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Non voglio appiccicare etichette in modo sbrigativo, ma non si può negare che un
ragionamento che perviene sempre alle conclusioni di cui sopra è chiaramente
riconducibile al pensiero di chi crede che molti problemi economici siano originati
dal libero mercato e dall’avidità dei capitalisti e siano risolvibili
dall’intervento pubblico che può rifarsi come guida ad un qualche concetto,
chiaramente definibile, di giustizia sociale.
Difficilmente si può assistere, specie nei dibattiti TV, ad una qualche analisi
approfondita da parte di chi propone questo tipo di idee: studi e articoli – anche
provenienti da istituzioni ‘autorevoli’ come lo stesso Fondo Monetario
Internazionale – che “provano” econometricamente l’esistenza di moltiplicatori
fiscali della spesa pubblica, diventano una condizione sufficiente per giustificare
l’affermazione che “più spesa pubblica a deficit ci porterà fuori dalla
recessione”, spesso affiancata alla quantomeno bizzarra idea che “alla fin fine il
debito pubblico non è mai un problema” (ascoltata in prima persona durante uno di
quei seminari sulla ‘crisi’ nella mia università; mi consola solo che a
propagandarla almeno fosse un sociologo, e non un economista).
Per quanto mi riguarda, ogni analisi economica che ignori in modo così superficiale
gli effetti sociali, psicologici, redistributivi (nel senso meno populista del
termine) dell’entità della spesa pubblica in un Paese, trascurando naturalmente
come essa modifica gli incentivi a scambiare, creare, innovare e fare impresa in un
sistema economico è incompleta e poco seria, quando non chiaramente manipolata per
qualche secondo fine (temi affrontati a fondo da Buchanan e dalla Public Choice
Theory).
Se rimaniamo però nell’alveo dell’analisi più basata sui dati, uno dei più lucidi
esponenti del fronte keynesiano “fuori dall’euro e più spesa pubblica” è
sicuramente il Prof. Alberto Bagnai, che cura il blog Goofynomics.
La diagnosi di Bagnai, è che la crisi del debito non sia da imputarsi ai debiti
pubblici degli Stati dell’Eurozona, altrimenti essa avrebbe dovuto colpire, visti i
rapporti debito pubblico/PIL nel 2008, nell’ordine: Grecia, Italia, Belgio,
Francia, Germania. Il problema invece deriverebbe dalla logica ‘mercantilista’ che
l’euro ha imposto nell’area economica in cui è stato adottato: i Paesi che sono
riusciti a tenere maggiormente a freno l’inflazione hanno accumulato surplus
commerciali consistenti non tanto verso il resto del mondo (Bagnai mostra come la
Germania in realtà non abbia migliorato la competitività nei confronti della Cina
ad esempio) quanto nei confronti dei Paesi dell’Eurozona che invece hanno sofferto
di inflazione più alta, accumulando deficit esteri più consistenti.
Prendiamo due Paesi, la Germania (G) e l’Italia (I), con due valute distinte. Nei
rapporti economici tra i due Paesi, ogni volta che un bene prodotto in G viene
venduto (importato) in I l’acquirente – o l’intermediario della transazione –
residente in I sarà costretto a comprare, sul mercato delle valute, la moneta in
cui G pretende di essere pagato, cedendone una certa quantità della propria per
poter avere quel bene.
Uno scambio del genere avviene sempre quando abbiamo a che fare con importazioni-
esportazioni, in qualche punto del processo di scambio. Quello che è avvenuto
economicamente è una importazione (in I) ed una esportazione (dal Paese G). Sul
mercato delle valute esistono degli intermediari, che naturalmente accetteranno
valuta di I in cambio di valuta di G ad un certo prezzo. Se ci fermassimo qui si
potrebbe dire, in termini di politica economica, che il Paese I ha aumentato il
proprio deficit estero. Accadrà naturalmente che qualcuno in G voglia comprare
merce prodotta in I, e il processo avverrà allora al contrario.
Vale la pena notare che questo comportamento, indotto dall’apprezzarsi del tasso di
cambio, fornisce anche una sorta di aiuto alle imprese di I, impedendo così ad una
economia di accumulare eccessivi deficit esteri. Come da manuale, se la valuta di I
si svaluta rispetto a G, le merci prodotte in I divengono un po’ più convenienti di
prima, quindi le esportazioni di I salgono, le importazioni scendono, e la bilancia
commerciale migliora.
Bagnai ama spesso scagliarsi contro gli economisti che difendono tesi che definisce
“contro-intuitive”, cioè quelli che pur notando quanto una politica economica sia
illogica, suggeriscono di adottarla perché porta con sé effetti, benefici,
inaspettati. Questa definizione di “contro-intuitiva” tuttavia presuppone che,
nell’analizzare qualcosa, lo si faccia in modo così superficiale da “dimenticarsi”
qualcosa di molto importante ai fini del ragionamento.
Mi dispiace far notare a Bagnai che, da questo punto di vista, abbastanza spesso i
ragionamenti economici sembrano – alla grande maggioranza dei poco preparati –
contro intuitivi. Ma solo per chi dimentica di spiegare appieno cause ed effetti di
alcune scelte economiche al proprio interlocutore. solo per chi dimentica di
spiegare appieno cause ed effetti di alcune scelte economiche al proprio
interlocutore.
Bagnai fa notare che i Paesi colpiti per primi dalla crisi sono stati quelli che
nel 2008 avevano un elevato ammontare di debito pubblico più privato, e che
guardare al solo debito pubblico è fuorviante. E quindi che l’intera crisi è
proprio colpa dell’ondata (?) di neoliberismo all’opera da due decenni e più nel
mondo occidentale.
I dati dicono esattamente che la crisi ha colpito nell’ordine quei Paesi con
livelli più elevati, in rapporto al PIL, di debito aggregato – pubblico e privato.
Peccato che a questo punto ci si dimentichi sempre di fare la domanda giusta: e
perché il debito pubblico e privato è esploso in questo modo?
La crisi del debito europeo – in cui i debiti pubblici assumono un ruolo importante
– non è niente di particolarmente diverso, se si considera che le regole sulle
banche europee di Basilea II permettevano agli istituti di credito di offrirli come
collaterali per le proprio operazioni di rifinanziamento presso la BCE. Questo
naturalmente ha creato un grande incentivo per gli Stati a indebitarsi più di
quanto non avessero già fatto nei decenni precedenti: in Italia e Grecia, Paesi già
fortemente indebitati prima dell’entrata nell’Euro, si è semplicemente rimandato un
deleveraging del settore pubblico, visto che i tassi d’interesse si erano
‘magicamente’ abbassati a partire dall’entrata nell’Eurozona.
Certamente, proprio come sulle banche americane, anche sulle banche europee pesava
e pesa tuttora un innalzato rischio di default dei creditori privati: altrimenti
non si spiega perché la crisi del debito è scoppiata prima nei Paesi europei che
avevano un debito aggregato – pubblico e privato – più elevato con l’estero. Ma
questo rischio, relativamente ai debiti privati, non dovrebbe essere già coperto
dai differenziali nei tassi d’interesse che le banche richiedono ai propri clienti,
in funzione della loro specifica situazione creditizia?
Il problema vero è che, nel mondo reale, per le banche non esistono i normali
incentivi profitti – perdite che esistono per le imprese private. Oggi nessuna
banca sarà lasciata fallire dai propri Stati nazionali e dalla Banca Centrale di
riferimento, come è successo in Spagna con Bankia e come succederà in Italia con
MPS.
Ma dei tanti motivi per cui questo avviene – e in giro ci sono molti commentatori
più bravi di me a spiegarlo – a me ne viene sempre in mente uno per primo: sono le
banche a comperare l’enorme mole di titoli pubblici continuamente rinnovati da
Stati affamati di soldi, che devono sostenere debiti pubblici sempre più grossi, il
cui rimborso è lasciato alle generazioni future.
Ecco, voi lascereste fallire il vostro miglior cliente, se qualcun altro mette i
soldi per salvarlo dalla bancarotta? Ma soprattutto: se vi dicessero di scommettere
sull’esito delle partite della prossima giornata di Serie A, che potete tenervi il
10% delle vincite ma che qualcun altro mette i soldi al posto vostro se vi va male,
avreste un incentivo a scommettere “il giusto” o … infinitamente troppo?
È quantomeno curioso che tutto questo venga additato come conseguenza del
neoliberismo o del capitalismo selvaggio. Il capitalismo funziona in questo modo:
chi ha una buona idea imprenditoriale fa profitti, chi sbaglia le proprie
previsioni perde soldi e che chi è più bravo a fare qualcosa guadagna più dei
concorrenti e rimane sul mercato più a lungo. Il circolo vizioso banche-Stato non
mi pare risponda a questo schema.
E perché allora la soluzione a tutto questo è: ridatece ‘a banca centrale, famo più
spesa pubblica? Ma soprattutto, perché tutte queste approfondite analisi economiche
dimenticano completamente il legame, che capirebbe anche un bambino di 8 anni, tra
soppressione coatta degli incentivi di libero mercato (profitti e perdite) e
indebitamento eccessivo del settore bancario?
Bagnai riassume efficacemente una corretta analisi della situazione attuale e dei
meccanismi in cui gli Stati europei sono intrappolati. Inoltre, fa benissimo a
sottolineare come una unificazione fiscale e politica europea è fumo negli occhi,
un sogno di chi non riesce a comprendere che gli Stati Uniti d’America e l’Eurozona
sono realtà molto differenti e molto probabilmente la prima è un’Area Valutaria
abbastanza Ottimale, mentre la seconda è oggi molto ma molto lontana dall’esserlo.
Fa però tristezza notare che, arrivato a questo punto del discorso, invece che
continuare sull’analisi dei motivi per cui oggi i settori pubblico e privato si
sono indebitati in modo così insostenibile, Bagnai imbocchi invece la strada della
soluzione ‘keynesiana’.
Bagnai e una larga parte di economisti che sostengono un ruolo attivo della Banca
Centrale nel finanziamento diretto dei bilanci statali naturalmente lo fanno, prima
di tutto, perché ritengono che l’inflazione non abbia prevalentemente origine
monetaria, ma dipenda da altri fattori, come la struttura di mercato di un Paese. E
secondariamente – o a convenienza, dipende da quale argomentazione viene smentita
per prima – non ritengono una inflazione – anche a due cifre – sia un gran
problema. Anzi.
Chiariamoci.
Ma ora viene il bello: secondo la MMT qualunque livello di tasso d’interesse pagato
da uno Stato è indifferente per la dinamica di sostenibilità del proprio debito
pubblico: infatti, quei soldi che escono dalle casse statali, in forma di pagamento
di interessi, ritornerebbero ai cittadini in forma di interessi pagati!
Purtroppo per gli aspiranti Mago Merlino, questa condizione non è mai rispettata in
pieno, tranne che nel caso di scuola del Giappone (che tutti quanti dovremmo capire
fino in fondo ogni volta che si parla di debiti pubblici, loro sostenibilità,
inflazione e sistemi monetari). Invece i titoli di Stato di un Paese X tipicamente
sono piazzati sul mercato e venduti ai cittadini di qualunque Paese. Il tasso
d’interesse che emerge dalla loro vendita dovrebbe servire proprio a dare un
campanello d’allarme: esso segnala quando un livello di indebitamento diventa
troppo pericoloso (nel caso dei debiti pubblici, perché i cittadini del Paese non
risparmiano abbastanza nemmeno da ricomprare il debito che emette il proprio
Paese).
Quando sento parlare del rapporto tra Banca Centrale e Stato (e, naturalmente,
banchieri privati) in termini di divorzio mi cadono le braccia. Se oggi essa non è
matrimonio, è una felice convivenza di fatto, per la quale tutti noi paghiamo un
conto salato, ma che a quanto pare non vogliamo per niente smettere di pagare.
In questo contesto uno strumento come il tasso di cambio flessibile perde qualsiasi
utilità come indicatore economico. Se lungo un certo periodo di tempo il tasso di
cambio G/I sale, non è detto che sia perché G sta migliorando la sua bilancia
commerciale, ma è possibile che semplicemente la Banca Centrale di I abbia
effettuato una politica monetaria espansiva o perlomeno più espansiva di quella di
G, svalutando la propria valuta.
Dite che è poco democratico? Certo che è poco democratico, ma dal mio modesto punto
di vista è un mezzo meno subdolo di quello che hanno adottato Stati come l’Italia
(Stati–canaglia se si guarda alla politica monetaria!) che a intervalli regolari
utilizzavano la propria Banca Centrale in funzione di finanziamento diretto della
propria macchina statale e svalutavano la propria moneta.
Anche nel trucchetto della stampa di Lire per finanziare il bilancio pubblico c’era
ben poco di democratico. L’inflazione a due cifre che ne deriva è una
redistribuzione – ben poco democratica – da chi risparmia denaro a chi invece
consuma oggi tutto il suo reddito. Il rimborso del debito pubblico è demandato alle
generazioni future, e il pagamento continuo degli interessi per finanziarlo
ricadono indistintamente su tutti, indipendentemente se essi siano d’accordo o meno
o che usufruiscano della spesa pubblica (o del taglio di tasse) che questo debito
pubblico finanzia.
Tuttavia se, come dovrebbe fare ogni economista che aspiri a definirsi tale, ci si
accorge che gli effetti in termini di incentivi di una continua penalizzazione del
risparmio sono quanto di più masochista si possa mettere in atto in un sistema
economico, allora si capisce come gli odierni ‘difensori della democrazia’ che si
oppongono all’Euro farebbero meglio a trovare argomenti meno nobili per la propria
causa, dicendo chiaramente come stanno le cose.
PS: sia chiaro che anche io ritengo che l’Eurozona sia una Area Valutaria non
Ottimale, ma più degli squilibri commerciali tra centro e periferia europea oggi
presenti ma che con un po’ di sana competizione di libero mercato si possono
recuperare – e anzi possono ‘forzare’ un Paese, come l’Italia, che sta morendo di
tasse e burocrazia a risvegliarsi – mi spaventano le soluzioni agitate dai fan
dell’interventismo statale supportato da una Banca Centrale compiacente,
specialmente se vengono esternate nel Paese che ha la più alta pressione fiscale al
mondo e una altissima corruzione. Anzi, corruzzzzzione (cit.).