli di acquisizioni e di
diversificazione: il primo ha contribuito alla sua crescita, mentre il secondo l’ha condotta in una
situazione critica. Durante il primo ciclo la Fiat è cresciuta incorporando tutti i costruttori italiani di
auto aventi un certo nome e dimensioni industriali significative:
 a Torino: Itala, Ceirano, Chiribiri, Diatto, Temperino, SPA (Società Ligure Piemontese
Automobili), SCAT (Società Ceirano Automobili Torino), Lancia
 nelle altre parti d’Italia: la Fabbrica di Automobili e Velocipedi Edoardo Bianchi & C
(fondata a Desio), la Innocenti (a Lambrate) e l’Alfa Romeo
Anche sul fronte della diversificazione industriale la Fiat ha proceduto, nel suo primo ciclo, con
estrema precocità e notevoli affermazioni. Sin dagli anni 10 del 900 (la Fiat era stata fondata
solamente nel 1899) costruisce in serie autocarri, autobus, vetture tramviarie. I suoi primi aerei
decollano nel 1915 (con motori Fiat). Verso il 1917 costruisce i suoi primi convogli ferroviari. Due
anni più tardi entra nel settore dei trattori. Nata come fabbrica di automobili, la Fiat diventa così un
gruppo con numerosi settori operativi (tra i quali l’auto ha un peso dominante), aventi tutti
un’impronta segnatamente industriale. Un gruppo che ha conosciuto successivamente numerose
crisi, dalle quali ha saputo uscire ogni volta più grande e solida.
Almeno sino alla fine del 900, quando compie cent’anni. In quel momento appare chiaro che il
secondo ciclo di diversificazione e di acquisizioni (avviato con gli anni 80) ha prodotto effetti ben
diversi dal primo: la crisi di Fiat Auto ha, infatti, le sue radici nel’insuccesso di due strategie il cui
avvio risale a quest’epoca:
a. la strategia di diversificazione extra-industriale messa in opera sia all’interno del Gruppo
Fiat, sia all’esterno (ovvero al di sopra di esso) per mano di Ifil, l’investitore finanziario
controllato tramite l’Ifi dalla famiglia Agnelli
b. la strategia adottata per tentare di far acquisire a Fiat Auto le dimensioni produttive
necessarie per sopravvivere sul mercato globale dell’automobile
In sintesi, nel 2002 Fiat Gruppo comprendeva (oltre a Fiat Auto) settori operativi quali: editoria e
raccolta pubblicitaria (La Stampa e Publikompass); assicurazioni (Toro Assicurazioni); risorse
umane, formazione, gestione di immobili, progettazione e realizzazione di grandi opere, servizi di
amministrazione, servizi immobiliari, consulenza aziendale, telecomunicazioni, soluzioni di e-
commerce, acquisti di e-procedurement; produzione e distribuzione di energia elettrica.
La Ifil, invece, racchiudeva (oltre al Fiat Gruppo) società attive nei settori della grande distribuzione
(Rinascente); della produzione e distribuzione di prodotti cartari (Wiggins, Antalis); della ispezione
e certificazione di materie prime e di prodotti industriali (SGS); del turismo (Alpitour e altre) e
dell’industria alberghiera (Sifalberghi).
L’Ifil giustificava tale strategia di investimenti diversificati asserendo che si tratta di settori non
ciclici e ad elevato potenziale di sviluppo, nell’ottica di differenziazione del rischio e di
bilanciamento della tendenziale ciclicità del settore delle auto. La Fiat, invece, giustificava la
propria strategia in termini di crescita nei servizi come parte integrante della propria attività e di
strategia di valorizzazione delle proprie attività e competenze interne. Tuttavia, nell’ottica di Ifil la
Fiat sembrava occupare lo stesso posto che nel proprio portafogli titoli un oculato risparmiatore
assegna alle azioni considerate “ad elevata variabilità” (conviene tenerne una certa quota, a
condizione di affiancarle una quota maggioritaria di azioni stabili e di obbligazioni). Inoltre, tale
strategia ha contribuito a dirottare in altre direzioni delle risorse economiche che sarebbero state
preziose per Fiat Auto.

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Ciò che più importa, però, sono le conseguenze di tale duplice strategia di diversificazione sul
comportamento organizzativo degli alti dirigenti. Costruire automobili su larga scala è l’attività più
complessa che esista nell’industria contemporanea. Per imparare a svolgere con successo tale
mestiere a livello di alta direzione occorrono grandi talenti, studi appropriati e lunghe esperienze in
un’azienda del ramo. Ma prima ancora la struttura organizzativa dell’impresa deve essere tale da
obbligare, motivare e incentivare i dirigenti ad occuparsi esclusivamente della produzione di
automobili e del suo difficile mercato. Proprio tale condizione venne meno entro e sopra la Fiat, a
causa del processo di diversificazione interna ed esterna sopra delineato.
Questo risulta evidente da un confronto tra le strutture organizzative di Fiat e dei suoi concorrenti:
nei gruppi Toyota, Volkswagen, DaimlerChrysler, PSA (Peugeot-Citroen), Renault, Ford, General
Motors l’auto costituisce almeno il 90% del fatturato, contro il 70% per la Fiat e il 40% per l’Ifil.
Nei primi anni 90 il limite inferiore della massa critica per sopravvivere sul mercato globale
dell’auto si collocava intorno ai 3 milioni di vetture l’anno. La Fiat ne produceva 2,2-2,3 milioni:
avrebbe dovuto diventare più grande. Di fatto la Fiat si è approssimata a tale limite nel 1997
(producendo 2,7 milioni di vetture), ma negli anni successivi se ne è considerevolmente allontanata.
Ricordiamo che esistono tre strade per diventare più grandi sul mercato globale: espandere la
produzione tramite l’apertura di nuovi impianti in diversi paesi; acquisire il controllo di altre case
costruttrici; stabilire forti alleanze (joint ventures) con qualche casa costruttrice del gruppo di testa.
La Fiat si è impegnata soprattutto sulla prima strada (e meno sulle altre due) ma in nessuna è giunta
a capo del cammino.
L’espansione della produzione all’estero l’ha vista impegnata nella seconda metà degli anni 90
tramite l’allargamento delle unità produttive già operanti in Argentina e Brasile e l’apertura di nuovi
stabilimenti in India, Cina, Russia, Polonia e Turchia (tutti paesi relativamente sviluppati o in via di
sviluppo). Espandendosi in essi molto ci si aspettava dalle classi medie, sulle quali il management
Fiat contava come potenziali consumatrici di auto di qualità e prezzo ricadente nella media dei
listini mondiali. Tuttavia, là dove una classe media esisteva, essa venne schiacciata dalle crisi
finanziarie e nei paesi dove sarebbe dovuta emergere, essa prese la forma di una classe medio-alta
poco interessata alle vetture piuttosto rustiche offerte dalla Fiat.
Lungo le altre due strade andò peggio. Nel 1981 la Fiat esce dalla Seat di Barcellona, in cui era
entrata nel 1949 con una forte partecipazione azionaria. La Seat fu acquisita poco dopo dalla
Volkswagen, che iniziava così il cammino che l’avrebbe condotta a surclassare la Fiat in termini di
volumi produttivi e quote del mercato automobilistico europeo. Nel 1985 vi furono trattative serrate
per costituire un’alleanza con Ford, che vennero (però) interrotte alla fine dell’anno: un insuccesso
gravido di conseguenze per Fiat Auto. Nel 1998 essa tenta di acquisire il controllo della Volvo, ma
anche questa operazione fallisce: la Volvo passa alla Ford.
Nello stesso periodo tutte le altre principali case costruttrici si ingigantiscono. Ad esempio, Peugeot
e Citroen si fondono nella PSA e diventano il secondo costruttore europeo, subito dopo la
Volkswagen, con il 15,5% del mercato nel 2002 (circa il doppio della Fiat).
Questo scenario complessivo di acquisizioni, fusioni e alleanze tra pari a livello mondiale, lascia
intendere come il sentiero per praticare tale strategia al fine di accrescere le proprie dimensioni
produttive è divenuto ormai molto stretto. Così come è diventata stretta (allo stesso scopo) la strada
della produzione autonoma di vetture complete. Rimane (forse) aperta la strada che vede affiancata
alla produzione di vetture complete la produzione di grandi parti di autoveicolo. La maggior parte
dei produttori, infatti, già seguono questa via. Tuttavia, anche in questo caso il problema per Fiat
rimane il modo di arrivare a produrre un volume di super-componenti destinati sia alla GM, sia ad
altri costruttori, che (aggiunta alla produzione di vetture complete) porti ad una equivalenza di 3
milioni di auto l’anno, il minimo per sopravvivere nella ristretta cerchia dei produttori globali. A tal
fine, la Fiat dovrà attuare delle strategie decisamente innovative (rispetto al recente passato) nel
campo della struttura societaria, dell’organizzazione societaria, dell’organizzazione produttiva e dei
rapporti internazionali.

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Capitolo 7: Quali riforme per una politica industriale?
Da anni una parte significativa del mondo economico e politico chiede siano attuate con urgenza
varie riforme che mirano (a detta dei loro proponenti) ad accrescere la competitività internazionale e
le possibilità di sviluppo dell’economia italiana. Riforme che riguardano le imposte (diminuzione
della pressione fiscale e dell’aliquota dell’imposta sui redditi da impresa), il mercato del lavoro
(introduzione di nuove tipologie contrattuali), il sistema previdenziale (riduzione del prelievo
contributivo), la Pubblica Amministrazione (progressiva aziendalizzazione per raggiungere un dato
standard di efficienza, efficacia, produttività ed economicità) e la politica economica estera
(iniziative di “ampio respiro”, “promozione del Made in Italy, credito all’esportazione, strumenti di
supporto all’internazionalizzazione”).
Tuttavia, tali riforme non appaiono adeguate: se fossero state introdotte all’epoca delle disgrazie
industriali citate nei capitoli precedenti, non avrebbero potuto evitarle.
Ancora, tali riforme gioverebbero solo marginalmente ai settori citati nei capitoli precedenti per
tornare ai livelli d’oro iniziali.
Se si volessero affrontare i problemi della competitività e dello sviluppo dell’industria italiana con
strumenti più mirati, sarebbe necessario tentare di elaborare una politica industriale tenendo presenti
alcuni punti:
 una politica industriale nazionale richiede delle leggi quadro, purché poi si riesca a
realizzarle: la migliore delle leggi per una nuova politica industriale non avrebbe effetto,
essendo i “criteri guida” intesi a non fare industria (o a disfarla) – riassunti nell’introduzione
- ancora operanti
 non si può sperare che una politica industriale efficiente sia realizzata dal mercato: il
mercato può sanzionare a posteriori (positivamente o negativamente) una politica attuata,
ma non può farla nascere con i propri automatismi. Alcuni dei più vistosi successi del
mercato degli ultimi decenni hanno, in realtà, dietro di sé la mano pubblica (si pensi, ad
esempio a Internet)
 un altro punto di partenza della politica industriale dovrebbe essere la consapevolezza che
l’industria manifatturiera rappresenta un settore centrale dell’economia contemporanea.
Pertanto, al centro di qualsiasi politica industriale dovrebbero esser collocati i problemi della
grande industria manifatturiera: quella che in Italia rischia di scomparire. D’altra parte,
concepire ed elaborare una politica industriale che riconosca il peso centrale dell’industria
manifatturiera non significa difendere ad ogni costo tutti i comparti di quest’ultima che
esistono in un paese, ma richiede si compiano determinate scelte (anche dolorose) circa i
comparti da sostenere e quelli da lasciare al loro destino
Ciò che ad ogni costo bisognerebbe riuscire ad ottenere dalle imprese italiane è che si adoperino a
produrre più tecnologia (anziché limitarsi ad acquistarla).
Uno degli indicatori più efficaci per misurare la creatività tecnologica di un paese è il numero di
domande di brevetto per milione di abitanti presentate per avere effetto in ambito internazionale.
Nella UE l’ente che riceve e valuta tali domande è lo European Patent Office (Epo). Nella relativa
classifica per il 2001, l’Italia occupava (su quindici paesi dell’UE) il dodicesimo posto. Inoltre,
meno del 10% delle domande di brevetto presentate all’Epo da parte di imprese italiane nel 2000
riguardavano appartai o prodotti high tech.
Validi argomenti permettono di sostenere che (nel lungo periodo) convenga elaborare tecnologia
piuttosto che acquistarla dal suo inventore:
 l’attività di ricerca e sviluppo da cui nasce una tecnologia è un’attività ad alta intensità di
lavoro e di conoscenza
 questa attività permette di ricevere retribuzioni migliori
 attorno ad ogni nuovo posto di lavoro ad elevato contenuto tecnologico che viene creato se
ne creano in media altri tre-quattro i quali richiedono qualifiche meno elevate

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Il ritorno in forze di alcuni dei settori dell’industria manifatturiera citati nei capitoli precedenti non
sembra essere un evento da attendere per il vicino futuro, così come non lo è nemmeno l’eventuale
affermazione di settori emergenti (come le biotecnologie o le nanotecnologie). Nondimeno, se
venisse avviato (in sede politica ed economica) un dibattito di portata e contenuto adeguati sulla
politica industriale che l’Italia dovrebbe darsi, la probabilità che l’uno o l’altro si verifichino prima
che trascorra un’altra generazione potrebbe innalzarsi di diversi punti.

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