Sei sulla pagina 1di 10

Il fronte di intellettuali ed economisti che oggi in Italia (e presumibilmente nel

mondo) si oppongono alle politiche di austerità chieste dalla Troika (UE,BCE,FMI)


agli Stati europei con debiti pubblici divenuti – non proprio improvvisamente –
insostenibili, proviene prevalentemente da una area di pensiero economico
largamente definibile keynesiana. Le conclusioni più gettonate che pervengono alla
fine di questi ragionamenti sono: dovremmo uscire dall’euro e svalutare la nuova
moneta, rilanciando la competitività nei confronti dei competitor internazionali;
dovremmo stimolare la ripresa usando la spesa pubblica in funzione anticiclica,
anche a deficit.

Non voglio appiccicare etichette in modo sbrigativo, ma non si può negare che un
ragionamento che perviene sempre alle conclusioni di cui sopra è chiaramente
riconducibile al pensiero di chi crede che molti problemi economici siano originati
dal libero mercato e dall’avidità dei capitalisti e siano risolvibili
dall’intervento pubblico che può rifarsi come guida ad un qualche concetto,
chiaramente definibile, di giustizia sociale.

Difficilmente si può assistere, specie nei dibattiti TV, ad una qualche analisi
approfondita da parte di chi propone questo tipo di idee: studi e articoli – anche
provenienti da istituzioni ‘autorevoli’ come lo stesso Fondo Monetario
Internazionale – che “provano” econometricamente l’esistenza di moltiplicatori
fiscali della spesa pubblica, diventano una condizione sufficiente per giustificare
l’affermazione che “più spesa pubblica a deficit ci porterà fuori dalla
recessione”, spesso affiancata alla quantomeno bizzarra idea che “alla fin fine il
debito pubblico non è mai un problema” (ascoltata in prima persona durante uno di
quei seminari sulla ‘crisi’ nella mia università; mi consola solo che a
propagandarla almeno fosse un sociologo, e non un economista).

Per quanto mi riguarda, ogni analisi economica che ignori in modo così superficiale
gli effetti sociali, psicologici, redistributivi (nel senso meno populista del
termine) dell’entità della spesa pubblica in un Paese, trascurando naturalmente
come essa modifica gli incentivi a scambiare, creare, innovare e fare impresa in un
sistema economico è incompleta e poco seria, quando non chiaramente manipolata per
qualche secondo fine (temi affrontati a fondo da Buchanan e dalla Public Choice
Theory).

Se rimaniamo però nell’alveo dell’analisi più basata sui dati, uno dei più lucidi
esponenti del fronte keynesiano “fuori dall’euro e più spesa pubblica” è
sicuramente il Prof. Alberto Bagnai, che cura il blog Goofynomics.

La diagnosi di Bagnai, è che la crisi del debito non sia da imputarsi ai debiti
pubblici degli Stati dell’Eurozona, altrimenti essa avrebbe dovuto colpire, visti i
rapporti debito pubblico/PIL nel 2008, nell’ordine: Grecia, Italia, Belgio,
Francia, Germania. Il problema invece deriverebbe dalla logica ‘mercantilista’ che
l’euro ha imposto nell’area economica in cui è stato adottato: i Paesi che sono
riusciti a tenere maggiormente a freno l’inflazione hanno accumulato surplus
commerciali consistenti non tanto verso il resto del mondo (Bagnai mostra come la
Germania in realtà non abbia migliorato la competitività nei confronti della Cina
ad esempio) quanto nei confronti dei Paesi dell’Eurozona che invece hanno sofferto
di inflazione più alta, accumulando deficit esteri più consistenti.

Seguendo la teoria delle Aree Valutarie Ottimali, l’unificazione monetaria permette


di risparmiare costi di transazione derivanti principalmente dall’incertezza delle
fluttuazioni del cambio tra i Paesi che la adottano (e la remunerazione per
l’intermediazione degli operatori di cambio), ma ha il difetto di eliminare uno
strumento importantissimo, cioè il tasso di cambio flessibile, che ha lo scopo di
riflettere, attraverso le sue fluttuazioni, la forza relativa di due valute (ad
esempio, marco tedesco e lira italiana) e di due economie nazionali in termini di
import-export (l’una nei confronti dell’altra).
Fino a questo punto sono abbastanza d’accordo con l’analisi di Bagnai. Ritengo
anch’io che la teoria delle Aree Valutarie Ottimali possa spiegare molto bene la
causa degli squilibri che oggi mettono a rischio la coesione dell’Eurozona; sono
disposto a riconoscere – discostandomi dall’ortodossia della teoria monetaria
Austriaca – che i differenziali di inflazione tra Paesi che condividono una Banca
Centrale – come nell’Eurozona – possono non dipendere solo dalla politica monetaria
comune ma da condizioni strutturali dei singoli Paesi.

Peccato che il professore si fermi troppo presto – perdendo un pezzo importante di


analisi, che invece svolgerò in questo articolo – e quindi pervenga a conclusioni
keynesiane dal punto di vista della politica fiscale e ‘anti-austriache’ dal punto
di vista della politica monetaria. Ed è anche chiaro che il problema non sono
soltanto i debiti pubblici; per dirla tutta, siamo in un problema di solvibilità
delle imprese finanziarie, banche e assicurazioni, certamente private, ma a cui gli
Stati nazionali sono ‘costretti’ – e qui sta il perno di tutto – ad andare incontro
peggiorando la loro esposizione debitoria.

Partendo dall’analisi di Bagnai della crisi, voglio cercare di spiegare perché un


economista keynesian-oriented come lui chieda il ritorno in Europa delle valute
nazionali (e la svalutazione delle valute delle economie in difficoltà) e di uno
strumento di libero mercato quale il tasso di cambio flessibile, mentre diversi
economisti ostili all’attuale ingerenza delle Banche Centrali nel funzionamento del
sistema monetario – tipicamente Austriaci e affini – sostengono invece il
mantenimento dell’Euro e quindi di un sistema di cambi fissi, tra i Paesi che lo
adottano, apparentemente una soluzione più dirigista.

Cos’è il tasso di cambio

Il fatto che io consideri il tasso di cambio flessibile una istituzione


fondamentale, di libero mercato e necessaria al buon funzionamento di una economia
globalizzata si può comprendere dalla spiegazione di come esso funziona nel
regolare i rapporti di scambio tra due Paesi.

Prendiamo due Paesi, la Germania (G) e l’Italia (I), con due valute distinte. Nei
rapporti economici tra i due Paesi, ogni volta che un bene prodotto in G viene
venduto (importato) in I l’acquirente – o l’intermediario della transazione –
residente in I sarà costretto a comprare, sul mercato delle valute, la moneta in
cui G pretende di essere pagato, cedendone una certa quantità della propria per
poter avere quel bene.

Uno scambio del genere avviene sempre quando abbiamo a che fare con importazioni-
esportazioni, in qualche punto del processo di scambio. Quello che è avvenuto
economicamente è una importazione (in I) ed una esportazione (dal Paese G). Sul
mercato delle valute esistono degli intermediari, che naturalmente accetteranno
valuta di I in cambio di valuta di G ad un certo prezzo. Se ci fermassimo qui si
potrebbe dire, in termini di politica economica, che il Paese I ha aumentato il
proprio deficit estero. Accadrà naturalmente che qualcuno in G voglia comprare
merce prodotta in I, e il processo avverrà allora al contrario.

Il tasso di cambio tra le valute di G e I risente di questi flussi: se alla fine


della giornata (o di qualsiasi periodo si voglia analizzare) è stata richiesta
valuta di G (in cambio di valuta di I) più di valuta di I (in termini di G) allora
il tasso di cambio G/I si apprezzerà. Questo meccanismo di domanda/offerta (la
valuta G è più domandata della valuta I e diventa più “cara”) non è altro che un
meccanismo che agisce naturalmente in un sistema di libero mercato, attraverso il
comportamento degli intermediari dei cambi che fissano i prezzi dei beni – le
valute – che scambiano. Il tasso di cambio, lasciato libero di fluttuare, serve
allora a dare un segnale importantissimo agli operatori economici dei due Paesi: se
per un periodo prolungato di tempo i residenti di I comprano da G più di quanto i
residenti in G comprino da I, diventerà via via meno conveniente farlo: il tasso di
cambio, flessibile, tende in questo caso ad alzarsi sempre più, rendendo sempre più
caro comprare valuta di G in cambio di valuta di I. I residenti di I allora
vedranno il prezzo dei beni importati alzarsi, in conseguenza della fluttuazione
del tasso di cambio, e saranno – non tanto costretti, quanto – invogliati a
orientarsi verso quei beni che non ‘pagano lo scotto dell’apprezzamento del
cambio’, cioè quelli domestici. Naturalmente, possono esistere altri motivi
continuare a preferire quelli esteri (come la qualità superiore che giustifica un
prezzo più alto) ma la scelta di pagare questo sovrapprezzo rimane una scelta dei
compratori residenti in I.

Vale la pena notare che questo comportamento, indotto dall’apprezzarsi del tasso di
cambio, fornisce anche una sorta di aiuto alle imprese di I, impedendo così ad una
economia di accumulare eccessivi deficit esteri. Come da manuale, se la valuta di I
si svaluta rispetto a G, le merci prodotte in I divengono un po’ più convenienti di
prima, quindi le esportazioni di I salgono, le importazioni scendono, e la bilancia
commerciale migliora.

La cosa veramente sorprendente di tutto questo discorso è quindi: chi in genere


difende l’intervento statale nell’economia di fronte alla crisi dell’Eurozona
propone con sempre maggiore convinzione una soluzione basata sull’uscita dall’euro
e il ritorno ad un sistema di cambi flessibili, cioè chiede che a regolare i
deficit delle partite correnti sia uno strumento in tutto e per tutto ‘di mercato’.
Invece, una delle scuole di pensiero tra le più liberiste e tradizionalmente ostile
a qualsiasi interferenza statale quale quella Austriaca sta recentemente difendendo
l’euro (pur criticando aspramente l’austerità a suon di tasse invece che attraverso
tagli di spesa pubblica), ovvero si pronuncia a favore di un sistema di cambi fissi
– visto che l’Euro, in estrema sintesi, imita l’esistenza un regime di cambi fissi
tra i Paesi che lo adottano.

Bagnai ama spesso scagliarsi contro gli economisti che difendono tesi che definisce
“contro-intuitive”, cioè quelli che pur notando quanto una politica economica sia
illogica, suggeriscono di adottarla perché porta con sé effetti, benefici,
inaspettati. Questa definizione di “contro-intuitiva” tuttavia presuppone che,
nell’analizzare qualcosa, lo si faccia in modo così superficiale da “dimenticarsi”
qualcosa di molto importante ai fini del ragionamento.

Mi dispiace far notare a Bagnai che, da questo punto di vista, abbastanza spesso i
ragionamenti economici sembrano – alla grande maggioranza dei poco preparati –
contro intuitivi. Ma solo per chi dimentica di spiegare appieno cause ed effetti di
alcune scelte economiche al proprio interlocutore. solo per chi dimentica di
spiegare appieno cause ed effetti di alcune scelte economiche al proprio
interlocutore.

E perché il debito – privato e pubblico – è esploso?

Bagnai fa notare che i Paesi colpiti per primi dalla crisi sono stati quelli che
nel 2008 avevano un elevato ammontare di debito pubblico più privato, e che
guardare al solo debito pubblico è fuorviante. E quindi che l’intera crisi è
proprio colpa dell’ondata (?) di neoliberismo all’opera da due decenni e più nel
mondo occidentale.

I dati dicono esattamente che la crisi ha colpito nell’ordine quei Paesi con
livelli più elevati, in rapporto al PIL, di debito aggregato – pubblico e privato.
Peccato che a questo punto ci si dimentichi sempre di fare la domanda giusta: e
perché il debito pubblico e privato è esploso in questo modo?

In fin dei conti sono le banche – ‘formalmente’ istituzioni private – a concedere


prestiti, siano prestiti al settore privato o pubblico. Nessuno le obbliga a
contrarre, come nessuno ha obbligato le banche commerciali americane, fino alla
crisi del 2008, a sottoscrivere mutui subprime, ad alto rischio e alto rendimento,
e nessuno ha obbligato le altre banche occidentali a comperare questi mutui, una
volta che essi, cartolarizzati, erano magicamente divenuti asset ‘liquidi’. Ma se
nessuno le ha obbligate … potrebbe esistere un meccanismo che invece ha incentivato
le banche commerciali a esporsi, come esse hanno fatto, aumentando a dismisura la
leva finanziaria? Non porsi questa domanda significa compiere una analisi della
crisi ingenua, che evita le domande scomode, e che in ultima analisi spinge, nel
migliore dei casi, a credere che sia tutta colpa dei cittadini ingenui e ingordi
che non hanno saputo dire no ad un inspiegabile aumento dell’offerta di credito a
basso costo che le banche hanno fornito loro, in tutto l’Occidente.

Cosa ha condotto queste banche a sovraesporsi è molto semplice: esse sanno


perfettamente che nessuna Banca Centrale lascerà mai fallire una istituzione
bancaria abbastanza grande, indipendentemente da quali rischi essa si sia assunta –
e quali profitti abbia incamerato – per arrivare al punto di rottura.

La questione si può risolvere in 4 parole molto semplici, molto in voga allo


scoppio della bolla dei mutui subprime, che abbiamo però dimenticato negli ultimi
mesi: too big to fail.

La crisi del debito europeo – in cui i debiti pubblici assumono un ruolo importante
– non è niente di particolarmente diverso, se si considera che le regole sulle
banche europee di Basilea II permettevano agli istituti di credito di offrirli come
collaterali per le proprio operazioni di rifinanziamento presso la BCE. Questo
naturalmente ha creato un grande incentivo per gli Stati a indebitarsi più di
quanto non avessero già fatto nei decenni precedenti: in Italia e Grecia, Paesi già
fortemente indebitati prima dell’entrata nell’Euro, si è semplicemente rimandato un
deleveraging del settore pubblico, visto che i tassi d’interesse si erano
‘magicamente’ abbassati a partire dall’entrata nell’Eurozona.

Certamente, proprio come sulle banche americane, anche sulle banche europee pesava
e pesa tuttora un innalzato rischio di default dei creditori privati: altrimenti
non si spiega perché la crisi del debito è scoppiata prima nei Paesi europei che
avevano un debito aggregato – pubblico e privato – più elevato con l’estero. Ma
questo rischio, relativamente ai debiti privati, non dovrebbe essere già coperto
dai differenziali nei tassi d’interesse che le banche richiedono ai propri clienti,
in funzione della loro specifica situazione creditizia?

Dal punto di vista strutturale, la teoria monetaria Austriaca spiega come un


sistema bancario a riserva frazionaria, quello che oggi è in vigore in tutto il
mondo occidentale, sia per natura instabile, perché permette di innalzare in modo
vertiginoso debiti – e crediti – ad ogni passaggio di denaro attraverso il sistema
bancario. Partendo da una ristretta base monetaria, decisa dalla Banca Centrale, le
banche private possono far circolare un ammontare di depositi potenzialmente molto
più alto che dipende dalla percentuale di riserva frazionaria e dagli
accantonamenti prudenziali. Anche se ogni passaggio di denaro richiede
l’accantonamento di una certa riserva precauzionale, questo meccanismo somiglia
molto ad una piramide rovesciata con una punta sempre più larga – l’esposizione
creditizia del sistema bancario nel complesso – che si basa su una base – denaro
effettivamente risparmiato, cioè il solo denaro su cui può dovrebbero basarsi i
progetti d’investimento – molto ristretta.
Anche se in teoria le banche possono sempre rientrare delle loro posizioni
debitorie – come amano far notare quelli che ritengono la teoria monetaria
‘Austriaca’ catastrofista e complottista – ogni piccola oscillazione nei rendimenti
degli impieghi può far crollare a catena l’intera struttura come un castello di
carte. Il privilegio legislativo della riserva frazionaria, adottato in tutto il
mondo occidentale, permette alle banche di lavorare impegnando (usando una leva
finanziaria) fino a 20 volte il proprio capitale. Curioso che la prima cosa che
insegnano nei corsi di contabilità aziendale è che qualsiasi azienda che abbia un
leverage vicino a 3 sia sul punto di esplodere per i troppi debiti.

Se proprio si vuole essere rigorosi nemmeno questo in teoria sarebbe un problema:


una banca, come un’impresa privata, difficilmente assumerà rischi che non può
gestire, se questi rischi innalzano eccessivamente il rischio di dichiarare
bancarotta. E da questo punto di vista strumenti come le stock option non creano
‘distorsioni di mercato’, anzi: legano la remunerazione del top manager al valore
delle azioni della banca, esponendo i dirigenti al rischio di perdere questa ‘parte
dello stipendio’ nel caso in cui le loro decisioni di investimento dovessero, nel
medio termine, rivelarsi fallimentari.

Il problema vero è che, nel mondo reale, per le banche non esistono i normali
incentivi profitti – perdite che esistono per le imprese private. Oggi nessuna
banca sarà lasciata fallire dai propri Stati nazionali e dalla Banca Centrale di
riferimento, come è successo in Spagna con Bankia e come succederà in Italia con
MPS.

Ma dei tanti motivi per cui questo avviene – e in giro ci sono molti commentatori
più bravi di me a spiegarlo – a me ne viene sempre in mente uno per primo: sono le
banche a comperare l’enorme mole di titoli pubblici continuamente rinnovati da
Stati affamati di soldi, che devono sostenere debiti pubblici sempre più grossi, il
cui rimborso è lasciato alle generazioni future.

Ecco, voi lascereste fallire il vostro miglior cliente, se qualcun altro mette i
soldi per salvarlo dalla bancarotta? Ma soprattutto: se vi dicessero di scommettere
sull’esito delle partite della prossima giornata di Serie A, che potete tenervi il
10% delle vincite ma che qualcun altro mette i soldi al posto vostro se vi va male,
avreste un incentivo a scommettere “il giusto” o … infinitamente troppo?

È quantomeno curioso che tutto questo venga additato come conseguenza del
neoliberismo o del capitalismo selvaggio. Il capitalismo funziona in questo modo:
chi ha una buona idea imprenditoriale fa profitti, chi sbaglia le proprie
previsioni perde soldi e che chi è più bravo a fare qualcosa guadagna più dei
concorrenti e rimane sul mercato più a lungo. Il circolo vizioso banche-Stato non
mi pare risponda a questo schema.

E perché allora la soluzione a tutto questo è: ridatece ‘a banca centrale, famo più
spesa pubblica? Ma soprattutto, perché tutte queste approfondite analisi economiche
dimenticano completamente il legame, che capirebbe anche un bambino di 8 anni, tra
soppressione coatta degli incentivi di libero mercato (profitti e perdite) e
indebitamento eccessivo del settore bancario?

Visioni opposte sull’inflazione.

Bagnai riassume efficacemente una corretta analisi della situazione attuale e dei
meccanismi in cui gli Stati europei sono intrappolati. Inoltre, fa benissimo a
sottolineare come una unificazione fiscale e politica europea è fumo negli occhi,
un sogno di chi non riesce a comprendere che gli Stati Uniti d’America e l’Eurozona
sono realtà molto differenti e molto probabilmente la prima è un’Area Valutaria
abbastanza Ottimale, mentre la seconda è oggi molto ma molto lontana dall’esserlo.
Fa però tristezza notare che, arrivato a questo punto del discorso, invece che
continuare sull’analisi dei motivi per cui oggi i settori pubblico e privato si
sono indebitati in modo così insostenibile, Bagnai imbocchi invece la strada della
soluzione ‘keynesiana’.

L’argomentazione è così riassumibile in estrema sintesi.

‘L’Eurozona – la periferia dei PIIGS in special modo – è in questa crisi perché il


divorzio tra Banche Centrali e Tesoro imposto dall’euro ha fatto impennare i tassi
d’interesse sul debito pubblico. L’Italia – come altri Paesi dell’Eurozona – non
può mettere in atto politiche fiscali di stimolo, che ci farebbero uscire dalla
recessione, perché non può contare su una Banca Centrale compiacente che comprando
i titoli governativi ne tenga basso il rendimento sul mercato. Anche se questo poi
significherebbe avere un’inflazione più alta, questo non sarebbe un problema, anzi,
magari!’

Se questa manfrina fosse davvero messa in atto – cioè se in Europa si decidesse di


monetizzare i debiti pubblici comprando i titoli dei Paesi in sofferenza immettendo
grandi quantità di moneta nell’economia, cosa che attualmente il mandato della BCE
non contempla – si può davvero affermare con tanta sicurezza che questo non avrebbe
conseguenze dannose? Abbiamo una bacchetta magica, che risolve tutti i nostri
problemi, e non la usiamo? Siamo tutti masochisti?

Bagnai e una larga parte di economisti che sostengono un ruolo attivo della Banca
Centrale nel finanziamento diretto dei bilanci statali naturalmente lo fanno, prima
di tutto, perché ritengono che l’inflazione non abbia prevalentemente origine
monetaria, ma dipenda da altri fattori, come la struttura di mercato di un Paese. E
secondariamente – o a convenienza, dipende da quale argomentazione viene smentita
per prima – non ritengono una inflazione – anche a due cifre – sia un gran
problema. Anzi.

Chiariamoci.

Il fatto che in Eurozona si possono rivelare differenziali nella crescita dei


prezzi tra un Paese e l’altro sembrerebbe dare ragione a questa visione: se in
Italia i prezzi crescono più che in Germania, pur essendo entrambe influenzate da
una uguale politica monetaria, quella della BCE, allora l’origine dell’inflazione
non è monetaria, ma ‘strutturale’ (“teorie costiste sull’inflazione”).

Ammettendo però che piccoli differenziali di inflazione in Eurozona siano


attribuibili a problemi del mercato interno ai vari Paesi – potere di mercato,
burocrazia, leggi anticoncorrenziali – questo non vuol dire che un programma di
acquisto sistematico di titoli di Stato finanziato da una Banca Centrale non
farebbe crescere l’inflazione, magari ritornando ai livelli visti in Italia negli
anni ’80. In altre parole, ammettere che la struttura di mercato di un Paese ha una
certa, minoritaria, influenza sulla crescita dei prezzi non autorizza a buttare a
mano una teoria monetaria, quella ‘Austriaca’, che ha spiegato meglio di altre
correnti di pensiero cosa è, come si trasmette, chi avvantaggia e chi danneggia
l’inflazione.

Aldilà di quanto si ritenga dannosa una inflazione continua e persistente, in tempi


recenti la teoria ‘monetaria’ dell’inflazione sta subendo diversi attacchi, dovuti
alla considerazione che negli USA le immissioni monetarie della FED (che tra
l’altro sono i cosiddetti QE, cioè scambi di moneta contro titoli) non abbiano
infiammato l’inflazione come le teorie monetariste-austriache suggerirebbero.

Detlev Schlichter, in un articolo che ho personalmente tradotto e che trovate qui


ha fatto notare che, prima di tutto, anche una inflazione moderata come quella che
vediamo oggi è ‘strana’ in un contesto di recessione persistente; quindi l’effetto
delle politiche di credito facile delle Banche Centrali esiste, perché logica
vorrebbe che in una situazione di difficoltà (dei debitori privati e non solo di
quelli pubblici) i prezzi di beni e servizi scendano. Invece continuano a salire,
per qualche misterioso motivo, e il suo effetto è rendere ancora più povere le
famiglie il cui potere d’acquisto continua a calare a causa di questa ‘moderata’
inflazione.

Secondariamente, nell’attuale contesto di crisi, la base monetaria di nuova


emissione filtra molto lentamente nell’economia reale e rimane parcheggiata come
riserva presso le Banche Centrali o investita in titoli di Stato. I teorici
dell’interventismo monetario riconoscono l’ingiustizia del privilegio per cui le
banche private ottengono profitti – al riparo da qualunque rischio – semplicemente
usando il denaro della Banche Centrale per lucrare sui titoli di Stato. Ma di
fronte a questa considerazione, la soluzione che propongono – un finanziamento
diretto dei bilanci statali tramite moneta fornita a costo zero dalla Banca
Centrale – è tale solo se si crede che ‘l’inflazione che ne deriverebbe non è
preoccupante né dannosa’, argomentazione su cui c’è molto da ridire.

Infine, vale la pena svolgere un ulteriore considerazione. Un gruppo molto


“glamour” di economisti monetari che si definiscono aderenti alla Modern Money
Theory ritiene che il debito pubblico non solo non sia un problema, ma guardando
dal punto di vista contabile una operazione di emissione di debiti pubblici si nota
come essa CREA (!) ricchezza e non causi (chissà come faranno a dirlo) spiazzamento
(in sostanza non è vero, no per niente, che quei soldi che vengono investiti in
titoli di Stato non verranno più investiti in altri titoli di imprese private) ; la
monetizzazione del debito pubblico è quindi ampiamente giustificata, aldilà
dell’inflazione che essa potrebbe innescare.

Già di per sé questo è delirante.

Ma ora viene il bello: secondo la MMT qualunque livello di tasso d’interesse pagato
da uno Stato è indifferente per la dinamica di sostenibilità del proprio debito
pubblico: infatti, quei soldi che escono dalle casse statali, in forma di pagamento
di interessi, ritornerebbero ai cittadini in forma di interessi pagati!

Tralasciando i non trascurabili effetti redistributivi – principalmente, dai


pagatori di tasse ai risparmiatori che investono in titoli di Stato che li ripagano
con interessi “pompati” – quest’ultima considerazione sembra ragionevole: peccato
che manchi il secondo pezzo della frase cioè “se i titoli di Stato emessi dal Paese
X venissero assegnati solo ed esclusivamente a cittadini residenti in X”.

Purtroppo per gli aspiranti Mago Merlino, questa condizione non è mai rispettata in
pieno, tranne che nel caso di scuola del Giappone (che tutti quanti dovremmo capire
fino in fondo ogni volta che si parla di debiti pubblici, loro sostenibilità,
inflazione e sistemi monetari). Invece i titoli di Stato di un Paese X tipicamente
sono piazzati sul mercato e venduti ai cittadini di qualunque Paese. Il tasso
d’interesse che emerge dalla loro vendita dovrebbe servire proprio a dare un
campanello d’allarme: esso segnala quando un livello di indebitamento diventa
troppo pericoloso (nel caso dei debiti pubblici, perché i cittadini del Paese non
risparmiano abbastanza nemmeno da ricomprare il debito che emette il proprio
Paese).

Aggiungiamoci questa considerazione: immaginate di essere un investitore straniero,


che viene pagato in dollari e ne risparmia una certa quantità. Comprereste mai i
titoli di Stato di un Paese che vi paga interessi (e vi restituisce il capitale
investito) usando una valuta che è esposta, a causa della monetizzazione continua
del debito pubblico, ad una imprevedibile, incostante e comunque continua
svalutazione?
È facile capire allora perché fino al 2008 i tassi d’interesse richiesti sui titoli
di Stato emessi nell’Eurozona si sono costantemente avvicinati: la BCE con la sua
politica monetaria comune e ostile alle svalutazioni competitive, ha eliminato quel
rischio per tutti gli investitori esteri che investivano nei titoli emessi dai
Paesi europei e il premio per il rischio che gli investitori ricevevano si è
praticamente annullato. Poi, quando si è capito che alcuni Paesi rischiavano
seriamente di abbandonare l’Unione Monetaria, gli investitori hanno “scontato” il
rischio di questa svalutazione: dato che se oggi sottoscrivo un titolo di Stato
Italiano, rischio di essere ripagato con la nuova Lira, svalutata, allora chiedo un
tasso d’interesse più alto per coprire questo rischio. È questo il significato
dell’argomentazione “gli spread non riflettono veramente la possibilità di default
del singolo Stato europeo, ma piuttosto la possibilità che esso, uscendo
dall’Eurozona, svaluti la nuova moneta”.

Il tasso di cambio truccato

Quando sento parlare del rapporto tra Banca Centrale e Stato (e, naturalmente,
banchieri privati) in termini di divorzio mi cadono le braccia. Se oggi essa non è
matrimonio, è una felice convivenza di fatto, per la quale tutti noi paghiamo un
conto salato, ma che a quanto pare non vogliamo per niente smettere di pagare.

Ma torniamo all’argomento principale del post. Cambi fissi o cambi flessibili? In


questo contesto, perché mai una scuola di pensiero liberista come quella Austriaca
si oppone ad uno strumento di regolazione automatica degli squilibri di mercato
come il cambio flessibile?

In un sistema di moneta fiduciaria, sottoposto ad una Banca Centrale, quest’ultima


può potenzialmente immettere nel sistema bancario – attraverso passaggi distorsivi
che la teoria monetaria Austriaca spiega molto chiaramente – qualsiasi ammontare di
moneta voglia.

L’immissione di valuta nel sistema economico non è priva di conseguenze: se la


Banca Centrale di I ‘stampa dal nulla’ valuta I, questa perde valore, rendendo più
costoso per i detentori di G acquistare beni da I. Naturalmente, anche la Banca
Centrale di G può fare lo stesso trucchetto ma tutto questo ha un effetto
prevedibile: il tasso di cambio non ha più assolutamente niente a che vedere con la
capacità delle economie nazionali di I e G di creare valore ma è il risultato di un
trucco contabile.

In questo contesto uno strumento come il tasso di cambio flessibile perde qualsiasi
utilità come indicatore economico. Se lungo un certo periodo di tempo il tasso di
cambio G/I sale, non è detto che sia perché G sta migliorando la sua bilancia
commerciale, ma è possibile che semplicemente la Banca Centrale di I abbia
effettuato una politica monetaria espansiva o perlomeno più espansiva di quella di
G, svalutando la propria valuta.

L’inspiegabile paradosso – i mettici-il-prefisso-che-ti-pare-keynesiani che


vogliono i cambi flessibili e gli Austriaci che difendono l’Euro cioè i cambi fissi
– rimane un mistero solo se chi analizza lo scenario economico attuale si dimentica
di spiegare di quanto potere disponga potenzialmente una qualunque Banca Centrale –
inclusa la BCE – e di quali compiti impliciti di regolazione e di salvaguardia
delle banche private sia stata investita dal potere politico. I bla-bla-keynesiani
che cercano soluzioni alla crisi europea vorrebbero sbarazzarsi dell’euro (cioè di
quella moneta che imita l’esistenza di un regime di cambi fissi tra i Paesi europei
che l’adottano) quanto prima, per ritornare al periodo d’oro in cui la finanza
pubblica e la Banca Centrale andavano a braccetto. Eh si, perché “negli anni ’70 in
Italia l’economia andava fortissimo nonostante – anzi indirettamente grazie a –
l’inflazione, lo Stato provvedeva ai bisogni di tutti anche se ogni tanto
‘qualcuno’ rubava e tutti ce lo avevamo lungo 34 centimetri”.

Sembra di sentir parlare del ventennio fascista.

Gli economisti di Scuola Austriaca contro-intuitivamente, vogliono mantenere questo


sistema di cambi fissi creato dall’Euro perché esso è in sostanza un vincolo che
obbliga i Paesi periferici ad una disciplina di bilancio pubblico più responsabile
e, non meno importante, perché esso non permette a nessuno di essi di avvalersi
come in passato del trucco della svalutazione competitiva della propria valuta per
ricomporre gli squilibri commerciali accumulati.

Dite che è poco democratico? Certo che è poco democratico, ma dal mio modesto punto
di vista è un mezzo meno subdolo di quello che hanno adottato Stati come l’Italia
(Stati–canaglia se si guarda alla politica monetaria!) che a intervalli regolari
utilizzavano la propria Banca Centrale in funzione di finanziamento diretto della
propria macchina statale e svalutavano la propria moneta.

Anche nel trucchetto della stampa di Lire per finanziare il bilancio pubblico c’era
ben poco di democratico. L’inflazione a due cifre che ne deriva è una
redistribuzione – ben poco democratica – da chi risparmia denaro a chi invece
consuma oggi tutto il suo reddito. Il rimborso del debito pubblico è demandato alle
generazioni future, e il pagamento continuo degli interessi per finanziarlo
ricadono indistintamente su tutti, indipendentemente se essi siano d’accordo o meno
o che usufruiscano della spesa pubblica (o del taglio di tasse) che questo debito
pubblico finanzia.

Ma scusate, non sarebbe più democratico – e più responsabilizzante per i governanti


– chiedere esplicitamente ai propri elettori una tassa ogni volta che è necessario
finanziare una espansione del bilancio pubblico? Pensateci: il motivo per cui oggi
paghiamo l’IMU assieme ad un IVA più alta è perché chi è al Governo è stato
incapace di ridurre la spesa pubblica che andava diminuita e perché i disavanzi
risultanti sono diventati molto costosi da coprire a causa di tassi d’interesse più
alti. I Parlamentari che non hanno voluto trovare altre soluzioni ne risponderanno
alle prossime elezioni ( per quello che può servire ) ma io trovo che questo sia
molto più democratico dell’emettere titoli di debito che POI, gli altri
rimborseranno. Ed è anche più democratico che finanziare il bilancio pubblico
emettendo moneta ‘a corso forzoso’, che innesca una maggiore inflazione, che sempre
‘tassa’ è, ma ben più occulta e difficile da vedere e da capire.

Se si guardano solo – e in modo superficiale – ai suoi effetti matematici


l’emissione di debito pubblico – in sostituzione del finanziamento della spesa
pubblica tramite tasse – non è un grandissimo problema: essa non è nient’altro che
una politica economica che il Governo sceglie – senza alcun mandato democratico,
però – di adottare. Certo, è una scelta poco intelligente, visto che i consumi,
incentivati da una inflazione persistente, possono anche rivolgersi ai beni esteri,
mentre i redditi del risparmio, penalizzati dalla crescita dei prezzi continua,
sicuramente finiscono nelle mani dei residenti nazionali, ma tant’è, agli
inflazionisti piace così.

Tuttavia se, come dovrebbe fare ogni economista che aspiri a definirsi tale, ci si
accorge che gli effetti in termini di incentivi di una continua penalizzazione del
risparmio sono quanto di più masochista si possa mettere in atto in un sistema
economico, allora si capisce come gli odierni ‘difensori della democrazia’ che si
oppongono all’Euro farebbero meglio a trovare argomenti meno nobili per la propria
causa, dicendo chiaramente come stanno le cose.

PS: sia chiaro che anche io ritengo che l’Eurozona sia una Area Valutaria non
Ottimale, ma più degli squilibri commerciali tra centro e periferia europea oggi
presenti ma che con un po’ di sana competizione di libero mercato si possono
recuperare – e anzi possono ‘forzare’ un Paese, come l’Italia, che sta morendo di
tasse e burocrazia a risvegliarsi – mi spaventano le soluzioni agitate dai fan
dell’interventismo statale supportato da una Banca Centrale compiacente,
specialmente se vengono esternate nel Paese che ha la più alta pressione fiscale al
mondo e una altissima corruzione. Anzi, corruzzzzzione (cit.).

Potrebbero piacerti anche