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L’ Arte

dei
Ragazzi

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Letture e studi di arte Registrati dagli Allievi di IV A Sperimentale


a cura della Prof. Antonietta delle Fave
PREFAZIONE

É vero che i valori dell’arte e della poesia sono eterni e universali, ma le idee che li veicolano come i mezzi
usati per trasmetterli sono profondamente diversi da luogo a luogo, da epoca a epoca.
E ancora, se è vero che l’opera d’arte si presta a differenti modi e livelli di lettura, è anche vero che essa è
inscindibile, altrimenti non è opera d’arte, ma semplice documento storico.
L’opera d’arte è un mondo fantastico, passionale, colmo di vibrazioni ed emozioni; ma è anche una concreta
fisica realtà, con i suoi confini, quei confini che servono per ritrovarsi fra le nuvole.
Tutto quello che l’artista intende mostrare è nell’opera: basta guardarla bene; il resto è inutile. Abbandona-
re in sovrastruttura critica può essere dannoso e va bandito, soprattutto dai testi scolastici, che servono a
formare, oltre che informare, l’allievo che è il futuro perno della società.
É per questo che ho coinvolto i miei alunni, affinché il “messaggio” arrivi ad altri con immediatezza e con la
stessa intensità, vigore, interesse e freschezza di un giovane alunno.
Un’ultima considerazione riguarda la natura e la finalità di questo singolare metodo da me proposto e ac-
colto dai ragazzi con vitale entusiasmo.
L’ utilizzo del registratore audio, durante le lezioni e le interrogazioni, con l’ascolto immediato da parte dei
ragazzi della propria voce, dell’esposizione effettuata e della cura posta nello studio dell’Opera d’Arte, ha
portato a risultati didatticamente strabilianti, perché l’interesse verso la materia si è quantitativamente e
qualitativamente amplificato, essendosi gli alunni appossionati ed entisiasmati, cercando sempre di miglio-
rarsi con grande serietà.
Il risultato è stato quello di aver portato a capire che lo studio dell’Opera d’Arte, in quanto oggetto deperi-
bile, implica infatti una assunzione di responsabilità anche sul piano pratico.
La conoscenza della Storia dell’Arte non è quindi fine a se stessa, ma è concorrente con altre discipline, quali
la Storia, la Geografia, la Letteratura, la Filosofia (estetica in particolare), che tutti insieme concorrono a me-
glio individuare e definire l’ambito storico-culturale nel quale si situa il fenomeno propriamente artistico.

Si ringrazia il Sig. Preside, per la fiducia accordatami.

Un particolare ringraziamento va ai ragazzi Donato Stilla, Francesco Viscio, Lucia Scarano, Giuseppe Man-
giacotti e Antonio Pettograsso per l’impegno profuso e la serietà con la quale hanno affrontato l’esperi-
mento.

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PRESENTAZIONE

Come recitano le Linee Guida della Riforma della Scuola del II ciclo, che dovrebbe essere quella della “cer-
tificazione delle competenze”, il nostro istituto risponde al meglio alle nuove e più immediate esigenze
formative che quella riforma richiede.
E lo facciamo con un lavoro sullo studio della storia dell’Arte che a detta di molti dovrebbe essere (avrebbe
dovuto essere!!) una delle discipline portanti di tutti gli ordini e i gradi delle scuole, non fosse per il fatto
(cosa detta e ripetuta) che l’Italia custodisce circa il 70% dell’intero patrimonio storico-artistico dell’intero
pianeta.
Ciò non avverrà nemmeno in questa tornata, ma la scuola reale non si arrende e, quando può, lavora per
dare agli studenti nuove opportunità, nuove metodiche, più accattivanti strumenti per apprendere e per
appassionarli ad argomenti non molto agevoli come l’analisi, la valutazione, l’apprezzamento di un’opera
d’arte.
Lo dice bene Antonietta Delle Fave nella sua prefazione: “É vero che i valori dell’arte e della poesia sono
eterni ed universali, ma le idee che li veicolano, come i mezzi usati per trasmetterli, sono profondamente
diversi da luogo a luogo, da epoca a epoca”.
É questo l’obbiettivo del presente lavoro: l’approccio all’opera d’arte è operazione da fare con forme e me-
todiche assolutamente accettate e condivise dagli studenti.

Antonio Cera
Preside

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PROGRAMMA TERZO ANNO
(cap. 1 - 7)

PROGRAMMA QUARTO ANNO


(cap. 8 - 10)

PROGRAMMA QUINTO ANNO


(cap. 11 – 21)

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CAPITOLO 1

PREISTORIA DEL GARGANO

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CAPITOLO 1 PREISTORIA DEL GARGANO

I NOSTRI PROGENITORI: UNA NUOVA TEORIA

Secondo gli scienziati, circa 200.000 anni fa nasceva in una zona ristretta dell’Africa un uomo
differente,dall’intelligenza superiore e da una praticità stilistica e di adattamento fuori dal comune.
Si tratta del Sapiens, che nel giro di circa 160.000 anni ha rimpiazzato in tutto il mondo l’ormai obsoleto
Homo neanderthalensis. È accaduto anche in Italia, dove la nuova specie si è stabilita principalmente in 7
aree: Grotta Paglicci a Rignano Garganico; Grotta delle Veneri a Parabita e giacimento di Samari a Gallipoli, i
due siti leccesi; Caverna delle Arene Candide a Finale Ligu-re e Grotta dei Balzi Rossi a Ventimiglia (Liguria);
Grotta del Romito a Papasidero (Calabria); e Grotta Ticchiara e Sant’Angelo Muxaro ad Agrigento (Sicilia).
Questa affascinante teoria, come ha spiegato Stefano Ricci dell’Università degli Studi di Siena in un suo
recentissimo sopralluogo presso la Mostra-Museo di Grotta Paglicci a Rignano, parla di 7 mamme progeni-
trici, che dall’Africa si sono spostate in Europa e diffuse nel globo terrestre.
Dall’analisi del Dna mitocondriale, che si trova nel cosiddetto Mitocondrio cellulare (vera e propria centrale
energetica degli organismi viventi), si è scoperto che l’attuale razza europea non è più antica di 45.000 anni.
A tale conclusione sono giunti qualche tempo fa i ricercatori del Centro romano di Antropologia molecola-
re per lo studio del Dna antico, guidato da Olga Rickards, scienziata di fama internazionale.
La Rickards ha messo in piedi, assieme al suo team di esperti, una sorta di macchina del tempo, che analizza
il Dna più arcaico. È grazie a questo Centro (ma anche a quelli di Pisa e Firenze) che si è potuto stabilire con
certezza che non c’è alcun legame tra l’Homo di Neanderthal, che visse anche a Paglicci, e l’Homo Sapiens,
di cui sono stati rinvenuti due scheletri umani interi nella grotta rignanese (un giovinetto di 11-12 anni,
vissuto 23-24.000 anni fa, e una ragazza di 18-21 anni, deceduta 24-25.000). In più, la donna che abitava
l’antro di Paglicci è stata certamente la madre evolutiva di tanti Homo Sapiens, che hanno poi colonizzato
il Meridione, il Centro e il Settentrione italico. Parlare, però, di una razza nata in loco non è, secondo questa
ultima teoria, una dichiarazione esatta. Infatti, anche la specie vissuta in grotta, a sei-sette chilometri da
Rignano Garganico, ha origini Africane. Probabilmente il Neanderthal di Paglicci è stato da essa sostituita,
forse a causa della legge principale che disciplina da sempre natura: il più forte vin-ce sul più debole. E oggi
è il Dna mitocondriale a dimostrarla con scientificità assoluta. Il volto dell’Uomo di Paglicci non lascia om-
bre di dubbio sulle nostre origini africane!

GIACIMENTO: UN TESORO D’IMMENSA RICCHEZZA

Esso è posto esattamente a metà strada tra due ambienti assai diversi: in basso la piana infuocata del Tavo-
liere, che per lunghi periodi doveva offrire steppe o praterie poco arborate; in alto la montagna con i suoi
dirupi rocciosi, che dal primo gradone calcareo (100-150 msl), raggiunge in breve tempo i 590-600 metri di
altezza.
Macchie e piccoli boschi, tuttavia, dovevano intervallarsi, soprattutto nei periodi più temperati ed umidi,
lungo le vallate e i rivoli di ruscelli e fiumi che si addensavano in pianura. questo, l’uomo di Paglicci doveva
usufruire di una flora e di una selvaggina ricca e variata.
La riserva idrica, invece, doveva essere costituita probabilmente da una sorta di cisterna naturale, rappre-
sentata da una grossa cavità comunicante con Paglicci: la Grotta dei Pilastri, nota anche per le sue masto-
dontiche e stupende stalattiti e stalagmiti, che la rendono certamente una delle più belle d’Italia. Ecco
perché, probabilmente, da 200.000 a 10.000 anni fa la grotta è stata ininterrottamente abitata dall’uomo
preistorico (solo in brevi periodi è stata frequentata esclusivamente da animali).
La parte più antica è comunque rappresentata dal riparo esterno: qui si pensa di tornare indietro nel tempo
fino a 350-500.000 anni fa. La professoressa Ronchitelli Dal 1961 ad oggi, sono stati portati alla luce oltre
40.000 reperti, tra i quali numerosi strumenti litici, scheletri umani interi e parziali, oggetti d’arte mobiliare,
dipinti parietali di cavalli (due piccoli e uno grande, quest’ultimo ormai quasi scomparso; in più, una zampa
di cavallo che doveva far parte di un dipinto più grande realizzata sulla volta dell’atrio dell’attuale atrio del-
la Grotta), impronte di mano (in positivo e in negativo), focolari, resti di animali ed altro.
In paese da tempo si attende la realizzazione di un vero e proprio Museo che porti finalmente a Rignano
buona parte dei reperti e soprattutto quel flusso turistico da sempre sognato.
Attualmente gli scavi sono condotti da una équipe di esperti dell’Università di Siena, capitanata dalla prof.
ssa Anna Maria Ronchitelli. Nel territorio di Rignano, oltre a Grotta Paglicci, ci sono tantissime altre aree di
interesse archeologico. Quelle più importanti sono: Grotta Spagnoli, Grotta Trappedo, Grotta dei Miracoli,

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PREISTORIA DEL GARGANO CAPITOLO 1

Dolmen megalitico della Madre di Cristo, Villaggio neolitico di Villanova, Tombe romane di Pescorosso, Valle
Palombara e altre (Testo: Angelo Del Vecchio - Tratto da interviste audio-video agli archeologi Arturo Palma
Di Cesnola - Franco Mezzena).

I GRAFFITI

L’arte mobiliare presente a Grotta Paglicci è rappresentata da non pochi frammenti di osso e di calcare
provenienti da vari strati del deposito dell’atrio e sui quali sono graffiti soggetti zoomorfi e geometrici. Il
più antico graffito, databile a circa 22.200 anni da oggi, rappresenta uno stambecco, sul cui profilo sono
stati successivamente incisi motivi di tipo geometrico e lineare. Non pochi oggetti mobiliari provengono da
strati databili tra i 17 mila e i 15 mila anni fa. Sono profili di bo-vidi, cervidi, cavalli e uccelli. Non man- cano
strane e misteriose figure stilizzate, che farebbero pensare a delle “Veneri” paleolitiche (scavi 1998). Notevoli
due scene di caccia con cavalli e cervi sormontati da dardi. Tra le figure di uccelli è da ricordare quella di un
possibile pinguino boreale, specie oggi ovviamente estinta nella zona. Strani intacchi scoperti su diversi
tipi di ossa farebbero, infine, pensare alla “invenzione” d’una rudimentale forma di scrittura o di un arcaico
calendario (scavi 1998).

LE PITTURE

A Grotta Paglicci sono presenti pitture parietali in ocra rossa risalenti al Paleolitico superiore (15-20 mila
anni fa): figure di cavalli (di cui uno verticale), impronte positive e negative di mani e frammenti di lastre
calcaree recanti “affreschi” parziali.
Con certezza, le opere d’arte presenti a Paglicci sono da considerarsi tra le più antiche d’Europa e probabil-
mente sono state realizzate molto prima di quelle più famose di Lascaux. Le pitture si trovano in una saletta
interna della grotta e abbisognano di urgenti restauri.
La presenza umana e condizioni atmosferiche sfavorevoli rischiano di alterare ulteriormente il microclima
dell’antro, con disastrose conseguenze sulle stesse opere d’arte. Probabilmente nella sala ci sono tantissime
altre pitture parietali, nascoste oggi da un’enorme quantità di materiale rinveniente da crolli e terremoti.
Solo accurati scavi ci diranno se le previsioni dei ricercatori dell’Università di Siena sono vere o meno.

Graffiti Grotta Paglicci Graffiti Grotta Paglicci


Rignano Garganico Rignano Garganico

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CAPITOLO 1 PREISTORIA DEL GARGANO

L’UOMO DI PAGLICCI E LE SEPOLTURE

L’uomo del Paleolitico Superiore di Grotta Paglicci, per l’elevata statura e per la struttura generale delle ossa
craniche e postcraniali, risulta appartenere alla razza “cromagnoniana” (da Cro-Magnon). Solo la faccia del
ragazzo risulta essere un po’ più alta.
Questa leggera variazione, tuttavia, dipende molto probabilmente dalla giovane età del soggetto. Nel Pale-
olitico, in queste zone, non doveva esserci troppa differenza tra maschi e femmine.
Le ragazze erano piuttosto mascoline. L’uomo di Paglicci aveva un forte senso religioso. Seppelliva i morti e
custodiva le sue ossa come reliquie.
Infatti, in più occasioni è stata rivelata la presenza di frammenti di ossa umane sparse un po’ qua e là per
gli strati dell’area di scavo prevenienti sicuramente da epoche differenti e accomunate solo dalla “forza”
magico-religiosa che esercitavano sull’uomo della “Rotte de Jalarde”.

IL RITROVAMENTO DEL RAGAZZO

Da un Comunicato Stampa del 1971 La sepoltura del ragazzo di Paglicci nella Grotta Paglicci, presso Rignano
Garganico (Foggia), in seguito agli scavi condotti nel 1970-71 da Arturo Palma Di Cesnola in collaborazione
con Franco Mezzena, è stato posto in luce, al di sotto della ricca serie epigravettiana già nota, un interes-
sante deposito gravettiano. L’industria, che ammonta a molte migliaia di strumenti, è caratterizzata, in alto,
da forti percentuali di dorsi e troncature, in basso, da punte di La Gravette, talvolta di grandi dimensioni, di
numerosi bulini e da una tipica punta di La Font Robert. Tali insiemi, seppure non manchino di un carattere
loro proprio, sembrerebbero richiamare rispettivamente il Perigordiano V1 e V2 delle classiche serie dell’Eu-
ropa occidentale. Alla base del deposito finora esplorato (esso continua infatti verso il basso), nel settembre
1971 è stata rinvenuta una sepoltura umana, ricoperta da uno straterello ematico e accompagnata da un
corredo funerario comprendente una “cuffia” di denti orati di cervo sul cranio, un braccialetto e una cavi-
gliera, costituiti ciascuno da un dente forato, sempre di cervo, una conchiglia di Cypraea, probabilmente
sospesa al collo, e una dozzina di strumenti in selce e in osso disposti intorno e sullo scheletro. Una lastra
di pietra era collocata sulla tibia. Il cranio del ragazzo di Paglicci L’inumato, attribuibile a soggetto giovanile
di sesso maschile molto longilineo e di statura elevata rispetto all’età, era coricato sul dorso, l’avambraccio
destro piegato completamente sul braccio, l’avambraccio sinistro posto trasversalmente al tronco e agli arti
inferiori distesi. La contempora-neità della sepoltura con lo strato che la conteneva risulta molto chiara: i
focolari immediatamente sovrastanti allo scheletro non presentavano infatti alcuna soluzione di continui-
tà. Disposizione dello scheletro e tipo di corredo permettono di avvicinare la sepoltura di Paglicci a quelle
delle grotte dei Balzi Rossi.

LA RAGAZZA DI PAGLICCI

Il cranio della donna di Paglicci - Da notare il diadema in denti di cervoNon era proprio una moderna foto-
modella, ma non doveva essere nemmeno così tanto brutta, almeno per i criteri di bellezza dell’epoca.
La donna di Paglicci viene descritta, da sempre, dagli studiosi come un soggetto “piuttosto mascolino”.
E non a torto. Il prof. F. Mallegni dell’Università di Pisa fa notare che “in queste antiche popolazioni umane
esiste un probabile dimorfismo sessuale attenuato”. In pratica, durante il Paleolitico superiore la differenza
di aspetto tra uomo e donna era meno attenuata che attualmente. Lo scheletro della ragazza (morì intorno
ai 18-20 anni e il suo “corpo” fu portato alla luce nella campagna di scavo del 1988-89), stando sempre alle
descrizioni fatte dal Mallegni, è di tipo cromagnoniano: statura elevata, contorno ovatopentagonoide del
cranio, regione obelica fortemente appiattita, occipite posteriormente protruso, faccia larga e bassa, orbite
basse e quadrangolari, denti massicci e naso fortemente stretto e a ponte alto. Fu ritrovata in uno sgrot-
tamento artificiale, ricoperta di ocra rossa e con corredi funerari piuttosto scarni. Bellissimo il diadema di
denti di cervo posto sul capo. Visse intorno ai 24.000 anni fa.

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PREISTORIA DEL GARGANO CAPITOLO 1

RICOSTRUZIONE FISIOGNOMICA DELLA “DONNA DI PAGLICCI”

Il volto ricostruito della Donna di Paglicci - Sulla fronte il diademaAttualmente è possibile ricostruire la
fisionomia di un uomo del passato con la metodologia americana della Medicina Legale (Prag and Nea-
ve, 1997) utilizzando il suo cranio. Per la cosiddetta “Donna di Paglicci” si è partiti dal calco del cranio per
non danneggiare, con i vari passaggi di ricostruzione, l’architettura ossea originale. Un’osservazione minuta
degli attacchi dei muscoli sulla mandibola, sui margini inferiori delle orbite e sui molari ci ha edotti sulla
importanza del loro sviluppo, sulla loro ergonomia ed in definitiva sul loro utilizzo durante la vita dell’indi-
viduo; tutto ciò permette di stabilire con certo margine di certezza quanto l’architettura facciale ne abbia
risentito. La valutazione dello sviluppo muscolare di un soggetto è molto complessa e a volte può risultare
soggettiva se l’osservatore non ha esperienza in questo tipo di ricerca, tanto più se si tratti di un soggetto
femminile per il quale, come è noto la massa muscolare è inferiore a quella che di solito si incontra nei
maschi. Solo una provata dimestichezza con il problema e una pluriennale esperienza possono in qualche
maniera aiutare la valutazione. Sono stati impiantati i fasci muscolari sul calco considerando lo sviluppo
degli stessi, soprattutto quello dei masseteri e dei temporali. Il volto ricostruito della Donna di Paglicci - Di
profilo Una serie di tasselli di diverso spessore (circa 23), a seconda del punto facciale considerato, sono
stati poi incollati al calco del craniofacciale dell’individuo, seguendo le indicazioni della metodologia più
sopra ricordata. Non sapendo quanto l’individuo avesse potente, o non, il pannicolo adiposo, in mancanza
di indicazioni sicure (eventuali racconti, disegni, ritratti ecc.) si preferisce sempre utilizzare gli spessori che
definiscono normale (non adiposa, non emaciata) l’aspetto del soggetto; lo spessore delle parti molli varia
anche a seconda dello sviluppo muscolare precedentemente definito. Si sono uniti i vari tasselli con seri-
sciolfne di plastica il cui spessore è crescente o decrescente, a seconda del tassello che si deve prendere in
considerazione; si sono riempiti con lo stesso materiale i triangoli vuoti che si sono venuti a formare tra le
varie strisce di plastilina. Ne è risultato il modello quasi finale su cui sono stati definiti i globi oculari (la cui
grandezza dipende dall’ampiezza delle cavità orbitarie), il naso (l’inclinazione della base delle coane nasali
e lo sviluppo del ponte nasale definiscono la sua forma) e le labbra (la cui rima va dallo spazio premolare-
canino di un lato al controlaterale); l’età alla morte del soggetto (deceduto a circa 18 anni) ha consigliato di
rendere il turgore delle sue carni proprie della giovinezza.
La struttura cranica e facciale ossea della “Donna di Paglicci” ha permesso di constatare come il soggetto si
avvicini ad un’etnia che richiama l’europoide, ma potrebbe richiamarne altre di tipi piuttosto arcaici, data la
prominenza dei molari e la sua faccia relativamente sviluppata in altezza; le sue fattezze richiamano quelle
della tipologia cromagnoniana, specialmente nel profilo della regione nasale e, fatte le dovute differenze
do- vute al sesso, quelle incise su di un ciottolo rinvenuto nella sepoltura paleolitica di Vado all’Arancio
presso Massa Marittima (Grosseto) che riproduce il profilo di un uomo barbuto. Colpisce l’affinità di questo
volto con quello delle dome europee at-tuali di etnia nordica. Se non si dovessero invocare fenomeni di
conver- genza tra le due fisionomie (della donna di Paglicci e delle giovani europee) si potrebbe ipotizzare
una certa continuità tra i cromagnoniani e le attuali popolazioni del nostro continente; si tratta di una ipo-
tesi piuttosto arrischiata, dati i ben noti rimescolamenti di popolazione, i cambiamenti, gli arrivi di gruppi
sempre nuovi i drifts genici e altri fenomeni che hanno caratterizzato la storia umana dell’Europa; basta
pensare alle ben note etnie slave, mediterranee, di tipo germanico, di tipo balfico ecc. che si sono andate
costituendo alle diverse latitudini durante il corso del tempo, dopo l’arrivo dei sapiens su questi territori.
L’esame del DNA, ricavato dalla dentina della sua camera pulpare della “Donna di Paglicci”, effettuato dal
Dottor Davide Caramelli, del Laboratorio di Genetica dei Dipartimento di Biologia dell’Ateneo fiorentino, ha
messo in evidenza, in maniera chiara ed incontestabile, l’aplogruppo H; questo è ancora molto ricorrente
negli europei attuali; ciò starebbe ad indicare, prescindendo dalle coincidenze fisiognomiche, che “lo zoc-
colo duro” della nostra etnia ha quanto meno le sue radici nella più profonda Preistoria europea.

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CAPITOLO 2

ARTE GRECA E ARCAICA

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CAPITOLO 2 ARTE GRECA E ARCAICA

LE SCUOLE LOCALI DI SCULTURA ALLA FINE DELL’ETÀ ARCAICA

Sin dalle origini la sculture arcaica è riconducibile a diverse scuole: la dorica - peloponnesiaca, si sviluppò
da VII - VI secolo a. C. ad Argo, Corinto e Sparta, caratterizzata da fattezze tozze e un po’ sproporzionate; la
ionica si sviluppa nel VI secolo a. C. a Samo, Nasso, Chio e Mileto e ricerca l’armonia e l’equilibrio; l’attica si
sviluppa anch’essa nel VI secolo a. C. ad Atene quando la città acquista una posizione predominante, e la
sua caratteristica sta nella resa plastica attraverso il raggiungimento di un equilibrio tra massa e linea, rap-
presenta inoltre l’unione tra l’esperienza dorica e ionica.
La statuaria greca del VI secolo è rappresentata da kouroi e korai, ossia fanciulli e fanciulle, la cui imposta-
zione risente dell’eredità della scultura egizia.
Il kouros (singolare di kouros) rappresenta un giovane nell’età in cui la bellezza fisica e spirituale è al suo
apice; si tratta del periodo che va dai 17 ai 19 anni, dopo l’adolescenza e prima della maturità adulta.
La statua, priva di ogni indumento, è in posizione statica, pur presentando la gamba sinistra avanzata, ad
accennare un passo (unico segno di movimento).
Il kouros presenta le braccia addossate al corpo, che terminano con pugni chiusi, e il viso è illuminato da
un “sorriso arcaico”, sorriso appena accennato che testimonia l’incapacità degli scultori nel rendere le linee
della faccia perfettamente curve. È da precisare che la parte frontale predomina su tutte le altre.
Esempi pratici di kouros sono i Diòscuri e il kouros di Milo, sculture rappresentanti rispettivamente la scuola
dorica-peloponnesiaca e la scuola ionica. Per quanto riguarda i Diòscuri(“Figli di Zeus”) si è ritenuto a lungo
che si trattasse dei fratelli Kleobi e Bi-tone, figli di Cidippe, sacerdotessa del tempio di Hera.
Il mito narra che i due giovani si offrono di aiutare la madre trainando il suo carro per 45 stadi, circa 8 km.
Cidippe , orgogliosa e riconoscente verso i propri figli, prega la dea affinché premi i due ragazzi, che com-
mossa li fa sprofondare in un sonno piacevole ed eterno.
Ma oggi, sulla base di testimonianze documentate, si riconoscono nei due giovani Castore e Polluce, ossia
i Diòscuri, attribuite a Polimède di Argo. Le due statue sono in marmo pario (proveniente dall’isola di Paro,
bianco, translucido, facile a scolpirsi), alte 218 cm 216 cm e conservate nel Museo Archeologico di Delfi.
Esse sono nude, statiche, col volto squadrato il solito “sorriso arcaico”, la
testa sproporzionata, le braccia lungo il corpo, i pugni chiusi, le gambe
sinistre avanzate e le tracce pendenti sulle spalle. Presentano inoltre una
muscolatura tozza, le braccia leggermente flesse, gli occhi a mandorla,
una fronte bassa e sopraccigli in evidenza. La parte frontale predomina
sulle altre, mentre gli altri lati perdono vigore. Proprio in questo periodo
la bellezza è collegata alla simmetria, fatto noto con il termine di ana-
loghia: se infatti poniamo una immaginario asse di simmetria passante
per le due ascelle, troviamo corrispondenza tra le li-nee delle clavicole e
quelle dei pettorali. Dall’isola di Nasso proviene invece un eccellente mo-
dello di kouros ionico: il Kourus di Milo,databile nella seconda metà del VI
secolo a. C. La figura risulta più affusolata, dalla volume-tria arrotondata
e slanciata, le masse muscolare sono rese con passaggi chiaroscurali più
delicati rispetto ai Diòscuri. Inoltre il sorriso (detto ionico) può essere con-
siderato come il superamento della contingenza umana nella perfezione
divina, serena e imperterrita. Abbiamo esempi di scultura attica: la testa
del Dipylon e il Moscoforo. L’autore del kouros, che doveva raggiungere
i due metri di altezza e adornare una tomba della necropoli ateniese, di
cui ci è giunta solo la testa è il Maestro Dipylon che stabilì i canoni della
scultura attica. Il volto è ornato con grandi occhi sotto sopraccigli netti e
da una bocca di piccole dimensioni; la testa da una particolare capigliatu-
ra che si dilata sotto le orecchie per poi stringersi nuovamente sul collo. Il
famoso Moscoforo (portatore di vitello) presenta grandi masse muscolari
che danno alla figura un aspetto di grande potenza fisica, ma senza al-
cun tratto di rudezza. Abbastanza evidente è il motivo ad X che si viene a
creare tra le braccia e le gambe del vitello. Le labbra sono modellate con
una forte accentuazione plastica che mette in evidenza le fossette ai lati e
donano alla figura un atteggiamento di solenne superiorità.
Questo sorrisetto arcaico scomparirà intorno al 480 a. C. e darà spazio allo

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ARTE GRECA E ARCAICA CAPITOLO 2

stile “severo”.
La semplice rappresentazione di un fedele che si appresta ad un
sacrificio, rivela una idealizzazione sacrale a cui l’artista giunge
attraverso l’esaltazione dorica delle masse e l’eleganza propor-
zionale e levigata tipica della scultura ionica.
Un esempio del tentativo di rappresentare le figure in maniera
più naturalistica, anticipando la personalizzazione del ritratto
tipica dello stile severo è l’Efebo biondo, così chiamata per la
tinta originaria dei capelli. Inoltre di questa statua sopravvive
anche un frammento del bacino, il cui movimento testimonia
lo sforzo
dell’artista nel distribuire il peso in maniera diseguale. L’unico
esempio di statua equestre pervenutoci dalla Grecia è il Cavalie-
re Rampin, uno dei due vincitori di un concorso ippico.
Esso prende il nome dall’antico proprietario della testa supersti-
te (il diplomatico francese Rampin), oggi conservata al Louvre di
Parigi mentre il resto della figura si trova nel Museo dell’Acropoli
di Atene. La statua ritrae un uomo dal corpo coronato con foglie
di quercia, simbolo di vittoria. Questa viene posta ai vertici della
scultura arcaica per l’accurata perfezione negli accenti arcaici
del prezioso calligrafismo analitico della barba e dell’acconcia-
tura meno elaborata, l’ellissi delicata che schematizza l’addome
del Cavaliere, il taglio lunato delle labbra e la leggera obliquità
degli occhi dal morbido guscio.
Tra le korai del VI secolo a. C. abbiamo la Kore di Cheramyes, det-
ta Era di Samo; la Kore con il peplo e la Kore di Antenore. Statuetta bronzea dell’VIII secolo a.C.
L’Hera di Samo è una core di stile ionico, risalente al 570 a. C. e
raffigura o la dea Era o una fanciulla che porta offerte al tem-
pio. Sulla base è presente il nome Cheràmyes, probabilmente
il nome di colui che offrì la statua alla dea. Sfortunatamente ci
è pervenuta acèfala. La statua è sostanzialmente cilindrica, par-
tendo dai piedi fino all’ombelico e presenta il braccio destro
lungo il fianco, mentre il sinistro è parzialmente perduto.
Si presuppone che il sinistro doveva essere indirizzato verso l’al-
to e il petto a offrire un’offerta, probabil-mente una melagrana,
simbolo di abbondanza e prosperità. È vestita di un chitone, il ti-
pico abito ionico che cade a pieghe diritte fino al fondo lascian-
do intravedere i piedi; un mantello (himátion) a pieghettature
obblighe, quasi a riprodurre le scanalature a spigoli smussati
delle colonne di ordine ionico e un velo rituale (epíblema) che
scendevano dal capo ricoprendo parte del braccio sinistro, pog-
giato lievemente sul petto, mentre la mano destra stringe con
grazia il velo. Protagonista nell’Era è la linea che dona eleganza
e leggerezza alla scultura. La Kore con il peplo, risalente tra il
540-530 a.C., è attribuita allo stesso artista del Cavaliere Rampin.
Nella statua in marmo e di forma cilindrica risaltano l’espres-
sione giocosa del volto e l’efficace disposizione dei volumi: una
cintura che stringe i fianchi dona alla figura slancio e proporzio-
ne. Verso il 510 a.C. un celebre scultore ateniese scolpì una Kore,
che supera i due metri di altezza, per un vasaio, Nearchos, che
la dedicò ad Atena. La Kore di Antenore ispira calma e serenità,
ha capelli pettinati a riccioli sulla fronte e raccolti in treccia che
le cadono sul petto e lungo la schiena. Il polso sinistro è ador-
nato da un braccialetto, mentre il braccio destro, era proteso in
avanti. Statuetta bronzea dell’VIII secolo a.C.

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CAPITOLO 2 ARTE GRECA E ARCAICA

ALLA RICERCA DEL CANONE

Agli occhi del pubblico dell’età arcaica, nulla distingueva gli artisti dagli artigiani:quindi non sono stati tra-
mandati nomi di personalità artistiche, fuorché nel caso di opere che avevano avuto particolare fortuna o
suscitato eccezionale meraviglia e curiosità.
Agli inizi del V secolo a. C., invece, l’artista acquista nella società greca maggiore dignità e considerazione, e
anche le fonti si arricchiscono di informazioni sui singoli autori.
Nella prima età ellenistica gli storici presero poi a raccogliere puntigliosamente notizie sulle figure cui si
riconosceva il merito di avere felicemente risolto i problemi iconografici e formali o di avere effettuato
esperienze stilistiche stimolanti.
Sotto questo profilo, furono gli scultori a godere di una attenzione privilegiata.
Tra il 480 e il 450 a.C., nel periodo di transizione tra l’arcaismo maturo e il fiorire dell’età classica, operò la
generazione di artisti del cosiddetto “stile severo”. A loro si deve il superamento del più schematico sim-
bolismo arcaico e il conseguimento di un maggiore realismo anatomico, con figure che occupano in modo
meno fisso e rigido lo spazio.
I seguaci di questa nuova concezione, caratterizzata da una rappresentazione più plastica della corporeità,
evitano ogni accento decorativo, trattano l’acconciatura a masse compatte, fanno ricadere i panneggi con
ampie e pesanti pieghe.
Dal V secolo si evidenzia un vivo interesse per l’anatomia e la rappresentazione del movimento.
Nel mondo greco le divinità hanno forma umana: il loro corpo, rappresentato nel pieno della giovinezza e
del vigore, comunica l’idea di una bellezza perfetta, incorruttibile nel tempi, immortale.
La rappresentazione della figura umana testimonia desiderio di perfezione nel corpo e nello spirito, volontà
di raggiungere l’ideale dell’uomo eroico e vittorioso, protetto ed amato da un dio che guida le sue azioni.
I grandi scultori del V secolo (Mirone, Policleto, Fidia) e del IV secolo (Skopas, Prassitele, Lisippo) esaltano la
perfezione della muscolatura e studiano accuratamente l’armonia e la proporzione fra le parti del corpo,
mostrando una grandissima abilità tecnica nella realizzazione delle loro opere, scolpite nel marno o fuse in
bronzo. Dal III secolo in poi l’ideale dell’uomo greco perfetto viene abbandonato.
Ci si allontana dalla bellezza idealizzata ed irreale dei secoli precedenti e le immagini riproducono anche i
difetti fisici e le caratteristiche dei volti e corpi non più solo giovani ed atletici. Si sviluppa la ritrattistica per
tramandare il volto degli uomini illustri.
Al cittadino non si propone più un modello astratto di perfezione, bensì l’esempio di coloro che, con vo-
lontà, hanno saputo potenziare le molteplici capacità umane.
Gli eroi della cultura greca sono ora i grandi protagonisti della storia: condottieri, uomini politici, filosofi,
poeti, artisti.
Lo scopo di questi messaggi visivi è soprattutto celebrativo; l’artista che scolpisce i ritratti vuole comunica-
re, attraverso l’espressività del volto, la personalità del soggetto rappresentato.
Nell’età arcaica gli scultori avevano lavorato soprattutto la pietra, tufo calcareo o marmo;gli artisti dello stile
severo continuano ad usare il marmo per la decorazione templare, ma prediligono il bronzo per la realiz-
zazione di statue.
Questa scelta ha delle conseguenze importanti nella rivoluzione della scultura: il modello di cui il bronzo
fuso prenderà le forme può essere infatti realizzato in argilla o in materiale che rispetto alla pietra e al
marmo offre la possibilità di effettuare continue correzioni e ritocchi, così da ottenere composizioni più
ardite e complesse. Purtroppo, delle grandi statue bronzee della prima metà del V secolo a. C. si è salvato
ben poco, a causa del reimpiego del materiale, reso necessario dalla penuria di metallo che dall’età antica
si protrasse fino a tutto il medioevo.

MIRONE: SCULTORE DALLE MILLE INVENZIONI

Scultore greco nativo di Eleutere in Beozia, è stato attivo ad Atene tra il 470 e il 440 a.C. È lo scultore che
segna il passaggio dallo stile severo al primo classicismo. A lui venivano attribuite dalle fonti antiche un
notevole numero di opere in bronzo, oggi purtroppo tutte disperse e a noi ignote. Solo tre opere delle sua
produzione ci sono note, non attraverso gli originali, ma grazie al-le copie in marmo di epoca romana. Si
tratta del «Discobolo», del gruppo di «Atena e Marsia» e di un «Anadoumenos», atleta che si cinge il capo
con una benda. Nella produzione di Mirone si colgono già alcuni tratti tipici della successiva produzione

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ARTE GRECA E ARCAICA CAPITOLO 2

classica: l’attenzione prevalente per la forma umana senza alcuna preoccupazione per l’introspezione psi-
cologica, la rappresentazione di un istante temporale immobile ed eterno, la perfezione realista delle opere.
Al riguardo, le fonti narrano che una statua di «Vacca» da lui eseguita, collocata sull’Acropoli di Atene, fu
portata a Roma e qui fu celebrata da molti epigrammisti per il suo grande realismo. Il limite, e il tratto più
arcaico, di Mirone è dato dalla sua eccessiva fissità che contraddice la sua ricerca più nota: quella sul movi-
mento. Benché le sue sculture, soprattutto nel Discobolo, cercano la rappresentazione del movimento, la
sensazione che trasmettono è di una immobilità statuaria che smorza la potenzialità dell’atto che vogliono
rappresentare.

IL DISCOBOLO

Il Discobolo è sicuramente l’opera più nota di Mirone, nonché, data


la sua fama, quasi un’icona dell’arte classica greca. Nella sua im-
magine si cristallizzano alcune delle nostre maggiori suggestioni
legate all’antica Grecia: la passione per i giochi olimpici, il culto
della perfezione del corpo umano, la calma interiore che dialoga
direttamente con l’eternità.
La scultura ha uno dei suoi punti di forza nella grande armonia formale della
composizione. Si osservi lo schema seguente: la scultura si articola in due
grandi linee.
La prima linea è quella che visivamente ci consegna la sensazione del
moto: è come un arco che si tende, caricandosi di energia potenziale, per
far scoccare una freccia. In sé è una linea instabile che non può esistere
da sola (ritornando al paragone dell’arco, manca il triangolo che forma
la corda che tende l’arco nel momento che viene messo in tensione per
far partire la freccia). Ma l’equilibrio viene ripristinato grazie alla seconda
curva che, intrecciandosi con la prima, ci dà una forza visiva potenziale
uguale e contraria all’altra curva.Questo modo di giungere all’equilibrio,
sia statico sia visivo, della scultura è un passaggio fondamentale e
straordinario: non si eliminano le forze e le tensioni, come avveni-
va nella scultura antecedente, ma le forze vengono controllate at-
traverso un equilibrio di forze uguali e contrarie. Nella scultura
egiziana, la posizione stante, con figure erette secondo una linea
perfettamente verticale con le braccia che cadevano simmet-
riche e parallele al corpo, elimina le forze: il corpo è un unico solido
geometrico simmetrico senza parti che vanno in tensione.
Nel momento in cui il corpo si muove, l’equilibrio deve riorganizzarsi:
se allungo un braccio, i miei pesi non sono più simmetrici rispetto alla verticale ma induco uno squilibrio,
ad esempio, verso destra: sarà naturale spostare la gamba sinistra verso l’esterno, così che il suo peso tende
ad equilibrare il peso del braccio che si è spostato verso sinistra. In questo caso l’equilibrio non è assenza
di forze, ma somma di forze che esistono ma tra loro raggiungono un punto di equilibrio così che il corpo
conserva la sua posizione eretta. Il peso del braccio si è spostato verso sinistra. In questo caso l’equilibrio
non è assenza di forze, ma somma di forze che esistono ma tra loro raggiungo-no un punto di equilibrio
così che il corpo conserva la sua posizione eretta.
Concepire l’equilibrio in questo modo è un passaggio notevole, e farà compiere un notevole balzo in avanti
alla scultura greca rispetto a quella ad essa antecedente. Ovviamente, una simile scelta pone ad uno scul-
tore maggiori difficoltà di realizzazione. Pensiamo al corpo umano: nel momento che assumiamo le infinite
varianti delle nostre possibili posizioni, il corpo, grazie ad un equilibrio inconscio, riesce sempre a trovare,
con spostamenti a volte minimi di centinaia di muscoli, la sua posizione di equilibrio verticale. Una statua
non può fare altrettanto, per cui se uno scultore non calcola con grande esattezza i pesi che distribuisce
potrebbe non ottenere la condizione necessaria dell’equilibrio: che la risultante di tutti i pesi che compon-
gono la statua cadi esattamente nel baricentro della sua base di appoggio. Se ciò non avviene la statua non
può mantenersi in equilibrio verticale.
Ma come ha potuto Mirone ottenere, senza grandi esperienze precedenti in questo campo, un risultato

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CAPITOLO 2 ARTE GRECA E ARCAICA

già così complesso come quello del Discobolo? In realtà c’è da considerare che l’originale era una statua
di bronzo, e come tale era cava all’interno. In questo caso problemi di equilibrio che difficilmente possono
essere risolti in fase ideativa, possono poi risolversi a posteriori: il fatto che la scultura è cava consentiva di
nascondere all’interno eventuali contrappesi, calibrati per tentativi, fino a giungere all’equilibrio statico de-
siderato. Se infatti osserviamo la copia romana, realizzata in marmo e non in bronzo, vediamo che dietro la
figura vi è un breve fusto d’albero che sicuramente nell’originale era assente. Questo elemento non ha fun-
zione figurativa ma solo statica: serve in pratica a saldare gli arti inferiori in un unico blocco, dando loro più
resistenza, e al contempo allarga la base di appog-gio dell’atleta. Come si intuisce, il problema dell’equilibrio
di una statua così concepita non era semplice: il marmista che ha copiato l’originale ha dovuto ricorrere ad
un elemento estraneo per garantire alla statua l’equilibrio verticale, visto che lui non poteva giocare con
contrappesi nascosti, dato che una statua di marmo non è cava all’interno.
Un altra caratteristica di questa statua è la sua concezione esclusivamente frontale: se la guardiamo di pro-
filo il corpo risulta eccessivamente schiacciato su un unico piano.
In realtà, dati i difficili problemi di equilibrio che Mirone doveva risolvere, possiamo comprendere come
operare con forze che agivano su un solo piano fosse più agevole. Chiedergli di controllare già la dinamica
delle forze nella tridimensionalità piena dello spazio sarebbe stato forse un po’ troppo. Ma la statua, pur
nella considerazione che l’originale ci è purtroppo ignoto, ha sicuramente qualità artistiche decisamente
elevate e costituisce una importante pietra miliare nello sviluppo della grande statuaria classica.

MIRONE: ATENA E MARSIA

Questo grandioso gruppo scultoreo rappresenta Atena e Marsia, un complesso databile intorno al 440 a.
C. Qui la dea Atena viene rappresentata con lineamenti di fanciulla, e non con le solite vesti da dea guer-
riera, mentre ha appena gettato a terra un flauto, poiché per suonarlo doveva vergognosamente gonfiare
le guance.
Proprio in quel momento sopraggiunge Marsia il quale scorge con entusiasmo il flauto.
Marsia era un satiro, un essere mezzo uomo e mezzo capra, il quale trasuda gioia animalesca e nello stesso
tempo sul suo volto si nota un tono di perplessità, quasi ad indicare la sua fine (Marsia sfidò Apollo in una

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ARTE GRECA E ARCAICA CAPITOLO 2

gara musicale, che il dio vinse con la sua lira e lo punì per l’affronto scorticandolo vivo).
In seguito Marsia si trasformò in fiume.
L’opera originale di Atena e Marsia fatta da Mirone purtroppo non ci è pervenuta ma possiamo notare che
vi sono state fatte numerose copie in epoca romana grazie alle quali abbiamo avuto la possibilità di vedere
la grande opera di un artista come Mirone.
Vari complessi scultorei di Atena e Marsia li possiamo trovare o nel museo di Arte Plastica di Francoforte
oppure nei Musei Vaticani della Città del Vaticano.

Commento personale
In questo complesso scultoreo possiamo notare l’enorme estro creativo dell’artista. Il genio di Mirone ci
viene mostrato soprattutto nel far apparire reale la scena, infatti sembra quasi che si svolga davanti ai nostri
occhi, ma nello stesso tempo è anche quella di far trasparire all’interno del pubblico la sua capacità di ac-
centuare i diversi stati d’animo dei protagonisti. Infatti notiamo Atena in atteggiamento penoso e dolente,
invece il satiro Marsia in uno stato tra l’euforia e la perplessità, un qualcosa che assieme alla sua grande
opera che è il Discobolo, lo faranno diventare uno degli artisti più famosi di tutta la Grecia.

POLICLETO: IL DIADUMENO

Il Diadumeno (in greco Diadúmenos - “che si cinge la fronte con la benda della vit-
toria”) è una statua realizzata da Policleto tra il 430 e il 425 a. C. L’originale è andato
perduto ma rimangono, ad oggi, più di trenta copie di questa scultura; le più
celebri sono: il Diadumeno di Delo, conservato al Museo Archeologico Nazi-
onale di Atene ed il Diadumeno di Vaison, conservato al British Museum di
Londra, e la Testa di Diadumeno al Museo
Nazionale di Venosa, monumento di cui
è stato solo ritrovato il capo. La statua raf-
figura un atleta che, dopo aver partecipato ad
una gara atletica, si sta cingendo in testa la fascia
segno di vittoria.
La statua è purtroppo mutila delle mani e ciò
non ci fa cogliere la presumibile figura chiusa che
l’artista realizza con le braccia e la benda che si
cinge al capo. Rispetto al Doriforo questa statua
ha un’eleganza più accentuata.
Al confronto il Doriforo sembra quasi un po’ rozzo. Le caratteristiche
che portano a questa differenza sono evidenti: innanzitutto le propor-
zioni del corpo sono diverse, soprattutto nelle misure orizzontali.
Ciò ci fa ritenere che il Canone viene da Policleto migliorato con
l’aumentare dell’esperienza. Ma soprattutto la figura ha una posizione
più dinamica e meno frontale. Il Doriforo è una statua ancora rigida-
mente chiusa nella sua evidente frontalità verticale. Il Diadumeno in-
vece sembra muoversi nello spazio. La gamba sinistra è molto più arre-
trata e ciò crea una evidente sensazione di moto. Non solo, osserviamo
la testa che si piega in maniera accentuata verso le sua destra. L’intera figura non solo compone una “S”
molto larga ma è una “S” che si sviluppa in torsione: in pratica il corpo sembra che ruoti su stesso in senso
orario. Ciò ci attesta come Policleto giunge ad una concezione della statua molto più ardita ed innovativa:
non più un oggetto frontale ma un volume che si articola e si muove in tutto il suo spazio tridimensionale.

Commento personale
Con quest’opera quindi Policleto ci da un’altra lezione importantissima. Inoltre questa rappresenta un an-
ticipazione a quello che sarà il periodo massimo della scultura greca classica, quello del kalòs agathòs (per-
fezione). Infatti in questa statua l’artista non solo attua le regole da lui fondate, come la proporzione o il
sistema chiastico, ma riesce già a dare all’opera qualche cenno di dinamismo, obiettivo che verdà l’impegno
di molti altri artisti, che prenderanno anche esempio da questa statua.

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CAPITOLO 2 ARTE GRECA E ARCAICA

FIDIA - ATENA LEMNIA

Fidia è stato uno scultore, pittore e architetto


greco di cui non abbiamo molte notizie.
Invece per quanto riguarda la sua conoscen-
za artistica sappiamo molto. La sua prima
opera più conosciuta è stata Atena Proma-
chos (“che combatte in prima linea”) eretta
sull’Acropoli di Atene nel 460 a. C.: una sta- tua
alta nove metri, oggi perduta, alla quale Fidia
lavorò per nove anni. La statua era collocata
di fronte ai Propilei (gli ingressi monumen-
tali del Partenone) dove la dea era raffigurata
nel momento in cui solleva la lancia contro il
nemico, simbolo della potenza militare e del
prestigio della città.
Un’altra grande opera collocata all’interno
dell’Acropoli e nota per le sue numerose copie
in epoca romana: l’Atena Lemnia che venne
commissionata dai coloni greci dell’isola di
Lemno affinché la dea proteggesse la loro at-
tività colonizzatrice.
La statua viene raffigurata mentre è appog-
giata a una lancia con la mano sinistra, men-
tre con la destra regge il proprio elmo.
Caratteristica è anche la capigliatura, model-
lata in ciocche simmetriche che danno una
sensazione di corposità e morbidezza e nello
stesso modo la raffinatezza con cui sono state
rappresentate le vesti della dea. Ritroviamo
qui un’Atena in un atteggiamento sereno e
forte che sono poi degli atteggiamenti che
ben possiamo attribuire ad una dea guer-
riera, che nello stesso tempo deve essere
di buon auspicio e d’incoraggiamento per i
coloni committenti.

Commento personale
Si nota come la statua è pienamente carat-
terizzata da una rappresentazione realistica
dell’anatomia umana, idealizzata con la mae-
stà e serenità della figura. In questo modo
Fidia realizza così una sintesi tra la potenza
arcaica e l’armonia classica in quanto l’artista
eccelleva nella plasticità delle forme, con
una perfetta espressione di ideale di eterna
bellezza. Questi sono elementi che noi pos-
siamo ritrovare non solo in questa opera ma
in tutte le opere dell’artista.

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ARTE GRECA E ARCAICA CAPITOLO 2

FIDIA: ATENA PROMACHOS

L’Athena Promachos (“Athena che com-


batte in prima linea”) è stata una colossale
statua di bronzo di Atena scolpita da Fidia,
che si trovava tra i Propilei e il Partenone
sull’Acropoli di Atene.
Atena era la dea della saggezza e la protet-
trice di Atene. Fidia ha scolpito anche altre
due figure di Atena sull’Acropoli, l’Athena
Parthenos d’avorio e d’oro nel Partenone
e l’Athena Lemno.
Quest’opera fu commissionata da Pausa-
nia. L’Athena Promachos è stata una delle
prime statue scolpite da Fidia: è collocata
intorno al 456 a. C.
È stata realizzata grazie al bottino persiano
vinto nella battaglia di Maratona, vinta al-
cuni anni prima.
Della statua oggi restano parti di base di
marmo, e secondo l’iscrizione ivi conser-
vata, misurava circa 30 piedi (9 metri) di
altezza.
L’Atena è raffigurata in piedi con il suo scu-
do, che sappiamo sia stato costruito in di-
versa sede, agganciato al braccio sinistro, e
una lancia nella mano sinistra.
Nella mano destra invece teneva un disco
da tiro (in segno di guerra). Quest’opera
chiese nove anni di duro lavoro, ma le date
non sono identificabili, perché i nomi dei
funzionari sono mancanti.
L’aspetto dell’Atena promachos può es-
sere sicuramente riconosciuto come un aspetto della scultura attica, e questa fu scolpita anche sulle mon-
ete di epoca romana. Costituisce un importante esempio da cui pren-
deranno esempio molte altre statue di epoche successive. La dea indossava un lungo abito lungo, con cin-
tura.
L’Athena Promachos inizialmente stava ad Atene; in seguito fu trasportata a Costantinopoli (capitale
dell’Impero Romano d’Oriente), come ultimo esempio sicuro per molte statue successive, sotto la protezi-
one della corte imperiale dell’Impero Orientale. L’Athena Promachos è stata infine distrutta nel 1203 dai
rivoltosi.

Commento personale
Sicuramente anche in quest’opera Fidia confermò la gua grandezza come scultore. La statua, a parte le sue
dimensioni, 9 metri di altezza, si dimostra imponente proprio per quelli elementi decorativi che lo scultore
seppe equilibrare in modo lodevole: stiamo parlando della lancia e dello scudo come simboli di guerra, e
ancor di più dell’espressione severa della dea da una parte, e della bellezza e l’eleganza del vestito con cui
è vestita la figura la quale, pure essendo armata, mostra in questo modo il suo spirito pacifico e bramoso di
serenità.

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CAPITOLO 2 ARTE GRECA E ARCAICA

SKOPAS

Skopas è uno Scultore greco nativo di Paro, fu attivo nel IV secolo a.C., precisamente nel periodo che va
dal 395 a.C. al 350 a.C. e operò quasi esclusivamente in Grecia. Egli fu tra i primi scultori ad introdurre nella
statuaria quel nuovo ingrediente che prende il nome di pathos: le sue sculture, infatti, non hanno più la
calma e la serena compostezza delle figure classiche, ma esprimono con vigore intensi sentimenti e forti
passioni interiori. Ciò lo portò a deformare espressionisticamente i tratti del volto, e a comporre le figure in
pose di grande contorsio-ne.

MENADE DANZANTE

La Menade danzante è la statua più celebre di Skopas (risalente al 330 a.C.), che rap-
presenta una delle menadi, delle fanciulle seguaci del dio Dioniso che ne celebra-
vano il culto con cerimonie orgiastiche e danze forsennate al suono di flauti e tam-
burelli, al culmine delle quali aveva luogo il sacrificio di un capretto o di un capriolo,
dilaniato a colpi di coltello e divorato crudo nel momento del parossismo estatico.
La Menade, nota solamente da una copia romana di piccole dimensioni (alta 45 cm)
è giunta a noi molto danneggiata senza tuttavia i suoi tratti fondamentali.
L’agitazione che pervade tutta la figura viene resa
dall’impetuosa torsione che, dalla gamba sinistra,
passa per il busto e il collo sino alla testa, gettata
all’indietro e girata, a seguire lo sguardo, verso sinistra;
il volto è pieno, bocca naso e occhi sono ravvicinati,
questi ultimi schiacciati contro le forti arcate orbitali
per conferire maggiore intensità massa scomposta dei
capelli, dall’arioso movimento del chitone che, stretto
da una cintura appena sopra la vita, si all’espressione. Il totale abbandonarsi
del corpo alla passione è sottolineato anche dalla spalanca nel vortice della
danza, lasciando scoperto il fianco sinistro, e dal forte contrasto chiaroscurale
tra panneggi e capigliatura da una parte e superfici nude dall’altra. Le braccia,
andate perdute nella piccola replica di Dresda, dovevano seguire la generale
torsione del corpo: il braccio sinistro, sollevato, stringeva contro la spalla un
capretto; il destro era teso all’indietro e la mano impugnava un coltello.

MAUSEOLO DI ALICARNASSO

Collaborò con Prassitele, Leocare, Briasside e realizzò una parte del Mausoleo di Alicarnasso (oggi Bodrum),
costruito intorno al 350 a. C., impegnandosi particolar-mente nei bassorilievi e scolpendo il lato est della
struttura. Fregi, sculture e statue di incommensurabile bellezza, che gli storici attribuiscono, tra gli altri, a
Skopas, Leocare, Timoteo e Briasside, arricchi-
vano l’imponente struttura dell’edificio. Dei tre
fregi a rilievo che rappresentano dieci combatti-
menti, si può ammirare uno straordinario fram-
mento di Amazzonomachia (nell’immagine),
custodito al British Museum. Anche se non è
possibile ricostruire l’esatta posizione delle
sculture e dell’ornamentazione, dai frammenti
che rimangono si intuisce la straordinaria qual-
ità del monumento.
L’edificio è stato eretto, nella città di Alicar-
nasso (Bodrum, Turchia sud occidentale) per
accogliere le spoglie di Mausolo, il satrapo del
re di Persia, signore della Caria morto nel 362 a.

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ARTE GRECA E ARCAICA CAPITOLO 2

C. Diresse inoltre i lavori per la costruzione del nuovo edificio del Tempio di Atena Alea a Tegea, in Arcadia,
dove lavorò personalmente e particolarmente sui frontoni che sono giunti ad oggi.
Sono a lui attribuibili diversi edifici che facevano parte del Tempio dei Grandi Dei di Samotracia. Secondo
gli storici della scultura della Grecia antica, Scopas fu l’inventore dello stile patetico, così chiamato per il
pathos (il sentimento), ben definito dall’espressione dolente con cui egli era solito caratterizzare il volto
delle proprie statue.

Commento personale
Skopas è uno scultore che va oltre la ricerca della perfezione scultorea poiché all’interno delle sue opere
è presente il pathos che fa si, che le opere di skopas suscitino emozioni in chi le guarda. Questo elemento
rappresenta anche le capacità e il sentimento che Skopas usava per la realizzazione delle sue opere. Un
esempio lampante è la Menade Danzante, col volto girato, preceduto dai capelli disordinati e il busto in
rotazione. Gli occhi hanno uno sguardo perso che cattura chi lo osserva.

PRASSITELE

Prassitele è uno degli autori greci che vanno annoverati tra i più grandi della storia.
Nasce ad Atene intorno al 400 a. C. e quindi può essere attivo tra il 380 ed il 326 (anno della morte) a. C.
Secondo Plinio il Vecchio l’acme della sua produzione è intorno al 364-362 a.C.
Figlio d’arte in quanto il padre è scultore, Kephisodotos il Vecchio, è apprezzatissimo artista noto sia come
bronzista che per le preferite opere in marmo, proprio come il gruppo di Ermes con Dioniso Bambino, origi-
nale ritrovato negli scavi dell’Heraion di Olimpia.
La colorazione delle sue statue è dovuta agli interventi con cera colorata del pittore Nicia (Secondo Plinio “il
primo pittore greco il cui stile è rintracciabile nella pittura romana”, molte sue opere, andate del tutto perse,
erano a Roma).
La scelta dello stile non è occasionale nè inconsapevole, é il prodotto di un periodo di crisi dei valori che
avevano caratterizzato la fine del V sec. a. C., in sintonia con un ripiegamento individualistico e basato sulla
esaltazione dei piccoli eventi quotidiani, la produzione di Prassitele si fa “immanente”, ossia legata agli even-
ti tipici di questo mondo, della natura e della quotidianità.
Al contrario della produzione classica di Fidia, Mirone, Policleto e del padre Kephisodotos il Vecchio, il nos-
tro artista ateniese si ispira a fatti ed eventi di tutti i giorni, a vicende intime, personali e non affatto eroiche,
né “trascendenti”, trascendenti nel senso che hanno valore perenne, storico, mitico e d’esempio e insegna-
mento per tutti.
Infatti non fa storia un dio che gioca con un altro, non ha significato educativo il bagno di una dèa (“L’Afrodite
da Knido), non può essere mitizzato il gioco - per noi oggi crudele - di Apollo che con uno stilo tenta di
colpire una scattante lucertola (“Apollo sauroctono”).
Questa di Prassitele non è l’unica innovazione apportata alla scultura greca. Un’altra caratteristica consiste
nella esagerazione di fattori importanti:

1. La postura, fortemente decentrata, disequilibrata al punto da necessitare di un robusto sostegno per


tenere fisicamente la figura in piedi (“Apollo sauroctono”, “Ermes con Dioniso Bambino”, “Afrodite al ba-
gno” da Knido);
Per quanto riguarda la posizione del corpo di Ermes va detto che la figura regge in piedi solo perché
poggia su una veste poggiante su un tronco d’albero.
Questa precarietà dell’equilibrio deriva da un’eccessiva inclinazione a sinistra del torso, da un decen-
tramento esagerato a destra del bacino e da un appoggio limitato all’arto inferiore destro, mentre resta
rilasciato come nella tradizione policletea.
In particolare il torso curvo per la torsione dovuta al contromovimento, riporta le spalle in posizione
quasi orizzontale ma leggermente spinte all’indietro, con il terminale contromovimento del capo che vi-
ene leggermente in avanti in basso creando un leggero doppiomento adiposo guardando verso destra
dove è Dioniso.

2. Le figure di Prassitele appaiono anche esageratamente molli, arrendevoli, di un bellezza erotica prob-
abilmente anche carica di pederastia (omosessualità tra erastes - adulto educatore - e pai, ragazzini)

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CAPITOLO 2 ARTE GRECA E ARCAICA

quando il personaggio è maschio, dalla pelle liscissima senza peli (probabilmente considerati orribili
dall’erastes), dalla morbidezza leggermente adiposa che crea quella rotondità femminea.
Sembra quasi che le opere del nostro ateniese non sappiano restare in piedi, che vadano sempre appog-
giandosi a qualcosa che possa sostenerli, che giustifichi l’inclinazione generale del corpo.

3. Il modellato plastico eccessivamente morbido, di una dolcezza diremmo quasi femminile anche se
si tratta di corpo maschile, quali quello di Apollo (“Apollo sauroctono”) o quello Ermes (“Ermes con Di-
oniso Bambino”). Addirittura anche il volto e l’acconciatura dell’Apollo Sauroctono ricor-dano il volto
femminile (di Afrodite).

HERMES CON DIONISIO FANCIULLO

Ermes nella mitologia greca antica è un dio - Figlio di Zeus e della Pleiade Maia - che rappresenta molti
aspetti umani non del tutto positivi.
Anche Platone riporta quanto si dice di Ermes (o Ermete, Mercurio in Latino): “Ermes è dio interprete, mes-
saggero, ladro, ingannatore nei discorsi e pratico degli affari, in quanto esperto nell’uso della parola; suo
figlio è il logos”.
Da Ermes deriva ermeneutica, l’attività che si occupa delle interpretazioni profonde e nascoste.
Nella iconografia classica Ermes è fornito di berretto alato, il petaso, di kerykeion, il bastone dei viaggiatori,
di caduceo, il tipico bastone con i serpenti intrecciati, di sandali alati.
Egli è capace di oltrepassare la soglia di Ade (soglia del regno dei morti) e venirne fuori senza restarvi pri-
gioniero, e per questo funge da psicopompo, ossia trasportatore di anime per l’aldilà.
Al di là delle numerose valenze culturali e religiose di Ermes e dei suoi vari attributi identificativi, Prassitele
in questa opera realizzata intorno al 350-340 a.C., ha voluto raffigurare il dio “messaggero dei sogni” in
un momento poco “eroico” e per nulla “mitico”. Infatti nell’opera è rappresentato nell’atto del giocare con
Dioniso bambino mostrando e agitando - da una certa distanza - un grappolo d’uva (ipotesi ricostruttiva)
“Hermes e Dioniso fanciullo”, una delle poche opere originali di Prassitele, scolpita nel marmo fra il 340 e il
330 avanti Cristo, e trovata nel tempio di Hera ad Olimpia, è fondamentale in quanto summa totale delle no-
vità stilistiche e concettuali portate dal suo autore nella scultura greca: l’opera totale raffigura un episodio
del mito di Dioniso, il dio del vino e dell’ebbrezza, che ancora fanciullo venne affidato ad Hermes, messag-
gero degli dei e inventore della lira, dal padre Zeus affinché potesse osservarlo.
Hermes, raffigurato in posizione eretta, nell’originale recentemente ricostruito regge sul braccio sinistro
Dioniso fanciullo, che sembra guardare con tono un po’ minaccioso, quasi per rimproverarlo.
Il corpo di Hermes è in condizione di totale abbandono: la sua struttura è costruita sull’inclinazione di tre
assi, due rappresentati dalla testa e dalle gambe in direzione parallela, il terzo rappresentato dal tronco in
direzione obliqua rispetto i precedenti.
Questa struttura a causa dello spostamento dell’intero gruppo scultoreo rispetto l’asse di gravità comunica
un forte senso di instabilità e nel contempo di dinamismo.
A sostenere fisicamente l’intera opera intervengono però elementi esterni come la presenza di un tronco
d’albero o un lembo di drappeggio, atti ad evitare il crollo della scultura.
Hermes, ritratto più umano che divino, è caratterizzato da un volto languido, trasognato, e il suo corpo ha
una superficie morbida, luminosa, sembra ai limiti della trasparenza, grazie al marmo, materiale preferito
da Prassitele.
Il modellato è soffice, privo di asperità, la muscolatura è molle e poco pronunciata, quasi effeminata, molto
sensibile alla luce che crea uno sfumato tenue, ovattato.

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ARTE GRECA E ARCAICA CAPITOLO 2

AFRODITE CNIDIA

Anadiomene è la più celebre delle sculture di Prassitele ed una delle sua prime opere, eseguita intorno al
360 a. C. detta “Cnidia” proprio perché furono gli abitanti di Cnido ad acquistare la statua, entrò all’inizio del
V secolo nella collezione di opere d’arte pagane di Lauso, che la pose nel suo palazzo a Costantinopoli:
l’incendio che distrusse il palazzo nel 475 fece sparire anche l’originale di Prassitele.
La scultura, alta 215 cm., rappresenta la dea Afrodite nuda che si appresta a fare (o subito dopo) un bagno
rituale, ed era destinata ad ornare il naos di un piccolo tempio dotato di due aperture lungo lo stesso asse,
o forse in un tempietto monoptero nella città di Cnido.
Per la prima volta una dea viene rappresentata nuda ed in atteggiamenti intimi e personali.
Proprio da questo tipo di comportamento e di situazione prende il nome il ripiegamento intimista la cor-
rente che porta alcuni scultori, soprattutto Prassitele e Skopas a rappresentare divinità e figure mitologiche
in atteggiamenti di svago. In seguito il nudo femminile ebbe nell’arte ellenistica una presenza non second-
aria, ma al momento era una novità assoluta.
La posizione in cui colloca la figura è ancora quella policletea a chiasmo, ma con una evidente accentuazi-
one della posizione ad S del corpo.
Il corpo sinuoso, mostra tutti gli attributi della femminilità, così come molto femminile è anche il gesto della
mano destra di coprire parzialmente il pube, tanto che ebbe subito una fama notevole e fu ampiamente
venerata.
Racconta Plinio che il nobile Luciano se ne innamorò perdutamente; Luciano ammirava la bellezza del
volto, delle chiome, della fronte, la linea delle sopracciglia e lo sguardo umido e pieno di grazia, definendola
la creazione più bella di Prassitele.
Non è certo un caso se è una delle sculture che vanta un maggior numero di copie e di varianti. La sua
nudità è un elemento voluto di seduzione, accentuato dalla lucentezza delle superfici del marmo e dalle
forme morbide e femminili del corpo che si muovono nello spazio disegnando un profilo sinuoso, ad “S”. Af-
rodite è infatti colta nel momento in cui, apprestandosi al bagno, lascia cadere con la mano sinistra la veste
su una hydria (anfora) che le sta a fianco: veste e vaso fanno in realtà da supporto esterno alla statua, che
può così ruotare leggermente in avanti e verso sinistra.
In un gesto di istintività e di noncurante pudicizia, come se fosse stata sorpresa in quella posa da un estra-
neo, la mano destra è portata a coprire il pube.
In questa figura femminile, come nelle altre che egli produce, si avverte una distanza notevole dalla con-
cezione estetica del primo classicismo.
Non vi è più la ricerca di un’arte dai contenuti mitici o epici, ma dai contenuti più intimistici e quotidiani.
Un’arte che esprime meno forza, ma più concentrazione interiore in gesti e atteggiamenti quotidiani. Non
vi è più la pregnanza di una storia ma la ricerca di un attimo fuggente di natura più umana che eroica.
Questo passaggio, più poetico che stilistico, sarà di grande influenza per l’arte ellenistica successiva. Come
le altre sculture di Prassitele, anche questa statua è fatta per essere vista in posizione frontale, l’unica che
consenta di coglierne appieno la sinuosità e la grazia.
La copia più celebre e meglio conservata di questa statua è una copia romana conservata nella città del
Vaticano, al Museo Pio-Clementino.

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CAPITOLO 2 ARTE GRECA E ARCAICA

APOLLO SAUROCTONOS

Quanto detto per la Venere Cnidia si adatta in maniera ancora più pregnante alla statua di Apollo sauroc-
tonos.
La distanza di questo giovanetto imberbe e fragile dagli eroici atleti rappresentati da Policleto o Fidia è
enorme.
La gioventù umana non viene più rappresentata come il momento di massimo vigore fisico, che sembra
rendere l’uomo perfetto ed eterno, ma come un momento di fragile delicatezza.
Vi è qualcosa di troppo umano e di troppo poco eroico in ciò.
Il dio viene rappresentato nell’atto di giocare come un qualsiasi fanciullo: ha in mano uno spillone con il
quale si accinge a trafiggere la lucertola che si arrampica sul tronco d’albero.
Da un punto di vista formale la statua ha l’eleganza propria del classicismo greco, sia nelle fatture anatomi-
che sia nell’assenza di forti espressioni psicologiche, come ad esempio in Skopas.
Ma è soprattutto nella posizione della figura che ritorna con maggior evidenza la delicatezza di Prassitele.
Da ciò deriva un’accentuazione della sua posizione sinuosa che sembra renderlo ancora più fragile e quasi
effeminato.

Afrodite Cnidia Hermes con Dionisio bambino Apollo Sauroctonos


Copia Romana - M. Vaticani Copia Romana – Louvre, Paris

LISIPPO: L’APOXYÓMENOS

Lisippo, vissuto tra il 370 e il 300 a.c., è stato uno scultore e bronzista greco antico.
Visse nell’epoca dello splendore di Alessandro Magno, di cui fu l’artista prediletto e del quale fu ritrattista
ufficiale, ritraendolo in molte occasioni ed in numerose opere oggi disperse.
Con le sue rappresentazioni artistiche, Lisippo creò così un nuovo stile, una nuova scuola di scultura; quella
del ritratto fisionomico e individuale che, riproducendo l’aspetto esteriore del soggetto, ne suggeriva an-
che le implicazioni psicologiche ed emotive. Lisippo fu un artista molto prolifico della statuaria greca. La
tradizione parla, a proposito delle sue opere, di un’enorme produzione, che alcune fonti stimano in circa
1500 statue, la maggior parte delle quali bronzee. In anni recenti tuttavia sono state rinvenute alcune statue
in marmo ed in bronzo, dichiarate sicuramente originali dopo accurate analisi. Queste statue sono state
rinvenute tutte in località marine, ancora in ottimo stato di conservazione.
Su queste opere c’è un importante ed acceso dibattito in corso tra gli esperti, la maggioranza dei quali
sarebbe orientata ad attribuirne la paternità proprio al grande scultore greco Lisippo.

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ARTE GRECA E ARCAICA CAPITOLO 2

L’APOXYÓMENOS

L’Apoxyómenos è una statua, copia romana in marmo dell’opera originale in bronzo, alta 205 cm, di Lisippo.
Essa raffigura un giovane atleta nell’atto di detergersi il corpo con un raschietto di metallo usato solo dai
maschi e principalmente dagli atleti dopo le competizioni, che serviva per eliminare l’eccesso di sudore,
polvere e olio che gli atleti usavano spalmarsi addosso prima delle gare di lotta.
L’atleta è volutamente raffigurato in un momento successivo alla competi- zione in un atto che accomuna
vincitore e vinto.
Con quest’opera Lisippo apportò due importanti innovazioni nell’arte della scultura, cioè, il movimento del
soggetto e la visione circolare.
Queste intuizioni superarono la consuetudine dell’angolazione prospettica fissa e con un unico angolo di
visuale. introducendo un nuovo modo d’intendere la scultura, con una proiezione a 360 gradi; una figura a
tutto tondo. che poi, in seguito, influenzerà tutta la scultura greca, dando il via al passaggio dall’arte classica
a quella ellenistica.
Con il pretesto del semplice movimento, l’atleta dell’Apoxyómenos si protende nello spazio con molta au-
dacia, strutturandosi in una posa che viola ogni regola dettata dagli scultori greci dei secoli precedenti.
Una sola gamba (la sinistra) è carica del peso, ma l’altra non risulta totalmente scarica, creando nella figura
un senso di instabilità reso nel gesto incompiuto dell’atleta.
La lieve torsione del busto da ancora più forza a questo gesto, spezzando irrimediabilmente la razionalità
del chiasmo policleteo, cosicché i pesi non sono più distribuiti con simmetria sull’asse mediano.
Il corpo dell’opera è percorso da una linea di forza ondulata e sinuosa, che si
risolve con uno sbilanciamento dell’opera, dando l’impressione allo spetta-
tore che l’opera possa in qualche andargli incontro.
Uno dei meriti maggiori di Lisippo, fu quello di modificare e rinnovare, per
primo, i canoni proporzionali per la rappresentazione del corpo umano, che
erano stati fissati precedentemente da Policleto, nel rapporto 1:8. Un rinnova-
mento che partiva però dalla tradizione ellenica. Lisippo, fu uno dei protago-
nisti assoluti nell’arte del tardo periodo classico greco. La genialità di Lisippo
lo portò ad aprire nuove strade nella scultura dell’epoca. Egli fu il primo, ad
intuire la possibilità di modellare la statua, in funzione di un punto di vista
circolare, a 360 gradi, e non più nella prospettiva di un solo punto di vista, fisso,
come si era lavorato fino ad allora ma, che in termini di resa scenica, addor-
mentava la figura, facendole perdere forza, espressione e vitalità.
Le sue intuizioni, lo imposero come lo scultore più completo e moderno per il
suo tempo, potendo egli controllare la forma della sua opera, in ogni possibile
prospettiva o angolazione. La conquista dell’armonia figurativa nello spazio,
in una circolarità a tutto tondo. Fu proprio grazie a ciò, che poté, prima im-
maginare, e quindi poi realizzare, quelle opere di grande effetto scenico e di
grande impatto visivo, estetico e monumentale.
Per queste caratteristiche, fu per l’arte di età ellenistica, un sicuro punto di
riferimento, un faro. Dal giusto accordo tra le proporzioni e la posizione del
corpo, derivò vita ed eleganza per le sue statue. Le sue intuizioni trasmisero un
insegnamento che avrebbe poi avuto un seguito costante, numeroso e di sicuro valore, nei secoli a venire.
L’ellenismo fu principalmente caratterizzato dal cambiamento dei canoni di bellezza estetica, unitamente
al senso del movimento della figura, proprio di tutte le opere che ne conseguirono.

Commento personale
L’opera, come si può ben vedere, è uno dei primi esempi di scultura nella quale cambia l’approccio con
l’osservatore; infatti l’opera non deve essere vista soltanto da una prospettiva frontale, ma per apprezzarla
appieno bisogna girarci intorno e coglierne tutti gli aspetti, da ogni angolazione.
La quotidianità dell’opera è espressa nell’attimo colto dallo scultore, quel “carpe diem” che ora possiamo
vedere pienamente realizzato anche nella scultura.

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CAPITOLO 2 ARTE GRECA E ARCAICA

ERACLE DETTO ERCOLE FARNESE

L’Ercole Farnese è una copia dell’originale bronzeo creato da


Lisippo e oggi custodito nel Museo Archeologico Nazionale
di Napoli.
L’eroe personificava il trionfo del coraggio dell’uomo sulla
serie di prove poste dagli dèi gelosi.
A lui, figlio di Zeus, era concesso di raggiungere l’immortalità
definitiva.
Nel periodo classico, il suo ruolo di salvatore dell’umanità
era stato accentuato, ma possedeva anche difetti mortali
come la lussuria e l’avidità.
L’interpretazione che ne diede Lisippo rispecchiava questi
aspetti della sua natura mortale e fornì all’eroe un ritratto al
quale si guardò per il resto dell’antichità.
Questa statua rappresenta l’eroe stanco al termine delle fat-
iche che si riposa appoggiandosi alla clava, tenendo con la
mano destra, dietro la schiena, i pomi d’oro rubati alle Espe-
ridi.

Commento personale
In quest’opera possiamo notare che nonostante sia un per-
sonaggio mitologico, Ercole è ripreso in un momento che
accomuna tutti gli uomini: è raffigurato infatti mentre si ri-
posa dopo aver compiuto le cosiddette “fatiche di Ercole”.
Il personaggio, inoltre, sembra immerso in un riposo, più che
fisico, interiore con una profonda soddisfazione per il buon esito delle sue imprese.

EROS CON L’ARCO

Eros che incorda l’arco è una notevole opera attribuita con


certezza a Lisippo, realizzata tra il 350 e il 320 a.c. L’opera,
pervenutaci tramite una serie di copie era caratterizzata
dalla contrapposizione tra il braccio e la gamba destra che
spingono l’arco ed il braccio sinistro che lo tira verso di sé.
Il braccio sinistro copre il busto in modo tale che la statua
sembri in movimento nello spazio circostante. Eros è ritratto
fanciullo nell’attimo che precede il lancio del dardo che an-
drà a colpire la sua vittima.
Sul tronco d’albero posto alla sua sinistra troviamo appesa
la faretra che contiene altre frecce.

Commento personale
In quest’opera possiamo ammirare Eros completamente co-
involto nel gesto che sta per compiere, quello di scoccare la
freccia per andare a colpire il suo bersaglio.
Nella statua possiamo notare la tenerezza del fanciullo e,
nello stesso momento, la vigorosità e l’impegno con cui si
accinge a svolgere la sua azione: un aspetto che rimanda alla duplicità dell’esperienza amorosa.

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ARTE GRECA E ARCAICA CAPITOLO 2

ARCHITTETTURA: UN NUOVO MONDO DI RIFORME


DAL MEDIOEVO “GRECO” AD UNA NUOVA ESPRESSIONE ARTISTICA: IL TEMPIO

Dopo il grande splendore della civiltà minoica e micenea, la Grecia conosce un periodo di involuzione e
decadenza fra il II e il I millennio a. C.
Dal punto di vista cronologico non esistono date certe per l’inizio e la fine del periodo greco antico. Ufficial-
mente viene fatto iniziare con la data della prima Olimpiade (776 a.C.), anche se alcuni storici protendono
sino al 1000 a.C.
La data tradizionale della fine del periodo greco antico viene fatta coincidere con la morte di Alessandro
Magno, avvenuta nel 323 a.C., o con l’integrazione della Grecia nell’ Impero romano nel 146 a.C.
All’ inizio del II millennio a.C. la Grecia “conosce” un periodo di decadenza chiamato “Medioevo greco”, carat-
terizzato dalla disgregazione della società di palazzo in seguito alle invasioni doriche.
Anche se, alcuni studiosi moderni hanno optato per un’ ipotesi che prevede forme di vita nomade e vede il
prevalere della pastorizia sull’ agricoltura; sarebbe errato, invece, pensare a questa fase come a un’ epoca di
isolamento o di definitiva interruzione dei traffici.
In questo periodo, si assiste alla nascita della produzione di manufatti in ferro, stimolata dalla difficile re-
peribilità e dalla complicata lavorazione di alcuni metalli, come stagno e rame, di cui la Grecia non ne di-
sponeva se non in quantità minime. Gli stili caratteristici di questo periodo sono il protogeometrico e il
geometrico, che propongono motivi antirealistici. E alla medesima concezzione, si deve la forte attenzi-
one all’armonia di cui proporzione e simmetria sono i criteri sintetizzati nella civiltà greca. Esito di questo
periodo è la nascita della polis, la città-stato: un entità fortemente autonoma; l’agglomerato urbano era
costituito dalla città (polis), solitamnte circondata da mura e fatta eregere sul punto più alto, in genere un
colle, chiamato l’acropoli.
Il centro propulsore della città era l’agorà, centro nevralgico di affari, mercati e assemblee popolari. Infine il
territorio circostante era adibito all’agricoltura e all’allevamento.
Così mentre in Mesopotania e in Egitto esisteva una cultura “chiusa”, nella polis le idee circolavano, i contatti
culturali sono stretti e continui, ma si ha un’intensa partecipazione alla vita collettiva.
Nella polis il sapere si forma in un clima di libera divulgazione legato a esigenze particolari e concrete: non
a caso, le sedi in cui essa si esprime è l’arte e in particolare nei luoghi pubblici ma soprattutto nei templi. I
principali caratteri delle città-stato si riflettono in qualche modo nella produzione artistica.
Sono infatti considerate “arte” le pratiche utili e funzionali, ossia per un uomo di mestiere il suo prodotto
veniva chiamato tale, solo se aveva una grande abilità tecnica e un’attenta osservazione dei canoni, cioè dei
princìpi e delle regole dell’arte.

LE ISTANZE RAZIONALI DELL’ARTE GREGA E RELAZIONI TRA ARTE E RELIGIONE

Nella prima metà del I millennio a.C., l’arte greca tende a rappresentare con realismo sempre maggiore
ambienti, persone e cose. L’immaginazione dell’artista è sempre temperata da un’istanza razionale che lo fa
rifuggire dalla vaghezza, dall’indeterminatezza.
La meta a cui punta è la riduzione della realtà divina, umana, naturale a un sistema coerente, in cui tutti gli
elementi simmetria, semplicità e proporzione, si amalghino l’un l’altro.
Affermatosi in un arco di tempo piuttosto lungo, questa concezione dell’arte si rivela in modo evidente
anche nell’aspetto e nell’organizzazione del tempio.
L’archittettura e la scultura greca non arrivano mai alle dimensioni smisurate tipiche della Mesopotamia e
dell’ Egitto:la struttura dei santuari gotici o ionici rispondono a un piano rigoroso, in cui ciascuna compo-
nente architettonica svolge un compito ben preciso.
L’architrave e le colonne, per esempio, non hanno una funzione decorativa ma esclusivamente come el-
ementi portanti alla struttura. Uno dei canoni da rispettare era la simmetria:ci deve essere corrispondenza
fra la parte anteriore e quella posteriore, fra la parte sinistra e quella destra.
Nella progettazione più rigida e vincolante dei tempi dorici e ionici trova spazio anche qualche variante:
l’artista greco accetta sì regole e canoni, ma sfrutta abilmente il margine di libertà a lui concesso per esprim-
ere la propria creatività e rendere unica la propria opera.
Come abbiamo già accennato precedentemente l’elemento urbano più emblematico dal punto di vista
architettonico è il tempio. Fin dalle sue origini, il tempio conservò la sua funzione di “casa del dio”.

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CAPITOLO 2 ARTE GRECA E ARCAICA

Questo è il luogo dove si prega il dio o se ne ascolta l’oracolo e dove i fedeli depositano le offerte; inoltre,
è il simbolo del legame fra arte e religione che va rafforzandosi durante il I millennio a. C. per lungo tempo
l’architettura, la scultura e la pittura appaiono ispirate al sentimento divino, e i temi che l’arte greca affronta
sono spesso religiosi. Persino le statue dei trionfatori dei giochi sportivi non sono rappresentazioni di per-
sonalità definite, ma sono, la maggior parte delle volte, degli ex voto offerti in ringraziamento agli dèi da
parte della famiglia o a volte da un intera comunità; tuttavia la religione non era condizionante per gli artisti
come lo era stata per gli egizi, per esempio, proprio perché la Grecia non era influenzata dall’Oriente.

LA NASCITA DI NUOVI TERRITORI: LE COLONIE

Tra l’ VIII ed il VII secolo a. C. vi fu un fenomeno migratorio da parte dei ceti mercantili, che ebbe notevoli
ripercussioni sull’assetto sociale, politico ed economico della Grecia.
Il movimento colonizzatore, causato dai gravi contrasti di classi e dall’aumento della popolazione, che fece
crescere il fabbisogno di terre e materie prime, interessò sia l’area orientale (Tracia e Mar Nero), sia quella
occidentale (Magna Grecia, Spagna e Francia).
Iniziò, così, su vasta scala, l’emigrazione di gruppi sempre più numerosi, e la nascita di colonie nell’Asia Mi-
nore, nell’Egeo e successivamente “parteciparono” le stesse città della Grecia, favo-rendo così nuovi centri
di insediamento per la popolazione in cerca di nuove condizioni di vita. Le radici della colonizzazione erano
soprattutto economiche legate ella diminuzione del ruolo dell’agricoltura e della proprietà terriera, deter-
minando l’impoverimento di vasti strati di popolazione, segnando la fine di numerosi piccoli centri e l’inizio
di una concentrazione, sempre maggiore di abitanti, nei centri maggiori. Così le città greche fornivano agli
emigranti nuovi mezzi per l’impresa, provvedendo alla difesa dei nuovi territori; nei luoghi in cui si inse-
diavano, i coloni innestavano la lingua, i costumi, i culti e gli ordinamenti della madrepatria, rimanendo a
loro volta tutt’altro che insensibili al fascino e alla ricercatezza della cultura orientale, conquistando via via
un’egemonia sempre maggiore.

L’INCREMENTO DEGLI SPAZI URBANI

A partire dal VII secolo a.C. ha luogo un intenso processo di concentrazione urbana, determinato dallo svi-
luppo delle attività manufatturiere e commerciali e dalla conseguente tendenza dei cittadini a trasferirsi
dalle campagne alle città per un migliore tenore di vita.
Questo fenomeno impone ai governi la pianificazione di nuovi assetti urbani e la riorganizzazione degli
spazi urbani: l’agorà, luogo di incontri, di dibattiti politici e di scambi, diventa il centro propulsore della polis
“accogliendo” edifici civili e governativi; l’acropoli si definisce quasi esclusivamente come area culturale, e
dunque vengono edificati edifici sacri e monumentali. Una simile organizzazione prevede la costruzione
di nuove strutture: vengono così realizzate numerose opere pubbliche, quali fognature e sistemi di riforni-
mento idrico. Al di là di questo, insufficienti sono i resti della realtà urbanistica del IX e del VIII secolo, dove
le città sorgevano all’interno della località in cui sono state fondate, per timore delle incursioni da parte dei
pirati, che nell’antica Grecia erano all’ordine del giorno; mentre le più recenti sorgevano, per motivi com-
merciali, in corrispondenza di istmi e di porti naturali.

L’INFLUSSO DELL’ORIENTE IN GRECIA E LA CRISI DELLE POLIS

Uno degli effetti maggiori del processo di colonizzazione è la penetrazione della cultura orientale in Grecia,
dove la società subisce una serie di modificazioni strutturali.
Queste hanno come conseguenza una progressiva perdita di significato dei valori culturalilocali e, soprat-
tutto, la crisi del concetto della polis; in campo artistico si manifesta con eccezionale vigore: qui infatti gli
artisti abbandonano le esperienze del passato e adottano nuovi moduli espressivi per quanto riguarda le
tecniche di lavorazione del bronzo e della pietra e i soggetti iconografici.
Dalla metà del VII secolo a.C. la situazione artistica in Grecia inizia ad apparire più realistica e stabile, e tale
si manterrà fino all’età classica.

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CAPITOLO 3

ARTE GRECA ELLENISTICA

29
CAPITOLO 3 ARTE GRECA ELLENISTICA

LA SCULTURA ELLENISTICA E LE SUE MUSE

Nella produzione artistica dell’ellenismo si affiancano ad opere rappresentanti figure maschili alcune che
rappresentano figure femminili di muse ispiratrici.
Due dei maggiori esempi di arte femminile sono la Fanciulla di Anzio e la Nike di Samotracia.

FANCIULLA DI ANZIO

Durante una notte tempestosa la furia dell’acqua fece


crollare un muro della Villa Imperiale di Anzio dove si
trovava la Fanciulla.
La scultura marmorea, alta un metro e settanta centime-
tri, raffigurava una giovane vestita di un lungo chi-tone e
di un ampio mantello, con i capelli annodati sulla fronte.
Furono alcuni pescatori a vederla per primi e a dare l’al-
larme. Il principe proprietario del terreno, regalò poche
lire ai pescatori e fece portare la scultura nell’atrio della
sua dimora anziate, la Villa Sarsina, dove rimase fino al
1908, quando fu acquistata dallo Stato Italiano ed en-
trò nelle collezioni del Museo Nazionale Romano. Ven-
ne così scongiurato il pericolo che anche quest’opera,
come tante altre, lasciasse il suolo italiano per finire in
una collezione privata. Dal 1998 la “Fanciulla” è esposta
nella sede di Palazzo Massimo, dove tutti possono am-
mirarla. La statua rappresenta una giovane donna con
una capigliatura annodata sulla fronte e vestita con un
chitone riccamente panneggiato, che cade dalla spalla
destra scoprendo leggermente il petto, per andare a co-
prire parzialmente il piede. La
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testa è inclinata e lo sguar-
do è rivolto verso la mano sinistra che regge un vassoio
sul quale si riconoscono alcuni oggetti dalla probabile
funzione rituale: un rotolo-pergamena o benda sacra,
un ramoscello di alloro o di ulivo con frutti, e i resti di
un contenitore per offerte o unguenti. L’inquadramento
iconografico e cronologico dell’opera è controverso. Il
particolare abbigliamento e la capigliatura, nonché gli attributi connessi alla sfera cultuale fanno ipotizzare
l’identificazione con una sacerdotessa, una sacrificante o un’offerente. Secondo gli storici l’opera raffigura
una Pizia, ossia una sacerdotessa del tempio di Apollo a Delfi colta nell’atto di
bruciare focacce o farina d’orzo, per dare inizio alla pratica oracolare.
Lo storico Moreno ha indicato una data precedente alla fine del III secolo a.C.
perche dopo tale data, infatti, non ci furono più Pizie giovani. Tutta colpa di un
tale Echecrate, che nel 217 a.C. aveva partecipato alla battaglia di Rafia. Costui si
era invaghito di una delle vergini consacrate e aveva osato rapirla. Per impedire
che una simile empietà potesse ripetersi, da allora la Pizia venne scelta tra don-
ne mature, che avessero passato la cinquantina e fossero “contro la tentazione”.
Dal punto di vista stilistico, se l’aspetto slanciato della figura rimanda all’arte di
Lisippo, l’aspetto complessivo dell’opera risente dell’impostazione prassitelica.
L’uso di due diverse qualità di marmo, delle quali una a grana più fine per gli arti
e il busto, garantisce un effetto coloristico prediletto nelle produzioni artistiche
dell’Asia Minore; allo stesso ambito cul-
turale greco-orientale si può ricondurre l’elaborato panneggio della veste.

Commento personale
L’opera colpisce per tre elementi principali, ovvero, il panneggio, l’equilibrio della figura e il viso. Il panneg-

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ARTE GRECA ELLENISTICA CAPITOLO 3

gio è quello che caratterizza tutte le statue femminili dell’arte ellenistica, e ha un forte impatto nel pubblico
che osserva l’opera. L’equilibrio, invece, è dato dalla posizione dei piedi che fa sembrare l’opera tanto in
movimento quanto in una posa statica, maggiore slancio viene dato anche dalle posizioni delle braccia.
Infine il viso si presenta espressivo e molto concentrato sull’oggetto che ha in mano e sembra non curarsi
di tutto ciò che ha intorno.

NIKE DI SAMOTRACIA

La Nike di Samotracia, alta quasi tre metri in marmo di Paros, è una delle più famose sculture greche di età
ellenistica. È considerato il modello insuperato della bellezza femminile che l’arte ellenistica ha consegnato
alla posterità, per l’eleganza e l’armonia delle forme. Nella Nike si possono ritrovare i tratti degli scultori
più famosi dell’epoca: l’effetto bagnato tipico delle sculture di Fidia, la spazialità delle statue di Lisippo, e il
chiaroscuro di Prassitele.
Nike rappresenta la personificazione della Vittoria. In Esiodo viene detta figlia del Titano Pallante e di Stige;
appartiene perciò alla prima stirpe divina, anteriore agli Olimpici. Per i Greci aveva le sembianze di una
donna giovane e bella con le ali.
La statua fu presumibilmente scolpita da Pitocrito, per commemorare le vittorie riportate dalla flotta di
Rodi su Antioco III re della Siria. Secondo una ricostruzione questa statua alata faceva parte in origine di

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CAPITOLO 3 ARTE GRECA ELLENISTICA

un gruppo marmoreo raffigurante un’imbarcazione da guerra con la


dea della Vittoria collocata su una collinetta di fronte al Santuario dei
Cabri, nell’isola di Samotracia e adornava una fontana proprio del
santuario.
La statua sembra atterrare o spiccare il volo dalla prua della nave:
la figura, eretta, si sviluppa lungo l’asse perpendicolare della gamba
destra, sulla quale appoggia tutto il corpo, mentre la gamba sinistra è ar-
retrata come a cercare stabilità o per darsi lo slancio necessario. Il torace è spinto
in avanti, quasi gonfio, e leggermente ruotato a destra rispetto l’asse centrale, quasi
come se stesse per volgere il proprio busto, mentre la parte inferiore del corpo sem-
bra accennare una rotazione verso il lato opposto: questa lieve torsione crea una
linea sinuosa che percorre tutto il corpo della dea, ispirando un forte senso di
dinamismo.
La dea manca della testa e delle braccia. Forse essa innalzava una corona, o, come
sostengono alcuni studiosi, reggeva un trofeo con la mano sinistra ed una tromba
con la destra, nella quale soffiava ma i frammenti recentemente ritrovati hanno
consentito di stabilire che la Nike non tenesse niente in mano, il braccio destro
era portato più avanti in contrapposizione con quello sinistro trasportato dal
vento. Porta una leggerissima
veste, il chitone, che un vento
impetuoso sembra incollare
al bellissimo corpo, lasciando
intravedere i suoi seni pro-
rompenti, le curve morbide del ventre, il leggero infossamento
dell’ombelico.
Attualmente la statua si trova al museo del Louvre di Parigi
perché fu ritrovata da un console francese nella seconda metà
dell’ottocento.

Commento personale
Guardando la Nike di Samotracia la caratteristica più evidente è il drappeggio della veste che si mostra
ricco di pieghe e che avvolge tutto il corpo ad eccezione della coscia sinistra e dell’addome che sono visi-
bili perché ricoperti da un velo bagnato dagli spruzzi del mare che la nave, dove era collocata la statua,
produceva solcando le onde. Lo spettacolo che si mostra davanti agli occhi dell’osservatore è di una figura
che sembra in movimento e che rappresenta nella sua maestosità la vittoria. La mancanza della testa non
impedisce l’espressività della Venere che viene trasmessa dal linguaggio del suo corpo.

L’IMPIANTO SCENOGRAFICO DELLA CITTÀ ELLENISTICA

La città ellenistica porta alle estreme conseguenze la pianta di Mileto attribuita a Ippodamo, con strade di-
ritte che s’intersecano perpendicolarmente e di larghezza uniforme, come quasi uniformi sono gli isolati. Di
fatto, le colonie e le città ioniche fondate in Asia Minore nei scoli VII e VI a.C. erano edificate secondo moduli
rettangolari standardizzati e tenendo conto delle funzioni cui erano destinate le diverso aree: l’agorà, per
esempio, era spesso ubicata non lontana dal porto, e dunque dai magazzini e dalle navi, secondo uno
schema poi adottato non solo dagli architetti di Alessandro e dei diadochi, ma anche dagli antichi romani,
dagli spagnoli nel Nuovo Mondo e dagli americani di Filadelfia e New Haven. Data la sua struttura regolare,
la città ellenica poteva essere facilmente sorvegliata, gli stranieri vi si orientavano rapidamente, le attività
manifatturiere e commerciali erano facilitate, e così pure i trasporti.
A questa uniformità e regolarità nello schema urbanistico si accompagna però lo sviluppo di tipologie edil-
izie e architetture originali: anzitutto, si affermano nuovi edifici e spazi quali il portico, il bouleutérion, ossia
la sala per assemblee del consiglio cittadino (boulé); inoltre, la bellezza artistico-monumentale, un tempo
prerogativa esclusiva dei templi, viene perseguita anche nella costruzione di edifici pubblici (biblioteche,
ginnasi, piazze, teatri) e privati (case, ville, tombe di famiglia).
Le città ellenistiche diventano sempre più grandiose e spettacolari grazie all’impego di ricchezze da parte

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ARTE GRECA ELLENISTICA CAPITOLO 3

dei sovrani, i quali diventano così nuovi committenti di opere urbanistiche e architettoniche. Essi, elargendo
più denaro di quanto facessero le poleis, promuovono la costruzione di monumenti e opere pubbliche atte
a indurre nei sudditi un senso di soggezione e di orgoglio al tempo stesso: in questo modo, le città ellenis-
tiche diventano, da un lato, grandi palcoscenici per despoti e compiaciuti ostentatori di ricchezze personali,
centri di parata e vetrine di potere; dall’altro, luoghi organizzati per lo svolgimento di attività economiche,
commerciali e, soprattutto culturali. L’assetto urbanistico che caratterizzava le metropoli ellenistiche veniva
adottato anche dalle piccole città. Lo testimonia in Caria (Turchia) una cittadina anonima e priva di qualsiasi
rilevanza della quale sopravvivono però numerosi resti: Priene. La sua fondazione risale al 350 a.C. circa e
venne intrapresa dopo che gli abitanti, abbandonata la città antica a causa delle inondazioni del fiume me-
andro, furono costretti a erigere un nuovo insediamento sulle pendici del monte Micale.
L’edificazione di questo centro, protrattasi per tutta l’età ellenistica, rappresenta un importante punto di
svolta nell’evoluzione dell’urbanistica, soprattutto per il fatto che in esso compare per la prima volta la dis-
posizione scenografica su terrazze, secondo un modello poi ripreso, per esempio anche a Pergamo. Priene
si sviluppava infatti, su una serie di quattro terrazze culminate in un’acropoli che si elevava 381 m sul livello
del mare. Nella parte bassa della città c’è la prima terrazza che ospitava lo stadio e il ginnasio; sulla seconda
si trovava l’agorà e il Tempio di Zeus e Asclepio; sulla terza il Tempio di Atena Poliade, il teatro e un altro
ginnasio; sull’ultima il Tempio di Demetra. Priene era inoltre caratterizzato da uno schema ortogonale, con
lunghe strade che correvano in direzione Est-Ovest, la principale sboccava nell’agorà.
Una simile struttura consentiva una precisa delimitazione delle varie aree cittadine: quella centrale era oc-
cupata dall’agorà; al di sotto si elevava il centro religioso; e a un livello ancora superiore stavano il teatro
e le abitazioni residenziali. La parte bassa era invece riservata al ginnasio e allo stadio. Il nuovo assetto ur-
banistico ebbe la peculiare impostazione “scenografica” dei centri ellenistici come nella città di Alessandria
d’Egitto in tutta la sua potente evidenza; e difficilmente le ricostruzioni grafiche e plastiche potranno resti-
tuire quell’impressione d’imponenza e maestosità che doveva colpire i visitatori della metropoli.

Proprio in virtù della sua struttura grandiosa e magniloquente, la capitale d’Egitto, fondata da Alessandro
nel 332-331 a.C., divenne un modello per numerosi altri centri dell’antichità.
Un esempio significativo di metropoli ellenistica, oggi purtroppo in cattivo stato di conservazione, è Per-
gamo, costruita da Eumene II e capitale d’uno dei quattro regni nei quali si scisse l’impero di Alessandro.
Fu governata dalla dinastia degli Attalidi che trasformarono questa cittadella militare in una metropoli fra
le più magnificenti dell’età ellenistica. Pergamo è caratterizzata da una suggestiva disposizione a terrazze
e della presenza di strutture edilizie nuove, o rivisitate nella loro concezione, quali il portico, il ginnasio, il
bouleuntérion e l’agorà. Dalla porta sud, la via principale conduceva all’agorà della città bassa, circondata
da stoài ossia “portici” che ospitavano le botteghe.
I portici erano costruzioni allungate a uno o due piani, con colonne doriche a piano terreno e ioniche a
quello superiore. Essi svolgevano diverse funzioni, la principale delle quali era delimitare in modo unitario
ed esteticamente gradevole alcuni spazi adibiti a usi e attività di vario genere. I portici erano anche luoghi

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CAPITOLO 3 ARTE GRECA ELLENISTICA

d’incontro. Nei pressi della stoà si trovava il boulentérion,


fra i più connotati simboli della vita civica cittadina.si pre-
sentava come un edificio monumentale coperto simile
nell’aspetto a un teatro con gradinate rettilinee disposte
su due lati e il tetto era sorretto da colonne. Salendo la
collina, a Pergamo s’incontravano poi i ginnasio, artico-
lato in cortili, giardini, porticati, esedre, bagni, spogliatoi
e il Santuario di Demetra.
Il ginnasio, disposto su tre terrazze, costituiva, a Pergamo
come altrove, un importante luogo d’aggregazione so-
ciale, preposto com’era ad attività non solo fisiche o gin-
niche, ma anche culturali: infatti si tenevano incontri letterari e filosofici. Seguivano il quartiere residenziale,
l’agorà con monumenti quali l’imponente Santuario di Zeus, con il suo grande Altare dedicato a Zeus Sotér
(“salvatore”) e ad Atena NIkephòros (“portatrice di vittoria”) e il teatro.
Non lontano, i palazzi reali, gli arsenali e depositi militari. Nonostante la sostanziale fedeltà dello schema
ippodameo, Pergamo rivela, con peculiare sistemazione delle strade, la disposizione intelligente e mossa gli
edifici pubblici e delle case private. Per tutti questi motivi, la sua influenza in campo urbanistico fu notevole:
alle stoài di Pergamo si ispira per esempio quella edificata
da Attalo II nell’agorà di Atene nel 138 a.C.
In queste città con ambizioni di fasto ed eleganza, le case
private, spesso ormai a tre piani, sono decisamente migliori
per aspetto e funzionalità rispetto a quello dei secoli prec-
edenti. A caratterizzare la casa ellenistica sono i cortili più
ampi e circondati da colonnati, le stanze di maggiori dimen-
sioni e dislocate in modo più vario, i pavimenti a mosaici, le
pareti decorate a finte incrostazioni di marmo. Ovviamente
permane, anzi aumenta, la differenza fra abitazioni apparte-
nenti alle famiglie più o meno abbienti. Al medesimo con-
testo estetico e sociale si lega la nascita del palazzo, edificio
che ha una duplice funzione: privata, in quanto luogo di
residenza del sovrano e pubblica, in quanto edificio di rap-
presentanza civica.
Il più antico palazzo di cui ci resta una sua testimonianza è il Palazzo reale di Verghina, risalente alla fine
del IV secolo a.C.: un edificio a pianta rettangolare, con cortile interno quadrato circondato da portici e una
facciata d’ingresso monumentale a sua volta caratterizzata da un imponente porticato. Come per i monu-
menti e gli edifici nei quali si identificano i caratteri politico-civili della città, l’architettura ellenistica cerca
forme originali anche per i luoghi in cui esprime il comune sentimento religioso.
Nell’architettura templare permane l’uso dei tradizionali
ordini architettonici, ma si assiste nel contempo a uno
snellimento e alleggerimento del dorico, ormai impiegato
soltanto per i colonnati dei portici urbani.
Rari i templi che, come quello di Atena a Pergamo, adot-
tano questo stile severo e pesante; perfino nel Pelopon-
neso, sua terra d’origine, esso viene soppiantato dagli altri
ordini fin dagli inizi del IV secolo a.C.; come
si vede nel Santuario di Epidauro, dove prevalgono gli or-
dini ionico e corinzio.
Nel trattato di De Architettura di Vitruvio, riferisce sulla su-
periorità dell’ordine ionico, in virtù delle sue proporzioni e
dei suoi ritmi, che consentivano più audaci sperimentazi-
oni architettoniche. L’ordine che appariva più congeniale
agli architetti ellenistici era comunque l’elegantissimo corinzio, caratterizzato dall’elaborazione del motivo
delle foglie d’acanto. Una monumentalità sfarzosa e imponente, contraddistingue anche i santuari e i tem-
pli ellenistici, come testimonia il Tempio di Apollo Filesio a Didima, presso Mileto. Qui esisteva già un tempio
dedicato al dio, andato però distrutto dai Persiani nel 494 a. C.. Ricostruito dagli architetti Paionio di Efeso

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ARTE GRECA ELLENISTICA CAPITOLO 3

e Dafni di Mileto, il nuo-


vo tempio si presentava
con doppio colonnato
(dìptero) ionico di dieci
colonne sui lati brevi e
ventuno sui lati lunghi,
ed era collocato su un
alto piedistallo (stilò-
bate) trasformato sulla
fronte in una scalinata.
La struttura racchiudeva
un cortile con semipilas-
tri decorati da capitelli
corinzi nel quale si er-
geva un tempietto ionico
tetrastilo, ossia con quat-
tro colonne sulla fronte,
nel quale era custodita
la statua del dio. Il tempi-
etto (prònao) si accedeva
mediante alcuni gradini
che salivano dal cortile, posto a un livello inferiore. A sua volta, questo era accessibile da due scale decen-
trate coperte da volte a botte.
Insomma, una costruzione elegante disposta su diversi piani, a cui effetto scenografico contribuiva notevol-
mente il boschetto circostante folto d’alloro, la pianta sacra ad Apollo.

Commento personale
La città ellenistica può a prima vista apparire soltanto come un ingrandimento della città classica: conserva
e sviluppa lo schema regolare, a scacchiera, e la distribuzione a terrazze sui pendii naturali che Ippodamo
da Mileto aveva teorizzato come schema ideale.
Ed è significativo che proprio ad Ippodamo attribuisca, sia pure dubitativamente, la fondazione e il primo
tracciato di Rodi, una delle più famose città ellenistiche. Di fatto, la città ellenistica è una realtà sociale
ed edilizia molto diversa da quella classica poiché la natura stessa non è più concepita come una forma
costante sotto le apparenze mutevoli, ma come un vario insieme di fenomeni, la struttura urbana, che è
sempre in rapporto con la concezione dello spazio naturale, è una struttura priva di costanti normative,
intimamente connessa con la configurazione del suolo, con il paesaggio, con le condizioni climatiche.
Non mutano sostanzialmente gli elementi basilari della morfologia architettonica classica; muta radical-
mente il modo di svilupparli e combinarli, muta la proporzione degli edifici, muta la proporzione degli
edifici, muta infine la concezione stessa della costruzione, non più intesa come forma chiusa ma come or-
ganismo aperto, simbolo di grande perfezione.

I SANTUARI PANELLENICI

Da semplici luoghi di devozione, i santuari greci giunsero progressivamente a configurarsi come complessi
monumentali e multifunzionali. Nel santuario infatti non si svolgevano soltanto cerimonie religiose, ma an-
che rappresentazioni teatrali o gare sportive, sempre in onore degli dei. A parteciparvi erano pellegrini pro-
venienti da ogni parte della Grecia: dunque in quei luoghi si stringevano e consolidavano anche i legami
culturali. Solitamente i santuari nascevano nei pressi di elementi naturali legati a una particolare divinità.
Dal punto di vista architettonico non si presentavano come complessi omogenei, perchè i singoli edifici
venivano eretti via via in base a specifiche esigenze in assenza di un progetto d’insieme.
Nel periodo successivo alle guerre persiane, i santuari costituirono i maggiori committenti d’arte: fra i più
noti quelli da ricordare sono il santuario di Delfi, dedicato ad Apollo, e quello di Olimpia; sacro a Zeus.

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CAPITOLO 3 ARTE GRECA ELLENISTICA

IL SANTUARIO DI DELFI

Il santuario di Delfi era famosissimo già nell’ottavo secolo a.C. in virtù dei responsi oracolari che si riteneva
Apollo pronunziasse attraverso la sua sacerdotessa, Pizia.
Vi sono varie leggende su quest’oracolo: il luogo era anticamente abitato dalle divinità della terra, Gea e
la figlia Temis, ma esse vengono cacciate da Apollo, poiché l’area viene definita la più adatta ad ospitare
un santuario; per realizzare il progetto Apollo compie un atto sacrilego: uccide l’animale apotropaico, un
serpente che tutelava il luogo
e teneva lontano il male, e
lascia seccare la sua pelle al
sole; da questo atto deriva il
termine pizia, la sacerdotessa
che dà voce al dio. Nel periodo
dell’espansione coloniale, le
città greche che intentevano
fondare colonie in regioni lon-
tane si recavano presso il San-
tuario di Delfi per interrogare
il dio e ottenere indicazioni in
merito al luogo da scegliere
e all’ecista, ossia il cittadino
che avrebbe dovuto guidare
l’impresa. I responsi della sac-
erdotessa erano formulati in
modo oscuro e indecifrabile, e
venivavano pronunciati dalla pizia in stato di estasi,in un locale sotterraneo del tempio inaccessibile ai fe-
deli, chiamato àdyton. Questo santuario è composto da molti edifici e vi sono due zone archeologiche: una
più a Nord, al cui centro si trova il santuario di Apollo, e una più a Sud, dedicata ad Atena pronaia.
Inoltre al centro stava la gola della fonte Castalia,il ginnasio e la terrazza detta Marmarià; infine a sinistra
stava il grande tèmenos, cioè l’area consacrata al dio.
Il primo gruppo di monumenti che si incontra nel sito è la terrazza artificiale di Marmarià con il tempio di
Atena Prònaia. Già nella seconda metà del settimo secolo a.C. ad Atena era stato dedicato un tempio di cui
rimangono capitelli e colonne frammentarie. Alla fine del sesto secolo fu eretto nella stessa area un sec-
ondo tempio in tufo, di dimensioni maggiori; frequenti cadute di massi costrinsero però all’ abbandono di
questo edificio. Nel quarto secolo a. C., infine venne costruito un terzo tempio dorico in calcare, dedicato
sempre ad Atena Prònaia, con colonne ioniche nel pronao. Oltre ad altri piccoli edifici, l’elemento più inter-
essante è la Tholos di Atena Pronaia, un edificio di culto a pianta circolare e in marmo pantelico datato alla
prima metà del quarto secolo a.C.. La struttura consta di un basamento a tre gradini su cui si elevano venti
colonne doriche, alle quali corrispondevano dieci colonne corinzie.
Lasciando il Tempio di Atena Pronaia e il ginnasio, si sale alla fonte Castalia, dove stava una vasca con sette
bocche ornate da pròtomi (elementi decorativi a forma di testa umana o animale) bronzee dalle quali scor-

Tholos di Atena Pronaia Tempio di Apollo

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ARTE GRECA ELLENISTICA CAPITOLO 3

reva l’acqua. Il santuario di Apollo si presentava come un tèmenos rettangolare di 190 x 135 metri; nel muro
di recinzione si aprivano diverse porte, di cui la principale, si trovava all’angolo sud-orientale. Da qui partiva
la Via Sacra, sulla quale si affacciavano numerosi edifici, costruiti dalle città greche in onore del dio.
Il Tempio di Apollo risale al quarto secolo a.C.; è in stile dorico, con sei colonne sui lati brevi e quindici su
quelli lunghi; il pronao e l’opistodomo presentano due colonne. Nella zona nord-occidentale il santuario
comprendeva anche un teatro; fuori dal santuario sorgeva lo stadio, dove ogni quattro anni si svolgevano i
Giochi pitici, accompagnati da gare poetiche, teatrali, musicali.

IL SANTUARIO DI OLIMPIA

Il più famoso santuario del mondo antico era il Santu-


ario di Zeus di Olimpia, nell’Elide, situato alla confluenza
dei fiumi Cladeo e Alfeo. L’area era anticamente occu-
pata da un insediamento popo- lato senza interruzione
dal 2800 al 1100 a.C. circa. La sua trasformazione in zona
cultuale avvenne probabilmente in età taromicenea: a
quest’epoca sembrano risalire le prime testimonianze
del culto di Pelope, mitico fondatore dei giochi olimpici,
le cui imprese sono rappresentate sul frontone orientale
del tempio di Zeus; le fonti letterarie ci indicano anche
Eracle come colui che vi recinto per il padre Zeus un bo-
schetto (l’Altis) situate presso la tomba di Pelope.Nel 600
a. C. il tèmenos si presentava di forma quadrangolare, di
circa 100 metri per lato. Esso includeva una piccola tholos
dedicata a Filippo il Macedone e alla sua famiglia, chiamata Philippeion. Infine vi era uno stadio nel quale
si svolgevano ogni quattro anni i Giochi olimpici. Questi giochi dal carattere sacro, sportivo e culturale
erano considerati un momento importantissimo nella vita
della società greca, tanto che ogni ciclo di quattro anni
fu chiamato “Olimpiade” e su di esso si fondò il sistema di
datazione valido in tutta la Grecia. Come tutti i santuari,
anche quello di Olimpia si componeva di vari edifici, fra
cui l’importantissimo Tempio di Zeus e quello di Era.
Il Tempio di Zeus fu eretto fra il 470 e il 456 a.C. su progetto
dell’architetto Libonedi Elide. Imponente e maestoso era
vun tempio di ordine dorico, con sei colonne sulla facciata
e tredici sui lati lunghi, con cella, portico e opistodomo. Il
pronao e l’opistodomo avevano le medesime dimensioni,
e dal primo si accedeva alla cella, che era divisa in tre parti
da due file di colonne doriche. Tra i due colonnati fu posta
alla fine dei lavori una statua crisoelefantina (oro e avorio) di Zeus, opera di Fidia. Il materiale da costruzione
del tempio era un calcare conchiglifero locale, le cui imperfezi-
oni venivano coperte da uno stucco policromo,e che fu utiliz-
zato per gli elementi portanti architettonici; il marmo, invece, fu
utilizzato per le tegole e la magnifica decorazione del timpano.
L’uniformità stilistica delle sculture, che rilevano una completa
padronanza dell’anatomia umana, fa pensare all’opera di un
solo grande artista, il quale si avvalse della collaborazione che
lavoravano sui suoi bozzetti. Questo misterioso maestro,del
quale nn si conosce l’identità, è convenzionalmente chiamato
Maestro di Olimpia.

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CAPITOLO 3 ARTE GRECA ELLENISTICA

IL PARTENONE: ELEGANZA ED INNOVAZIONE

Sotto il governo di Pericle Atene muta aspetto.


L’Agorà assume una forma più regolare e si orna di edifici pubblici e di porticati, segno che il prestigio di
una città non è affidata solo all’architettura sacra.
È proprio sull’Acropoli che sorgono costruzioni di ambiziosa concezione e si concentra un piano di inter-
vento organico. Fin dall’epoca mi cene a, sulla sommità della collina che domina la città si trovava il palazzo
del re (anax) e, qui viera stata innalzata la prima imponente cinta muraria. Divenendo la polis sempre più
importante, anche l’acropoli venne arricchita di templi e di fortificazioni più potenti.
Dopo le distruzioni operate dai persiani prese avvio la ricostruzione, prima sotto il governo di Temistocle e
poi di Cimone; fu però nell’età di Pericle che l’ acropoli raggiunse il massimo splendore.
Il primo edificio eretto sull’acropoli fu il Partenone, ossia il Tempio di Atena Parthénos (cioè “vergine”, in
quanto aveva difeso la sua castità contro le insidie del dio Efesto). Era stato dedicato da Pericle alla dea che
aveva protetto Atene nel difficile periodo dello scontro con i persiani. Indagini archeologi che che nel sito
dove sorge il Partenone era già stata avviata l’edificazione di altri due templi dedicati ad Atena.
La nuova costruzione fu iniziata nel 447 a.C.; i lavori, per ciò che attiene alla parte architettonica, termin-
arono probabilmente nel 438 a.C., quando fu inaugurata la grande statua criselefantina dell’ Atena Parthé-
nos di Fidia, l’eccezionale artista che guidò la realizzazione del tempio. Per la costruzione del Partenone
Fidia si avvalse della collaborazione di Ictino e di Callicrate. Fidia fu nominato dallo stesso Pericle episcopos
(sovraintendente) alla monumentalizzazione dell’acropoli. Fidia fu un abilissimo organizzatore, dotato di
grande carisma; ottenne alta qualità esecutiva e omogeneità stilistica da uno stuolo di artisti e artigiani.
Il risultato straordinario del suo operato fu che nelle botteghe dell’ epoca il suo stile si impose e lasciò un
segno profondissimo. Quanto agli altri architetti, Ictino, che portava nel cantiere l’esperienza dei templi
dell’Asia Minore, ebbe probabilmente il gravoso incarico di risolvere i tecnici derivanti dalla preesistenza
di edifici incompiuti di cui andavano riutilizzate le fondamenta e le basi delle colonne. Gli elementi deco-

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ARTE GRECA ELLENISTICA CAPITOLO 3

rativi furono invece curati da Callicrate, che già si


era distinto nella Costruzione delle mura di Atene
ed era impegnato nel progetto per il Tempietto
di Atena Nike. Il Partenone non fu dunque figlio
di un solo artefice, ma di una équipe molto ca-
pace e affiatata. La progettazione del Partenone
fu minuziosa e lunga, anche perchè il démos (la
popolazione) volle visionare e discutere i minimi
dettagli prima di approvarli.
La trasformazione compiuta da Ictino è brillante e
di eccezionale equilibrio; riutilizzò la piattaforma
del tempio dorico esastilo precedente, che presen-
tava già la disposizione afiprostila della cella, con
epistodomo ad Angolo retto con quattro colonne
staccate tra le ante e riducendo la profondità del
pronao; modificò la pianta allargandola sensibil-
men- te e scostandosi dalle tradizionali misure del
gotico con sei colonne per sedici a otto colonne
per diciassette (fig 2).
La pianta del Partenone di Atene è un rettangolo
con lati di dimensioni tali che la lunghezza sia
pari alla radice di cinque volte la larghezza, men-
tre nell’ architrave in facciata il rettangolo aureo
è ripetuto più volte. Per ottenere una dimensione
armonica delle cose esiste una «divina proporzi-
one» (sezione aurea). Essa corrisponde a un rap-
porto di 1,618 (numero d’oro). Questa teoria è basata su quella del segmento aureo che afferma che in un
segmento (A,B,C) il tratto più corto sta al tratto più lungo come quello più lungo sta al segmento intero.
Anche l›originaria divisione del naos in due settori venne mantenuta: un vano principale (destinato ad ac-
cogliere la statua di Atena) a est, a tre navate divise da due file di dieci colonne; il secondo (che custodiva il
tesoro della dea e all’origine portava il nome di Parthénon) a ovest, a pianta quadrata, con quattro colonne
che sostenevano il soffitto.
Ictinio dovette tener conto delle proporzioni monumentali che Fidia prevedeva per la propria statua. Tras-
formò dunque la ripartizione degli spazi e dei volumi, aumentando l’ampiezza della cella. Per le quattro
colonne della sala a ovest Ictino impiegò l’ordine ionico, perché la forma più slanciata soddisfaceva meglio
l’esigenza di spazio. L’architettura del Partenone è regolata da precisi rapporti numerici. Fu infatti costruito
a priori il rapporto 9:4 che venne applicato alle diverse strutture dell’edificio: ai lati maggiore e minore del
basamento; alla larghezza e all’altezza dell’edificio fino al ghéison, il nessun tempio dorico precedente van-
tava una decorazione di pari ricchezza. Essa ravvivava ed esaltava la struttura architettonica: le modanature
recavano piccoli e sobri fregi con perle; il tetto era sottolineato da un motivo a palmette; i gocciolatoi erano
lavorati a testa di leone. Le linee orizzontali del Partenone, dal gradino più basso al cornicione, sono state
disegnate secondo una curva verso l’alto, lievissima eppure rilevabile sia a occhio nudo sia con strumenti
di misurazione. Questa linea parte da ciascuno dei quattro angoli della struttura e muove all’incirca in dir-
ezione del punto medio di ciascuno dei lati. La superficie superiore della piattaforma in muratura destinata
a sostenere il tempio non era esattamente orizzontale, ma di poco più elevata a ovest e a sud, con l’angolo
sudoccidentale come punto più alto. Piuttosto che attribuire l’asimmetria delle curve a trascuratezza
dell’architetto o dei suoi muratori, va considerato come una prova di abilità straordinaria il fatto che essi
siano riusciti a tracciare delle curve quasi uniformi su fondamenta non perfettamente piane. Infatti stando
ai moderni mezzi di rilevamento, sembrerebbe che la parte meridionale della piattaforma non fu rilivellata,
ma si lasciò l’estremità occidentale un poco più alta dell’orientale. Infatti gli angoli nord-orientale e sudo-
rientale si trovano allo stesso livello, sebbene uno poggi sulla roccia e l’altro su ventidue strati di muratura.
Un’altra stranezza architettonica del Partenone, è l’inclinazione delle colonne verso l’interno. Invece di essere
perfettamente a piombo, le colonne di tutt’e quattro i lati del tempio sono appunto inclinate leggermente
verso l’interno. Nessuno ha mai supposto che questa deviazione dall’asse verticale non fosse intenzionale;
la si può infatti rilevare nella diagonale secondo cui è stata tagliata la faccia inferiore di ognuno dei tam-

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CAPITOLO 3 ARTE GRECA ELLENISTICA

buri inferiori delle colonne. Ec-


cetto che negli elementi posti
alla base e alla sommità di
ciascuna colonna, le superfici
superiore e inferiore di cias-
cun tamburo sono perfetta-
mente parallele fra loro, con i
piani che formano angoli retti
rispetto all’asse del tamburo.
A questa successione di tam-
buri continuamente più stretti
di diametro venne impressa
una inclinazione anch’essa
continua, tagliando la super-
ficie inferiore del tamburo di
base con una leggera incli-
nazione; così l’intera colonna
era costretta a inclinarsi verso
l’interno. Questi procedimenti
comportarono tutti una precisione matematica che è quasi incredibile. Va comunque osservato che la pre-
cisione matematica fu raggiunta empiricamente, al momento dell’esecuzione, anziché con calcoli aritmeti-
ci o geometrici preventivi. I risultati conseguiti grazie a questi delicati aggiustamenti non furono sempre
esatti, come si può dimostrare confrontando la spaziatura delle colonne sullo stilobate con la lunghezza
delle travi del loro epistilio all’altezza della trabeazione.
Un altro straordinario elemento del Partendone è la curvatura in senso verticale, estremamente delicata,
nei profili dei fusti delle colonne e relativi capitelli. Chiunque osservi il Partenone non può fare a meno di
notare che tutti i fusti delle colonne diventano più sottili a mano a mano che salgono. Occorre però un oc-
chio straordinariamente sensibile ed esperto per notare che il restringimento del fusto non procede lungo
una linea perfettamente retta, bensì segue un lieve inarcamento verso l’esterno, che in nessun punto si
discosta più di 1,7 centimetri dalla retta!
Infine, non va trascurato il fatto che la parte esterna delle pareti delle stanze del santuario è inclinata verso
l’interno, per seguire l’analoga inclinazione delle vicine colonne, mentre la parte interna è perfettamente
verticale, e le terminazioni dei suoi muri sono anch’esse inclinate, ma questa volta in fuori, verso la colonna
del loro portico. Le sculture, migliaia, distribuite su novantadue metope, su un fregio di centosessanta metri
che girava intorno alla cella, e su due frontoni, erano in marmo a grana fina delle cave di Pentelico, dipinte
e arricchite da dettagli in bronzo, probabilmente dorato.
Il Partenone subì nel tempo numerosi danneggiamenti: fu trasformato prima in chiesa cristiana (VI secolo
d.C.), poi in moschea (XV secolo) e successivamente, dai turchi, in polveriera (cannoneggiata e fatta esplo-
dere dai veneziani nel 1687).
Nel 1801 l’ambasciatore britannico in Turchia, Lord Elgin, raccolse quanto più possibile di ciò che non era
stato ancora danneggiato o saccheggiato e lo trasferì in patria. A ricomporre e interpretare i frammenti dis-
persi si sono rivelati preziosi i disegni che il pittore Jaques Carrey aveva eseguito prima dell’ esplosione.
Che ci sia la mano di Fidia anche nella progettazione del Partenone appare evidente.
L’edificio è infatti costruito con la sensibilità propria di uno scultore: può essere considerato come una
gigantesca scultura. Con Fidia si ha la sensazione che gli scultori hanno ormai raggiunto il pieno controllo
della forma di rappresentazione. Nulla è impossibile per questo scultore, soprattutto nella notevole capac-
ità di rendere verosimile ciò che egli rappresenta. Le masse che egli organizza devono trovare una loro
armonia di fondo, pena il fallimento finale dell’ opera. Molte statue greche, soprattutto del periodo arcaico
e severo, erano dipinte superficialmente. L’uso del colore comportava un diverso approccio al problema
delle superfici. Nel caso non si faccia uso del colore, ma si vuole comunque “dipingere” la superficie di una
statua, lo scultore deve ricorrere alla luce. Non usando la superficie levigata che non crea chiaroscuri, ma
tormentando la superficie in maniera che questa crei pieghe con anfratti e sporgenze. Questa è la grande
intuizione di Fidia: usare la luce per dipingere le statue. Ciò è mirabilmente visibile nel frammento delle tre
dee che provengono dal frontone orientale del Partenone e che ora sono al British Museum di Londra.
Le tre figure vengono normalmente identificate come Hestia, Dione e Afrodite che assistono alla nascita

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ARTE GRECA ELLENISTICA CAPITOLO 3

di Atena dalla testa di Zeus. Le tre figure hanno una pienezza volumetrica che è pienamente controllata
sul piano dell’ armonia della forma; a ciò si aggiunge il grande lavoro sulle vesti che aderiscono alle figure
a modo di “panneggio bagnato”. Il ciclo decorativo prese avvio con le metope della peristasi, nelle quali si
scorge ancora l’influenza dello stile severo, e si concluse con la realizzazione delle statue frontonali, già ispi-
rate allo stile ricco. Le metope erano di forma quasi quadrata, esse avevano per soggetto quattro mitiche
battaglie. Nel lato occidentale era rappresentata una lotta fra amazzoni (amazzonomachia), che con ogni
probabilità alludeva alla guerra contro i persiani. Del lato nord, l’unica metopa leggibile è la 32, che si pensa
raffiguri due dee a colloquio: Atena e Era. Questo lato doveva probabilmente illustrare la guerra di Troia,
sotto lo sguardo e l’assistenza degli dèi. Sul lato orientale una gigantomachia celebrava la vittoria degli
dei sui giganti. Meglio conservate sono le metope del lato meridionale, il tema è una lotta fra centauri e
lapiti, come quella descritta nel Santuario di Zeus a Olimpia. Il lunghissimo fregio ionico all’esterno del naos
abbandona i temi mitologici per rappresentare in chiave realistica la processione delle Panatenee, la più
importante festa civile e religiosa di atene, celebrata in estate in onore della dea protettrice della città.
La processione prende le mosse dall’ angolo occidentale, prosegue parallelamente sui lati nord e sud, per
concludersi sul lato frontale, a est. La scena sul lato occidentale ha un andamento pacato e corrisponde
alle fasi di avvio del corteo; sui lati settentrionale e meridionale si sviluppa invece un gruppo di cavalieri
preceduti da carri e seguiti da anziani, citaredi e flautisti. Sul lato orientale, un po’ meno affollato e convulso,
fanciulle ateniesi, le ergastinai, sotto lo sguardo di eroi e divinità, tra cui Poseidone, Apollo e Artemide.
Il fregio include complessivamente 355 figure, ognuna autonoma e in sé compiuta, eppure perfettamente
integrata nell‘insieme dell’ opera. Squadre di artisti operano sotto la guida di una sola ispirazione e di un
ferreo coordinamento: quelli del maestro Fidia, che ideò il fregio, intervenendo qua e là di persona.
Il fregio rappresenta in effetti la sua più grande e audace innovazione: per la prima volta una decorazione in
stile ionico adorna l’architettura di un tempio dorico. Anche le sculture dei frontoni ci sono giunte in cattivo
stato di conservazione. Il primo ad essere decorato fu il Frontone orientale, sulla facciata, che rappresentava
al centro la nascita di Atena dalla testa di Zeus: evento cui assistono diverse divinità.
Più complesso e dinamico il Frontone occidentale. Vi è rappresentata la lotta fra Atena e Poseidone per il
possesso dell’ Attica, al cospetto di divinità ed eroi e alcune figure allegoriche. Le figure dei due frontoni sono
colossali e dovettero esigere un lavoro enorme da parte di decine di scultori. Tutte queste sculture concor-
revano ad esaltare il capolavoro di Fidia, l’Atena Parthénos, il simulacro criselefantino posto all’interno della
cella della dea. La statua era alta circa dodici metri ed erano stati impiegati per la sua realizzazione circa
mille chili d’oro; le parti nude erano in avorio, gli occhi in pietre preziose. La dea indossava una lunga veste;
adornava l’ elmo una sfinge affiancata da due grifi. Nella mano destra Atena reggeva una nike; nella sinistra,
uno scudo tondo decorato all’esterno da una testa di gorgone e da un’ amazzonomachia, all’interno da una
gigantomachia. Con fattezze di serpente si affacciava dallo scudo Erittonio, l’eroe attico che Atena aveva
accudito alla nascita e che, una volta divenuto re di Atene, aveva promosso il culto della dea.

AGORACRITO - NEMESI DI RAMNUNTE

Scultore di Paro, allievo prediletto di Fidia che, a detta di Plinio il Vecchio, gli permetteva di firmare le sue
opere. Le fonti infatti attribuirono ora a lui ora a Fidia alcune statue, come quelle della Madre degli dèi ad
Atene e della Nemesi a Ramnunte, e proprio quest’ultima, sempre secondo Plinio, sarebbe stata trasformata
da una primitiva scultura di Afrodite. Eseguì statue diAtena e Zeus per il tempio di Atena Itonia a Coronea.
È probabilmente suo lo Zeus di Dresda.Nèmesi (mitologia) in (greco Né-mesis).
Nella religione greca, personificazione mitica e divina dell’espiazione di una colpa. Per il suo carattere nega-
tivo appare come una figlia della Notte. Per la funzione positiva appare come donna desiderata da Zeus,
che si unisce a lei sotto la forma di un cigno. In una versione Nemesi, accoppiatasi a Zeus, genera un uovo,
che poi finisce nelle mani di Leda; da quell’uovo nacquero i Dioscuri ed Elena. Centro del suo culto fu Ram-
nunte nell’Attica. Inizialmente la dea era rappresentata, secondo una tipologia comune anche ad Afrodite,
solennemente stante, con un lungo peplo, come la Demetra della Rotonda Vaticana in cui si è vista una rep-
lica della Nemesi di Ramnunte, opera di Agoracrito (sec. V a. C.). Rilievi votivi e pietre incise di età ellenistico-
romana ne sottolineano invece il carattere di demone e l’arricchiscono di numerosi attributi simbolici (le
ali, la ruota, la bilancia, il grifo, la spada, la frusta). Nel linguaggio storiografico il nome della dea è usato, in
senso figurativo; nell’espressione nemesistorica, a indicare un ipotetico atto di giustizia che ripara e vendica
sui discendenti le colpe storiche commesse dagli antenati.

41
CAPITOLO 3 ARTE GRECA ELLENISTICA

Nemesi, dal nome della dea greca Némesis, ovvero la


giustizia compensatrice, nemesis significa “distribuire”.
Con il termine greco “nemesi” si intende l’evento negativo
che segue un periodo particolarmente fortunato come
atto di giustizia compensatrice distribuito dal fato.
L’idea che soggiace al termine è che il mondo risponda a
una legge di armonia, per cui il bene deve essere
compensato dal male in egual misura.
Nèmesi, in origine era la dea che premiava e castigava
gli uomini per i loro meriti o demeriti; successivamente
venne considerata la divinità della vendetta che persegui-
tava i colpevoli. La dea Nemesi distribuiva il male come
forma di compensazione del bene. Era divinità ed astrazi-
one allo stesso tempo. Personificava la vendetta degli dei
e la punizione per ogni cattiva azione.Veniva onorata nel
santuario di Ramnunte nell’Attica. Zeus era innamorato di
lei, ma Nemesi rifiutava i suoi favori. Per sfuggirgli si tras-
formò in una oca selvatica. A sua volta, Zeus si trasformò
in un cigno e la raggiunse a Ramnunte. Lì Nemesi depose
un uovo, che abbandonò subito. Un pastore lo scoprì e lo
portò a Leda regina di Sparta. La donna lo tenne al caldo
versioni e da quell’uovo nacque la bella Elena. Viene raf-
figurata con caratteristiche simile ad Afrodite ed a Temi.
Come astrazione è citata per la prima volta da Esiodo :
Nemesi (lo sdegno divino), insieme ad Aidos (la vergogna
personale) è l’ultima ad abbandonare la stirpe di ferro
(l’ultima stirpe degli uomini, la più violenta e corrotta) e
la lascia così nel completo dominio del male. Situata in
una piccola pianura a nordest dell’Attica, l’antica Ram-
nunte era un demo della phyle (tribù) ateniese di Aiantis,
prospiciente il golfo dell’Eubea. È uno dei demi meglio
conservati dell’Attica. Si trova a circa 53 km da Atene, e
ad una quindicina da Maratona. Questa città faceva parte del sistema difensivo di Atene, benché fosse situ-
ata a tale distanza: era infatti funzionale a proteggere il territorio controllato da Atene ed i suoi commerci
per il tratto di mare prospiciente, dove transitavano le navi onerarie che portavano grano dall’Eubea ad
Atene. Il suo maggiore sviluppo si colloca tra V e IV sec. a.C. Alla fine del quinto secolo a.C. gli scultori tras-
sero grande ispirazione dall’opera di Fidia, esasperandone però alcuni tratti per esempio il trasparire delle
forme dei corpi femminili sotto vesti drappeggiate e fluttuanti. A caratterizzare il manierismo postfidiaco è
lo stile ricco,di cui Agoracrito, già autore del tempietto di Atena Nike nell’acropoli ateniese,ofre un esempio
nella sua Nèmesi di Ramnunte,oggi in stato frammentario. L’opera, che è una copia romana da un originale
greco risalente al 420-410 a.C., è situata su un piedistallo scolpito con scene e personaggi mitici. La Nemesi
è ornata da un lungo peplo con panneggi. L’opera è caratterizzata da una rigidità. Inoltre il personaggio
è rappresentato in vesti votive: la mano destra protesa in avanti mentre la sinistra pende lungo il fianco. Il
personaggio afferra nella mano destra una sorta di piatto mentre nella sinistra mantiene un ramoscello.

Commento Personale
La diffusa percezione e incertezza che domina questi anni incrina l’adesione ai valori comunitari, e suscitan-
do reazioni di segno opposto: l’acuto e malinconico rimpianto per un passato felice oppure il contestato
abbandono della bellezza ideale a favore dell’espressione di forti passioni. Come sappiamo dalla storia
Agoracrito anche in questa opera è riuscito ad esprimere una grande sensibilità scultorea sebbene le sue
statue siano ancora caratterizzate da una rigidezza che rispecchia la corrente artistica di cui fa parte.

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ARTE GRECA ELLENISTICA CAPITOLO 3

TEMPIO DI APOLLO EPIKOURIOS A BASSAE

Complessivamente il tempio presenta caratteristiche innovative sia sul piano architettonico (mescolamen-
to tra i vari ordini) sia su quello decorativo (decorazioni presenti all’interno del tempio). Le altre innovazioni
o diversità rispetto agli altri tempi sono riscontrabili nella collocazione del tempio che è orientato in posiz-
ione differente dovuto al dislivello del terreno, e nella sua edificazione sopra un colle in una zona lontana
dal centro abitato e quindi molto probabilmente meta di pellegrinaggio in devozione del dio Apollo. Infine
si può dire che l’opera di Ictino, grande architetto della grecia classica, colpisce per le sue caratteristiche,
purtroppo nell’ ultimo periodo in seguito agli agenti atmosferici il tempio sta subendo gravi danni e sono
frequenti, quindi, le restaurazioni.

THOLOS DI EPIDAURO

La funzione principale della tholos di Epidauro si pensava dovesse essere quella di tomba del dio Asclepio
ma attualmente si fanno anche altre supposizioni. Essendo Asclepio considerato dio della guarigione ed es-
sendo realizzata la tholos in suo onore, molti erano i pellegrinaggi da parte dei malati in vista di una futura
guarigione. L’architettura del tempio è in linea con quelle di tutte le altre tholos eccetto per la presenza di
vari ordini di colonne. L’aspetto più significativo del tempio è il sima decorato in maniera molto raffinata.
Nella tholos sono ricorrenti i motivi floreali.

TEMPIO DI ATENA ALEA

Il tempio prima della sua distruzione, avvenuta in seguito ad un incendio, era molto più imponente di
quello attuale che è andato comunque distrutto. La grande innovazione di questo tempio è all’interno della
cella, nella divisone in navate. Infatti il tempio è stato privato della navata centrale (esistente in precedenza)
ed è stata sostituito con un posizionamento delle colonne in maniera del tutto originale.

LA KOINÉ ELLENISTICA

Dopo la guerra del Peloponneso e la conseguente sconfitta di Atene ad opera di Sparta, tutte le polis greche
e tebane caddero in un periodo di declino. Lo stato macedone, ben organizzato e strutturato, dopo la batta-
glia di Cheronea del 338 a.C., riuscì quindi, molto facilmente, a riunire sotto il suo dominio, tutte città greche
grazie a Filippo II.
Le polis della Grecia erano state grandi colonizzatrici, espandendo il loro dominio attraverso la formazione
di nuove città che avevano le stesse caratteristiche della città madre; le conquiste di Filippo II, invece, mira-
vano soprattutto a conquistare nuove città a cui imponevano i caratteri essenziali della città greca, senza
però modificare la loro struttura culturale e statuale. Ne derivavano quindi organismi nuovi e ibridi. Filippo
II voleva capeggiare la rivincita dei greci sui persiani, ma l’assassinio di cui fu vittima nel 336 a.C. pose fine
ai suoi progetti. A ereditarne le sue ispirazioni fu il figlio Alessandro (magno per i posteri). Quest’ultimo fu
protagonista di una strepitosa campagna di conquiste che lo portò, nel giro di pochi anni, a costituire un
impero immenso, che comprendeva, oltre la penisola greca, l’Egitto, la fascia mediorientale della Palestina e
della Fenicia, l’attuale Turchia, la Tracia (attuale Romania) e tutto il vastissimo impero persiano che andava
dall’Armenia fino ai confini con l’India. Aveva praticamente riunito sotto il suo comando uno degli eserciti
più vasti della storia. Si apprestava a completare questo vasto impero con la conquista della penisola araba,
ma improvvisamente morì, a soli 33 anni, nel 323 a.C. L’unitarietà del suo impero non sopravvisse alla sua
morte, e si frantumò in tanti regni (definiti, appunto, ellenistici) poi progressivamente assorbiti dall’impero
romano. Il Progetto di Alessandro Magno di unificare tutto il mondo allora conosciuto (l’ecumene) Fallì
dunque sul piano politico; riuscì però su quello culturale, perché la supremazia dell’arte e della lingua greca
ne fece una sorta di “mondo comune”, una “Koiné”. Il termine Ellenismo è usato per indicare il periodo che
va dall’epoca di Alessandro alla conquista romana dell’Egitto, avvenuta con la battaglia di Azio nel 31 a.C.
Si divide in quattro fasi:

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CAPITOLO 3 ARTE GRECA ELLENISTICA

1. età di Alessandro, o fase di transizione (336-323 a.C.)


2. età dei diadochi, o Alto Ellenismo (323-285 a.C.)
3. età delle Monarchie Ellenistiche, o Pieno Ellenismo (285-146 a.C.)
4. età greco-romana, o Tardo Ellenismo (146-31 a.C.)
Tutti questi sconvolgimenti politici ebbero notevoli ripercussioni sull’arte e la cultura del tempo. Il passag-
gio dalla democrazia alla monarchia di Alessandro,portò i cittadina a dare maggiore interesse alle corti bril-
lanti e fastose dei re, anziché al modello della polis. C’è un abisso fra l’atteggiamento di Policleto, celebra-
tore dei grandi vincitori dei Giochi, e quello di Lisippo, infaticabile modellatore delle teste di un Alessandro
divinizzato. Nelle grandi città a colpire i cittadini non era più lo splendore dei templi, ma le ampie strade
colonnate gli spazi monumentali e le architetture fantasiose. Quindi opere come il Faro di Alessandria e
il Colosso i Rodi furono classificate tra le sette meraviglie del mondo insieme alle Piramidi egizie. Dalle
conquiste di Alessandro, estese dall’Egitto fino all’Indo, risultò un apertura agli scambi senza precedenti,
mentre l’arte ellenistica fecondava l’arte delle regioni più occidentali ed era determinante per la stessa ef-
fige del Buddha. Il cambiamento della mentalità comune portò inoltre alla rappresentazione di scene della
vita quotidiana: le opere che raffiguravano persone immortalate nelle loro attività abituali avevano stessa
dignità dei grandi eroi. Molto importante fu la scoperta dell’individuo e cioè la rappresentazione dello stato
d’animo del personaggio e delle sue emozioni che venivano messe in risalto grazie alla dettagliata ricostru-
zione delle espressioni facciali. L’Ellenismo portò con se, anche l’affermazione di nuovi valori: l’amore per
il paesaggio il gusto per la pittura ma soprattutto il Naturalismo. Infatti viene abbandonata l’idea di una
bellezza perfetta e immortale nel tempo, il corpo dei soggetti raffigurati mostra le sue condizione reali, non
importa quanto siano brutte o tristi. Mentre l’artista classico nel raffigurare i corpi, ricercava l’equilibrio e la
serenità, l’artista ellenistico vuole rappresentare il terrore e la sofferenza descrivendo il dolore sui loro volti.
Per questo opere di scultori come Scopa e Prassitele, che avevano come elemento fondamentale il “pathos”,
trovarono piena espressione in questo periodo. Allo spiccato naturalismo si afferma, in campo artistico, l’uso
del ritratto. I soggetti effigiati sono resi dal vivo, realmente per come sono. Gli artisti, in particolare, vogliono
che i loro ritratti esprimano la complessità interiore, la loro intima essenza. Entrano sulla scena artistica le
figure dei bambini: essi giocano, corrono, solcano le onde a cavallo di un delfino passeggiano e compiono
monellerie; di conseguenza anche gli dei vengono rappresentati sotto forma di fanciulli: per esempio Eros
e Pan perdono l’aspetto adolescenziale e diventano due birichini paffutelli. Si affacciano sulla scena nuove
figure etniche: gli africani non appaiono più idealizzati per il fascino e il lusso delle loro vesti, ma vengono
rappresentati mentre svolgono le loro occupazioni, per lo più servili. Diventano oggetto di raffigurazione
anche gli animali e la natura, dato l’interesse che gli artisti hanno verso a scienza.
Alessandro nel suo progetto avrebbe voluto fondere alcuni aspetti della cultura greca con quelli orientali;
in realtà impose alla seconda la supremazia della prima. Tutto questo andò a discapito della cultura greca
poiché le persone che non la conoscevano, andarono verso una distorta interpretazione dei suoi caratteri.
In questo modo, l’arte inizia a perdere il suo valore sacrale e si crea un distacco tra l’artista e il pubblico: l’arte
figurativa non esprime più le concezioni popolari né parla un linguaggio da tutti comprensibile. Roma,
dopo la vittoria contro Cartagine, avviò l’occupazione militare della Grecia, cui in un primo memento lasciò
un po’ di autonomia per poi assoggettarla amministrativamente.
Sebbene tutti i regni ellenistici cadessero sotto il dominio romano, la loro cultura, grazie ai suoi caratteri
universalistici mantenne il proprio primato. Per questo si può dire che la Grecia era politicamente gover-
nata da Roma che invece rimaneva una “colonia” greca dal punto di vista culturale.
Penso che con l’arte ellenistica abbiamo un netto miglioramento della arte classica, anche se essa ne rap-
presenta la prosecuzione. Prima di tutto perché con la rottura della misura, della proporzione e dell’equilibri,
tutto diventa più spettacolare. In poche parole l’arte non cerca semplicemente la perfezione, ma vuole stu-
pire; non cerca semplicemente il bello, ma lo spettacolare. Per cui se dovessimo trovare degli aggettivi per
descriverla, dovremmo dire che l’arte ellenistica è scenografica ed espressionistica.
Scenografica, in quanto vuole “fare scena”, con opere di grandiose dimensioni. Espressionistica perché
tende ad raffigurare soprattutto i caratteri espressivi delle figure. In pratica l’arte non ha come finalità la
semplice valorizzazione del bello, ma vuole commuovere.

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ARTE GRECA ELLENISTICA CAPITOLO 3

IL DIO DI CAPO ARTEMISIO

Da una nave affondata al Capo Artemisio, nell’isola greca di Eubea, proviene “Il Dio Di Capo Artemiso” (Zeus
o Poseidone Saettante), oggi conservato nel Museo Archeologico Nazionale di Atene. Si tratta di una scul-
tura in bronzo alta circa due metri, di attribuzione incerta, infatti, in passato, si è pensato come unico pos-
sibile autore a Kalamide, scultore attivo tra il 480 e il 450, ma altre fonti attribuivano la scultura ad un ignoto
maestro non lontano dal celebre bronzista Kritios. La scultura apparteneva probabilmente ad un donario
panellenico, eretto presso Capo Artemision dopo la vittoria contro i Persiani, tra il 480 e il 470. I Romani la
trafugarono per trasferirla in patria, ma essa andò perduta in seguito ad un naufragio. La possiamo quindi
datare al V secolo a.C., con maggior precisione al 460.
È infatti questa l’ultima fase dell’arcaismo. Quest’ultimo periodo Arcaico, detto “Stile di transizione o stile
severo”, coincide con un eccezionale fioritura artistica delle colonie greche in Sicilia e nell’Italia meridionale,
ed è in stretto rapporto con l’importanza acquistata da esse nel campo della politica e dell’economia.
Siamo di fronte a un’opera di notevole qualità, anche se forse può apparire dispersiva per l’eccesso di detta-
gli; tuttavia, il coordinamento delle parti del corpo e l’estrema naturalezza con cui è stato reso il movimento
di preparazione al lancio sono ammirevoli.
L’opera rappresenta una divinità, “Zeus o Poseidon”, nell’atto di scagliare qualcosa: “il tridente o la folgore”;
altre fonti, poi smentite, lo dicevano un atleta, cosa inverosimile, infatti nonostante l’apparenza affatto um-
ana, la figura appare caratterizzata da una calma maestosa e invece sovraumana, anche come esemplifica
l’acconciatura dei capelli caratteristicamente divina. Guardando la parte destra della statua vediamo che
l’energico scatto della testa é in contrasto con il prospetto della figura; guardando la parte sinistra vediamo
una piccola ineguaglianza della metà del volto. La parte sinistra é più larga e rivolta verso il prospetto
mentre quella destra si contrae all’indietro. La fronte della statua é appena ondulata sulla radice del naso
e le sopracciglia sfociano anch’esse sulla radice del naso affilato e dal dorso sottile. Negli occhi purtroppo
mancano le pupille e le ciglia. La statua è raffigurata nell’attimo di raccoglimento e di tensione interiore che
precedono lo scatto, che non é improvviso ma meditato: le forze sono infatti bilanciate. Il braccio è colto
probabilmente nell’atto di lanciare il tridente o la folgore e, come la gamba destra, è portato indietro; questi
sono controbilanciati dalla gamba e dal braccio sinistro. Il tema dominante è quello del “pondus”, cioè della
gravitazione della figura su un punto d’appoggio che è anche il punto di partenza del movimento. Nel
gioco di sostegno e bilanciamento visibile nel posizionamento delle gambe, sulle quali si distribuisce asim-
metricamente il peso del corpo, è perfettamente espressa l’idea di un movimento che da lì a un istante si
trasmetterà al torso e poi alle braccia e alla testa. La composizione di questa statua è giocata sul contrasto
tra flessioni e tensioni delle varie parti corporee, così da rendere estremamente naturale e convincente la
postura del dio. Nel sereno distacco del volto si riconosce quella divina assenza di passione cui gli artisti
dello stile severo diedero concreta espressione. L’equilibrio simmetrico dei kouros è superato, ma si nota
una compensazione a distanza del movimento di una gamba con quello del braccio, dell’inclinazione del
busto con quella opposta del capo. L’opera rappresentata é un tuttotondo in bronzo dalla superficie liscia. È
collocata rispetto all’osservatore per essere vista da più punti. La scultura é composta da linee direttrici es-
senziali: lo slancio del corpo ad andamento verticale, ma obliquo nella parte delle gambe; quello delle brac-
cia ad andamento orizzontale. La scultura é caratterizzata da forme che la rendono inscrivibile all’interno
di un quadrato. Nell’opera gli effetti luministici sono sostanzialmente uniformi ma chiaroscurali evidenziati
nelle parti anatomiche e specialmente nei capelli e nel volto del dio. Va detto che questa tecnica di lavoro
è molto più sbrigativa della scultura su marmo. Anche per questo il marmista rispetto al bronzista veniva
considerato in maniera migliore. Si procedeva in tal modo: si dava forma all’anatomia e ai muscoli con legna
e paglia, terminata questa base si procedeva modellando interamente il corpo con la cera (tranne i capelli,
gli occhi e la bocca che venivano lasciati cavi per essere ben definiti successivamente). Si metteva poi il
risultato di queste operazioni in una buca nel terreno (perché assorbe il calore). Tale buca veniva riempita di
gesso. Il calco è così pronto. Si potrà allora versare, attraverso delle cannucce di cera, il bronzo al suo interno;
in tal maniera il bronzo prenderà il posto della cera sul corpo, e la statua rimarrà cava. Si operano succes-
sivamente le rifiniture ai capelli ed al resto del corpo. Si applicano denti d’argento, occhi di vetro e labbra
di rame. Avremo così le zone convesse più esposte alla luce, ottenendo un ottimo risultato chiaroscurale,
esaltato anche dalla doratura.
L’artista costruisce dunque una forma partendo dall’interno verso l’esterno: procedimento contrario
dell’idea insita nella scultura che prevede che da un blocco di marmo si tolga il materiale in eccesso per
arrivare al risultato.

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CAPITOLO 3 ARTE GRECA ELLENISTICA

L’AURIGA DI DELFI
Descrizione dell’opera

La statua, ritrovata nel santuario di


Apollo, è a dimensione naturale (1.80
cm) e ben conservata anche se le
manca il braccio sinistro, anticamente
era collocata, affiancata da due scud-
ieri, su un carro trainato da 4 cavalli.
Sia di una delle figure (l’altra è andata
perduta) che del carro se ne conser-
vano solo pochi frammenti tra cui le
ruote, le zampe dei cavalli e le loro
teste. L’espressione del volto è ferma
e concentrata, l’intensità penetrante
dello sguardo sembra puntare lontano
verso qualcosa da raggiungere men-
tre l’espressione serena, che sembra
seguire la tensione della gara, idealizza
il vincitore rappresentandolo come un
eroe.. Sulle labbra è stato aggiunto del
rame in modo da conferire alla figura
un aspetto naturalistico (spesso il rame
veniva inserito anche nei capezzoli e
nelle areole dei seni). Le ciglia sono realizzate con una sottile lamina di rame aggiunta ad incorniciare gli oc-
chi in pietra dura e pasta vitrea che costituiscono gli espedienti tecnici in grado di enfatizzare l’espressività
del volto. I capelli sono finemente disegnati tanto che non alterano il volume della testa mentre la fascia
tergisudore che li trattiene è intarsiata d’argento e decorata con la tecnica del meandro (il termine veniva
utilizzato anticamente in Asia Minore per indicare il fiume) ovvero caratterizzata da incisioni o disegni rip-
etuti. I particolari venivano rifiniti con uno scalpello dalla lama molto sottile, chiamato Bulino, solo dopo la
fusione della statua, in modo da ottenere una maggior precisione nei dettagli più piccoli. La veste (chitone)
che copre quasi completamente il corpo tranne le braccia, nella parte superiore è tenuta aderente al petto
tramite sottili bretelle, è stretta in vita da una cintura formando ampi rimbocchi, mentre nella parte inferiore
appare geometrizzata grazie alle pieghe che ricordano le scanalature di una colonna dorica e ad un gioco
di luci ed ombre in concomitanza con sporgenze e rientranze.
L’apparente immobilità del personaggio e la posizione frontale sono rotte dalla leggera torsione del corpo
che dalla posizione obliqua dei piedi risale sino al busto lievemente volto a destra (verso il pubblico fes-
tante); la netta piega dei gomiti lascia avanzare gli avambracci con le redini in mano. I piedi nudi che espri-
mono una grande vitalità che si cerca di trattenere, denotano uno straordinario realismo dato dai tendini
e le vene in evidenza per lo sforzo appena compiuto. L’Auriga è posta idealmente al centro dello spazio
come in un “luogo geometrico”e da alcuni è paragonata alla statua di Atena posta sul frontone del tempio
di Aphaia Egina definendola come una figura poco dinamica.
Nel caso dell’Auriga non è realmente così perché anche se il lungo chitone rende il corpo una sola massa
cilindrica, le sue fitte pieghe (visibili soprattutto nella parte inferiore) creano striature luminose che, parten-
do dalle ombre tra i solchi della veste, si irradiano in tutte le direzioni conferendo dinamismo alla figura.
La statua come lo Zeus di Capo Artemision è da considerarsi appartenente allo Stile Severo, sviluppatosi in
Grecia tra il 480 e il 450 a. C.
Questo stile si caratterizza per la scomparsa delle stilizzazioni e delle convenzioni tipiche dell’età arcaica
a favore dell’affermazione dello spazio e la tridimensionalità dei volumi. Le statue inoltre abbandonano
l’espressione sorridente assumendo un atteggiamento serio e concentrato. Al Museo Tattile Omero (An-
cona) è possibile vedere e anche toccare una copia in gesso dell’Auriga e di tante altre opere.

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ARTE GRECA ELLENISTICA CAPITOLO 3

AFRODITE SOSANDRA

L’Afrodite Sosandra (“che salva gli uomini”) è una


scultura realizzata dallo scultore greco Calamide
nel quarto decennio del V secolo a. C.
Per la scultura greca è davvero una novità rispetto
alle korai del periodo arcaico: si tratta di uno dei
maggiori esempi dello stile severo.
La statua, in marmo greco, quasi intatta a parte
qualche scheggiatura nel volto e nelle pieghe
del manto, è una copia di età romana di un tipo
statuario del periodo noto. La figura è interamente
coperta da un pesante mantello che ne lascia in-
dovinare la postura: la dea è stante, il ginocchio de-
stro emerge lievemente al di sotto dell’indumento
che l’avvolge, mentre lunghe pieghe segnano il
protendersi del braccio sinistro; anche il capo è
coperto da un velo, ad incorniciare e valorizzare
l’equilibrata bellezza del volto, il cui ovale sporge
nitido e levigato inquadrato dalle due bande sim-
metriche della capigliatura sulla fronte. Tuttavia un
esame attento dell’opera rivela il suo stato di incom-
piutezza: ad eccezione dei capelli, della fronte e di
parte degli occhi la superficie marmorea si mostra
completamente ruvida lavorata di solo scalpello: è
mancata la successiva politura. Per qualche motivo
il copista interruppe la lavorazione, forse preoccu-
pato da qualche difetto del blocco di marmo che
avrebbe potuto minacciare l’integrità della statua.
Questa doveva provenire da un’officina scultorea
presente a Baia, specializzata nella riproduzione di
opere classiche.
Numerosi frammenti di calchi in gesso, trovati in
ambienti poco distanti da quelli dove fu rinvenuta
la Sosandra, confermano infatti la presenza di un
atelier di scultori al servizio del Palatium baiano.
L’originale bronzeo di stile severo, opera dello scul-
tore Kalamis, dedicato nel 465 a. C. sull’Acropoli di
Atene alla Dea, era molto ammirato nell’antichità.
L’eco della sua fama ci giunge attraverso le parole
di Luciano, che ne ricorda il sorriso puro e profondo,
da intendersi come un riflesso dell’atteggiamento
interiore della dea piuttosto che come un reale
schiudersi delle labbra, nonché dal gran numero
di copie conosciute, fra le quali solo questa di Baia ed un’altra hanno conservato la testa originale: il tipo
infatti venne diffusamente utilizzato per le statue-ritratto delle dame romane.

Commento personale
L’idea che ebbe l’artista per questa statua è davvero eccezionale: un’Afrodite, dea della bellezza, che cela
le sue grazie sotto abiti castigati. Si supera qui decisamente il clima artistico e culturale arcaico: è evidente
una ricerca psicologica, la volontà di esprimere sentimenti e concetti - in questo caso una grazia serena e
austera - per cenni misurati e allusivi. Nello stesso tempo, questa figura di Afrodite sembra incarnare un
nuovo ideale di bellezza, meno raffinato e più “severo”, appunto, di quello ionico.

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CAPITOLO 3 ARTE GRECA ELLENISTICA

EFEBO

Nelle bottega di Crizio e Nesiote venne realizzato intorno al 480 a. C. un Efebo che era
detto, nella Grecia antica, il giovane che apparteneva alla classe di età detta “efebìa” cioè
la condizione legale dei giovani al primo gradino dell’arruolamento di leva (le odierne
“reclute”), che si esercitavano sotto il controllo dello stato. L’efebia era quindi il primo
gradino per l’età adulta e sanciva l’uscita dall’infanzia. In questa statua si osserva non
solo il primo esempio di stile severo in Attica, ma anche una delle estreme evoluzioni del
kouros arcaico. Si tratta di una statua probabilmente votiva: il giovane era raffigurato in
atto di protendere il braccio destro con l’offerta, mentre il sinistro cadeva lungo il fianco.
In quest’opera colpisce la soluzione adottata dai due artisti riguardo alla ponderazione
della statua, che poggia tutta sulla gamba sinistra mentre la destra appare ripiegata e
liberata da qualunque funzione di sostegno. In questo modo, l’efebo assume una posa
meno rigida e più naturale, grazie anche alla realistica inclinazione del bacino e al leg-
gero movimento del capo, rivolto verso destra.

BRONZI DI RIACE

I Bronzi di Riace sono una coppia di statue


bronzee di provenienza greca, tra le pochissime
oggi esistenti, risalenti al V secolo a. C.
Furono rinvenute nei pressi di Riace in provincia
di Reggio Calabria nel 1972. I Bronzi di Riace si
trovano al Museo Nazionale della Magna Grecia
di Reggio Calabria e nel corso degli anni sono di-
ventati uno dei simboli della città.

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ARTE GRECA ELLENISTICA CAPITOLO 3

ANALISI DELLE STATUE

Lo studio dei materiali e della tecnica di fusione rivela la sostanziale differenza tra le due statue.
Vanno infatti attribuite a due artisti differenti e a due distinte epoche. In base ai confronti stilistici, il Bronzo
A risale al 460 a.C., in periodo severo; mentre il Bronzo B al 430 a. C., in periodo classico. I Bronzi di Riace
presentano una notevole elasticità muscolare essendo raffigurati nella posizione definita a chiasmo. In par-
ticolare il Bronzo A appare più nervoso e vitale, il Bronzo B sembra invece più calmo e rilassato. Le statue
trasmettono una notevole sensazione di potenza, dovuta soprattutto allo scatto delle braccia che si distan-
ziano con vigore dal corpo. Il braccio piegato sicuramente sorreggeva uno scudo, l’altra mano certamente
impugnava un’arma. Il Bronzo B ha la testa modellata in modo strano, apparendo piccola, perché consen-
tiva la collocazione di un elmo in stile corinzio.

RITROVAMENTO E RESTAURO

Il 16 agosto 1972 Stefano Mariottini, giovane sub romano, si immerge nel Mare Jonio, a 300 metri dalle
coste di Riace in provincia di Reggio Calabria e ritrova casualmente ad 8 metri di profondità due statue di
guerrieri greci. Diventeranno famose in tutto il mondo come i Bronzi di Riace. Nella circostanza, l’attenzione
del subacqueo fu attratta dal braccio sinistro di quella che poi sarebbe stata denominata “Statua B”, unica
parte delle due statue che emergeva dalla sabbia del fondo del mare. Per recuperare le due statue, i Cara-
binieri del nucleo sommozzatori, utilizzarono un grosso pallone di plastica che fu gonfiato con l’ossigeno
contenuto nelle bombole da sub. Così il 20 agosto fu recuperata la “Statua B”, mentre il giorno successivo
toccò alla “Statua A”, che ricadde al fondo una volta prima d’essere portata al sicuro sulla spiaggia. Durante
i primi interventi di pulitura dalle concrezioni marine, eseguite dai restauratori del Museo Nazionale della
Magna Grecia di Reggio Calabria, apparve evidente la straordinaria fattura delle due statue. Fu confermata
infatti la prima ipotesi secondo la quale i bronzi dovevano essere autentici esemplari dell’arte di cultura
greca del V secolo a.C. venuti ad affiancare quindi le pochissime statue in bronzo che sono giunte fino ai
noi complete, come ad esempio quelle conservate in Grecia: l’”Auriga” del Museo di Delfi e il “Poseidon” di
Capo Artemisio, del Museo Archeologico di Atene. A Reggio l’equipe di tecnici lavorò alla pulitura delle due
statue fino al gennaio 1975, quando la Soprintendenza reggina ebbe la certezza che sarebbe stato impos-
sibile eseguire un completo e valido restauro delle statue utilizzando solo i limitati strumenti che erano a
disposizione del proprio laboratorio. Fu allora che si decise di trasferire le due statue al moderno Centro di
Restauro della Soprintendenza della Toscana, presso l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze-Rifredi, costruito
dopo l’alluvione del 1966. Oltre alla pulizia totale delle superfici con strumenti spesso progettati apposita-
mente, a Firenze le statue furono sottoposte ad analisi radiografiche, necessarie per conoscerne la struttura
interna, lo stato di conservazione e lo spessore del metallo. Le indagini portarono ad un primo esito sor-
prendente: il braccio destro della “Statua B” e l’avambraccio sinistro su cui era saldato lo scudo risultarono
di una fusione diversa dal resto della statua. Furono saldati in epoca successiva alla fusione di tutta la statua
in sostituzione delle braccia originali, o per ovviare ad un danneggiamento sopravvenuto quando la statua
era già in esposizione; o ancora per modificare la posizione delle braccia allo scopo d’adattare la statua ad
un’utilizzo diverso da quello iniziale. Durante la meticolosa pulizia si scoprirono alcuni particolari per i quali
era stato usato materiale differente dal bronzo: argento per i denti della “Statua A” e per le ciglia d’entrambe
le statue; avorio e calcare per le cornee degli occhi; rame per le labbra e le areole dei capezzoli di tutte e due
le statue. Le operazioni di restauro che durarono cinque anni fino al 1980, si conclusero con l’esposizione
dei due Bronzi al Museo Archeologico di Firenze come pubblico omaggio all’impegno tecnico e al lavoro
compiuto dagli addetti al Centro di Restauro fiorentino.
Fu proprio quest’esposizione del 15 dicembre 1980 che ponendo per sei mesi le due statue sul grande
palcoscenico del turismo fiorentino fece da primo detonatore per il non più tramontato clamoroso entusi-
asmo, nazionale ed internazionale, per i due Bronzi trovati a Riace. Poi furono esposte a Roma, riscuotendo
nuovamente un grande successo. Pur essendo stato fatto un trattamento conservativo durante il restauro
fiorentino, nei primi ‘90 del secolo scorso sono comparsi numerosi fenomeni di degrado che hanno con-
sigliato lo svuotamento totale del materiale anticamente servito per modellare le figure e parzialmente
lasciato dai restauratori fiorentini all’interno delle due statue. Terminata la pulizia interna nel 1995, dopo
aver subito un trattamento anticorrosione i due Bronzi sono stati nuovamente collocati nella grande sala,
tenuta a clima controllato con l’umidità al 40-50% e la temperatura a 21-23 gradi.

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CAPITOLO 3 ARTE GRECA ELLENISTICA

STUDI SULLA PROVENIENZA E SUGLI ARTEFICI SECONDO IL PROF. MORENO

Il Bronzo A (il giovane) potrebbe raffigurare Tideo, un feroce eroe dell’Etolia, figlio del dio Ares e protetto
dalla dea Atena. Il Bronzo B (il vecchio) sarebbe invece Anfiarao, il profeta guerriero che profetizzò la propria
morte sotto le mura di Tebe.
Tutti e due infatti parteciparono alla mitica spedizione della città di Argo contro quella di Tebe che, come lo
stesso Anfiarao aveva previsto, ebbe conclusione disastrosa.

IDENTIFICAZIONE DEGLI ARTISTI

Prima del restauro eseguito a Firenze, i Bronzi erano pieni della cosiddetta terra di fusione.
Analizzando la terra estratta dai fori nei piedi, si scoprì che quella presente nel Bronzo B proveniva dall’Atene
del V secolo a. C., mentre quella presente nel Bronzo A dalla pianura dell’antica città di Argo risalente allo
stesso periodo. Dallo stesso studio si evince che le statue furono fabbricate con la fusione diretta, un meto-
do poco usato che non consentiva errori quando si versava il bronzo fuso perché dopo, il modello originale
andava per sempre perduto. Dunque la provenienza della terra e l’analisi della tecnica usata inducono a
pensare che: l’autore del Bronzo A (Tideo, il giovane) sia Agelada, uno scultore di Argo che, lavorava presso
il santuario di Delfi verso la metà del V secolo a.C..
Questa tesi viene avvalorata dal fatto che Tideo assomiglia parecchio alle decorazioni presenti nel tempio
di Zeus a Olimpia. L’ipotesi dell’archeologo greco Geòrghios Dontàs riguardo al Bronzo B (Anfiarao, il vec-
chio) viene confermata dai risultati delle analisi, quindi a scolpirlo fu Alcamene, originario di Lemno, on-
orato di cittadinanza ateniese per la sua bravura artistica.

ESAME DEI DOCUMENTI STORICI

Non meno importante è lo studio dei documenti storici di Pausania, che scrisse una sorta di guida turistica
della Grecia tra il 160 e il 177. Pausania descrive un monumento ai Sette contro Tebe nell’agorà di Argo, gli
eroi che fallirono l’impresa, e gli Epigoni (i loro figli) che affrontarono nuovamente l’impresa con successo.
Il monumento ad Argo comprendeva una quindicina di statue, delle quali facevano parte i due Bronzi di
Riace, adornate di di lance, elmi, spade e scudi (lo si evince sia dalla posizione delle braccia che dal ritrova-
mento successivo del bracciale di uno scudo in bronzo, sugli stessi fondali di Riace).

Commento personale
Una normale immersione subacquea compiuta da un sub professionista nelle acque di Riace così come ce
ne sono a centinaia nelle stesse acque ogni anno, ha dato inizio a una lunga storia di questa eccezionale
scoperta archeologica. Il mare di Riace restituisce alla terra e alla storia due capolavori in bronzo che balzer-
anno subito agli onori della cronaca come una delle scoperte più importanti del secolo.

L’ARTE RODIA: LA SCULTURA

In un primo periodo la scultura sviluppa sostanzialmente le tendenze del tardo classicismo di Scopa e di
Prassitele, ma è la personalità di Lisippo a dominare il IV secolo a.C.. In Asia Minore e ad Alessandria si dif-
ferenziano alcune scuole, accomunate da un sapiente naturalismo, da un pathos talvolta drammatico ed
esasperato e dall’approfondimento psicologico.
L’eclettica scuola rodia (Nike di Samotracia, Helios di Rodi, Afrodite di Milo, muse di Philiskos nel rilievo di
Arkelaos di Priene) si distingue per un trattamento talvolta virtuosistico delle superfici e dei panneggi, e per
l’elaborazione patetismo di maniera, volto al coinvolgimento emotivo.

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ARTE GRECA ELLENISTICA CAPITOLO 3

GRUPPO DEL TORO FARNESE

Il gruppo scultoreo, definito “la mon-


tagna di marmo” perché ricavato da un
unico blocco ed in considerazione delle
sue grandi dimensioni, rappresenta il
supplizio di Dirce, legata ad un toro in-
ferocito da Anfione e Zeto come puniz-
ione per le angherie ripetutamente in-
flitte alla loro madre, Antiope. La donna,
gravida, viene riportata a Tebe dallo zio
Lico e dalla moglie di lui, Dirce, dopo
una serie di peripezie. Durante il viaggio
nascono due gemelli, Anfione e Zeto,
ma la madre viene costretta ad abban-
donarli sul monte Citerone: i neonati
saranno raccolti e allevati da un pas-
tore. Da quel momento Antiope viene
tenuta prigioniera da Lico e da Dirce
che, gelosa della fanciulla, incomincia
subito a perseguitarla, sottoponendola
a immani sofferenze e arrivando a farla
murare viva. Fuggita fortunosamente
dalla sua prigione, Antiope giunge nella
capanna dove vivevano i figli: chiede
ospitalità, ma le viene negata. È qui che,
in occasione di una festa dionisiaca, la scopre Dirce, seguace del dio. La regina ordina ad Anfione e Zeto di
uccidere Antiope legandola ad un toro, e solo l’improvviso arrivo del pastore permette di riconoscere ai
gemelli nella donna la loro vera madre. I due giovani allora decidono di infliggere a Dirce lo stesso terribile
supplizio che questa aveva progettato per Antiope, legandola per i capelli alle corna del toro che ne fa
rapidamente scempio. Il gruppo statuario rappresenta il momento in cui Dirce viene legata al toro selvag-
gio che successivamente scapperà via calpestandola. A sinistra Zeto doma con la corda avvolta alle corna il
toro, costringendolo ad impennarsi, ed annoda con un gesto brutale della mano sinistra la corda ai capelli
di Dirce. A destra Anfione, caratterizzato dalla lira appoggiata ad un albero, è impegnato nella guida e nel
controllo dell’animale imbestialito, mentre Dirce, che indossa una pelle di capra sopra la veste, gli si rivolge
supplice. Antiope, assiste ritta nell’angolo posteriore destro della base. In basso a destra è seduta una pic-
cola figura giovanile con una corona di pini ed una ghirlanda di edera, interpretabile come una rappresen-
tazione di genere allusiva della intatta natura bucolica dello scenario. La parte posteriore del basamento
roccioso è circondata da un fregio di animali. Sul lato anteriore è visibile un cane ritto sulle zampe.

Commento personale
In quest’opera vengono portati al massimo della perfezione elementi come il pathos delle figure, il virtuo-
sismo e la vivida resa anatomica dei corpi, che attraverso giochi di tensione muscolare porta al massimo
livello la drammaticità dell’intera opera. L’ opera diventa teatro di una tragedia, nella quale e facilmente
riscontrabile la sofferenza, espressa dal volto disperato di Dirce, la determinazione dei volti dei due fratelli e
la spensieratezza, e allo stesso tempo la voglia di partecipare, che ci trasmettono le espressioni assunte dal
cagnolino e dal pastorello.

51
CAPITOLO 3 ARTE GRECA ELLENISTICA

GRUPPO DEL LAOCOONTE

Questa è un’opera sublimata dai versi di


Virgilio nel II libro dell’”Eneide”. I versi di Vir-
gilio che ripetono “la gran caterva e gran
furia” di quel sacerdote troiano di Apollo,
Laocoonte, che aveva previsto l’inganno
del “Cavallo”, contro di lui aveva vibrato
una lancia, aveva cercato di far aprire gli
occhi agli abitanti e che aveva pagato con
la vita sua e dei due figli l’essere andato
contro il volere degli dei che avevano de-
ciso la caduta di Troia. E l’aveva pagata in
un modo orribile: stritolato e avvelenato
a morsi sui gradini dell’altare su cui stava
sacrificando, da due serpenti usciti su co-
mando dal mare contro i quali si batte e
dibatte mentre vede il figlio più piccolo
già preda della morte. “Egli si sforza di scio-
gliere con le mani i nodi” “e insieme alza al
cielo orribili grida”. Plinio il Vecchio, dopo
aver fatto il massimo elogio del “Laocoonte”
non poteva dimenticarsi degli autori: sono
tre scultori di Rodi. Il gruppo viene datato
al I secolo avanti Cristo fra gli anni 40-20 e
come stile al “ barocco pergameno”. L’opera
rappresenta il sacerdote Laocoonte e i due
figli stritolati a morte dai serpenti. Egli si presenta in movimento, con le braccia che cercano di svincolarsi
dalle serpi, e con il capo leggermente inclinato all’indietro. Le figure dei due figli presentano alcune incon-
gruenze con la descrizione di Virgilio, in quanto quest’ ultimo scrive che i figli erano molto giovani, mentre
nell’opera sono ritratti in età quasi adulta. Nel 1506 la sua spettacolare scoperta in una vigna di Roma
produsse un’impressione travolgente, soprattutto su Michelangelo, che corse immediatamente a vederla.
La sua influenza liberatoria nella rappresentazione delle emozioni continuò a essere importante per la scul-
tura barocca, e sino al XIX secolo fu ritenuta (insieme all’ Apollo del Belvedere e al Torso del Belvedere) come
una delle più splendide opere dell’antichità.

Commento personale
Quest’opera è, senza dubbio, espressione dell’avanzato livello che aveva raggiunto l’arte ellenistica.
Il particolare che più colpisce sta nel volto del sacerdote, il quale esprime tutta la sua sofferenza e la sua
incapacità di reagire. Inoltre, è del tutto azzeccato il contrasto tra il corpo esanime del giovane a sinistra,
sopraffatto dalla forza brutale del serpente, e quello del ragazzo a destra, ancora disperato nella lotta per
svincolarsi dalla bestia.

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ARTE GRECA ELLENISTICA CAPITOLO 3

ACCECAMENTO DI POLIFEMO

Dagli stessi autori del Laocoonte, sopravvive un copia romana dell’opera “Accecamento di Polifemo”.
Questo è uno dei quattro colossali gruppi scultorei, narranti vicende dell’Odissea, situati in una grotta, nei
dintorni di una villa situata presso Sperlonga, una cittadina a un centinaio di chilometri a sud di Roma. La
scena raffigura il momento in cui Ulisse e i suoi compagni si appre-stano ad infilzare l’occhio del gigante
con un tronco appuntito. Polifemo dorme pesantemente su una sporgenza rocciosa, dopo che Ulisse con
l’inganno lo fece cedere ai fumi del vino.
Dell’opera colpisce il contrasto tra il corpo accasciato del ciclope e i corpi tesi di Ulisse e i com-pagni, che
sono consapevoli del pericolo in caso di fallimento.
È interessante notare come il livello di drammaticità e di espressione dell’opera eguaglia i livelli raggiunti
nel Laocoonte.

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CAPITOLO 4

LA PITTURA GRECA

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CAPITOLO 4 LA PITTURA GRECA

La pittura del quinto e quarto secolo non sopravvive alcun originale; dalle antiche fonti letterarie e dai
pallidi riflessi iconografici delle figurazioni dipinte sui vasi o sulle urne, sappiamo che essa attuò una decisa
evoluzione in direzione del realismo.
La funzione sociale del pittore non era, in epoca classica, meno importante di quella dello scultore: grandi
quadri con figurazioni mitologiche ornavano l’interno dei pubblici edifici o venivano riuniti ed esposti in
speciali pinacoteche.
Diversi pittori furono attivi in questo periodo: Polignoto, Micone, Apollodoro, Parrasio, Zeusi.
Il più antico dei grandi pittori menzionati dagli scrittori è POLIGNOTO DI TASO, attivo alla metà del V secolo:
di lui si dice che fu un eccellente ethographos (abile nell’esprimere gli stati d’animo) usando solo quattro
colori:nero, bianco, rosso, giallo con grande varietà di sfumature.
La pittura inizia a fare capolino già nel IV secolo, quando si cominciano ad ornare alcuni ambienti dei palazzi
e delle case signorili con figurazioni a mosaico: si tratta di versioni artigianali, in una tecnica stabile e capace
di produrre vivaci effetti coloristici, di figurazioni pittoriche.
L’opera dei pittori e degli scultori era per lo più destinata a una funzione celebrativa ed educativa, come
decorazione di templi e di pubblici edifici.
I paralleli sviluppi della grande pittura e della pittura vascolare si interrompono quando la pittura si volge a
ricerche di rappresentazione plastica di spazio e di movimento.

LA TOMBA DEL TUFFATORE

Tra i pezzi di inestimabile


valore storico e artistico
conservati nel museo di
Paestum ci sono le lastre
dipinte della cosiddetta
Tomba del Tuffatore, es-
empio di pittura di età
greca della Magna Gre-
cia.
Questo tipo di tombe di-
viene comune a partire
dal IV secolo a.C., quan-
do la città si trova sotto
il dominio lucano. A
questa epoca risale la ric-
chissima raccolta di pit-
ture funerarie, si tratta di
lastre affrescate: le più antiche sono decorate solo nella parte centrale, con fasce, corone, bende o rami; in
seguito si afferma l’uso di vere e proprie scene figurate per le tombe maschili, prevalentemente guerrieri
a cavallo, e di elementi decorativi per quelle femminili. La tomba del tuffatore costituisce un importante
esempio di stile severo.
In essa i lati più lunghi raffigurano un convivio in cui compaiono dieci personaggi maschili sdraiati.
Simili scene di banchetto sono spesso presenti nella ceramica attica del V secolo, e più raramente anche in
ceramiche ioniche e microasiatiche, ma sono state rese celebri sopratutto dalle pitture funerarie etrusche.
Tuttavia la pittura più famosa resta quella che orna la lastra di copertura con la figura di un giovane nudo,
colto a mezz’aria che si tuffa nelle acque di un fiume da una rudimentale piattaforma, ottenuta con bloc-
chi cubici sovrapposti. Si è ipotizzato che questo tuffo possa rappresentare metaforicamente il passaggio
dalla vita alla morte. Al momento del ritrovamento della tomba (1968) si è parlato di “scoperta della grande
pittura greca”. In realtà, più probabilmente, ci troviamo di fronte al prodotto di una colonia greca in Italia,
come possono testimoniare i confronti con la ceramica campana della stessa epoca. Sicuramente però la
conoscenza di pitture così antiche (si stimano eseguite attorno al 480 a.C.) ha offerto un contributo fonda-
mentale alla conoscenza della pittura greca di quel periodo, a noi praticamente ignota se non attraverso la
pittura vascolare.

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LA PITTURA GRECA CAPITOLO 4

Commento personale
La celeberrima tomba del Tuffatore, le cui
lastre affrescate scaturiscono dall’età in
cui il mondo era ancora fanciullo, secon-
do me è un’opera eccezionale.
Vibra di commozione il mio sguardo,
seguendo il tuffo in verticale, perfetta
sospensione sul nulla, e la grande scena
del banchetto dove, dopo 2500 anni, la
passione ancora freme sotto la pelle.
Mi piace, forse perché sono anch’io una
nuotatrice e mi immedesimo nel pro-
tagonista dell’opera: le emozioni che si
provano durante un tuffo dal trampolino
sono indescrivibili, insieme alla grinta e
alla speranza di vincere.
È a dir poco stupendo! Mi sarebbe piaciu-
to conoscere il tuffatore, magari mi avreb-
be insegnato qualche trucco nel nuotare
meglio.

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CAPITOLO 5

LA PITTURA VASCOLARE

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CAPITOLO 5 LA PITTURA VASCOLARE

Sappiamo dagli antichi autori che la pittura fu molto diffusa in Grecia, al pari delle altre.
Tuttavia nessuna opera è giunta sino a noi, poiché i Greci, al contrario degli Egizi, che affrescavano le tom-
be, usavano dipingere i templi, le statue e le abitazioni esposte all’azione corrosiva dell’aria e degli agenti
atmosferici.
Conosciamo soltanto i nomi di alcuni dei pit-
tori più noti, come Polignoto, Zeusi, Parrasio e
Apelle.
Perdute le opere murali, possiamo dire che
l’unico esempio di pittura greca che ci rimane
è quello delle figure dipinte sui vasi di cerami-
ca. Nell’antica Grecia le officine di ceramica fu-
rono numerose ed attivissime per molti secoli,
addirittura dal X al V secolo a.C.
La produzione “industriale” di vasi dipinti fu
molto vasta, e molti sono i reperti giunti fino
a noi.
Si è soliti distinguere la storia della ceramica
secondo diversi stili:
1) stile geometrico, il più antico, caratterizza-
to da vasi decorati con forme geometriche,
come nei vasi cosiddetti di “Dipylon”;
2) stile orientaleggiante, soggetto all’influen-
za orientale, rappresentato da figure di animali reali o fantastici oppure motivi vegetali;
3) stile a figure nere, caratterizzato da figure dipinte con una speciale vernice nera lucida su un fondo aran-
cione, colore tipico dell’argilla, dopo aver subito la cottura. Di solito le scene riprodotte si riferivano a impre-
se eroiche e mitologiche, descritte in modo molto realistico e minuzioso;
4) stile a figure rosse, rispetto al periodo precedente, i colori usati per le figure e per lo sfondo vengono
invertiti, la vernice nera, infatti, ricopre tutto il vaso, lasciando libere le figure che hanno il colore dell’argilla
cotta rossa.
In questo periodo gli artisti mettono maggior attenzione nel descrivere più realisticamente le figure, ren-
dendole con una maggiore plasticità, e anche con la scelta di soggetti legati alla vita quotidiana e non più
solo ai temi mitologici tradizionali.
Capolavoro di quest’ultima epoca (530-470 a.C.)
è il kylix attica con Achille e Pentesilea del Pit-
tore di Pentesilea. La decorazione interna della
kylix mostra la lotta fra l’eroe greco Achille e la
regina delle Amazzoni Pentesilea, a fianco dei
quali stanno un soldato greco e un’Amazzone stesa
al suolo. Il mito narra che, al momento di uccidere la
regina, Achille se ne innamorò perdutamente. L’eroe
affonda la spada nel petto della regina, che solleva un
braccio in segno di supplica, e l’incrocio di sguardi
esprime con tragica e dolorosa intensità il dramma
di un estremo e vano innamoramento.
Achille è mostrato in tutta la sua prestanza fisica di
giovane guerriero, mentre Pentesilea è vestita di una
semplice tunica e ha le sembianze di una giovane fan-
ciulla. La maniera di Polignoto influenza anche il pittore
dei Niobidi, che prende il nome da un cratere a figure
rosse, raffigurante, su uno dei suoi lati, Eracle e Atena circon-
dati da guerrieri a riposo e, sull’altro, la Strage dei Niobidi a
opera di Apollo e Artemide.
Secondo il mito, le due divinità vollero punire la presunzi-
one della mortale Niobe, che aveva dichiarato di sentirsi
superiore alla loro madre Latona per aver generato un nu-

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LA PITTURA VASCOLARE CAPITOLO 5

mero maggiore di figli.


La scena con l’uccisione punitiva dei figli di Niobe è affollata di
personaggi: Artemide sta prendendo una freccia dalla faretra
mentre Apollo scaglia la propria contro i Niobidi, di questi, alcuni
giacciono a terra trafitti, altri invece cercano di fuggire. Qui i per-
sonaggi appaiono disposti a varia altezza, così da conferire un
senso di profondità alla scena.
È questa un’innovazione tecnica di straordinaria rilevanza, in
quanto si tratta della prima rappre-sentazione pittorica della tri-
dimensionalità.
Verso la metà del VI secolo a. C. uno dei centri più fiorenti di pro-
duzione ceramica si trova in Apulia (Puglia). Due dei maggiori ar-
tisti - il Pittore di Licurgo e il Pittore di Dario - dipingono grandi
vasi con scene prevalentemente di guerra e di morte. Importante
è il vaso dei Persiani del Pittore di Dario.
Il vaso presenta una decorazione con scene di battaglia a piedi e
a cavallo sulla spalla, mentre sulla pancia si dispiega un’elaborata
scena in cui Dario compare seduto in trono intento a ascoltare un
personaggio stante con un braccio sollevato al centro della com-
posizione. Nella parte superiore della pittura compaiono alcune
divinità e, nella fascia inferiore, un altro episodio forse interpreta-
bile come la riscossione dei tributi da parte degli agenti imperiali.
I personaggi che prendono parte alla scena com-paiono, nella
maggior parte dei casi, accompagnati dal loro nome in caratteri
greci.

Commento personale
Se vogliamo parlare di dipinti antichi, ma antichi nel vero senso del termine, non dobbiamo immaginare
quadri o affreschi, ma dobbiamo volgere il pensiero ad altre forme di pittura, in particolare la ceramica.
La ceramica ha rivestito da sempre un ruolo fondamentale nella storia della conoscenza e nel passaggio da
una generazione ad un’altra.
Gli oggetti in ceramica venivano prodotti in grande quantità, cosa che ci è testimoniata dall’enorme nu-
mero di vasi e prodotti in ceramica emersi durante gli scavi effettuati dal Novecento in poi.
La pittura greca come la conosciamo noi oggi ci è stata tramandata proprio dai dipinti presenti sui vasi.
Dipinti antichissimi che fanno parte del nostro reperto artistico e culturale.
Le decorazioni offrono, infine, a partire dal periodo figurativo attico, elementi utili a comprendere aspetti
importanti dell’antropologia del mondo antico (legati soprattutto alla quotidianità descritta dalle scende
dipinte sui vasi) e del mito greco. Per questo ognuno di noi deve prendersi cura di essi, in modo tale che
rimangano nelle future generazioni, così come i Greci lo hanno fatto per noi.

61
CAPITOLO 6

IL ROMANICO

63
CAPITOLO 6 IL ROMANICO

QUADRO STORICO-SOCIALE E CARATTERI PRINCIPALI

Il romanico si sviluppa a livello europeo nei secoli che vanno dal X al XII, soprattutto in Italia, Francia e Ger-
mania reniana.
Il termine “romanico” veniva dapprima usato senza distinzione per indicare sia la lingua romanza, sia per
indicare gli stilemi tipici di questo periodo.
Il legame fra l’arte romana e quella romanica è forte: infatti in architettura si riscoprono le tecniche costrut-
tive, in scultura la plasticità delle forme.

LA SOCIETÀ COMUNALE

Il periodo che va dal X al XII secolo è molto importante per la società europea, perché segna un periodo
di sviluppo e rinnovamento, dopo gli anni bui del mille. Infatti sono molti i cambiamenti politici, sociali e
religiosi. Con il declino del feudalesimo si da inizio ad un nuovo sistema economico:le città si ripopolano,
dando così origine ai comuni, fra i quali ricordiamo Firenze e Milano.
I cittadini ora sono liberi professionisti, si dedicano a nuovi mestieri, come l’artigiano, il banchiere o il com-
merciante e sono tutelati da apposite “arti”. C’è quindi la nascita di un nuovo ceto sociale: la borghesia e
anche di una nuova visione dell’uomo, ora impegnato anche politicamente sul governo della propria città;
per fare fronte ai crescenti atti di violenza però, al governo cittadino era presenta la figura del podestà, stra-
niero e quindi fuori dagli screzi e imparziale. Il cittadino quindi vede un progressivo ampliamento della rete
commerciale, grazie alla ristrutturazione della rete stradale (prima del Mille erano infestate da briganti ed in
pessime condizioni) e alle nuove rotte commerciali, soprattutto quelle tracciate dalle quattro repubbliche
marinare: Genova, Amalfi, Pisa e Venezia.
Ma le strade non sono importanti solamente dal punto di vista commerciale, ma anche da quello sociale:
c’è un maggiore scambio culturale e si assiste alla nascita del pellegrinaggio: le principali mete sono Roma,
collegata tramite la via Francigena, Santiago de Compostela e i luoghi dediti al culto di San Michele.

IMPERO E PAPATO

Lo scisma d’oriente aveva separato la Chiesa Ortodossa (quella di Costantinopoli) da quella di Roma.
Quest’ultima assume sempre più caratteri di uno stato autonomo, annettendo territori sotto il proprio con-
trollo, occupandosi di questioni politiche ed economiche, delegando il potere papale ai vescovi.
Entra in maniera così prepotente nell’ambito del potere temporale, che addirittura spinge l’intera cristianità
occidentale alla guerra; vediamo qui le crociate spedizioni militari da parte dei cristiani per andare a liber-
are la Terra Santa dal dominio arabo.
Si ha un’idea della mescolanza dei poteri della Chiesa osservando i vari ordini monastici sorti in questo
frangente, i monaci soldati, che si occupavano contemporaneamente di religione e di guerra.
Ma accanto a questi ordini ne sorgono altri, come ad esempio i Cluniacensi, a Cluny a cui si deve la prima
abazia romanica e la schematizzazione degli stilemi propri del periodo; occupatisi loro stessi del progetto,
costruirono l’abazia di Cluny dandole un aspetto esteriore molto massiccio, privo (o quasi) di finestre ed
elementi esterni che potessero in qualche modo decorare e rendere più variegata la facciata. La stessa
seriosità si riscontra all’interno.
Le abbazie erano luoghi autonomi; infatti nei vari orti e cortili interni si produceva tutto il necessario al sos-
tentamento dei monaci, i quali poterono dedicarsi anche all’arte e alla cultura. L’Impero, nel frattempo, con
Ottone III aveva dato inizio al progetto di rinnovamento ed emulazione dell’impero romano d’occidente.
Pertanto pretendeva sempre più poteri (anche di tipo divino) entrando così in contrasto con il Papato (an-
che a livello politico, infatti, nelle città la gente simpatizzava principalmente per due partiti, filopapali o
filoimperiali, guelfi e ghibellini).
Alla morte di Ottone III, Federico detto il Barbarossa, scende in Italia settentrionale, convinto di conquistare
i comuni per dare nuova luce all’impero, ma questi con l’appoggio del papato, si alleano in una lega per op-
porre resistenza, appunto la lega padana, riuscendo così a soggiogare il potere imperiale restando liberi.

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IL ROMANICO CAPITOLO 6

LA SITUAZIONE ITALIANA

In Italia vediamo il sorgere della civiltà comunale (Firenze, Siena, Parma e Milano sono i principali). Mentre
quelli più al nord sono interessati nella guerra contro il Barbarossa quelli dell’Italia Centrale sono dediti alle
tipiche mansioni della gestione della città.
Parallelamente osserviamo il fiorire di due diversi tipi di romanico:quello dell’Italia settentrionale è molto
omogeneo e non è altro che lo sviluppo delle tecniche e dei gusti preromanici, predomina uno stile impo-
nente e serioso, di cui si può cogliere tutta la maestosità osservando la chiesa di San Michele a Pavia. Tut-
tavia Venezia si distingue per le forti contaminazioni bizantine (ne è un esempio San Marco, ricca di cupole,
mosaici, guglie ed ori).
Quello centrale presenta le stesse caratteristiche di quello settentrionale a cui si aggiunge la particolare
tarsia marmorea di pregevole fattura. Una situazione del tutto assestante è rappresentata dal Sud Italia.
È un caleidoscopio di popoli e culture: arabi, bizantini e normanni e ad opera di quest’ultimi si è avuta
l’unificazione nel regno di Sicilia, quando al potere c’era Ruggero D’Altavilla di stirpe appunto normanna
giunto nel mezzogiorno con il suo popolo nel XI secolo.
La particolarità di questo romanico sta nel trarre gli elementi più significativi e caratteristici delle popo-
lazioni che abitavano il Mediterraneo centro-orientale e miscelarli, ottenendo particolari e spettacolari ac-
costamenti. Le zone di maggiore interesse sono la Puglia e la Sicilia. Il romanico pugliese è molto sobrio, le
decorazioni sono poco accentuate.
I principali esempi sono la cattedrale di Trani e quella di San Nicola a Bari, ma ve ne sono moltissimi in tutto
il nord barese, sul Gargano e nella Daunia.
Il romanico siciliano presenta fortissimi influssi arabi: cupole, archi intrecciati, decorazioni policrome.
A Palermo si può scorgere la particolarità di questo romanico osservando la Zisa, residenza nobiliare sontu-
osamente ornata o la chiesa di San Giovanni.

CARATTERI GENERALI E PRINCIPALI INNOVAZIONI

Innanzitutto bisogna dire che gli stilemi ro-


manici non sono altro che derivazioni e svi-
luppi di tecniche precedenti, omogenei nelle
zone di più antico sviluppo, con sempre mag-
giori contaminazioni laddove erano anche al-
tre forme di arte.
Generalmente la chiesa romanica è tozza, im-
ponente e seriosa, carattere che si evince già
osservando la pietra nuda dell’esterno. Parti-
colare innovazione di questo periodo è l’arco
a tutto sesto e i suoi vari impieghi. Inoltre c’è
un grande utilizzo della simbologia. La mag-
gioranza della popolazione, infatti, non era is-
truita e quindi non conosceva adeguatamente
la Bibbia: così si creano nelle chiese altorilievi
raffiguranti scene bibliche o mostri, rappre-
sentanti il peccato. C’è la diffusione di motivi
geometrici di matrice orientale.

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CAPITOLO 6 IL ROMANICO

IL ROMANICO:
L’Architettura

LE PRIME TESTIMONIANZE

I primi segni dell’arte romanica si manifestano all’inizio dell’XI secolo in architettura e in scultura in un’area
assai estesa del territorio che va dall’Italia del Nord alla Francia, interessata da un eccezionale sviluppo
costruttivo dovuto alle favorevoli condizioni di crescita economica, sociale e culturale.
Il nuovo linguaggio architettonico trae il suo vigore dai modelli lombardi elaborati nei secoli precedenti
sulla base della tradizione romana paleocristiana e ravennate diffusasi in Europa grazie alle maestranze
locali e dai presupposti carolingi e ottoniani, dai resti romani ancora preesistenti sul territorio.
Scomparse sono le architetture civili di questo periodo, mentre sopravvivono alcune testimonianze di edili-
zia ecclesiastica. Nelle campagne vengono costruite abbazie e pievi, nelle città con la crescente autorità del
vescovo vengono costruite le chiese cattedrali da “cattedra il seggio vescovile che vi trovava luogo le quali
hanno rappresentato per tutto il Medioevo centro di riferimento e aggregazione della comunità.

UNA NUOVA TECNICA COSTRUTTIVA: L’ARCO A TUTTO SESTO

Nonostante la varietà di soluzioni formali che l’architettura romanica assume nella diverse zone europee, si
riscontrano caratteri comuni e ricorrenti.
Molti elementi del nuovo stile si originano dalla risoluzione dei problemi di ordine tecnico e statico de-
terminando così una diversa organizzazione spaziale e una rinnovata articolazione degli edifici religiosi
mutando così il modello della chiesa paleocristiana.
Caratteristico dell’architettura romanica è l’uso dell’arco a tutto sesto e della struttura derivante, la volta.
Questo tipo di copertura in muratura va a sostituire quella lignea. La volta, a botte e a crociera si era già
diffusa nell’architettura etrusca, romana e orientale e viene in parte utilizzata anche in epoca paleocris-
tiana e preromanica. La pratica di estendere la copertura in muratura a tutto l’edificio rappresenta una
novità fondamentale perché, comportando un peso maggiore da sostenere, implica una serie di soluzioni
architettoniche per scaricare e distribuire la spinta. Una prima soluzione per risolvere il problema è quella
di rinforzare con archi trasversali la volta a botte della navata.
Questo sistema subisce un’evoluzione con la comparsa della volta a crociera, utilizzata in sostituzione di
quella a botte, nell’intervallo fra gli archi di sostegno; lo spazio quadrato che si viene a creare si chiama cam-
pata, i rinforzi lungo i profili degli archi che la formano sono chiamati costoloni o nervature o archi d’ogiva.
La crociera, impostata sui pilastri degli archi longitudinali della navata, ha il privilegio di essere più leggera
e di concentrare nei quattro peducci la spinta laterale esercitata sulle pareti dalla volta a botte.
I pilastri raccolgono anche la spinta degli archi trasversali e la trasmettono alle navate laterali e la scaricano
sulle mura perimetrali, rinforzate dall’esterno per mezzo di contrafforti.

LA STRUTTURA DELLA CHIESA ROMANICA

Anche la pianta della chiesa romanica, che segue il modello longitudinale della basilica paleocristiana,
tende a modificare il proprio sistema.
In particolare si sviluppa la zona presbiteriale per necessità di culto moltiplicando così gli altari secondari:
nei bracci del transetto si aprono absidiole; nell’abside, intorno al coro, si raggruppano cappelle dedicate al
culto dei santi precedute da un corridoio anulare o deambulatorio.
Questo schema, che derive dalla seconda ricostruzione della chiesa di Cluny si sviluppa particolarmente in
Francia e viene ripreso nelle abbazie benedettine in Europa e nelle chiese di pellegrinaggio.
La formula a deambulatorio e a cappelle radiali presenta due funzioni differenti: permette, attraverso il cor-
ridoio, la circolazione dei fedeli e l’accesso alle cappelle rispettando lo spazio riservato al clero.
Spesso il presbiterio risulta sollevato rispetto alla cripta; il suo sviluppo è legato al diffondersi del culto delle
reliquie che attrae una moltitudine di pellegrini.
Le chiese di pellegrinaggio presentano che si affacciava sulla navata centrale determinando un’illuminazione

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IL ROMANICO CAPITOLO 6

diminuita e indiretta, dato che la chiesa può così la luce solo dalle aperture della facciata.
La complessa organizzazione spaziale interna degli edifici sacri si rifletta all’esterno in un sistema di pun-
tuali corrispondenze: la suddivisione in tre navate corrisponde all’esterno nella tripartizione della facciata
attraverso le lesene, i contrafforti dividono le pareti secondo il ritmo delle campate interne.
Il paramento murario si presenta in pietra o in laterizi a vista, sobriamente animato da lesene e archetti
ciechi e da bassorilievi scultorei.

L’ITALIA SETTENTRIONALE

Diversamente da quando si riscontra nelle altre regioni di Italia, l’architettura settentrionale presenta una
sostanziale omogeneità linguistica derivata dallo sviluppo di soluzioni tecniche e decorative della fase
preromanica.

BASILICA DI SAN MARCO

La basilica di San Marco a Venezia è la chiesa principale della città, cattedrale della città e sede del Patriarca.
È uno dei principali monumenti di piazza San Marco, che da essa prende il nome.
La chiesa è stata costruita a partire dal 1063, dopo che un incendio aveva distrutto la precedente chiesa,
eretta nel IX secolo per custodire le reliquie di San Marco trafugate in quel tempo dai veneziani ad Ales-
sandria d’Egitto. Il modello della chiesa, alla cui costruzione partecipano maestranze bizantine, è la chiesa
dei Santi Apostoli di Costantinopoli.

L’ESTERNO: LA FACCIATA

La facciata marmorea risale al XIII secolo. Vi furono inseriti mosaici, bassorilievi ed una grande quantità di
materiale di spoglio eterogeneo.
Ciò diede la caratteristica policromia, che si combina con i complessi effetti di chiaroscuro dovuti alle mul-
tiformi aperture ed al gioco dei volumi.
Le due porte di ingresso alle estremità vennero realizzate con timpani ad arco inflesso, di chiara ispirazione
araba, forse volute anche per ricordare Alessandria d’Egitto, dove era avvenuto il martirio di San Marco.
Le porte bronzee risalgono a epoche diverse: a sud la Porta di San Clemente è bizantina e risale all’XI secolo;
quella centrale, di produzione incerta, è del XII secolo; le porte secondarie sono più tarde e sono decorate
secondo un gusto antichizzante.
Nella facciata laterale rivolta a sud anticamente si apriva la Porta da Mar, l’ingresso posto vicino al Palazzo
Ducale e al molo, dal quale si entrava a Venezia.
Tra i mosaici della facciata, l’unico rimasto degli originali duecenteschi è quello sopra il primo portale a
sinistra, il portale di Sant’Alipio, che rappresenta l’ingresso del corpo di San Marco nella basilica com’era
allora. Gli altri, danneggiati, furono rifatti tra il XVII e il XIX secolo mantenendo i soggetti originali, che fatta
eccezione per il mosaico sopra portale centrale, hanno tutti come soggetto principale il corpo del santo,
dal suo ritrovamento presso Alessandria d’Egitto ad opera di due mercanti veneziani avvenuta nel 829
all’arrivo delle sacre spoglie in città e alla successiva deposizione.
La lunetta del portale centrale è decorata secondo l’usanza tipicamente occidentale in epoca romanica,
con un Giudizio universale, incorniciato da tre archi scolpiti di diverse dimensioni, che riportano una serie
di Profeti, di Virtù sacre e civili, di Allegorie dei mesi, dei Mestieri e di altre scene simboliche con animali.
Dagli archi inflessi dell’ordine superiore, decorati in stile gotico fiorito, le statue delle Virtù cardinali e te-
ologali, quattro santi guerrieri e San Marco vegliano sulla città.
Nell’arco del finestrone centrale, sotto San Marco, il Leone alato mostra il libro con le parole “Pax tibi Marce
Evangelista meus”.

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CAPITOLO 6 IL ROMANICO

LA QUADRIGA

Tra le opere d’arte provenienti da Costantinopoli, la più celebre è rappresentata dai famosi cavalli di bronzo
dorato e argentato, di incerta origine, che furono razziati dai Veneziani, durante la IV crociata dall’Ippodromo
di Costantinopoli, la capitale dell’Impero romano d’Oriente e posti sopra il portale centrale della basilica.
Delle molte quadrighe che ornavano gli archi trionfali dell’antichità, questa è l’unico esemplare al mondo
rimasto. Dopo il lungo restauro iniziato nel 1977, i cavalli di San Marco sono oggi conservati nel Museo di
San Marco all’interno della basilica, sostituiti sulla balconata da copie.

IL NARTECE

Il nartece con la sua luce smorzata prepara il visitatore all’atmosfera soffusa dell’interno dorato, come
l’Antico Testamento rappresentato dai mosaici del soffitto prepara al Vangelo raffigurato in basilica. I sog-
getti principali sono la Genesi ed episodi delle vite di Noè, Abramo, Giuseppe, Mosè.
Attualmente l’atrio si compone di due ambienti, in quanto Battistero e Cappella Zen furono ottenuti chiu-
dendone il lato sud.

L’INTERNO

La pianta della basilica è a croce greca con cinque cupole distribuite al centro e lungo gli assi della croce e
raccordate da arconi (presenti per esempio nella chiesa dei Santi Apostoli dell’epoca di Giustiniano).
Le navate, tre per braccio, sono divise da colonnati che confluiscono verso i massicci pilastri che sosten
gono le cupole; essi non sono realizzati come blocco unico di muratura ma articolati a loro volta come il
modulo principale: quattro supporti ai vertici di un quadrato, settori di raccordo voltati e parte centrale con
cupoletta.
Le pareti esterne e interne sono invece sottili, per alleggerire il peso dell’edificio sul delicato suolo vene-
ziano, e sembrano quasi diaframmi tesi tra pilastro e pilastro, a reggere la balaustra dei matronei; non hanno
una funzione di sostegno, solo di tamponamento.
Pareti e pilastri sono completamente rivestiti, nel registro inferiore, con lastre di marmi policromi.
Il pavimento ha un rivestimento marmoreo disegnato con moduli geometrici e figure di animali mediante
le tecniche dell’opus sectile e dell’opus tessellatum; sebbene continuamente restaurato, conserva alcune
parti originali del XII secolo.

PRESBITERIO

Elementi di origine occidentale sono la cripta, che interrompe la ripetitività di una delle cinque unità spa-
ziali, e la collocazione dell’altare, non al centro della struttura (come nei martyrion bizantini), ma nel pres-
biterio.
Per questo i bracci non sono identici, ma sull’asse est-ovest hanno la navata centrale più ampia, creando
così un asse longitudinale principale che convoglia lo sguardo verso l’altare maggiore, che custodisce le
spoglie di San Marco.
Dietro l’altare maggiore, rivolta verso l’abside, è esposta la Pala d’oro, che fa parte del Tesoro di San Marco. Il
gruppo di colonne istoriate che reggono il ciborio sopra l’altare maggiore, riproducono modelli paleocris-
tiani, con citazioni anche ricalcate, sebbene magari ricontestualizzate o anche fraintese.
Questo revival appositamente ricreato è da inquadrare nel desiderio di Venezia di riallacciarsi con l’epoca di
Costantino assumendosi l’eredità dell’Imperii christiani dopo aver conquistato Costantinopoli.
Il presbiterio è separato dal resto della basilica da un’iconostasi, ispirata alle chiese bizantine.
È formata da otto colonne in marmo rosso broccatello e coronata da un alto Crocifisso e da statue di Pier
Paolo e Jacobello dalle Masegne, capolavoro della scultura gotica (fine XIV secolo). Dal presbiterio si accede
alla sagrestia e ad una chiesetta del XV secolo dedicata a San Teodoro, dove è esposta una Adorazione del
Bambino di Giambattista Tiepolo.

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IL ROMANICO CAPITOLO 6

TRANSETTO DESTRO

All’inizio del transetto destro, collegato al Palazzo Ducale, si trova l’ambone delle reliquie, da dove il neo
eletto doge si mostrava ai veneziani.
Nella navata sinistra si trovano la cappella di San Clemente e l’altare del Sacramento.
Qui è il pilastro in cui fu ritrovato nel 1094 il corpo di San Marco, come raccontato negli interessanti mosaici
della navata destra (da dove si entra negli ambienti del Tesoro di San Marco).

TRANSETTO SINISTRO

All’inizio del transetto sinistro c’è invece l’ambone doppio per la lettura delle Scritture; seguono, nella na-
vata destra, la cappella di San Pietro e la cappella della Madonna Nicopeia, un’icona bizantina giunta a
Venezia dopo la Quarta Crociata ed oggetto di devozione. Sul lato nord ci sono gli ingressi alla cappella di
Sant’Isidoro di Chio ed alla cappella Mascoli.

MOSAICI

La decorazione musiva della basilica copre un arco di tempo molto ampio ed è probabilmente dettata da
un programma iconografico coerentemente unitario.
I mosaici più antichi sono quelli dell’abside (Cristo pantocratore, rifatto però nel XVI secolo, e figure di santi
e apostoli) e dell’ingresso (Evangelisti), realizzati alla fine dell’XI secolo da artisti greci, affini ai mosaici, per
esempio, nel duomo di Ravenna o nella cattedrale di San Giusto a Trieste.
Gli Evangelisti probabilmente decoravano l’ingresso centrale alla basilica ancora prima della costruzione
del nartece. I restanti mosaici vennero aggiunti a partire dalla seconda metà del XII secolo da artisti venez-
iani. In linea di massima l’atrio presenta Storie dell’Antico testamento e le tre cupole sull’asse longitudinale
presentano apoteosi divine e cristologiche, mentre gli arconi relativi presentano episodi dei Vangeli.
La Cupola della Pentecoste venne realizzata entro la fine del XII secolo, forse riproducendo le miniature
bizantine di un manoscritto della corte bizantina. La cupola centrale è detta dell’Ascensione, mentre quella
sopra l’altare maggiore dell’Emanuele, e furono decorate dopo quella della Pentecoste.
Il transetto nord, realizzato in seguito, ha la cupola dedicata a San Giovanni Evangelista e Storie della Vergine
negli arconi. Quello sud presenta la cupola di San Leonardo (con altri santi) e, sopra la navata destra, Fatti
della vita di San Marco. In queste opere e in quelle coeve della tribuna gli artisti veneziani introdussero
sempre maggiori elementi occidentali, derivati dall’arte romanica e gotica.
Più tardi sono i mosaici delle cupolette di Giuseppe e di Mosè, nel lato nord dell’atrio, probabilmente della
seconda metà del XIII secolo, dove si cercano effetti grandiosi con una riduzione delle scenografie architet-
toniche in funzione della narrazione. Altri notevoli mosaici decorano il Battistero, la Cappella Mascoli e la
Cappella di Sant’Isidoro.
Le ultime decorazioni musive sono quelle della Cappella Zen (angolo sud dell’atrio), dove avrebbe operato
di nuovo un maestro greco di notevole perizia. Molti mosaici deteriorati furono in seguito rifatti mantenen-
do i soggetti originali.

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CAPITOLO 6 IL ROMANICO

IL DUOMO DI MODENA

Il Duomo di Modena, la cui ricostruzione risale al


1099, è stata progettata da uno dei pochi capimas-
tri dell’epoca: Lanfranco.
Il linguaggio del Romanico lombardo si fonde qui
con la tradizione classica dando vita a soluzioni
inedite e fortunate.
Innanzi tutto gli spazi interni sono richiamati
dalle forme esterne: al contrario di quanto ac-
cadeva in epoca lombarda, dove la facciata
a capanna calava a sipario nascondendo la
conformazione interna, a Modena la facciata,
con i suoi profili, dichiara l’altezza delle navate
interne, mentre i contrafforti sui fianchi coin-
cidono con i pilastri sui quali si impostano le
volte, e le trifore del matroneo rispondono
alle trifore della loggia nella parte me-
diana.
Le proporzioni dell’edificio sono
molto calibrate la larghezza massima
della facciata corrisponde alla sua al-
tezza e le superfici sono animate da
un gioco di sporgenze e spazi vuoti:
i contrafforti e il protiro del portale
maggiore, sostenuto da leoni stilo-
fori, si protendono verso la piazza,
mentre un movimento contrario è
suggerito dalle arcate cieche, dalla
galleria di trifore e dal rosone aggi-
unto successivamente.
La superficie è animata da basso-
rilievi di Wiligelmo. Analoghi equi-
libri di forme si vedono all’interno
alleggerito dai vuoti matronei e dalla scansione alternata di colonne e pilastri. Le volte a crociera sono state
costruite nel XV secolo per sostituire l’originale copertura a capriate.

L’ITALIA CENTRALE

I centri di maggior sviluppo dell’architettura romanica in Toscana sono Firenze e Pisa, città che a partire
dal X secolo sono soggette ad una rinascita economica e culturale. In ognuna di esse si dà vita a uno stile
dalle spiccate e personali caratteristiche, anche se si ritrovano dei caratteri in comune come l’utilizzo della
facciata a salienti, l’uso della colonna monolitica piuttosto che il pilastro, la memoria della tradizione pa-
leocristiana e l’impronta classica evidente tanto nelle traforate superfici pisane quanto nella geometria dei
marmi fiorentini.

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IL ROMANICO CAPITOLO 6

CASTEL DEL MONTE

Castel del Monte fu fatto costruire da Federico II di Svevia nel 1240 da un architetto rimasto anonimo.
Si pensa, tuttavia, che quest’ul- timo fosse del luogo in quanto nella costruzione viene usata la misura a
“palmo napoletano” tipica del posto. Sono state formulate diverse ipotesi circa l’origine di questo impo-
nente edificio. Alcuni affermano che sia nato come ritrovo di caccia, altri pensano che sia stato costruito
come edificio militare. Inizialmente si chiamava Castel di Santa Maria del Monte, successivamente è stato
ribattezzato con l’attuale nome. Alla caduta degli Svevi il castello rimase adibito come carcere.

STRUTTURA DELL’EDIFICIO

L’edificio presenta una pianta ottagonale dove ad ogni estremo si innesta una torretta anch’essa ottago-
nale. Il diamentro di ogni torre è di 7,90 m mentre la loro altezza misura 24 m.

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CAPITOLO 6 IL ROMANICO

INTERNO DELL’EDIFICIO

La zona interna (il cui diamentro è


di 56 m) è suddivisa in 2 piani, col-
legati tramite scale a chiocciola di
44 gradini. Nella parte inferiore,
la copertura è quadrangolare al
centro e triangolare sui 2 lati.
Il quadrato centrale ha delle volte a
crociera con una chiave di volta
estradossata, mentre i triangoli
laterali hanno delle volte a botte.
I costoloni di questa zona
dell’edificio hanno puramente
scopi stilistici.
Salendo al piano superiore, trovia-
mo una zona più curata e lumi-
nosa. Sono, infatti, presenti delle
finestre bifore e trifore (tipiche
dell’arte gotica) ad illuminare la
stanza. In questo piano i colstolo-
ni sono più slanciati. Si può notare
che il piano superiore, ha un’inifluenza gotica rispetto a quello inferiore interamente romanico.

ESTERNO DELL’EDIFICIO

All’edificio si accede tramite due portali: quello principale, rivolto verso est e
quello secondario affacciato a ovest. Il portale principale, al quale si accede
tramite due rampe di scale speculari, presenta due lesene scanalate, i capitel-
li corinzi, ed il timpano decorato a dentelli. La parete dell’edificio è arricchita
da una bifora e una monofora a ogiva per lato, tranne in direzione di Andria.

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IL ROMANICO CAPITOLO 6

IL CORTILE INTERNO

Il cortile ha 3 ingressi nella fascia sottostante e presenta delle finestre monofore nella parte superiore. La
compattezza delle mura è alleggerita dagli archi ciechi.
Secondo una leggenda, al centro di questo cortile, c’era una vasca di marmo a forma ottagonale rappresen-
tante il Sacro Graal.
Quest’ultima veniva utilizzata per la purificazione dell’iniziato che, dopo essersi immerso nelle acque del
sacro calice, dava inizio alla sua avventura come cavaliere.

LA BASILICA DI SAN NICOLA A BARI

La Basilica barese è dedicata a Nicola, santo vescovo di Mira in Asia Minore (oggi Turchia) al tempo
dell’imperatore Costantino (306-337).
Della sua Vita, scritta nel IV-V secolo, ci è pervenuto integro solo il capitolo (Praxis de stratela-tis) del suo
intervento a favore di tre miresi condannati alla decapitazione e di tre ufficiali romani in carcere a Costanti-
nopoli. La sua partecipazione al concilio di Nicea (325) è attestata dallo storico bizantino Teodoro il Lettore
verso il 515 d. C.
Altre storie del Santo, come la dote alle fanciulle povere (raffigurata dalle tre palle d’oro sul Vangelo), proven-
gono dalla tradizione orale mirese raccolta nel VIII secolo dall’archimandrita Michele.
Al di là delle innumerevoli leggende (famosa quella dei tre bambini uccisi dall’oste e risuscitati da Nicola), il
santo vescovo resta l’incarnazione della carità e dell’impegno per i deboli.
È molto venerato in tutto il mondo ortodosso, e specialmente in Russia ove, come a Bari, oltre alla festa
universale del 6 dicembre c’è anche quella del 9 maggio (a memoria della traslazione delle sue reliquie a
Bari nel 1087.
La Basilica fu costruita nell’ambito della Corte del Catapano, la residenza del governatore bizantino (greco)
al tempo in cui Bari era capitale dell’Italia meridionale (970-1071).
La sua buona posizione difensiva e la scelta fatta dai rappresentanti dell’imperatore di Bisanzio farebbe
pensare che sin dall’epoca romana questa fosse l’area dell’autorità civile.
È probabile, perciò, che qui risiedessero prima il preside romano, poi il gastaldo longobardo, quindi l’emiro
saraceno e, infine, il catepano bizantino.

L’ESTERNO DELLA BASILICA

La Basilica di San Nicola di Bari rivela la sua storia già dall’architettura esterna, che sembra ispirata più alla
struttura di un castello che di una chiesa.
Non va dimenticato, infatti, che nel periodo normanno fu usata più volte come fortezza difensiva.
I quattro cortili che la circondano erano anticamente chiusi e riservati al clero della Basilica, che li metteva a
disposizione dei commercianti in occasione delle fiere nicolaiane di maggio e di dicembre.

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CAPITOLO 6 IL ROMANICO

Oggi vi si accede dal Lungomare, e già appena superato l’arco si ha una visione del complesso medioevale.
Nonostante la varietà e la complessità della concezione architettonica, una certa unità compositiva è in-
negabile.
Di conseguenza, a parte qualche elaborazione secondaria successiva, possiamo tranquillamente affermare
che il grosso della decorazione (architettonica e scultorea, oltre a quella pittorica scomparsa) può essere
datata al periodo 1090-1125.

LA FACCIATA POSTERIORE (EST)

La vasta facciata est (verso il mare) comprende e nasconde le tre absidi interne.
La sua monotonia è interrotta dal bel finestrone absidale, probabilmente di epoca bizantina.
Nella fascia superiore si aprono altri otto finestroni, mentre nella parte sottostante sono disegnati vari archi
ciechi con una serie di quattro monofore.
In basso, perpendicolarmente al finestrone, c’è il bellissimo bassorilievo angioino (XIV secolo) con scene
della vita di S. Nicola scolpite in modo plastico e robusto.
Va detto comunque che la visibilità di gran parte della facciata posteriore (e precisamente la parte sinitra)
è oggi possibile grazie ai restauri avviati dall’architetto Schettini nel 1946.
Prima, infatti, tutta la zona sinistra (fino al finestrone degli elefanti) era coperta da edifici aggiunti fra sei e
settecento, adibiti fra l’altro a sacrestia e sala del Tesoro.
Già nei precedenti restauri era stato demolito il costolone laterale destro, costruito per rinforzare la parete
in un punto delicato (che poi era lo stesso ove fino al 1613 c’era stato uno dei due campanili posteriori).
La liberazione di questi edifici posticci permette oggi di ammirare alcuni squarci dell’antico palazzo del
Catapano.
A questo vanno infatti connesse alcune colonne immurate sotto il passaggio verso via Palazzo di Città
(l’antica Ruga Francigena), nonché la cavità all’altezza della sacrestia.

LA FACCIATA LATERALE (NORD)

Immettendosi nel largo Urbano II, che separa


la Basi-lica dalla scuola S. Nicola si possono am-
mirare le molte iscrizioni con i nomi dei marinai
che nel 1087 rapirono le reliquie di S. Nicola.
I loro nomi si possono riscontrare anche nella per-
gamena dei 62 marinai conservata nell’archivio
della Basilica.
Sulla facciata posteriore vi sono soltanto due
marinai (Stefanus Tarantinus e Maraldus), men-
tre su questa facciata nord si trovano Disigius,
Bisantius Saragulla, Stefanus, Topatius, Leo de
Mele Sapatici, Albertus Nauclerius e Nicolaus fil-
ius Mundi.
Se il criterio fu lo stesso usato per la facciata ovest,
quasi certamente sotto terra, perpendicolarmente ai suddetti nomi, dovrebbero stare le rispettive tombe.

IL PORTALE DEI LEONI

Con la Porta dei Leoni, in prossimità della Torre delle Milizie, siamo di fronte ad un complesso scultoreo
particolarmente interessante. I motivi agricoli, come la mietitura e la vendemmia, si fondono con quelli
liturgici.
Dovrebbe risalire alla fine dell’XI secolo o ai primissimi anni del XII, come sembra indicare l’incisiva scena di
guerra contenuta nella fascia interna dell’arco superiore.
Vale la pena osservare che nel 1098, dopo la strepitosa vittoria contro Kerbogha, il normanno Boemondo

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IL ROMANICO CAPITOLO 6

mandò in dono alla Basilica la lussuosa tenda di questi, e che pochi giorni dopo (3 giugno) entrava da con-
quistatore in Antiochia.
La conquista di una città o di un castello raffigurata nella Porta dei Leoni potrebbe ricordare proprio
quell’avvenimento.
Tale interpretazione si armonizza con le conclusioni di A. Kingsley Porter (Bari, Modena and St-Gilles): D’altra
parte, l’influenza di Bari su Modena fu ugualmente forte.
Le nuove forme architettoniche introdotte a Modena, e che poi costituirono una rivoluzione nello stile lom-
bardo sono derivate dalla Basilica pugliese.
La perfezione stilistica della scena di guerra (a confronto con la ruvidezza del Portale della Pescheria di
Modena) spinge lo stesso Porter a datare all’inizio del XII secolo il Portale di Bari.
Lateralmente al portale dei leoni vi sono due sarcofaghi, ma non si conosce chi fossero i beneficiari.
È probabile, tuttavia, che il sarcofago di destra fosse la sepoltura originale di Roberto da Bari (1275 cir-ca),
quando ancora non era permesso seppellire i cadaveri all’interno della chiesa.
La sua sepoltura fu più tardi trasferita all’interno, sotto il pavimento della navata di sinistra.

L’ESAFORATO

Ma la facciata laterale nord è notevole anche per l’esaforato, che dà sul corridoio esterno, in corrispondenza
dei matronei interni.
Questo esaforato nord, come l’analogo della facciata sud, (= cortile interno) potrebbe far parte di quella
decorazione che l’iscrizione sotto al ciborio attribuisce all’abate Eustazio.
Potrebbe essere stata una tarda realizzazione dell’atelier del Maestro della cattedra di Elia, come sembra
indicare il capitello a capre e racemi dell’esaforato sud.
Animali e racemi ricorrono esternamente in tutta la lunga teoria di capitelli a stampelle, sia sulla facciata
nord che su quella meridionale.
Per imprimere poi una maggiore varietà ornamentale, la scuola del Maestro d’Elia, sia pure con diverse
qualità e livelli artistici, realizzò tutta una serie di testoline di animali, di uomini e donne.
L’apparente inespressività dei volti (le labbra sono sempre chiuse e piccole) dà un tono di solennità e di
energia, quasi che le mura stesse sprigionassero questa forza nascosta.
Ci si aspetterebbe più espressività, sia in considerazione della cattedra di Elia che per il fatto che le teste si
spingono all’infuori, quasi per dire qualcosa.
E, invece, sono lì come se si fossero messe d’accordo nel lasciare allo spettatore il compito di comprendere
la forza del monumento.

LA TORRE DELLE MILIZIE

A collegare la facciata nord con la facciata ovest (facciata principale che dà sulla piazza) è la cosiddetta Torre
delle Milizie, poggiante su un vano vuoto.
La notevole diversità stilistica dalla corrispondente torre sud-ovest (campanile attuale) fa pensare che
questa torre, come quella campanaria, sia anteriore alla chiesa stessa.
Se entrambe fossero state concepite nel progetto architettonico della chiesa certamente sarebbero state
realizzate uguali o almeno simmetriche.
Dall’interno della Basilica, attraverso una stretta scala, si accede al primo vano superiore della torre, ove
sono provvisoriamente depositati alcuni bassorilievi e pezzi scultorei erratici.
Ancora qualche gradino e si entra nel corridoio dell’esaforato nord, il cui piano di calpestio è più basso ris-
petto a quello del rispettivo matroneo interno.
Il nome delle Milizie deriva forse dall’interpretazione dell’architetto Schettini che, parlando della suddetta
scaletta, diceva che appare molto e notevolmente consumata dal calpestio, come se avesse sopportato un
insistente passaggio per lo meno di quelle rozze milizie che potevano essere preposte al presidio della
torre stessa.
Secondo questo architetto, la torre doveva essere parte di un edificio di un pubblico ufficiale greco, proba-
bilmente imparentato con la famiglia Adralisto che intorno al 1000 aveva fatto costruire l’adiacente chiesa
di S. Gregorio.

75
CAPITOLO 6 IL ROMANICO

Lungi dall’accettare la bizantinità della torre, la Belli d’Elia ne spinge la datazione alla seconda metà del XII
secolo, alla stessa epoca cioè in cui colloca cronologicamente gli esaforati.
Rilevando la diversità di maestranza, repertorio decorativo e tipo di lavorazione scultorea alle giunture de-
gli archetti, la studiosa sottolinea le sculture di piccole dimensioni, molto varie come repertorio, tra le quali
compaiono, accanto alle consuete protomi umane e bestiali, piccoli elefanti, scimmie. E fra i vari ornati, a
conferma della datazione tardiva, motivi affini a quelli del portale della cattedrale di Trani.
Come si è detto, la Torre delle Milizie collega l’esaforato nord con la facciata principale est.
Ma prima di parlarne, è opportuno dire qualcosa sulla chiesa di S. Gregorio e sul Portico dei Pellegrini.

FACCIATA PRINCIPALE (OVEST)

Racchiusa fra le due possenti torri, la facciata della Basilica di San Nicola raggiunge il suo verticalismo grazie
alle lesene sporgenti che la dividono in tre zone corrispondenti alle navate interne.
Un senso di armonia si respira guardando i tre portali, con i due laterali più piccoli rispetto a quello centrale;
dimensioni che corri-spondono alla diversa altezza delle aree della facciata (e quindi dei tetti).
Più basse quelle corrispondenti alle navate laterali, più alta l’area della parte centrale che in cima assume
una forma cuspidata.
Su ciascuna delle due porte laterali c’è un vasto arco cieco, dentro al quale vi sono altri due archi ciechi la cui
giuntura terminale è asimmetrica rispetto al portale sottostante (specialmente quello di destra).
Nella fascia centrale dell’intera costruzione, al di sopra dei suddetti archi vi sono tre finestroni, in passato
usati come nicchia di alcune statue.
Si tratta delle statue di S. Nicola, S. Antonio e dell’Immacolata Concezione realizzate nel 1658 dallo scultore
Michelangelo Costantino e collocate sul triforio dell’iconostasi che separa la navata centrale dal transetto.
Forse perché ingombranti la visione del presbiterio, nell’aprile del 1742 furono rimosse e collocate nelle tre
nicchie della facciata principale.
Ancora più sopra vi sono cinque
bifore, di cui due laterali addos-
sate alle lesene e tre centrali, al di
sotto del rosone. A creare un pò
di movimento sta la lunga teoria
di archetti (sullo stile della Torre
delle Milizie) che sorreggono il
cornicione sia in corrispondenza
delle navate che del tetto.
Ciò che sorprende è l’eccessiva
semplicità del rosone, privo di
decorazioni, nonché del portone
di legno (recente e senza velleità
artistiche).
Tuttavia, queste carenze sono
abbondantemente bilanciate
dall’elevatezza artistica dalla dec-
orazione scultorea ed architet-
tonica che circonda il portone.
Gli stipiti presentano una serie di
arabeschi e figurazioni simboliche di gusto musulmano.
Bizantineggianti sono, invece, i due angeli alati agli angoli della riquadratura.
La decorazione, ripresa analogicamente nell’archivolto del protiro, è composta di foglie di lauro, grappoli
d’uva e pigne, dentelli, ovuli e rosette sporgenti, armonizzando la tradizione classica alle esigenze del sim-
bolismo liturgico.
In basso, alla base degli stipiti, vi sono due riquadri con figure umane ritratte nello sforzo di reggere tutta
la fascia decorativa.
Purtroppo, pessimo è il loro stato di conservazione (le teste, che dovevano essere sporgenti, sono quasi
interamente scomparse), ma, anche soltanto da ciò che resta, si evince la parentela compositiva con i tela-

76
IL ROMANICO CAPITOLO 6

moni della cattedra dell’abate Elia.


Al centro dell’archivolto è raffigurata la quadriga del sole, con l’imperatore che regge nella destra il disco
del sole e nella sinistra la palma della vittoria.
Tale simbolismo imperiale ben si adatta all’atmosfera di entusiasmo creata dalla conquista normanna in
chiave antigreca e soprattutto antimusulmana.
È lo stesso entusiasmo per il quale i papi Urbano II e Pasquale II, pur tanto impegnati nella lotta per le inves-
titure, ebbero un occhio di riguardo per i principi normanni, considerati gli strumenti della giustizia divina.
In questo contesto ben si alternano le figure mostruose, simboli del peccato degli infedeli, ai cavalieri che
le combattono restaurando il regno di Cristo.
La sfinge, fortemente aggettante sulla cuspide del protiro, sta ad indicare appunto l’imperscrutabilità del
disegno divino; un disegno che, se in altre epoche è stato difficile da accogliere a causa della vittoria musul-
mana in Sicilia, ora è di sollievo grazie alla riconquista normanna.
Il volto umano corrisponde stilisticamente a diversi capitelli degli esaforati, onde si può parlare di una note-
vole unità compositiva. La bottega del Maestro di Elia dovette lavorarvi nel primo ventennio del XII secolo.
Unità compositiva che si nota anche nelle forme di leoni e leonesse che, seppure a livelli artistici inferiori,
richiamano chiaramente le leonesse della cattedra di Elia.
L’archivolto poggia su due capitelli sorretti da colonne ottagonali, rette a loro volta da due possenti buoi
che sembrano uscire dal muro.
Poggianti su grosse mensole, i buoi rivolgono il loro sguardo paziente e sereno verso il portone.
Nonostante che il loro simbolismo sia alquanto insolito nel mondo ecclesiale, i buoi si ritrovano ancora a
tirare un carro nella parte centrale dell’arco terminale degli stipiti.
La loro presenza è tanto più strana se si pensa che i leoni si trovano scolpiti un pò ovunque nella Basilica,
sui capitelli come sulla cattedra di Elia.
Si potrebbe pensare che facessero parte di un edificio del palazzo del catepano, e che fossero successiva-
mente reimpiegati per il portale della Basilica. Sulla sinistra e sulla destra del portale si vedono due iscrizio-
ni. La prima (orizzontale) commemora la già menzionata consacrazione della Basilica superiore il 22 giugno
del 1197. La seconda (già riportata in traduzione) si riferisce ai diritti della Basilica sulle cause criminali nei
suoi territori feudali di Rutigliano e Sannicandro.
Oltre a queste due, sulla facciata principale vi sono altre iscrizioni relative ai marinai della traslazione, tre a
sinistra del portale (Leone Pilillo, Summissimo e Giannoccaro Nauclerio e una a destra (Stefano).
Ricorrono anche due magistri, uno sulla parte bassa dello stipite di sinistra del portale centrale (...istri An. de
Fumarello), l’atro ad altezza d’uomo subito a destra del portale di destra (Magistri Nicolaiviti clerici).
Quest’ultimo era un canonico attivo nel 1259, ma non si conosce che cosa abbia fatto per S. Nicola, al punto
da godere una collocazione così importante.
La particolare ubicazione del primo farebbe supporre che abbia lavorato alle sculture del portale centrale.
E lo stesso vale per quell’Ansaldus d... | Filius Merli d | ta de Lu(w)ar|, del quale nulla si sa, anche perché
la scritta è monca. Alcuni vi hanno voluto scorgere i nomi dei maestri comacini che, a loro avviso, avreb-
bero lavorato in S. Nicola. Ma i maestri comacini a S. Nicola sono, almeno per ora, una pura supposizione e
l’identificazione dell’Ansaldo e del Fumarello assolutamente senza supporto documentario.

LA FACCIATA SUD (SUL CORTILE INTERNO)

La facciata sud mantiene le caratteristiche della facciata nord, sia per gli arconi esterni che per l’esaforato.
Senza un ordine specifico si vedono teste umane e leonine aggettanti, la cui fattura richiama l’unità di con-
cezione scultorea già menzionata (anche se non sempre è la stessa mano a lavorarci).
Anche su questa facciata c’è una specie di portale-sud dei leoni (in corrispondenza dell’altro).
È chiaramente della stessa epoca, ma per qualche motivo ha subìto più del primo i danni del tempo.
I leoni stilofori di questo portale sud sono talmente consumati da rendere persino ardua la loro identifica-
zione come leoni. L’elevatezza artistica dello scultore è però fuori di ogni dubbio.
Basta guardare le poche tracce della sua opera sui due blocchi d’imposta al di sopra dei capitelli.
Se, infatti, la parte frontale è divenuta irriconoscibile, le parti laterali sono davvero notevoli.
Arcaicità ed armonia si respirano nella colonna di sinistra per la scena degli uccelli che beccano la pianta dal
lungo gambo che fuoriesce da un calice.
Il blocco d’imposta di destra, che presenta in un lato motivi floreali riscontrabili sui capitelli delle navate,

77
CAPITOLO 6 IL ROMANICO

doveva avere un bellissimo animale aggettante (forse un volatile).


Se si fosse meglio conservata avrebbe potuto reggere il confronto col Portale dei Leoni.
Sulla parete interna sinistra c’è l’epigrafe di Guglielmo (=W) de Comitissa, protontino (comandante del
porto), di difficile identificazione, essendo noti nel XIII secolo due protontini di questo nome, uno al tempo
di Federico II (1229) e l’altro di Carlo d’Angiò (1281).
Al di sopra di questa epigrafe c’è un affresco dell’Immacolata Concezione del XVII secolo. A fronte, invece,
c’è l’affresco della Crocifissione, recentemente restaurato.
Diverso è l’altro portale (sud-est) ove fu sepolto il corpo di Sparano da Bari, il gran cancelliere di Carlo I e
Carlo II d’Angiò (+ 1294), che dà il nome ad una delle vie più note di Bari.
Sul sarcofago ricorre due volte lo
stemma della famiglia Sparano (scu-
do con una fascia trasversale conte-
nente tre gigli angioini, e in ciascuna
delle due zone rimanenti un leone
rampante). Ivi furono poi sepolti an-
che la moglie Flandina della Marra e
il figlio Giovanni d’Altamura. Di fronte
al sarcofago degli Sparano c’è il sepol-
cro a baldacchino, che richiama quelli
analoghi dei Falcone a Bisceglie.
Dovrebbe essere stato costruito per
Giovanna, contessa di Minervino, par-
ente dello stesso Sparano.
Un’altra componente della famiglia,
Caterina d’Altamura, moglie di Si-
mone di Sangro, poco dopo faceva
erigere la cappella di S. Caterina sotto
l’arcone attiguo.
Tracce di affresco ci portano ad
un’epoca non molto antica, la stessa degli affreschi alla cappella dei Dottula, dedicata all’Annunziata, che si
trova in fondo al cortile, immediatamente dietro il transetto (dalla parte esterna). A parte gli affreschi molto
danneggiati, ben visibile è in quest’ultima cappella l’arma dei Dottula (campo diviso perpendicolarmente,
attraversato da una fascia con tre idre).

PORTICO DEI PELLEGRINI

L’edificio a fronte della Basilica è chiamato “Portico dei Pellegrini”, anche se impropriamente, essendo
l’ospizio ben individuato nella sua
ubicazione (edifici della parte pos-
teriore della Basilica e la scuola S.
Nicola nella parte più prossima alla
muraglia). Oggi il Portico viene usato
per conferenze e mostre, ma fino al
1928 era un complesso di abitazioni
private, che furono liberate con non
poche difficoltà.
Partendo da tracce di arcaicità di al-
cune finestre (qualcuno pensò ad-
dirittura all’epoca longobarda), si
ricostruì un edificio concepito come
parte integrante della corte catep-
anale, e quindi in posizione frontale
rispetto alla facciata principale della
Basilica.

78
IL ROMANICO CAPITOLO 6

L’INTERNO DELLA BASILICA

Solitamente si entra in Basilica attraverso la


porta di destra, ritrovandosi così nella navata
destra.
Per avere, però, una visione d’assieme convi-
ene spostarsi verso il centro, in fondo alla na-
vata centrale.
Da qui si ha una visione delle gallerie superiori,
dette matronei, che convogliano lo sguardo
verso il triforio (detto anche iconostasi) oltre il
quale troneggia il bellissimo ciborio.
La Basilica è a tre navate divise da dodici col-
onne di granito bigio di m. 0,79 di diametro.
La lunghezza di ciascuna navata è di m. 58, la
larghezza è diversa: la navata centrale è di m.
26, mentre le laterali sono di m. 9. Sull’abaco
scorniciato, al di sopra dei capitelli, poggiano gli archi a sesto tondo che collegano una colonna all’altra.
Sono proprio questi archi a reggere i matronei, vale a dire i corridoi anticamente riservati alle donne nobili
(matrone) per meglio seguire le cerimonie liturgiche, ma che in epoca romanica avevano una funzione
puramente ornamentale e funzionale alla statica.
La struttura, già possente di per sé, appare ancor più massiccia grazie ai tre arconi costruiti nel Quattrocento
proprio allo scopo di rinforzarla, essendo stata messa in pericolo dal forte terremoto del 1456.
Visitando la Basilica è opportuno ricordare che la chiesa di oggi è molto diversa da quella che si vedeva fino
al 1930, allorché furono demolite le cappelle
laterali barocche e chiuse le pareti che le
contenevano (ricreando così l’apertura sotto
le arcate esterne).
Sono scomparsi quindi lo sfarzo e i colori ba-
rocchi, e sono stati ricuperati la maestosità e
la sobrietà del romanico.

LA NAVATA CENTRALE

La navata centrale permette uno sguardo


d’assieme alla grandiosa basilica. In alto c’è
il soffitto a capriate nascosto dalle tele re-
alizzate da Carlo Rosa di Bitonto (intorno al
quale si fa un discorso a parte). L’insieme è
però come frenato, se non spezzato, dagli ar-
coni che congiungono le prime tre coppie di
colonne.
Il primo e il terzo arcone furono costruiti fra il
1458 e il 1463 dal principe di Taranto Giovan-
ni Antonio del Balzo Orsini (del quale recano
lo stemma).
Quello centrale fu costruito da Ludovico il
Moro nel 1494.
Ben visibile è il biscione degli Sforza di
Milano, i quali, avendo aiutato re Ferrante a
sconfiggere il principe di Taranto, ottennero
il ducato di Bari (1464-1557).
I capitelli, sia dei matronei che della navata,
sono quasi tutti dell’XI secolo (materiale di

79
CAPITOLO 6 IL ROMANICO

reimpiego dalla residenza catepanale) o dei primi anni del XII secolo, forse della stessa bottega del Maestro
d’Elia, come indica il capitello del triforio con la testa leonina.
La derivazione bizantina si evince dalle tipiche forme floreali e particolarmente dalla delicatezza delle fo-
glie spinose di acanto.
Si può parlare allora di capitelli pseudo-corinzi, in quanto se mantengono la semplicità dei capitelli corin-
zi, inseriscono alcuni elementi provenienti dall’architettura cristiana mediorientale, specialmente siriana,
come ad esempio dei gambi più o meno lunghi, oppure dei calici da cui fuoriescono delle foglie.
Da notare che i capitelli più prossimi al triforio e quelli del triforio stesso hanno una maggiore nitidezza e
slancio. Le foglie sembrano sprizzare da altre sottostanti dando l’impressione di fuochi d’artificio in pietra. È
come se, avvicinandosi al cuore del luogo sacro, l’entusiasmo e l’intensità crescessero di tono.
Alla colonna destra successiva agli arconi è addossato il bel pulpito in legno, parte di quel programma
decorativo avviato dal priore Giovanni Montero nel 1655.
In realtà sembra che già nol 1652 venisse smontato il pulpito trecentesco e sostituito con uno di legno
decorato, e che successivamente il Montero lo arricchisse delle pitture.
Vi lavorò l’artista barese Alfonso Ferrante dal settembre 1658 alla fine dell’anno successivo.
Partendo dal lato rivolto al presbiterio vi sono raffigurati S. Vito (sembra), S. Domenico, S. Nicola, l’Immacolata
Concezione, S. Antonio, S. Cristoforo e S. Leonardo.
Da notare il S. Cristoforo, anche per il senso del movimento.

LA NAVATA DESTRA

Appena si entra in Basilica si sfiora la “cappella” di S. Girolamo e il sarcofago di Giacomo Bongiovanni (+1510),
rettore delle scuole di S. Nicola e maestro di Bona Sforza nel castello di Bari.
L’epigrafe dice:

Il signor Giacomo Bongiovanni, canonico di questa Chiesa insigne, prefetto della scuola di S. Girolamo, affinché
le sue ossa e il ricordo di lui fossero custoditi sino al giorno del giudizio, essendo ancora tra i vivi nell’anno del
Signore 1510, ordinò di costruire questo sarcofago.

Il dipinto di S. Girolamo, patrono delle scuole cattoliche e degli studi biblici, è stato a lungo attribuito al
pittore veneziano Bellini, che l’avrebbe dipinto verso il 1495 di ritorno da Costantinopoli, dopo un viag-
gio su una nave comandata dal fratello di un
canonico.
Recentemente però è stata attribuita alla
scuola di Costantino da Monopoli.
Sulla parete esterna della Torre campanaria,
adibita a Sala del Tesoro dopo essere stata
dal 1188 cimitero dei canonici e poi cappella
dei Santi Pietro e Paolo, è stata apposta una
lapide nel 1981 per ricordare la venuta dei
Domenicani nel 1951.
Dinanzi all’arcata successiva, corrispondente
alla Cappella della Madonna di Costantinop-
oli, vi è attualmente la statua di S. Nicola.
Sul pavimento, invece, si legge ancora la last-
ra tombale di Bartolomeo Carducci, canonico
della Basilica:

A Dio ottimo massimo. A Bartolomeo Carducci,


patrizio barese, abate e personale commenda-
tario dei santi Quirico e Giulitta, nonché di S.
Maria del Niceto di Lecce, uomo integerrimo ed
ascoltato consigliere dei sommi principi nelle
loro scelte, morto il 20 ottobre 1571, avendo

80
IL ROMANICO CAPITOLO 6

superato di tre i 70 anni, Francesco Carducci, vescovo di Lacedonia, suo erede e successore, ha voluto dedicare
questa epigrafe, come a zio paterno dai grandi meriti.

Alzando gli occhi per ammirare i capitelli, si può ripetere il discorso fatto a proposito della navata centrale.
Va tuttavia rilevato che, proprio sul capitello della prima colonna di sinistra è raffigurato un S. Nicola, caso
unico fra i capitelli.
Nella successiva arcata del portale-sud dei leoni c’è una bella e antica acquasantiera con sopra l’epigrafe
della nobile milanese Beatrice Garbinati:

A Beatrice Garbinati, originaria di Milano, nata da illustri genitori, figlia di Giovanni Francesco e Ippolita Lam-
berti, nobile barese, nipote di Giovanni Antonio e Ippolita Carducci nobile barese, pronipote di Giovanni Battista
e di Giulia Protonobilissimo, della nobiltà tarantina e napoletana, donna integerrima, che, nel fiore dell’età, las-
ciando una florida prole, accompagnata dalle virtù se ne è volata al cielo.
Donato Ponzi del fu Benedetto, luogotenente dell’esercito, e l’abate Carlo Ponzi, dottore in diritto civile ed eccle-
siastico, protonotaio apostolico, cantore e vicario generale di questa regale Basilica, hanno posto non senza
lacrime questa lapide a ricordo della moglie amatissima e della nipote dilettissima, nell’anno del Signore 1672.

Appena superato il portale, oltre l’altra bella acquasantiera, c’è l’arcata della cappella di S. Matteo (poi S.
Anna). In epoca fascista vi fu apposta una lapide per i morti in guerra. Recentemente in basso è stata col-
locata la lastra tombale di Basilio Mersiniota, nobile greco morto a Bari nell’ottobre del 1075.
All’altezza della semicolonna che chiude questa arcata c’è un frammento di lastra tombale con dei gigli
angioini sormontati da merli e da una corona, probabile sepoltura di qualche membro della famiglia regia.
Nulla di particolare è rimasto nella parete successiva che ospitava la cappella di S. Caterina d’Alessandria
(poi S. Lorenzo). Di fronte (al di là della scalinata che porta in cripta) c’è, ai piedi della colonna, un’altra lastra
tombale molto consumata.
Sono però riuscito a leggere che si tratta di un generale polacco (o russo, ma sotto il governo polacco) che,
dopo aver combattuto tante battaglie contro tartari e cosacchi, venuto in pellegrinaggio a Bari, vi aveva
chiuso gli occhi nel Signore (pare nel 1651).

LA NAVATA SINISTRA

Il discorso fatto sui capitelli della navata centrale e di destra vale ovviamente anche per la navata di sinistra.
Partendo dall’ingresso principale, nell’immettersi nella navata di sinistra, appena superata la semicolonna,
si costeggia prima il sarcofago della famiglia della Marra che aveva il beneficio della cappella di S. Filippo
Arginione. L’immagine, di sapore tizianesco, dovrebbe raffigurare questo santo siciliano del IX secolo, che
ebbe in comune con S. Nicola un intervento a favore di tre fanciulle.
A meno che quel quadro non sia andato distrutto e sia stato sostituito con un S. Nicola.
Purtroppo l’iscrizione del 1554 è talmente danneggiata da non permettere più precisi riferimenti.
Oltre il portale vi sono alcune scale di accesso alla Torre delle Milizie, presso la cui porticina (ad altezza
d’uomo) c’è la già menzionata lapide di Basilio Mesardonita, restauratore nel 1011/1013 della Corte del
Catapano.
Segue una scultura in bronzo di Annamaria di Terlizzi, realizzata in occasione del IX Centenario della Traslazi-
one. In uno stile neomedioevale viene ricordata l’opera dell’abate Elia.
L’arcata successiva, che ora ospita il confessionale, era la cappella del Crocifisso (dedicata anche a S. Giorgio
o al Rosario).
Quindi si entra nel vano della Porta-Nord dei Leoni, ove c’era e c’è ancora la sepoltura di Roberto da Bari,
gran cancelliere di Carlo I d’Angiò, tristemente famoso per aver letto la sentenza di morte di Corradino di
Svevia, decapitato a Napoli nel 1268.
L’iscrizione sul pavimento fu fatta apporre, come la corrispondente di Sparano, dalla famiglia Chiurlia nel
1742. Essendoci però pervenuta, recentemente è stata ricollocata (sopra l’acquasantiera) l’epigrafe origi-
naria che si potrebbe così rendere in italiano:

Al termine della sua vita, qui riposa Roberto Chiurlia che si è comportato con onore sino all’ultimo giorno.
Egli, che tutto fece coi suoi soli meriti, fu consigliere regio, e mentre visse ne ebbero vantaggi sia gli uomini che le

81
CAPITOLO 6 IL ROMANICO

donne della sua famiglia.

Ora, dopo la morte, i suoi fati felici riversino i


favori su coloro che ne hanno ereditato i feudi.
Subito dopo la porta, nel 1949 fu collocata una
lapide a ricordo del pellegrinaggio (in realtà
venne due volte) di S. Brigida di Svezia:

In questo tempio nel 1366 S. Brigida di Svezia in


cammino per Terra Santa ha goduto celesti rive-
lazioni ed ha esaltato la dignità del sacerdozio.

L’arcata successiva, che ora ospita un confes-


sionale e il sovrastante dipinto della Madonna
con tutti i Santi, sin dal 1344 era la cappella del-
la Trinità (poi S. Marco e infine S. Gennaro).
Sullo stipite prima della semicolonna, appena
visibile, c’è l’antica iscrizione:

Anno del Signore 1344. Viene portata a termine


questa cappella che con riverenza mons. Giovanni
Bonicordis ha voluto che fosse edificata a proprie
spese in onore della Trinità.
Egli, che era canonico di questo sacro tempio e custode dell’altare della tomba, l’ha anche dotata di notevoli
rendite, di modo che quotidianamente fossero celebrate messe per la sua anima, nonché per le anime del padre,
della madre, dei parenti, e di chiunque fosse sepolto in essa.

Come la corrispondente arcata di destra, anche l’ultima arcata di sinistra (già cappella di S. Maria Madd-
alena dal 1340) è priva di elementi particolari.
Tuttavia, doveva essere imponente, almeno a giudicare dalla maestosa scultura funebre del priore Pietro de
Moreriis (+1346) conservata provvisoriamente nei matronei (fig. 45).
All’altezza della successiva porta nord, sul pavimento si trova la lastra tombale di un personaggio di origini
regali. Sullo stemma, infatti, in cui compare un giglio angioino, si vede una corona.

TRANSETTO DI DESTRA E DI SINISTRA

Due gradini segnano il passaggio dalla navata destra al transetto di destra, da dove si può avere una buona
visione di gran parte del presbiterio e dell’abside centrale.
La parete destra, ora spoglia, conteneva sotto gli archetti del ballatoio degli ovali di sante regine.
In basso invece facevano bella mostra il bellissimo altare d’argento del 1684 e il grande quadro di «S. Nicola
Nero», particolarmente venerato dai pellegrini.
L’altare d’argento, ora in corso di restauro, ha una sua preistoria: fu donato, infatti, insieme ad una grandiosa
copertura, dallo zar di Serbia Stefano Uros II Milutin nel 1319 ed ha ricoperto la tomba di S. Nicola per vari
secoli.
Nel Seicento però, quando molte opere d’arte furono sostituite da altre in stile barocco, anche l’altare
d’argento subì la stessa sorte.
L’iniziativa fu presa dal regio commissario Stefano Garnillo de Salzedo nel 1682.
Insieme a candelieri e altri oggetti liturgici, l’altare fu fuso e completamente rifatto dagli artisti napoletani
Domenico Marinelli e Ennio Avitabile. Così il capolavoro slavo bizantino scomparve e nacque un capolav-
oro barocco.
Al centro c’è la porticina con due angeli che sorreggono bottiglie della manna, in quanto l’apertura aveva
proprio la funzione di permettere il prelievo della manna (il liquido che si forma attorno alle ossa del Santo).
Tutt’intorno (procedendo verso destra) vi sono scene della vita di S. Nicola: di fronte la nascita, lateralmente
Adeodato (il ragazzo rapito dai saraceni, e da S.Nicola riportato ai genitori), nella parte alta del pannello

82
IL ROMANICO CAPITOLO 6

posteriore il passaggio del Santo da Bari, la reposizione delle ossa e l’arrivo delle reliquie a Bari, nella parte
bassa Nicola che risuscita lo spergiuro debitore cristiano, la visita fattagli in carcere da Gesù e Maria, e
l’abbattimento dell’albero di Diana, lateralmente a sinistra la leggenda dei tre bambini e, nuovamente di
fronte, la morte del Santo.
Nell’abside destra, sono stati collocati alcuni pezzi scultorei di notevole interesse.
Al periodo bizantino sembrano appartenere sia l’angelo docente, che i due capitelli a stampella, di cui uno
con le scimmie.
In basso è stato collocata la lastra superiore del
sarcofago di un personaggio ragguardevole
del XIII-XIV secolo (Roberto da Bari?), del quale
è difficile determinare l’identità.
Di gran pregio sono gli affreschi del catino ab-
sidale dipinti nel 1304 da Giovanni di Taranto.
Sia la data che l’autore si conoscono grazie ad
una lettera al re di Napoli, in cui l’autore racco-
nta di essere stato aggredito dai ladri sulla via
per Taranto e chiede di essere almeno parzial-
mente risarcito.
L’affresco presenta lateralmente la figura di S. Martino, vescovo di Tours, santo nazionale dei francesi, cui è
dedicata la cappella. Alla sua sinistra c’è un altro santo (forse S. Ludovico, appartenente alla famiglia del re
Carlo II). Nella zona centrale è raffigurata la Crocifissione.
Fino al 1930 tutta la parete sovrastante conteneva l’organo settecentesco, poi demolito nel corso dei res-
tauri. Sull’altare di questa cappella c’è oggi il trittico (1451) di Rico da Candia, pittore molto attivo nel XV
secolo in varie città italiane.
La Madonna della Passione qui rappresentata la si ritrova infatti in
diverse città italiane (Bergamo, Firenze, Parma, ecc.), inserita però
in un contesto devozionale rispondente alla località in questione.
Qui a Bari si trova fra S. Nicola a destra e S. Giovanni il Gesù volge
lo sguardo all’angelo di destra che gli preannincia la crocifissione,
mentre l’angelo di sinistra porge alcuni strumenti della passione.
L’abside di sinistra, priva di affreschi, è stata dotata recentemente
di antichi pezzi scultorei ed architettonici. Si può vedere un leone
stiloforo di incerta provenienza, forse dal più volte menzionato
palazzo del catapano. È stato anche ricollocato il paliotto che fino
a tutto il XVI secolo ornava l’altare principale (e che fu sostituito,
forse perché in cattivo stato, dalla copia oggi esposta).
Sull’altare (già dedicato a S. Sebastiano) c’è la bella pala di Bartolo-
meo Vivarini, pittore veneziano attivo in Puglia nella seconda metà
del XV secolo.
La Madonna in trono col Bambino è raffigurata fra i santi Giacomo
e Ludovico da una parte, Nicola e Pietro dall’altra. Originariamente
collocata nella cappella di S. Martino (ove ora è il trittico di Rico da
Candia), l’opera fu commissionata dal canonico veneziano Alvise
Cancho nel 1476.
Secondo la Belli d’Elia si tratta di una delle più elevate opere pugliesi del pittore muranese, vera e propria
Sacra Conversazione.
Per molti secoli nell’area del transetto di sinistra c’era l’altare di S. Ludovico, affiancato dalla tribuna reale,
eretta da Carlo II d’Angiò e demolita nel 1741. Sulla parete retrostante sotto il ballatoio v’erano gli ovali di
santi re, mentre in basso c’era l’altare del Cuore di Gesù (detto anche del SS. Sacramento).
Una volta demolito questo e liberata la vasta parete, l’ampio spazio ha fino ad alcuni anni fa ospitato il
grande organo della Basilica (oggi in fase di restauro).

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CAPITOLO 6 IL ROMANICO

PRESBITERIO E ABSIDE

Se volgiamo lo sguardo verso il presbiterio, ab-


biamo di fronte l’area artisticamente più ricca
dell’intera Basilica. A cominciare dal ciborio
(1110-1120), vale a dire il baldacchino in pietra
dai meravigliosi capitelli romanici. Il ciborio e i
suoi capitelli. Vi si respire un forte senso di ar-
caicità.
In uno dei due capitelli posteriori fuoriesce dalle
tradizionali foglie bizantine una testa di ariete,
mentre negli angoli appaiono teste di uccelli
dai becchi ricurvi.
Presenta una marcata analogia con un capitello
di S. Apollinare in Classe (Ravenna), il che lo sp-
ingerebbe verso una notevole antichità (V-VII
secolo), a meno che l’artista barese non abbia voluto nell’XI secolo seguire quel modello.
All’elemento animale predominante nei due capitelli retrostanti, che lascia un senso di timore per il mistero
nascosto sotto quesi simboli, fa riscontro l’elemento angelico dei due capitelli anteriori.
Tutti gli angoli sono occupati da angeli con le ali ben visibili e con oggetti liturgici nelle mani.
Se un messaggio ci vuol essere è quello della serenità che nasce dal mettersi sotto le ali angeliche, e at-
traverso il mistero liturgico cristiano vincere le paure del mistero che potrebbe nascondere il male.
Il tutto poggia sul mosaico bizantino-musulmano (1090-1110) con al centro il capolavoro della cattedra
dell’abate Elia (1098).
Nel catino absidale, infine, in netta dissonanza stilistica, ma doveroso omaggio alla grande regina, c’è il
mausoleo di Bona Sforza (1593). Il tutto all’ombra del grandioso soffitto di Carlo Rosa (1661).
Data però l’importanza di ciascuno di questi pezzi, è opportuno dedicare loro un discorso a parte.
La cripta, vale a dire la chiesa sotterranea in corrispondenza del transetto, fu certamente la prima parte
della chiesa ad essere portata a termine.
C’è da credere, infatti, che l’abate Elia utilizzasse una preesistente aula del palazzo catepanale, collocandovi
forse qualche capitello a carattere liturgico proveniente da qualcuna della chiesette bizantine abbattute.
I lavori durarono due anni. Nel mese di settembre del 1089 l’abate Elia ritenne opportuno invitare il papa
Urbano II (che si trovava a Melfi) a reporre le reliquie di S. Nicola sotto l’altare appena costruito.
È a pianta rettangolare, dalle dimensioni di m. 30,69 per 14,81. La volta a crociera poggia su 26 colonne, due
delle quali di marmo numidico, due di breccia corallina, una di marmo caristio e le altre ventuno di marmo
greco.

LA COLONNA DELL’INFERRIATA

Nell’angolo a destra appena scesi in cripta, si trovava fino al 1953 al posto della seconda colonna a destra.
È una colonna di marmo rossiccio che, nota come colonna miracolosa, da secoli attira la devozione dei pel-
legrini che accorrono a toccarla convinti delle sue virtù taumaturgiche.
Le leggende popolari su di essa si sono moltiplicate nel corso dei secoli, tutte però riconducibili ad una più
antica, che risale forse al XII secolo. La prima menzione, tuttavia, è del 1359 e si trova in uno scritto di Niccolò
Acciaiuoli, il consigliere fiorentino della regina Giovanna I.
Nel suo testamento, conservato all’Archivio di Stato di Firenze, egli dice di aver dettato le sue ultime volontà

84
IL ROMANICO CAPITOLO 6

nella chiesa inferiore, detta la Confessione, dove riposa il


preziosissimo e santissimo corpo del celebre Confessore,
presso quella colonna che lo stesso glorioso Santo pose
con le proprie mani quando si edificava la chiesa o la Con-
fessione suddetta.
Su questo nucleo fiorirono le leggende. Nel XV secolo al
viaggiatore fiammingo Georges Languerant fu detto che
quella colonna era stata trainata dai buoi che recavano le
reliquie di S. Nicola nell’area destinata alla costruzione della
chiesa.
Ma fu il Beatillo nel 1620 a raccogliere le varie “voci” e a svi-
luppare la leggenda. Secondo lui, S. Nicola fece un viaggio
a Roma in visita a papa Silvestro. Qui, passando dinanzi alla
casa in demolizione di una donna di facili costumi, ammirò
questa bella colonna e la sospinse nel Tevere.
Miracolosamente si ritrovò nelle acque antistanti il porto di
Mira ed egli, al suo ritorno, la collocò nella cattedrale. Al-
trettanto miracolosamente fu vista galleggiare nelle acque
di Bari all’arrivo delle reliquie del Santo. Nessuno riusciva
a prenderla. Finalmente, la notte che precedeva la reposizione delle sue reliquie (fra il 30 settembre ed il
1° ottobre del 1089), mancando una colonna, S. Nicola intervenne a completare lui l’opera dell’abate Elia. I
baresi udirono suonare le campane.
Tutti accorsero alla Basilica e videro un santo vescovo che con due angeli abbatteva il pilastro eretto
dall’abate Elia e vi installava la nostra colonna.

LA CAPPELLA DEI PATRONI D’EUROPA

È stata fondata nel 1981 in occasione della proclamazione dei santi Cirillo e Metodio a patroni d’Europa, che
andavano così ad affiancarsi a S. Benedetto già riconosciuto tale.
La chiesa di S. Nicola ha voluto così concretizzare l’intenzione che il papa ha espresso nella bolla Egregiae
Virtutis del 31 dicembre 1980. Questa cappella era opportuna sotto diversi aspetti.
All’ordine benedettino, infatti, appartenevano i due grandi costruttori della chiesa, l’abate Elia e l’abate
Eustazio. Né gli apostoli del mondo slavo potevano mancare nell’iconografia della chiesa il cui Santo è ven-
eratissimo dagli slavi in genere e dai russi in particolare.
L’icona dell’artista Tonino Bux ha riprodotto l’abbraccio dei tre Santi come l’incontro fra l’oriente e
l’occidente. Il che porta alla mente anche il ricordo dell’abbraccio fra il papa Paolo VI ed Atenagora I, che
significò l’abolizione delle scomuniche del 1054.
Nella speranza che Bari, punto nevralgico di quel grande scisma, divenga oggi anima di questi incontri
verso l’unione delle Chiese.

LA TOMBA DI SAN NICOLA

Era già pronta il 1° ottobre del 1089 quando il papa Urbano II ne consacrò l’altare.
All’interno si sono conservate due iscrizioni del tempo, una di Sikelgaita, la moglie guerriera di Roberto il
Guiscardo (+1091), e l’altra di Goffredo (Iosfridus), probabilmente il conte di Conversano.
Severa e sobria come un’ara pagana, la tomba fu ben presto rivestita d’argento, assumendo la sua confor-
mazione definitiva nel 1319 con la copertura (altare d’argento e cielo della cappella) donata dallo zar di
Serbia Uros II Milutin (1282-1321).
Quando prevalse il gusto barocco, questo altare fu considerato “antiquato” e quindi, fuso con altri argenti,
rinacque dalle abili mani degli artisti napoletani Domenico Marinelli ed Ennio Avitabile.
L’antistante porticina, guardata da due angeli con bottiglie della manna, era concepita appunto per potersi
introdurre e venerare le reliquie, oltre che per estrarre la santa manna.
In concomitanza coi recenti restauri del 1953/57 l’altare d’argento fu trasferito nel transetto destro della

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CAPITOLO 6 IL ROMANICO

Basilica superiore, il che ridiede alla tomba il suo carattere austero. Le ossa del Santo (circa il 75% dello
scheletro) si trovano all’altezza del piano di calpestio, racchiuse in blocchi di cemento armato.
La non completezza dello scheletro si spiega, forse, col fatto che i baresi dovettero agire in fretta per timore
dell’arrivo dei saraceni, e quindi dovettero accontentarsi delle ossa più grandi immerse nel sacro liquido.
Nell’ultima revisione (effettuata con la sonda luminosa calata dagli operatori della BBC di Londra) si ve-
deva il cranio in posizione piuttosto centrale ed
il resto delle ossa sparse intorno.
La ricostruzione dello scheletro realizzata nel
1988 dal professore Luigi Martino mostra un
uomo di media statura. La parte restante delle
ossa potrebbe trovarsi in varie chiese del mon-
do e soprattutto a Venezia, considerando il fat-
to che i Veneziani nel 1099/1100 si inoltrarono
anch’essi fino a Mira e rapirono le ossa di alcuni
personaggi sepolti nell’antica basilica di S. Ni-
cola.
Il fatto, però, di aver preso le reliquie di vari
personaggi ha reso difficile ai Veneziani
l’individuazione delle ossa del Santo rispetto
alle altre.
Vicino alla custodia del Santissimo Sacramento
si vede la bella lampada uniflamma (a forma
di caravella) segno dell’unica fede cattolica ed ortodossa, alimentata da due tradizioni, quella orientale e
quella occidentale. Accesa dal papa Pio XI, fu donata nel 1936 dalla romana Associazione di S. Nicola alla
Basilica nell’ambito della “IV settimana Pro Oriente Christiano”.
In uno spirito ancora più ecumenico è stata accesa nel febbraio del 1984 dal papa Giovanni Paolo II e dal
metropolita di Mira, Crisostomo Konstantinidis.

L’ICONA DI UROSH III

È l’unica traccia rimasta in Basilica dei numerosi doni in-


viati da tutti gli zar di Serbia della dinastia Nemanide, a
partire dal fondatore per finire a Stefano Dusan.
Di quest’ultimo in archivio si conserva una bella pergame-
na con sigillo d’oro (1346), in cui è detto che le tasse della
città di Ragusa vengano pagate a S. Nicola.
L’icona, collocata dietro l’altare del Santo, è stata a lungo
attribuita ad Uros II Milutin, lo stesso che aveva donato
l’altare d’argento nel 1319. Ma oggi, specie fra gli studiosi
serbi, prevale l’opinione che sia da attribuirsi piuttosto al
figlio, Urog III (1322-1331). Egli l’avrebbe inviata alla Basil-
ica come ringraziamento a S. Nicola che gli aveva restitu-
ito la vista dopo che il padre l’aveva fatto accecare come
ribelle.
Le origini sono avvolte nel mistero, in quanto sotto lo
strato attuale si vede chiaramente una precedente ver-
sione (nascosta dalla riza d’argento).
Probabilmente, la versione visibile è quella del 1327 circa,
dipinta in previsione della riza che così andava a nascon-
dere la versione originale del XII-XIII secolo. Meno proba-
bile è che la versione originale (mani sul petto e Gesù e
Madonna più chiaramente bizantini) sia quella del 1321,
e che verso il XV secolo sia stata rifatta per l’applicazione
della riza. Quanto al volto, non fa testo perché i restauri

86
IL ROMANICO CAPITOLO 6

sono stati talmente numerosi da renderlo quasi occiden-


tale. Certo è che fra il medioevo e l’età moderna raggiunse
una fama europea come la vera effigies (vera immagine)
del Santo.

LA CAPPELLA ORIENTALE

Concretizza in modo visivo il discorso della vocazione ecumenica di Bari e S. Nicola.


Sull’onda del Concilio Vaticano II e dei migliorati rapporti fra cattolici ed ortodossi la Santa Sederitenne op-
portuno accogliere i voti dei padri domenicani e dell’arcivescovo di Bari, Enrico Nicodemo, di ospitare nella
Basilica una cappella orientale ove anche gli ortodossi potessero celebrare la loro liturgia.
Il card. Paolo Giobbe, che insieme all’allora archimandrita Gennadios Zervos benedisse la cappella, ebbe
a dire: È la prima volta che in una chiesa latina viene eretta una cappella per la celebrazione della liturgia
orientale. Questa realizzazione è uno dei tanti frutti del Concilio Ecumenico.
Due anni dopo l’arcivescovo Nicodemo e i Padri domenicani fondavano anche un Istituto di Teologia ecu-
menica ove professori e studenti, sia cattolici che ortodossi, potessero insegnare e studiare in spirito di
fraterna amicizia.
L’iconostasi fu eseguita per l’occasione dall’artista croato Zlatko Latkovic, autore anche dell’iconostasi della
cappella orientale di Berlino.
Attira la curiosità dei visitatori quell’INB1, invece di INRI (Jesus Nazarenus Rex Iudeorum).
La spiegazione è semplice: in greco Rex è Basileus.

LA CHIESA DI SAN GREGORIO

Nella Corte del Catapano c’erano varie chiesette, dedicate a San Demetrio, San Eustrazio, San Sofia, San
Basilio, San Stefano e San Gregorio.
L’unica a non essere abbattuta per costruire il tempio fu San Gregorio, edificata sul finire del X secolo.
Le tre absidi in vista richiamano la sua bizantinità, che trova comunque conferma nella coeva documen-
tazione.
Il primo riferimento è costituito dalla pergamena del marzo 1015 con cui Mele, clericus et abbas, custos et
rector ecclesie Sancti Gregorii, donava un’eredità da lui ricevuta a tale Simeone, in cambio della sua pro-
tezione.
Verso la metà del secolo XI la chiesa divenne proprietà della potente famiglia Adralisto, tanto che nel 1089,
parlando di S. Gregorio, l’arcivescovo Elia definiva la chiesa «de Kyri Adralisto».
Nei decenni successivi manteneva questa denominazione, come nel 1136, quando si parla di tale Sifanti
venerabilis sacerdotis ecclesie S. Gregorii que de Adralisto dicitur, e ancora nel 1210 quando viene impie-

87
CAPITOLO 6 IL ROMANICO

gata la variante «de Agralisto».


Sui muri perimetrali vi sono undici iscrizioni funebri che indicano come la chiesa di S. Gregorio fosse amata
dalla gente del luogo.
Diversi di questi nomi rievocano, infatti, i cognomi baresi più caratteristici, come Melipezza e Meliciacca,
oltre al nobile Bisanzio Patrizio e al popolare Giovanni Cacatorta.
La chiesa mantenne una sua autonomia fino al 22 novembre 1308 allorché, dietro suggerimento del re,
l’arcivescovo Romualdo Grisone la donava alla Basilica.
Nel frattempo il legame con gli Adralisto si era dileguato e la denominazione, a partire da qualche attività
nelle vicinanze, era divenuta «de Mercatello».

La facciata principale aveva tre porte, delle quali le due laterali furono murate nel ‘600 per costruire altari
all’interno.
Al di sopra di esse vi sono tre ampie monofore con le mostre a grani di rosario, come il portale della vicina
S. Marco e le finestre della cattedrale.
Più in alto il finestrone circondato da piccole mensole con motivi floreali e piccoli animali.
L’interno è a tre navate. Due file di quattro colonne, interrotte da pilastri con semicolonne addossate, divi-
dono la navata centrale dalle due laterali.
I capitelli appartengono a varie epoche e sono di diversa dimensione. Il primo a destra, con la base pirami-
dale, può essere fatto risalire al VII-VIII secolo dopo Cristo. Il secondo è il più rovinato. Il terzo, di tipo corinzio
(con foglie eleganti), offre dei riscontri con S. Michele di Capua, e quindi vanta anch’esso una veneranda
antichità. Due ordini sovrapposti di foglie d’acanto caratterizzano l’ultimo capitello.
Dal lato sinistro, il primo capitello presenta anch’esso due ordini di foglie d’acanto.
Sembra che avrebbe dovuto esserci un terzo ordine, ma fu sostituito da un tassello di marmo.
Il secondo capitello contiene (ed è l’unico in tal senso) figure umane.
Verso la navata centrale si vede un uomo con dei grappoli d’uva, mentre verso la facciata interna nord si
vede il viso di un uomo dalla capigliatura liscia e con riga al centro.
Il terzo presenta in modo sobrio delle foglie acuminate.

88
IL ROMANICO CAPITOLO 6

Il quarto ed ultimo capitello ad un ordine inferiore di foglie d’acanto sovrappone delle palmette che richia-
mano l’arte egizi e trovano delle analogie con alcuni capitelli della cripta di Otranto e di S. Basilio a Troia.
Figure leonine separate da un volto umano caratterizzano, invece, i capitelli delle semi-colonne.
L’analogia col capitello del triforio di S. Nicola ha suggerito alla Belli d’Elia una presenza della bottega del
Maestro della cattedra d’Elia.
All’interno della facciata ovest (la principale) s’è conservato l’affresco (purtroppo l’unico del genere) di S.
Antonio.
Mentre un’iscrizione della facciata interna sud ci informa che per qualche tempo la chiesa fu u-sata come
luogo di sepoltura (nel documento del 1308 si parlava già di un cimitero) dai membri della Confraternita
della Passione di nostro Signore: Confratrum et benefactorum huius edis regalis Ecclesiae annexae.
Tra il XVII e il XVIII secolo la chiesa assunse le forme barocche caratteristiche del tempo.
L’abside centrale ospitò l’altare maggiore con cinque nicchie, in cui più tardi si usò conservare le statue dei
misteri (altre due erano collocate al di sopra delle nicchie, ai piedi del crocifisso).
Sotto un arco separante la navata centrale da quella sinistra era ubicata una nicchia per conservare la statua
di S. Nicola (la stessa che oggi è in Basilica).
A sinistra dell’entrata principale c’era l’altare di S. Antonio.
Continuando nella navata sinistra c’erano gli altari di S. Biagio e S. Vito.
Nella navata di destra c’era invece quello del Carmine.
Nel 1928 la chiesa fu liberata degli edifici addossati che la collegavano posteriormente alla Torre delle Mili-
zie, mentre con ulteriori e più radicali restauri nel 1937 l’architetto Schettini la liberava dei suddetti altari,
ridando alla chiesa la sua struttura originaria.

89
CAPITOLO 7

IL GOTICO

91
CAPITOLO 7 IL GOTICO

IL TRIONFO DELL’OGIVA E DELLA NUOVA SPAZIALITÀ PITTORICA

Il gotico è una fase della storia dell’arte occidentale che, da un punto di vista cronologico, inizia all’incirca
alla metà del XII secolo in Francia, per poi diffondersi in tutta l’Europa occidentale e termina, in alcune aree,
anche oltre il XVI secolo, per lasciare il suo posto al linguaggio architettonico di ispirazione classica, recupe-
rato nel Rinascimento italiano e da qui irradiatosi nel resto del continente a partire dal XV secolo.
Il gotico è un fenomeno di portata europea dalle caratteristiche molto complesse e variegate, che interessò
tutti i settori della produzione artistica, portando grandi sviluppi anche nelle cosiddette arti minori: orefice-
ria, miniatura, intaglio di avorio, vetrate, tessuti, ecc.
Per convenzione l’arte gotica va dal 1140 al 1370, quando inizia il Gotico internazionale.
Possiamo dire che i quattro protagonisti di questo periodo storico sono L’Impero, il Papato, i Comuni Italiani
e la Monarchia francese.
Quando fu eletto imperato il re di Germania Federico I di Svevia, chiamato comunemente il Barbarossa, si
iniziò ad assistere, nel 1152, alle lotte dell’Impero contro il Papato e i Comuni italiani settentrionali prose-
guite dal nipote Federico II di Svevia, salito al trono nel 1220.
Il sovrano, uomo di rara cultura e ingegno, aperto al mondo arabo e amante dell’arte antica, favorì enorme-
mente le arti e la cultura del Mezzogiorno.
Parallelamente la Chiesa cercava di arginare l’egemonia imperiale e di rispondere alle istanze di rinno-
vamento spirituale avanzate tra il XII e il XIII secolo, ricorrendo in certi casi alla cruda repressione, come
dimostra la crociata contro gli albigesi promossa nel 1209 da Innocenzo III; in altri casi riuscendo ad as-
sorbire e arginare i movimenti innovatori (Onorio III approva l’Ordine dei domenicani nel 1216 e l’Ordine
dei francescani nel 1223). I nuovi ordini mendicanti, oltre a seminare un nuovo spirito religioso adottano
e diffondono in tutta l’Europa lo stile Gotico, sulla scia dei monaci cistercensi, ma insediandosi nelle realtà
urbane. (TOMMASO D’AQUINO)
Alla morte di Federico II di Svevia, avvenuta nel 1250, l’Impero, che aveva raggiunto la sua massima espan-
sione, si sgretola; il figlio di Federico, Manfredi, viene ucciso nella battaglia di Benevento (1266) da Carlo
d’Angiò, fratello del re di Francia, e chiamato in Italia dal Papa Urbano IV.
Contemporaneamente Bonifacio VIII (eletto Papa nel 1294) aveva cercato di riprendere la politica espan-
sionistica di Innocenzo III, ma viene sconfitto dal re di Francia Filippo IV il Bello.
Il trecento sarà lacerato dal ripetuto diffondersi di micidiali carestie ed epidemie per finire con la diffu-
sione della peste nera nel 1348, e nel frattempo la monarchia francese dei capetigni inizierà la guerra dei
cent’anni contro l’Inghilterra nel 1337. Tutto ciò per quanto riguarda il Papato e l’Impero.
Ma in questo quadro storico si colloca la progressiva espansione dei Comuni italiani del centro e del set-
tentrione.
Nel corso del Duecento le città saranno lacerate dalle lotte civili che vedono scontrarsi due opposti schi-
eramenti: quello guelfo, sostenitore del Papa e quello ghibellino, sostenitore dell’Impero, che molte volte si
combatteranno nascondendo rivalità territoriali o conflitti interni.
Ciononostante i Comuni italiani, come quello delle Fiandre, conoscono un periodo di eccezionale rigoglio
economico: i fiorenti commerci, le maniffatture e le attività bancarie, supportate dalla coniazione di nuove
monete (nel 1252 vengono battuti il fiorino e il genovino), ne fanno delle potenze di primo rango.
Così è per le Repubbliche marinare di Genova, Pisa e Venezia, grazie ai loro traffici marittimi, per Firenze e
Milano, che impongono il loro dominio sui centri circostanti e sul contado.
I Comuni sono di fatto delle libere città stato, la cui popolazione accrescerà enormemente e si doteranno di
imponenti cinte murarie e nuovi palazzi pubblici.
Il loro ordinamento politico-istituzionale rispecchierà il nuovo sostrato economico, come accade emblem-
aticamente a Firenze, dove soprattutto le Arti Maggiori (commercianti, banchieri, artigiani tessili, medici)
conquistano il potere.
Ed è proprio a Firenze che fioriranno le più alte espressioni della letteratura (Dante, Petrarca e Boccaccio) e
dell’arte gotica.

ORIGINI DELL’ARCHITETTURA GOTICA

Alcuni storici dell’arte hanno messo in relazione l’architettura gotica con la filosofia scolastica: a partire da
un solido ancoraggio a terra, tramite l’assottigliamento e la semplificazione delle strutture, si opera una

92
IL GOTICO CAPITOLO 7

progressiva ascensione, e le strutture si slanciano verso il cielo in un moto di ricongiunzione verso la divin-
ità. La novità più originale dell’architettura gotica è la scomparsa delle spesse masse murarie tipiche del
romanico: il peso della struttura non veniva più assorbito dalle pareti, ma distribuito su pilastri e una serie
di strutture secondarie poste all’esterno degli edifici.
Nacquero così le pareti di luce, coperte da magnifiche vetrate, alle quali corrispondeva fuori un complesso
reticolo di elementi di scarico delle forze.
Gli archi rampanti, i pinnacoli, gli archi di scarico sono tutti elementi strutturali, che contengono e indiriz-
zano al suolo le spinte laterali della copertura, mentre le murature di tamponamento perdono importanza,
sostituite dalle vetrate.
La straordinaria capacità degli architetti gotici non si esaurisce nella nuova struttura statica: gli edifici, libe-
rati dal limite delle pareti in muratura, si svilupparono con slancio verticale, arrivando a toccare altezze ai
limiti delle possibilità della statica.
La nascita dell’architettura gotica in Francia e riconducibile a due fattori.
Il primo è di ordine economico-politico: la grandiosità dei nuovi edifici viene utilizzata dai capetigni per sim-
boleggiare la fierezza di una nuova nazione sempre più forte e, al tempo stesso, viene supportata l’ascesa
della borghesia urbana, che finanzia le nuove e costose opere per testimoniare il potere e la ricchezza
acquisiti.
Il secondo motivo è di ordine religioso-filosofico: soprattutto in Francia prevale una visione del mondo più
mistica e più ottomistica rispetto al cristianesimo precedente, tetro, cupo, millenaristico.
Il nuovo rapporto con Dio viene ora interpretato artisticamente tramite la verticalità, il moto ascensionale
e la luce. Le nuove grandiose abazie e cattedrali riusciranno a mostrare quella spiccata tensione ascen-
sionale, quell’apertura al libero ingresso della luce esterna, che interpreterà il nuovo paradigma teologico-
filosofico.
Gli edifici vivono di pinnacoli, guglie e, di ampissime vetrate poste per rischiarare e illuminare gli interni.
Gli impianto portanti delle chiese e delle cattedrali restano saldamente ancorati alla tradizione romanica.

INNOVAZIONE

I criteri e le modalità costruttive sono assai diverse e originali rispetto al


periodo precedente.
Le innovazioni traggono spunto da un adattamento della romanica
volta a crociera costolonata.
La volta a crociera è un tipo di copertura architettonica formata
dall’intersezione longitudinale di due volte a botte.
La sua superficie è costituita quindi, da un’ossatura di quattro archi perime-
trali e due archi diagonali.
Questi ultimi passano per il centro della volta e sono più grandi di quelli
perimetrali.
Il centro è chiuso da una pietra a forma di cuneo o tronco di piramide, detta
chiave di volta: dopo la messa della chiave di volta, la struttura si autosor-
regge, scaricando il proprio peso sui sostegni (colonne, pilastri o altro)
che assumono così una funzione portante dell’intera struttura.
Gli spazi tra gli archi diagonali e quelli perimetrali sono detti spicchi o
vele e, talvolta, sono separati da nervature che evidenziano le superfici
architettoniche, dette costoloni. Affinchè gli archi trasversali e longi-
tudinali che compongono la volta possono adeguatamente svolgere
questa funzione di sostegno e di scarico vengono ridotti in ampiezza,
spezzati e aumentati in altezza.
Un’ altra innovazione riguarda l’arco. L’arco a sesto acuto è un arco bi-
centrico che contempli arcate appartenenti a circonferenze con rag-
gio maggiore o uguale alla base dell’arco stesso.
L’uso di archi a sesto acuto è tipico dell’architettura gotica e permette
rispetto all’arco a tutto sesto, a parità di lunghezza della corda, di avere
un’apertura più alta e slanciata.

93
CAPITOLO 7 IL GOTICO

La maggiore verticalità generava un maggiore peso


e maggiori spinte sia verticali che laterali, per questo
vennero ampiamente usati in quel periodo elementi di
controspinta quali contrafforti rafforzati spesso da archi
rampanti. In architettura il contrafforte è un sostegno, a
sezione quadrangolare, collocato in determinati punti
della muratura di un edificio con funzione di rinforzo e
di controspinta.
Viene utilizzato a partire dalla tarda antichità per la
costruzione di basiliche e ha raggiunto il suo culmine
nella costruzione delle chiese gotiche.
(Nelle chiese gotiche i pilastri rafforzati sono spesso invis-
ibili dall’esterno, ma si trovano all’interno delle mura es-
terne e suddividono le navate laterali in cappelle. Esempi
sono St. Martin ad Amberg o la Frauenkirche di Monaco).
Concentrandosi tutto il peso e le pressioni sul sistema
degli archi acuti e dei pilastri a fascio, le mura perdono
la loro funzione di sostegno per divenire semplice col-
legamento.
Questo ne permette l’alleggerimento: assottigliandosi
possono ospitare vaste aperture dalle vetrate isoriate
(cioè decorate con figure ornamentali) che lasciano pen-
etrare abbondantemente la luce.
Inoltre pinnacoli, guglie, cuspidi, esili torri campanarie contribuiscono al’equilibrio delle forze dell’intera
struttura, ornata di elaborati motivi plastici e traforata da rosoni polibati, monofore, bifore e trifore.
Alla massiccia solidità e allo spazio concluso della costruzione romanica si sostituisce così lo slancio e la
leggerezza.
La planimetria delle chiese si complica: il transetto tende a ridursi, la parte absidale si allunga e presenta
spesso un vasto ambulacro con vaste cappelle radiali.
Le campate, in conseguenza del restringimento e dell’innalzamento, assumono pianta rettangolare, cosic-
chè gli interni acquistano unità spaziale e una visione in altezza e in profondità.
Tra gli edifici religiosi più segnificativi sorti tra il XII e il XIII secolo spicca NOTRE-DAME a Parigi.

NOTRE-DAME DE PARIS

La cattedrale di Notre-Dame
di Parigi, o più comunemente
Notre-Dame (ovvero “Nostra
Signora”, in riferimento alla
Madonna), rappresenta una
delle costruzioni gotiche più
celebri del mondo, oltre ad
essere una delle più grandi
di tutta la Francia, e rappre-
senta una delle prime appli-
cazioni dello stile gotico.
La chiesa, preceduta da un
tempio gallo-romano dedi-
cato a Giove, da una basilica
cristiana e da una chiesa ro-
manica, si trova nel cuore
della capitale francese, nella
piazza omonima.
La costruzione della catte-

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IL GOTICO CAPITOLO 7

drale ha inizio nel 1163, durante il regno di Luigi VII per volontà del vescovo de Sully.
Alla posa della prima pietra, partecipa addirittura il papa, Alessandro III, e per alcuni fu proprio lui a porre la
prima pietra per dare inizio alla costruzione.
I lavori di costruzione dell’interno terminano nel 1225, e la facciata principale, quella occidentale, con le torri
e il rosone, viene terminata nel 1250.
Nello stesso periodo gli architetti si accorgono che i due portali del transetto, in stile romanico, non armo-
nizzano con quello gotico dell’intera cattedrale, e ne iniziano la ricostruzione, insieme al consolidamento
degli archi rampanti, che manifestano segni di cedimento.
L’intera struttura viene conclusa dopo circa due secoli, precisamente nel 1345.

L’INTERNO

Notre-Dame è una chiesa a piante rettangolare con transetto interno ai muri perimetrali; lo spazio interno
è, infatti, caratterizzato dalla presenza di numerose cappelle laterali e radiali, ed è quindi articolato secondo
una pianta a croce latina, con cinque navate che si trasformano, nella zona absidale, in un doppio deambu-
latorio. La navata centrale è costituita da cinque doppie campate, definite da massicci pilastri circolari sui
quali sono impostati degli archi a sesto acuto.
Sopra le navate laterali più interne si trova il matroneo, schermato da eleganti trifore, e sormontato da
ampie bifore d’installazione successiva, una per ogni campata, che danno luce all’interno.
La copertura è costituita da volte a crociera esapartite da eleganti costoloni.
Particolari di rilievo sono i pilastri circolari e il matroneo, elementi tipici delle prime cattedrali gotiche.
La navata di Notre-Dame non risulta slanciata e luminosa come quella delle cattedrali del Gotico maturo,
in cui i pilastri, a fasci polistili, diventano più slanciati, e il matroneo è sostituito con una piccola teoria di
archetti denominata triforio.
Per ottenere una maggiore illuminazione, resa scarsa dalla presenza dell’alto matroneo, pochi anni dopo
la costruzione fu deciso di modificare il sistema delle aperture: così l’originale rosone e la piccola finestra
ogivale che si aprivano alla sommità, furono sostituiti dalle suddette bifore.
Lo spazio interno della cattedrale è molto dilatato per la presenza di ben cinque navate e delle cappelle
laterali, dove sono collocate numerose opere d’arte risalenti al Seicento e al Settecento, come l’altare, il
gruppo della Pietà, raffigurante la Madonna con Gesù e i re Luigi XIII e XIV ai lati, in atteggiamento di “son-
tuosa devozione”, la scultura della Vergine di Parigi, e numerosissimi bassorilievi.

L’ESTERNO

La facciata occidentale è uno degli elementi più conosciuti dell’intero complesso.


Essa è suddivisa in quattro livelli distinti:
1. I portali, fortemente strombati e caratterizzati dalla presenza di sculture di santi tra le modanature;
2. La Galleria dei Re;
3. Il rosone, affiancato da due finestroni ogivali;
4. Le due torri gemelle, raccordate tra loro dalla galleria delle chimere.

I PORTALI

IL PORTALE DELLA VERGINE

Il portale della vergine è il primo ingresso sulla sinistra, ed è interamente dedicato alla Vergine Maria. Nella
parte alta del timpano vediamo Maria, seduta alla destra di Cristo, mentre viene incoro-nata da un angelo.
Nella fascia centrale è rappresentata la deposizione di Maria dopo la sua morte, mentre nella parte bassa vi
sono tre profeti e tre re.

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CAPITOLO 7 IL GOTICO

IL PORTALE DEL GIUDIZIO UNIVERSALE

Questo portale si trova al centro della facciata e raffigura il Giudizio Universale.


Nella parte inferiore del timpano si notano i defunti mentre si rialzano dalle loro tombe; in quella centrale
ci sono San Michele e satana che con una bilancia soppesano i peccati e le virtù; alla loro destra ci sono le
anime salvate, alla loro sinistra i demoni con le anime dannate.
Nella parte superiore, infine, troviamo Gesù circondato da Maria, da san Giovanni e da due angeli che lo
supplicano di salvare le anime.

IL PORTALE DI SANT’ANNA

Il portale di Sant’Anna si trova nella parte destra della facciata ed è dedicato alla madre di Maria.
Il timpano raffigura nella fascia inferiore e centrale la vita di Maria dalla nascita all’annunciazione, fino
all’arrivo dei Re Magi, mentre nella parte più alta, al centro si distingue chiaramente la Vergine Maria seduta
su un trono che tiene in braccio Cristo da bambino; intorno ad essi vi sono due angeli, un vescovo e un re
che la tradizione ha da sempre associato al vescovo de Sully e al re Luigi VII.

LA GALLERIA DEI RE

Al di sopra dei portali, a 20 metri dal suolo, si trova la cosiddetta Galleria dei Re, una serie di ventotto statue,
alte ben 3,5 metri, rappresentanti i re di Israele e del Regno di Giuda.
Le statue, abbattute dai rivoluzionari nel 1789 che le credevano raffigurazioni dei regnanti francesi, sono in
realtà frutto di una restaurazione del XIX secolo.

IL ROSONE

Aperto al centro della facciata, il rosone ha un diametro di 9,6 metri.


Presenta vetrate policrome e fa da “aureola” a una statua della Vergine, anche questa ricostruita nel restauro
del XIX secolo.

LE TORRI

Le torri, alte 69 metri, sono una caratteristica ricorrente anche in altre cattedrali gotiche. Sono di forma
quadrangolare e presentano un’alta bifora ogivale per ogni lato.
Sono inoltre collegate da una galleria costituita da diverse state di chimere, spaventosi mostri mitologici
affiancati da bizzarre figure ghignanti e grottesche, comunemente note come gargouilles; essi hanno prin-
cipalmente la funzione di doccioni e sono frutto del restauro del XIX secolo.
Sul lato nord della cattedrale sono situati due portali che permettono l’ingresso lateralmente, dal transet-
to.
Il portale del chiostro ha, allo stesso modo di quelli sulla facciata, il timpano strutturato in tre livelli: nei
primi due partendo dall’alto è rappresentata la storia del diacono Teofilo; nel livello inferiore invece è scol-
pita la vita di Maria e dell’infanzia di Gesù. La porta rossa ha dimensioni ridotte rispetto agli ampi portali
d’ingresso e deve il nome al colore acceso dei suoi battenti.
Al centro del timpano è scolpita la Vergine, incoronata da un angelo mentre Gesù la benedica; ai lati sono
raffigurati Luigi IX e la regina Margherita di Provenza, i quali assistono inginocchiati.
Al di sopra dei portali si apre il rosone nord del transetto; Questo raffigura scene dell’Antico Testamento
ed è caratterizzato da raffinati disegni dove predomina il colore blu. Le linee di spinta degli stipiti sono
disposte a raggiera.
Sul lato sud, invece, è situato il Portale di Santo Stefano, ed è dedicato all’omonimo Santo e martire.
Sul timpano è rappresentata la vita del martire secondo gli Atti degli Apostoli, in cui si notano le scene del

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IL GOTICO CAPITOLO 7

processo, della lapidazione e della deposizione.


Sopra il portale si affaccia il rosone sud, raffigurante il “Trionfo di Cristo” attraverso scene del Nuovo Testa-
mento, è caratterizzato, al contrario di quello nord, da un predominante colore viola e da stipiti con linee di
spinta verticali ed orizzontali ben definite.
Un’altra caratteristica particolare della cattedrale è la guglia costruita al di sopra dell’incrocio tra navata e
transetto e restaurata anch’essa durante il XIX secolo.
Intorno ad essa vi sono le statue dei dodici apostoli, disposti, per ogni punto cardinale, in quattro gruppi
da tre.

IL DUOMO DI MILANO

Il Duomo di Milano, monumento simbolo del capoluogo lombardo, è dedicato a Santa Maria Nascente ed
è situato nell’omonima piazza nel centro della città.
Lo stile del Duomo, essendo frutto di lavori secolari, non risponde a un preciso movimento, ma segue piut-
tosto un’idea di “gotico” via via reinterpretata.
Nonostante ciò, il Duomo si presenta come un organismo unitario, che affascina e attrae l’immaginazione
popolare, in virtù anche della sua ambiguità.
Nel luogo dove sorge il Duomo, un tempo si trovavano l’antica cattedrale di Santa Maria Maggiore, catte-
drale invernale, e la basilica di Santa Tecla, cattedrale estiva.
Nel 1386 l’arcivescovo de’ Saluzzi promosse la costruzione di una nuova e più grande cattedrale che sor-
gesse sul luogo del più antico cuore religioso della città. Per il nuovo edificio s’iniziò ad abbattere entrambe
le chiese precedenti.
Nel Gennaio 1387 inizia la costruzione, che prevedeva un grandioso edifico al passo con le più aggiornate
tendenze europee, costruito in marmo di Candoglia, secondo le tecniche del gotico lombardo e le forme
architettoniche del tardo gotico.

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CAPITOLO 7 IL GOTICO

Inizialmente le fondamenta erano state preparate per un edificio a tre navate con cappelle laterali quad-
rate, i cui muri divisori potessero fare anche da contrafforti.
Si decise poi di fare a meno delle cappelle, portando il numero delle navate da tre a cinque, e venne delib-
erato l’ingrossamento dei quattro pilastri centrali.
A dirigere il cantiere furono chiamati numerosi architetti, i quali però restavano in carica per pochissimo
tempo.
La fabbrica andò quindi avanti in un clima di tensione, con numerose revisioni, fino al 1567, quando
l’arcivescovo Carlo Borromeo impose una ripresa solerte dei lavori, mettendovi a capo Pellegrino Tibaldi,
che ridisegnò il presbiterio, solennemente consacrato nel 1577, anno in cui finisce la costruzione della parte
interna della chiesa.
Per quanto riguarda la costruzione della facciata, viene ripresa dal Tibaldi nel 1580 e portata avanti da di-
versi architetti fino al 1805.
Questo è l’anno in cui, su istanza diretta di Napoleone, si riprese il completamento della facciata.
Il progetto venne finalmente concluso nel 1813 da Carlo Amati.

L’INTERNO

La chiesa ha una pianta a croce latina, con cinque navate e transetto a tre, con un profondo presbiterio
circondato da un deambulatorio, e con una zona absidale di forma poligonale. All’incrocio dei bracci si alza,
come di consueto, il tiburio.
L’insieme ha un notevole slancio verticale, caratteristica più transalpina che italiana, ma questo viene in
parte attenuato dalla dilatazione in orizzontale dello spazio e dalla scarsa differenza di altezza tra le navate,
tipico del gotico lombardo.
La struttura portante è composta dai piloni e dai muri perimetrali rinforzati da contrafforti, caratteristica
che differenzia il duomo dalle cattedrali transalpine, limitando, rispetto al gotico tradizionale, l’apertura dei
finestroni (lunghi e stretti), e dando all’insieme una forma prevalentemente chiusa, dove la parete è innan-
zitutto un elemento di forte demarcazione, sottolineata anche dall’alto zoccolo di tradizione lombarda.
Viene così a mancare lo slancio libero verso l’alto.
La navata centrale è ampia il doppio di quelle laterali, che sono di altezza leggermente decrescente, in
modo da permettere l’apertura di piccole finestre ad arco acuto, sopra gli archi delle volte, che illuminano
l’interno in maniera diffusa e tenue.
Molto originali sono i capitelli monumentali a nicchie e cuspidi con statue di santi e di profeti, o con deco-
razioni a motivi vegetali.

L’ESTERNO

Le pareti esterne sono animate da una fitta massa di semipilastri polistili che sono coronati in alto, al di
sotto delle terrazze, da un ricamo di archi polilobati sormontati da cuspidi.
Le finestre ad arco acuto sono piuttosto strette, poiché come si è detto, le pareti hanno funzione portante,
ad eccezione della zona absidale, traforata da tre enormi finestroni con nervature in marmo che disegnano,
nell’ogiva, i rosoni.
L’abside è inoltre inquadrata dai corpi delle due sagrestie, che, insieme ai contrafforti esterni, sono coronate
da guglie.
In alto, tra i contrafforti, di forma triangolare, si possono notare le finestre che illuminano le navate.
Sui contrafforti, inoltre, si distinguono statue coperte da baldacchini marmorei e 96 “giganti”, sui quali svet-
tano i doccioni figurati come esseri mostruosi.
La copertura a terrazze (pure in marmo) è un unicum nell’architettura gotica, ed è sorretta da un doppio
ordine incrociato di volte minori.
In corrispondenza dei pilastri si leva una “foresta” di pinnacoli, collegati tra di loro da archi rampanti. In
questo caso i pinnacoli non hanno funzione strutturale.
La facciata principale testimonia di per sé la complessa vicenda edilizia del complesso del Duomo, con la
sedimentazione di secoli di architettura e scultura italiana.
Cinque campiture fanno intuire la presenza delle navate, con sei contrafforti sormontati da guglie.

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IL GOTICO CAPITOLO 7

Presenta cinque portali con delle finestre soprastanti a ognuno di essi, un balcone centrale e tre finestroni
neogotici sulla parte più alta.
I basamenti dei contrafforti sono decorati da rilievi, così come pure i timpani dei cinque portali e delle quat-
tro porte in bronzo, e presenta sulle mensole dei finestroni statue di Apostoli e Profeti.

GIOTTO

La vita di Giotto Ambrogio di Bondone è stata oggetto di discussione per molti storici. Le notizie più certe
riguardano solo una piccola parte della sua vita privata.
La ricostruzione basata sulla verseggiatura che il Pucci fece della “Cronica” di Giovanni Villani narra che
nacque a Vespignano di Mugello nel 1267 da una famiglia di contadini che, come molte altre, si era inurbata
a Firenze e, secondo la tradizione letteraria, finora non confermata dai documenti, aveva affidato il figlio alla
bottega di un pittore, Cenni di Pepi, detto Cimabue, iscritto alla potente Arte della Lana, che abitava nella
parrocchia di Santa Maria Novella, anche se alcuni studiosi tendono a mettere in discussione la tradizione
letteraria che attribuisce a Cimabue la nomina di maestro di Giotto.
Questo però non mette in dubbio la collaborazione che ci fu poi tra i due artisti.
Certo è che i primissimi anni del pittore sono stati oggetto di credenze quasi leggendarie fin da quando egli
era in vita. La prima volta che Giotto venne ufficialmente nominato è in un documento datato 1309.
Persino la scoperta del suo talento, è riportata da Lorenzo Ghiberti e da Giorgio Vasari, e di lui scrisse anche
Dante Alighieri nella Divina Commedia e precisamente nella terzina dell’undicesimo canto del Purgatorio
che cita:

<<Credette Cimabue ne la pittura tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, sì che la fama di colui è scura.>>

Durante la sua formazione artistica, Giotto viaggiò molto, al seguito di Cimabue, infatti visitò le città di
Roma e Assisi. In quest’ultima intensificò la sua produzione pittorica, e ben presto egli iniziò a dipingere per
conto proprio.
Sono del 1290, le «Storie di Isacco» affrescate in Assisi, e sempre ad Assisi controllò l’andamento della deco-
razione della Chiesa Superiore di San Francesco. In breve tempo divenne a sua volta maestro e il suo stile
innovativo iniziò lentamente ad affermarsi, pur trovandosi ancora in minoranza.
Verso l’inizio del Trecento, nel fiorire dell’arte gotica, attese a Roma per il lavoro del ciclo papale nella Ba-
silica di San Giovanni in Laterano e ad altre decorazioni in occasione del Giubileo del 1300, indetto da Papa
Bonifacio VIII.
Fu una figura di spicco, artista affermato il cui capolavoro è la Cappella degli Scrovegni di Padova.
Nel nord dipinse, inoltre, opere oggi perdute, citate da Riccobaldo Ferrarese. Dal 1311 in poi Giotto tornò
a Firenze: la sua presenza in città è testimoniata dai documenti di alcune speculazioni finanziarie svolte da
un novero di avvocati (addirittura dieci) per suo conto. Nel 1327 s’iscrisse all’Arte dei Medici e degli Speziali:
all’epoca, dovette aver già concluso i dipinti della Cappella Peruzzi e Bardi nella Chiesa francescana di Santa
Croce, e il polittico francescano, connesso stilisticamente con questo ciclo pittorico e oggi smembrato in
vari musei; viene convocato inoltre a Rimini e a Padova.
L’anno successivo il pittore risulta impegnato in un lavoro a Napoli per Roberto d’Angiò, di cui però non è
rimasto nulla. Da Napoli si spostò nuovamente a Firenze solo quando fu nominato (12 aprile 1334) capo-
maestro dell’Opera del Duomo di Firenze.
Iniziati subito i lavori per il campanile, non portò mai a termine l’opera: morì, infatti, l’8 gennaio 1337.
Oltre alla quantità di opere, ammirevoli sono anche le qualità compositive con le quali Giotto espresse una
nuova concezione dello spazio.
Sempre più marginali sono gli elementi bizantini, sostituiti gradualmente con scenari e oggetti quotidiani
che non decontestualizzano il messaggio religioso, ma al contrario, lo focalizzano appieno.
Lo studio che però identifica Giotto come massimo esponente del Gotico italiano è quello basato sulla ric-
erca di una visione prospettica, non ancora geometricamente calcolabile e di conseguenza intuitiva.
Ne derivano una migliore disposizione spaziale, la volumetria dei corpi ottenuta grazie all’utilizzo di chiaro-
scuri, giochi di policromia e naturalezza espressiva.

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CAPITOLO 7 IL GOTICO

LE OPERE

IL PRESEPE DI GRECCIO

Datato intorno al 1292-1300, è un affresco realizzato per la Chiesa Superiore di San Francesco ad Assisi.
La rappresentazione nel presbiterio del presepe (invenzione tra l’altro propria del Santo) viene scandita su
tre piani: dal primo emergono la figura di San Francesco, nell’atto di adagiare il Bambin Gesù nella mangia-
toia, subito dopo in secondo piano sono collocati frati francescani, nobili e borghesi che prendono parte
alla vicenda con canti e preghiere.
Infine il terzo piano è occupato dalle donne che non potevano accedere al presbiterio e che quindi sono
costrette a rimanere in uno spazio marginale.
Un altro livello spaziale viene costruito dal pittore con l’inclinazione del crocifisso che, dando le spalle
all’osservatore pende sulla parte opposta al piano raffigurato. Innumerevoli le innovazioni in questo dip-
into che fornisce anche una testimonianza sociale dell’epoca.
I personaggi, lo stesso San Francesco non sono più figure eteree e immutabili tramandate dalla tradizione
bizantina, ma dinamiche, partecipi e vicine alla vita umana, seguendo così lo spirito francescano.
Purtroppo la pavimentazione e i piedi dei personaggi tradiscono la bravura di Giotto, lasciando percepire
le mancanze di prospettiva ponderata a carattere geometrico.

100
IL GOTICO CAPITOLO 7

LA PREDICA AGLI UCCELLI

È la quindicesima delle ventotto scene del ciclo delle Storie di San Francesco, contemporaneo all’opera
precedente.
L’episodio è tratto dalla serie della Legenda maior di San Bonaventura, scritta tra il 1260 e il 1263:

“Andando il beato Francesco verso Bevagna, predicò a molti uccelli; e quelli esultanti stendevano i colli,
protendevano le ali, aprivano i becchi, gli toccavano la tunica; e tutto ciò vedevano i compagni in attesa di
lui sulla via“ L’attenzione si focalizza sul Santo, rappresentato in età più matura rispetto alle altre opere, che
si avvicina alla natura armoniosa nella sua semplicità.
È evidente l’impressionante capacità dell’artista nell’unire gli elementi tecnici che rappresentano una vi-
cenda che nel quotidiano racchiude una straordinaria rivalutazione francescana dei valori cristiani, che si
manifestano grazie alla riscoperta della natura semplice, fatta di piccole cose da amare e da osservare.
La zona dell’affresco dove sono gli uccelli si presenta molto rovinata, forse a causa della tecnica “a secco”
utilizzata da Giotto per rifinire i particolari.

IL MIRACOLO DELLA FONTE

È un’opera la cui attribuzione a Giotto è stata riconosciuta da Lorenzo Ghilberti nel 1450.
La composizione è impostata su diagonali incrociate e nel punto in cui si incontrano, cioè il centro
dell’immagine, emerge la figura di San Francesco, il cui volto a sua volta è posto al centro di due rocce.
La mancanza di realismo del paesaggio, troppo sproporzionato rispetto ai personaggi, è però sviata dalla
policromia che plasma gli oggetti raffigurati e aggiunge volume alla rappresen-tazione.
Il risultato è comunque coerente allo stile ricercato ma al tempo stesso semplice dall’artista.

101
CAPITOLO 7 IL GOTICO

IL DONO DEL MANTELLO

È un episodio ripreso della Legenda Maior


in cui si racconta che Francesco, non an-
cora frate, incontra un cavaliere, nobile ma
povero e mal vestito.
Mosso dalla pietà il santo lo riveste col
suo mantello. Anche in questo caso non
mancano i problemi d’attribuzione, su-
perati però dagli elementi che riman-
dano all’apprendistato eseguito presso
Cimabue e di quelli che Giotto acquisì nel
corso della sua carriera.
L’essenzialità, la chiarezza espositiva
dei temi e dei personaggi conferiscono
all’affresco un certo realismo; il riferimen-
to alla vita quotidiana espresso grazie alla
scelta degli abiti conferisce al santo natu-
ralezza, umanità e una certa grazia negli
atteggiamenti, che sono tra le qualità più
per- sonali e alte della pittura, oltre ad es-
sere elementi assolutamente nuovi.
Questo affresco è piuttosto rovinato, c’è
un deterioramento evidente sopratutto
nel cavallo e nella tunica azzurra del santo, dove sono cadute le parti di colore stese a tempera.
Probabilmente si tratta di una ridipintura eseguita da Giotto a secco sull’affresco, dovuta a un ripensamen-
to. La tempera, che inizialmente aderisce all’affresco sottostante, con il tempo tende a sgretolarsi e cadere,
poiché non possiede la resistenza dell’affresco.

LA RINUNZIA DEI BENI

L’affresco che adorna la Cappella Bardi si trova a destra della Cappella Maggiore nella Basilica di Santa
Croce a Firenze. La cappella venne imbiancata infatti nel 1714 e riscoperta verso la metà dell’Ottocento e
vi sono rappresentati in sei scene gli Episodi della vita di San Francesco e figure di Santi francescani, che
riprendono aggiornandoli in senso più espressivo gli stessi temi della Basilica Superiore di Assisi.
La scena immortala la rinuncia di San Francesco ai beni terreni per seguire in modo completo e fedele gli
insegnamenti di Cristo, suscitando da una parte stupore impresso sui volti dei cittadini che prendono parte
alla vicenda, e dall’altra l’ira paterna.
Lo spazio è rielaborato in chiave moderna anche se la collocazione dei personaggi rimanda a una scissione
tra i valori temporali e quelli spirituali.

LE ESEQUIE DI SAN FRANCESCO

Venne dipinta da Giotto in S. Croce a Firenze fra il 1325 e il 1328, realizzato per conto dei Bardi, una potente
famiglia di banchieri fiorentini.
Nella scena del compianto emerge una concezione nuova della morte: pur nel dolore del distacco, gli at-
teggiamenti sono quelli di uomini che certo hanno perso un amico e ne sono disperati, ma rivelano inoltre
affetto e composta venerazione, come fossero sicuri del patrimonio di esperienza che egli ha lasciato loro.
Questi aspetti risultano ancora più evidenti se l’opera si mette a con-fronto con il Compianto del Cristo
morto, anzi, le opere identificano due modi opposti nell’affrontare, rielaborare e relazionarsi con il lutto.

102
IL GOTICO CAPITOLO 7

IL BACIO DI GIUDA O CATTURA DI CRISTO

Quest’opera racchiude la tensione che precede gli


eventi drammatici della Passione. L’attimo in cui
Giuda bacia il Cristo, come riportato dal Vangelo,
l’attimo in cui si scatena il conto alla rovescia per la
realizzazione del destino del Messia: il sacrificio, oc-
cupa lo spazio centrale, da cui a poco a poco si strin-
gono la folla e i soldati.

LA CROCE DI GIOTTO

È considerata un’opera fondamen-


tale per la storia dell’arte italiana,
in quanto l’artista approfondisce
e innova l’iconografia del Christus
patiens (già introdotta nell’arte
italiana nella seconda metà del
Duecento da Giunta Pisano e da
Cimabue). Dopo dodici anni di
restauro, è possibile rivedere il cro-
cifisso ligneo in S. Maria Novella
a Firenze, che Giotto realizzò per
la chiesa fiorentina tra il 1288 ed
il 1290, anni che si pongono nel
mezzo tra i suoi due interventi nel-
la Basilica superiore di S. Francesco
ad Assisi.
Giotto, infatti abbandonò
l’iconografia del Cristo inar-cato,
per dipingerlo in una posa più
naturalistica, con le gambe piegate
sotto il peso del corpo. Inoltre dis-
pose le gambe incrociate e bloc-
cate da un solo chiodo sui piedi,
in una maniera già usata da Nicola
Pisano nella lunetta della Deposiz-
ione nel portale sinistro del Duomo
di Lucca (1270 circa).
Durante il restauro dell’opera, con-
clusosi nell’autunno del 2001, sono
state evidenziate alcune partico-
larità rimaste, fino ad allora, scono-

103
CAPITOLO 7 IL GOTICO

sciute, tra cui l’estrema raffinatezza di una bottega che si avvaleva di maestranze esperte e raffinate e il
cambiamento in corso d’opera da parte di Giotto nella impostazione più allungata e reclinata della figura
di Cristo (fatto che comportò un cambiamento anche della struttura lignea già costruita).
Giotto realizza la grande croce (è alta circa 5,40 metri) per i Domenicani di S Maria Novella che puntano ad
una nuova sensibilità religiosa concretizzata nella fisicità del Cristo.
Il busto è piegato su stesso con le braccia che cedono sotto il peso del corpo, e così il ventre e le gambe
flesse in conseguenza di una resa realistica contrapposta ai precedenti che raffiguravano Gesù impassibile
e con il busto a formare con le braccia dei perfetti angoli retti.
Tale corporeità è un messaggio rivolto ad abbattere l’eresia catara, allora in ascesa a Firenze, e che condan-
nava proprio la realtà fisica come maligna a fare da contraltare al mondo spirituale.

COMPIANTO SUL CRISTO MORTO

È questo il momento in cui Giotto ha concentrato tutto il dramma e la sofferenza, forse in un modo supe-
riore a quello della crocifissione.
Questa volta il paesaggio diviene quasi un ulteriore personaggio, che partecipa e sottolinea il dolore per
la morte del Cristo. Il vertice della scena è posto in basso, dove appunto giace il corpo di Cristo retto dal-
la Vergine e altre tre donne, una delle quali
(probabilmente la Maddalena) è posta a
sostegno dei piedi sui quali sono evidenti i
segni della crocifissione.
A questi personaggi che formano un unico
blocco in primo piano si aggiungono la fig-
ura di San Giovanni: il discepolo prediletto
posto in piedi ma con il busto quasi parallelo
a quello di Cristo, esprime la sua disperazione
con un urlo visualizzato da quelle braccia che
si allargano nel vuoto.
L’affresco appartiene al ciclo dipinto da
Giotto nella Cappella della Santissima An-
nunziata all’Arena - così chiamata perché
sorgeva sui resti di un anfiteatro romano e in
un luogo sacro alla Vergine Annunciata - dal
1303 al 1305 su commissione di Enrico de-
gli Scrovegni, un personaggio di rango della
vita padovana. La decorazione si sviluppa su
quattro ordini.
Nel più alto sono raffigurate le “Storie della
vita di Anna e Gioacchino”, nei due centrali la “Vita di Cristo”, nell’inferiore monocromi con “Allegorie dei Vizi
e delle Virtù”, infine, nella grande parete sopra la porta d’entrata, il “Giudizio Finale”.

LA MADONNA D’OGNISSANTI

Fu commissionata dall’ordine degli Umiliati per adornare la chiesa di Ognissanti ed è citata come opera di
Giotto in un documento della Chiesa che risale al 1418.
Nell’ Ottocento venne spostato alla Galleria dell’Accademia e circa un secolo dopo nel 1919 venne posto (e
restaurato nel 1991) agli Uffizi dove è attualmente esposto.
La Madonna Ognissanti, la più vicina cronologicamente agli affreschi di Padova, eseguiti da Giotto intorno
al 1304-1306, è stata realizzata con pittura su tavola.
Al centro la Vergine è posta in trono come regina del cielo e circondata da angeli e santi che le rendono
omaggio mentre tiene in grembo il piccolo Gesù, re benedicente.
Il primo blocco formato dalla Vergine con il bambino è delineata dal trono rialzato da gradini e dalla cus-
pide, elemento tipicamente gotico.

104
IL GOTICO CAPITOLO 7

L’esile architettura del trono accoglie e dà risalto alla massa azzurra del manto, con l’azzurro che appunto
simboleggia la regalità; il chiaroscuro delle vesti modella la forma del corpo facendo emergere il seno e le
ginocchia leggermente divaricate, innovazione che poteva sembrare un’eresia agli occhi degli antichi fedeli
ma che in realtà conferisce alla Madonna un aspetto materno.
Il fondo d’oro trasmette la propria luminosità alle aureole dorate degli angeli e dei santi e ai colori chiari
delle vesti. L’equilibrio delle solide figure della Madonna e del bambino sono espressione di un nuovo lin-
guaggio, di una nuova religiosità che si avvicina con la sua umanizzazione all’uomo stesso.
Se confrontiamo la “Madonna Ognissanti” con un’altra “Maestà”, come quella che Duccio eseguì per la com-
pagnia dei Laudesi, in Santa Maria Novella nel 1285, è facile percepire le innovazioni giottesche: dove nella
prima la linea determina il movimento della figura ed ancora non osa tradire del tutto la tradizione tardo-
bizantina, nella seconda si contrappone la solida “massa” del volume giottesco.
Così come scrisse Cennino Cennini, pittore e scrittore suo contemporaneo, Giotto “rimutò l’arte di dipingere
di greco in latino e lo ridusse al moderno”.

105
CAPITOLO 8

IL RINASCIMENTO

107
CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

Il Rinascimento, fu caratterizzato da una grande stagione artistica, filosofica e letteraria sviluppatasi fra il
XV e XVI secolo. Il Rinascimento, vissuto dalla maggior parte dei suoi protagonisti come un’età di cambia-
mento, e di sviluppo delle idee umanistiche, nate in ambito letterario nel XIV secolo, porterà ad influenzare
per la prima volta anche le arti figurative e la mentalità dell’epoca. La stagione del Rinascimento fu segnata
dall’affermazione del cosiddetto Umanesimo, fondato sulla riscoperta e lo studio della letteratura classica;
nel termine Umanesimo dividiamo due grandi filoni: humanitas e divinitas.
L’ humanitas indica l’opposizione tra mondo umano-naturale e le Humanae litterae, cioè la riscoperta dei te-
sti greci e romani, da tempo dimenticati; la divinitas indica la scrittura dedita al mondo naturale e al mondo
divino. Il XV secolo fu un’epoca di grandi sconvolgimenti economici, politici, religiosi e sociali, infatti viene
definito come un periodo simile al medioevo, evidenziando il netto confine tra basso medioevo e età
moderna. Tra gli eventi di maggior importanza in ambito politico ci fu la questione orientale: si ha la rottu-
ra dell’Impero Ottomano e la nascita delle monarchie nazionali in Francia, Inghilterra e Spagna. In ambito
economico e sociale, si ha la scoperta del nuovo mondo e le successive espansioni coloniali, caratterizzati
dalla necessità di materie prime e da una politica espansionistica nel Mediteranno. In ambito religioso av-
venne la Riforma Cattolica, iniziata dalla Chiesa romana con lo scopo di eliminare il troppo potere religioso
da parte del luteranesimo e migliorare i tentativi di rinnovamento sia all’interno che all’esterno della chiesa
stessa. Nel XV secolo la geografia politica italiana iniziò a ruotare attorno a cinque Stati principali: Firenze,
Milano, Venezia, Napoli, Stato della Chiesa; ed è proprio il mecenatismo che caratterizzò l’Italia rinascimen-
tale grazie alle nuove funzioni delle corti, promuovendo la fioritura dell’arte; in quest’epoca verrà sfruttato
il territorio rendendo così possibile, l’accesso per la costruzione di palazzi e corti signorili. Nelle corti si
accentua l’importanza del cortigiano che, recandosi all’interno di esse, promuove la cultura del chierico, au-
mentandone il prestigio: è il mecenatismo a creare una sorta di competizioni fra le corti, che gareggiavano,
per ottenere il lavoro dell’artista più abile. All’inizio del XV secolo, la città di Firenze iniziava ad affondare le
sue proprie nella riscoperta dei classici iniziata già nel Trecento da Petrarca; infatti, nelle sue opere iniziò ad
accentuarsi l’idea al modo divino e quindi il successivo avvicinamento dell’uomo a Dio, in quanto essere
perfetto e solo da esso doveva cercare di imitarlo il più possibile. Firenze era in mano a un gruppo di potenti
famiglie all’interno del quale prevalsero nel 1434 la famiglia i Medici, cominciando l’era delle Signoria.

In questo periodo le città si trasformano in un tessuto più ampio e complicato, in cui vengono ampliate le
zone rurali per la costruzione di ospedali e di edifici monumentali. Un’altra importante linea di trasformazi-
one era quella delle iniziative di edificazione; i promotori erano in genere organi reli-giosi o altre associazi-

108
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

oni, come le Arti o corporazioni. Nel 1389 Cosimo de’ Medici iniziò la sua politica finanziaria, arricchendo il
potere della sua famiglia e celebrando opere architettoniche di sontuosi palazzi pubblici e privati, inneg-
giando il prestigio della sua casata. Dopo aver eliminato la concorrenza, spietata a quel tempo, diventò il
“proprietario” assoluto della città, promuovendo una politica di ampio respiro, grazie al suo potere incon-
trastato; inoltre, Firenze ampia città mecenate, sostenne artisti di alto calibro come Brunelleschi, Donatello,
Ghiberti, Leon Battista Alberti, Beato Angelico e molti altri.

The Renaissance

The renaissance was characterized like a great artistic season, philosophic and literary between XV and
XVI century; the renaissance, it been seen as an age of change and development of humanistic ideas, that
were born in literature environment and it will lead to influence for the first time also the figurative arts
and the mentally to that time. The season of Renaissance was marked by the affirmation of the so called “
Humanism” based on the discovery and study of classical literature; Humanism can also divided into large
sets: “divinitas and humanitas”:
-The humanitas indicates the oppositions between the human world and the natural world and were di-
scovered the Greek and Latin language, for ages they were forgotten;
-The divinitas indicates the writing used to natural world and the divine world in the XV century.
It was a time of great economic, politic, religious and social derangements, in fact, it is defined as a period
similar to the Middle Ages, pointing out the limit between the Late Middle Ages and the Modern Ages;
among the most important events in the political fields, there was the “Eastern question” : we have the bre-
aking of the Ottoman Empire and the birth of monarchies in France, England and Spain. In economic and
social derangements there was the discovering of new world and the colonial expansions characterized
by necessary of prime materials and by an expansionistic policy in the Mediterranean; in religious deran-
gements there was the “Catholic Reforms”, started by Roman church because she want deleted the strong
religious power by Lutheranism and improved the same church. In the fifteenth century Italian political
geography began to turn around in five states general: Florence, Milan, Venice, Naples, the Papal States, and
it is the patronage that characterized Renaissance Italy thanks to the new functions of the courts, always
promoting flowering more art; in this age will be exploited territory thus making it possible, access for the
construction of buildings and short noble. In short it accentuates the importance of the courtier, that going
into them, promotes the culture of the cleric, increasing their prestige and their patronage to create a sort
of competition between the courts, who raced to grab the ‘most famous artist. At the beginning of the fif-
teenth century, the city Florence began to land its roots in the rediscovery of the classics began as early as
the fourteenth century by Petrarch, in fact, in his work began to widen the idea to the divine way and then
the next man to approach God, as be perfect, just as it was trying to imitate as much as possible. Florence,
was in the hands of a group of large families, in which, prevailed in 1434, the Medici, ending the era of the
Republic to the rule. Is in this period that the city is transformed into a fabric wider and complicated, which
are expanded in the rural areas for the construction of hospitals and monumental buildings: another im-
portant line of transformation was that of building initiatives; promoters were generally religious bodies
or other corporations, such as the Arts in 1389, Cosimo de ‘Medici, began his financial policy, enhancing
the power of his family and celebrating architecture of sumptuous palaces public or private, chanting the
prestige of his family. After eliminating the competition - fierce at the time - became the “owner” of the
absolute city, promoting a comprehensive policy, with its unchallenged power: Also, Florence large city
patron, supported artists of the highest caliber as Brunelleschi, Donatello, Ghiberti, Alberti, Fra Angelico
and many more. The concept of rebirth, is designated at the beginning of the fifteenth century, to signify
the discovery of the classics and the recovery after the centuries “dark” Middle Ages. Generations age and
Renaissance humanist mark with respect to what a distance ‘”middle age” and the need to reconnect tea-
ching instead of the greek world - Latin. The hallmark of the season, artistic and cultural renaissance is just
the recovery of ideals and forms of art and ancient literature, that the Middle Ages, according to historians,
was sentenced to a long hibernation. The Renaissance was essentially a literary and artistic movement, but
at the same time it presents its custom components, taste, thought, ethics, that is closely connected with
the general transformation of society after the filming of trade, the great geographical discoveries , astro-
nomy and mathematics. So in Italy, Machiavelli and Guicciardini outlined the history and political science as
autonomous, while others, contributed to the birth of a modern pedagogy. In Europe we have theoretical

109
CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

exponents of the highest caliber as in the Netherlands, Erasmus of Rotterdam, while in England, More, but
let’s not forget an essay by Jacob Burckhard, which emphasizes the true meaning of rebirth and renewal.
The first systematic exposition of the concept “born again” before the nineteenth century, being already in
the literary work of

IL CONCETTO “RINASCITA” E I CARATTERI DELL’ARTE

Il concetto di rinascita, viene adottato agli inizi del XV secolo per significare la scoperta dei classici e la
ripresa dopo i secoli “bui” del Medioevo. Le generazioni dell’età umanistica e rinascimentale segnano un
notevole distacco rispetto all’“età di mezzo” e l’esigenza di ricollegarsi invece all’insegnamento del mondo
greco-latino. A caratterizzare la stagione artistica e culturale del Rinascimento è proprio il recupero degli
ideali e delle forme dell’arte e della letteratura antica, che il Medioevo, secondo gli storici, aveva condannato
a un lungo letargo. Il Rinascimento fu sostanzialmente un movimento artistico e letterario, ma esso pre-
senta contempo-raneamente proprie componenti di costume, di gusto, di pensiero, di etica, per cui appare
strettamente connesso con la generale trasformazione della società dopo le riprese dei traffici commerciali,
le grandi scoperte geografiche, astronomiche e matematiche. Così come in Italia, Machiavelli e Guicciar-
dini delinearono la storia e la politica; in Europa abbiamo esponenti teorici di alto calibro come nei Pesi
Bassi, Erasmo da Rotterdam: ma non dimentichiamo un saggio scritto dallo svizzero Jacob Burckhard, che,
sottolinea, il vero senso della rinascita e del rinnovamento. La prima esposizione sistematica del concetto
“rinascita” precede il XIX secolo, tro-vandosi già nell’opera letteraria di Giorgio Vasari, l’artista-scrittore del
Cinquecento che più degli altri espresse l’orgoglio toscano del recupero degli ideali e delle forme dell’arte
antica, individuandone le radici nella pittura di Giotto e inneggiando insigni maestri, come Brunelleschi,
Donatello, Masaccio, che fecero di Firenze, una delle città più invidiate dal punto di vista culturale, sociale
e soprattutto artistico.

La periodizzazione del Rinascimento viene fatta coincidere con l’anno 1401, anno del concorso per il Bat-
tistero di Firenze. Ma come fine di questo periodo artistico, viene designato il 1564, anno della morte di
Michelangelo.

LO STUDIO E LA RICERCA DELLA DIVINA PROPORTIONE

Il Rinascimento, come era già accaduto durante


l’età classica, applicò all’architettura proporzi-
oni che implicarono precisi rapporti matemati-
ci e soprattutto, nel corso degli anni, proseguì
l’obbiettivo di un corretto utilizzo degli ordini
architettonici greco-romani. Questi furono adot-
tati, in un primo tempo, per un’esigenza di ordine
estetico; ben presto divennero uno strumento
indispensabile per ordinare e gerarchizzare gli
spazi architettonici. Un edificio si può definire
“classicistico” quando le sue membrature e i suoi
elementi decorativi derivano, direttamente o in-
direttamente, dal vocabolario architettonico, pro-
veniente dal mondo classico. Le membrature sono
le parti dell’organismo costruttivo o compositivo
di un complesso architettonico, con funzioni ben
definite e abbastanza identificabili grazie alle sue
caratteristiche importanti e salienti: in genere
non si hanno dubbi nel riconoscere elementi
classici da quelli gotico-rinascimentali. Quindi,
Leonardo, Uomo vitruviano, 1490 ca. Venezia, Galleria dell’Accademia

110
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

si può definire che un edificio sia davvero classico solo quando mantiene e presenta un’armonia delle
parti suscettibile di dimostrazione: cioè quando non solo ripropone le forme, ma rispetta anche le regole
dell’architettura classica. Un edificio classico come il Partenone è infatti un edificio soprattutto armonico,
cioè ben proporzionato tra le sue componenti, modulato come una composizione musicale, ben artico-
lato dai suoi “strumenti”. Le proporzioni corrispondenti agli intervalli musicali vengono così trasposte nella
progettazione degli edifici divenendo la base di veri e propri reticoli modulari, così come un’orchestra ac-
corda gli strumenti sulla nota “la” per poi intonare, attraverso intervalli armonici, accordi che suonano bene
all’orecchio. La sezione aurea suscitò grande interesse tra gli artisti e i matematici del rinascimento, tra cui
Leonardo da Vinci, Piero della Francesca e Leon Battista Alberti; era allora nota come “divina proporzione”
e veniva considerata quasi la chiave mistica dell’armonia nelle arti e nelle scienze. Altri teorici preferirono
legare le proporzioni dell’architettura a quelle del corpo umano, sulla scorta delle teorie di Vitruvio; nel suo
trattato “De Architectura”, teorizzava, che l’uomo dalle proporzioni perfette era inscrivibile, in piedi e con le
braccia aperte in un cerchio ed entro un quadrato.

Magistrale, è la teoria adoperata da Leonardo da vinci, che ne offrì, l’ interpretazione grafica nel 1490. In
definitiva gli artisti rinascimentali, intendevano concepire la perfezione come una realtà estetica superiore
ed esprimibile solo dalle correzioni delle proporzioni e con l’obbiettivo di perfezionare il metodo della loro
rappresentazione. Ma siamo ben consapevoli che gli artisti del Quattrocento si e-rano solo allontanati dalla
realtà di ogni giorno, illusi di poterne creare una del tutto personale; d’altronde non si è riuscito ancora a
“creare” l’“uomo perfetto”: ESISTERÀ?...

LA PROSPETTIVA: UNA “FINESTRA” APERTA AL MONDO RINASCIMENTALE

Prospettiva è una parola che deriva dal latino perspectiva


e che ha la sua radice nel verbo prospicere, “vedere ac-
canto”, o secondo alcuni “vedere attraverso”. Molti critici
si sono chiesti se la prospettiva sia il sistema universale e
corretto di raffigurazione dello spazio, una tecnica salda-
mente fondata, sulla conformazione del nostro occhio e
sulle leggi della geometria o se invece sia un prodotto cul-
turale, un codice creativo, legato solo alla percezione di un
determinato codice interpretativo. Ma il termine indica un
metodo scientifico di rappresentazione tridimensionale,
cioè una serie di regole geometriche e calcoli matematici
che permettono di rappresentare su una superficie piana
di oggetti tridimensionali. Da un punto di vista stretta-
mente disciplinare, la prospettiva, fa parte di un libro la
cui trattazione matematico-geometrico, consolida i prin-
cipi della geometria solida. Fino alla fine del XIV secolo, gli
artisti utilizzavano metodi intuitivi per la rappresentazi-
one delle loro opere monumentali, basandosi su suppo-
sizioni. Fu l’architetto fiorentino Filippo Brunelleschi, che
con una serie di procedimenti attuati, fra il 1414 e il 1416,
mise a punto le esatte leggi della prospettiva. Prima di lui,
le proporzioni matematiche con cui gli oggetti percepiti
diminuiscono con l’aumentare della distanza, non erano
noti: gli artisti non potevano rappresentare un filoni di al-
beri, che via via svanivano all’orizzonte... In particolare nel
1416, non possedendo testi sull’argomento, Brunelleschi
riprodusse due tavole di legno - oggi perdute - su una la
Veduta di Piazza della Signoria a Firenze con Palazzo Vec-
chio e sull’altra una Veduta del Battistero, disegnate os-
servandole da un’angolazione fissa. Si trattava di un passo
fondamentale in cui tutte le linee di fuga, convergevano

111
CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

verso un unico punto centrale. Il sistema riproponeva l’esigenza di rappresentare non solo la profondità, ma
anche le dimensioni pro-porzionali degli edifici, secondo precise norme geometriche, le due tavole, dove-
vano essere in uno specchi attraverso un foro posto nel retro, in modo tale che l’occhio dell’osservatore,
risultas-se allineato con il centro della composizione. Ecco in che cosa consiste la geniale intuizione di
Brunelleschi: se chiudiamo un occhio e ci poniamo, immobili, a una certa distanza dall’oggetto, le rette
parallele, al piano della visione e orientate verso lo sfondo, sembrano convergere verso un unico punto
all’orizzonte, il punto di fuga, che corrisponde al punto di vista dell’osservatore.
Indicazioni precise sull’argomento brunelleschiana, si trovano nella prima trattazione a noi giunto, ossia il
trattato De pictura, dove nel 1436, l’architetto Leon Battista Alberti esplicitò le regole del nuovo metodo. La
prospettiva centrale per l’Alberti, è l’immagine ottenuta intersecando con un pia-no la “piramide visiva” tale
piano è posto, ovviamente, tra l’osservatore stesso e l’oggetto.

Nel disegno, l’effetto di profondità dello spazio, è ottenuta con il progressivo decresci mento della gran-
dezza dei corpi e con la convergenza dell’unico punto di fuga delle linee rette, che nello spazio risultano
parallele tra di loro e perpendicolari rispetto all’osservatore. Con la prospettiva, la concezione filosofica del
mondo e dello spazio si fuse con la tecnica della rappresentazione. La natura matematica quindi, astratta e
convenzionale, della prospettiva rinascimentale determinerà l’assoluta convenzionalità della realtà rap-
presentata dal piano, che è molto diversa da quello che i nostri occhi percepiscono mentre, lo spazio,
viene inteso come entità astratta, geometrica e isotopa, cioè fisicamente uguale in tutte le direzioni. La
prospettiva rinascimentale fu insomma molto più di un fortunato sistema di rappresentazione; fu, da una
parte, osservazione, indagine, studio della natura e dall’altra, intima introspezione attraverso la prospettiva,
l’artista rinascimentale trasformò la semplice visione in conoscenza.

FILIPPO BRUNELLESCHI

Filippo Brunelleschi, per esteso Filippo di Ser Brunellesco Lapi, nasce a Firenze nel 1377. Suo padre, Brunelle-
sco Lippi, era un notaio e permise a suo figlio di apprendere non solo una cultura di tipo umanistica ma
anche matematica. La sua formazione artistica avvenne nella bottega, dapprima lavorando come orafo
e scultore e poi successivamente si dedica allo studio dell’ingegneria e dell’architettura. A proposito dei
diversi studi che ha fatto,egli viene ricordato soprattutto perché fu l’inventore della prospettiva lineare,
poiché fino a quel momento vi era stata soltanto un tipo di prospettiva intuitiva. L’utilizzo della prospettiva
lineare venne attuata per la prima volta dall’architetto in età giovanile, quando egli dipinse due tavolette
raffiguranti una veduta di Piazza della Signoria con Palazzo Vecchio e la Loggia, ed una veduta del Battis-
tero attraverso la porta centrale del Duomo, dove a quest’ultima venne fatto un foro di dimensioni ridotte
sul davanti rispetto al dietro. Lo scopo di quest’apertura sta nel poter porre l’occhio dietro alla tavoletta e
vedere, mediante uno specchio posto di fronte, la riflessione dell’immagine in essa rappresentata. In questo
modo, Brunelleschi mette in pratica la visione della sua prospettiva e l’utilizzo dello specchio serve a di-
mostrare la precisione matematica della sua scoperta.

Brunelleschi emerge per la prima volta nel 1401, quando partecipa al concorso per la decorazione della
porta del Battistero di San Giovanni a Firenze dove verrà sconfitto dal Ghiberti. Dopo questo concorso per
un periodo non si hanno molte notizie. Secondo il biografo Manetti Brunelleschi in questo arco di tempo
sarebbe andato a Roma, dove avrebbe approfondito i suoi studi del periodo classico e sui diversi metodi
di costruzione degli antichi. Ritornato a Firenze, si diede da fare nel costruire diverse opere. Nel 1418 parte-
cipò ad un concorso dove presentò un progetto per la Cupola di Santa Maria del Fiore che sbaragliò tutti
gli avversari, compreso il Ghiberti. Dopo la costruzione della cupola costruì diversi monumenti: l’Ospedale
(o Spedale) degli Innocenti (1419-1444), la chiesa di San Lorenzo(1420-1470), la sacrestia vecchia di San
Lorenzo (1420-1429), la cappella de’ Pazzi in Santa Croce (1430-1461) e la chiesa di Santo Spirito (progetto
nel 1436, ma inizio lavori 1444). Ovviamente tutte queste opere,sono contrassegnate da un attento studio
della prospettiva. Morì il 15 Aprile nel 1446 e fu sepolto nella basilica che lui stesso rese così importante.

112
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

Filippo Brunelleschi or Filippo ser Brunelleschi Lapi was born at Florence in 1377; his father, Brunelleschi
Lippi, was a notary and his artistic formation happened in shop at first working like goldsmith and sculptor
and after studied engineering and architecture. Brunelleschi issues for the first in 1401 when he participat-
ed at the competition for the decoration of the Baptistery’s door at Florence where he will be defeated by
Ghiberti. After this competition we haven’t got many news: in the 1418 he participated at one competition
where showed a project for the Santa Maria del Fiore’s dome that slated all the opponents including the
Ghiberti. After the building of the dome he built different monuments like the Ospedale degli Innocenti or
the Saint Lorenzo’s church, the old sacristy of San Lorenzo, the Saint Spirit church and so on..., all this works
are marked by an careful study of prospective. He died in 15th April 1446 and was buried in the church that
himself built.

IL SACRIFICIO DI ISACCO

Nel 1401 I Consoli dell’Arte dei Mercatanti indissero un con-


corso per la realizzazione della seconda porta del Battistero
di San Giovanni a Firenze, dove ai partecipanti venne chiesto
di realizzare una formella che raffigurasse il sacrificio di Isacco.
Tra i partecipanti ci furono anche Brunelleschi e Ghiberti, e fu
quest’ultimo a vincere il concorso. I progetti di Brunelleschi e
Gòhiberti sono molto differenti: il primo vuole dare un antici-
po della cultura innovativa umanistica, l’altro rimane vincola-
to ancora allo stile gotico. Brunelleschi divise la scena in due
zone orizzontali, con le figure che occupano tutto la spazio
disponibile. In questa formella Isacco è triste e viene sorretto
dal padre,che sta per compiere il sacrificio di accoltellare il
figlio,ma viene bloccato dall’angelo arrivato in aiuto.
Nella formella viena eliminata la paura del vuoto e nello stes-
so tempo tutti gli elementi della parte superiore convergono
verso un unico punto rappresentato dalla mano dell’Angelo
Scultura di Isacco, scultura bronzea, 1401, Firenze che energicamente afferra il braccio destro di Abramo facen-
dosi fulcro di un’azione carica di energia e di rapidità fulmin-
ea; mentre nella parte inferiore del rilievo colloca senza alcun legame compositivo col nucleo centrale il
caprone del sacrificio, i due servi e l’asino. Le figure sono reali, immense e l’azione è segnata da forze che si
contrappongono. Invece Ghiberti è meno sensibile alla violenta drammaticità dell’episodio e contrappone
una formella dall’insieme più fuso ed unitario, senza fratture, ma con uno stile dolce e ancora molto vicino
al gotico, in quanto i suoi personaggi sono molto statici ma ugualmente reali.

The Sacrifice of Isaac


in the 1401 the consuls of the merchants declared an art competition for the marking of the second door
of the Baptistery where to the participants they asked to get to a panel, representing the sacrifice of Isaac;
among the participants there were also Brunelleschi and Ghiberti, won the competition Ghiberti. The proj-
ects of Brunelleschi and Ghiberti are a lot of different:
- Brunelleschi would like to give an advance of the humanistic culture of innovation;
- Ghiberti remains to the Gothic style.
Brunelleschi divided the scene in two horizontal zone with the figure that occupied all the space available.
In this panel Isaac is sad and is supported by the father that is about to complies the sacrifice of stubbing
the son but is block by the angel come to help. In the panel is delete the far of the vacuum and the some-
times all the elements of the upper part converge towards the some point represented by the hand of the
angel that energetically catches the right arm of Abram becoming the fulcrum of the action, full of energy
and lightning-quick: but while, in the lower part, high ground places without compositional links. The bill
goat of the sacrifice, the slavers and the donkey. The figure are real and the action is marked by opposing
forces; beside Ghilberti is less sensitive in front to the violence of the episode but with a sweet style and a
lot of rear at the Gothic style because his characters are static but equally real.

113
CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

SANTA MARIA DEL FIORE

Una delle imprese costruttive più significative di Filippo Brunelleschi fu senza dubbio la cupola di Santa Ma-
ria del Fiore, Nel 1404 l’artista comincia a organizzarne i lavori che incominceranno nell’estate del 1420 e
terminarono nel 1436. La storia dell’edificio è un po’ particolare in quanto la struttura originaria era quella
di una cattedrale paleocristiana i cui lavori erano rimasti incompiuti al livello del tamburo, che aveva forma
ottagonale, poiché si presumeva che avendo costruito la cupola questa sarebbe crollata assieme all’intero
edificio. Quindi il problema del Brunelleschi era quello di alleggerire la cupola e l’architetto, dando prova del
suo ingegno, ci riuscì. La magnificenza della struttura già si avverte salendo i gradini che dalla chiesa condu-
cono al ripiano su cui si imposta la lanterna. Dalle scale si giunge al ballatoio che dà sull’immenso vuoto su cui
incombe la grande mole concava della cupola. Proseguendo si arriva in un corridoio e ci si rende conto che
la cupola è costituita da due cupole distinte, una interna spessa 2 metri e una esterna di 80 cm... Per costruire
una cupola così grande bisognava limitare la forza di gravità per equilibrare lo scarico dei pesi e ottenere
slancio verso l’alto. Proprio per questo motivo l’architetto adotta il sistema della doppia calotta. Le due calotte
sono collegate da otto grandi costoloni d’angolo e da sedici costole intermedie disposte lungo le facce delle
vele, inoltre le calotte sono concentriche e sono separate da un intercapedine, che presenta degli oculi sulle
parti più esterne che danno luminosità. Fu Brunelleschi a volerla così per conservarla dall’umido, infatti le due
calotte sono separate da uno spazio vuoto, e perché sembrasse più magnifica e gonfiata. Inoltre Brunelleschi
progetta di costruire la cupola eliminando l’impalcatura lignea a centine e sostituendola con un modello di
mattoni fatti anziché di malta, di argilla. Questi mattoni vennero disposti a “spina di pesce”, una disposizione
tipica dell’età romana a cui Brunelleschi trae spunto dal Pantheon. Con questa struttura ogni mattone scarica
il proprio peso su quello precedente, e l’ultimo sulla base della cupola e in questo modo si venivano a creare
spazi tra i mattoni di una volta e quelli della volta accanto. Questi spazi vennero colmati da elementi che
collocati fra una vela ed un’altra bloccavano le spinte laterali dei mattoni. Riassumendo l’intera struttura è
formata da 24 contrafforti, di cui 8 si trovano sui vertici della base ottagonale, e questi contrafforti angolari si
affacciano nei costoloni che, adornando il guscio dell’estradosso della calotta esterna,dando un certo ritmo.
Quindi l’intera cupola viene decorata dai costoloni bianchi che si alternano tra il rosso dei mattoni. In alto le
due cupole si avvicinano e formano il serraglio, una struttura di otto stanze, che fa da base alla lanterna.
Quest’ultima non è soltanto un elemento decorativo, ma svolge una funzione strutturale,in quanto serve
a controbilanciare le spinte verso l’alto dei contrafforti, perfezionando l’equilibrio di tutta la struttura. La

Basilica di Santa Maria del Fiore, 1296-1436, Firenze Ricostruzione interna della cupola

114
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

spinta dei contrafforti viene aiutata da materiali che man mano vanno verso l’alto diventano più leggeri:
pietra, mattone, tufo. Inoltre bisogna sottolineare la presenza di conoscenze matematiche nella struttura
della cupola da parte del Brunelleschi, in quanto per dare per dare l’effetto prospettico della profondità la
misura delle asse centrale è uguale alla lunghezza delle navate che si sviluppa sia in orizzontale (navate)
che in verticale (cupola).Tutto ciò è stato fatto per rendere equilibrato e armonioso l’aspetto della Cupola
del Duomo di Firenze.

One of the most important construction composed by Filippo Brunelleschi was undoubtedly the dome of
Santa Maria del Fore; in 1404 the artist began to organize the works which will begin in the summer of 1420
and ended in 1436. The history of the building is a bit special because the original structure was that of a Chris-
tian cathedral whose works were unfinished at the level of the drum: then the problem of Brunelleschi was to
light the dome and the architect succeeded.
The structure is magnificent in fact, the stairs you reach the balcony overlooking the immense empty: after,
you come in a hallway and you realize that the dome is made up of two distinct domes, a two-meter thick
internal and one external eight centimeters; to build a dome so great need to limit the force of gravity to
balance the discharge of the weights and detain upward monument; for this reason the architect adopts the
system of the double shell. The two shell are connected by light large ribs and by sixteen ribs disposed along
the faces of the sails separated by on interspaced to keep it damp. Brunelleschi also plans to build the dome
eliminating the wooden scaffolding to ribs and replacing it with a model of bricks; these bricks were building
to a typical arrangement of the roman building with this structure each brick download its own weight on
the previous one of the last on the base of the dome in this way you were to crate spaces between the bricks
than once and those of the next time. Summering the entire structure is composed of twenty-four buttressed,
of which eight are located on the vertices of an octagonal base and these buttresses are surfacing in the ribs
that adorn the shell of the cap foreign giving a certain rhythm. Up the two domes approach and form the me-
nagerie on light-room, which is the base of the lantern; the lantern fulfils a structural function since it serves to
perfect the balance of the whole structure. Everything was done to make balanced and harmonious appear-
ance of you dome of the cathedral of Florence.

OSPEDALE DEGLI INNOCENTI

L’Ospedale degli Innocenti venne


istituito nel 1419, per volere
dell’Arte della Seta, con lo scopo
di ospitare i bambini abban-
donati ed educarli ad un mest-
iere. Ai giorni nostri l’edificio è
un’istituzione pubblica, che oltre
a fornire sussidi per l’infanzia e
le famiglie, è un luogo di ricerca
e documentazione. L’Ospedale, o
Spedale, degli Innocenti di Firenze
è stato realizzato da Brunelleschi
nel XV secolo e sorge nella Piazza
SS. Annunziata. Brunelleschi non
voleva sovrastare questa piazza
con un edificio molto alto,quindi
non sviluppò l’Ospedale Scultura di Isacco, scultura bronzea, 1401, Firenze
verticalmente,bensì orizzontal-
mente. Lo schema dell’Ospedale
degli Innocenti riprende la struttura architettonica tipica dei “Spedali” medievali, con una pianta molto
semplice. La facciata è ripartita in due parti mediante cornici ed è definita, in basso, al basamento, con 9
gradini. Questi 9 gradini che slanciano la costruzione verso l’alto, simboleggiano l’ascesa graduale verso la
purificazione. Il porticato, lungo 71 metri, viene delimitato da colonne corinzie che formano 9 archi semicir-

115
CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

colari. Ogni 2 arcate vi sono dei tondi in terracotta policroma invetriata, realizzati da Andrea Della Robbia
nel 1478, cioè successivamente alla realizzazione della struttura. Nei tondi sono raffigurati dei putti in fasce
(gli”innocenti”, cioè i bambini abbandonati).
Al di sopra del porticato troviamo la trabeazione, formata da una sovrapposizione di spessori che vanno
diminuendo dal basso verso l’alto, in modo da distribuire il peso sulle colonne in modo non esagerato. Al
di sopra del marcapiano vi sono 9 finestre timpanate che slanciano la costruzione verso l’alto ripetendo la
stessa seria ritmica degli archi sulla parte inferiore,quindi ritroviamo una finestra in corrispondenza di cias-
cuna arcata. È da evidenziare il continuo ritorno al numero 9: esso sta indicare il quadrato del numero per-
fetto che è il 3. Alla base della progettazione dell’edificio, ma anche in tutte le altre opere dell’architetto, si
trovano ragioni metriche,di armonia musicale; metro dell’architettura, come negli edifici antichi, è il modu-
lo, ovvero un sistema di regole che stabilisce rapporti proporzionali tra le parti di una costruzione, descritto
nell’opera del romano Vitruvio e ripreso completamente da Brunelleschi. Infatti l’intera si struttura si fonda
sul modulo che in questo caso è la distanza tra le colonne che sorreggono l’arcata. A questa unità di misura
si rifanno tutte le altre distanze che sono multipli o frazioni di essa(per esempio l’altezza delle colonne è pari
ad un modulo). Essendo poi la larghezza del loggiato uguale al modulo, le campate sono dei cubi perfetti.
Inoltre l’architetto per non rovinare l’effetto prospettico, anziché delle volte a crociera, poiché gli angoli di
45 gradi dei costoloni della campate avrebbero rovinato la visione geometrica della piazza, utilizza volte a
vela in modo tale che le arcate della facciata si possano sovrapporre a quelle della parete. In questo modo la
struttura appare armonica, ordinata e corrispondente in ogni sua parte. I colori stessi, la pietra serena grigia
e l’intonaco bianco, sono organizzati in modo da creare una bicromia simmetrica e ben calibrata.

Ospedale degli Innocenti


The Ospedale was built in 1419, thanks to Arte della Seta, with the purpose of hosting the abandoned
children and educate them in a trade; The ospedale was created by Brunelleschi in the fifteen century and
stands in the square’s Santa Annunziata. Brunelleschi would not exceed its height with the square: then he
built the Ospedale not vertically but horizontally. The facade is made up of two parts connected with frames
and raised by nine steps: they highlight the body’s building up, symbolizing the ascent to the purification.
In each of the two arches are round depicting Putti (they represented babies that were abandoned). Above
there are nine windows and it is evident the continued adherence to the number nine that represented the
square of the number perfect, that is the three. Brunelleschi himself finally studied the canons harmonic
and metric established by Vitruvius.

BASILICA DI SAN LORENZO

San Lorenzo è una delle più significative chiese rinascimentali fiorentine e la sua vicenda costruttiva segna
e testimonia la fortunata ascesa della famiglia Medici. La basilica sorge sul luogo di una delle più antiche ch-
iese di Firenze, risalente al secolo IV e ricostruita in forme romaniche nel secolo XI. Il primo progetto di am-
pliamento della chiesa romanica risale al secondo decennio del Quattrocento: fu commissionato a Filippo
Brunelleschi da Giovanni de’ Medici, padre di Cosimo il Vecchio e iniziatore della dinastia medicea. L’edificio
ha una pianta a croce latina, il cui interno è diviso in 3 navate ed ogni navata è composta da arcate: tutto
questo, grazie anche ai candidi colori, crea un’atmosfera suggestiva. Qui abbiamo un pavimento diviso in
riquadri da lunghe fasce di pietra longitudinali che assieme al soffitto a cassettoni servono a creare un ef-
fetto prospettico. Tra ogni colonna,che è di stile corinzio, e ogni arcata si ritrova un elemento innovativo
ovvero, il dado brunelleschiano, che serve a spezzare lo slancio verticale e a rafforzare il piano orizzontale,
unendo le due navate. Per quanto riguarda l’esterno troviamo una facciata semplicissima, con tre portali
di piccole dimensioni, uno per ogni navata. Da evidenziare che successivamente che Michelangelo volle
completare la facciata, ritenuta troppo semplice. Ma il progetto era abbastanza complesso da realizzarsi.
Proprio per questo motivo si dice che la facciata della Basilica di San Lorenzo sia caratterizzata dal “non
finito” di Michelangelo Buonarroti. Di particolare importanza vi è anche la Sagrestia Vecchia della Basilica,
nonché tomba della famiglia Medici. La cappella, dedicata a San Giovanni Evangelista, è strutturata come
uno spazio cubico, coperto da cupola emisferica a ombrello, ed è divisa in 12 spicchi da costoloni.
Brunelleschi si trovò nella condizione di dover risolvere il rapporto fra spazi strutturalmente analoghi. Egli
accostò due vani a base quadrata, ma di diversa altezza: uno inferiore che è un cubo di 11,5 mt e uno

116
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

superiore occupato dalla cupola


ad ombrello. La parte inferiore è
costituita da lesene angolari che
reggono un architrave, base per
gli archi semicircolari. In questa
struttura le lesene non hanno
la semplice funzione decorativa
bensì servono a mettere in relazi-
one le pareti con la volta. Le pa-
reti della sagrestia, unite dalla
trabeazione continua, sono scan-
dite da paraste corinzie, archi in
pietra serena, che sottolineano
le forme geometriche sulle quali
gioca l’intero progetto: quelle del
cerchio e del quadrato. Anche le
decorazioni in stucco policromo,
realizzate da Donatello, sono in-
Basilica di San Lorenzo, 1421-63, Firenze
scritte in queste forme geomet-
riche. Agli elementi orizzontali e
verticali del vano inferiore si van-
no a sostituire quelli circolari del vano superiore. Questi elementi sono, per esempio, i tondi delle vele an-
golari, decorati a bassorilievi invetriati dai fratelli della Robbia: il tondo della lanterna al centro della cupola,
la cupola stessa, le conchiglie agli angoli dell’abside. Infine ritroviamo lo stemma dei Medici, l’elemento
decorativo più importante.

Basilica di San Lorenzo


San Lorenzo is one of the most important Florentine Renaissance churches and was a project commis-
sioned by the Medici family. The basilica stands on the site of one of the oldest churches in Florence, dating
from the fourth century and rebuilt in the eleventh century, was commissioned by John De Medici. The
building has a Latin cross plan with three naves each consisting of arcs. The floor is formed by long strips
of stone and together with the ceiling serve to create a perspective effect; between each column, that is
corinthian style, and each arch, there is a new element called the “dado Brunelleschiano” that in addition
to propel the building, combining the two aisles. Most important is the old sacristy, the tomb of the family
doctors, the whole building was of great importance because later authors they took inspiration.

BASILICA DI SANTO SPIRITO

La basilica fu uno degli ultimi lavori dell’architetto.


Fu progettata, da zero, nel 1436 ma i lavori veri e pro-
pri iniziarono nel 1444, due anni prima della morte
di Brunelleschi. La Basilica si erge sui resti di un an-
tico convento agostiniano, il quale fu distrutto da un
grave incendio. Alla morte dell’architetto i lavori ver-
ranno portati termine grazie ai suoi tre seguaci: An-
tonio Manetti, Giovanni da Gaiole e Salvi d’Andrea.
Brunelleschi diviene qui più preciso e plastico.

117
CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

L’interno della chiesa è formato da un incrocio dei bracci del transet-


to sotto la cupola (pianta a croce latina) definita da un modulo metri-
co che stabilisce l’ampiezza della navata maggiore e di quelle laterali.
Infatti la navata centrale misura in larghezza esattamente il doppio
di una navata laterale e in altezza viene a porsi sullo stesso piano
delle laterali medesime. Queste si prolungano intorno al transetto
e al coro e forma un deambulatorio continuo che ha il perimetro
esterno mosso da 40 cappellette di larghezza uguale alle campate
delle navate. Quindi possiamo ben comcomprendere che la strut-
tura, grazie alla maggiore plasticità delle nicchie e il dinamismo delle
colonne, raggiunge una straordinaria potenza architettonica.

Pianta a croce latina della basilica

Poi, per quanto riguarda la scelta dei colori, bisogna


dire che l’architetto è mosso da diverse motivazi-
oni razionali. Infatti la scelta del grigio della pietra
serena per il pavimento e per le colonne esprime
un’idea che media fra il rosso del pavimento mar-
moreo e il bianco del soffitto, dove alla fine il tutto
viene concepito come l’espressione di uno spazio
pacato. Per quanto riguarda l’esterno, oggi chiuso
da un muro rettilineo, doveva, nell’originario pro-
getto di Brunelleschi, essere ritmato dagli estradossi
delle nicchie-cappelle, riflettendo così il movimento
dell’interno. Santo Spirito successivamente verrà
definita dal Bernini “la più bella chiesa del mondo”
proprio perché Brunelleschi era riuscito ad esprim-
ere a pieno quelli che erano i canoni rinascimentali. Interno della basilica di Santo Spirito

118
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

DONATELLO

L’ESPERIENZA DI DONATELLO NELLA FIRENZE RINASCIMENTALE

Donato di Niccolò di Betto Bardi, detto Donatello, nacque a Firenze nel 1386, da una modesta famiglia; il
padre partecipò alla rivolta dei Ciompi del 1378, a causa di un forte impoverimento da parte delle corpo-
razioni cosicché gli artigiani organizzarono un tumulto contro i banchieri che detenevano un forte potere
monetario nelle loro mani. Donatello è, e sarà, uno dei più grandi artisti del Rinascimento: visse ottant’anni,
dunque molto a lungo in un’epoca in cui l’aspettativa di vita era decisamente breve, quasi il doppio rispetto
ai suoi compaesani; il giovane Donatello era un ragazzo dalle nobili maniere che a differenza del padre
ebbe una vita molto sicura, perché il padre, irrequieto, fu catturato e giustiziato durante la rivolta, ma per
sua fortuna gli fu concesso la deliberazione della pena.
Attraversò buona parte del Quattrocento, ottenendo sino alla fine della sua carriera una mole straordinaria
di opere, firma che rimarrà indelebile nel corso del Rinascimento. Intraprese una formazione come orafo,
seguita da chiunque per chi volesse intraprendere la strada di scultore e dal 1401al 1404 rimase a Roma
e qui incontrò Filippo Brunelleschi, ormai definito “maestro dell’antico”. Nel 1404 tornò da solo a Firenze,
lavorando presso la bottega di Lorenzo Ghilberti, impegnato alla lavorazione della porta del Battistero di
San Giovanni fino al 1407: questa esperienza ha migliorato in Donatello l’arte orafa.
La vita di Donatello fu un continuo viaggiare dalla Firenze rinascimentale alla Padova gotica, che segnarono
una svolta decisiva, imprimendo nuovi caratteri artistici. Sino alla fine della sua vita, Donatello non smise
mai di sperimentare tecniche diverse; dalla scultura a tutto tondo in marmo e in bronzo ai bassorilievi; dal
calco vivo allo stucco a rilievi policromatici e alla tecnica di fusione del bronzo, in parti separate, per ogni
opera ideata, cercava sempre il mezzo di espressione più idoneo. Queste sono le caratteristiche che fecero
di Donatello un vero e proprio artista Rinascimentale, dando un impronta visiva alla Firenze, che sarebbe
diventata una dei più grandi centri culturali e artistici del Quattrocento.

IL RINASCIMENTO DONATELLIANO A PADOVA

Nel 1443, quando ormai l’importanza di Donatello aumen-


tava, decise di trasferirsi a Padova, dove era stato chiamato da
Erasmo da Narni, detto il Gattamelata, per lavorare all’altare di
sant’Antonio e al monumento celebrativo del condottiero della
Repubblica Veneziana, che grazie ad esso, diventò uno dei centri
culturali ed economici più importanti del nord Italia. La città di
Padova era all’epoca sotto il controllo di Venezia e vi si parlava un
dialetto diverso dal fiorentino, quasi un’altra lingua. Sappiamo
che l’artista ci visse mal volentieri ma è probabile che Cosimo
dei Medici, già scontento di Venezia in seguito all’azione anti-
medicea delle potenti famiglie fiorentine, e soprattutto amico
del Gattamelata, abbia non solo autorizzato il viaggio di Dona-
tello, ma persino sollecitato la partenza dello scultore. Donatello,
in una città legata ancora alle tradizioni, come Padova, trovò un
Altare di Sant’Antonio, 1446-53, Padova ambiente dominato da due mentalità antitetiche: intellettuale e
razionale l’una, irrazionale l’altra. Nella città veneta vi era ancora
l’influenza del mecenatismo, caratterizzato dalla presenza delle università e della città di Ferrara che ospi-
tava la corte, centro di ricerca per tutti gli artisti. In quell’epoca, Padova era una meta religiosa molto ambita,
ed è proprio ora che inizieranno i lavori dell’altare della basilica di Sant’ Antonio.
L’Altare di Sant’Antonio è l’altare maggiore della basilica di Sant’Antonio da Padova a Padova. Fu realiz-
zato da Donatello tra il 1446 e il 1453, con un ricchissimo corredo scultoreo in bronzo, che comprende
sette statue a tutto tondo, cinque rilievi maggiori e diciassette rilievi minori. L’opera oggi visibile non è
però originale, essendo perduta la struttura architettonica originaria. La composizione attuale è frutto della
ricostruzione ipotetica del 1895 di Camillo Boito.

119
CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

IL PROFETA ABACUC

Donatello raffigura Abacuc, l’ottavo dei dodici profeti minori


dell’Antico Testamento, come un invasato di Dio. La testa è così
scarnita da sembrare un teschio e la bocca semiaperta sembra pro-
ferire terribili vaticini. Come riporta il Vasari, Donatello era solito in-
vitare la statua a parlare, accompagnando le martellate da un rab-
bioso: “Favella, favella!”. La lunga tunica avvolge il profeta e descrive
pieghe profonde che accentuano il tormento del personaggio. Do-
natello scolpì il marmo fino a logorarlo, nell’intento di distruggere
la fisicità del personaggio. Quest’opera impressiona per le sembi-
anze deformate del profeta e rappresenta un esempio evidente
del “ridursi in moto della forma”, pregnante definizione vasariana
dell’opera di Donatello. L’Abacuc segna il cambiamento stilistico
verso l’espressionismo che Donatello portò avanti in questi tre
anni, che emerge anche dal confronto con l’altro profeta prece-
dentemente realizzato per il Campanile, il Geremia, le analogie con
la Cantoria, realizzata nello stesso periodo. La statua fu commissio-
nata dall’Opera nel 1433 per essere collocata sul Campanile. Dona-
tello ricevette degli anticipi nel 1434 e nel 1435 e la terminò solo
l’11 gennaio 1436. Inizialmente il gruppo dei profeti tra cui l’Abacuc
doveva essere collocato sul lato del Campanile che guarda la catte-
drale, ma i dirigenti dell’Opera del Duomo entusiasti delle opere di
Donatello, in quanto ritenute “molto belle et cose molto ben facte”
(Vasari) vollero renderle più visibili spostandole sul lato del Cam-
panile verso la piazza. Vennero, quindi, spostate a Nord le statue di
Andrea Pisano e della sua scuola.

L’Abacuc può essere considerata l’opera di Donatello che mag-


giormente è rimasta impressa nell’immaginario popolare, simbolo
stesso dell’artista. Lo indicano numerosi aneddoti, tra questi quelli
Il profeta Abacuc, statua in marmo, 1423-35, Firenze
riportati dal Vasari, secondo uno di questi l’Abacuc era il ritratto
di Giovanni di Barduccio Chierichini, fiorentino arricchito, morto a
Firenze nel 1416 e acerrimo nemico dei Medici. Altro aneddoto riportato sempre da Vasari riferisce che per
le solenni esequie di Michelangelo, Donatello, considerato suo grande antesignano fu simbolicamente raf-
figurato con le sembianze di Abacuc.

BANCHETTO DI ERODE

Il pannello in bronzo venne realizzato da Donatello per essere inserito nel fonte del Battistero di Siena. La
scena è una rappresentazione sincrona del sacrificio di san Giovanni Battista. La storia in breve è la seg-
uente. Re Erode aveva un’amante, Erodiade, la quale odiava il Battista per aver subito da lui un rifiuto. Erodi-
ade aveva una figlia, Salomè, di avvenente bellezza, della quale anche Erode era un «ammiratore». Erode,
durante un banchetto, chiese a Salomè di danzare per lui. La madre colse la richiesta quale occasione per
vendicarsi di san Giovanni Battista: disse alla figlia di accettare, ma solo in cambio della testa del Battista.
Erode acconsentì, Salomè eseguì la sua danza (nota come danza dei sette veli), e quindi a tavola, durante il
banchetto, venne presentata al re la testa di san Giovanni Battista.
Il pannello racconta questa storia riproducendo tre momenti. Oltre la prima arcata un suonatore simboleg-
gia la danza effettuata da Salomè; nell’arcata successiva si intuisce il momento della decapitazione, ed in-
fine in primo piano vi è il momento finale, quello della presentazione ad Erode della testa del santo. I tre
momenti sono collocati in tre spazi diversi, che vengono scanditi in profondità grazie all’accorta applicazi-
one delle leggi prospettiche.
Negli stessi anni Masaccio applicava gli analoghi principi nella realizzazione delle sue opere pittoriche, at-
testando come, in pratica la prospettiva compare nelle arti figurative intorno alla metà del terzo decennio

120
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

del XV secolo. Da questo momento essa


diverrà un patrimonio comune a tutti gli
artisti successivi.
Da notare, in questo pannello, oltre alla
costruzione prospettica, anche la grande
ricchezza narrativa e for-male dell’opera.
La realizzazione a stiacciato dell’opera
consente, a Donatello, di sperimentare
effetti pittorici usando non le masse ma il
chiaroscuro creato dai panneggi.
Benché la storia abbia il suo centro sig-
nificativo nell’angolo in basso a sinistra
(dove la testa del Battista viene presen-
tata su un piatto a Erode), l’immagine ha
una costruzione decisamente simmetrica,
segnata soprattutto dai due gruppi ai lati
della scena. L’infittirsi dei panneggi crea
infatti passaggi chiaroscurali così intensi
che, all’occhio, appaiono quasi come due
masse, o due campi scuri, che fanno da
base simmetrica alla leggerezza e chiar-
ezza della parte superiore. Banchetto di Erode, rilievo in bronzo, 1423-27, fonte del Battistero, Siena

L’opera, quindi, pur nelle sue contenute


dimensioni, appare densa non solo di sig-
nificati narrativi, ma anche di ben studiate scelte formali e stilistiche.
Eseguita da Donatello tra il 1416 e il 1420, per l’Arte dei Corazzai e Spadai, destinata a una delle nicchie di
Orsanmichele a Firenze, è l’opera immediatamente successiva al San Marco.
È una statua in marmo, alta circa 2 metri, composta su una solida struttura geometrica. La figura in posa
marziale, ben piantata sulle gambe divaricate, si inserisce in un triangolo isoscele con il vertice verso l’alto.
Inoltre le linee ortogonali della croce sullo scudo sottolineano la staticità di partenza. La corazza, per una
scultura, rappresenta un ostacolo alla caratterizzazione, per la rigidità propria del metallo che toglie ogni
funzione espressiva. Eppure Donatello riesce ugualmente a creare un’immagine viva e palpitante. La figura,
nelle sue proporzioni e articolazioni perfette, è atteggiata con grande naturalezza nei gesti e nelle forme
armoniose. Il busto è lievemente ruotato, le braccia si animano con una loro tensione: uno è disteso lungo il
corpo, ma non rilassato (con il pugno stretto che reggeva la spada), l’altro piegato e con la mano appoggia-
ta allo scudo, le dita mobili, il polso ruotato, come colto in movimento. La tensione e la vitalità si accentuano
nella testa, girata lateralmente, nell’espressione concentrata e nello sguardo attento, sottolineato dalla dir-
ezione precisa delle pupille. L’opera è caratterizzata da forte realismo, per il suo atteggiamento nient’affatto
sacro o solenne, ma in posa militaresca. L’anatomia è concreta e impeccabile, anche la corazza è modellata
con le forme anatomiche di un torace concreto. La testa ha lineamenti realistici, e mostra un’espressione
concentrata e pensosa, sguardo fiero e deciso. Sembra il ritratto di un ragazzo qualunque, un popolano
che fa il soldato. Quello che viene presentato non è un santo in mistico raccoglimento, non è nemmeno
l’immagine di un eroe idealizzato: è un soldato in guardia a una postazione, che tiene d’occhio ciò che sta
accadendo, nervoso ma concentrato e pronto ad entrare in azione. È la figura di un eroe, un modello di
comportamento umano in cui può identificarsi chiunque. Nel complesso l’effetto è di grande compostezza,
ma al tempo stesso, vigore e senso di forza contenuta nel San Giorgio si fondono mirabilmente il significato
medievale e leggendario del santo-eroe e quello dell’individualità rinascimentale: dell’uomo pronto a de-
cidere, che non subisce gli eventi, ma è capace di agire in base alla sua razionalità.

121
CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

SAN GIORGIO E IL DRAGO

Il bassorilievo marmoreo realizzato da Donatello in origine si


trovava ai piedi della statua del San Giorgio, sullo zoccolo della
nicchia di Orsanmichele. Risale al 1420 ca. ed è il più antico es-
empio di rilievo schiacciato; con quest’opera Donatello apre la
strada anche alla medaglistica. Il rilievo è ottenuto con un ag-
getto minimo, ma è sorprendente l’effetto di spazio, ottenuto
mediante la convergenza delle linee ottiche della grotta e del
portico in un unico punto. È evidente che Donatello ha appli-
cato il sistema della prospettiva, appresa da Brunelleschi. Sullo
sfondo, una minima ondulazione del piano rinvia alle colline e
alcuni alberi appena accennati compongono il paesaggio. La
vicenda leggendaria in cui il santo-eroe affronta il drago per
liberare la principessa si inserisce in un’ambientazione natu-
ralistica. Con grande abilità e lievissime variazioni viene resto
l’effetto di profondità dello spazio e di volume delle figure.
Nel portico le linee architettoniche fuggono verso il fondo e gli
alberi, facendosi sempre più piccoli e meno nitidi suggeriscono
prospetticamente la profondità atmosferica del paesaggio. Le
figure sono appena abbozzate, le masse, appiattite e dilatate,
sono descritte dal segno sottile dei contorni. Il disegno artico-
lato e le linee mosse e ondulate suggeriscono il movimento. I San Giorgio e il drago, 1415-17, scultura in marmo
contrasti di luce e ombra sono accentuati grazie alla sapiente
incisione a sottosquadro dei contorni. La scena centrale, le figure di cavallo, cavaliere e drago sono accen-
nate, per suggerire il movimento dell’azione, come una fotografia “mossa”. Donatello ritrae il momento in
cui il drago viene trafitto dal cavaliere, e anche se si tratta di una leggenda, tutto viene reso in maniera
realistica. Il cavallo impennato con la testa girata, spaventato dal drago che lo aggredisce, il cavaliere tutto
curvo in avanti e inclinato su un fianco, raccolto nello sforzo.
Il mantello svolazzante e il drago che si accartoccia per la ferita mortale. Tutto fa pensare a un’azione che si
svolge con grande rapidità e violenza. È evidente che Donatello si è ispirato alla realtà: a una scena di batta-
glia o a quella di qualche torneo.

DAVID DI DONATELLO

Per il celebre David in bronzo la datazione è contro-


versa fra chi sostiene trattarsi di un’opera giovanile
risalente al 1438-42 e chi la colloca nel 1452-53. La
scultura fu realizzata, forse, per abbellire una fontana
della Villa medicea di Careggi. Il David fu collocato da
Cosimo de Medici nel cortile del suo Palazzo in Via
Larga, a Firenze, sopra una colonna di marmo poli-
cromo posta su una base eseguita secondo il Vasari
dal giovane Desiderio da Settignano, allievo di Dona-
tello. Dopo la cacciata dei Medici da Firenze, nel 1495,
l’opera fu posta nel cortile di Palazzo Vecchio e sostitu-
ita nel 1550 circa da un Putto del Verrocchio. Pur iden-
tificata come David con la testa di Golia, alcuni storici
ipotizzano che si possa trattare della figura mitologica
di Mercurio vincitore su Argo, a causa di incongruenze
iconografiche con l’eroe biblico: il cappello sembra ri-
chiamare il pètaso, (cappello del dio pagano), la nudità
è di ascendenza classica, la mancanza della fionda e la David-Mercurio, scultura in bronzo, 1438-42, Firenze
grande testa mozzata sotto il piede sinistro. A causa

122
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

di questa am-bivalenza iconografica molti storici chiamano l’opera David-Mercurio. Accettando la prima e
tradizionale ipotesi, il David di Donatello non è stato concepito come un eroe forte e sicuro, ma come un
adolescente pensoso, con un viso dall’espressione sfuggente, malinconica, enigmatica, caratteristica ideale
per sottolineare in senso classicista quella tendenza all’individualismo e nello stesso tempo valorizzare
una bellezza ideale, spirituale e fisica. È proprio attraverso la postura del corpo e della composizione tutta
che Donatello riesce a mate-rializzare quel senso di instabilità. La gamba sinistra, arretrata poggia insta-
bilmente sulla testa mozzata di Golia, ma non sostiene il peso del corpo che invece si regge sulla gamba
destra, verticale rispetto l’asse di costruzione, con l’anca che sottolinea la decisa flessione del bacino. Anche
questa gamba però dà un forte senso di instabilità con il piede che non trova un appoggio sicuro e sem-
bra scivolare. La forte linea diagonale tracciata dalla spada, che trova il suo parallelo nel braccio sinistro
piegato, nella gamba destra arretrata e nella diagonale che questa traccia con il busto, sembra accentuare
quell’instabilità generale data dall’oscillazione del corpo verso destra come se stesse per cadere.
Anche la conformazione fisica della figura, una muscolatura lieve, insicura, adolescenziale, sembra voler
insistere, enfatizzandola, su quella sensazione ambigua, scivolosa, sfuggente, accentuata anche dalla sen-
sualità efebica del nudo, resa coloristicamente dalla luce che si produce in tenui risalti sulle forme bronzee,
mentre il copricapo inghirlandato dalla forma appuntita incornicia quel volto dall’espressione malinconica
e compiaciuta insieme. Forse Donatello, nel modellare l’adolescenziale nudo del David, si ispirò a qualche
scultura d’età ellenistica, mentre il volto presenta una fortissima somiglianza con quello di Antino, ritratto
dai romani d’età imperiale, il favorito dell’Imperatore Adriano che fu divinizzato in seguito la sua scom-
parsa.

MONUMENTO EQUESTRE AL GATTAMELATA

Il monumento di Gattamelata nacque come sepolcro del condot-


tiero Erasmo da Narni: ai lati dell’alto piedistallo di trachite a forma
di sarcofago, sono le porte della vita, chiusa, e della morte dischiu-
sa. Il condottiero, a capo scoperto e vestito con una robusta arma-
tura quattrocentesca, è alla guida delle sue truppe con il bastone
di comando. Ritratto su di una sella contemporanea e con le staffe
(elementi questi assenti nel prototipo romano), il condottiero esi-
bisce qualche allusione all’antichità solo negli ornamenti (la testa
di Medusa sul pettorale della corazza, i putti musicanti attorno alla
cintura, una frangia di piastre metalliche con teste virili presenti
anche sui ginocchietti). Per il ritratto del volto austero e volitivo
del Gattamelata, è probabile che Donatello si servì di una meda-
glia che ritraeva il condottiero di profilo, com’era in uso all’epoca.
Rispetto al Marco Aurelio la figura del Gattamelata appare molto
più saldamente ancorata all’animale. La scultura del Gattamelata,
modellata e fusa dopo sei anni di tentativi e fatiche (1447-53), è un
capolavoro, fra i massimi del Rinascimento, del toscano Donatello
e da molti giudicata la più bella statua equestre d’ogni tempo as- Monumento equestre al Gattamelata, scultura in bronzo,
1447-53, Piazza S. Antonio, Padova
sieme ai cinque cavalli della Basilica di S. Marco a Venezia.

123
CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

CROCIFISSO DI DONATELLO

Narra il Vasari che Donatello avesse scolpito un crocifisso in legno e


l’avesse subito mostrato all’amico per un parere. Brunelleschi criticò
immediatamente l’operato del Donatello, sottolineando come quello
fosse “un contadino e non un corpo simile a Gesù Cristo, il quale fu deli-
catissimo ed in tutte le parti il più perfetto uomo che nascesse giammai”.
Donatello replicò all’amico quanto fosse facile parlare, ma che fare fosse
tutta un’altra cosa. Per tutta risposta, Brunelleschi scolpì un crocifisso
ed invitò l’amico a pranzo. Alla vista della magnifica opera, Donatello
si lasciò cadere dal grembiule il cibo ed esclamò: “a te è concesso fare i
Cristi, a me i contadini”.

Crocifisso, scultura in legno, 1406-08, Firenze

MASACCIO

Durante tutto il Quattrocento anche nel campo della pittura gli avvenimenti fondamentali hanno come
fulcro la Toscana e in particolare Firenze. Il primo grande pittore appartiene alla ‘’Triade Aurea’’ di Donatello
e Brunelleschi, di cui condivide le ricerche nel campo della prospettiva, i motivi umanistici e le idee innova-
trici. Si tratta di Tommaso di Ser Giovanni di Simone Cassai, detto Masaccio, nato il 21 Dicembre del 1401 a
San Giovanni Valdarno, presso Arezzo. Secondo Giorgio Vasari, il nomignolo non fu dispregiativo ma quasi
affettuoso. Le notizie sulla sua formazione sono poche: è probabile avesse appreso i primi rudimenti della
pittura presso la bottega di Mariotto di Cristofano, che all’epoca era l’unico pittore a San Giovanni Valdarno.
Rimasto orfano di padre a soli cinque anni, Masaccio, intorno al 1417, si recò a Firenze ancora giovanissimo.
La sua attività si svolse prevalentemente in questa città, dove fu allievo di Masolino da Panicale, artista
molto apprezzato dai contemporanei e soprattutto dall’aristocrazia e dal clero, che gli garantirono impor-
tanti commissioni fino all’anno della sua morte, avvenuta nel 1440. Tuttavia la critica più recente sottolinea
che i rapporti tra i due non furono quelli del giovane apprendista di fronte al maestro, ma quelli del giovane
artista innovatore che trova spazio come collaboratore non subordinato presso l’artista maturo. Masaccio
morì nel 1428, a soli ventisette anni, ma il suo ruolo nell’ambito della pittura italiana quattrocentesca è
d’importanza inversamente proporzionale alla durata della sua attività.

SANT’ANNA METTERZA

Con il dipinto Sant’Anna Metterza iniziò una collaborazione tra Masac-


cio e Masolino. La pala fu realizzata, tra il 1424 1 il 1425, per la Chiesa di
Sant’Ambrogio a Firenze e forse in ori-gine faceva parte di un grande ci-
borio devozionale. Il titolo di quest’opera vuol dire messa terza, dal latino
‘’mettertia’’: infatti Anna, la madre di Maria, si trova in piedi dietro le spalle
della Vergine,in terza posizione, se si considera Gesù raffigurato in primo
piano. La scena presenta un tono fortemente mistico, reso ancora più so-
lenne dal trono e dalla disposizione delle figure e degli angeli. Sant’Anna,
raffigurata con l’aureola più grande, doveva essere la figura più importante
e non a caso Masolino si incaricò di dipingerla personalmente, lasciando a
Masaccio la realizzazione della Madonna con il Bambino e i tutti gli angeli,
tranne forse quello centrale in alto e di reggicortina di destra. È evidente
che Masaccio, nonostante la giovane età, aveva già padronanza del senso
di rilievo, profondità e luce. La vergine, immobile, rimanda all’iconografia
medievale della Madonna come Sedes Sapientiaé, così chiamata perché la
generatrice di Gesù che incarna la Sapienza Divina, e tiene il figlio, il piccolo
Gesù, comodamente sulle sue ginocchia ed attaccato al proprio ventre.
S. Anna Metterza, 1424-25, olio su tavola, Arezzo
Il volto della Vergine è un perfetto ovale e sono ben marcati sia il vigore del

124
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

suo collo sia la profondità delle sue gambe, evidenti sotto il vestito. Masolino tentò a sua volte di marcare
l’importanza di Sant’Anna rendendo il volto scultoreo e fornendolo di un’espressione severa ma i risultati
sono meno realistici. Il corpo di Sant’Anna, privo di rilievo, appare in realtà come uno sfondo colorato che
fa paradossalmente risaltare la figura della Vergine; la sua mano sinistra tesa a proteggere il bambino e rap-
presentata in prospettiva, è goffa, incerta e priva di autorità.

IL POLITTICO DI PISA: LA CROCIFISSIONE

Nel 1426 Masaccio ricevette dal notaio Giuliano Scarci la commissione di un polittico, oggi detto Polittico
di Pisa, da collocarsi nella cappella di famiglia della chiesa di Pisa di Santa Maria del Carmine. L’opera è una
delle poche ben documentate di Masaccio, grazie alla pignoleria del commitente che annotò i vari paga-
menti. Il polittico era caratterizzato da una struttura ancora medievale, divisa in scomparti su più ordini
con un fondo metallico trasfigurato ad un unico punto di fuga in modo che la composizione risultasse
unitaria, sebbene tale opera sia oggi smembrata in
più musei ed alcuni pannelli siano andati perduti.
Sulla cimasa del pannello era raffigurata una Cro-
cifissione, un importante capolavoro di Masaccio.
La Crocifissione è un dipinto a tempera, conser-
vato oggi nel Museo Nazionale di Capo di Monte,
a Napoli. La tavola mostra la scena della crocifis-
sione con la Vergine, San Giovanni e la Maddalena.
Cristo è rappresentato su una croce essenziale,
composta da due bracci ortogonali. Il Cristo, guar-
dato di fronte, pare abbia il capo completamente
incassato nelle spalle. In realtà la tavola va vista dal
basso verso l’alto, ed in questa prospettiva il collo
appare nascosto dal torace. Il volto presenta tratti
composti, per cui il dolore è dignitosamente con-
trollato. Gli occhi hanno le palpebre abbassate, il
naso è diritto e la bocca presenta labbra sottili. Il
volto è colto nel momento del trapasso, quando
ha appena pronunciato a San Giovanni, le parole ‘’
Ecco tua madre’’, con le quali gli ha affidato la Ma-
donna. Ai piedi della croce si trova Maria Maddale-
na, inginocchiata. La Maddalena è vista di schiena,
con le braccia aperte e tese al cielo e coperta da
un mantello color rosso fuoco, dal quale scendono
lunghi capelli biondo d’oro. Il manto poggia agli
estremi del bordo sulla terra nuda, terra che allude
al Golosa e al Monte Calvario. La Madonna sta im-
La Crocifissione, 1426, tempera su tavola, Napoli mobile ai piedi della croce con le mai giunte che si
stringono nel dolore.
La Vergine è ritratta di profilo, il viso è rivolto a Cristo. Gli occhi sono chiusi per il pianto e la bocca accenna
a una smorfia di dolore che determina la contrazione del volto. La Madonna, come tradizione, viene rap-
presentata con un ampio mantello blu. Sull’altro lato della croce sta San Giovanni con il capo reclinato sulle
mani congiunte.
Lo sguardo è atterrito, gli occhi ribassati, le labbra serrate. Tutte le figure presentano sul capo un’aureola,
preziosamente decorata. Il fondo di quest’opera è in oro, sia perché rimanda all’arte bizantina, sia perché
chiude ogni possibilità di rappresentazione spaziale.

125
CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

LA MAESTÀ (MADONNA IN TRONO COL BAMBINO E QUATTRO ANGELI)

Un’opera particolare di Masaccio è la Maestà o la Madonna in trono


col Bambino e quattro angeli, conservata nella National Gallery di Lon-
dra. Realizzata nel 1426, costituisce il pannello centrale del Polittico di
Pisa. La madonna, seduta su un trono cubico, richiama la Vergine di
Sant’Anna Metterza ma presenta una grandiosità classica. La madonna,
con un magnifico mantello azzurro con orlo dorato, tiene in braccio il
Bambino, nudo come nell’arte antica, con l’aureola raffigurata in pros-
pettiva. Egli è raffigurato mentre mangia l’uva con lo stesso atteggia-
mento di putti dei sarcofagi o mosaici classici; la sua figura classica, tut-
tavia, è rivisitata sia in chiave cristiana, nell’allusione al sacrificio (l’uva
simboleggia il vino e dunque il sangue di Cristo), sia in chiave pura-
mente umana, grazie alla spontaneità di un gesto, quello di mangiare
l’uva, dimostrando così la consapevolezza della propria fine. Attorno
alla Maestà col Bambino si dispongono quattro angeli: due oranti ai
lati, in parte nascosti dalla spalliera, e due musicanti in basso, seduti in
basso al trono. Questi ultimi due hanno ali di uccello e suonano due
liuti: uno sembra cantare, mentre l’altro come scrisse il Vasari, ‘’porge
con attenzione l’orecchio all’armonia di quel suono’’.

La Maestà, 1426, tempera su tavola,


National Gallery, Londra

LA TRINITÀ

L’ultima opera realizzata da Masaccio fu la Trinità conservata nella ter-


za campata della navata sinistra della Basilica di Santa Maria Novella a
Firenze. La scena di quest’opera avviene su tre piani distinti: in primo
piano in basso è raffigurato un altare, sostenuto da coppie di colon-
nette, sotto il quale è posto un sarcofago con uno scheletro. Una cit-
azione ‘’Io fui già quel che voi siete e quel c’io son voi ancor sarete’’
allude chiaramente alla transitorietà delle cose terrene. In un secondo
pannello, in primo piano, sono le due figure inginocchiate dei com-
mittenti, il gonfaloniere Lenci e sua moglie. Si tratta di un uomo con
un mantello ed un turbante rosso e di una donna vestita di blu, raf-
figurati mentre pregano rivolgendosi alle persone della Trinità posta
nella cappella. Infine, in terzo piano, all’interno della struttura architet-
tonica della cappella, ai piedi della croce, vediamo Maria e Giovanni. Il
santo evangelista è avvolto in un mantello rosso, con le mani giunte e
lo sguardo rivolto a Gesù, invece Maria, cinta in un manto blu, con lo
sguardo non di dolore ma di severa impassibilità, è distaccata e si volge
verso chi guarda il dipinto. Alle spalle del crocifisso, Dio Padre, con un
mantello rosso ed una tunica blu, sorregge idealmente il figlio: fra loro
c’è lo Spirito Santo in forma di colomba. La facciata della cappella ap-
pare delimitata da due lesene con capitelli corinzi che reggono una
trabeazione. La raffigurazione architettonica ubbidisce alle leggi della
prospettiva, utilizzate per creare, attraverso la raffigurazione della volta
a botte e delle altre colonne sul fondo della cappella, l’effetto illusion-
istico della profondità.

Trinità, 1426-28, affresco su muro,


Santa Maria Novella, Firenze

126
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

LA RESURREZIONE DEL FIGLIO TEOFILO E SAN PIETRO IN CATTEDRA

Resurrezione del figlio di Teofilo e San Pietro in cattedra, 1427-28, affresco su muro, Chiesa del Carmine. Firenze

La decorazione della Cappella Brancacci fu probabilmente commissionata a Masolino e a Masaccio nel


1424 da Felice Brancacci, un ricco fiorentino mercante di sete nonché ambasciatore e avversario di Cosimo
De Medici. Non è da credere che Masolino abbia iniziato il lavoro da solo, richiedendo in seguito l’aiuto di
Masaccio; infatti il programma compositivo appare molto calibrato e la ripartizione dei compiti è molto
attenta. Sono state attribuite a Masaccio la Cacciata di Adamo ed Eva, San Pietro in cattedra, San Pietro che
risana gli infermi, il Battesimo dei neofiti e le Distribuzione dei beni; invece a Masolino il Peccato Originale,
la Predica di San Pietro, la Guarigione dello storpio e la Resurrezione della Tabita. La Resurrezione del figlio
Teofilo e San Pietro in Cattedra è un affresco di Masaccio che si trova oggi nella chiesa di Santa Maria del
Carmine a Firenze. La scena di grandi dimensioni rappresenta due eventi di San Pietro avvenuti ad An-
tiochia. La leggenda vuole che quando Pietro era in città a predicare venne arrestato e messo a pane ed
acqua dal governatore Teofilo. In quell’occasione San Paolo andò a trovarlo in prigione. San Paolo andò poi
a supplicare il governatore affinchè liberasse San Pietro, ma questi lo sfidò, promettendogli di farlo solo a
patto che l’apostolo incarcerato dimostrasse i suoi poteri soprannaturali resuscitandogli suo figlio, morto
quattordici anni prima. San Pietro venne allora portato alla tomba del fanciullo, dove lo resuscitò. In seguito
a questo evento tuta la popolazione di Antiochia si convertì al Cristianesimo e venne eretta una chiesa, la
prima sul cui trono San Pietro potè sedere venendo ascoltato da tutti. L’evento fu un’anticipazione della sua
futura assunzione al trono pontificio in Roma. La tecnica pittorica adoperata, basata sull’accordo dei toni e
sul continuo svariare delle luci, raggiunge valori che anticipano i pittori veneziani del Cinquecento.

127
CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

LA DISTRIBUZIONE DELLE ELEMOSINE E LA MORTE DI ANANIA

La Distribuzione dei beni e la Morte di Anania è


un affresco di Masaccio che fa parte della deco-
razione della Cappella Brancacci nella chiesa di
Santa Maria del Carmine a Firenze. Secondo la
tradizione i primi credenti si aiutavano reciproca-
mente, e chi aveva campi o case li vendeva met-
tendo i soldi del ricavato a disposizione di tutti.
San Pietro e San Giovanni nell’affresco stanno
infatti distribuendo monete ad alcuni bisognosi,
tra cui una donna bella e orgogliosa con un bam-
bino in braccio. L’uomo morto a terra, Anania; era
stato punito perché aveva trattenuto per sé una
parte del ricavato della vendita dei suoi terreni.
Questa scena si svolge tra gli edifici di una città,
verosimile a Firenze; la scena originale ha luogo
in Gerusalemme. La neve sulla montagna ha un
significato preciso volto a rappresentare la dur-
ezza dell’inverno e la drammatica condizione dei
protagonisti, che sono vestiti di panni leggeri. La
disposizione delle figure è più statica di quella di
San Pietro che guarisce con l’ombra, con la fuga
in prospettiva bloccata dal circolo dei presenti
e dall’alto edificio bianco sullo sfondo. Il critico
Meller ipotizzò che il personaggio vestito di
rosso, tra San Pietro e la dona col bambino, fosse
uno dei cardinali di casa Brancacci: Rainaldo o
Tommaso. La distribuzione delle elemosine e la morte di Anania,1428,
affresco su muro, Chiesa del Carmine, Firenze

PAOLO UCCELLO

Paolo Uccello nasce nel 1397 a Firenze da Dono di paolo e da Antonia di Giovanni Castello: il padre si trova
elencato nel 1407 e dopo qualche tempo tra i giovani aiutanti di Lorenzo Ghiberti a rifiorire la prima porta
del Battistero fiorentino. Solo in un periodo più tardivo, precisamente nel 1415, abbiamo l’immatricolazione
del futuro artista, nel momento in cui entrerà a contatto con alcune compagnie artistiche: a soli 10 anni, nel
1407, Paolo appartiene assieme al giovane Donatello - tra gli aiutanti del Ghiberti che lavorano alla rifinitura
della prima porta del Battistero - ricevendo un’educazione e un insegnamento rigido e minuto, sulle leggi
e gli ordini che regolavano i canoni rinascimentali. Subito gli viene dato il soprannome di “Uccello” o “degli
Uccelli”, forse perché si dedica in particolare a dipingere fregi ornamentali con uccelli e altri animali; compie
diversi viaggi di cui il primo risale a Venezia per la decorazione della Basilica Marciana come mosaicista
e successivamente a Padova, dove secondo il Vasari, viene chiamato da Donatello, nel 1445, anno in cui
lo scultore intendeva iniziare i lavori al monumento equestre di bronzo a Erasmo da Narni, detto il Gat-
tamelata: la vita fiorentina dell’artista si segue ancora attraverso le portate al catasto di alcuni momenti
tra il 1442 e il 1457. Su questi scarsi dati documentari ha dovuto basarsi la critica che ha cercato, in epoca
piuttosto recente, di costruire cronologicamente non sole le opere dell’artista ma anche i propri momenti
della sua vita: la tradizione che si assomma in modo più verosimile è nel Vasari che aveva lasciato una con-
figurazione più dettagliata e precisa, aggiunta a un ritratto dell’Uccello che forse rivaleva all’epoca stessa
in cui l’artista è vissuto. Paolo Uccello è appartenuto alla prima generazione dei grandi innovatori, egli, tra
il Brunelleschi, Donatello e li Ghiberti più anziani, Masolino, Masaccio e l’Angelico quasi suoi coetanei, ha
una sua personalità inconfondibile, in quanto è stato tra i primi ad avere una passione tanto sfrenata, da far
appassionare Paolo, per lo studio delle leggi e delle definizioni della scienza prospettica. Per questo motivo,
l’artista si vede attribuire l’epiteto di “pittore scientifico”: una sorta di diminuzione delle sue notevoli qual-
ità e doti di cultura, quasi si trattasse di un decoratore; molte opere rilasciano ad un carattere puramente

128
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

decorativo e non prospettico, ma si sbagliavano. Così Paolo, maniaco per tutta la sua vita della prospettiva,
non seguirà la “perspectiva artificialis”, cioè il metodo prospettico ideato dal Brunelleschi, ma approfondirà
la “perspectiva naturalis”, cioè l’ottica già indagata sottilmente nel Medioevo. È verosimile che Paolo non
tanto fosse stato richiesto come pratico della tecnica del mosaico, ma sia stato consigliato - magari dal
Ghiberti nel suo viaggio veneziano del 1424-1425 - quale ideatore di programmi decorativi. Durante quegli
anni di assenza di paolo da Firenze, Masaccio raggiunge rapidamente la rappresentazione più piena e sor-
prendente dei nuovi ideali figurativi. Lo aiutano da un lato la chiarificazione portata dal razionalismo del
Brunelleschi al problema della rappresentazione dello spazio prospettico, dall’altro l’esempio della scultura
di Donatello, che con il San Giorgio, afferma l’ideale naturalistico. A questi due esempi vivissimi si aggiunge
quello dell’antico, studiato a Roma dal Brunelleschi e da Donatello e successivamente dall’Uccello: l’antico
determina in architettura la ripresa degli ordini e delle “proporzioni musicali”, e dai marmi, medaglie, appare
quasi miracolosa riscoperta di quella stessa natura che l’insegnamento scolastico propone come ideale agli
artefici; infine il colore stesso crea una circolazione atmosferica che rimane perennemente scandito entro
il limite del possibile.

MONUMENTO EQUESTRE A GIOVANNI ACUTO

Tra le opere di maggior importanza si ricorda la realizzazione


nel 1436, sulla navata sinistra del Duomo fiorentino, l’affresco
del Monumento equestre a Giovanni Acuto, dedicato al
condottiero inglese John Hawkwood, primo grande capo-
lavoro fiorentino posteriore a Masaccio:il ritratto a cavallo fu
commissionato dai fabbricieri della cattedrale fiorentino e
cominciò l’opera molto subito, ma dovette cancellarla e ricom-
inciarla dopo un mese, poiché i committenti giudicarono che
non l’avesse dipinta come si doveva.; comunque fu compen-
sato per quell’affresco nell’agosto del 1436. Nell’opera è evi-
dente il suo interesse per la decorazione, infatti, egli rende sia il
cavallo sia il cavaliere ricorrendo a rilevate forme geometriche:
Giovanni Acuto, nel 1364, era capo dell’esercito fiorentino, ave-
va sconfitto i Pisani nella battaglia di Cascina e Paolo realizzò
l’affresco monocromatico - utilizzando l’azione di un solo col-
ore - grazie all’utilizzo di un “verde terra” per meglio simulare
di una scultura in bronzo, e rappresenta il condottiero a cavallo
posta sopra un basamento sorretto da tre mensoloni.

Monumento equestre a Giovanni Acuto, 1436

Paolo Uccello costruì un sofisticato impianto prospettico servendosi di due punti di vista:

- il primo, in basso a sinistra, fu adottato per le mensole, la piattaforma e il sarcofago;


- il secondo, frontale, utilizzato per cavallo e il cavaliere.

Il condottiero, nella mano sinistra mostra il bastone del comando – segno del potere – su un cavallo che
tiene con le briglie e la sella: elementi della cavalcatura moderna rivelano gli elementi tipici rispetto ai mod-
elli offerti dalla scultura romana. Notato già dal Vasari è l’errore secondo cui il cavallo non potrebbe stare
in piedi realmente poiché alza entrambe le zampe sul lato destro, infatti come nel Gattamelata la struttura
sembra più equilibrata resa possibile da un sistema di appoggio quale una sfera e a differenza dell’opera di
Paolo questo elemento decorativo non esiste; secondo alcuni è un errore voluto per rendere più coerente la

129
CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

struttura prospettica. La base ricorda un alto altare, con gli stemmi del condottiero, sopra il quale si trova il
sarcofago dipinto, a sua volta sormontato dal monumento equestre. Le figure risultano curate, auliche, ben
trattate volumetricamente tramite un’abile stesura di luci e ombre col chiaroscuro, rese con un realismo di
tipo “analitico”, cioè con un’attenzione più rivolta alla somma delle parti che all’insieme sintetico della figura.
Vi si nota inoltre una tendenza alla geometrizzazione delle forme, che dà all’insieme un effetto di raffinata
astrattezza: l’effetto è quello di un condottiero simbolico e ideale, piuttosto che di un personaggio in carne
ed ossa; le luci, da sinistra, riprendono coerentemente l’illuminazione naturale proveniente dalla chiesa. Il
punto di vista unico, prevista dalla prospettiva brunelleschiana, è in questo caso abolito in favore di una
molteplicità di fuochi visivi che a parere dell’artista meglio rispecchiano la mobilità della visione oculare.

LA CACCIA

La caccia, 1460, olio su tela, Ashmolean Museum, Oxford

Nelle opere tarde, soprattutto nella tavola con La caccia oggi conservata presso un museo di Oxford, egli
accentuò ulteriormente le sue tendenze favolistiche e narrative. Quest’ultima opera costituiva probabil-
mente il pannello frontale di un cassone e tra le ipotesi che ne individuano il soggetto la più attendibile è
quella che raffiguri una battuta di caccia di Lorenzo il Magnifico nelle pinete dei dintorni di Pisa.
Si tratta di un dipinto eseguito secondo una raffinatissima tecnica pittorica: gli alberi, per esempio, al con-
trario delle figure in primo piano, sono dipinti sulla preparazione nera
del fondo; le lumegeggiature – tecnica pittorica che prevede di ot-
tenere l’effetto di rilievo tridimensionale schiarendo le zone di luce
rispetto al colore di base: quindi il suo effetto è opposto a quello del
chiaro-scuro – delle foglie sono ottenute con sottili lamine d’oro. Il rig-
ore spaziale di Paolo Uccello arriva a disporre con esattezza in pros-
pettiva tutti gli elementi, dagli alberi alle figure, di diversa dimensione
a seconda della lontananza, ai tronchi rotti in terra,che sono collocati
sulle direttrici della maglia prospettica.
Il suo linguaggio pittorico è essenziale, fantastico, quasi surreale e la
sua fantasia pare colmare i limiti del possibile; il pittore non intendeva
rappresentare le cose come realmente appaiono, ma cercare l’essenza
più intima della realtà, eliminando la critica simbolica di ogni oggetto
e di ogni individuo raffigurato.
Nelle opere di Paolo Uccello, le regole della prospettiva sono sempre
applicate rigorosamente al punto geometrico affinché ogni elemento
e ogni personaggio sia in “ordine”; è bene considerare che la prospet-
tiva fu prima di tutto una legge matematica, non un semplice stru-
mento di rappresentazione: ne consegue che la sua verità prospettica Studio di prospettiva, 1430-40
fu come la verità matematica, cioè astratta e fine a se stessa.

130
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

LA BATTAGLIA DI SAN ROMANO

La battaglia di San Romano, 1438-40, National Gallery, Londra

Nel 1438 Lionardo Bartolini Salimbeni, uomo di spicco della politica fiorentina, commissionò a Paolo Uc-
cello un trittico con La battaglia di San Romano, con l’intento di commissionare un’audace impresa perpe-
trata dai fiorentini, guidati da Niccolò Mauruzi da Tolentino Micheletto Attendolo da Cotignola, a danno
dei senesi, cappeggiati da Bernardino della Ciarda. L’episodio avvenne il primo giugno del 1432, durante la
guerra di Lucca, ed era motivo di orgoglio per i fiorentini, in quanto nonostante l’inferiorità numerica delle
truppe di Niccolò, era riuscito a sferrare un attacco al nemico e di conseguenza a vincere il conflitto. Passate
agli eredi, le tavole furono in seguito, consegnate a Lorenzo il Magnifico, che le acquistò per decorare la sua
camere da letto. Solo successivamente le tavole furono divise nel XVIII sec. e oggi si trovano in tre diversi
musei.
Così una grande scena unica è stata divisa per mezza Europa, rompendo la straordinaria prospettiva natu-
rale utilizzata da Uccello per la sua costruzione: schierandosi in una tradizione ben diversa da quella brunall-
eschiana – costruendo un tipo prospettico riconducibile a più punti di fuga – il pittore fiorentino sviluppò
una sofisticata griglia prospettica, ricca di tantissimi e variegati elementi (scudi perduti, lance in mo-
vimento, cavalli imbizzarriti, vessilli spiegati al vento). Così la tavola di Londra rappresenta il comandante
Niccolò che guida il suo esercito in sella
a un cavallo bianco: lo segue il suo gio-
vane paggio, che cavalca portando un
elmo in mano e ha l’espressione assente
di chi partecipa ad una parata militare.
In effetti, la scena comunica attraverso
un feroce scontro armato che appare
molto come un’elegante esibizione di
discipline equestri. La prima parte del
trittico, conservata a Londra, presenta
già questa fantastica versatilità figu-
rativa. Nel rappresentare la carica di Nic-
colò da Tolentino contro i senesi, infatti,
Paolo Uccello presenta la scena in modo
vorticoso e dettagliatissimo con scorci La battaglia di San Romano, 1438-40, Firenze, Uffizi

131
CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

arditi sui vari personaggi; lo stesso


Tolentino risalta potentemente nel
groviglio di corpi ed animali, pre-
sentando tratti tipici del gusto cor-
tese dell’arte tardogotica. La tavola
centrale di Firenze, è mostrato il
momento culminante della batta-
glia: il nemico, rappresentato sim-
bolicamente sotto l’aspetto di un
cavaliere che viene colpito da una
lancia, è costretto ad indietreggiare
sotto l’aspetto dei fiorentini; natu-
ralmente l’opera è stata oggetto di
critiche in quanto può raffigurare il
conflitto interiore dello stesso Ber- La battaglia di San Romano, 1438-40, Parigi, Musèe du Louvre
nardino e questa battaglia storica-
mente non è mai avvenuta.
Il dipinto, mostra tracce cromatiche molto intense, specialmente nelle armature scintillanti dei sol-
dati: la caduta è sviluppata in modo estremamente simmetrico, alternando azione ed immobilità. Eccellente
la rappresentazione dei cavalli, ridotti a volumi puri e marcati da colori irreali (rosa, bianco, azzurro) stesi con
grande eleganza; l’insieme è ammirevole e genera un certo effetto surreale nello spettatore. La terza
parte infine è articolata in modo un po’ differente, con un unico fronte di cavalieri che occupa l’intero spazio
del dipinto: la composizione delle varie figure è assai complessa, con un sapiente gioco di linee tra uomini,
animali e lance. Nel complesso il senso di irrealtà aumenta, quasi trasformando gli eventi della battaglia in
un fatto simbolico. Infine, la scena raffigura Micheletto da Catignola, nell’atto di incitare con la spada i suoi
mercenari, a cavallo di un nero destriero che si impenna.

SAN GIORGIO E IL DRAGO

Il dipinto di Paolo Uccello è ripartibile innanzitutto tracciando una linea verticale a metà esatta del quadro:
nella metà di sinistra si vengono a trovare la Principessa, che occupa il settore più vicino alla cornice, e il
Drago e nella metà di destra San Giorgio; a ben guardare l’atteggiamento della Principessa è ambiguo, non
si capisce se ha paura, se mostra i legacci alla ricerca di comprensione e libertà o invochi pietà per il Dra-
go: l’intero lato sinistro è occupato,
come sfondo alle spalle del Drago e
della Dama, da una caverna che ra-
gionevolmente è sia la sua origine
che la sua tana. Questo perché il
Drago è animale tellurico per eccel-
lenza, nasce dalle viscere della terra,
condividendo questa origine con
tutto quello che dalle profondità
oscure provengono come l’acqua,
l’oro e le gemme, e da qui genera
i terremoti con i suoi movimenti
inconsulti. I terremoti che il Drago
suscita sono reali ma anche meta-
forici: rapimento di principesse, sic-
cità o alluvioni, pestilenza e carestia,
gli scuotimenti sono anche sociali
rivoluzioni, sommosse in una paro-
la il portatore del Caos. Il Drago con
la sua forma orizzontale appartiene
San Giorgio e il drago, 1456 ca, olio su tela, National Gallery, Londra al regime della dissoluzione dei le-

132
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

gami dei riti dionisiaci. La parte destra del quadro è occupata da San Giorgio a cavallo nell’atto di infliggere
al suo nemico il colpo mortale.
Dietro di lui la campagna fertile e una nuvola carica di tempesta, all’estrema destra in alto della raffigurazi-
one, con una curiosa forma a spirale. Il terreno dello scontro, l’area antistante l’ingresso della grotta, è arido
e devastato mentre il cielo è scuro con la presenza della luna che rimanda però più a un crepuscolo, al mo-
mento della sospensione tra luce e ombra, che a una scena notturna vera e propria. Le due metà del quadro
si fronteggiano come si fronteggiano i due contendenti e ogni dettaglio svolge la funzione narrativa nella
storia. Al centro del quadro in basso si trova collocata la testa del Drago colpita dalla lancia di San Giorgio,
impossibile non risalire lungo la lancia stessa con una diagonale che attraversa il quadro da sinistra verso
destra fino al braccio del cavaliere; ma lo sguardo, preso l’abbrivo dinamico della diagonale, non si ferma ar-
rivando alla nuvola tempestosa a forma di spirale immediatamente dietro San Giorgio. La spirale è il segno
dell’infinito e in questo caso è metafora di Dio nero di collera, una vera Ira di Dio. La relazione creata dallo
sguardo ci esplicita che San Giorgio è in missione per Dio e che è di Dio la forza immensa necessaria per
colpire a morte il Drago. Improvvisamente la lettura del quadro si dinamizza con una brusca accelerazione
nel tempo dell’azione ma anche nel tempo della comprensione: il quadro di Paolo Uccello illustra chiara-
mente che gli elementi della pittura altro non sono che i risultati reali del movimento e della forma, della
tensione e della direzione.

BEATO ANGELICO

Giovanni da Fiesole, al secolo Guido di Pietro, noto a tutti come Beato Angelico nasce a nella cittadina di
Vicchio nel Mugello, nel 1395 circa. Gli venne dato il soprannome di Angelico proprio per il suo modo di
dipingere, mentre Beato poiché solo nel 1984 verrà appunto beatificato da Giovanni Paolo II. Entrò in un
convento domenicano in Fiesole nel 1418 è diventa frate dopo il 1425 usando il nome di Fra Giovanni da
Fiesole. Anche se il suo insegnante è sconosciuto, ha cominciato probabilmente la sua carriera come illus-
tratore dei messali e di altri libri religiosi. La sua prima opera si fa risalire al 1420 proprio perché ai novizi
dell’ordine domenicano non era consentito dipingere al loro primo anno di noviziato. Per comprendere la
peculiarità dello stile di Beato Angelico bisogna non dimenticare che il pittore è uno tra i primissimi seguaci
delle novità rinascimentali, che riesce però ad armonizzare semplicemente con lo stile gotico trasmessagli
dai fiorentini come Lorenzo Monaco, dal quale riprese sia l’uso dei colori accesi che una luce fortissima che
annulla le ombre e partecipa al misticismo della scena sacra, Gherardo Starnina e le delicatezze luminis-
tiche dello stile di Gentile da Fabriano, creando forme risaltate da una limpida gamma cromatica. Ciò che ci
colpisce del pittore fiorentino è la sua maestria di aver saputo adattare la propria arte alle nuove scoperte;
il suo è un cambiamento innovativo in quanto si comprende che il suo reale compito era quello di cercare
un ponte tra l’arte gotica e l’arte rinascimentale, quindi cercando di unire i nuovi canoni rinascimentali,
come la prospettiva e l’attenzione alle figure, con i canoni gotici, come l’uso della luce. Grazie a questo suo
modo di dipingere Beato Angelico lascerà una grande impronta alle successive generazioni di artisti, infatti
il suo stile influenzò uomini del calibro di Benozzo Gozzoli, Filippo Lippi e niente poco di meno che Piero
della Francesca. Morì a Roma nel febbraio del 1455 e venne sepolto nella chiesa domenicana di Santa Maria
sopra Minerva.

PALA DI SANTA TRINITÀ

La deposizione dalla Croce è una pala d’altare realizzata tra il 1432 ed il 1434 ed è conservata al Museo
Nazionale di San Marco di Firenze. Beato Angelico dipinse questa pala d’altare su un singolo pannello per
la Cappella Strozzi, nella Chiesa di Santa Trinità di Firenze. Partendo dallo sfondo troviamo, anziché la tradiz-
ionale città di Gerusalemme, la città di Firenze vista dall’esterno di porta San Niccolò, che si dispiega lateral-
mente con una linea dell’orizzonte e con una rappresentazione di città a sinistra e di un paesaggio collinare
a destra. I personaggi vengono rappresentati con intento ritrattistico. Al centro, Giuseppe d’Arimatea, Nico-
demo, e il giovane San Giovanni Evangelista, tutti con le aureole, mantengono il corpo senza vita di Cristo.
Maria, con il vestito scuro, che congiunge le mani in un gesto tradizionale di dolore, ripetuto dalla donna
che sta alla sua sinistra, tiene teneramente i piedi di Cristo, rappresentando in questo modo il pentimento
umano. La figura con il cappello rosso a destra tiene i chiodi presi dalla croce e la corona di spine che sono

133
CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

il simbolo della passione e del sacrificio.

Il personaggio invece, con il cappello nero sulla scala, sembrerebbe essere Michelozzo. La scena centrale è
caratterizzata da un tono pacato e solenne e da colori tersi, brillanti e luminosi, tipici dell’artista. Lo schema
è piramidale, con i vertici in basso nelle due figure dolenti inginocchiate, e alla punta in alto gruppo dei
santi. L’effetto è quindi uno sviluppo verticale al centro, al quale si contrappone, uno sviluppo orizzontale in
profondità dei lati. Anche ai lati le fasce orizzontali dei personaggi sono accentuate in verticale dallo torre
sullo sfondo o dagli alberi. Ad emergere in primo piano è la figura di Cristo, visto in diagonale, e che con i

Pala di Santa Trinità, dipinto su legno, 1432-34, Museo Nazionale di San Marco, Firenze

suoi arti traccia le diagonali dell’opera intera. Interessante, inoltre, il fatto che il pittore sia riuscito ad una
scena sacra un contesto di vivacità pittoresca e ricreazione ambientale. Si aggiunga anche che il suolo è
pieno di pianticelle, che simboleggiano la Primavera,che viene intesa sia come stagione, sia come simbolo
di rinascita.

GIUDIZIO UNIVERSALE

“Il Giudizio Universale” è un dipinto di Beato Angelico, realizzato nel 1432-35, impiegando la tecnica a tem-
pera su tavola; ed è custodito nel Museo di San Marco a Firenze. Il dipinto fu commissionato all’Angelico
intorno al 1431 per la decorazione della parte alta del seggio sacerdotale, dove venivano cantate le messe.
La forma è strana e originale: un rettangolo con tre lobi. La struttura è piramidale: al vertice sta il Cristo giu-
dice, racchiuso in una mandorla di luce con la mano destra alzata, come simbolo di giudizio, e circondato
da schiere di creature angeliche: ai lati ci sono ventiquattro santi seduti in trono come giudici. Una fascia

134
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

Giudizio Universale, tempera su tavola, 1432-35, Museo Nazionale di San Marco, Firenze

azzurra di cielo separa la zona superiore da quella inferiore; al centro, su un corridoio di marmo grigio si
aprono due file di botole sepolcrali scoperte, aperte dal suono delle trombe degli Angeli dell’Apocalisse,
situati al di sotto del Cristo assieme ad un Angelo con la croce. A destra i risorti dannati sono trascinati dai
demoni verso l’inferno, dove notiamo in particolar modo la figura spettrale di Satana che divora 3 anime,
mentre sul lato opposto i beati alzano le mani verso il Salvatore e sono accompagnati da angeli verso il par-
adiso. Ai lati estremi notiamo il paradiso, un giardino in cui angeli e beati danzano insieme, e l’inferno, nella
cavità di una montagna dove i demoni tormentano in vari modi i dannati. Quindi l’autore con la fuga degli
avelli ha diviso la tavola in due rispettivi settori: il Paradiso e l’Inferno; e con la ritmicità degli spazi vuoti, il
percorso evidenziato dagli avelli attira lo sguardo dello spettatore e lo costringe a fermarsi proprio verso il
centro dell’opera.

L’ANNUNCIAZIONE

Quest’opera fu realizzata tra il 1438 e il 1446 nel Convento di San Marco ed è sicuramente una delle op-
ere più apprezzate dell’Angelico.
La scena è quella in cui l’angelo
annuncia alla Madonna che di-
venterà la Madre di Dio e il tutto
si svolge all’interno di un porti-
cato con colonne, di tipo corinzio
in primo piano e ioniche di lato,
collegate da archi semicircolari a
tutto sesto. All’esterno di questo
porticato troviamo un prato fior-
ito i cui elementi, come quelli rap-
presentati nella folta vegetazione,
separata dal prato grazie ad una
staccionata, vengono descritti
minuziosamente e attentamente.
Ora spostiamo lo sguardo verso
la scena centrale. Vediamo come
l’Angelo, rappresentato secondo
l’iconografia classica, è visto di
L’Annunciazione, dipinto su affresco, 1438-46, Convento di San Marco, Firenze
profilo, ritratto nel momento in

135
CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

cui è appena inginocchiato. Esso ha i capelli lunghi e biondi ed ha le braccia incrociate al petto come segno
di devozione verso colei che sarà la Madre di Dio. È vestito con una tunica rosa drappeggiata e adornata
da ricami dorati, mentre la brillantezza e la vivacità dei colori delle ali, ottenuta impastando della sabbia
di salice nell’intonaco, rende davvero l’idea che questo essere appartenga ad un mondo divino. Vicino
all’Angelo troviamo la Madonna vista di tre quarti, seduta su uno sgabello alquanto rustico, che in parte
rovina l’eleganza della scena. Maria è ritratta giovane con un volto serio e intenso, il cui capo è inclinato in
posizione di ascolto. È vestita in maniera molto semplice avente un manto blu drappeggiato sulle spalle
e anche le sue braccia sono incrociate al petto come simbolo di devozione verso una figura celestiale. I
colori che vengono utilizzati sono caldi e luminosi e inoltre si nota una profonda attenzione nel definire
i chiaroscuri da parte dell’artista, in quanto il suo obiettivo è rende le figure nel modo più naturale pos-
sibile. Particolare dove bisogna porre attenzione, è quello in cui le figure dell’Angelo e della Madonna non
sono perfettamente simmetriche, mentre il portico è rappresentato secondo i canoni della prospettiva, in
quanto il punto di fuga si trova nello spigolo della porta che si vede in fondo. Per lo spettatore, che vede
apparire all’improvviso questa immagine lo stupore è assicurato.

LA TRASFIGURAZIONE DI GESÙ

L’opera venne realizzata sem-


pre tra il 1438 e il 1446, sempre
all’interno del Convento di San
Marco. Il momento descritto è
quello che ci viene narrato da un
episodio del Vangelo, più precisa-
mente quando Dio proclama che
Gesù è suo figlio. La figura di Cris-
to domina la composizione per la
sua posizione centrale. Esso viene
raffigurato secondo la consueta
iconografia cristiana, ovvero con
capelli lunghi, barba fluente e
l’aureola. Ha le braccia aperte,
che testimoniano la sua futura
crocifissione ed è circondato da
un’aureola luminosa a forma di
mandorla, simbolo di cristianità.
Ai lati ritroviamo invece raffigurati,
la Madonna e San Domenico, fon-
datore dell’ordine di cui l’angelico
faceva parte, ovvero quello do-
menicano . In basso troviamo i tre
apostoli Pietro, Giacomo e Gio-
vanni e in alto i profeti Mosè ed
Elia, le cui teste emergono sullo
sfondo.
La composizione è organizzata in
modo geometrico e si basa su un
utilizzo di colori caldi e luminosi, e soprat- La Trasfigurazione di Gesù, dipinto su affresco, 1438-46,
Convento di San Marco, Firenze
tutto nella parte alta del dipinto notiamo
una varietà di bianchi e di gialli. Notevole è anche la varietà di chiaroscuri che dà molto rilievo ai drappeggi
delle vesti.

136
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

LA DERISIONE DI CRISTO

Anche in quest’opera, l’Angelico


riproduce una scena tratta dai
Vangeli, più precisamente ritrae
Gesù Cristo nel momento in cui
i soldati lo maltrattano e lo de-
ridono. Quindi ritroviamo Gesù
seduto al centro, con una posiz-
ione sopraelevata rispetto agli
altri personaggi, ritratto nel mo-
mento della derisione appunto.
Notiamo, infatti, la corona di spine,
la benda sugli occhi, e nelle mani
un bastone e la sfera, simboli della
regalità. Come simboli invece del
maltrattamento ritroviamo: delle
mani nell’atto di schiaffeggiare,
il volto di un soldato che lo sta
sputando e un bastone nell’atto di
picchiarlo. Ai piedi del Cristo sono
raffigurati la Vergine Maria e San
Domenico, i quali danno le spalle
a Gesù e non sembrano assistere
alla scena, ma sono intenti a riv-
iverla interiormente. L’opera ha
una struttura simmetrica di forma
piramidale, dove il vertice è cos-
tituito dalla figura di Gesù Cristo.
Vediamo anche come ogni figura
può essere inserita all’interno di
uno schema piramidale, che è in-
tesa come simbolo di perfezione.
Un ultimo particolare da analiz-
zare, è la presenza di San Domen- La Derisione di Cristo, dipinto su affresco, 1438-46, Convento di San Marco, Firenze.

ico in quest’opera e nell’opera “la


Trasfigurazione di Cristo”. La raffigurazione del Santo viene utilizzata per rivolgere un messaggio preciso ai
frati, ovvero quello di vivere la loro vita secondo la regola domenicana.

LEON BATTISTA ALBERTI

Leon Battista Alberti nacque a Genova il 14 Febbraio 1404, figlio illegittimo di Lorenzo Alberti, un esiliato
fiorentino esponente di una ricca famiglia di commercianti, bandita da Firenze dal 1382 per motivi politici.
Studiò Lettere a Venezia e a Padova, Legge e Greco a Bologna, ma fin da giovane in privato coltivò diversi
interessi a sfondo scientifico e artistico: musica, pittura, scultura, architettura, fisica, matematica. La vastità
delle sue curiosità e dei suoi saperi avrebbero fatto di lui il sommo rappresentante dell’Uomo del Rinas-
cimento, precursore per molti aspetti del genio di Leonardo Da Vinci. Alla morte del padre nel 1421, per
superare le ristrettezze economiche e consolidare il suo status sociale, Alberti si orientò verso la carriera
ecclesiastica. A partire dal 1428 poté tornare a Firenze. Nel 1431 divenne segretario del patriarca di Grado
e nel 1432 si trasferì a Roma come abbreviatore apostolico, ovvero come estensore dei testi delle dispo-
sizioni papali. Per ben 34 anni mantenne questo incarico, alternando soggiorni a Ferrara, Bologna, Firenze,
Mantova, Rimini e appunto a Roma, dove approfondì lo studio diretto delle rovine antiche, testimonianze
sparse della magnificenza della città imperiale e depositarie del linguaggio della classicità. Alberti fu scrit-
tore di materie svariate che corrispondevano ai suoi diversi interessi. Tra il 1433 e il 1441 scrisse una delle

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CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

sue opere più note, i quattro Libri della Famiglia, un trattato scritto in volgare che oggi definiremmo soci-
opedagogico, in cui attorno a temi eterni come matrimonio, famiglia, educazione dei figli, gestione del pat-
rimonio, rapporti sociali, si confrontano due diverse visioni del mondo: la mentalità emergente, borghese
e moderna, che prende le distanze da quella legata al passato e alla tradizione. Appassionato sostenitore
del volgare, promosse a Firenze nel 1441 il Certame coronario, gara letteraria dedicata al tema dell’amicizia,
con lo scopo dichiarato di sottolineare l’importanza e la ricchezza di quell’idioma che ormai tutti parla-
vano, ma che, 200 anni dopo Dante e 100 dopo Boccaccio, stentava ad affermarsi come lingua ufficiale. Il
ritorno a Firenze dall’esilio tra il 1428 e il 1432 fu per Alberti occasione per avvicinarsi all’opera dei grandi
innovatori, Brunelleschi, Donatello, Masaccio. E nel 1436 dedicò proprio a Brunelleschi il De Pictura (da lui
stesso tradotto in volgare col titolo Della pittura), trattato destinato a de-finire le regole delle arti figurative:
il metodo prospettico secondo saldi principi geometrici, la teoria delle proporzioni fondata sull’anatomia,
la teoria della luce e dei raggi visivi in rapporto ai colori, la composizione armoniosa delle ‘storie’. Il trattato
albertiano fu assorbito da molti artisti a lui vicini come Donatello, Filippo Lippi, Beato Angelico, Ghiberti,
Luca Della Robbia e probabilmente letto dai più giovani come Botticelli, Filippino, Michelangelo, Leonardo,
Raffaello, tanto da dirigere un nuovo corso per le arti figurative del secondo Quattrocento, fino al pieno
Rinascimento cinquecentesco. Questa attività teorica si arricchì negli anni successivi con il De Statua e il De
Re Aedificatoria, due fondamentali trattati di architettura e scultura in cui Alberti raccomanda in particolare
lo studio delle proporzioni. La bellezza, ricorda del resto nel De Re Aedificatoria, è un’armonia esprimibile
matematicamente proprio grazie alla scienza dei rapporti tra le forme, concetto sul quale insiste basandosi
sulla misurazione dei monumenti antichi. Il confronto con il mondo classico non per imitare ma per emu-
lare (Aemulatio, sed non Imitatio), legame indissolubile tra Ratio e Ars, tra teoria e pratica, tra capacità intel-
lettuale di formulare progetti architettonici e attitudine costruttiva, in altri termini tra Ragione e Bellezza.
Alberti praticò la professione di architetto: infatti, in poco più di vent’anni, dal 1450 alla morte, nacquero
progetti di opere straordinarie. A Firenze, l’impronta albertiana si riconosce in particolare nel palazzo Ru-
cellai, modello di dimora signorile urbana, nel tempietto del Santo Sepolcro nella chiesa di San Pancrazio,
nel completamento della facciata di Santa Maria Novella, nella Tribuna della Santissima Annunziata. Altre
significative opere albertiane in Italia sono il Tempio Malatestiano a Rimini e a Mantova le chiese di San
Sebastiano e Sant’Andrea. Alberti morì a Roma il 25 aprile 1472. Pochi anni dopo (1485) Lorenzo de Medici
diede inizio alla fortuna del suo trattato più importante, facendo stampare il De Re Aedificatoria (fin lì repli-
cato per via amanuense) con la prestigiosa cura editoriale di Agnolo Poliziano, realizzando così un progetto
auspicato dallo stesso Leon Battista.

IL PALAZZO RUCELLAI

Il palazzo Rucellai rappresenta uno dei modelli fon-


damentali dell’architettura fiorentina del Rinasci-
mento e testimonia come una nuova costruzione
possa modificare una via, la città, lo spazio pubblico.
Il palazzo fu costruito tra il 1446 e il 1451 da Bernardo
Rossellino, su disegno di Leon Battista Alberti, su or-
dine di Giovanni il Magnifico, membro della famiglia
Rucellai, una ricca famiglia di banchieri fiorentini
proprietari dell’edificio. L’edificio riflette fedelmente
le idee dell’Alberti e traduce la sua continua ricer-
ca del bello assoluto. L’esterno è armonioso ed el-
egante. La facciata si basa su rapporti matematici e
figure geometriche; è divisa da due cornicioni in tre
parti orizzontali. Ciascuna fascia a sua volta è suddi-
visa in verticale da paraste doriche al primo ordine,
corinzie al secondo e al terzo un motivo proprio degli antichi Romani, in particolare del Colosseo. Inoltre,
è possibile notare un diverso bugnato di pietraforte nei tre piani, a partire da quello liscio e di dimensione
più grande nella parte bassa fino ad arrivare ad un bugnato di dimensione più piccolo nella parte alta.
Tra una parasta e l’altra si aprono con regolarità le grandi finestre bifore, geometricamente concluse con
archi a tutto sesto. I portali hanno robusti architravi e un cornicione con mensole, entrambi elementi tratti

138
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

dall’architettura romana. Nella facciata ricorrono


anelli con diamanti e piume, caratteristici emblemi
dei Rucellai, oltre che De’ Medici. In basso, sopra la
panca, scorre una fascia decorata a rombi, motivo
che richiama l’opus reticulatum, una tecnica propria
dell’architettura romana, utilizzata a partire dalla
prima metà del I secolo a.C.

Palazzo Rucellai, 1446-51, edificio in muratura, Firenze

LA FACCIATA DI SANTA MARIA NOVELLA

Un’altra opera commissionata dalla famiglia Rucellai nel 1456 fu la facciata di Santa Maria Novella, comple-
tata dopo il 1478. Il nome di Giovanni Rucellai, magnifico «sponsor» - come si direbbe oggi - della facciata
di Santa Maria Novella, è scritto a caratteri cubi-tali sul frontone superiore della basilica, seguito dalla data
della conclusione dell’opera (1470). L’inizio dei lavori è meno certo, ma probabilmente non anteriore al
1458, l’idea invece risale al tempo del Concilio di Firenze (1439-1442), presieduto da papa Eugenio IV.
La facciata di Santa Maria Novella
prima dell’Alberti era nuda, come
quella di molte altre chiesa fioren-
tine come Santa Maria del Fiore,
San Croce e San Lorenzo, ma a
creare maggior difficoltà furono
sei «avelli rilevati in marmo», ossia
sei tombe di ragguardevoli citta-
dini e nicchie gotiche preesistenti
nella parte sottostante. L’Alberti
rese la facciata manifesto della
riscoperta filosofia platonica che
ebbe proprio in Firenze il suo cen-
tro propulsore. Il triangolo, il cer-
chio, il quadrato, il rettangolo e le
figure geometriche annesse si es-
tendono infatti nell’impianto ar-
chitettonico pensato dal geniale
architetto a formare una mirabile
serie di rapporti armonici. Prima di
tutto delimitò il rettangolo della
base mediante due grandi pilastri,
in cui inserì quattro colonne, che
sostengono un primo cornicione
decorato con un motivo ricorr-
ente, emblema della famiglia Ru-
cellai. Tra le due colonne centrali
aprì un grande portale ad arco, slanciato da due pilastri con capitelli corinzi, mentre le tre lunette sopra le
porte furono successivamente dipinte da Ulisse Cocchi. Sui lati della facciata è possibile osservare: a sinistra,
l’armilla equinoziale in bronzo, a destra il quadrante astronomico in marmo (1572 e 1574), entrambi opere

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CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

del domenicano Ignazio Danti, astronomo e cartografo granducale. Sul primo frontone è appoggiata una
larga fascia ornata a riquadri, sopra la quale si distende un secondo cornicione. Qui si innalza la parete su-
periore della navata centrale, collegata al cornicione da quattro mezzi pilastri, con in mezzo la preesistente
grande finestra circolare e ai lati le due «orecchie» ornate di rosoni a intarsio marmoreo. Infine, sopra alla
parete si trova a coronamento un triangolo, il timpano, con un grande sole al centro, stemma del quartiere e
del convento di Santa Maria Novella. Quindi l’intervento dell’Alberti si innestò sulle strutture gotiche prec-
edenti, ma seppe unificare la parte nuova e quella antica tramite il ricorso alla tarsia marmorea, derivata dal
Romanico fiorentino.

IL QUATTROCENTO: LA PITTURA FIAMMINGA

L’arte fiamminga ebbe il suo sviluppo nelle grandi città mercantili di Bruges, Gand e Anversa: in senso stret-
to, il termine “fiammingo” dovrebbe essere applicato solo ai dipinti eseguiti nelle Fiandre dopo la divisione
dei Paesi Bassi avvenuta nella seconda metà del secolo XVI.
Questa divisione creò l’area culturale olandese a nord e quella fiamminga a sud, mentre l’arco che sottende
queste città, gode di una prosperità elevata, grazie alle attività manifatturiere e a una fitta rete commerciale
che si ramificava in tutta l’Europa.
La pittura delle Fiandre precedente a questo periodo è chiamata più precisamente “prima” o “vecchia” scuo-
la dei Paesi Bassi, benché il termine “fiammingo” indica l’arte dei Van Eyck e dei pittori del loro tempo; le
premesse per la grande fioritura della scuola fiamminga del secolo XVI, da un gruppo di pittori fiamminghi
che avevano studiato in Italia: alcuni di questi maestri fusero le esperienze della più antica tradizione dei
pesi Bassi con quelle del Rinascimento Italiano. In relazione alle vicende dello Scisma d’Occidente, già dalla
fine del Trecento, si era sviluppata nella zona nordica, una sensibilità religiosa che ricercava un più stret-
to rapporto tra Dio e l’uomo, che arrivava a incoraggiare un’identificazione con la divinità, in particolare
riguardo alla compartecipazione delle sue sofferenze, in tratti religiosi come la Passione di Cristo o i dolori
di Maria; l’aspetto “privato” della religione, era legato a una diffusione dei libri di preghiera mentre ai fedeli
erano affidati delle immagini devozionali.
Questa diversa spiritualità, non certo vista di buon occhio in Italia, fu una delle ragioni che spinsero gli
artisti a una ricerca figurativa più realistica ed attenta ai dettagli più minuti e precisi della vita quotidiana.
Inoltre dovette avere peso anche la filosofia nominalistica, che sostiene come la sostanza del reale ci per-
venga dalla percezione dei singoli oggetti fisici.
Questi caratteri oltre a identificarsi nell’arte, si manifestavano nell’architettura e nella scultura:
- In architettura: la fioritura più antica si ha nella regione mosana di Liegi, nel senso della rinascenza caro-
lingia, a contatto con altri prototipi artistici; in altre regioni, invece, dominano le penetrazioni francesi
con riattacchi normanni. Il gusto rinascimentale, nel primo 1500, s’affianca e si mescola all’intramontabile
Gotico, e non tanto rinnova strutture ma diviene regina incontrastata nella decorazione: un rinnovamen-
to avvenne solo nel 1600, per la nuova vitalità del sentimento religioso e nazionale.
- In scultura: registra alte pagine nel suo percorso più antico, a partire dal Romanico, nella cappella del
Santo sangue in Bruges, segnando la scultura attraverso cenni crudi e drammatici.
La scuola fiamminga nel 1400 e quella olandese nel 600 costituiscono capitoli di estrema importanza
nella storia dell’arte occidentale, tali da influenzare largamente il gusto del continente. Il loro studio
non può però essere condotto isolandole dai loro precedenti e dal loro ambiente storico-culturale. Per
la stessa ragione, nonostante la separazione, a volte grave, che vicende politiche ed ancor più religiose
hanno creato, sia direttamente sia indirettamente, fra i territori di cultura fiamminga e olandese, si è
preferito trattare unitariamente la loro evoluzione stilistica: si esamineranno, dunque, non solo le vi-
cende pittoriche, ma, architettoniche, plastiche e decorative.

Nei secoli precedenti al 1000, l’architettura religiosa del paese è condizionata dalla civilizzazione religiosa.
Dal V secolo fino all’ VIII, nei Paesi bassi, fioriscono dovunque le fondazioni missionarie con St. Amand, St.
Bavon, la cui azione si risente a Gand e a Liegi e promuove il sorgere di grandi abbazie.
Le chiese vescovili ed abbaziali con struttura di pietra, innalzate su tombe o reliquie di santi, sono edificate
su un tipo basilicale latino o bizantino; non mancano gli edifici a pianta centrale ma estremamente sempli-
ficati. In età carolingia le numerose cappelle palatine sono costruite su pianta esagonale o ottagonale, con
matronei e cupola centrale.

140
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

Esempi di pittura fiamminga

Con il passare del tempo, non ci è dato conoscere sculture di pietra di particolare rilievo, data la scarsa
conservazione dei monumenti e della scadente qualità della materia prima locale; del resto la scultura ap-
pare poco congeniale allo spirito fiammingo e conoscerà solo sporadiche espressioni di alto livello. Dal XIV
secolo in poi, i contatti tra la cultura fiamminga e quella straniera, si fanno più frequenti e si vanno chiar-
endo: si tratta di rapporti stranieri, prevalentemente francesi e italiani, che vengono rielaborati e trasformati
secondo il gusto e lo spirito fiammingo, così da rientrare nella tradizione di quell’arte, e insieme di apporti
e di artisti fiamminghi all’estero; quando nel XIV secolo e al principio del XV, prevale in Europa lo stile inter-
nazionale, vediamo che tramite la Francia e soprattutto tramite le corti – con il fiorente mecenatismo – è
vivissima nelle Fiandre l’eco della pittura italiana, specie nei miniaturisti: elementi di colore, dati architet-
tonici, notazioni di paesaggio, rivivono in alcuni dei grandi fiamminghi.
Nel corso del XV secolo i contatti non sono più occidentali, ma regioni economiche, politiche e religiose
sono alla base di tanti frequenti scambi tra le Fiandre e i Paesi stranieri. Non raramente nel XV secolo pos-
siamo parlare di influssi fiamminghi nelle scuole italiane, senza però che essi divengano mai imitazione o
elemento prevalente sullo spirito umanistico. In Ghirlandaio, Piero della Francesco e in Antonello da Messi-
na, è evidente la visione dell’arte fiamminga; continui furono i rapporti con l’Olanda nel corso del ‘600 talora
si parla di un’arte fiamminga in senso all’arte olandese: comunque sempre vi fu un vicendevole scambio fra
le tradizioni dei due paesi che, pur confinanti, mantennero costanti la loro autonomia artistica.

I CARATTERI DELL’ARTE FIAMMINGA

Lo spirito olandese, essenzialmente analitico e insieme intimistico, si rispecchia felicemente nella natura
morta e nella raffigurazione di fiori, nella quale la rappresentazione degli oggetti è di un purismo, meditato
e contenuto. Molti autori favoriscono il gusto per l’emblematica raffigurazione della “vanitas”: natura, morte
con vecchi libri, candela, teschio e strumenti musicali sono questi gli appellativi che meglio identificano gli
autori fiamminghi. Tra di essi, emerge lo studio per la botanica ma tuttavia le più belle nature morte, nelle
quali si attua un perfetto equilibrio fra rappre-sentazione visiva e spiritualizzazione della natura, apparten-
gono alla seconda metà del 600. È interessante notare come questi artisti non dipingessero mai davvero,
bensì di fantasia, sicché le loro opere furono libere, al di fuori di ogni rappresentazione visiva. L’indagine
naturalistica, connaturata allo spirito olandese, posta nel corso del XVII secolo ad una definitiva autonomia
delle pitture di paesaggio, nella quale vengono a crearsi delle vere e proprie correnti. Il nudo paesaggio
olandese, nella sua estrema semplicità, è costante motivo di ispirazione: alcuni artisti valorizzano la figura
umana nel paesaggio, raffigurando scene di viaggiatori davanti a taverne di campagna su strade rustiche
tra gli alberi. Nella seconda metà del XVII secolo, la pittura di paesaggio si trasforma da espressione intima
a una creazione monumentale quasi solenne intenta a sottolinearne l’utilità eroico del protagonista. Paral-
lelamente alla richiesta di eseguire queste tematiche, nasce l’esigenza di raffigurare un grandioso paesag-
gio. Così per esempio, quando Jacob Kuysdael dipinge il castello di Bentheim, su basse colline, l’edificio si
trasforma in una costruzione imponente su imponenti montagne; altri, invece, si cimentano nella rappre-

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CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

sentazione di fiumi e stagni gelati, paesaggi serali con tramonti o chiavi di luna, mentre rari sono coloro che
animano la “tela”, animandola con solenni figure di animali.

Jacob Kuysdael, castello di Bentheim, 1653, olio su tela

L’ESPANSIONE DELL’ARTE OLANDESE

La diffusione dell’arte olandese e specialmente della pittura, è stata tale da modificare il gusto europeo e la
sua interpretazione estetica dei compiti dell’artista.
In certo senso, tutta la pittura mondiale dell’ ’800, ne è ancora una diretta conseguenza: la penetrazione
infatti, andò sempre più estendendosi sia sotto la veste della scena galante o di salotto settecentesco, sia
sotto il principio del realismo; si potrebbe anche dire che l’Olanda succede alle Fiandre provocando un
ritorno alla realtà pari a quella stimolata dalla polemica antigotica.
Tale influsso fu poi largamente aiutato dalla uccisione che, per ragioni politiche, fu straordinariamente fior-
ente.
Questa influenza si può distinguere in due grossi linee:
- la prima avviene attraverso rapporti di mercato o viaggi di artisti minori;
- la seconda, invece, avviene attraverso grandi pittori ed è tale da determinare il nascere di particolari
generi o di taluni orientamenti, perduranti anche nel tempo.
la componente olandese, nella decorazione, non è minore di quella sviluppatosi nelle Fiandre ma ben presto
toccherà le grandi capitali europee, centri di una cultura sempre più fiorente, come la Francia e la Germania.
In seguito le opere fiamminghe affluirono in Italia su commissione delle corti e di altre importanti famiglie
italiane. Molti autori europei si recavano almeno una volta in Italia, soprattutto in occasione dei giubilei, e
alcuni di questi vi trovarono in seguito un lavoro stabile. Molti autori italiani del primo e del secondo Quat-
trocento ammirarono l’arte fiamminga in quanto rendeva capace di affluire nelle opere una magistrale
luminosità e di riprodurre con tanta minizia i particolari più minuti e furono affascinati dalla loro tecnica.

142
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

La pittura delle Fiandre, infine, non gravitò più la figura dell’uomo in quanto non fu concepito più come
motore della storia e l’artefice del suo destino, ma diventa “calamita” in quanto esso è parte dell’universo.

ANDREA MANTEGNA

Andrea Mantegna, pittore ed incisore, nacque nel 1431 ad Isola di Carturo, un paese del vicentino oggi in
provincia di Padova. Verso i dieci anni si trasferisce a Padova, dove fu allievo del pittore Francesco Squar-
cione, appassionato d’archeologia classica e a capo della più fiorente scuola-bottega padovana dell’epoca.
Dunque, la sua formazione si svolse in un ambien-te culturale sensibile ed attento allo sviluppo dell’arte
fiorentina, grazie alla presenza in città di Paolo Uccello, Filippino Lippi e, soprattutto, Donatello. Le condizioni
economiche della famiglia d’origine erano piuttosto modeste: il padre, Biagio, era un carpentiere e difficil-
mente avrebbe potuto permettersi di pagare la retta allora necessaria per avviare i giovani ad una profes-
sione. Infatti, nel 1441 è citato nei documenti padovani come apprendista e figlio adottivo dello Squarcione.
Dalla nativa Padova ebbe un’educazione classica, che arricchisce con l’osservazione diretta di opere clas-
siche e la pratica del disegno con influssi fiorentini e tedeschi. Nel 1447 è a Venezia con lo Squarcione. Nel
1448 si libera definitivamente della tutela dello Squarcione; di quell’anno è la Pala di Santa Sofia per l’altare
maggiore dell’omonima chiesa padovana; e sempre di quell’anno è la firma del contratto del fratello Tom-
maso Mantegna per la decorazione della cappella della famiglia Ovetari nella chiesa degli Eremitani a Pa-
dova, con le storie di San Giacomo e San Cristofaro. Nel 1453 sposò Nicolosia, figlia di Jacopo Bellini e sorella
dell’astro della pittura del tempo, Giovanni Bellini, con il quale instaurò un intenso rapporto artistico. Pochi
anni dopo, realizzò il Polittico di San Luca e Sant’Eufemia. Fra il 1459 e il 1460, accettò l’invito del marchese
Ludovico Gonzaga e si trasferì a Mantova, dove salvo qualche breve viaggio, resterà tutta la vita. Qui attese
alla decorazione di una sala del palazzo ducale, nota come Camera degli Sposi, che costituisce l’opera più
complessa e matura fra tutte quelle giunte a noi. Dello stesso periodo, intorno al 1470, è il Cristo Morto di
Brera e San Sebastiano del Museo del Louvre. Nel 1485 intraprese la stesura di una serie di grandi tele raf-
figuranti i trionfi di Cesare, in seguito interrotti per un viaggio a Roma, dove, su incarico di papa Innocenzo
VIII, dipinse una cappella dei palazzi Vaticani distrutta nel 1780. Tra il 1497 e il 1502 realizzò, per lo studiolo
d’Isabella d’Este, il Parnaso, Il trionfo della virtù e il Regno di Como, quest’ultima restò incompiuta a causa
della sua morte avvenuta a Mantova il 13 settembre del 1506.

LA CAMERA DEGLI SPOSI

L’opera più famosa di Mantegna è certamente la cosiddetta Camera degli Sposi, detta anche “camera picta’’(
ovvero dipinta), collocata nel torrione nord-est del Castello di San Giorgio di Mantova. Mantegna rese la sala
illusoriamente grandiosa con una
decorazione interamente dipinta
che simula una diversa architet-
tura: una struttura a pilastri, ornata
da sculture, corone e medaglioni
commemorativi, regge una volta
a costoloni con i ritratti di otto im-
peratori, conclusa nel mezzo da un
oculo, da cui si scorge il cielo. Tra i
pilastri del padiglione si ammira-
no vedute di campagna, castelli,
giardini e monumenti antichi. La
parete ovest, detta dell’Incontro,
è divisa in tre settori: in quello di
destra avviene l’incontro vero e
proprio, in quello centrale alcuni
putti reggono una targa dedica-
toria e in quello di sinistra sfila la
Camera degli Sposi, 1465-74, Castello di San Giorgio, Mantova
corte del marchese. Nell’Incontro

143
CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

Volta della Camera degli Sposi, Mantova Particolare: oculo della volta

del marchese Ludovico con il figlio cardinale Francesco, sono rappresentati il marchese ed accanto Frances-
co, appena nominato cardinale. Sotto di loro stanno i figli di Federico I Gonzaga, Francesco e Sigismondo,
mentre il padre, sul lato destro, sta dialogando con due personaggi. Il ragazzo, al centro, è l’ultimo figlio del
marchese Ludovico, che tiene per mano il fratello del cardinale e suo nipote. La scena è ambientata in uno
splendido paesaggio immaginario, con una città in lontananza, che si identifica con Roma. Infatti, si intrave-
dono il Colosseo, la piramide di Cestio, il teatro di Marcello, le Mura aureliane, ecc.. Inoltre, nell’ultimo res-
tauro è stata scoperta nello scomparto sinistro una carovana dei Magi, stesa a secco e coperta di sudiciume,
forse aggiunta per indicare la stagione invernale, nonostante la rigogliosa vegetazione, che comprende
però anche alcuni aranci, che fioriscono a fine anno. La corte dei Gonzaga si trova nella parete nord, divisa
in tre settori: nel primo settore Mantegna si delimitò a disegnare una tenda chiusa; nel secondo la tenda è
dischiusa e mostra la corte dei Gonzaga ed ,infine, anche nel terzo settore la tenda è chiusa, ma una serie
di personaggi vi passa davanti, secondo un motivo che confonde il confine tra il mondo reale e quello dip-
into. Il settore centrale mostra il marchese Ludovico, seduto su un trono e vestito con una comoda veste da
camera, che volge il capo verso il suo segretario consigliere, Marsilio Andreasi o Raimondo Lupi di Soragna,
con un gesto molto naturale.
Sotto il trono sta accucciato il cane preferito del marchese, Rubino, simbolo di fedeltà. Dietro di lui sta in
piedi il terzogenito Gianfrancesco, che tiene le mani sulle spalle di un bambino. L’uomo col cappello nero è
Vittorino da Feltre, precettore del marchese e dei suoi figli. Al centro troneggia la moglie di Ludovico, Mar-
bara di Brandeburgo, in posizione quasi frontale, con una bambina sulle ginocchia, Paula, la figlia mota pre-
maturamente. Gli altri personaggi sono incerti: la donna dietro Barbara è stata interpretata come la nutrice
di casa Gonzaga. Da notare, mentre, nella sala ovest, i personaggi sono raffigurati si profilo, per conferire
loro un carattere aulico e quasi sacrale, qui invece sono di tre quarti.
Alla sommità della volta, al centro, si trova il famoso Oculo, un tondo aperto illusionisticamente verso il cielo
azzurro. È sorretto da una cornice con ricchissimi motivi floreali, e il tutto è sostenuto da una struttura finta
di lacunari e lunette con motivi mitologici. Nell’oculo, si vede una balaustra, dalla quale si affacciano una
dama di corte, accompagnata dalla serva di dolore, un gruppo di domestiche, una dozzina di putti in posiz-
ioni diverse (di schiena, di fronte, all’esterno della balaustra) e un pavone, simbolo cristiano. Per rafforzare
l’impressione dell’oculo aperto Mantegna raffigura alcuni putti in bilico, aggrappati al lato interno della
cornice. Il pesante vaso di agrumi è appoggiato ad un bastone e le ragazze attor-no, con volti sorridenti e
complici, sembrano in procinto di farlo cadere nella stanza. Inoltre, la nube più grande non occupa il centro
dell’oculo, ma è spostata di lato, in modo che nessun dettaglio venga a trovarsi in uno spazio centrale.

144
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

IL CRISTO MORTO

Cristo morto, 1475-78, tempera su tela, Pinacoteca di Brera, Milano

Un’altra opera importante di Andrea Mantegna è il Cristo Morto, dipinto intorno al 1480, probabilmente
per la sua cappella funeraria; infatti, venne trovato dai figli di Mantegna nella bottega, dopo la sua morte,
e fu venduto per pagare i debiti. La tela, oggi conservata nella Pi-nacoteca di Brera a Milano, rappresenta il
cadavere di Cristo mostrato dai piedi e in posizione frontale. Gesù, coperto in parte dal sudario, è steso su
una lastra di pietra rossastra, identificata come ‘’pietra dell’unzione’’, e con la testa appoggiata su un cuscino.
A sinistra di Gesù, compressi in un angolo, ci sono tre personaggi: la Vergine Maria, raffigurata piangente
che si asciuga gli occhi con un fazzoletto; San Giovanni, a destra della Vergine Maria, anch’egli piangente e
alla sua sinistra, seminascosta, è certamente la Maddalena. Anche in questo caso, Mantegna, per esaltare gli
aspetti drammatici dell’episodio, si sofferma sulle rughe della madre anziana, sugli occhi rossi e gonfi, sulle
bocche contratte da dolore o deformate dalle smorfie del pianto. Le figure di profilo inginocchiate sono
rappresentate da Mantegna come se fossero viste dalla loro altezza e presuppongono un orizzonte molto
basso. Se fosse stato anche così per il Cristo, i suoi piedi sarebbero apparsi molto più grandi, la testa molto
più piccola e il corpo molto più stretto. L’intera scena si svolge in un ambiente chiuso e buio, in contrasto
con il flusso di luce, proveniente da destra, che illumina le tre figure, originando un profondo senso di pa-
thos.

145
CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

SAN SEBASTIANO

Andrea Mantegna amava evidentemente ritrarre


San Sebastiano e le sue frecce, poiché lo dipinse tre
volte, in tre periodi del tutto differenti della sua vita.
Nelle prime due occasioni, ricorrente è il tema tra il
corpo del santo in primo piano e le rovine, disegnate
sotto un cielo in apparenza quasi sereno. Comune
alle tre opere è anche il leggero movimento del
santo, quasi impercettibile. Qui troviamo raffigurato
il San Sebastiano, realizzato da Mantegna intorno al
1450-1460. L’opera apparteneva alla famiglia Gon-
zaga e, in occasione del matrimonio di Chiara con
il conte Gilbert di Bourbon Montpensier, venne do-
nata alla chiesa di Notre-Dame; poi successivamente
pervenne al museo di Parigi. Il santo è legato ad un
monumento romano in rovina, cui si aggrappano
l’edera e il fico, piante dense di significati simboli-
ci. San Sebastiano è raffigurato nudo, trafitto dalle
frecce del martirio. Ogni particolare è delineato at-
traverso contorni marcati e precisi: le rughe che gli
segnano il volto, i rilievi delle ossa e dei muscoli, le
pieghe del panno che gli cinge i fianchi. Lo sfondo
è occupato da un lontano paesaggio montuoso: il
monte è dominato in alto da un castello, appoggia-
to su uno sperone roccioso, sotto il quale sta un’altra
rocca. Più in basso si trova la città, sotto la quale spic-
ca una piazza circondata da edifici classici. La città
raffigurata è probabilmente la Gerusalemme celeste
descritta nell’Apocalisse.

San Sebastiano, 1481 ca, tempera a colla su tela, Musée du Louvre, Parigi

JAN VAN EYCK

Jan Van Eyck, fu l’artista fiammingo più conosciuto e apprezzato nel XV secolo e senza dubbio la portata
della sua opera può essere confrontata solo con quella rivoluzionaria di Masaccio. Nacque nell’attuale Lus-
semburgo, ma non si conoscono nè l’anno preciso della sua nascita nè le sue circostanze della sua formazi-
one; le prime opere note sono le miniature, a testimonianza del forte legame che unì il pittore al mondo
gotico; nonostante sia considerato il capostipite della pittura nei Paesi Bassi nel Quattrocento ed il maggior
pittore nord europeo del suo tempo, le notizie certe riguardanti la sua vita sono ancora molto scarse. Proba-
bilmente la sua formazione fu nel campo della miniatura, dalla quale imparò l’amore per i dettagli minuti
e per la tecnica raffinata, che si riflesse anche nelle opere pittoriche. Le prime informazioni che si hanno
sul conto di Van Eyck risalgono quindi al periodo in cui Jan Operò a l’Aia dal 1422 al 1424 per Giovanni
di Baviera. Nel 1425 si trasferì a Bruges presso Filippo III di Borgogna, dove rimase a lungo al suo servizio
anche dopo essersi trasferito a Lilla, compiendo varie missioni incaricategli dal patrono. Il problema della
sua formazione e soprattutto della sua priorità nell’abbandono dei modi sti-listici del gotico internazion-
ale nei Paesi bassi, per una maggiore adesione alla concretezza del reale, si lega a quello tuttora irrisolto,
dell’attribuzione di alcune miniature nelle Ore di Torino: se appartenessero davvero a lui e fossero state
eseguite entro il 1420, come alcuni ritengono, non sussisterebbero dubbi su tale priorità (da alcuni riferita
a Campin e da altri ad Hubert van Eyck, più anziano del fratello e suo probabile maestro), per quanto è
possibile ricostruirne la sua vicenda artistica, appare escluso da questo spirito analiticamente moderno, sia
pure manifestando sensibili superamenti dell’astrattezza gotica. quello di Jan è un percorso con variazi-
oni minime: l’indagine della realtà e fin dall’inizio, minuta e accanita e subito egli perviene all’inseparabile

146
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

organizzazione di figure, paesaggio e oggetti, in complessi di una monumentalità elevata e solenne. La


qualità traslucida del colore, steso per strati sovrapposti, la sottigliezza degli effetti luminosi, la precisione
del segno, giungono alla pittura di Jan Van Eyck a una straordinaria verità nella resa del reale, destinata a
rimanere il carattere essenziale e inconfondibile dell’arte fiamminga.

POLITTICO DELL’AGNELLO MISTICO

Il Polittico dell’Agnello Mistico o Polittico di Gand è un’opera monumentale di Jan van Eyck (e del miste-
rioso Hubert van Eyck), dipinto per la chiesa di San Bavone a Gand, dove si trova tutt’oggi. Si tratta di un
polittico apribile composta da dodici pannelli di legno di quercia, otto dei quali sono dipinti anche sul lato
posteriore, in maniera da essere visibili quando il polittico è chiuso. La maggior parte delle informazioni sul
polittico deriva dall’iscrizione sulla cornice e qualche riscontro indiretto.
Sull’iscrizione si riporta come fosse stato iniziato dal pittore Huubertus Eeyck, “il maggiore mai vissuto”, e
completato dal fratello Jan, secondo nell’arte, su incarico di Josse Vijd, che glielo affidò il 6 maggio, mentre
alcune lettere in rosso, se lette come cifre romane, compongono la data 1432. Il polittico è costituito da 12
pannelli, disposti su due registri, uno superiore e uno inferiore. Il tema iconografico del polittico è probabil-
mente quello della Redenzione, con un prologo terreno (gli sportelli esterni) e la conclusione nelle scene dei
beati in paradiso nei pannelli interni. Il registro inferiore mostra al centro il grande pannello dell’Adorazione
dell’Agnello mistico, dove in una ampio paesaggio si trova su una collinetta l’altare con l’Agnello simbolo
di Cristo, adorato da una schiera di angeli. mentre la colomba dello Spirito Santo irradia i raggi solari della
Grazia divina, sotto l’altare si vede la Fontana della Vita ed attorno ad essa ed all’altare si trovano quattro
fitti gruppi di adoratori: a sinistra in basso i pagani e gli scrittori ebrei, a destra i papi e i santi uomini; in alto
spuntano invece i gruppi dei martiri uomini a sinistra (con in prima fila gli appartenenti al clero) e le martiri

Cristo morto, 1475-78, tempera su tela, Pinacoteca di Brera, Milano

147
CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

a destra. L’impostazione di questo pannello è di sapore più arcaico, con gruppi sovrapposti su un unico
piano ascendente, al posto di disposizioni più naturali e conformi alla natura del paesaggio, come negli
altri sportelli; per questo la scena è attribuita di solito a Hubert. Ai lati di questo grande pannello centrale si
trovano due scomparti per lato con altri gruppi di adoratori, composto in un paesaggio che riprende spa-
zialmente lo sfondo del pannello centrale. Da sinistra si incontrano: i Buoni Giudici, i Cavalieri di Cristo, poi
gli Eremiti e i Pellegrini. Il numero quattro richiama i quattro angoli della Terra, da cui proverrebbero i santi
e beati venuti ad adorare l’Agnello.
Quando il polittico è chiuso su questo registro si trovano dipinte le statue di San Giovanni Battista e San
Giovanni Evangelista, in grisaille, mentre ai lati si trovano i due committenti inginocchiati; il pannello cen-
trale del registro superiore, di altezza maggiore, mostra una figura maschile barbuta, assisa su un grande
trono, coronato da archi a tutto sesto che riflettono la forma tradizionale dei polittici gotici, divisi in pan-
nelli cuspidati, con in testa una tiara e scettro. Questa figura è oggetto di varie interpretazioni, per alcuni
studiosi rappresenta Dio Padre, per altri Cristo Re e una terza interpretazione ne vedrebbe rappresentata
la Trinità. Accanto a lui, sullo stesso pannello ma divisi da cornici, si trovano la Vergine Maria e Giovanni
evangelista. Anche queste figure sono attribuite a Hubert, per via dei panneggi abbondanti e rigidi, a fronte
di fondi appiattiti, anche se alcuni attribuiscono la stesura del colore a Jan. I due pannelli laterali succes-
sivi, con la forma ad arco che copre esattamente i troni laterali, mo strano due gruppi di angeli musicanti.
Infine gli ultimi due pannelli, a forma di semilunette, riportano Adamo ed Eva nudi entro nicchie dipinte,
sormontati da sue scene dipinte a grisaille del Sacrificio di Caino e Abele e dell’Uccisione di Abele. Adamo
ed Eva sono le figure di congiunzione tra esterno e interno, poiché essi sono i responsabili della venuta del
Redentore, per lavare le colpe del Peccato originale. Sul retro delle ante, che si vedono quando il polittico
è chiuso, si trova l’Annunciazione, che si svolge in una stanza architettonicamente definita con precisione,
e nelle lunette due profeti (ai lati) Zaccaria e Malachia e due sibille (nelle semilunette centrali). La stanza
dell’Annunciazione è resa realisticamente grazie all’uso dell’unificazione spaziale di tutto il registro supe-
riore, tramite linee ortogonali convergenti e tramite la presenza uniforme della luce sulle varie superfici.
Grandissimo virtuosismo illusionistico è la proiezione delle ombre dei montanti dei pannelli sul pavimento
della stanza, calibrata secondo la luce della finestra che naturalmente illumina la cappella. In quest’opera
compaiono quelli che divennero i caratteri tipici della pittura di van Eyck: naturalismo analitico, uso di colori
luminosi, cura per la resa del paesaggio e grande lirismo, tutti elementi che si ripresenteranno anche nei
dipinti eseguiti a pochi anni di distanza dal polittico di Gand. Non è chiara la ragione per cui nei pannelli
si usino scale di rappresentazione diverse, in particolare, nel lato interno, tra registro superiore e inferiore.
La solenne monumentalità delle figure superiori contrasta con i paesaggi distesi e brulicanti di figure in
azione nella parte inferiore, che farebbe quasi pensare a una monumentale predella. Nel complesso comu-
nque non si può parlare di disomogeneità eccessivamente marcate, infatti i colori, la luce e le composizioni
spaziali risultano nel complesso sufficientemente unificate e l’altissima qualità pittorica del polittico mette
in secondo piano anche i problemi attributivi. La tecnica del colore a olio, perfezionata proprio da van Eyck
e ripresa dai suoi seguaci, permise la creazione di effetti di luce e di resa delle superfici mai viste prima:
siccome i colori asciugavano molto lentamente era possibile procedere a successive velature, cioè strati di
colore traslucidi e trasparenti, che rendevano le figure brillanti e lucide, permettendo di definire la diversa
consistenza delle superfici fin nei minimi particolari. La luce fredda e analitica è l’elemento che unifica e
rende solenne e immobile tutta la scena, delineando in maniera “non selettiva” sia l’infinitamente piccolo
che l’infinitamente grande. Vengono sfruttate più fonti luminose, che moltiplicano le ombre e i rilessi, per-
mettendo di definire con acutezza le diverse superfici: dei tessuti ai gioielli, dagli elementi vegetali al cielo
terso. In quest’opera, e nelle opere fiamminghe in generale, lo spettatore è incluso illusoriamente nello
spazio della rappresentazione, tramite alcuni accorgimenti quali l’uso di una linea dell’orizzonte più alta,
che fa sembrare l’ambiente “avvolgente”, come se fosse in procinto di rovesciarsi su chi guarda.

148
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

IL RITRATTO DEI CONIUGI ARNOLFINI

Nel celebre Ritratto dei coniugi Arnolfini Jan Van Eyck inserisce i personaggi in un ambiente familiare, la
camera degli sposi. Molti elementi dell’ambientazione hanno un significato simbolico, a cominciare dalla
camera che, con il letto nuziale e lo scranno sul fondo, si pone come luogo della sacra unione matrimoniale.
Completamente accerchiati da simboli del matrimonio cristiano nascosti negli oggetti quotidiani, i coniugi
Arnolfini si scambiano la promessa di fedeltà nella loro futura camera nuziale, un ambiente domestico raf-
finato e sofisticato nella resa pittorica che dichiara l’agiata condizione sociale dei personaggi. La scansione
dei piani di profondità è segnalata dal mutare impercettibile delle tonalità, ed è governata dalla luce che
entra dalla finestra, come la matematica governa lo spazio prospettico fiorentino. Lo specchio convesso
amplifica l’interno come un obiettivo fish-eye, attirando nello spazio di illusione della pittura la realtà che
sta all’esterno del dipinto, espandendo le possibilità della visione: sappiamo così che di fronte ai fidanzati ci
sono due personaggi, forse in veste di testimoni, uno dei quali dovrebbe essere Van Eyck, come si intuisce
anche dall’iscrizione sulla parete.
Garanzia della veridicità dell’evento e anche ga-
ranzia della veridicità delle fattezze fisionomiche
dei promessi sposi, tramandate così com’erano
nell’attimo dipinto, ché domani il tempo le avrà già
mutate: lui con quelle narici così larghe, l’ovale del
viso troppo lungo, gli occhi globosi e senza ciglia,
le paffutella e acerba. Giovanni Arnolfini, a Bruges
dal 1420, era un ricco mercante di stoffe lucchese
e cavaliere di Filippo il Buono. L’alto rango è testi-
moniato dal pregiato mantello foderato di pelliccia
e dal cappello a larghe falde indossato nelle occa-
sioni solenni. Solleva la mano destra nel gesto del
giuramento. Giovanna Cenami indossa un abito
alla moda, guarnito di pelliccia e arricciature, molto
amate dalle donne fiamminghe per ornare i veli. La
mano sul ventre, messo in evidenza dall’arricciatura
sotto il seno, non indica una gravidanza, ma è un
gesto rituale, una promessa di fertilità. Lo sguardo
è abbassato e umile per esprimere la sottomissione
all’autorità del marito. Nel XV secolo, era consuetu-
dine che gli sposi, prima di presentarsi al sacerdote,
si scambiassero la promessa di matrimonio congi-
ungendo tra loro le mani. Questo atto, insieme al
giuramento dello sposo, aveva valore giuridico e
necessitava di due testimoni: Ecco perché il di-pinto
Ritratto dei coniugi Arnolfini, olio su tavola, 1434, National Gallery, Londra
fa riferimento al fidanzamento piuttosto che al mat-
rimonio dei due giovani. Nell’ambito dei simboli col-
legati al matrimonio, lo specchio è lo speculum sine macula, lo specchio senza macchia che fa riferimento
alla verginità di Maria, e dunque, per analogia, alla verginità della sposa, che doveva rimanere casta anche
durante il matrimonio. Le dieci scene della Passione che lo incorniciano sono un esempio di cristiana sop-
portazione delle tribolazioni quotidiane. Il cagnolino in primo piano è simbolo dell’impegno nella fedeltà
coniugale. Gli zoccoli posti in basso, nell’angolo a sinistra, indicano che i promessi sposi sono scalzi, perché
il territorio del matrimonio è sacro come quello su cui si trovò Mosè quando Dio gli comandò: “Togliti i san-
dali dai piedi, poiché il luogo sul quale tu stai è una terra santa” (Esodo III, 5). Sul davanzale della finestra e
sul mobile a sinistra sono disposte alcune arance. L’arancia ha nei paesi del Nord Europa lo stesso significato
simbolico della mela, evocatrice del peccato originale. In questo contesto i frutti esortano a fuggire com-
portamenti peccaminosi e a vivere il matrimonio rispettando i comandamenti della fede. L’alcova scarlatta
ricorda alcuni versi del Cantico dei Cantici. Il lampadario a sei bracci con una sola candela accesa è simbolo
matrimoniale, motivo iconografico che deriva dalla candela nuziale che a volte compare nell’annunciazione.
La verga appesa nello spigolo del mobile a destra è simbolo di verginità (gioco di parole Vir-go-virga), ma
nella tradizione popolare è anche la “verga di vita”, simbolo di fertilità, con la quale lo sposo “batteva” sim-

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CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

bolicamente la sposa perché il matrimonio fosse ricco di figli. L’iscrizione sopra lo specchio: Johannes De
Eyck fuit Hic 1434, cioè “Jan Van Eyck fu qui”, insieme alla data, non è solo la firma dell’artista e la datazione
del quadro, ma ha valore di legale testimonianza nella cerimonia giuridica della promessa di matrimonio,
come fosse un documento scritto. Al di là dei significati simbolici, l’opera è particolarmente affascinante
per il virtuosismo tec-nico nella rappresentazione dei particolari. Lo specchio ne è il momento culminante
anche per la resa delle deformazioni delle immagini. Grazie alla sua convessità, esso riflette tutto ciò che vi
è nella stanza, e perfino due persone che vi stanno entrando. Ma il quadro ha il suo alto valore pittorico an-
che nell’equilibrata disposizione dei protagonisti, armonicamente coordinati allo spazio e a ogni oggetto.
Ogni cosa rappresentata è resa più solenne e immobile dalla luce fredda e diffusa che indugia sui dettagli.
Sono elementi tipici della concezione pittorica fiamminga una certa rigidezza delle forme e l’espressione
enigmatica che caratterizza i personaggi.

PIERO DELLA FRANCESCA

Piero della Francesca nacque a Borgo Sansepolcro nel 1415-20. Si formò a Firenze insieme a Domenico
Veneziano con il quale collaborò per gli affreschi perduti del coro di S. Egidio a Firenze. Le prime opere, col-
locabili anteriormente al 1450, ci mostrano il personale carattere dell’artista: struttura prospettica rigoro-
sissima, perfezione dei volumi geometrici, rappresentazione di figure grandiose immerse in un’atmosfera
dalla luminosità diffusa, sottile quasi astratta che mantiene i personaggi come sospesi nel tempo.
Nel 1442 Piero ritorna a Borgo Sansepolcro dove fu candidato alle elezioni per la carica di consigliere popo-
lare. Qui, la confraternita della Misericordia, gli commissionò un polittico che doveva essere consegnato
entro tre anni, in realtà il pittore ne impiega quindici. Il Polittico della Misericordia è composto da ventitrè
scomparti alcuni dei quali sono dipinti da aiutanti del pittore. Il senso del volume, la plasticità dei corpi ci
mostrano l’influenza donatelliana, mentre la pala posta a coronamento del polittico è di chiara ascendenza
masaccesca. Contemporaneamente ai primi pannelli di questo polittico Piero eseguì il Battesimo di Cristo,
che oggi si trova a Londra alla National Gallery. In questo dipinto la trasparenza dell’atmosfera, la chiara
luminosità del paesaggio rievocano le opere di Domenico Veneziano e del Beato Angelico, la prospettiva
rigorosa il cui perno centrale è costituito dalla figura del Cristo conferisce all’opera un certo equilibrio e
quell’armonia che è tipica delle opere pierfrancescane.
Intorno al 1451 il pittore si recò a Rimini dove lavorò nel Tempio Malatestiano all’affresco votivo col ritratto
di Sigismondo Pandolfo Malatesta.
Nel 1452, alla morte di Bicci di Lorenzo, Piero fu chiamato dalla famiglia Bacci per proseguire la decorazi-
one ad affresco del coro di S. Francesco ad Arezzo rappresentante la Leggenda della vera Croce. Le scene
sono rappresentate su tre registri; le monumentali figure rappresentate, appaiono come statue costituite
da forme geometriche pure sulle quali i panneggi formano giochi raffinati, mentre i volti non tradiscono
emozioni particolari; si vedano i dipinti rappresentanti l’Adorazione del sacro legno e l’Incontro di Salomone
con la regina di Saba. Nel brano che rappresenta la Battaglia di Eraclio e Cosroe il maestro è affiancato da al-
lievi, la composizione si fa più schematica; nel Sogno di Costantino invece il bagliore che accende la scena
rivela l’eccezionale sensibilità luministica del maestro.
Tra le opere più importanti del pittore c’è la tavoletta rappresentante la Flagellazione eseguita negli anni
tra il 1455 e il 1460 a Urbino. La composizione è divisa in due scene mediante una colonna, al centro del
gruppo di personaggi sulla destra figura Oddantonio da Montefeltro, fratellastro di Federico, che fu assas-
sinato durante una congiura, mentre la scena sulla sinistra, rappresentante la Flagellazione, potrebbe essere
un’allusione al martirio subito dal giovane principe. Sempre dello stesso periodo è la tavola che fa da cus-
pide al polittico di Sant’Antonio delle Monache di Perugia, rappresentante L’Annunciazione. In questi anni si
intensificarono i rapporti con la corte dei Montefeltro per i quali eseguì il Ritratto di Battista Sforza e Federico
da Montefeltro. Tra le ultime opere ricordiamo la Madonna di Senigallia del 1470 e la Sacra conversazione di
Brera del 1472-74.
Una malattia agli occhi costrinse il maestro a ritirarsi dalla sua attività e ad applicarsi negli studi della pros-
pettiva che lo portarono a scrivere il De prospectiva pingendi nel quale insegna ai pittori e segreti della
prospettiva e il libretto De quinque corporibus regularibus. Morì il 12 ottobre del 1492.

150
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

LEGGENDA DELLA VERA CROCE

Piero della Francesca si dedicò agli affreschi del ciclo della “Leggenda della Vera Croce” dal 1452, pren-
dendo il posto del defunto Bicci di Lorenzo, al quale la famiglia aretina Bacci aveva affidato la decorazione
della Cappella Maggiore della Basilica di San Francesco ad Arezzo. Le raffigurazioni si ispirano alla “Legenda
Aurea” di Jacopo da Varagine, un testo in volgare del 1200, le cui storie di santi e martiri, insieme alle pag-
ine dedicate alle principali feste cristiane, hanno fornito un repertorio di storie e di materiali iconografici
che hanno inspirato, durante il Medioevo e il Rinascimento, tanto la stesura di sermoni e poemi quanto la
realizzazione degli apparati decorativi delle chiese. I lavori nella cappella proseguirono fino oltre il 1460.
e portarono alla creazione di un ciclo pittorico articolato in dodici affreschi ed organizzati su quattro liv-
elli sovrapposti. La vicenda narrata, partendo con “La morte di Adamo” nel lunettone della parte destra,
termina con “L’Annunciazione” nella parete centrale, seguendo un ordine che non coincide con quello
di realizzazione dei dipinti, eseguiti da sinistra a destra e dall’alto verso il basso. Le diverse tecniche pit-
toriche impiegate nei dipinti murali sono state rilevate, insieme agli elementi di degrado quali le sbollature
e l’esfoliazione della superficie pittorica e la “solfatazione” dell’intonaco, nella fase di indagine diagnostica
preliminare (1985/1990) che ha preceduto il profondo restauro iniziato nel 1993. I particolari effetti di luce e
colore sono dovuti all’impiego, oltre che del “buon fresco”, del legante organico e di pigmenti insoliti, all’uso
di tempera e tempera grassa con stesure in fase di carbonatazione e a secco.
Di primaria importanza sono i panelli dell’adorazione del sacro legno ed incontro della regina di Saba con
il re Salomone, il sogno di Costantino e la battaglia di Costantino contro Massenzio.

ADORAZIONE DEL SACRO LEGNO E INCONTRO TRA LA REGINA DI SABA E RE SALOMONE

La regina di Saba con cinque ancelle, palafrenieri e cavalli al seguito, giunta in prossimità di quel Legno,
usato come ponte sul lago, s’inginocchia assorta in preghiera in un paesaggio etereo di colline e magnifici
alberi. In Piero la premonizione della regina di Saba diviene atto sommesso di preghiera e di riflessione che
si coglie nell’attesa serena dei paggi intorno ai cavalli e nella pacata compostezza delle ancelle. Il ricevi-
mento nella reggia contrappone ed unisce allo stesso tempo la regina di Saba al re Salomone.
La regina, inchinatasi per ossequiare il re di Gerusalemme, occupa con le cinque ancelle del suo seguito la
parte destra della scena, mentre il re, posto al centro della scena, è accompagnato alla sinistra da quattro
chierici ed alti dignitari di corte. Salomone è coperto da un mantello tessuto a fiori di melograno: segno di
abbondanza e ricchezza. Abiti regali e sacerdotali insieme, con il cappello in uso ai cardinali residenti a Roma
intorno alla metà del XV sec., potendo raffigurarsi in esso il cardinale Bessarione, protettore dell’Ordine dei
Frati Minori e artefice della riconciliazione tra le chiese d’oriente e d’occidente. Tra chierici orientali e nobili
dignitari possono essere individuati i committenti di Piero della famiglia Bacci e, forse, l’artista autoritratto

Adorazione del sacro legno e incontro della regina di Saba con Re Salomone, 1452, affresco su muro, Basilica di San Francesco, Arezzo

151
CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

sullo sfondo. Saba, di fronte al re, lascia anch’essa intravedere, oltre il trasparente velo bianco che la adorna,
il motivo a fiori di melograno della bianca veste. In questa composizione le figure sembrano statiche o ine-
spressive, ma prestando attenzione sembra di po-terne percepire i pensieri dal dischiudersi delle labbra o
dell’intensità di un’espressione.

LA BATTAGLIA DI COSTANTINO CONTRO MASSENZIO

Battaglia di Costantino contro Massenzio, 1459, affresco su muro, Basilica di San Francesco, Arezzo

Nella battaglia di Costantino contro Massenzio, Costantino precede il suo esercito pretendendo una pic-
cola croce dorata e l’esercito di Massenzio spaventato fugge senza nemmeno combattere. Le truppe di
Costantino sono calme e solenni al contrario dell’esercito di Massenzio che ha un atteggiamento spav-
entato e confuso. La contrapposizione tra i due schieramenti è rimarcata dalle bandiere che gonfiate dal
vento, emblema dei Romani vittoriosi, sventolano imponenti mentre le insegne degli sconfitti si piegano e
si inclinano.
Costantino ha tratti somatici di Giovanni VIII Paleologo e indossa anche
lo stesso copricapo che l’imperatore d’Oriente indossava quando giunse
a Firenze. L’imperatore avanza fiero e sicuro e il suo portamento regale è
messo in evidenzia dalla lunga lancia bianca che interseca con la testa. La
scena è immersa in una luce bianca e solare che crea la profondità pros-
pettica. In questo riquadro Piero ha dedicato la massima attenzione agli
effetti della luce e del colore. Sebbene vi sono notevoli e numerosi tratti
pittorici mancanti nell’opera a causa dell’invecchiamento e successivo dis-
taccamento della tempera, tuttavia riusciamo a cogliere un’importante im-
magine d’insieme dell’affresco.

IL SOGNO DI COSTANTINO

Il sogno di Costantino, preceduto dalla visione del simbolo celeste da ap-


porre sugli scudi dei suoi soldati prima della battaglia, fu considerato il
segno della protezione divina e la conferma della scelta da fare. Siamo nel
l’ottobre del 312 DC la vigilia dello scontro con l’autoproclamatosi impera-
tore Massenzio, la cui sconfitta a Ponte Milvio, segnerà l’inizio di una nuova
era. Dopo la vittoria Costantino sarà il nuovo imperatore. Nel pomeriggio
prima della battaglia, dopo un momento di raccoglimento e preghiera,
guardando il cielo, Costantino vide apparire vicino ad una croce, la frase di-
Il sogno di Costantino, 1466, affresco su muro,
venuta famosa come vessillo della cristianità dall’antichità ai giorni nostri: Basilica di San Francesco, Arezzo

152
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

“In hoc signo vinces”.


La notte stessa fece un sogno in cui Cristo in persona gli ordinava di adottare tale segno come simbolo
durante la battaglia. Il Chi-rho, considerato il monogramma di Cristo, fece la sua apparizione sullo stendardo
e sugli scudi dei guerrieri che uscirono vincitori dalla battaglia. Al sogno di Costantino si attribuisce l’inizio
del potere imperiale ed il processo che porterà alla sua conversione e al battesimo in punto di morte. Con
grande maestria Piero ha fatto emergere dall’oscurità la forma a cilindro della tenda sotto la quale dorme
Costantino. Non esistendo elementi per de-terminare le linee prospettiche, la profondità spaziale è data
dalla concavità della tenda alla quale si contrappone la convessità della copertura.

SACRA CONVERSAZIONE o CONVERSAZIONE DI BRERA

Questo quadro, noto anche come «Pala di Brera»


per il luogo dove è conservato, ha come soggetto
una «sacra conversazione»: con questo nome ven-
gono indicati i quadri che contengono la Madonna
con il Bambino in braccio, in compagnia di santi e, a
volte, anche di semplici mortali. In questo caso, nella
tavola è presente anche Federico da Montefeltro, il
committente dell’opera, chiaramente riconoscibile
nel uomo con armatura, inginocchiato sulla destra.
Da notare che la posizione dei personaggi rispet-
tava in genere una precisa gerarchia: la Madonna
era l’unica ad essere seduta; i santi erano collocati in
piedi; le persone normali erano invece inginocchi-
ate. Nella tavola vengono rappresentati quattro an-
geli, in prossimità della Madonna, e sei santi, tre per
lato: sulla sinistra compaiono san Giovanni Battista,
san Bernardino da Siena e san Girolamo; sulla destra,
sempre partendo da sinistra, vi so-no san Francesco,
san Pietro martire e san Giovanni evangelista.
La tavola è un esempio mirabile di quell’ordine
formale che è qualcosa in più che una semplice
scelta stilistica: è la fiducia in un universo basato su
un’armonia di fondo di matrice razionale e matemat-
ica. Tutto è simmetrico e preciso, in particolare
l’architettura sullo sfondo, che è il qualcosa in più
che possiede questa immagine. Siamo all’interno di
Sacra conversazione, 1472, tempera su legno, Pinacoteca di Brera, Milano una chiesa, all’incrocio tra navata e transetto, giusto
davanti l’abside.
Lo spazio quindi è rappresentazione non solo di un luogo sacro, ma di un ordine cosmico basato sulla
chiarezza e sulla razionalità. Particolare originale di questo spazio è la forma della semicupola del catino ab-
sidale, a forma di conchiglia. Dalla sua sommità pende un uovo di struzzo. Il significato dell’uovo va cercato
in una credenza medievale, secondo la quale le uova degli struzzi venivano dischiuse dal calore del sole,
e pertanto erano prese a simbolo della immacolata concezione della Madonna. Probabilmente anche la
conchiglia rimanda allo stesso significato, perché si credeva che al suo interno la perla si formava senza in-
tervento della fecondazione maschile. Questi particolari rimandano quindi al mistero della nascita di Gesù,
inteso come miracolo dal quale far discendere la possibilità dell’uomo di salvarsi.
Nella tavola si possono leggere anche significati meno mistici, ma più storici. La datazione della tavola ci fa
ritenere che essa alluda anche alla nascita del figlio Guidobaldo, avvenuta agli inizi del 1472, e alla morte,
sei mesi dopo della moglie Battista Sforza. L’atteggiamento di preghiera di Federico di Montefeltro sare-
bbe quindi originato anche dalla sua volontà di esprimere la sua preghiera per la moglie deceduta e per il
figlio appena nato. Da ricordare, infatti, che la tavola era sicuramente destinata ad ornare la futura tomba
di Federico, ed è probabile che il condottiero in essa volesse coniugare i suoi sentimenti religiosi con i suoi
principali affetti terreni: la moglie e il figlio.

153
CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

IL BATTESIMO DI CRISTO

L’opera si trova alla National Gallery di Londra ed è


stata commissionata a Piero della Francesca per es-
sere una pala d’altare cioè un dipinto che deve es-
sere posto al centro e sopra un altare di Chiesa o
Cappella avente come tema un soggetto, un evento
o una scena religiosa. È una tavola di legno con le
dimensioni di circa 165 x 116 centimetri e la tecnica
usata è quella dei colori a tempera, visto che i colori
ad olio non erano ancora conosciuti in Italia. Notia-
mo subito che la forma della pala è costituita da un
quadrato più un semicerchio ad esso sovrapposto.
Quindi Piero della Francesca ha voluto realizzare una
struttura geometrica molto precisa e proporzionale.
Già dal titolo capiamo cosa voglia rappresentare
l’artista cioè un episodio tratto dal Vangelo secondo
Matteo, il battesimo di Cristo, da parte di Giovanni
Battista, che si svolge presso il famoso fiume Gior-
dano. I personaggi principali, cioè Gesù e Giovanni
Battista, sono raffigurati in primo piano al centro del
quadro, mentre alla sinistra possiamo vedere tre an-
geli vicino ad un albero, facilmente riconoscibili per
le ali che si intravedono. Al centro l’artista ha collo-
cato l’elemento più importante e cioè lo Spirito di
Dio, rappresentato dalla colomba bianca che sta a
simboleggiare la purificazione da tutti i peccati at-
traverso il battesimo dello Spirito Santo e contempo-
raneamente rivela agli uomini la vera natura divina Battesimo di Cristo, 1440-60, tempera su tavola, National Gallery, Londra
del Cristo che si è fatto uomo per salvare l’umanità.
Dietro, in secondo piano, vediamo un fedele che sta aspettando il suo turno per il Battesimo e intanto si
spoglia degli abiti mentre in fondo si intravedono alcune persone con abiti tipici dell’oriente. Le figure dei
personaggi sono ferme nelle loro posizioni con i volti precisi e regolari. L’angelo di destra ha una corona di
allora in testa a simboleggiare la Gloria mentre quello al centro porta la veste bianca simbolo importante
nel rito del Battesimo. La loro presenza dovrebbe testimoniare la pace e la Concordia tra gli uomini di fede.
I colori nell’opera risultano molto chiari e luminosi e la luce accecante, quasi senza ombre, rappresentano la
forza e l’emanazione della potenza Divina che scende sul cristo durante il Battesimo.

DITTICO DEI DUCHI DI URBINO

In questi due pannelli relativamente piccoli sono rappresentati i ritratti di Federigo da Montefeltro duca
di Urbino e di sua moglie Battista Sforza. Piero si impegna in una costruzione composi-tiva piuttosto dif-
ficile e mai affrontata prima. Dietro il ritratto di profilo dei due soggetti, che iconograficamente si rifà alla
tradizione araldica dei ritratti su medaglia, l’artista aggiunge uno straordinario paesaggio che si estende in
profondità fino a perdersi in una nebbiosa distanza.
La relazione tra il paesaggio e i ritratti è inoltre molto stretta anche nel significato: i ritratti, coi loro profili so-
lenni, dominano sul dipinto così come i soggetti dominavano sulla vastità dei possedimenti. L’audacia della
composizione è evidente in questo passaggio repentino tra i due diversi piani prospettici. L’abilità di Piero
nella resa dei volumi è accompagnata dalla sua attenzione al dettaglio. Attraverso un attento uso della luce
ci dà una descrizione miniaturistica dei gioielli di Battista Sforza, delle grinze e dei nevi presenti sulla pelle
olivastra di Federico. I ritratti dei duchi, eseguiti forse fra il 1465-’66 o nel 1474, emigrarono a Firenze nel
1631, con tutto il patrimonio artistico dell’ ultimo Della Rovere. E fino all’800 furono scambiati per i volti di
Petrarca e Laura o Sigismondo Malatesta e Isotta.
Delle particolarità di questi due ritratti si possono ritrovare in entrambi i coniugi Montefeltro: sulle perle

154
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

che compongono la collana di Battista Sforza è stato realizzato il riflesso del paesaggio nitidamente, tanto
da poter notare anche le piccole barchette e gli alberi. Invece nel ritratto di Federico possiamo notare come
ogni singolo capello e pelo del viso è stato realizzato singolarmente con una precisione sopraffina. Il tutto
è stato realizzato con l’utilizzo di un pennellino che, difficile a credere, possodeva solo due setole alla punta.
Quindi, si può immaginare che il maggor tempo il Della Francesca lo ha impiegato per i piccoli dettagli, non
per l’insieme.

Dittico dei duchi d’Urbino, 1465-66, tempera su pannello, Galleria degli Uffizi, Firenze

ANTONELLO DA MESSINA

Antonello da Messina nacque a Messina nel 1425-30 circa.


Si formò alla bottega del Colantonio a Napoli al tempo di Alfonso I che accoglieva artisti di varie provenien-
ze soprattutto dalle Fiandre. Antonello da Messina si può definire uno dei più grandi pittori rinascimentali
dell’Italia meridionale ed esponente della pittura fiamminga in Italia. Compì numerosi viaggi sopratutto a
Venezia, Milano, in Provenza e a Roma.
Tra il 1460 e il 1465 lo troviamo a Messina dove la sua pittura in questo periodo è caratterizzata dalla pre-
senza di elementi fiamminghi e provenzali per esempio nel San Girolamo penitente che si trova al museo
nazionale di Reggio Calabria e nel Ritratto virile del museo di Cefalù.
Dopo questo periodo, per circa cinque anni, compì altri viaggi di aggiornamento come dimostrano le opere
che realizzò: il Salvator Mundi che si trova a Londra nel quale ci appare la conoscenza delle opere di Piero
della Francesca sia nel senso volumetrico che nella semplificazione geometrica delle forme, senza rinuncia-
re al colorismo tipicamente fiammingo. Sintesi perfetta del gusto per il particolare tipicamente fiammingo
e di impianto spaziale pierfrancescano è la Madonna col Bambino della National Gallery di Washington.
Ritornato a Messina eseguì numerose altre opere come il Politico di San Gregorio conservato al museo di
Messina, l’Annunciazione oggi in cattivo stato di conservazione e il San Girolamo nello studio. Una delle
opere più famose di Antonello è l’Annunciata la cui datazione è incerta ma che sembra posteriore al suo
viaggio di Venezia effettuato nel 1475 dove seguì alcune opere come il San Sebastiano forse facente parte

155
CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

del trittico di San Rocco nella chiesa di San Giuliano. Ancora abbiamo la Pala di San Cassiano che oggi si trova
a Vienna e che servì da modello ad altri artisti che dipinsero lo stesso soggetto. La Pietà del Museo Correr
di Venezia risulta essere il punto d’arrivo della sua ricerca sul rapporto luce ombra, infatti il corpo di Cristo
si viene a comporre grazie alla luce mentre il fondo rimane in ombra. Nel 1476 Antonello ritornò a Messina
dove restò fino alla morte che sopraggiunse tre anni dopo.

ECCE HOMO

Benché sottoposta a ripetute campagne di restauri,


la tavola è oggi in discrete condizioni. In virtù della
firma apposta sul cartellino, l’autografia del dipinto
non è mai stata messa in discussione e l’opera è anzi
sempre stata ritenuta un punto fermo nel catalogo
dell’artista siciliano. Più dubbi ha sollevato la let-
tura della data, recentemente sciolta con l’ausilio di
paleografi come 1475, anno che pone così la tavola
dopo l’Ecce Homo Wildenstein e quelli di Genova,
New York e già Ostrowski. La sistemazione cronolog-
ica nel periodo veneziano trova piena conferma nel
dato stilistico, affine nei volumi netti e torniti al San
Sebastiano di Dresda e al Salvator Mundi di Londra.
Premessa emotiva del Cristo alla colonna del Louvre,
la tavola di Piacenza sorprende l’osservatore con
l’onda d’urto della sofferenza palpabile del Cristo,
interamente umano nel dolore della flagellazione.
La sua è una divinità rassegnata in una umanità data
allo scherno e vilipesa. Ed è appunto in questa rinun-
cia all’autorità ed al privilegio che sta la formidabile
interpretazione, data da Antonello, del grande mes-
saggio cristiano: Dio è nell’uomo offeso. Insuperabile
è, nelle sue linee morbide, l’inclinazione della testa
del Cristo, la smorfia della bocca appare plastica, e Dittico dei duchi d’Urbino, 1465-66, tempera su pannello,
la disperazione dello sguardo è quanto di più dis- Galleria degli Uffizi, Firenze
armante ci sia. Senza dubbio la tensione emotiva
espressa dal grande pittore siciliano ha davvero alti toni, ed in epoca, non è stata mai sperimentata.

PALA DI SAN CASSIANO

La pala, uno dei capolavori della pittura italiana del XV secolo, è giunta frammentaria ; ne è ampiamente
documentata la commissione che segue queste vicende. Pietro Bon ne allogo’ la com-messa per la chiesa
di San Cassiano a Venezia nell’agosto del 1475 e questa venne terminata nell’aprile 1476. Successivamente
agli inizi del ‘600 la pala fu manomessa probabilmente per restauri alla chiesa e risulta nella collezione di
Bartolomeo della Nave. La pala aveva nel tempo perduto l’identificazione del giusto autore finche’ in segui-
to ad un restauro del 1914 che fece riemergere il particolare del bicchiere ,Bernard Berenson ne propose
l’identificazione con la Pala di San Cassiano creduta perduta.
È molto discussa e tutt’ora senza una soluzione precisa il rapporto di dipendenza fra questa pala e quella
di Giovanni Bellini, purtroppo perduta in un incendio nel XIX° secolo che ornava un altare della chiesa dei
Santi Giovanni e Paolo: entrambe infatti si contendono il primato della pala moderna a Venezia (ovverosia
non composta da tanti elementi assemblati in un polittico), nodo impossibile da sciogliere in quanto la pala
di Bellini non era datata. La Pala di San Cassiano si pose come un modello imprescindibile per gran parte
dei migliori artisti attivi nei successivi tre decenni a Venezia. Sotto il profilo stilistico, per quanto si possa de-
rivare dai frammenti rimasti, l’opera segna un punto di raggiungimento delle ricerche spaziali e luminose
di Antonello.

156
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

Quali siano stati i punti di riferimento per


una simile impresa è la pala stessa a dircelo:
nella straordinaria volta a botte che in origine
sovrastava la parte centrale Antonello elabo-
ra la lezione di Piero e della cultura classicista
dell’Italia centrale, così come pure nel perfet-
to assesto prospettico si mostra aggiornato
e in perfetta padronanza delle grandi novità
che si erano sviluppate a Firenze.
Ne nasce un equilibrio perfetto fra le armonie
geometriche in cui sono iscritti i volumi delle
figure e la gradazione della luce che li avvolge,
suggerita e seguita un delicato chiaroscuro
che riesce persino a suggerire la presenza
della penombra pulviscolare dell’interno di
una cappella. La luce infatti assume un ruolo
altrettanto dominante di quello così fermo e
Pala di San Cassiano, 1475-76, olio su tavola, Kunsthistorisches Museum, Vienna
implacabile della prospettiva: essa bagna let-
teralmente le superfici non si limita a sfiorarle,
ed è grazie a questo che la superficie delle
cose ci è descritta in modo tanto eccezionale.

SAN SEBASTIANO

Il dipinto raffigurante San Sebastiano, oggi ritenuto uno dei capolavori tardi di Antonello, era anticamente
attribuito a Giovanni Bellini, fino alla scoperta della firma apposta dal messinese, emersa dopo l’asportazione
di alcuni ritocchi. L’opera, di committenza veneziana, era stata ordinata dalla Scuola di San Rocco in seguito
a un’epidemia di peste, nel 1478 (e Antonello deve averla terminata
entro il febbraio 1479, momento della sua morte), ed era previsto
venisse affiancata dalle rappresentazioni di San Cristoforo e San
Rocco, affidate ad altri artisti. San Sebastiano dotato di un morbido
corpo apollineo è proporzionato secondo i modelli della statuaria
greca. L’albero cui è legato il santo sembra venir fuori direttamente
dal marmo di una piazza quattrocentesca, rappresentata in mira-
bile prospettiva, con un impianto di chiaro stampo rinascimentale.
Predominano nel dipinto i volumi e le curve, le volte a botte sullo
sfondo, il torso e le cosce di Sebastiano, il rocchio di colonna in primo
piano accarezzati dalla calda luce solare e coperti di ombre sfumate;
si coglie inoltre un forte legame tra il frammento di colonna e il san-
to entrambi trattati come solidi geometrici. Nella consapevolezza di
doversi confrontare con l’arte veneziana, Antonello raccoglie la sfida
dimostrando le proprie capacità nella rappresentazione prospettica:
sceglie dunque di ambientare la scena in una veduta urbana, in cui è
riconoscibile Venezia, dove si percepisce una sorta di congelamento
dell’immagine e di sospensione dell’intera azione nel tempo infatti
l’intera piazza appare ferma: un soldato dorme sdraiato per terra,
una donna è immobile con il suo bambino in braccio, altre figure
femminili restano affacciate dal parapetto del terrazzo, indifferenti
e annoiate. Si crea l’impressione di profondità spaziale attraverso
la decorazione geometrica del pavimento e si individua con preci-
sione il punto di fuga dietro al polpaccio destro del santo. Il quadro
in definitiva risulta privo di intenti narra-tivi per mostrare piuttosto il
miracolo di un’apparizione mitica in un’atmosfera senza tempo.
San Sebastiano, 1476, olio su tavola,
Gemäldegalerie, Dresda

157
CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

LA VERGINE ANNUNZIATA

L’Annunciazione, purtroppo assai mal conservata,


venne commissionata ad Antonello nel 1474 ed
eseguita per la chiesa di Santa Maria Annunziata di
Palazzolo Acreide. L’opera è di grande fascino per la
grande maestria con cui il pittore ha saputo com-
binare gli elementi spaziali dell’ambientazione ar-
chitettonica e la regia luministica. La Vergine è rap-
presentata dopo aver ricevuto la visita dell’angelo
che le annunciò la prossima maternità. Volto ovale
proporzionato, profondi occhi neri e zigomi pro-
nunciati, questo è il ritratto di una bellezza mediter-
ranea, al contempo molto umana e astrattamente
perfetta. Si nota qui l’influenza dello stile geometri-
co-metafisico di Piero della Francesca che il pittore
messinese avrebbe incontrato intorno al 1460, circa
quindici anni prima della realizzazione della sua
Vergine. Il dipinto può essere infatti scomposto in
solidi geometrici: l’ovale del viso, il cono dello scollo
del manto trattenuto dalla mano sinistra, la piramide
disegnata dall’intera figura. A contrastare l’immoto
rigore delle forme, lo sguardo misterioso, le labbra
che sembrano abbozzare un sorriso, il movimento
delle mani. Altra particolarità, Antonello da Messina
mette in scena un’annunciazione senza l’angelo an-
La Vergine Annunziata, 1476, tempera su tavola,
Galleria Nazionale della Sicilia, Palermo nunciatore. O meglio, non lo si vede, ma la sua pre-
senza è percepibile da alcuni segni.
La luce quasi metafisica che illumina il volto di Maria, la mano che stringe il manto, gesto dettato dal timore
per l’improvvisa apparizione, lo sguardo attento che la Vergine gli rivolge ruotando impercettibilmente le
spalle verso di lui, la pagina del libro mossa da un soffio di vento. Antonello da Messina colpisce per la straor-
dinaria perfezione formale e per l’innovativo concetto di assolutezza spaziale, rispettivamente sintetizzati
nella bellezza geometrica dell’ovale del volto e nell’impercettibile rotazione della figura nello spazio.

SAN GEROLAMO NELLO STUDIO

Antonello da Messina è il pittore che introduce in Italia la tecnica della pittura ad olio. È un dipinto a olio
su tavola realizzato nel 1474 e conservato nella National Gallery di Londra. Girolamo è un santo molto rap-
presentato nella pittura, è uno dei più grandi studiosi della Bibbia, è considerato un “dotto” (sapiente) della
Chiesa e la tradizione lo vuole sempre accompagnato da un leone, che lo segue con devozione da quando
Girolamo gli ha estratto una spina dalla zampa. L’opera rappresenta il santo in abiti da cardinale mentre
legge attentamente un libro. La scena si svolge in un grandioso spazio interno ed è incorniciata da una
porta ad arco aperta verso lo spettatore Antonello da Messina crea l’illusione di far entrare chi osserva nello
studio del Santo attraverso un’apertura in primissimo piano; il gradino, insieme ai due pilastri laterali che
sostengono in alto l’arco, fa da cornice alla scena.
Lo studio del santo è una strana costruzione in legno, rialzata di tre gradini rispetto al piano del pavimento:
è posto in posizione privilegiata, al centro del dipinto san Girolamo, seduto su una sedia, è visto di profilo
davanti a uno scrittoio. Alle spalle del santo c’è una cassapanca con sopra il suo cappello da cardinale; di
fronte e alla sua destra c’è una libreria. Al di là dello studio di distingue in penombra la campata di una
chiesa, a tre navate, vista in prospettiva con aperture sullo sfondo che inquadrano piccoli pezzi di spazio
esterno. A destra e a sinistra le finestre si aprono verso un cielo sereno, mentre le bifore in alto lasciano
intravedere un paesaggio infinito. La luce che proviene dalle finestre si riflette anche sul pavimento. La rap-
presentazione di questo spazio è straordinaria: la costruzione prospettica, sottolineata dalla decorazione
pavimentale in maiolica è assolutamente precisa e si coniuga con una cura quasi maniacale per il dettaglio

158
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

che dimostra il suo debito costante verso la pittura fiamminga.


Tutti i particolari sono resi in maniera esemplare e anche le fin-
estre sullo sfondo contribuiscono a dare profondità al quadro.
Inoltre sono presenti anche richiami simbolici alla tradizione
cristiana, sviluppati secondo la solita riservatezza enigmatica
dell’autore: il geranio fa riferimento alla passione di Cristo, il
leone è simbolo della forza bruta vinta dalla pietà. In primo
piano, inoltre, spiccano le figure di una pernice, di un pavone e
di un catino colmo d’acqua, cha apparentemente non hanno
senso nella scena se non si considera che la prima allude alla
fedeltà a Cristo, il secondo è simbolo della sapienza divina,
mentre il terzo richiama l’idea della purezza: fedeltà, sapienza
e purezza sono virtù di cui questo santo diviene l’emblema.
San Gerolamo diviene quasi la personificazione ideale del
dotto umanista di quel tempo votato alla solitudine in nome
della conoscenza.

San Gerolamo nello studio, 1474-75, olio su tavola di tiglio,


National Gallery, Londra

SANDRO BOTTICELLI

Sandro Botticelli nasce nel 1445 a Firenze, nella borgata Ognissanti, muore nella stessa città all’età di 65
anni, nel 1510. Alessandro di Mariano di Vanni Filipepi, il suo vero nome, secondo alcuni viene soprannomi-
nato Botticelli a causa del fratello, molto robusto e grosso, chiamato il “Botticella”, nasce in una famiglia di
commercianti fiorentini, il padre, Amedeo Filipepi, era un conciatore di pelli. Da giovanissimo dà prova del
suo interesse verso l’arte iniziano prima come apprendista orafo, per poi entrare nella bottega di Filippo
Lippi restandovi fino al 1466, l’anno dopo è da Andrea del Verrocchio insieme a Leonardo Da Vinci, di questo
periodo è la Pala di Sant’Ambrogio, una delle prime opere autonome. Nel 1470 divenne pittore indipen-
dente con una bottega propria. Le prime commissioni arrivano dalla famiglia Medici, ed è proprio in questo
periodo che realizza le sue opere più famose: Primavera, Nascita di Venere, Pallade e il Centauro. Nel 1481 si
reca a Roma per eseguire gli affreschi delle pareti mediane della Cappella Sistina, su richiesta di Lorenzo il
Magnifico che inviò i migliori artisti fiorentini, unendosi a Piero Perugino. Sandro Botticelli esegue tre epi-
sodi, ma a causa della morte del padre, avvenuta il 20 febbraio del 1482, fu costretto a far rientro a Firenze. I
tre affreschi realizzati da Botticelli con la collaborazione di altri artisti, considerata l’estensione delle opere,
sono le Prove di Mosè, le Prove di Cristo e la Punizione di Qorah, Dathan e Abiram, e diverse figure di papi
ai lati delle finestre (tra cui Sisto II) oggi molto danneggiate e ridipinte. Botticelli, eseguiva le sue opere
andando oltre alle regole stilistiche del Rinascimento, egli dipingeva con stile quasi medioevale, respin-
gendo la prospettiva, ma esaltando la fisionomia delle forme: l’idealizzazione viene alla luce con il disegno,
attraverso la figura, che nasce con il profilo e la linea. L’elemento della religiosità nelle opere di Botticelli
è come se fosse presente quasi in tutte le opere, d’altronde lo stesso viso della Venere è caratterizzato da
elementi dolci e puri come quelli di una Madonna, tra le opere con soggetti religiosi, si menzionano le tele
raffiguranti la Madonna, come la Madonna del Magnificat (1485 ca.), la Madonna della melagrana (1487),
l’Incoronazione della Vergine (1490), tutte agli Uffizi, e Madonna e Santi (1485, Staatliche Museen, Berlino),
ed infine, San Sebastiano (1473-74, Staatliche Museen, Berlino) e un affresco con Sant’Agostino (1480, Ogn-
issanti, Firenze). Tuttavia, con le infuocate prediche del Savonarola contro l’intellettualismo dominante alla
corte dei Medici la crisi religiosa del Botticelli divenne ancora più profonda, improntando la sua pittura a un
contrito misticismo. Nella calunnia, e nella Crocifissione simbolica, la linee a e la composizione diventano
più serrate

159
CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

LA NATIVITÀ MISTICA

“Natività mistica” è un dipinto autografo di Ales-


sandro Filipepi detto il Botticelli, realizzato con tec-
nica a tempera su tela nel 1501, misura 108,5 x 75 cm.
ed è custodito nella National Gallery di Londra. Sulla
parte alta della tela stanno i cartigli con le scritte
“Gloria in excelsis Deo” e “Pax hominibus” (come dal
Vangelo secondo Luca); inoltre, ripartita su tre righi,
si legge la scritta in greco “Questo dipinto, sulla fine
dell’anno 1500 (nello stile fiorentino significa inizio
del 1501), durante i torbidi d’Italia, io, Alessandro,
dipinsi nel mezzo tempo dopo il tempo, secondo l’’XI
di san Giovanni nel secondo dolore dell’Apocalisse,
nella liberazione di tre anni e mezzo del Diavolo: poi
sarà incatenato nel XII e lo vedremo... (parola illeggi-
bile per erosione del tempo o da incauta conservazi-
one, che potrebbe essere sostituita da “calpestato”
o “precipitato”) come nel presente dipinto”. L’aver
accennato ai “torbidi d’Italia” può essere messo in
relazione all’invasione francese, ai sommovimenti
fiorentini che si manifestarono dopo la morte di
Lorenzo il Magnifico, avvenuta nell’aprile del 1492, o
alla spedizione romagnola di Cesare Borgia, luogo-
tenente del re di Francia Luigi XII, che tra il 1500 ed
il 1502 minacciava Rimini, Ravenna, Cervia, Faenza e
Pesaro, di cui l’assedio di Faenza (1501) minacciava
la Toscana. Riguardo all’Apocalisse, nel “secondo do-
lore” del capitolo XI viene profetizza l’oppressione Natività mistica, 1501, tempera su tela, National Gallery, Londra

della “città santa per lo spazio di quarantadue mesi”,


da parte dei Gentili; altra previsione nel XII è quella che Satana sarà precipitato “sulla terra, e con lui i suoi
angeli”.
La frase “nel mezzo tempo dopo il tempo” può essere riferita, ad esempio, a quella di “per un tempo, due
tempi e la metà di un tempo” sempre nell’Apocalisse (XII, 14), dove il Savonarola vi leggeva un significato
come “un anno e due anni e la metà di un anno”. Queste sono alcune tra le svariate interpretazioni, che
talvolta diventano fortemente divergenti fra gli studiosi nell’arco dei secoli. Per quanto riguarda invece la
storia del dipinto, si sa per tradizione che sul finire del Settecento apparteneva alla famiglia Aldobrandini
di Firenze, e, per certo, che che intorno al 1800 venne acquistato alla “vendita” di villa Aldobrandini a Roma
da W. Y. Ottley; nel 1811 fu venduto, non si sa a chi, per quarantadue sterline, quindi, nel 1837, rivenduto per
poco più della metà; nel 1851 venne acquistato dalla Collezione Fuller Maitland (Stansted Hall. Essex), e da
qui, nel 1878, alla National Gallery di Londra al prezzo di 1500 sterline.

LA MADONNA DELLA MELAGRANA

L’opera venne commissionata per essere collocata nella Sala delle udienze della magistratura fiorentina dei
Massai di Camera di Palazzo Vecchio. Presenta molte affinità con la Madonna del Magnificant, realizzata un
paio d’anni prima, in particolare, riscontriamo somiglianze nei profili del viso degli angeli, nel volto della
Madonna e nel Bambino, si tratta di un’opera dal tono severo ed austero, dovuto anche per l’influenza del
Savonarola. La cornice, originale, è intagliata con i gigli di Firenze su un campo azzurro, è attribuita a Giulia-
no da Maiano. La Vergine è posta seduta al centro della composizione ed indossa un ampio manto di colore
azzurro, mentre l’abito è di colore rosso porpora. Con entrambe le braccia sostiene il Bambino, intorno sei
angeli, alle cui spalle si notano i gigli di colore bianco, simboleggianti la verginità di Maria. Ai lati due angeli
leggenti. Maria con la mano sinistra regge la melagrana, simbolo di fecondità, abbondanza e regalità.
Fu un pittore molto apprezzato dalla famiglia dei Medici, che gli commissionò vari lavori, tra i quali il tondo

160
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

intitolato:“La Madonna della Melagrana”, che dove-


va essere collocata nel Tribunale dei Massai, il quale
aveva sede presso Palazzo Vecchio a Firenze. Questa
tavola risale al periodo nel quale Botticelli era tor-
nato da un periodo di lavoro a Roma, dove si era oc-
cupato degli affreschi della futura Cappella Sistina.
In questo tondo la Madonna e il bambino sono cir-
condati da sei santi. Uno di questi, sulla sinistra della
Madonna, porta un ramo di giglio e delle rose. Tali
fiori sono i simboli della purezza della Vergine. La
Madonna tiene in braccio il Bambino: entrambi han-
no un viso malinconico, sanno probabilmente già il
triste destino che toccherà a Gesù una volta adulto.
La mano della Vergine, inoltre, tiene una melagrana,
la quale è anche sfiorata dal bambino. La melagrana
qui potrebbe simboleggiare la Chiesa stessa. Difatti
questo frutto racchiude all’interno della sua dura
scorza tanti semi, così come la Chiesa riunisce sotto
un’unica fede tanti diversi popoli. In realtà la sim- Madonna della Melagrana, 1487, tempera su tavola, Galleria degli Uffizi, Firenze
bologia di tale frutto è molto complessa, altre teorie
lo vedono come simbolo di Risurrezione, visto che i miti pagani raccontano che un albero di melograno
nacque dal sangue di Dioniso; quindi potrebbe qui riferirsi alla prossima Risurrezione di Cristo.

LA PRIMAVERA

La Primavera, 1475-78, tempera su tavola, Galleria degli Uffizi, Firenze

161
CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

Quest’opera emana un fascino “particolare” che va al di là della semplice e pura sensazione visiva che può
emanare una qualsiasi opera d’arte cioè la bellezza, la composizione, i colori. Forse è proprio per questo suo
fascino “particolare” quasi indescrivibile che la stessa viene costantemente studiata alla ricerca di un qual-
che mistero o messaggio criptico che il Botticelli voleva farci “intendere” e che solo alcune opere riescono a
farci percepire come per esempio, la più famosa di tutte le opere dell’Arte e cioè La Gioconda di Leonardo
da Vinci.
La Primavera è un bellissimo “racconto” fatto su una superficie. Realizzata con la tecnica dei colori a tempera
su di una superficie in materiale di legno. Le sue dimensioni sono notevoli, infatti si arriva ad una larghezza
di circa 314 cm per una altezza di circa 203 cm. L’opera è esposta presso la città di Firenze, in una delle Sale
del celebre Museo degli Uffizi ed è stata realizzata negli anni 1475-1478 all’incirca.
Il quadro innanzitutto fa parte di quel genere detto Allegoria. L’allegoria è una rappresentazione artistica in
cui le immagini riprodotte nell’opera personificano e quindi riproducono attraverso dei corpi fisici e degli
oggetti, delle idee o dei concetti astratti in modo da poterli capire meglio. In questo caso il Botticelli nella
sua opera evoca e raffigura l’incantevole bellezza della Primavera quando arriva, con tutta la sua natura
rigogliosa, abitata da ninfe e divinità varie, come voleva la tradizione. Nello sfondo possiamo notare un
sorta di aranceto, nell’estrema destra si vede Zefiro cioè il vento più soffice e dolce, che afferra la ninfa Clori,
che sembra cercare di fuggire e nella figura seguente, viene trasformata in Flora, la bella Dea romana della
Primavera.

Qua possiamo notare come il pittore abbia dato un senso di ritmo e movimento con le fronde degli aran-
ceti alla destra, che vengono scosse dal (vento) Zefiro attraverso una sorta di vortice. Al centro della com-
posizione il pittore ha inserito la Dea Venere sul cui capo vola il piccolo Dio Cupido, Dio dell’Amore con
l’arco il quale è intento a scagliare le sue frecce piene d’amore come simbolo dell’amore che sboccia come
un fiore quando inizia la Stagione primaverile. Spostandoci verso la nostra sinistra, notiamo le meravigliose
Tre Grazie che danzano leggiadre in una tipica figura di ballo di quei tempi e all’estrema sinistra, vediamo
il Dio Mercurio con il braccio levato al cielo in atto di allontanare le nuvole. Da tutti questi personaggi pos-
siamo capire che il Botticelli evoca un qualcosa di mitologico, infatti in quell’epoca si stava riscoprendo di
nuovo il filone mitologico.
Ammirando l’opera con più attenzione, possiamo notare come la composizione è articolata in due blocchi
figurativi divisi dalla Dea Venere che al centro e leggermente isolata e posta più in alto rispetto alle altre
figure. Questa figura appare come se fosse incoronata da una sorta di cornice dalla forma di semicerchio
composta dalle fronde di alberi verdi scuri e da un pezzo di cielo azzurro.
La linea che nella pittura fiorentina era molto importante, diviene qua molto delicata e morbida, o anche
molto decisa per assecondare le esigenze del racconto artistico. La linea disegna con dolcezza le mani al-
lacciate e l’ondeggiare dei veli trasparenti delle Tre Grazie. Suggerisce nella ripetizione di alcuni tratti sottili
la fuga di Clori; anima come mossa dal vento, la veste di Flora, ma la linea diviene anche nitida, decisa, ferma
per poter descrivere con precisione le figure della Dea Venere e del Dio Mercurio e nel sottolineare un ritmo
verticale dei tronchi d’albero. Le linee dei corpi e delle vesti, riescono a creare una sorta di movimento, di
danza molto suggestivo.
I colori appaiono molto chiari e luminosi, il verde del fogliame e dei prati è molto intenso e crea quasi una
sorta di cornice omogenea. Il bianco sembra comunicarci una sensazione di candore, di purezza, viene
usato sapientemente dal pittore, per esaltare la trasparenza dei veli, ove si cerca di indovinare le perfette
forme dei corpi delle Grazie e di Clori. La tonalità più accesa e più calda che si può notare è quella usata nei
manti di Mercurio e di Venere.
La luce è distribuita e uniforme, illumina tutti i personaggi nello stesso modo, non si vede una fonte ben
precisa, ma serve a staccare le figure dal resto del fondo. La prospettiva è assente, vediamo infatti la Dea
Venere quasi fosse sollevata dal terreno ed i piedi sfiorano le corolle senza calpestarli come se levitasse.
Il grande artista Botticelli inizia ed elabora quel filone di arte mitologica che in seguito avrà molto suc-
cesso.

162
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

LA NASCITA DI VENERE

Nascita di Venere, 1484, tempera su tavola, Galleria degli Uffizi, Firenze

La nascita di Venere (1484) fu dipinto da Sandro Botticelli per Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, nipote
di Lorenzo il Magnifico per contribuire a rendere splendida la Villa di Castello, nella campagna fiorentina.
Questo dipinto rappresenta una delle creazioni più elevate del gusto estetico del pittore fiorentino. La tec-
nica usata è una tempera su tela inchiodata su tavola di 172×278 cm ed è ora esposta nella Galleria degli
Uffizi di Firenze. Il quadro rappresenta la dea Venere, nuda su una conchiglia, che sorge dalla spuma del
mare e viene sospinta e riscaldata dal soffio di Zefiro, il vento fecondatore, abbracciato a Clori, la ninfa che
simboleggia la fisicità dell’atto d’amore.
Come sfondo alla splendida immagine abbiamo la spiaggia di Cipro, l’isola cara a Venere, e una delle Ore,
le ninfe che presiedono al mutare delle stagioni, porge alla dea un manto. ricamato di fiori per proteggerla.
Il disegno ha una elevata armonicità, risulta essere delicato ed elegante, particolare che si nota anche solo
seguendo le singole linee del disegno. In particolare le onde del mare appena increspate, nel gonfiare delle
vesti e nel dolce fluire dei capelli della dea e ancora nello stesso profilo della spiaggia di Cipro. I colori sono
di tonalità chiari e puri, le forme ben definite, di elevata affinatezza che trovano il loro culmine nel nudo
splendido, statuario e puro della dea. La Venere rappresentata così, dalle linee armoniose e dal nudo splen-
didamente candido e statuario, rappresenta l’esaltazione del’artista verso la bellezza classicamente intesa e
al contempo la purezza dell’anima. Nella Nascita di Venere, tela di grandi dimensioni realizzata fra il 1484
e il 1485 dopo un soggiorno a Roma, prendono forma i sofisticati ideali di bellezza del neoplatonismo,
per il quale la perfezione esteriore era manifestazione di quella interiore, come viene espresso nell’estetica
del filosofo Marsilio Ficino, fondatore del neoplatonismo. Venere, nata dal mare, raggiunge l’isola di Cipro
su una conchiglia sospinta dal vento Zefiro e dalla brezza Aura ed è accolta da una delle Ore, le ninfe
che presiedono le stagioni, che le offre un mantello fiorito per coprirsi. Oltre alle fonti classiche, Botticelli si
ispirò al poema Stanze per la giostra di Poliziano, in cui è descritto un immaginario rilievo con soggetto
analogo. L’inconfondibile espressione malinconica sul volto della dea è quella che caratterizza tutte le
figure femminili di Botticelli:

rappresentata come la Venere pudìca classica, è l’incarnazione dell’humanitas, cioè degli aspetti spirituali
e razionali dell’animo, e dell’amore sublime, nonché simbolo della purezza dell’anima. Questi ideali sono

163
CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

resi attraverso:
• colori perlacei dalle sfumature impalpabili, delicatissime, chiari, luminosi, trasparenti e freddi.
• Le ombre sono velate, trasparenti, appena percettibili
• il linearismo, evidente nei profili netti delle figure, nell’incresparsi delle onde e nella sinuosità dei pan-
neggi e dei capelli.
• Le forme, perfette, purissime, idealizzate, soprattutto nel nudo centrale della Venere.
• Le figure di Botticelli sono di una bellezza molto particolare: sono fredde, perfette. Sono di una bellezza
ideale fuori dalla realtà e dalla misura dei sensi, si riferiscono all’estetica neoplatonica di Marsilio Ficino.

• Concentrato sull’intento allegorico e filosofico e sul raggiungimento di una forma raffinata e astratta che
lo manifestasse, Botticelli infatti non si interessò mai veramente alla resa spaziale in senso prospettico e al
volume delle figure, che per questo ci appaiono evanescenti e quasi “ritagliate” su un fondale bidimension-
ale. Botticelli riesce a rendere la sostanza corporea con un minimo di materia, alleggerendo gli elementi
plastici e giungendo alla massima purezza di forme senza smaterializzarle del tutto.
Questi effetti sono ottenuti dando la massima autonomia possibile a tutti gli elementi della composizione.
I colori sono irreali, le forme sono idealizzate e astratte, le linee si muovono liberamente, accrescono il dina-
mismo delle figure e le alleggeriscono.
Il fascino dell’opera del Botticelli è proprio in questo senso di distacco, di allontanamento dei sensi, e nello
stesso tempo di attrazione del gusto e dell’intelletto.

• La tela era un supporto in quel tempo ancora poco diffuso e forse fu adottata per potere trasportare
l’opera nella villa di Castello, di proprietà del committente di gran parte delle composizioni di Botticelli su
Venere, cioè Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, cugino del Magnifico. La committenza potrebbe però
anche essere stata motivata dalla nascita nel 1484, in un ramo della famiglia Medici, di Maria Margherita,
al cui nome alluderebbero forse i fiori sul manto rosa e la conchiglia (margarita in latino significa “perla”).

• Il quadro illustra un celebre passo delle Stanze del Poliziano, in cui Venere, su una conchiglia, nasce dal
mare ed è spinta a riva dagli “Zefiri lascivi”. Botticelli rappresenta questi Zefiri lascivi come due amanti ab-
bracciati, intrecciati insieme mentre arrivano in volo e soffiano, e fanno sbocciare le rose e i fiori, risvegliano
la Natura (è un soffio fecondante). Da questo soffio (il soffio della passione), Venere, appena nata, è “mossa
e ispirata”. Dall’altra parte la Ora accorre con un manto fiorito (allusivo alla veste di erbe e fiori della Natura)
per coprire Venere.

• Tra i significati simbolici c’è anche quello dell’unione dei contrari (i due amanti, il vento che scopre, la Ora
che copre, ecc.), indice di perfezione divina, ravvisabile anche nella posa della Venere pudica, che esprime
la doppia natura dell’amore: insieme sensuale e ideale, trasporto e perfezione.
Ma rappresenta anche la doppia natura umana: corpo e anima: Quindi c’è anche una doppia corrisponden-
za tra il mito pagano della nascita di Venere dalla spuma del mare e il mito cristiano della nascita dell’anima
dall’acqua del battesimo. Questo punto rafforza la probabilità che si tratti di un quadro di battesimo, un
dono per la nascita della piccola Margherita de’ Medici.

ADORAZIONE DEI MAGI

L’adorazione dei Magi è un’opera di Botticelli. La cosa eccezionale dell’opera è sicuramente il tema. Botticel-
li infatti unisce il mondo politico fiorentino con il mondo religioso. L’opera infatti rappresenta l’adorazione
dei Magi, l’innovazione è proprio quella di usare personaggi reali della corte dei Medici, e questo è un
grande tributo per questa famiglia; infatti non furono gli stessi Medici a commissionare l’opera, ma proba-
bilmente Gaspare del Lama, un finanziere che aveva stretti rapporti con la famiglia Medici. Nell’opera ci
sono due personaggi che, a differenza degli altri, hanno il viso frontale, e quindi si distinguono dagli al-
tri. Proprio per questa particolarità, si ritiene che questi due uomini siano Sandro Botticelli e Gaspare del
Lama. In Botticelli notiamo la forte influenza delle tecniche fiamminghe (cura dei particolari, panneggi...)
e notiamo inoltre sullo sfondo delle rovine classiche che riportano all’antica Roma, una caratteristica im-
portante del primo Rinascimento. Un’altra caratteristica è la sistemazione dei personaggi; se prima la Sacra
Famiglia era rappresentata ad una delle due estremità, con Botticelli il taglio è completamente diverso,

164
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

è frontale, e attorno la famiglia Medici è in adorazi-


one del Bambino Gesù. Possiamo datare l’opera al
primo rinascimento, sia per la ricerca del dettaglio
che per i tessuti preziosi e quindi, come già detto,
per le influenze fiamminghe tipiche della Firenze
dal 1410 in poi, quando le tecniche fiamminghe ar-
rivarono anche in Italia. L’opera viene largamente
descritta come opera autografa del Botticelli. Fu
commissionata da Giovanni Zanobi del Lama (per-
sonaggio molto influente nel mondo della finanza
e dell’arte, e frequentatore della famiglia de’ Medici)
per il suo altare in Santa Maria Novella (lo riportano
le stesse fonti di cui sopra, con il pieno accordo del
Borghini ed il Baldinucci). La concessione dell’altare
passò più tardi alla famiglia Pedini, quindi fu ceduta
Fabio Mandragoni, celebre mercante d’arte, il quale, Adorazione dei Magi, 1475, tempera su tavola, Galleria degli Uffizi, Firenze

su disegno dello stesso Vasari fece rinnovare com-


pletamente le cornici. Il padronato dell’altare passò infine a Bernardo Vecchietti che sostituì l’opera del
Botticelli con un altro dipinto. Nel 1796, dalla villa di Poggio Imperiale, in cui era stata trasferita dopo la
rimozione dall’altare, passò agli Uffizi. Nella pala sono stati inseriti certamen-te numerosi personaggi della
famiglia de’ Medici e dell’alta società che frequentavano il “palazzo”, quindi, molti studiosi hanno proposto
diverse ipotesi di identificazione.

LA CALUNNIA

La scena si legge da destra di chi guarda: sul trono, Re Mida affiancato da due figure femminili (Sospetto e
Ignoranza); in piedi, davanti al re, vestito di stracci, il Livore stringe il polso della Calunnia che trascina, del
tutto indifferente, la propria vittima; Invidia e Frode le ornano i capelli. Alla loro sinistra, una vecchia, sim-
bolo della Penitenza, rivolta verso la Verità, che è nuda. Botticelli per il suo dipinto si è ispirato al dipinto di
Apelle (celebre pittore della Grecia antica) che raffigurava La Calunnia.
La Calunnia è un’immagine allegorica e il pittore greco la aveva dipinta per difendersi dalle calunnie di un
collega invidioso. Un giovane, il calunniato innocente, è trascinato davanti a Re Mida seduto in trono alla
destra del quadro. Il Re ha le orecchie d’asino del cattivo giudice ed è stretto tra due donne, l’Ignoranza e
il Sospetto, che sussurrano false parole. Ha gli occhi abbassati e non vede la scena che ha di fronte, si affida
pertanto alle sue cattive consigliere. L’Odio, un uomo dallo sguardo tagliente e il gesto aggressivo, coperto
da un abito logoro afferra per un braccio una bellissima donna, la Calunnia, che trascina per i capelli il calun-
niato, avvolto solo da un panno. La sua nudità è simbolo di innocenza. Due ancelle, l’Invidia e l’Inganno,
acconciano i capelli della Calunnia con
rose e un nastro bianco, travestendola
con le immagini della purezza (le rose) e
dell’innocenza (il nastro bianco). Il grup-
po è seguito da una vecchia arcigna, in-
cappucciata in un manto nero, personifi-
cazione del Pentimento. Solo lei guarda
la Verità, nuda e isolata da tutti gli altri
(segno della sua incorruttibilità), che
volge lo sguardo verso l’alto e indica il
cielo dal quale solo può provenire la vera
giustizia. La scena si svolge in una loggia
adorna di statue e bassorilievi. Tre arcate
si aprono sulla quiete azzurra di un pae-
saggio marino; il loro ritmo cadenzato e
solenne accentua la concitazione della
La Calunnia, 1496, Galleria degli Uffizi, Firenze scena in primo piano.

165
CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

COMPIANTO SU CRISTO MORTO

Una pala d’altare realizzata da Sandro Botticelli per la chiesa


di Santa Maria Maggiore a Firenze verso la fine del 1400 e
attualmente al museo Poldi Pezzoli di Milano; è di poco suc-
cessiva a un’altra “Pietà” databile al 1495 e ora a Monaco di
Baviera.
Il Vasari parla del Botticelli come di un fervente seguace del
frate domenicano Gerolamo Savonarola - i cui seguaci erano
detti piagnoni - e per questo la sua pittura è caratterizzata da
una drammatica e sofferta religiosità, in sintonia appunto con
le idee e lo spirito savonaroliano.
Ne sono prova evidente:
• i colori dai toni spenti;
• la profonda oscurità del sepolcro;
• la sofferta concentrazione dei gesti e nei volti;
• la severa inquadratura dei blocchi di pietra nuda.
La struttura è a piramide; tutte le figure sono chiuse da uno
sfondo incombente: il che allude al clima di penitenza e
preghiera diffuso dalla predicazione del Savonarola, morto
nel 1498.
Qualche critico ritiene che l’opera sia stata realizzata poco
dopo la morte del frate domenicano.
Osserviamo ora i personaggi a partire dall’alto:
Nicodemo - colui che andò da Gesù di notte: non solo per Compianto sul Cristo morto, 1495, tempera su tavola,
Museo Poldi Pezzoli, Milano
evitare di farsi vedere… ma il Vangelo allude in tal senso an-
che al suo tormento interiore, al buio pesto che dominava la sua vita; viene alla mente l’espressione “ho
l’inferno nel cuore” dell’Innominato dei Promessi Sposi.
Vi sono poi tre figure femminili, due delle quali esprimono il loro dolore accarezzando l’una i piedi e l’altra
la testa di Gesù; la terza invece si nasconde, coprendosi il volto: orrore o insensibilità, paura del sangue o
indifferenza.
Gli altri personaggi vestono di rosso, solo lei di un altro colore.
Facciamo ora chiarezza nel rispetto della verità.

Osserviamo ora la Madonna:

• Regge Cristo sulle ginocchia come faceva quando lui era un bambino, ma sconvolta dal dolore sviene,
sorretta dal discepolo più piccolo e coccolato, Giovanni;
• La maschera inespressiva del suo volto è il centro della scena.
Il suo volto pietrificato e il sepolcro che come un’oscura spelonca racchiude la scena sono il segno evi-
dente della morte di Gesù: lei che aveva prestato tutte le sue attenzioni a Gesù ora non può fare altro che
accoglierlosulle ginocchia in attesa di adagiarlo in quel sepolcro buio. In quel momento, paradossalmente,
Maria avverte che la fede implica anche l’esperienza di perderla, la pos-sibilità di smarrirla perche il credere
cristiano è difficile e a volte lacerante. Il contrario è molto più facile e spontaneo, pure più comodo.

Da ultimo Gesù:

• Il corpo è stato lavato, le ferite si vedono appena;


• Un corpo atletico, nel pieno del suo sviluppo fisico, contrasta con l’abbandono della morte.

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IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

MADONNA CON BAMBINO

Questa tavola, considerata dalla critica uno dei capolavori di Sandro Botticelli, è datata al tempo della Ma-
donna con il Bambino e cinque angeli (“Madonna del Magnifícat”) della Galleria degli Uffizi a Firenze, in-
torno al 1480-481. Conosciuto anche come la “Madonna del libro”, raffigura la Vergine e il Bambino intenti
alla lettura di un libro che risulta solo parzialmente visibile.

L’impaginazione e la decorazione dei fogli hanno


permesso di formulare l’ipotesi che si tratti di un
Libro d’Ore, cioè di uno di quei manuali di devozi-
one destinati ai laici che ebbero grande diffusione
tra il XIII e il XVI secolo. Accanto al volume aperto,
sul quale la mano di Maria si sta delicatamente pos-
ando, sono visibili altri libri e alcuni semplici oggetti
che contribuiscono a conferire all’immagine un
tono familiare.
Posate sul tavolo, compaiono una scatola di legno
per i dolci e una maiolica fiorentina colma di frutti
che verosimilmente hanno un significato simbolico:
le ciliegie alluderebbero al sangue del Redentore, le
prugne alla dolcezza dell’affetto della Vergine Maria
e del Bambino, i fichi alla Salvezza o alla Resurrezi-
one di Cristo.
I tre chiodi della croce nella mano del piccolo Gesù
e la corona di spine sul suo braccio, prefigurano la
Passione di Cristo e contribuiscono a rendere più es-
plicito il vero significato del dipinto (è dubbio tutta-
via se tali attributi spettino all’invenzione del pittore
o se siano stati aggiunti abusivamente non molto
tempo dopo l’esecuzione del quadro, come pare
suggerire l’incongruenza del gesto della mano di
Gesù e la loro stessa realizzazione pittorica, alquan-
to modesta). La composizione piramidale delle due
figure sacre lascia ampio spazio, nella parte destra
Madonna con il Bambino, 1480-81, tempera su tavola
del quadro, a una finestra aperta sul paesaggio, dalla Museo Poldi Pezzoli, Milano
quale proviene una luce calda e crepuscolare.
Il chiarore di cui sono pervasi la Madonna e il Bambino, tuttavia, non sembra avere un’origine naturalistica:
esso pare piuttosto emanare dalle figure stesse, diffondendosi nello spazio circostante e trasformando il
semplice interno domestico in un’ambientazione mistica. L’opera dimostra la raggiunta maturità dell’artista
anche se ancora risente dell’influsso di Filippo Lippi, primo maestro del Botticelli e autore di raffinate im-
magini sacre. Sono comunque presenti nel quadro tutti gli elementi della poetica botticelliana propri di
questo particolare momento artistico, caratterizzato da una linearità morbida ed elegante, e da uno stile
calmo e prezioso (ancora lontano dall’intenso patetismo che permeerà la tarda produzione artistica del
maestro fiorentino), tradotti con una tecnica pittorica di grande raffinatezza, ricca di lumeggiature d’oro
stese sui capelli, sul tessuti, sulle foglie nella fruttiera e sui liberi motivi delle aureole.

Restaurato nei primi anni dei secolo XX, e sottoposto ad un intervento conservativo nel 1951, si presenta
in ottimo stato di conservazione, solo alcune usure affievoliscono parte del manto della Vergine, in basso
a destra. Piccoli ritocchi, tra cui uno sul ginocchio del Bambino, sono ravvisabili sulla superficie. Il supporto
ligneo, sul dorso del quale è stata stesa una preparazione gessosa, è sostenuto da due traverse orizzontali,
applicate probabilmente per contenere le fratture verticali che si sviluppano dal margine superiore e da
quello inferiore della tavola. Il dipinto riprende la tematica della Madonna del Magnificat, risolvendolo con
grande equilibrio e senso del colore, ravvivato dall’oro sapientemente dosato. Due sono i centri emotivi del
dipinto: la mani di madre e il figlio atteggiate in modo analogo, la destra appoggiata l’una sull’altra e aperta
sul libro in un gesto che evoca quello della benedizione, la sinistra chiusa e posta sul grembo del Bambino;

167
CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

e gli sguardi che si incrociano. La fortuna che questo dipinto ha incontrato nel corso dei secoli è amplissimo,
proprio per la sua caratteristica di semplice approccio devozionale.

VENERE E MARTE

Venere e Marte, 1482-83, tempera su tavola, National Gallery, Londra

Venere e Marte è un dipinto a tempera su tavola di Sandro Botticelli, databile al 1482-1483 circa e conser-
vato alla National Gallery di Londra. L’opera viene in genere datata a dopo il ritorno dal soggiorno romano
(1482), per gli influssi classicheggianti che l’autore avrebbe potuto studiare sui sarcofaghi antichi della
città eterna. Essa viene inoltre messa in relazione con gli altri grandi dipinti della serie mitologica, commis-
sionati forse dai Medici: la Primavera, la Nascita di Venere e la Pallade e il centauro. La presenza delle vespe
nell’angolo in alto a sinistra ha anche fatto pensare che si trattasse di un’opera commissionata dai Vespucci,
già protettori di Botticelli, magari in occasione di un matrimonio. Il formato orizzontale farebbe così pensare
alla decorazione di un cassone o di una spalliera. La scena raffigura Venere mentre osserva, consapevole e
tranquilla, Marte dormiente, distesi su un prato e circondati da piccoli fauni che ruzzano allegri con le armi
del Dio. I satiri sembrano tormentare Marte disturbando il suo sonno, mentre ignorano del tutto Venere,
vigile e cosciente: uno ne ha l’elmo che gli copre completamente la testa mentre, con un altro, ruba furtivo
la lancia di Marte; un altro sta per suonare un corno di conchiglia nell’orecchio del dio per svegliarlo; un
quarto fa capolino dalla corazza sulla quale il dio è adagiato. Nonostante il contorno scherzoso dei fauni, nel
dipinto serpeggiano anche elementi di inquietudine, come il sonno spossato e abbandonato di Marte o lo
sguardo lievemente malinconico di Venere. Il significato del dipinto è oscuro, ma quasi sicuramente andava
letto secondo le tematiche filosofiche dell’Accademia neoplatonica. In particolare sarebbe la figurazione
di uno degli ideali cardine del pensiero neoplatonico, ossia l’armonia dei contrari, costituita dal dualismo
Marte-Venere. La fonte d’ispirazione di Botticelli sembra ragionevolmente essere infatti il Symposium di
Ficino, in cui si sosteneva la superiorità della dea Venere, simbolo di amore e di concordia, sul dio Marte,
simbolo di odio e discordia (era infatti il dio della guerra per gli antichi).
Secondo il critico Plunkett il dipinto riprenderebbe puntualmente un passo dello scrittore greco Luciano di
Samosata, in cui viene descritto un altro dipinto antico raffigurante le Nozze di Alessandro e Rossane, in cui
alcuni amorini giocavano con la lancia e l’armatura del condottiero. La scena sarebbe un’allegoria del matri-
monio, in cui l’Amore, impersonato da Venere, ammansirebbe la Violenza, di cui Marte è la personificazione.
L’opera potrebbe dunque essere stata realizzata per il matrimonio di un membro della famiglia Vespucci,
protettrice dei Filipepi (come dimostrerebbe l’inconsueto motivo delle api in alto a destra) e quindi questa
iconografia sarebbe stata scelta come augurio nei confronti della sposa. È anche possibile però che gli
insetti simboleggino semplicemente le “punture”, cioè le spine dell’amore. Marte starebbe vivendo la “pic-
cola morte” che segue l’atto sessuale, che neanche uno squillo di tromba nelle orecchie riesce a destare; il
fatto che i faunetti lo abbiando depredato della lancia simboleggia anche il suo disarmo davanti all’amore.
Un’altra interpretazione possibile è quella dell’incontro tra Venere, raffigurante i piaceri ca-tastematici,
e Marte, i piaceri dinamici, presente nel proemio dell’opera De rerum natura del poeta latino Lucrezio.

168
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

Nell’opera sono leggibili alcune caratteristiche stilistiche tipiche dell’arte di Botticelli. La composizione è es-
tremamente bilanciata e simmetrica, che può anche sottintendere la necessità di equilibrio nell’esperienza
amorosa. Il disegno è armonico e la linea di contorno tesa ed elastica definisce con sicurezza le anatomie
dei personaggi, secondo quello stile appreso in gioventù dall’esempio di Antonio del Pollaiolo. A differenza
del suo maestro però, Botticelli non usò la linea di contorno per rappresentare dinamicità di movimento e
sforzo fisico, ma piuttosto come tramite per esprimere valori anche interiori dei personaggi. L’attenzione al
disegno inoltre non si risolve mai in effetti puramente decorativi, ma mantiene un riguardo verso la volu-
metria e la resa veritiera dei vari materiali, soprattutto nelle leggerissime vesti di Venere. I colori sono tersi
e contrastanti, che accentuano la plasticità delle figure e l’espressionismo della scena. Grande attenzione è
riposta nel calibrare i gesti e le torsioni delle figure, che assumono importanza fondamentale.

LA MADONNA DEL MAGNIFICAT

L’opera che si osserva nella immagine è conservato


nella galleria degli Uffizi a Firenze.Il dipinto è stato
realizzato con l’utilizzo di colori a tempera su di una
tavola del diametro di 118 cm. Il periodo nel quale
l’opera e stata completata dovrebbe datarsi intorno
al 1481. Di questo dipinto mi affascina la nitidezza
dei colori che rendono ogni oggetto o figura pre-
sente nel tondo preziosa limpida e facilmente os-
servabile. L’occhio è appagato dalla presenza sulla
scena dei rossi e dalla pulizia con i quali sono realiz-
zati. Il colore arancio bilancia tutta l’immagine nel
dipinto ed il bianco che è presente in più punti gli
da candore e serenità. I colori azzurro scuro o grigio
blu, insieme a quello dell’incarnato, servono per col-
legare e moderare tra di loro gli altri presenti sulla
superficie. Il disegno e la composizione del dipinto
come è di tutta evidenza non ricoprono un ruolo
marginale. I colori, inoltre grazie al disegno, nella
loro finzione di essere in un qualche oggetto impr- Madonna del Magnificat, 1481 Tempera su tavola, Galleria degli U Uffizi, Firenze.
eziosiscono l’opera che per me è un piacere osser-
vare forse anche per questo motivo.
La Vergine, col Bambino sulle ginocchia, è incoronata da due angeli mentre sta scrivendo su un libro le
parole del Vangelo di Luca: “Magnificat anima mea Dominum” (L’anima mia magnifica il Signore), il verso
iniziale del cantico con cui Maria, durante la sua visita a sant’Elisabetta, ringrazia il Signore per essere stata
scelta come veicolo dell’Incarnazione divina (Luca, I, 46). Essa è riccamente abbigliata, con la testa coperta
da veli trasparenti e stoffe preziose ed i suoi capelli biondi si intrecciano con la sciarpa annodata sul petto.
Il Bambino guida il suo braccio, testimoniando il perfetto accordo tra Dio e la sua prescelta. Altri due angeli
tengono il libro e il calamaio dove Maria intinge la penna, mentre un terzo abbraccia questi ultimi due.

LA FORTEZZA

La Fortezza è un dipinto a tempera su tavola (167x87 cm) di Sandro Botticelli, datato 1470 e conservato
nella Galleria degli Uffizi a Firenze. Si tratta della più antica opera sicuramente datata di Botticelli. Sette
Virtù vennero commissionate con un contratto datato 18 agosto 1469 a Piero del Pollaiolo dal Tribunale
della Mercanzia (l’organo che soprintendeva le corporazioni di arti e mestieri di Firenze e giudicava i reati di
natura commerciale) per decorare le spalliere degli stalli nella sala delle Udienze della sede in piazza della
Signoria. Si conosce anche una seconda delibera che confermò l’incarico, al quale dovette partecipare, ma
non sappiamo esattamente in quale misura, anche il fratello di Piero, Antonio. La Carità fu la prima tavola ad
essere eseguita, tanto da essere consegnata già nel dicembre 1469. La bottega del Pollaiolo eseguì sei dei
sette dipinti previsti; il settimo, la Fortezza venne eseguito dal giovane Sandro Botticelli. Il giovane pittore

169
CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

venne scelto su suggerimento del magistrato della Merca-


tura Tommaso Soderini, a sua volta consigliato da Piero il
Gottoso de’ Medici che aveva preso l’artrista sotto la sua ala
protettiva. Ciò avveniva alla fine del 1469, lo stesso anno in
cui Piero morì, e la tavola venne ufficialmente allogata nel
maggio 1470, per essere rapidamente consegnata entro il
18 agosto, quando fu versato il saldo. La tavola piacque ai
committenti, che avrebbero voluto affidare a Botticelli una
seconda virtù, ma le proteste energiche del Pollaiolo, assec-
ondate dall’Arte dei Medici e Speciali (che accoglieva anche
i pittori), fecero desistere dall’iniziativa.
La Fortezza, intesa come determinazione, tiene in mano un
bastone del comando e siede su un ampio trono marmoreo
con bracci a volute, di ispirazione verrocchiesca.
Il colore e il plasticismo marcato derivano dall’esempio di
Filippo Lippi, primo maestro di Sandro, così come il tipo fi-
sico della donna dalla bellezza idealizzata, anche se ener-
gico e leggermente malinconico come tipico in Botticelli. Le
forme sono però più solide e monumentali, animate da una
tensione lineare appresa da Antonio del Pollaiolo. Il trono, al
posto dell’austero scranno marmoreo del Pollaiolo, è ricca-
mente decorato e dalle forme fantastiche che costituiscono
un preciso richiamo alle qualità morali inerenti all’esercizio
della magistratura, in pratica un’allusione simbolica al “tes-
oro” che accompagnava il possesso di questa virtù. Esso è
scorciato in maniera meno distorcente delle altre Virtù ed è
finemente decorato ma meno prorompente, grazie all’uso
di colori più scuri che fanno emergere, per contrasto, la fig-
ura principale: l’ef-fetto è che essa non sembra nemmeno
seduta, ma in primo pi-ano, secondo una spazialità che ha La Fortezza, 1470, tempera su tavola, Galleria degli Uffizi, Firenze
un che di sognante.
La ricchezza del panneggio della veste, pesante come se fosse bagnato definisce la struttura corporea, ma
al tempo stesso la smaterializza, accordando un privilegio alla linea di contorno rispetto agli altri elementi
espressivi. Grande capacità è dimostrata nella resa dell’armatura lucida e finissimamente decorata, che di-
mostra una conoscenza approfondita dell’arte orafa. Fu proprio la continua ricerca della bellezza assoluta,
al di là del tempo e dello spazio, che porterà Botticelli a staccarsi progressivamente dai modelli iniziali e ad
elaborare uno stile sostanzialmente diverso da quello dei suoi contemporanei, che lo rese un caso pratica-
mente unico nel panorama artistico fiorentino dell’epoca.

PIETRO PERUGINO

Pietro Vannucci, noto come “Il Perugino”, venne molto apprezzato in Italia come un brillante maestro,
ma non mai quanto venne acclamato per le sue meravigliose opere; viene considerato dai critici come
un’imponente modello di riferimento per tutti i giovani pittori della Firenze rinascimentale. Pietro nacque a
Città della Pieve, luogo sotto il dominio di Perugia. Questo è il motivo che gli valse il nomignolo di “perugi-
no”. Erroneamente Francesco Albertini, studioso di arte figurativa di inizio ‘500 lo definì così nel 1510:“Pietro
Perugino, ben si può dire fiorentino, ch’è allevato qui”. Unanimemente considerato il massimo esponente
della pittura umbra del XV secolo, il Perugino rappresenta appieno la compagine artistica dell’Umanesimo.
Pittore di grande fama al tempo suo, ma anche molto criticato da artisti a lui successivi, Perugino inizia
presto la sua attività, diventando discepolo di Piero della Francesca. Nel 1472 s’iscrive alla Compagnia di San
Luca a Firenze ed entra a far parte della bottega di Andrea del Verrocchio. Qui frequenta Leonardo Da Vinci,
suo compagno di studi, a cui per motivi spirituali e caratteriali è spesso assimilato. Nessuna opera di certa
attribuzione risulta anteriore al 1478, anno nel quale il pittore affresca la chiesa parrocchiale di Cerqueto,
di cui oggi non resta che qualche frammento, rappresentante San Sebastiano. È la partecipazione alla più

170
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

grande impresa decorativa del tardo Quattrocento italiano a rappresentare una svolta nella sua attività.
Giunto a Roma nel 1479, affresca la finta pala d’altare della Cappella Sistina, alcuni riquadri con “Storie” di
Mosè e di Cristo, e la celebre “Consegna delle chiavi a San Pietro”. L’opera è un capolavoro e influenzerà for-
temente Raffaello. Questo momento artistico segna l’inizio d’una brillante carriera, procaccia al giovane pit-
tore molti lavori, gli procura una solida fama e denaro sufficiente per quasi tutta la vita. Per assolvere a tutte
le commissioni artistiche che gli provengono da ogni parte d’Italia, apre due botteghe, a Firenze e a Perugia,
mettendo all’opera il suo talento organizzativo ed imprenditoriale più che quello artistico. Quest’ultima at-
tività, infatti, procede con più lentezza ed il suo stile s’impone in modo pedissequo agli allievi, divenendo
presto stanco e un po’ di maniera. Questo però non gli impedisce di ottenere fama di “maestro singolare, et
maxime in muro” e di essere considerato il migliore maestro d’arte italiano, almeno dai suoi contemporanei.
Verso la fine del Quattrocento realizza opere per committenti fiorentini, tra le quali la “Madonna che appare
a San Bernardo” (1493), il ritratto di “Francesco delle Opere” (1494), il “Compianto su Cristo Morto” (1495), la
“Crocifissione ad affresco nella chiesa di Santa Maria Maddalena dei Pazzi (1495-96). Molti anche i commit-
tenti umbri: a Perugia dipinge la pala dei Decemviri (1495), i polittici di San Pietro (1496) e Sant’Agostino
(1510-20), lo Sposalizio della Vergine per la cappella del Sant’Anello in Duomo (1503-04), gli affreschi nella
Sala dell’Udienza del Collegio del Cambio (1498-1500). Molte sue opere sono presenti in altre città, da Bet-
tona a Corciano, da Foligno a Montefalco, per citarne solo alcune. Peru-gino viaggia molto, si sposta di città
in città, forse spinto da quella che il Vasari non esita a definire avidità.
Molta della committenza alla fine si stanca dei suoi schemi compositivi, anche per il nascente interesse nei
confronti d’una nuova generazione di artisti quali Fra’ Bartolomeo e Andrea del Sarto. L’inizio del Cinque-
cento segna un lento declino per l’artista, che muore di peste nel febbraio del 1523 nel piccolo borgo di
Frontigano, lontano dall’amata Firenze come dal successo e dagli onori del passato.

LA CONSEGNA DELLE CHIAVI

La consegna delle chiavi, 1481-82, affresco su muro, Cappella Sistina, Città del Vaticano

La Consegna delle chiavi è un affresco di Pietro Perugino realizzato nel 1481-1482 e facente parte della
decorazione del registro mediano della Cappella Sistina in Vaticano. Nel 1480 Perugino si trovava nell’antica
basilica vaticana ad affrescare una cappella per conto di Sisto IV, ottenendo un tale successo da ricevere,
subito dopo, la nuova commissione per la decorazione della ricostruita cappella papale, detta poi Sistina in

171
CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

onore del papa. In quest’impresa venne presto affiancato da un’équipe di pittori fiorentini, inviati apposita-
mente da Lorenzo de’ Medici. L’affresco mostra un importante momento nella storia della Chiesa Cattolica:
non è una coincidenza che si trova nella Cappella Sistina, la Cappella personale del Papa. Gesù consegna le
Chiavi del Paradiso a Pietro e lo indica come successore: questa scena sottolinea la trasmissione del potere
spirituale da Cristo a San Pietro, legittimando dunque il potere e l’infallibilità dei suoi successori.

La scena è la quinta sulla parete nord a partire dall’altare. Nel versetto precedente Pietro viene indicato
come la roccia su cui Gesù avrebbe edificato la sua chiesa. Gli artisti hanno sovente interpretato le parole
di Gesù letteralmente: Pietro è molto spesso rappresentato portando le chiavi. Nella scena gli altri seguaci
guardano in alto: essi sono uniti ad alcune figure non bibliche. Tra gli uomini sulla destra si è pensato che
lo stesso Perugino possa figurare accanto all’architetto della Cappella Sistina. Sullo sfondo sono mostrate
due altre scene della vita di Gesù. A sinistra: la scena del Pagamento del Tributo e a destra: la lapidazione di
Gesù. Perugino mostra le scene nella migliore tradizione del Rinascimento. La composizione è quasi perfet-
tamente simmetrica, con un’abile utilizzo della prospettiva .Il tempio in stile rinascimentale al centro della
rappresentazione è il tempio di Salomone a Gerusalemme. Questa è può essere considerata una piccola
anomalia dal punto di vista “geografico” in quanto, secondo Matteo, l’evento ha avuto luogo nella città
di Cesarea di Filippo (l’antica Banias dedicata al dio dei boschi Pan) vicino a una delle sorgenti del fiume
Giordano. Ai lati della piazza si trovano poi due citazioni dell’arco di Costantino, omaggio alla passione per
l’antico che in quegli anni dominava il mondo artistico ruotante attorno alla Città Eterna.La composizione,
rigorosamente simmetrica, è fondata sulle leggi della prospettiva geometrica con punto di fuga centrale.
Tutte le linee, infatti, convergono in un solo fuoco, situato nell’entrata principale del tempio. La pavimen-
tazione a riquadri della piazza, la scalinata a gradoni, il degradare delle proporzioni delle figure, la stessa
struttura architettonica, contribuiscono a creare l’effetto di profondità e di grande equilibrio.

COMPIANTO SUL CRISTO MORTO

In origine l’opera si trovava nella chiesa del mon-


astero di Santa Chiara a Firenze, come dimostra la
scritta sul retro della tavola. La composizione venne
citata con grande lode dall’Albertini (1510). Poco più
tardi, il Vasari ne ricordava il successo raccontando
che il Vannucci non volle realizzare una identica ver-
sione per un privato che gli avrebbe offerto il triplo
del prezzo pagato dai commissionari dell’originale.
Da documentazioni certe si ricava che il dipinto, nel
1654, si trovava già presso la villa medicea di Poggio
Imperiale; più tardi pervenne all’attuale sede, dove
fu prelevata (1799) dalle truppe napoleoniche per
essere trasferita a Marsiglia come bottino di guerra.
Nel 1815 ritornò in Italia (Pitti) insieme a moltissime
altre opere di valore.Il Cristo morto viene sorretto da
Giuseppe d’Arimatea e da Maria Maddalena, mentre
la Madonna gli regge dolcemente il braccio sinistro.
Le figure in piedi, poste in secondo piano, sono - da
sinistra - quelle di Giovanni Evangelista, Drusiana
(moglie di Zebedeo), Maria di Cleofa, Nicodemo e di
due altri personaggi variamente identificati. L’uomo
Compianto sul Cristo morto, 1495, olio su tavola, Galleria Pala-tina, Firenze
che regge il telo e la donna più a sinistra comple-
tano il gruppo. Cristo è posato su un masso la cui su-
perficie di appoggio è abbastanza spianata ma non di lunghezza tale da contenere l’intero corpo. Al lato del
masso, frontalmente, si legge in lettere d’oro la scritta “PETRVS PERVSINVS / PINXIT A. D. M. CCCC/LXXXXV”.

Gli elementi di pregio della composizione consistono nella cura nel disegno dei particolari come le teste,
nella varietà delle pose e delle espressioni, in particolare delle Marie intorno al Cristo, da cui trapela una

172
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

commozione umana, e la funzione del paesaggio lacustre, probabile allusione al lago Trasimeno, con la città
turrita, di raccordare gradatamen-te tra loro i diversi piani con le figure.
Le novità della rappresentazione consistono nella partecipazione corale dei personaggi al compianto e nel
rapporto psicologico che s’instaura tra essi, inusuale in Perugino, al punto da essere percepita così innova-
tiva da diventare un’opera che fece scuola a Firenze nel primo Cinquecento.

LO SPOSALIZIO DELLA VERGINE

“Lo sposalizio della Vergine” è un dipinto variamente attribuito a Pietro Vannucci detto il Perugino, realiz-
zato con tecnica ad olio su tavola nel 1500-04 ed è custodito nel Musée des Beaux Arts, Caen. L’opera in
esame può essere verosimilmente identificata con la pala che decorava la cappella del Santo Anello nella
cattedrale di Perugia. Da documentazioni certe si ricava che, nel 1485, la pala venne commissionata al Pin-
toricchio, e che, non potendo questi realizzarla, nel 1499 fu affidata al Perugino. Probabilmente il Vannucci
vi lavorò in un periodo compreso tra il 1500 ed il 1504. Durante l’occupazione napoleonica, del dipinto non
si seppe più nulla (girava la voce che fosse finito in America o perduto in pieno Atlantico in un naufragio).
Nel 1839, invece, si trovava nel Musée des Beaux Arts di Caen. Appena i vecchi proprietari lo vennero a
sapere, lo richiesero più volte al Museo, ma invano. L’opera viene realizzata con olio su tavola la quale ha
forma ar-cuata nella parte superiore. Al centro dell’opera vi sono gli sposi con il sacerdote, dal lato dello
sposo vengono posizionati gli uomini, mentre da quello della sposa le donne, come succedeva nelle chiese
cattoliche fino a qualche decennio fa.

Sullo sfondo domina un tempio che si innalza su una scalinata. Perugino realizza il suo tempio su una pianta
ottagonale, con un pronao ogni due lati, che
simboleggia la continuità fra l’antichità e la
chiesa Cristiana. La prospettiva è realizzata
creando una pavimentazione a scacchiera.

Le linee prospettiche coincidono con gli


spigoli della scalinata e dunque, sebbene
parallele, sembrano snodarsi a raggiera,
creando una sensazione di circolarità
mentre la collocazione del punto di vista
è posto all’altezza degli occhi dei person-
aggi. Per concludere, è interessante notare
alcune simbologie utilizzate nell’opera
del Perugino. Innanzitutto, il giovanotto in
braghe rosse alle spalle di San Giuseppe. È
un pretendente deluso della Vergine Ma-
ria che spezza deluso con rabbia un bas-
toncino. Poi, il tempio: la sua architettura
ricorda una chiesa rinascimentale, con lo
spazio vuoto che rappresenta la divinità ir-
reprensibile. Sopra la testa di San Giuseppe
spunta un ramo germogliato che ricorda i
miracoli dell’Antico Testamento. È anche
una metafora della reden-zione che sta per
avverarsi. Infine, la Vergine. Il Perugino ac-
centua il ventre tondeggiante di Maria già
incinta (come evidenzia la mano posta a
dolce protezione) con un’ombreggiatura
del suo tradizionale manto azzurro, suo at- Lo sposalizio della Vergine, 1501-04, olio su tavola, Musée des Beax-Arts, Caen (Francia)

tributo come Regina dei Cieli.

173
CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

ASCENSIONE DI CRISTO

In seguito ad una commessa affidatagli, nel 1495, dai Benedettini della città di Perugia, il Perugino si dedi-
ca, per tre anni, alla realizzazione di una pala per l’altare maggiore della chiesa dei monaci. Il contratto
definisce con precisione non solo i tempi di esecuzione dell’opera e l’iconografia, ma anche i materiali da
impiegare.

Della pala iniziale, comprendente ben 15 elementi,


solo la parte centrale e la lunetta, che rappresen-
tano l’Ascensione di Cristo, sono oggi conservate
alla pinacoteca di Lione. La composizione si articola
in modo simmetrico, su due piani, intorno ad un
asse centrale, che va dalla terra al cielo e che unisce,
tramite un intreccio di gesti e di sguardi, la Vergine, il
Cristo e il Padreterno.

A fianco della Vergine, su entrambi i lati, sono dis-


posti i dodici apostoli e San Paolo, figura importante
della Chiesa primitiva. Sopra di essi, il Cristo è rac-
chiuso in una mandorla. Tra i vari livelli del dipinto,
alcuni angeli suonano strumenti o pregano Dio. In
secondo piano, si stende, in lontananza, un paesag-
gio panoramico, realizzato secondo le regole della
prospettiva aerea: si distingue, in varie sfumature di
azzurro, una cittadina fortificata, in riva ad un fiume
che serpeggia in fondo ad una valle circondata da
montagne. La scansione regolare delle figure, le pose
aggraziate e la dolcezza dei volti dei personaggi, la
luminosità dei colori, intensi e contrastati, creano
un’immagine leggera e maestosa al tempo stesso. Il
Perugino mette a punto, in questa pala d’altare, uno Ascensione di Cristo, 1496-1500, olio su tavola, Musée des Beaux-Arts, Lione

stile classico, che preannuncia quello del suo allievo,


Raffaello.

LEONARDO DA VINCI

Leonardo fu figlio naturale di Caterina e del notaio ser Piero da Vinci, di cui non è noto il casato; non è sicuro
il suo luogo di nascita, che si ritiene essere la casa che la famiglia di ser Piero possedeva, ad Anchiano. In
seguito il padre Piero si sposò con una donna dalla quale non avrà figli e Leonardo fu allevato nella casa
paterna di Vinci.
Nel 1462, Leonardo era a Firenze con il padre Piero che avrebbe mostrato all’amico Andrea del Verrocchio
alcuni disegni che avrebbero convinto il maestro a prendere Leonardo nella sua bottega già frequentata
da futuri artisti del calibro di Botticelli, Ghirlandaio, Perugino; in realtà, l’ingresso di Leonardo nella bottega
del Verrocchio avvenne nel 1469 o nel 1470.
Nel 1473 Leonardo data la sua prima opera certa, il disegno della valle dell’Arno. Intorno a quest’anno
dovrebbe essere datato anche l’angelo, e il paesaggio del Battesimo di Cristo.
Proviene dalla bottega del Verrocchio anche l’Annunciazione degli Uffizi.
Nel 1482 Leonardo si trovava a Milano. Egli decise di recarsi a Milano perché si rese conto che le potenti
signorie avevano sempre più bisogno di nuove armi per le guerre interne, e riteneva i suoi progetti in ma-
teria degni di nota.
È a Milano che Leonardo scrisse la cosiddetta lettera d’impiego a Ludovico il Moro, descrivendo innanzitut-
to i suoi progetti di apparati militari, di opere idrauliche, di architettura, e solo alla fine, di pittura e scultura.
Nel 1483, con i fratelli De Predis, da una parte, e il priore della Confraternita milanese dell’Immacolata Con-
cezione, dall’altra, stipulò il contratto per una pala da collocare sull’altare della cappella nella chiesa di San

174
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

Francesco Grande; è il primo documento, relativo alla Vergine delle rocce, che attesta la sua presenza a
Milano.
Intorno all’ultimo decennio del secolo risalgono importanti dipinti come il Ritratto di musico, la Dama con
l’ermellino e l’Ultima Cena, nel refettorio di Santa Maria delle Grazie.
A Milano Leonardo trascorse il periodo più lungo della sua vita, quasi 20 anni.
Dopo un periodo passato alle dipendenze di Cesare Borgia nel 1503 ritornò a Firenze e probabilmente in
questo periodo dipinse la Gioconda.
Successivamente ritornò a Milano per poi partire per Roma dove alloggiò negli appartamenti del Belvedere
al Vaticano.
Qui però non ottenne importanti commissioni pubbliche e si dedicò soltanto ai suoi studi.
Qualche anno dopo decise di lasciare l’Italia. Nel 1516, dopo aver ricevuto continui inviti dal re Francesco I,
Leonardo decise allora di trasferirsi in Francia, nel castello di Cloux presso Amboise, dove morì nel 1519.

The Florentine master takes the work several times in the last years of his life, as Leonardo began painting
the Mona Lisa as it was already in Florence, and then the painting follows the artist in every small move-
ment, until it arrive in France, where aftr the death of Leonardo, the work will go to the collection of Francis
I. The figure stands in front of a vast desert landscape with which it forms a unit total. Note that the use
of sfumato of Leonardo, and the gentle transition plans from light to shadow, the light blur express the
heartbeat and the penetration into the atmosphere, making the Mona Lisa a human in the highest sense of
Renaissance. This also explains the smile that expresses the relationship of love between man and nature.
That the Mona Lisa is a slight smile, just mentioned, and with an eye toward the viewer, make sure that the
woman’s gaze follows with his eyes whoever is watching. The figure is represented by three-quarters, in a
very natural pose, with his left arm resting on the arm of a chair and with his right hand resting on the left.
The shape of the person portrayed is inscribed within a pyramid, the trunk is cut below the elbow, so that
the folded arms serve as the basis. Beyond the figure there is a natural space: roads, bridge, water, plains,
mountains, made using the aerial perspective. A space that is wider than that Tinting color, making the
undecided edges, remove from us the objects. The landscape is represented not just a landscape, but the
nature in its various aspects, as the majesty of painting is not only the presence of the female figure, but
their union, pure balance between man and nature.

L’ANNUNCIAZIONE

L’Annunciazione, tempera su tavola, 1472-75, Galleria degli Uffizi

È un’opera innovativa, per certi versi, a cominciare dall’ambientazione: la scena si svolge interamente
all’esterno, quando per la tradizione medioevale l’ambientazione era sempre collocata in un luogo chiuso.

175
CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

È tradizionale per altri versi, come per la collocazione dei due personaggi (la Madonna a destra e l’Angelo
a sinistra).
Inoltre, per mantenere la riservatezza dell’incontro Leonardo dipinse la Madonna in un angolo del palazzo,
però facendo intravedere il letto; poi, un muretto delimita il giardino, ma c’è un passaggio che significa che
la futura nascita non coinvolgerà solo la vita della Madonna, ma anche quella del mondo intero.
L’angelo rivela il suo peso nell’erba ed è rappresentato anche lo spostamento d’aria che provoca
nell’atterrare.
L’iconografia dell’angelo è classica, con le ali battenti, nel momento poco prima di richiudersi. A differenza
degli angeli normalmente rappresentati, però, ha ali di uccello autentiche, studiate attraverso l’anatomia
dei volatili.
C’è, però, una strana anomalia perché le ali originali erano più corte: più tardi qualcuno dipinse sopra
un’aggiunta, non comprendendo che qui Leonardo voleva rappresentare l’angelo che è atterrato, quindi
che sta chiudendo le ali.
L’impostazione della posizione è classica leonardesca, con il panneggio, a pieghe ampie e morbide.
La posizione delle mani è naturale: la destra è benedicente mentre la sinistra regge il giglio, simbolo di
purezza.
La Vergine si trova posizionata dietro un sarcofago scolpito su cui è appoggiato il leggio.
Nell’altare si nota quanto Leonardo risentì degli insegnamenti del Verrocchio: infatti, esso è decorato con
motivi classici, che trovano riscontro in un monumento del suo maestro, La tomba di Piero e Giovanni di
Cosimo de’ Medici.
Maria ha la mano destra appoggiata sul libro come se volesse evitare che si chiudesse (per il vento provo-
cato dall’angelo), mentre la sinistra è alzata in segno di accettazione del suo destino.
Per lo sfondo Leonardo si serve della prospettiva aerea, tecnica che usava per rendere l’idea della distanza:
dipingeva i particolari più lontani come avvolti in una foschia, poiché sapeva che tra l’occhio e un soggetto
messo a distanza, si sovrappongono molti strati di pulviscolo atmosferico.
Che rendono i contorni meno nitidi, a volte confusi. Gli oggetti vicini vengono raffigurati minuziosamente
proprio perché più gli oggetti sono vicini, più li si vede meglio.
Si nota in quest’opera anche lo studio della botanica infatti Leonardo raffigura tante varietà diverse di pi-
ante e fiori.

LA VERGINE DELLE ROCCE

Leonardo giunge a Milano nel 1482, ospite di Ludovico Sforza, detto il Moro. L’artista si fa precedere da una
lettera in cui illustra tutte le sue qualità ingegneristiche e architettoniche. La prima commissione pittorica
importante è la realizzazione di un polittico per la chiesa di San Francesco Grande.
Il pannello centrale di tale polittico è la cosiddetta Vergine delle Rocce, dipinta personalmente da Leonardo,
mentre i pannelli laterali spettano ad Ambrogio de Predis e ad altri collaboratori.
La prima versione dell’opera, conservata al Louvre di Parigi suscitò lo scalpore della confraternita per le sue
caratteristiche che si allontanavano molto dalla tradizionale raffigurazione religiosa della scena.
Successivamente Leonardo ne dipinse infatti una seconda versione, conservata alla National Gallery di Lon-
dra che differisce dalla prima per alcuni particolari come: lo sguardo dell’angelo che non è rivolto verso
l’osservatore ma verso San Giovannino, la presenza delle aureole o della croce nelle mani di San Giovan-
nino.

II dipinto rappresenta la Vergine inginocchiata, in posizione centrale, che, allargando il mantello, sospinge
il piccolo san Giovanni verso Gesù che lo benedice, mentre un angelo, forse Uriel, indica con il dito San
Giovanni e contemporaneamente rivolge lo sguardo verso l’osservatore. La scena fa riferimento ad un epi-
sodio tratto dai Vangeli apocrfi, che ricordail primo incontro fra Gesù e san Giovanni in fuga dalla strage
degli innocenti nel deserto del Sinai. Leonardo qui pone in risalto il dialogo tra i personaggi, con un gioco
di sguardi e gesti che coinvolge anche lo spettatore, invitato dall’angelo a partecipare all’evento sacro. I
personaggi sono immersi in una natura rocciosa, deserta, che crea una sorta di mistero in un paesaggio
assolutamente inedito per una scena religiosa.

La luce svolge un ruolo fondamentale nel creare questa atmosfera e roviene da due fonti diverse:

176
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

dall’orizzonte dove crea riflessi colorati sull’acqua e filtra tra le rocce, e dall’esterno del quadro a sinistra,
scoprendo le rotondità dei personaggi e la vegetazione, segno inconfondibile dello studio leonardesco
della botanica. Leonardo definisce quindi i volumi attraverso l’uso dello sfumato, tecnica attraverso cui egli
attenua il contrasto tra toni chiari e scuri nei contorni delle figure, avendo così una definizione morbida
dei corpi dei personaggi. Anche qui utilizza la prospettiva aerea in modo che le montagne in lontananza si
confondono e si dissolvono nella nebbiolina colorata.

This painting (1483-1486) was commissioned by the Confraternity of the Immaculate Conception (a group
of lay people) for the church of San Francesco Grande in Milan. There were made two versions: one for
Ludovico Il Moro (at whose court Leonardo worked) and the second copy to the church. The Brotherhood
did not accept the first version made, now in the Louvre in Paris, as it was considered too blasphemous and
away from the typical depictions of the Christian religion. The second version, in the National Gallery in
London, was accepted by the Brotherhood and is distinguished by several features: the presence of halos
in the four figures, the cross holding St. John and the look of the Angel Uriel probably not directed more
towards the observer but to the St. John himself. The scene is taken from an episode of the apocryphal
Gospels, which took place on the first encounter between Jesus and Saint John the run from the slaughter
of the innocents in the Sinai desert. In this painting the Virgin Mary is kneeling is in a central position, with
his cloak that pushes the little John to his cousin Jesus who is blessing, while an angel placed on the left of
the observer, look at the figure of Saint John. The Da Vinci genius raises a dialogue between the characters
made by an interplay of glances and gestures that involve the spectator. Work is applied to the pyramidal
composition indicating the trinity. At the top we find the head of the Virgin. At the right edge of the angel
and on the left St. John the Baptist. In the central edge we have Christ with the hand of the angel and the
Virgin Mary. This composition of glances and hands makes, as mentioned earlier, the work more dynamic.
The characters are immersed in a natural rocky desert landscape really unusual for representing a religious
scene.
Note how not only the figures but also the nature is taken in every single aspect, as Leonardo was an ac-
complished botanist and decided to enter into the work his studies of botany. The color has no meaning

La vergine delle rocce, olio su tavola, 1494-1508 La vergine delle rocce, olio su tavola, 1494-1508
National Gallery, Parigi National Gallery, Londra

177
CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

but also create a medieval atmosphere reducing the brightness with many shadows. In the painting, the
light comes from two completely different light sources: one from the left, from relief to bodies and clothes
emphasizing the sacredness of the scene, and the other from the horizon, where it creates colorful reflec-
tions on the water and filters between the rocks. The undergrowth is created by a slight glow. The volume
of the figures is defined by the use of Sfumato of Leonardo, a technique by which Leonardo softens the
contrast between light and dark tones in the contours of the figures, creating in this way a definition of
the soft bodies of the characters. Even within the painting there is the use of aerial perspective, so that the
mountains in the distance dissolve in the mist colored. So there are two Virgin of the Rocks, now preserved
in the Louvre in Paris and respectively at the National Gallery in London. However, the latter has always
provoked more discussion than the first, as it was deemed not work by Leonardo, but his colleague Ambro-
gio de Predis (most likely because of the features quite different from the first version of the work). But a
recent restoration of the National Gallery, however, seems to challenge that view, noting the extraordinary
attention to detail and the overall naturalness of the setting, typical elements of each Leonardo’s master-
piece. But, as we know, there were numerous historical and aesthetic changes that occurred between the
completion of the first picture and that of the second. During this period, more than two decades long, in
fact, Leonardo moved continuously for Italy, coming in contact with the stylistic innovations of colleagues
such as Michelangelo and Raphael. So in this way the Florentine master was able to taste different realities
unknown to him and putting them in the preparation of the second version. Nevertheless, in both versions
exist, the Virgin of the Rocks remains one of the best compositions of the genius of da Vinci, effective wit-
ness a lively temperament, playful and experimental.

LA DAMA CON L’ERMELLINO

È soprattutto nel ritratto che Leonardo ha un parti-


colare seguito, ne è un esempio il ritratto milanese
della Dama con l’ermellino forse identificabile con il
ritratto di Cecilia Gallerani, bella e clta amante di Lu-
dovico il Moro. Il riferimento a questa donna sarebbe
infatti celato nell’ermellino, che è anche l’emblema
araldico degli Sforza e che dunque allude a Ludovi-
co. Non è perciò un caso se l’animale sembra iden-
tificarsi con la fanciulla, er una certa somiglianza di
tratti somatici che rivelano una certa malizia e allo
stesso tempo eleganza. Così la mano della fanciulla
viene quasi ad assumere una forma simile a quella
del corpo dell’ermellino. Attraverso un gioco di luci
ed ombre con lo sfumato, la figura sembra emergere
dallo sfondo buio, giungendo così in primo piano
verso la luce.

La dama con l’ermellino, olio su tavola, 1488-90, Czartoryski Muzeum, Cracovia

178
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

L’ULTIMA CENA

La tradizionale iconografia dell’Ultima Cena viene rinnovata da Leonardo da Vinci che decide di rappresen-
tare il drammatico momento in cui Gesù annuncia agli apostoli: “Uno di voi mi tradirà”.
Queste parole innestano subito delle reazioni emotive molto intense negli apostoli.
Lo stupore e l’angoscia sono evidenti dai movimenti e dai gesti che diventano concitati e fanno sì che gli
apostoli comunichino con inquietudine: ogni loro gesto converge sulla figura centrale di Gesù, come una
catena, da cui solo Giuda si ritrae, isolato e colpevole.
Questa raffigurazione è molto geniale se confrontata con le opere di Ghirlandaio e di Andrea del Castagno,
in cui gli apostoli sono figure allineate, indipendenti l’una dall’altra.
Nell’Ultima Cena del Ghirlandaio ci sono troppi particolari estranei che distolgono l’osservatore dall’evento
principale; le due lunette sullo sfondo rappresentano ad esempio vegetazione e uccelli, che costituiscono
particolari aggiuntivi all’opera.
Nell’Ultima Cena del Castagno invece, lo spazio è chiuso e opprimente con una tavola lunghissima rico-
perta da una tovaglia bianca, che rappresenta un ostacolo allo sviluppo in profondità.
Nell’Ultima Cena Leonardo concepisce il vano architettonico dove si svolge l’evento come continuazione
e ampliamento dello spazio reale del refettorio, infatti la cena degli apostoli sembra svolgersi alla presenza
dell’osservatore.

Per accentuare quest’effetto


Leonardo pone la tavola più in
alto rispetto al pavimento reale
della sala, proprio all’altezza degli
occhi di chi guarda.
Anche i personaggi sono resi con
dimensioni monumentali rispetto
allo spazio che li ospita e questo
rende i loro gesti ancora più so-
lenni e drammatici.
La figura di Gesù costituisce il
punto focale della composizione
infatti su di essa convergono le
linee di fuga. Cristo si contrap-
pone alla luce proveniente dalla
finestra sullo sfondo e sembra
isolato rispetto alle altre figure,
ormai già distaccato dal mondo
terreno.
L’Ultima Cena, affresco a tempera grassa, 1494-98, ex-refettorio Santa Maria delle Grazie, Milano

Le figura degli apostoli sono invece rappresentate in gruppi di tre, in preda ad una forte reazione emotiva.
Per quanto riguarda gli oggetti e i cibi poggiati sulla tavola, essi sono raffigurati da Leonardo con la preci-
sione di un pittore fiammingo.
Per quanto riguarda la tecnica pittorica, Leonardo evitò di scegliere la tradizionale tecnica dell’affresco,
che imponeva tempi rapidi, e scelse una tecnica a tempera mista a olio, che gli permetteva di intervenire
anche su parti già eseguite. Purtroppo però, già nel giro di pochi anni, l’opera andò incontro ad una serie
di deterioramenti, corretti poi con vari restauri nel corso della storia, che finirono però per compromettere
ulteriormente la pittura originaria.

L’Ultima cena (also known as the Last Supper) is a painting in tempera and oil on two layers of gypsum lying
preparation of plaster of 460 × 880 cm, built between 1494 and 1497 (Luca Pacioli mentions it as already
done in the dedicatory letter Ludovico il Moro of his treatise “De divina proportione” of 9th February 1498)
by the Italian painter Leonardo. The Upper Room is the largest of the paintings of Leonardo and his only

179
CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

mural can still be seen today. As we know it is not a fresco, as Leonardo never made frescoes in the strict
sense of the term. The fresco is characterized by a painting lying on a layer of plaster is still fresh where, as a
result of the phenomenon of carbonation, the pigment of the paint becomes part of the plaster same guar-
anteeing a great resistance to painting. Leonardo, however, because of its long time realization, preferred
to paint on the wall as a painting on wood, then used a tempera, an emulsion of oils and proteins. Unfor-
tunately, the same technique as soon led to a deterioration of the work already mentioned by Vasari in his
Lives. Surprising in the Upper Room the presence of very precise details only visible at close range and not
accessible by the common viewer. The theme was perhaps suggested by the Dominicans themselves, is the
Eucharist. The moment that Leonardo chose is the most dramatic of the Gospel story, one in which Christ
uttered the phrase: “One of you will betray me” and these words come alive dramatically the apostles, their
gestures of awe and wonder, c ‘ is risers because it did not receive the words, coming up, who is horrified
that retracts, like Judas Iscariot, feeling immediately called into question. St. James the Greater (fifth from
right) throws his arms astonished; near San Filippo he puts his hands to his chest, protesting his devotion
and his innocence. San Pietro (fourth from left) leans forward impetuously, while Judah before him, back
guiltily. The far right of the table, from left to right, St. Matthew, St. Simon and St. Jude with excited gestures
express their dismay and their unbelief. In the center is depicted Christ with open arms in a gesture of quiet
resignation, forms the central axis of the composition. The figures of the apostles are represented in an
environment that, from the perspective point of view, that is correct. Through simple tricks of perspective
(the squaring of the floor, the coffered ceiling, tapestries on the walls, the three windows of the bottom and
the position of the table), we obtain the effect of breaching of the wall where the painting is, show that as
a room within the refectory itself.

LA GIOCONDA

Uno dei più celebri ritratti di Leonardo, considerato simbolo


ed emblema non solo di Leonardo, ma della pittura in gener-
ale, è La Gioconda.
L’esecuzione dell’ opera viene ripresa più volte e il dipinto
segue gli spostamenti di Leonardo fino in Francia dove alla
morte dell’artista, passa nella collezione di Francesco I.
Nell’opera Leonardo rappresenta una figura femminile, iden-
tificata con la Monna Lisa, consorte di Francesco del Giocon-
do, utilizzando la tecnica dello sfumato, con la so-vrapposiz-
ione di velature sottili di vernice che danno alle forme una
certa indeterminatezza ed è proprio grazie a questa tecnica
che lo sguardo della fanciulla assume un certo fascino enig-
matico, evidenziato da un sorriso lieve appena accennato e
dallo sguardo rivolto verso l’osservatore, uno sguardo che
sembra seguire con gli occhi chiunque guardi la donna.
La figura è rappresentata di tre quarti, in una posa molto nat-
urale, con il braccio sinistro appoggiato al bracciolo di una
sedia e con la mano destra appoggiata sulla sinistra.
Lo sfondo ha un ruolo fondamentale nell’ opera e raffigura
un paesaggio deserto e roccioso, con delle montagne e dei
laghi in lontananza, realizzati con l’uso della prospettiva aer-
ea. Il paesaggio che sta alle spalle della Monna Lisa non è
soltanto un paesaggio, ma è la natura, nel suo aspetto solido,
liquido e gassoso così come la figura è l’elemento umano La Gioconda, olio su tavola, 1503-14, Musée du Louvre, Paris
dela natura, ovvero la natura umanizzata; la straordinari-
età del dipinto non sta tanto nella bellezza individuale della donna ritratta, ma per lo più nell’armonia e
nell’equilibrio tra l’uomo e la natura.

La Gioconda La Gioconda also called Mona Lisa is an oil painting on poplar wood, which measures cm. 77

180
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

x cm. 53, and which now belongs to the collections of the Louvre Museum in Paris and is the most famous
painting in the world. The Florentine master takes the work several times in the last years of his life, as Leon-
ardo began painting the Mona Lisa as it was already in Florence, and then the painting follows the artist in
every small movement, until you arrive in France, where the death of the teacher, the work will go to the
collection of Francis I. The woman enigmatic smile, depicted in the painting, was probably the Mona Lisa,
the wife of the merchant Francesco del Giocondo. The figure stands in front of a vast desert landscape with
which it forms a unit total. Note that the use of sfumato of Leonardo, and the gentle transition plans from
light to shadow, the light blur express the heartbeat and the penetration into the atmosphere, making the
Mona Lisa a human in the highest sense Renaissance. This also explains the smile that expresses the rela-
tionship of love between man and nature. That the Mona Lisa is a slight smile, just mentioned, and with an
eye toward the viewer, make sure that the woman’s gaze follows with his eyes whoever is watching.
The figure is represented by three-quarters, in a very natural pose, with his left arm resting on the arm of
a chair and with his right hand resting on the left. The shape of the person portrayed is inscribed within
a pyramid, the trunk is cut below the elbow, so that the folded arms serve as the basis. Beyond the figure
there is a natural space: roads, bridge, water, plains, mountains, made using the aerial perspective. A space
that is wider than that Tinting color, making the undecided edges, remove from us the objects. The land-
scape is represented not just a landscape, but the nature in its various aspects, as the majesty of painting is
not only the presence of the female figure, but their union, pure balance between man and nature. There
have been many assumptions about who the woman was represented in the painting. In fact, according to
other interpretations could represent a pregnant woman rather than a man in disguise, or even the inner
portrait of Leonardo himself. But the best hypothesis is given by Vasari, according to which the Florentine
painting depicts a lady, Mona Lisa, the wife of the merchant Francesco del Giocondo.

RAFFAELLO SANZIO

“Nacque dunque Raffaello in Urbino, città notissima in Italia, l’anno 1483, in venerdì santo, a ore tre di notte,
di un Giovanni de’ Santi, pittore non molto eccellente. Cresciuto che fu, cominciò ad esercitarlo nella pit-
tura, vedendolo a cotal arte inclinato”. Giorgio Vasari racconta così la vita di Raffaello Sanzio con sicurezza
e dovizia di particolari cui è lecito fare fede. Condotto dal padre alla corte d’Urbino, sotto la protezione di
Giovanna Feltria, Raffaello è un pittore precocissimo. Quando Giovanni muore, nel 1494, egli rimane com-
pletamente solo, già mancandogli la madre. Nonostante la giovane età, Raffaello ha già potuto ammirare
l’arte del grande Pietro Perugino e dell’architetto Bramante. Sotto la commissione di Evangelista di Piandi-
meleto, scolaro del padre, egli attende alla sua prima commissione importante. Già nel 1497, lavora presso
la bottega del Perugino, suo vero maestro, del quale l’influenza è evidente soprattutto nelle primissime
opere. Un contratto del 10 dicembre 1500 prevede che il Piandimeleto, con l’aiuto di Raffaello, realizzi una
Pala in onore di Nicola da Tolentino, nella chiesa di Sant’Agostino a Città di Castello. Da questa data in poi,
la vita dell’artista è una frenetica corsa da una città all’altra, intento spesso a più opere in contemporanea,
di cui si occupa interamente da solo. Nonostante la calma perfetta dei suoi dipinti, Raffaello vive con un
ritmo frenetico e nei primi anni del Cinquecento realizza un cospicuo numero di opere: l’ “Incoronazione
della Vergine” (1503), lo “Sposalizio della Vergine (1504), la “Pala Ansidei”, la “Pala Colonna”, la “Deposizione
per Atalanta Baglioni”, il “Cristo in gloria e i Santi”, tutte opere realizzate a Perugia; la “Madonna Connestabile”,
la “Dama con l’unicorno”, la “Madonna del cardellino”, i “Ritratti Doni”, la “Sacra famiglia Casigliani”, realizzate
tra il 1504 e il 1508 a Firenze. Nella prestigiosa capitale artistica toscana, Raffaello si è recato col desiderio
di ottenere committenze e fama.
Nel 1505 il giovane pittore si reca per un breve periodo a Firenze dove esegue il S. Michele e i S. Giorgio del
Louvre e di Washington, poi si trasferisce a Perugia dove dipinge la Pala Morgan, la Madonna degli Ansidei
(National Gallery), l’affresco della Trinità per la chiesa di S. Severo, tutte opere che denotano i contatti con
l’arte di fra Bartolomeo.
Dell’epoca successiva, dopo il suo ritorno a Firenze, sono la Muta di Urbino (che richiama lo stile leonardes-
co) e le numerose Madonne, la Terranova di Berlino, quella del Granduca del Pitti, l’Orléans di Chantilly, ac-
canto alle altre figurazioni sacre, alle Madonne con il Bambino e S. Giovan-nino quali quelle del “Belvedere”
di Vienna, del Cardellino degli Uffizi, la Bella Giardiniera del Louvre, la Sacra famiglia dell’Agnello del Prado,
quella di Casa Canigiani di Monaco. La predilezione di Raffaello per le immagini sacre non gli fa tuttavia
trascurare altri soggetti, si ricorda in proposito l’opera di stampo michelangiolesco Deposizione della Gal-

181
CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

leria Borghese (1507) la cui predella, con i monocromi delle Virtù Teologali è alla Vaticana, la S. Caterina di
Londra e gli splendidi ritratti quali, oltre alla già accennata Muta, quelli di Francesco Maria della Rovere agli
Uffizi, di Maddalena, di Agnolo Doni e della Gravida del Pitti, i due esemplari del Tommaso Inghirami (Pitti e
Boston), l’Autoritratto (Uffizi), la Giovane donna dall’unicorno (Borghese).
Nel 1508 Raffaello, lasciata incompiuta a Firenze la Madonna del Baldacchino, parte per Roma dove, su pres-
sione del Bramante, l’aveva chiamato papa Giulio II. Qui gli venne affidato l’incarico di affrescare alcune pa-
reti della Stanza della Segnatura. Sul soffitto dipinge in tondi ed in scom-parti rettangolari alternati la Teo-
logia, il Peccato originale, la Giustizia, Il giudizio di Salomone, la Filosofia, la Contemplazione dell’Universo,
la Poesia, Apollo e Marsia.
Al di sotto di queste, intercalate da scene minori, sono nelle lunette le figure delle Virtù e il Parnaso e, sulle
pareti, gli stupendi affreschi della Disputa del Sacramento e della Scuola di Atene e le più piccole compo-
sizioni con Giustiniano che porge a Triboniano le Pandette e Gregorio IX che promulga i Decretali. Dopo
queste opere, specialmente vive nei pannelli maggiori, tipiche nell’armonia raffaellesca che ben si mani-
festa sia nella forma espressiva, sia nell’interpretazione compositiva, l’artista realizza nel 1511 altre decora-
zioni delle Stanze Vaticane dipingendo nella stanza detta di Eliodoro le scene della Cacciata di Eliodoro, del
Miracolo della Messa di Bolsena, della liberazione di S. Pietro e quattro episodi del Vecchio Testamento.
È evidente invece la mano degli aiuti nel meno interessante Incontro di papa Leone e Attila. Infine, dal
1514 al 1517, esegue la Terza Stanza, con gli affreschi dell’Incendio di Borgo, della Battaglia d’Ostia e
dell’Incoronazione di Carlo Magno, opere di minor risultato pittorico in quanto rivelano disorganicità in
modo da giustificare, con questa decadenza del pur giovane artista, l’inizio di quei motivi accademici che
snatureranno la rigogliosa bellezza del Rinascimento italiano. Contemporaneamente a queste opere del
periodo romano, in parte da considerarsi egregia e inte-ressante raccolta di ritratti, sono altre scene sacre e
altre immagini di illustri e ignoti personaggi.
Ricordiamo le Madonne del Diadema (Louvre), di Foligno (Vaticana), di Baldassar Castiglione (Louvre), della
creduta Fornarina (Galleria Borghese), di Leone X (Pitti), l’affresco di Galatea e le Storie di Psiche nella villa
della Farnesina, la decorazione delle Logge Vaticane, la Visione di Ezechiele (Uffizi) e infine l’immensa tavola
della Trasfigurazione (Vaticana), iniziata nel 1517, rimasta interrotta dalla morte dell’artista e quindi portata
a termine da Giulio Romano e da Gian Francesco Penni, gli allievi maggiori la cui mano era del resto ormai
largamente presente in tutti gli affreschi e nelle ultime opere del periodo romano quasi a testimonianza
dell’immenso lavoro gravante sulle spalle dell’artista prediletto dalla corte papale.
L’interesse per la grande produzione pittorica raffaellesca non deve far dimenticare l’attività di Raffaello
come architetto.
In questo campo richiama inevitabilmente lo stile del Bramante mantenendo anche in architettura quella
sovrana armonia compositiva che è presente nella maggior parte delle sue opere pittoriche.
Tra le sue opere architettoniche, interessanti per le pratiche soluzioni di ricerca spaziale, sono da ricordare
a Roma la cappella Chigi in S. Maria del Popolo ed a Firenze il palazzo Pandolfini.

LA MADONNA DEL CARDELLINO

La Madonna del cardellino fu dipinta a Firenze dal giovane Raffaello per le nozze di Lorenzo Nasi intorno
al 1506. Si tratta di uno straordinario capolavoro della storia dell’arte italiana particolarmente “sfortunato”,
perché appena quarant’anni dopo la sua creazione venne coinvolto, come testimoniato dal racconto di
Giorgio Vasari, nel crollo del palazzo in cui era conservato (1548). L’incidente portò l’opera a spaccarsi in più
parti, che furono poi rimontate in un antico restauro, mentre due inserti nuovi vennero messi a colmare due
mancanze. La sua storia conservativa da allora è stata caratterizzata costantemente da una sovrammissione
di materiali, tesa per lo più a nascondere gli antichi guasti. La tavola è stata via via patinata e verniciata, con
l’aggiunta di materiali sempre nuovi, senza che mai fosse eseguita una pulitura. Quando il dipinto giunse
nel Laboratorio di restauro della Fortezza da Basso, in seguito alle prime indagini, si comprese che al di
sotto dei materiali aggiunti nel tempo e che sono venuti via via conferendo al dipinto un colore ambrato,
molto caldo, erano completamente celati gli splendidi colori della tavolozza di Raffaello, che si mostravano
sostanzialmente in discrete condizioni. Il restauro della Madonna del cardellino, è stato al centro di un pro-
getto di studio e di ricerca che ha mirato alla conoscenza il più possibile approfondita della tecnica pittorica
utilizzata da Raffaello e delle vicende che l’opera ha subito nel corso dei secoli. All’interno dell’opera d’arte
si contempera una duplicità di valori: quelli materiali e quelli immateriali. I primi sono attinenti alle materie

182
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

costitutive dell’opera d’arte stessa, i secondi inclu-


dono invece tutti quei significati di cui l’opera è por-
tatrice. Una volta appurato che la pellicola pittorica
originale era in buona parte integra, si è dato il via al
restauro. Il colore è coinvolto in due tematiche assai
complesse: la pulitura (eseguita secondo il metodo
che possiamo definire fiorentino) e l’integrazione
delle lacune. La pulitura è stata condotta in maniera
selettiva, setto il controllo costante del microscopio
binoculare, per sorvegliare momento dopo momen-
to le operazioni. I risultati conseguiti sono stati vera-
mente sorprendenti: in alcuni punti la materia non
originale, soprammessa e scurita dagli anni, aveva
raggiunto anche diversi millimetri di spessore.
Rimuovendo tali strati alterati, il colore rinvenuto ha
davvero rappresentato una sorpresa: si è recuperata,
oltre a una brillantezza stupefacente del lapislaz-
zuli del manto della Madonna e oltre al rosso della
veste, una finezza di particolari nel paesaggio del
fondo, che per secoli erano stati nascosti (per es-
empio, alcuni dettagli del prato). Per quanto invece
riguarda l’integrazione pittorica, vista l’estensione
delle lacune che per di più tagliavano verticalmente
la figurazione, si è preferito un tipo di selezione cro-
matica a tratteggio molto sottile. Anche il supporto
ligneo è stato rivisto, abbinando il miglioramento Madonna del cardellino, 1506, olio su tavola restaurata,
Galleria degli Uffizi, Firenze
dell’andamento della superficie e della tenuta delle
giunzioni con il massimo rispetto della materia originale.

LA SCUOLA DI ATENE

L’Affresco conosciuto col nome di La Scuola di Atene è uno dei tanti meravigliosi capolavori artistici che
l’artista Raffaello Sanzio realizzò e che abbiamo la fortuna di poter ammirare oggi nella città del Vatica-
no a Roma. La Scuola di Atene
è un grande affresco realizzato
all’incirca tra il 1509 e il 1510 pres-
so la città del Vaticano a Roma. In
quel periodo, dopo essere sta-
to eletto Papa Giulio II, grande
Mecenate, appassionato e cono-
scitore di arte, non volle le solite
Stanze usate dai suoi predeces-
sori per la Sua residenza papale.

Il Papa, scelse alcune Stanze


non usate del piano superiore
del Palazzo del Vaticano e in
queste, espresse il desiderio di
farle sistemare e decorare da un
gruppo di Artisti dell’ epoca, che
convocò per commissionargli il
lavoro. Quando il Papa vide tra
gli altri, i primi bozzetti e le prove
Scuola di Atene, 1509-10, affresco su muro, Stanza della Segnatura, Città del Vaticano del giovane pittore di Urbino Raf-

183
CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

faello, rimase assolutamente meravigliato dello stile e della pittura sublime dell’ artista (Raffaello studiò e
perfezionò, portandola ai massimi livelli, la tecnica della pit-tura su uno strato di intonaco fresco, appunto
l’affresco), decidendo, che Raffaello doveva essere l’unico artista a decorare le stanze del Palazzo. Nella Stan-
za del Palazzo chiamata “della Segnatura”, l’artista esegue quattro affreschi, uno per ogni parete dedicati al
tema legato all’ordinamento ideale della Cultura umanistica. I quattro affreschi, rappresentano la Teologia,
la Filosofia, la Poesia e la Giurisprudenza. La Scuola di Atene è dedicato alla Filosofia, e raffigura grandi filo-
sofi, matematici e altri grandi personaggi dell’ antichità, che riflettono o dialogano, immersi in una grande
e spettacolare architettura classicheggiante. Si contato circa 58 personaggi raffigurati, di cui gli esperti e
studiosi, cercano ancora di scoprire identità e atteggiamenti di alcuni. Infatti, di alcuni rimane ancora il mis-
tero. Oltre all’impressionante architettura, notiamo subito, che alcuni personaggi sono disposti su una linea
ipotetica orizzontale alla fine di una scala, mentre altri sono disposti in gruppi in primo piano. molti parlano,
discutono, scrivono, disegnano. Altri invece meditano da soli, pensando a una qualche teoria o a una nuova
ricerca. Raffaello vuole rappresentare ognuno di loro che si dedica a una qualche attività mentale, a quello
cioè, che sanno fare meglio e che li ha resi famosi. L’ artista, da anche ad alcuni personaggi dell’antichità, le
sembianze di artisti importanti suoi contemporanei, come una sorta di continuità del pensiero, e per riba-
dire la nuova, orgogliosa autoaffermazione di dignità intellettuale che hanno gli artisti moderni, di Raffaello
contemporanei. Per esempio, possiamo vedere al centro, il filosofo greco Platone rappresentato con le sem-
bianze di Leonardo da Vinci, che parla con un altro grande filosofo antico, Aristotele. In basso da solo seduto
sui gradini e intento a scrivere appoggiato ad un blocco di marmo, vediamo un altro grande dell’antichità,
Eraclito, con il viso però di Michelangelo Buonarroti. Sulla destra, quasi nascosto come se avesse imbarazzo
di fronte a tutti questi grandi intellettuali, filosofi e Geni antichi e contemporanei, notiamo l’autoritratto di
Raffaello stesso, che si è aggiunto tra gli altri. Davanti a Lui, possiamo vedere un altro grande artista e ar-
chitetto del Cinquecento. Si tratta del Bramante, intento a tracciare un cerchio con un compasso, ammirato
da altri. Nell’opera, vediamo le forme architettoniche che sono grandiose, maestose e in alcuni punti, vi
sono aperture, che lasciano intravedere un cielo sereno. In una successione prospettica, un enorme arco
sembra incorniciare tre arcate a “tutto sesto” con volte a botte, che presentano delle decorazioni ad incavi
con forme poligonali.

Vediamo delle nicchie che contengono alcune statue. Tra le tante, in primo piano, quelle dedicate al Dio
Apollo con la lira e alla Dea Minerva, con la lancia e l’elmo. La Scuola di Atene, è un opera di Raffaello che
cerca di esaltare prima di tutto l’uomo, con le sue facoltà mentali. Gli scienziati e i filosofi del passato e del
presente, sono accomunati dalla ricerca razionale della “verità”. L’opera serve a celebrare l’importanza e la
centralità che ha l’uomo nell’Universo. Nell’opera, si esalta anche la Chiesa di Roma, dando il giusto merito
per aver accolto nella sua Corte artisti e studiosi.

LA LIBERAZIONE DI SAN PIETRO

Il dipinto raffigura un episodio storico descritto negli atti degli apostoli. Nella scena centrale si vede la cella
all’interno della quale un angelo sveglia San Pietro, mentre le due scene successive ritraggono il momento
successivo. A destra il Santo esce accompagnato dall’angelo e a sinistra le guardie addormentate. Per unifi-
care gli episodi Raffaello utilizza la simmetria, infatti l’insieme non risulta spezzato ma dotato di continuità
e l’unità degli stessi è data dalla perfetta simmetria e dalla luce. La modalità d’uso di questa ricorda Piero
della Francesca, ma Raffaello va oltre, e crea una luminosità straordinaria che circonda l’angelo, ponendola
in contrasto con i colori dell’ambiente tenebroso della galera, l’effetto più reso ancora più realistico ed ac-
centuato dal ba-gliore che si riflette sulle armature metalliche delle guardie dormienti. A destra ritorna la
stessa luminosità in maniera più tenue che getta bagliori. Dalla parte opposta una luminosità attenuata che
proviene dal cielo e dalle torce dei soldati.

Il timore di vedere i francesi di Luigi XII, già padroni della Lombardia e del genovese, dilagare nelle terre
di Romagna, su parte delle quali nel frattempo aveva messo mano la repubblica veneziana, aveva indotto
la chiesa del papa-militare Giulio II, a intraprendere dure battaglie per riconquistare i territori perduti e, se
possibile, allargarli: di qui la conquista di Perugia, di Bologna, la guerra contro Venezia con l’aiuto dei fran-
cesi e contro i francesi con l’aiuto degli svizzeri e di altri Stati italiani ed esteri, in nome di una “lega santa”
contro lo straniero.

184
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

Oltre che militare l’offensiva fu an-


che ideologica: la smania del lusso
e della modernità stava portando
alla riforma ipercritica di Lutero,
benché la chiesa avesse cercato
di guadagnarsi le simpatie pro-
prio di quella classe che invece
le si rivolterà contro, ovvero la
borghesia. In questo contesto si
colloca l’affresco peggio riuscito
di Raffaello, La liberazione di Pi-
etro dal carcere. Gli affreschi della
Stanza di Eliodoro, in cui l’affresco
in oggetto si trova, furono real-
izzati subito dopo (1511-14). La
liberazione di S. Pietro dal carcere
è del 1513 e fa da pendant agli
altri due affreschi voluti per di-
mostrare il primato spirituale e
temporale della chiesa romana, Liberazione di San Pietro, 1513, affresco su muro, Stanza di Eliodoro, Città del Vaticano
testimoniato dallo speciale inter-
vento divino:

la Cacciata di Eliodoro dal tempio di Gerusalemme, dove era entrato per rubare i vasi sacri, e l’incontro di
Leone Magno col terribile Attila. In questa seconda Stanza Raffaello abbandona lo stile armonico e i toni
tenui della Stanza precedente e si avventura in un pathos drammatico, a tinte anche cupe, in cui sembra
volersi misurare di più con l’opera di Michelangelo. Dei tre affreschi sicuramente quello della Liberazione di
Pietro appare il meno riuscito, per quanto la critica abbia qui ravvisato, nel gioco di ombre e luci, una certa
originalità di stile: praticamente uno dei primi notturni dell’arte italiana. La luce si riflette mirabilmente sulle
armature dei militari, i quali non sono certo delle figure di contorno nel complesso della scena.

L’affresco sembra essere stato dipinto sulla base di un disegno che doveva prevedere tre colonne verticali,
di cui due laterali strette, che avrebbero interessato prevalentemente i militari appoggiati sulle scale, e uno
centrale, caratterizzato da un’imponente e quanto mai geometrica grata della cel-la del carcere, dove diet-
ro, poco significative si stagliano le figure dormienti di Pietro e delle guardie e quella dell’angelo liberatore.
Oltre a ciò esistono tre linee curve, una ben visibile, ed è costituita dalla volta che racchiude a mo’ di cornice
l’affresco, le altre due sono invisibili e circondano l’intera scena, dipanandosi in direzioni opposte: dalla
cella verso le scale, seguendo il percorso della liberazione del detenuto Pietro, e dalle scale di destra, con le
guardie addormentate, verso le scale di sinistra, con le guardie sveglie. Nei personaggi rappresentanti, se
si escludono alcuni militari, non c’è alcuna vera espressione che tocchi i sentimenti, non c’è poesia. Pietro
svolge un ruolo del tutto passivo per essere convincente e l’angelo è troppo fittizio per suscitare qualcosa
di umano. È modernissimo quello che si nasconde, in lontananza, il volto, quasi fosse colto dal terrore di do-
verci rimettere la vita a causa dell’evasione di Pietro (come poi, stando agli Atti, in effetti avvenne). I militari
sono talmente ridondanti (ben otto) che quasi vien da pensare che i quattro di sinistra siano in realtà solo
due di cui uno ritratto in tre pose diverse: il terrore (la guardia più in alto che si nasconde il volto), la paura
(quella che si nasconde dietro la colonna), il timore (quella che guarda ammutolita il commilitone che in-
veisce pesantemente). Tutto ciò è molto moderno e ricorda quella che si può definire la sceneggiatura
cinematografica di un film, qui condensata in un unico scorcio spazio-temporale.
Ciò che deve eccitare la curiosità dello spettatore è anzitutto quella gigantesca grata di ferro che sta a
simboleggiare una sofferenza astratta, convenzionale, da cui si deve necessariamente uscire. Siamo ai limiti
della fiction di maniera.

185
CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

MONTE PARNASO

Il Monte Parnaso è un affresco, alla


base misura cm 670 circa, realiz-
zato nel 1511 dal pittore italiano
Raffaello. È realizzato nella parte
nord della Stanza della Segnatura
(Città del Vaticano) e segue la Dis-
puta del Sacramento e la Scuola
di Atene.
Il Parnaso secondo la mitologia
greca è la dimora delle Muse.

Raffaello rappresenta in questo


affresco le attività più nobili
dell’uomo: la filosofia, la teologia,
la musica, la poesia. Lo scenario
è la montagna sacra di Apollo e
dimora delle muse nella mitolo-
Monte Parnaso, 1511, affresco su mu-ro, Stanza della Segnatura, Città del Vaticano
gia greca. Mostra al centro Apollo
con uno strumento stilizzato, la viola da brazzo uno strumento capace di polifonia. Pare che il viso di Apollo
sia quello di Papa Giulio II. Al lato destro di Apollo ci sono 4 muse: Melpomene, Tersicore, Polimnia e Calliope.
Seguono 4 poeti epici: Dante, Omero, Virgilio e Angelo Poliziano e 4 poeti lirici: Saffo, Petrarca, Corinna, Alceo
e Anacreonte. Al lato sinistro invece sono rappresentate 5 muse: Euterpe, Clio, Talia, Urania e Erato. Seguono
i poeti Jacopo Sannazaro, Vittoria Colonna, Giovanni Boccaccio, Ludovico Ariosto, Pietro Bembo (col volto
rivolto a Francesco Petrarca, suo modello supremo) e poi attorno a Bembo ci sono 2 poeti sconosciuti,
detti poeti del futuro che giudicano il passato. Di fatto quest’affresco va interpretato come un “viaggio nel
tempo della cultura” dall’antichità conosciuta ad un futuro scono-sciuto rappresentati dagli ultimi 2 poeti.

LA CACCIATA DI ELIODORO DAL TEMPIO

Nell’affresco viene raffigurato un


evento biblico. Eliodoro fugge
sorpreso a rubare il tesoro del
tempio, viene quindi sorpreso ed
inseguito. Sullo sfondo si vede il
sacerdote in preghiera nel tempio
che implora l’aiuto divino. La volta
del tempio, decorata in oro, dona
la visione prospettica all’affresco,
questa è sormontata da colonne
con capitelli in stile corinzio. La
pavimentazione è raffigurata con
ampie piastre ottagonali. A destra
si vede la cattura di Eliodoro. La
scena si presenta drammatica e La cacciata di Eliodoro dal tempio, 1511-12, affresco su muro Stanza di Eliodoro, Città del Vaticano
al contempo dinamica, il cavallo
rampante e due uomini che accorrono per acciuffare il personaggio donano questa caratteristica al dip-
into.

Eliodoro è disteso sul pavimento con il braccio destro sorregge il corpo mentre la mano sinistra impugna
una lancia, accanto al corpo il vaso con le monete d’oro. Alle spalle del personaggio vengono altri due
uomini sorpresi dall’arrivo della guardia a cavallo. Il cavaliere è raffigurato con un ampio mantello celeste
e con un’armatura dorata, l’aspetto regale viene posto con maggiore risalto dal cavallo bianco. Alla scena

186
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

assiste, alla sinistra del dipinto, Giulio II, posto su una lettiga sorretta da tre uomini vestiti in abiti contempo-
ranei. Alla sinistra del pontefice un gruppo di donne impaurite indica la scena.

L’INCENDIO DI BORGO

Già conosciuta come Stanza di “Torre Borgia”, prese il


nuovo nome da una delle ‘storie’ parietali. È la prima
dell’appartamento di Giulio II, e venne affrescata
dopo quella della Segnatura e di Eliodoro, dal 1514
al luglio 1517. Il tema storico-politico vi appaare svi-
luppato con intonazione più apertamente encomi-
astica in quattro episodi. Mentre la decorazione del-
la volta è incentrata sui temi dell’esaltazione della
grazia e della giustizia divine, sulle pareti Raffaello è
chiamato a glori-ficare le storie dei papi Leone III e
Leone IV, che Leone X considera precursori e propi-
ziatori del proprio pontificato. L’affresco raffigura un
Incendio di Borgo, 1514, affresco su muro, Stanza dell’Incendio di Borgo, episodio tratto dal Liber pontificalis: Leone IV, impar-
Città del Vaticano
tendo la benedizione, estingue prodigiosamente
l’incendio divampante nel quartiere romano di Borgo. La storia appare trasposta su un piano di classicismo
eroico e letterario, tramite l’inserzione di figure e architetture che alludono chiaramente alla descrizione
virgiliana dell’incendio di Troia. A sinistra è riconoscibile il gruppo di Enea col padre Anchise sulle spalle
e il figlio Ascanio a lato; il vicino colonnato corinzio si ispira a quello del tempio di Marte Ultore, mentre
l’altro edificio sul proscenio, a destra, ricorda il tempio di Saturno. L’intento dell’opera è quello di ideare
un’allegoria politica riferibile a Leone X, che avrebbe voluto essere salutato dai contemporanei come il
pacificatore che aveva spento le fiamme della guerra. Il primo piano risulta affollatissimo di episodi e per-
sonaggi, mentre l’occhio è condotto verso il fondale architettonico dalle linee prospettiche del pavimento
fino a inquadrare una loggia a serliana (cioè con una finestra a tre aperture, di cui quella centrale ad arco e
le laterali architravate), dalla quale il papa impartisce la propria liberatoria benedizione.

Accanto è raffigurata la facciata dell’antica basilica di San Pietro, decorata da mosaici. Il primo piano e lo
sfondo sono direttamente collegati dalla figura di donna inginocchiata che leva le braccia supplicanti in
direzione del papa, mentre un altro personaggio femminile rappresentato da ter-go, la portatrice d’acqua
eretta sulla destra, è colto in una posa modernamente sinuosa.

LA DISPUTA DEL SACRAMENTO

Il sacramento in questione fa riferimento all’eucaristia, che occupa la posizione centrale nel dipinto at-
traverso la figura del Cristo, che viene raffigurato trionfante, e con esso il sacramento stesso. La disputa in
tal caso è intesa come trionfo del Cristo e del sacramento eucaristico da egli fondato nell’ultima cena. La
Disputa sul Sacramento è diviso in due fasce orizzontali, distinguiamo una prima fascia composta dall’altare
con lo ostensorio contenente l’ostia consacrata posto al centro della scena, ai lati teologi, pontefici, letterati,
uomini di chiesa e semplici fedeli discutono del sacramento.

Nel semicerchio, più disordinato rispetto a quello nel quale è rappresentata la Chiesa Trionfate, i personaggi
sono disposti in modo quasi caotico (allusione della confusione terrena delle idee), raffigurati personaggi
illustri, a sinistra si vede Bramante, Francesco Della Rovere, San Gregorio Magno, san Girolamo. A destra
Sant’Ambrogio, Sant’Agostino, San Tommaso d’Aquino, Innocenzo III e San Bonaventura, Sisto IV, con un
piviale dorato e il De sanguine Christi ai piedi, Dante Alighieri, alle sue spalle con la corona d’alloro. In alto,
nella seconda fascia, è rappresentata la cd Chiesa Trionfante, nella quale si vede la Trinità con Gesù al cen-
tro di una grande aureola luminosa con serafini e cherubini, affiancato da Maria e da Giovanni Battista.
Sotto di lui quattro angioletti mostrano le Sacre Scritture vicini alla colomba dello Spirito Santo, che punta
direttamente al nodo focale dell’affresco, l’ostensorio con l’ostia consacrata. Tra i santi si riconoscono da

187
CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

sinistra san Pietro, Adamo (senza


aureola), Giovanni evangelista, re
David con una cetra, santo Ste-
fano e Geremia; a destra Giuda
maccabeo, san Lorenzo, Mosè con
le tavole della Legge, un apostolo
(san Matteo o san Giacomo mag-
giore o san Giacomo minore),
Abramo e san Paolo. Le figure
sono poste sopra un pavimento
composto da nuvole, sorretto da
angeli. Al di sopra di Cristo si vede
l’Eterno e la colomba dello spirito
santo: la trinità. Queste tre figure
sono perfettamente in linea con
loro e con l’ostia consacrata. Si in-
dica che la verità si raggiunge at-
traverso la fede e nel credere nel
Disputa del Sacramento, 1509, affresco su muro, Stanza della Segnatura, Città del Vaticano corpo di Cristo.

LA MESSA DI BOLSENA

“La Messa di Bolsena della stanza


di Eliodoro” è un dipinto di Raffa-
ello realizzato con tecnica ad ad
affresco tra il 1511 ed il 1514, mis-
ura alla base 295 cm. ed è rappre-
sentato nella stanza di Eliodoro in
Vaticano. Nella “Messa di Bolsena”
Raffaello raffigura un episodio av-
venuto a Bolsena nel 1263, dove,
nel corso di una messa un prete
boemo, durante la consacrazi-
one, stillò il sangue di Cristo
dall’ostia macchiando il corpo-
rale e ottenendo conferma sulla
verità della transustanziazione
di cui fortemente dubitava, cioè
della trasformazione del pane e
del vino in quella del corpo e del La Messa di Bolsena, 1511-14, affresco su muro, Stanza di Eliodoro, Città del Vaticano
sangue nell’Eucarestia.
In seguito al miracolo nacque la festa del Corpus Domini e quindi l’edificazione del Duomo di Orvieto,
dove fu trasferito il corporale. Giulio II, (papa dal 1503 al 1513) assiste inginocchiato al miracolo, insieme ai
cardinali Raffaello Riario e Leonardo Grosso della Rovere, Tommaso Riario e Agostino Spinola, suoi parenti,
svizzeri sediari.

INCONTRO DI LEONE MAGNO CON ATTILA

L’Incontro di Leone Magno con Attila è un affresco di cm 750 di base realizzato nel 1514 dal pittore Raf-
faello Sanzio e da alcuni allievi. È conservato nella Stanza di Eliodoro dei Palazzi Vaticani, nella Città del
Vaticano. L’affresco è l’ultimo realizzato nella Stanza di Eliodoro e venne ultimato dopo la morte di Giulio II,
durante il pontificato di Leone X.
L’episodio, storicamente avvenuto nelle vicinanze di Mantova, è ripresentato dall’artista nei pressi di

188
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

Roma: infatti sullo sfondo si ve-


dono il Colosseo, un acquedotto,
una basilica ed un obelisco. At-
tila e il suo esercito sono atterriti
dall’apparizione in cielo dei Santi
Pietro e Paolo armati di spada.
Sulla sinistra dell’affresco appare
il papa Leone Magno, seduto su
un cavallo bianco, con la mano
alzata in segno di benedizione:
i lineamenti del suo volto ap-
paiono essere quelli di Leone X.

Incontro di Leone Magno con Attila, 1513-14, affresco su muro, Stanza di Eliodoro, Città del Vaticano

LO SPOSALIZIO DELLA VERGINE

Quando esegue questo dipinto Raffaello ha circa


vent’anni. Ha appena compiuto la sua formazione
presso il maestro Pietro Perugino ed ha già realiz-
zato le sue prime opere.
Lo Sposalizio è il capolavoro conclusivo del suo
periodo giovanile. È firmato e datato 1504 sul fregio
del porticato del tempio, e gli è stato richiesto dalla
famiglia Albizzini, per la cappella di San Giuseppe,
nella chiesa di San Francesco a Città di Castello, ora
si trova a Milano al Brera.
L’opera di Raffaello, naturalmente, risente degli in-
segnamenti del maestro, come già aveva notato il
Vasari, e precisamente si riferisce a due opere pe-
ruginesche: l’affresco con La Consegna delle Chiavi,
del Vaticano, e la pala con Lo sposalizio della Vergine,
conservato a Caen. Ma si tratta di un’influenza soltan-
to formale ed esteriore, perchè Raffaello conquista
presto la sua autonomia stilistica. Nel confronto tra
le composizioni del Perugino e la tavola di Raffaello
si possono rilevare somiglianze e differenze.

Nell’affresco vaticano Perugino dispone un gruppo


di figure in primo piano, sullo sfondo di una piazza
con un tempio ottagonale e due archi trionfali ai lati.
Lo stesso motivo il Perugino lo riprende e lo sem-
plifica nella tavola di Caen. Lo schema compositivo
della tavola di Raffaello riprende l’affresco della Con-
Sposalizio della Vergine, 1504, olio su tavola, Pinacoteca di Brera, Milano
segna delle chiavi per:

• la presenza dei due gruppi di personaggi a destra e a sinistra;


• il tempio a pianta centrale nel fondo;
• la prospettiva indicata dalla pavimentazione della piazza;

Mentre si riferisce allo Sposalizio del Perugino per:

• la scelta dello stesso soggetto;

189
CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

• la forma centinata della tavola;


• diversi personaggi e gli stessi atteggiamenti di alcuni di essi;
• la porta aperta del tempio che lascia vedere il paesaggio in lontananza;

Le differenze rispetto al maestro sono molto più numerose delle somiglianze. Raffaello, si riferisce all’opera
di Caen, più che all’affresco di vent’anni prima, ma introduce alcune trasformazioni fondamentali.

• La tavola di Raffaello è molto più piccola di quella di Perugino


• I personaggi si invertono da destra a sinistra
• Nella tavola di Perugino i personaggi sono schierati su una linea e si affollano, mentre Raffaello li di-
spone secondo una curva, sembrano meno vicini tra loro e lascia vuoto lo spazio davanti al sacerdote.
Nel modo in cui sono raggruppate le figure si scorge anche una ‘misura di intervalli’ più equilibrata
rispetto al Perugino.
• Il sacerdote del Perugino è perfettamente diritto e costruito sull’asse centrale del dipinto. Appare fer-
mo e rigido. Quello di Raffaello è sbilanciato verso destra, piega la testa e il busto e appare più sciolto e
dinamico.
• Sulla destra Raffaello introduce maggiore movimento nei singoli personaggi: San Giuseppe sta mu-
ovendo un passo avanti, il ragazzo che spezza il rametto assume una posa molto più naturale di quello
del Perugino.

Ma le differenze più importanti si riscontrano nella costruzione dello spazio e nell’immagine del tempio
al centro. Il tempio ottagonale del Perugino, massiccio e pesante, grava sulle figure, tende ad avvicinare
e chiude lo spazio dello sfondo. È come un fondale architettonico in uno spazio che ha una profondità
determinata, composto da piani paralleli in successione. E’ massiccio, pesante. Il tempio di Raffaello non è
incombente come quello di Perugino. È molto più leggero, costitui-sce una sosta per l’occhio, dà respiro al
quadro. Diventa un organismo aereo e armonioso. È il centro visivo da cui si genera uno spazio circolare,
infinito, molto suggestivo. L’effetto di rotazione è intensificato dal numero dei lati, che da 8 diventano 16,
dal portico che circonda il cilindro centrale, più slanciato; e dalle sinuose volute di raccordo. Sorge su una
gradinata più alta e sembra essere allontanato prospetticamente dal digradare delle lastre bicrome del pa-
vimento. Il tempio di Raffaello diventa il perno di uno spazio circolare, alle cui leggi si sottomette tutto ciò
che c’è intorno, la piazza, il paesaggio e le figure: disposte a curve concentriche e gruppi. Nelle forme e in al-
cuni particolari manifesta che Raffaello era a conoscenza degli studi che venivano condotti da Bramante e
Leonardo sull’architettura a pianta centrale, rispondenti a un modello ideale di perfezione. Proprio in quagli
anni Bramante alla costruzione del Tempietto di San Pietro in Montorio a Roma, ed è molto probabile che
Raffaello si sia ispirato al progetto bramantesco, forse anche come omaggio all’amico e maestro Bramante,
a cui doveva preziosi insegnamenti.

MADONNA DEL BELVEDERE

Il dipinto olio su tavola fu realizzato da Raffaello nel 1506 su commissione di Taddeo Taddei. Attualmente è
conservato presso il Kunsthistorisches Museum di Vienna. Si tratta di una delle maggiori opere di Raffaello
durante il periodo fiorentino, evidenti sono i riferimenti allo stile di Leonardo con la struttura a triangolo,
accompagnati dall’originalità della composizione. Lo sfondo del dipinto è ricco di elementi decorativi che
contribuiscono a delineare un magnifico paesaggio rurale nel quale si vede a sinistra un borgo che affac-
cia sul lago, il prato è di un verde scuro quasi bruno, sono presenti alberelli e i due papaveri rossi sono i soli
elementi che spezzano l’omogeneità del colore del prato.
La posizione e la fisionomia dei soggetti nel dipinto de la Madonna del Belvedere in primo piano ricorda
un precedente dipinto, La Madonna con il cardellino, a differenza di questo cambiano alcuni elementi, ques-
ta volta è la croce il simbolo della passione di Cristo che viene posto da San Giovannino a Gesù Bambino.

La posizione delle tre figure risulta più decentrata. La Vergine presenta lineamenti fisionomici ancora più
dolci e belli, i capelli raccolti lasciano scoperti il collo e parte delle spalle, la veste è sempre rossa con il man-
tello blu (sull’orlo dell’abito si legge la data M.D.VI. ), a differenza de La Madonna del cardellino la postura
è diversa, la Vergine sembra quasi seduta a terra. Maria questa volta non regge il libro delle profezie, ma

190
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

con entrambe le mani sorregge il bambin Gesù nuo-


vamente posto tra le gambe. Il compo è sempre in-
clinato e lo sguardo rivolto verso i due fanciulli. San
Giovannino è raffigurato sempre con i capelli ricci,
inginocchiato mentre regge con entrambe le mani
la croce.

Madonna del Belvedere, 1506, olio su tavola, Kunsthistorisches Museum, Vienna

LA MADONNA SISTINA

Ormai è comunemente accettata la testimonianza


del Vasari, secondo il quale Raffaello dipinse questa
pala d’altare per i monaci della chiesa di San Sisto di
Piacenza. Controversa è la sua datazione, da collo-
carsi tra il 1513-1514 secondo alcuni studiosi, verso
il 1516 secondo altri. Nel 1754 il dipinto fu acquistato
da Augusto III di Sassonia e il suo posto fu occupato
da una mediocre copia eseguita dal Nogari. Dopo la
fine della Seconda Guerra Mondiale soggiornò per
un periodo a Mosca.
Come in un palcoscenico teatrale, oltre il tendaggio
aperto, la Madonna con il Bambino nudo in grembo,
appare sulla scena sollevata su folte nuvole: un’aria
mistica gonfia i suoi ampi panneggi. Ai lati due fig-
ure inginocchiate: San Sisto e Santa Barbara che,
abbassando lo sguardo, rivolge il suo viso allo spet-
tatore.
In basso accanto alla tiara papale, appoggiati a una
balaustra sono due angioletti dall’ara curiosa e biri-
china. Numerose teste di cherubini affollano, serrate
ed eteree come nubi, le quinte della composizione
che presenta, dietro alle spalle della Santa, come
unico accenno alla realtà, un piccolo brano paesag-
gistico formato da edifici turriti.
La scena è illuminata da una luce fredda, che si ac-
cende di toni più intensi solo dietro al capo della
Vergine, come per formare una impalpabile aureola. Madonna Sistina, 1513-14, olio su tela, Gemäldegalerie, Dresda

191
CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

Raffaello ha rinunciato a rappresentare i tradizionali attributi della regalità (il trono, la corona) per accentu-
are la concezione illuministica dello spazio e consentire un diretto rapporto con i fedeli.

La MADONNA SISTINA rappresenta una delle numerose divagazioni di Raffaello sul tema della pala d’altare.
La MADONNA SISTINA assolve a un duplice significato: da un lato esalta l’aspetto fortemente umanizzato
delle figure – si osservi la Vergine a piedi nudi e priva di aureola – dall’altro mette in evidenza il momento
mistico, così come si deduce dalla presenza delle nubi e dallo sfondo con le teste di cherubini. La forte ac-
centuazione spaziale provocata dalla mano di San Sisto sta a indicare la simbolica intercessione dei Santi
tra Dio e l’uomo, qui identificato con lo spettatore al quale sembra alludere Santa Barbara. Un circuito tri-
angolare ideale e simbolico quello costituito dunque dai tre personaggi sacri confermato anche dalla com-
posizione pittorica e piramide.

DEPOSIZIONE BORGHESE

Per poter comprendere appieno la complessità iconografica di un’opera come la Pala Baglioni (altro nome
per indicare quest’opera, oltre che Trasporto di Cristo), bisogna essere a conoscenza dei fatti che ne deter-
minano la commissione. Molto probabilmente la tavola è voluta da Atalanta Baglioni per commemorare
la morte del figlio Grifonetto, vittima della sua stessa violenza: nel luglio del 1500, dopo il banchetto per le
nozze di suo cugino Astorre Bagioni con lavinia Colonna, Grifonetto uccide molti membri rivali della sua
stessa famiglia passandoli a fil di spada. Trovatosi senza l’appoggio della madre, inorridita per l’accaduto,
Grifonetto torna a Perugia, dove Gianpaolo Baglioni, miracolosamente scampato alla strage, riesce a ven-
dicarsi uccidendolo. Poco prima di morire, però, Grifonetto è raggiunto dalla madre e dalla moglie, che lo
inducono a perdonare i suoi assassini. Impossibilitato a parlare, Grifonetto tocca, in segno di assenso, la
mano della madre.
Il gesto provoca l’ammirazione generale ed Atalanta si ritira fra le mura domestiche con i vestiti del figlio
intrisi di sangue. L’episodio spiega bene l’evoluzione dell’idea di Raffaello, che possiamo seguire tramite i
disegni preparatori, ben sedici: in principio l’urbinate ha in mente un semplice compianto sul Cristo morto,
cui si aggiunge, in secondo momento, il gruppo con lo svenimento di Maria. Successivamente pensa però
di mutare l’idea del “compianto” con quella del trasporto del corpo di Cristo, probabilmente per rendere
ancora più esplicita la tragicità della scena e per avvicinarsi ulteriormente al dramma che si trova all’origine
della commissione pittorica: lo strazio della madre che si vede portar via il figlio inghiottito dalle tene-
bre del sepolcro. Dal punto di vista formale, al di là dei riferimenti classici al Trasporto di Meleagro, non si
può fare a meno di notare che la posizione del corpo di Cristo richiama enormemente quella della Pietà
di MIchelangelo che Raffaello potrebbe aver visto in un viaggio a Roma intorno al 1506. Viaggio consid-
erato indispensabile da gran parte della critica per
spiegare certe scelte figurative e certe conoscenze
da parte dell’urbinate. Del resto, ancora a Michelan-
gelo si deve l’impianto del gruppo con lo spasmo
di Maria che, chiaramente, riprende l’immagine del
Tondo Doni, anche se adattata e trasfigurata dalla
grazia di Raffaello. Dal punto di vista compositivo,
probabilmente per ricordare l’episodio di Grifonet-
to (tradizionalmente da identificarsi con il giovane
trasportatore a destra) che tocca la mano della ma-
dre, Raffaello ha collocato la mano del Cristo e quella
della Maddalena che lo accompagna al sepolcro,
quasi all’incrocio delle diagonali che governano la
disposizione degli elementi della scena. La compo-
sizione basta sul triangolo si rivela fondamentale e
particolarmente significativa nel dipinto. La matrice
compositiva geometrica infatti, evidenzia ancor
più l’impianto originale, comprendente soltanto il
trasporto del corpo di Gesù. Completano la pala la
cimasa con l’Eterno fra i cherubini, attribuita a Do- Deposizione Borghese, 1507, olio su tavola, Galleria Borghese, Roma

192
IL RINASCIMENTO CAPITOLO 8

menico Afani e conservata presso la Galleria Nazionale dell’Umbria a Perugia, nonchè le tre predelle che
mostrano le Virtù teologali con angioletti.

IL TRIONFO DI GALATEA

Nell’incantevole palazzo romano che era di un ricco


banchiere del XVI secolo, Agostino Chigi, oggi conosciu-
ta come Villa Farnesina a Roma, è uno degli affreschi più
belle dipinte da Raffaello master. Ispirato dai versi di una
poesia di Angelo Poliziano la sua arte ha permesso di flu-
ire attraverso il pennello e ha reso il capolavoro La ninfa
Galatea, chiamata anche il Trionfo di Galatea. Esso rap-
presentava la ninfa marina Galatea in fuga dal gigante
Polifemo, non mostrato in questa immagine, ma Rafael
pensato alla parete opposta a questa. La ninfa cavalcare
le onde su un carro a conchiglia tirato da due delfini e
intorno al loro un treno di ninfe e divinità del mare.
Gli Amorini volano cercando di raggiungere Galatea
con le frecce d’amore di Polifemo, che ha cantato una
canzone maleducato mostrando il loro affetto. In questo
quadro, non solo evidenziare i colori deliziosi che danno
armonia al globale o la bellezza dei corpi e volti, ma è la
composizione che esalta e veramente degno del maestro
Raffaello. Ogni figura corrisponde ad un altro, ogni movi-
mento è una simmetria che crea un senso di naturalezza
e dinamicità unica. Questo è il punto in cui le amorini
alati, due lati e una parte superiore, il che corrisponde Trionfo di Galatea, 1511, affresco su muro, Villa Farnesina, Roma
a quello osservato nella parte inferiore dell’immagine,
prendendo un delfino attraverso l’ugello. Ma è bene con il gruppo di creature marine, in quanto vi sono
due coppie, uno davanti e uno dietro Galatea, e due figure sui sentieri margini soffiaggio conchiglie. E tutto
questo senza la simmetria sembra forzato o rigida. Tuttavia, la vera sorpresa è che tutte queste figure e
movimenti si riflettono nella ninfa, in piedi al centro della composizione. Dolphins trascinato il carro verso
destra, mentre la sua veste vola a sinistra. Ha il viso rivolto all’indietro, come sentire la voce del suo amante.
Tutte le linee nel complesso, dalle frecce evidenti le redini del carro convergono sul suo viso, al centro, in-
fatti, della composizione.

LA TRASFIGURAZIONE

L’opera era stata commissionata a Raffaello nel 1517 per la cattedrale di Narbona, dal card. Giulio de’ Medici.
Contestualmente era stata commissionata a Sebastiano del Piombo la Resurrezione di Lazzaro, per la stessa
cattedrale. Alcuni critici avevano ipotizzato che la parte inferiore del dipinto fosse stata realizzata da al-
lievi del maestro, dopo la sua morte, negli anni 1520-1522, differentemente dalla versione del Vasari. Pos-
sediamo, però, la documentazione di una richiesta di pagamento scritta dal Castiglione in favore di Giulio
Romano il 7 maggio 1522 al cardinal Giulio de’ Medici, confermata da un ulteriore documento conservato
negli archivi del convento di S.Maria Novella a Firenze, indicante un debito di 220 ducati dovuto al Pippi
– soprannome di Giulio Romano – in merito all’opera in questione. Il Vogel ha fatto giustamente notare,
chiudendo la questione e riaffermando così la veridicità della versione vasariana, che i soldi giunsero a
Giulio Romano in qualità di erede di Raffaello e non di suo collaboratore, come è espressamente dichiarato
nei due documenti. Degli eventi ci è testimone anche una lettera di Sebastiano del Piombo che, scrivendo
a Michelangelo il 12 aprile 1520, gli comunicava: “Ho portato la mia tavola un’altra volta a Palazo con quella
che ha facto Raffaello et non ho avuto vergogna”. La lettera peraltro è testimone del confronto pittorico a
distanza che esisteva fra Raffaello e Michelangelo: quest’ultimo, infatti, sosteneva, come persona ispirantesi
ai suoi modi, Sebastiano del Piombo. Con questo non vogliamo escludere la presenza di aiuti, in particolare

193
CAPITOLO 8 IL RINASCIMENTO

nella parte inferiore dell’opera, ma confermare che è da attribuire interamente a Raffaello l’originalissima
presentazione nella stessa tavola della Trasfigurazione in alto e della scena della dell’ossesso in basso; i due
episodi appaiono l’uno di seguito all’altro nei vangeli, come vedremo subito.
L’originalità dell’opera consiste proprio nella tensione che viene a crearsi per la compresenza delle due
parti, l’alto ed il basso, il Cristo luminoso e la zona più in ombra dell’ossesso con il quale sono rimasti gli
altri nove apostoli che non sono saliti sul monte Tabor. Un disegno preparatorio, forse non di mano di Raf-
faello ma certo almeno copia di un suo schizzo, riproduce probabilmente l’idea originaria, più tradizionale,
con i tre apostoli della Trasfigurazione che occupano la parte bassa del disegno e l’assenza della scena
dell’indemoniato. Nella versione finale ecco invece l’episodio dell’ossesso presentarsi in basso, mentre i tre
apostoli che assistono alla Trasfigurazione sono più in alto, nella metà riservata al Cristo che appare nella sua
luce. L’opera non fu mai consegnata alla cattedrale
di Narbona, ma fu posta, provvisoriamente, nel 1523,
in S. Pietro in Montorio in Roma. La Trasfigurazione
fu successivamente rubata dai “rivoluzionari” fran-
cesi nel 1797, ma, a differenza di altre opere, venne
restituita nel 1815, per cui è ora visitabile presso la
Pinacoteca Vaticana, nei Musei Vaticani.
I vangeli pongono subito dopo la Trasfigurazione
un episodio dall’inizio tenebroso: l’incontro con un
ossesso indemoniato. Luca lo pospone al giorno,
dopo, Marco e Matteo immediatamente disceso il
monte. Nessuno era stato in grado di venire in aiuto
a quell’uomo tormentato dal demonio, dal male. An-
che i nove apostoli - che non avevano preso parte
alla Trasfigurazione - avevano fallito nel tentativo
di guarirlo. Raffaello primo – ed unico – nella storia
dell’arte si è cimentato con la giustapposizione dei
due avvenimenti. Ed ha così accentuato ancor più
la trasparenza luminosa del Cristo ed il buio della
condizione umana, ma, soprattutto, ha indicato
che quella luce è il destino dell’uomo. La critica pit-
torica, non cogliendo l’assoluta coerenza teologica
dell’opera, ha sovente discusso sulle due parti del
dipinto, attribuendo talvolta la maggiore apparente
raffinatezza della parte superiore luminosa a Raf-
faello stesso e la parte inferiore, tenebrosa, a suoi
discepoli: “Si è sempre discusso, fin dal Settecento,
circa il problema dell’unità tra le due parti del dip-
La trasfigurazione, 1518-20, olio su tavola, Musei Vaticani, Roma
into: unità stilistica ed unità di racconto, che sono
cose non disgiunte tra loro” Questa discussione ha
portato anche a fraintendere lo stesso significato della parte inferiore: “Il fatto che l’accostamento dei due
episodi (Trasfigurazione e presentazione dell’ossesso) sia sempre risultata incomprensibile, dato che non si
tratterebbe di momenti contemporanei, ma successivi, dipende... da un equivoco: la scena non rappresenta
in realtà la guarigione dell’indemoniato, come si continua a ripetere, bensì il precedente ed inano tentativo
di guarirlo, messo in opera dagli apostoli che erano rimasti a valle, mentre il Cristo era salito sul monte Ta-
bor” L’ossesso, circondato dai suoi cari e dai nove apostoli è lì a manifestare l’umanità nella sua assenza di
luce, a mostrare come l’umanità sembri inadatta di suo a contenere la luce divina. Dio e l’uomo sembrano
– al di fuori di Cristo – come impossibilitati a toccarsi, tanto è luminoso ed ineffabile l’uno e tenebroso e
concreto l’altro.
Per contrasto, viene ad essere ancor più iconograficamente esaltata, in Raffaello, la luce del Cristo trasfigu-
rato. La Trasfigurazione è la manifestazione del Cristo nella sua identità di Dio e, quindi, di luce abbagliante
ma, insieme, illuminante l’intera sua umanità. Gesù non è, come vorrebbero alcuni, un “illuminato”, ma è “la
luce stessa”. Il Cristo è, come dice il Credo, “luce da luce”; pure questa luce è totalmente presente nella sua
carne e nella sua umanità.

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CAPITOLO 9

I MAESTRI DEL CINQUECENTO

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CAPITOLO 9 I MAESTRI DEL CINQUECENTO

Gli anni che coincidono con lo svilupparsi della cosiddetta maniera moderna, sotto il profilo storico-artisti-
co coincidono con un momento di grande splendore, mentre dal punto di vista socio-politico registra un
periodo di profonda crisi. A Firenze muore Lorenzo il Magnifico e Carlo VIII di Francia, nel 1494, decide di
scendere in Italia riven- dicando i diritti del Regno di Napoli, ma non sedeva sul trono partenopeo nemme-
no un anno, perché le armate spagnole ristabiliranno come re l’aragonese Ferdinando II.
Nel capoluogo toscano intanto, dopo la morte di Piero, figlio del Magnifico, viene istaurata una Repubblica
di stampo teocratico retta dal frate Gerolamo Savonarola che orienta la propria predicazione verso l’aboli-
zione del lusso. Di lì a poco sarà scomunicato e bruciato sul rogo.
Nello stesso anno, la morte di Carlo VIII cambiò lo scenario italiano: il successore Luigi XII, conquista la Lom-
bardia cacciando gli Sforza e si allea con il sovrano spagnolo Ferdinando il Cattolico.
Firenze viene retta da un governo repubblicano, che commissionerà opere a Leonardo, Michelangelo e al
giovane Raffaello. Infine sarà restaurata l’oligarchia Medicea.

LA MANIERA

Nel XVI secolo prendono forma importanti elementi stilistici che creano un nuovo linguaggio artistico,
definito “maniera moderna”.
L’arte del primo cinquecento è caratterizzata da alcune costanti.
Le forme subiscono un processo di graduale semplificazione; viene dato spazio alle dimensioni elementari
della linea, della verticalità così come le visioni frontali e di profilo.
La figura umana è al centro degli studi degli artisti del manierismo, che la indagano sotto il profilo anato-
mico.
Strettamente connesso è lo studio del movimento.
Il nuovo rapporto con l’antichità classica, grazie allo studio delle rovine Romane.

L’ARTISTA

L’artista fino ad adesso era concepito come “un artigiano” infatti viene chiamato maestro.
L’artista diviene ora un “alter deus” cioè un Dio, infatti l’artista grazie al suo talento riesce a modificare la
realtà. In questo modo il reale smette di essere l’ideale.

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I MAESTRI DEL CINQUECENTO CAPITOLO 9

MICHELANGELO BUONARROTI

Nato il 6 marzo 1475 a Caprese un piccolo paese della Toscana vicino ad Arezzo, Michelangelo Buonarroti
ancora in fasce viene portato dalla famiglia a Firenze.
Figlio di Ludovico Buonarroti Simoni e di Francesca di Neri, viene avviato dal padre agli studi umanistici
sotto la guida di Francesco da Urbino, anche se ben presto dimostra tale inclinazione al disegno che, in
contrasto con i progetti paterni, passa alla scuola del già celebrato maestro fiorentino Michelozzo maestro
rimanendo stupefatto per i disegni eseguiti dal tredicenne Michelangelo.
In possesso di una fortissima personalità e di una volontà ferrea fin da giovane, Michelangelo volle restare
per almeno tre anni alla bottega del maestro, ma dopo un anno abbandona la comoda sistemazione a
causa dell’amore per la scultura che egli nutriva, trasferendosi alla scuola dei Giardini di San Marco, (dove
fra l’altro i Medici avevano già raccolto una notevole collezione di statuaria classica), ponendovi a capo lo
scultore Bertoldo, discepolo di Donatello.
Questa esperienza fu formativa per lui, sia dal punto di vista intellettuale che artistico. Qui apprese il pensi-
ero platonico che rivalutava il passato come momento fondamentale.
Entrò anche a far parte di un gruppo di neoplatonici che privilegiavano lo spirito sul corpo e difendevano
la vita speculativa.
Questa scuola raccoglieva delle antichità del passato, allora Michelangelo ebbe l’opportunità di riprodurre
queste opere.
La sua bravura venne fuori nella capacità di modificare le riproduzioni, aggiungendo il suo personale tocco.
Michelangelo già dai contemporanei fu acclamato come il maggiore artista di tutti i tempi, e influì su tutta
l’arte del secolo.
Ammirato senza riserve da alcuni, odiato da altri, onorato dai papi, imperatori, principi e poeti, Michelan-
gelo Buonarroti muore il 18 febbraio 1564.

LA BATTAGLIA DEI CENTAURI

Di questo periodo fa parte“La batt-


aglia dei centauri”. Quest’opera
riprende la battaglia tra Lapiti e
Centauri delle Metamorfosi di
Ovidio.
Michelangelo più che narrare
l’avvenimento vuole privilegiare
il movimento dei corpi. Infatti
l’opera è costituita da un groviglio
di corpi che tentano di emergere
dal fondo.
Tutta l’azione è messa in moto
da un corpo centrale con il brac-
cio destro alzato. I corpi appaiono
in tensione, con le membra tirate
che tentano di liberasi dalla ma-
teria che li tiene imprigionati. Le
tracce di scalpello si possono co-
gliere nei brevi spazi tra i corpi e
dalle fasce di cornicione superi-
ore ed inferiore.

La battaglia dei centauri

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CAPITOLO 9 I MAESTRI DEL CINQUECENTO

LA PIETÀ

Una parte della vita e della produzione artistica di Michelangelo fu influenzata dalla figura di Gerolamo
Savonarola. Infatti con la discesa in Italia dei francesi, Piero debole figlio di Lorenzo de’ Medici non fu ab-
bastanza forte da opporsi a Carlo VII, così fu cacciato da un’insurrezione popolare.
AI suo posto si insediò Gerolamo Savonarola. Il suo fu un dominio duro impostato sulla critica contro la
corruzione della Chiesa.
In questo periodo di grande fervore, Michelangelo riscoprì una forte religiosità, una religiosità più tradizion-
ale ed autentica. Di questo periodo fa parte la “Pietà”.
La Pietà fu importante nell’esperienza artistica di Michelangelo non solo perché fu il suo primo capolavoro
ma anche perché fu la prima opera da lui fatta in marmo di Carrara, che da questo momento diventerà la
materia prima della sua creatività.
Quando il cardinale Bilhères-
Lagraulas gli commissionò la Pi-
età, Michelangelo decise di non
utilizzare un blocco di marmo
qualsiasi, voleva un marmo pre-
giato.
Così partì per Carrara. In quella
occasione si manifestò un al-
tro aspetto della personalità
dell’artista: la consapevolezza del
proprio talento.
A Carrara infatti egli acquistò non
solo il blocco di marmo necessa-
rio per la realizzazione della Pietà
ma anche diversi altri blocchi, nel-
la convinzione che - considerato il
suo talento - le occasioni per uti-
lizzare quei blocchi in più non gli
sarebbero mancate. Cosa ancora
più insolita per un artista di quei
tempi, Michelangelo si convinse
che per scolpire le proprie statue
La Pietà
non aveva bisogno di commit-
tenti: avrebbe potuto scolpire di
propria iniziativa opere da vendere una volta terminate.
In pratica Michelangelo diventava un imprenditore di sé stesso e investiva sul proprio talento senza aspet-
tare che altri lo facessero per lui.
Questa imponente opera in marmo rappresenta Maria con in braccio il corpo del figlio. Il tema scelto fa
parte di quelli nordici, che privilegiavano scene come la deposizione o l’inserimento nel sepolcro.
Di quest’opera fu duramente criticata la giovinezza del viso della Vergine, che appare più giovane di quella
del figlio. Michelangelo si difese dicendo che le donne pure come Maria sono eternamente giovani, e si
tratta di una giovinezza divina e non umana.
L’opera ha una forte impatto visivo, la dolcezza del volto d Maria è immensa. La particolarità è che esprime
insieme tutta la sua dolcezza e tristezza con una leggera torsione del capo verso destra. Gesto che potrebbe
apparire di poco conto ma che ha dentro di sé tutta la disperazione di una mamma che ha appena perso
suo figlio.
L’intera opera è inserita all’interno di una piramide ideale con l’apice nel capo della Madonna.
Questa è l’unico capolavoro che Michelangelo firmò; infatti sul petto della Vergine è presente una fascetta
marmorea.

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I MAESTRI DEL CINQUECENTO CAPITOLO 9

LA VOLTA DELLA CAPPELLA SISTINA

Michelangelo iniziò i lavori di affresco all’interno della Cappella Sistina nel Maggio 1508, a trentatré anni.
L’incarico gli venne affidato dal papa Giulio II; l’idea di far decorare l’interno della Cappella Sistina, la cap-
pella palatina voluta da Sisto IV, da cui appunto prende il nome, e inaugurata il 15 Agosto del 1493, faceva
parte del progetto di Giulio Il che mirava ad emulare e portare innanzi le grandi gesta del suo predecessore,
ma l’artista era restio dall’accettare l’incarico, asserendo di considerarsi prima di tutto uno scultore, e solo
in secondo luogo un pittore, tant’è che cercò diversi espedienti per sfuggire alla commissione, tentando
addirittura la fuga a Firenze, da cui tuttavia fece ritorno a causa della scomunica lanciatagli dal papa.
Si trovò dunque costretto ad accettare l’incarico, e nell’arco di soli 4 anni portò a termine uno dei maggiori
capolavori di tutti i tempi.
Quando Michelangelo entrò per
la prima volta nella Cappella Sis-
tina si trovò davanti ad una strut-
tura architettonica e pittorica già
ben definita: Sisto IV infatti aveva
già incaricato i maggiori artisti
dell’epoca, quali il Botticelli e il
Ghirlandaio, di affrescare le pareti
laterali della cappella, ritraendo
scene tratte dalla vita di Gesù e di
Mosè, poste rispettivamente sulla
parete di destra e di sinistra; at-
traverso la rappresentazione par-
allela di episodi del Vecchio e del
Nuovo Testamento, infatti, Sisto
intendeva dimostrare la continu-
ità e il legame che insisteva tra
essi.
Nel registro superiore, inoltre, en-
tro delle nicchie, erano rappresen-
tati i primi papi della storia della
La Cappella Sistina Chiesa, mentre il registro inferiore
era decorato da finti cortinaggi.
Per quanto riguarda la volta, porzione della Cappella per cui Giulio Il aveva richiesto l’intervento di Michel-
angelo, si trattava di una volta a botte ribassata, affrescata da un vasto cielo stellato, opera di Pier Matteo
D’Amelia.
Il primo progetto del Michelangelo era piuttosto austero e semplice, e prevedeva di porre nei peducci le
figure dei dodici apostoli in trono e di decorare il resto della volta tramite ornamenti geometriche all’antica,
ma fortunatamente, giudicandolo egli stesso troppo povero, propose al pontefice una nuova idea, molto
più complessa e articolata, che sta alla base della realizzazione attuale dell’opera.
Sebbene Michelangelo fosse un assiduo lettore della Bibbia, appassionato di Teologia, amante di Dante
e poeta, è improbabile, a causa della sua ricchezza di significati allegorici e teologici, che il programma
iconografico della volta sia attribuibile esclusivamente all’opera dell’artista, ma si pensa che egli abbia co-
munque contribuito alla elaborazione concettuale del ciclo.
Dovendo affrontare un’impresa a dir poco titanica (la volta aveva un’estensione di oltre 500 mq) all’inizio
dei lavori Michelangelo ingaggiò da Firenze alcuni artisti che avrebbero dovuto aiutarlo nell’opera, ma ben
presto se ne liberò, reputandoli evidentemente non all’altezza del lavoro affidato.
Tuttavia si pensa che l’artista si sia comunque avvalso dell’aiuto di altri artisti, come appare chiaro
dall’intervento di altre mani, seppure solo nelle parti puramente decorative.
La grandiosità dell’opera del Michelangelo, tuttavia, risiede forse nella struttura in cui ripartì la volta della
Cappella, scandendone l’enorme superficie secondo uno schema tuttavia unitario.
Il soffitto è infatti diviso longitudinalmente in tre fasce da una serie di finte cornici in tre fasce, mentre
orizzontalmente in nove settori rettangolari, cinque più piccoli e quattro più grandi, da dieci finti archi
trasversi.

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CAPITOLO 9 I MAESTRI DEL CINQUECENTO

Alla sommità delle pareti laterali, invece, Michelangelo dipinse una serie di quattordici lunette, al di sopra
delle quali impiantò delle vele, quattro per parte, che fungono a raccordo tra la volta e le pareti.
Infine, sui lati minori e rispettivamente due per lato, ha inserito dei pennacchi di dimensioni maggiori.
Il tema dell’opera intera è ancor oggi oggetto di studi e discussioni, ma viene considerato dalla maggior
parte dei critici come il percorso compiuto dalla’umanità per passare da una condizione “primitiva” alla
conoscenza e al rapporto diretto con Dio.
Tale cammino in ascesa si svilupperebbe attraverso i tre registri sovrapposti del ciclo in altrettante fasi di
riscatto morale dell’uomo: nella prima fase, rappresentata dalle lunette e dalle vele, Michelangelo descrive
l’umanità non ancora toccata dalla Rivelazione; si tratta infatti dei progenitori di Cristo.
É emblematico come infatti il Michelangelo si distacchi dall’usanza dell’epoca, che voleva la rappresentazi-
one dei papi nelle nicchie, ossia di coloro i quali avevano seguito Cristo, dipingendo invece gli antenati di
Gesù, ossia coloro i quali avevano anticipato Cristo.

- Nella seconda fase, rappresentata dai quattro pennacchi e dalle Sibille e dai Profeti, vi è nei primi un’allusione
alla promessa messianica, mentre i secondi rappresentano coloro i quali hanno previsto l’avvento di Cris-
to.
- Nell’ultima fase, nel punto più alto della volta, ossia nella fascia centrale, sono rappresentati la rivelazione
e il ricongiungimento tra umanità e Dio.
A questa lettura trasversale, tuttavia, ne corrisponderebbe una longitudinale riguardante esclusivamente
la fascia centrale.
Michelangelo cominciò infatti a dipingere le storie della Genesi a partire dalla parete di ingresso, ossia
dall’episodio dell’ “Ebbrezza di Noè”, per proseguire dunque tino all’ultima scena, “La Divisione della luce
dalle Tenebre”, secondo un ordine che è sì inverso a quello narrato nel testo biblico, ma che, filosoficamente
parlando, ripercorre a ritroso il cammino dell’umanità dalla condizione attuale terrena e dunque debole e
disperata, fino alla liberazione dell’anima e al suo ricongiungimento con Dio stesso, culminanti nelle scene
della “Creazione”.
Tematicamente parlando, la volta può essere divisa in più settori: nella fascia centrale sono rappresentate
nove scene tratte dalla Genesi, ossia: la “Divisione della luce e delle tenebre”, la “Creazione degli astri”, la “Sep-
arazione delle Acque”, la “Creazione di Adamo “, la “Creazione di Eva”, il “Peccato e la cacciata dei progenitori”,
il “Sacrificio di Noè”, il “Diluvio Universale” e infine l’ Ebbrezza di Noè”.
- Nei riquadri laterali attorno alla fascia centrale sono rappresentati sette Profeti e cinque Sibille, ossia: il
“Profeta Giona”,“Profeta Geremia”, la “Sibilla Persica”, il “Profeta Ezechiele”, la “Sibilla Eritrea”, il “Profeta Gioele”,
il “Profeta Zaccaria”, la “Sibilla Delfica”, il “Profeta Isaia”, la “Sibilla Cumana”, il “Profeta Daniele” e infine la “Sibilla
Libica”.
- Nelle otto vele triangolari sono rappresentati gli “Antenati di Cristo”, da Abramo a Giuseppe, la cui identifi-
cazione è piuttosto complessa e che sono organizzati in gruppi da tre: uomo, donna e bambino.
- Nelle quattordici lunette sono rappresentati nuovamente gli “Antenati di Cristo”, stavolta dotati di tar-
ghette e nominativi che ne rendono facile l’identificazione.
- Nei pennacchi angolari, infine, sono raffigurate quattro scene tratte dall’Antico Testamento in cui si nar-
rano interventi miracolosi in favore del popolo di Israele, ossia: “La punizione del malvagio Aman”, “David
che abbatte Golia”, Giuditta che decapita Oloferne” e il Serpente di bronzo”.

LA DECORAZIONE DELLA CAPPELLA SISTINA:


creazione di Adamo, prefeta Gioele, Sibella Libica, ignudi, antenati di Cristo

Uno dei grandi capolavori di Michelangelo è senza dubbio la Cappella Sistina, la cui decorazione permette
a Michelangelo di l’aggiungere un livello non indifferente in campo artistico.
Nella Creazione di Adamo la prima figura a sinistra è un uomo nudo, di notevole bellezza e viene rappre-
sentato in una posa in cui si manifestano contemporaneamente sia il riflesso divino, sia quello umano che
simboleggia la stessa dignità umana.
Dalla parte destra, invece, osserviamo Dio Padre avvolto in un mantello gonfiato dal vento, e ciò contribuisce
a dare un movimento veloce e animato al Creatore, che si contrappone al torpore di Adamo.
Inoltre la figura che si affaccia dal braccio sinistro di Dio, si ipotizza sia Eva la cui creazione avviene nella
scena successiva.

200
I MAESTRI DEL CINQUECENTO CAPITOLO 9

Cappella Sistina - volta

Nella creazione di Adamo lo sguardo di Dio è intenso ma allo stesso tempo limpido e paterno, in opposiz-
ione allo sguardo di Adamo che appare per lo più stupito.
I tratti delle figure sono ben rifiniti e i segni delle pennellate sono veloci e sicuri.
La linea dell’intera scena è definita e precisa e racchiude la figura appoggiata sul monte e la separa dal
paesaggio arido della terra primordiale.
I colori sono particolarmente valorizzati da un’ accostamento di toni caldi e toni freddi allo stesso tempo,
come per esempio i chiari e i scuri dei nudi risaltano sul verde-azzurro del terreno. come pure i toni rosa-
violacei della tunica di Dio si contrappongono allo sfondo scuro del mantello, Nelle storie della Genesi, fino
alla Creazione, Michelangelo è andato via via diminuendo il numero dei personaggi nella scena, e ha ac-
cresciuto in modo notevole le dimensioni dei personaggi principali, ottenendo in questo modo monumen-
talità. Inoltre i gesti rappresentati sono semplici e le figure hanno assunto più potenza e amplificazione.
Qui la pennellata risulta anch’essa più sciolta e rapida.
Alla schiera dei veggenti appartiene invece, il Profeta Gioele che presenta proprio una fisionomia da antico
filosofo.
Il profeta Gioele è colto proprio nell’atto di svolgere un rotolo che attira completamente la sua attenzione.
Al fianco del profeta vi sono due giovincelli, ma Gioele colpisce ancora di più e trasmette più sevèrità e au-
torevolezza in quanto, oltre alla monumentalità del corpo e l’espressione corrucciata del volto.
Tipiche di tutti i profeti, presenta anche una certa saldezza della postura e una intensa concentrazione del
suo sguardo.
Le Sibille appartenenti al mondo pagano, insieme ai Profeti sono i personaggi pm vistosi dell’intera volta da
un punto di vista dimensionale, e presentano atteggiamenti diversi tra loro e alquanto complessi.
La Sibilla libica mostra, nello stesso tempo di volersi alzare chiudendo contemporaneamente il libro.
Gli atteggiamenti del corpo della sibilla Libica, sono stati già rappresentati da Michelangelo, ma qui l’artista
mostra straordinaria abilità nel rendere lo scorcio.
Michelangelo diede molta importanza all’atteggiamento e all’azione della Sibilla Libica, e ci viene testi-
moniato dal disegno molto elaborato a sanguigna, dove è stato studiato sia il movimento complessivo
sia i particolari dello scorcio dei piedi per rappresentarli in torsione. delle mani intente a chiudere il libro, e
anche del volto.

201
CAPITOLO 9 I MAESTRI DEL CINQUECENTO

Infatti il volto appare raffinatamente curato con una delicata stesura cromatica, considerando anche che
queste figure siano state create per esser osservate da lontano.
Dall’ inizio di questo ciclo fino ai brani più tardi, oltre alla maggiore dimensione delle figure, si ha
un’acquisizione del cosiddetto “buon fresco” mediante il quale la sfumatura e le cromie sono rese con
l’impiego di un colore liquido poi distribuito mediante sfumature successive, che danno trasparenza e lu-
minosità.
Gli Ignudi sono 20 figure maschili poste agli angoli delle scene bibliche minori e sono forse angeli o geni.
Essi sostengono dei festoni di foglie di quercia che rappresentano l’emblema della famiglia Della Rovere
alla quale apparteneva Giulio II che aveva commissionato tale decorazione della cappella.
Al centro di ogni coppia degli ignudi vi l’un medaglione di bronzo che raffigura una scena dell’Antico Tes-
tamento, ed essi presentano vari atteggiamenti di espressioni, diverse soluzioni prospettiche, e anche se
non appaiono legati a significati biblici, gli Ignudi hanno permesso a Michelangelo ch rappresentare le
innumerevoli varianti del corpo nudo in tensione.
Uno degli Ignudi più conosciuto è quello sopra la Sibilla Persica: è un personaggio violento e drammatico
mosso dal vento. É caratterizzato da un notevole vigore anatomico, infatti sulla schiena si evidenzia una
fascia muscolare contratta, ma oltre a vitalità fisica, mostra vitalità psichica mediante gli occhi sbarrati e la
bocca semiaperta che danno una carica suggestiva.
La serie delle lunette, in tutti gli affreschi, sembra costituire un capitolo a parte, e Michelangelo ha pro-
ceduto con estrema velocità in quanto ogni scena fu realizzata in massimo 3 giorni.
Nella lunetta di “Eleazar e Mathan”, che è quella probabilmente da cui Michelangelo iniziò, i personaggi
compiono semplici azioni con altrettanto semplici atteggiamenti, e appartengono alle 16 famiglie prima
dell’avvento di Cristo, e sono distinti da una targa con i loro nomi al centro della scena.
Le immagini degli Antenati di Cristo, sono realizzate senza cartone preparatorio, a differenza degli altri af-
freschi della volta.
Il colore, con le varie tonalità, è molto liquido, e presenta anche accostamenti dissonanti che creano una
certa armonia. E mentre le teste degli Ignudi sono state realizzate con l’aiuto del cartone, quelle degli Ante-
nati sono state disegnate direttamente sul muro, con tratti rapidi e decisi con un pennello intriso di colore
bruno.
I lavori nella Cappella Sistina durarono 4 lunghi anni che furono, per Michelangelo, faticosi e dolorosi, in
quanto era costretto a sopportare le violente minacce di Giulio II che voleva vedere ultimata l’opera in poco
tempo, ma anche perché si sentiva solo e si rendeva conto di quanto quest’opera fosse impegnativa.
Ed inoltre questa immensa fatica gli aveva causato una deformazione al nervo ottico tanto che se doveva
leggere delle minute, doveva tenerle sollevate sopra il capo.
Ma quando nel 1512 furono tolte tutte le impalcature e il capolavoro fu visibile interamente (in quanto una
prima parte era stata scoperta nel 1511), tutti, ed anche Giulio II rimasero tanto colpiti e stupiti da cosi tanta
bellezza.
E persino chi lo aveva avversato, comprese che la pittura da allora non sarebbe stata più la stessa in quanto
ha ricevuto un’eredità notevole e rivoluzionaria, quale quella di Michelangelo.

IL GIUDIZIO UNIVERSALE

Nel 1534 il papa Clemente VII affida a Michelangelo la realizzazione di una rappresentazione della scena del
Giudizio Universale da realizzare nella Cappella Sistina sulla parete dietro l’altare.
La preparazione dura due anni ma non appena i lavori stanno per iniziare muore il pontefice e Michelan-
gelo si sente quindi liberato dal suo impegno, interviene però Paolo III Farnese, successore di Clemente VII
a confermare l’impegno preso con il suo predecessore.
Bisogna ricordare che Michelangelo faceva parte del gruppo di intellettuali che volevano una profonda
riforma della chiesta cristiana e un compromesso con le richieste protestanti, Michelangelo esprime quindi
nell’ opera le lacerazioni spirituali che il mondo cristiano stava vivendo.
L’opera si allontana dall’iconologia tradizionale, non è presente alcuna ripartizione in scene né un sistema
proporzionale o prospettico, i personaggi sono descritti in un movimento vorticoso che ha come centro la
figura del Cristo Giudice. Il Cristo, circondato da un’aura di luce con affianco la Madonna, è mostrato con un
braccio alzato e uno abbassato, ed è proprio questo suo gesto a imprimere questo moto vorticoso, che è
caratterizzato dall’ascesa dei beati e la precipitazione dei dannati, a tutta l’opera.

202
I MAESTRI DEL CINQUECENTO CAPITOLO 9

Dalle espressioni dei personaggi


emergono soprattutto dei senti-
menti di angoscia e drammaticità
dovuti all’accettazione di questo
inevitabile destino.
Il distacco dalia tradizione si nota
anche dal fatto che tra beati e
dannati non vi è alcuna sepa-
razione fisica o atmosferica, per
un attimo condividono lo stesso
spazio, si mescolano dunque la
beatitudine degli eletti e il dolore
dei dannati.
La gamma cromatica di
quest’opera si fonda soprattutto
su due colori, il blu de!l’ universo
che fa da sfondo all’ opera e il bru-
no dei corpi i quali conferiscono
all’opera quella drammaticità
che dovrebbe realmente avere
il giorno dell’ira. Con un recente
restauro è stata eliminata tutta la
fuliggine che si era accumulata
sulla superficie pittorica, e ora
nuovamente possibile ammirare
nella sua intera bellezza la scelta
cromatica di Michelangelo.
Il Giudizio Universale

La rappresentazione del Giudizio Universale di Michelangelo è un’opera grandiosa che presenta oltre due-
cento personaggi ma che deve lo sua importanza specialmente alla sua struttura originaria e innovativa.
Iniziamo adesso ad analizzare l’opera partendo dalla parte superiore: in alto abbiamo due lunette nelle
quali vediamo gli angeli apteri intenti a sostenere gli strumenti della passione (corona di spine, croce, col-
onna), scendendo verso il basso troviamo un gruppo di angeli, apostoli e santi che circondano la figura di
Cristo affiancato dalla Madonna, simbolo di pietà e misericordia, che funge da intermediaria con coloro che
sono appena risorti.
Nel Giudizio Universale della tradizione Cristo era seduto su un trono affiancato da tutti i suoi apostoli
anch’essi seduti, Michelangelo si distacca dalla tradizione preferendo dare alla sua opera un carattere più
moderno e originale.
I santi possono essere riconosciuti grazie agli oggetti, spesso grandi e ingombranti, che hanno tra le mani,
ad esempio San Lorenzo è riconoscibile grazie alla graticola oppure santa Caterina per la ruota, e partico-
lare il caso di San Bartolomeo che in una mano ha il coltello con il quale è stato scuoiato, nell’altra stringe la
sua pelle mortale i cui lineamenti del viso deformati sembrano mo-strare il viso di Michelangelo. Michelan-
gelo decide di apporre il suo volto nell’ opera per mostrare l’inquietudine che lo ha scosso dopo le accuse
di impudicizia ed eresia che gli erano state mosse soprattutto da Pietro Aretino.
Infine scendendo ancora in basso troviamo gli angeli tubicini intenti a suonare le trombe del giudizio.
Ai lati dell’opera assistiamo invece ai due movimenti principali, quello di ascesa degli eletti che resuscitano
e salgono al cielo, e quello dei dannati che precipitano verso l’inferno dove incontreranno gli altri dannati
che sono stati traghettati fino a lì da Caronte.
Ha avuto un importante influsso su alcuni elementi dell’opera, vedesi Caronte, la Divina Commedia dant-
esca.
L’ opera viene terminata nel 1541 ma è subito oggetto di forti critiche e di una accesa polemica da parte
delle maggiori cariche ecclesiastiche e di alcuni uomini di maggior spicco dell’epoca.
L’affresco viene criticato soprattutto per la presenza eccessiva di nudi, ma anche per altri motivi tra cui

203
CAPITOLO 9 I MAESTRI DEL CINQUECENTO

l’assenza delle aureole dei santi o gli apteri.


Le alte cariche ecclesiastiche vagliarono anche la possibilità di distruggere l’opera, possibilità poi scartata
per via della fama e del prestigio di cui godevano Michelangelo e le sue opere, si scelse quindi di coprire i
nudi.
L’ incarico fu affidato a Daniele da Volterra, un pittore che eseguiva a secco i panneggi e gli indumenti, abil-
ità che gli valse soprannome di “Braghettone”.

TONDO DONI

Un’ altra opera di Michelangelo è la Sacra famiglia con san Giovannino, detto anche Tondo Doni perché
eseguita in occasione del matrimonio tra Angolo doni e Maddalena Strozzi.
Il problema principale con cui l’artista deve misurarsi è di condensare il massima intensità di movimento
in uno spazio così piccolo, Riuscirà però a raggiungere l’effetto desiderato compattando i corpi e impri-
mendogli un movimento a spirale, utilizzando anche un tratto incisione, ma soprattutto mettendo in evi-
denzia le masse muscolari, non è un caso infatti che
il braccio della Madonna è scoperto fino all’altezza
della spalla, il dipinto ha una forma circolare, tipico
della tradizione rinascimentale e presenta una cor-
nice dorata, realizzata da Michelangelo, su cui sono
riprodotti i busti di Cristo, due sibille e due profeti.
L’opera è costituita da tre piani di profondità, sullo
sfondo vediamo degli individui nudi che simboleg-
giano il mondo pagano e rappresentano quindi “il
profano”, in primo piano abbiamo invece lo Sacra
Famiglia raccolta a formare un cilindro che sembra
animato da un movimento a spirale; la Madonna,
seduta a terra, è colta nell’attimo di girarsi con le
braccia protese verso il Bambino che è riprodotto
nel momento del passaggio dalle braccia di San
Giuseppe a quelle della madre, San Giovannino,
situato sulla destra, funge da elemento di separazi-
one tra i due mondi, quello profano e quello sacro.
Il movimento elicoidale dei personaggi ricorda le
menadi di Skopas, si vede quindi l’influenza classica
Tondo Doni
nelle opere di Buonarroti.

204
I MAESTRI DEL CINQUECENTO CAPITOLO 9

DAVID

Dopo la morte di Savonarola, scomunicato da Alessandro VI Borgia, impiccato e arso sul rogo nel 1498, a
capo della Repubblica fiorentina fu posto il gonfaloniere Pier Soderini.
In questo periodo le arti e la cultura conoscono una nuova ripresa. La chiamata di importanti artisti ri-
spondeva ad una esigenza politica che voleva accrescere il prestigio della nuova Repubblica.
Nel 1501 tornò anche Michelangelo per scolpire il Oavid commissionato dai consoli dell’Arte della Lana e
dall’Opera del Duomo.
Non si trattava di un impresa
semplice, infatti l’artista doveva
lavorare un blocco di marmo che
era già stato sbozzato in prece-
denza da altri due artisti fiorenti-
ni (Agosti no di Duccio e Antonio
Rossellino).
Accettando questa sfida Michel-
angelo realizzò una delle opere
d’arte più rappresentative degli
ideali del Rinascimento.
David è una figura colossale, alta
più di quattro metri, apparente-
mente calma, ma carica di ten-
sione.
Michelangelo non ha rappresen-
tato il fanciullo biblico trionfante
mentre ostenta la testa di Golia
come segno della sua vittoria.
Il momento prescelto è quello
che precede l’azione e ciò rende
plausibili la concentrazione nel
volto e la tensione nei muscoli.
La testa si gira di scatto verso sin-
istra perché e da lì che, secondo
il pensiero medievale, proviene il
male e quindi quello è il lato più
vulnerabile.
Tale scultura è concepita, come
la maggior parte delle opere mi-
chelangiolesche, per essere os-
servata frontalmente.
Tutto il peso del corpo grava sulla
gamba destra, in cui la contrazi-
one dei muscoli ne evidenzia lo
David
sforzo, mentre la gamba sinistra si
flette in avanti.
La posizione è bilanciata e segue la regola del contrapposto classico. Il braccio sinistro è piegato a reggere
la fionda sulla spalla e quello destro è disteso lungo il fianco, ma pronto al movimento, infatti il pugno sem-
bra iniziare un movimento di contrazione.
Una forte concentrazione è impressa sul volto, che appare corrucciato e risoluto. Le ciglia sono aggrottate
e gli occhi guardano lontano come se David stesse prendendo la mira. L’espressione accigliata e forte è
quella di chi è pronto a combattere e sa che deve vincere. I capelli, agitati e divisi a ciocche, evidenziano
l’uso del trapano, utilizzato anche per realizzare le pupille nel volto. In questa statua convergono tutte le
teorie e gli studi effettuati da Michelangelo: lo studio accurato dell’anatomia umana; il pensiero neo pla-
tonico secondo il quale la figura umana, essendo riflesso della perfezione divina nel mondo terreno, incarna
l’ideale di una bellezza superiore; l’osservazione e lo studio dell’antico e la predilezione per l’ideale fisico

205
CAPITOLO 9 I MAESTRI DEL CINQUECENTO

maschile. Originariamente il David avrebbe dovuto essere posto su uno dei contrafforti di Santa Maria del
Fiore, ma una volta conclusa la statua, nel 1504, di fronte alla meraviglia di tutti coloro che la videro, si decise
per un’altra collocazione.
La sua potenza e la sua forza evocarono nei fiorentini l’idea che l’opera potesse simboleggiare le virtù civi-
che.
Si riunì, quindi, una speciale commissione costituita dai maggiori artisti dell’epoca, tra cui Leonardo Da
Vinci, Perugino, Botticelli e Filippo Lippi, e si decise che la statua dovesse essere collocata all’ingresso di
Palazzo della Signoria, sede del governo.
E lì rimase fino al 1873 quando, per garantirne la conservazione, fu spostato nella Galleria dell’Accademia di
Firenze e sostituito con una copia.

TOMBA DI GIULIO II

Nel 1505 Michelangelo è chiamato a Roma da Giulio Il per la realizzazione di un mausoleo destinato alla
propria sepoltura.
Il progetto originario ci è noto
grazie alle testimonianze di
Vasari e Condivi e consiste in un
ciclo monumentale in cui più di
quaranta statue sono fuse in una
impo- nente struttura architet-
tonica.
Il mausoleo avrebbe dovuto es-
sere collocato in San Pietro, dis-
posto liberamente nello spazio, e
avrebbe dovuto prevedere al suo
interno una cella sepolcrale per
ospitare la salma del pontefice.
Il monumento è pensato origi-
nariamente da Michelangelo sec-
ondo una struttura piramidale
articolata in tre ordini decres-
centi. Nell’ordine basamentale
delle nicchie ospitano statue di
Vittorie e, addossate ai pilastri,
sono disposte statue di Prigioni;
nel secondo ordine sono previste
quattro grandi statue raffiguranti
Mosè, San Paolo e le personifi-
cazioni della Vita Attiva e della
Vita Contemplativa; nell’ordine
superiore due angeli, colti rispet-
tivamente nell’atto di piangere e
di ridere, reggono un’arca con la
statua del pontefice. Prima che
inizi la sua messa in opera, però,
il progetto è interrotto da Giulio
Il, che dedica risorse e attenzioni
alla ricostruzione della basilica di
San Pietro affidata al Bramante.
Dopo aver ultimato gli affreschi
della volta della Cappella Sistina,
Michelangelo, nel 1513, elabora
un secondo progetto del mauso- Tomba di Giulio II

206
I MAESTRI DEL CINQUECENTO CAPITOLO 9

leo del pontefice.


In questa rivisitazione viene attenuata la carica del progetto originale: il monumento non è più disposto lib-
eramente nello spazio ma è tradizionalmente addossato ad una parete e gli elementi classici a simbolismo
neoplatonico sono attenuati in favore di quelli cristiani, dato che viene introdotta la raffigurazione della
Madonna con Bambino e quattro santi.
Di questo secondo progetto Michelangelo esegue solo tre sculture, tra cui due Prigioni note come lo Schi-
avo ribelle e lo Schiavo morente. L’altra statua realizzata è quella del Mosè.
Ideata per essere collocata nel secondo ordine del progetto del 1513, sarà poi collocata nel 1545 al centro
dell’ordine inferiore del monumento definitivo.
L’opera presenta, pertanto, delle deformazioni anatomiche nel volto e nel busto adatte ad una visione dal
basso verso l’alto, quale era quella originaria.
Mosè è raffigurato nel momento in cui, sceso dal Sinai con le Tavole della Legge, osserva sdegnoso gli ebrei
idolatri.
La barba fluente e le corna sottolineano la saggezza e la vecchiaia di Mosè. Inoltre la figura del patriarca,
rappresentato seduto, si carica di una grande energia, trattenuta mediante un efficace contrapposto, il
quale è anche arricchito dal moto rotatorio del panneggio.
Il progetto per la tomba di Giulio Il viene rivisto e modificato innumerevoli volte dal 1513 e finalmente at-
tuato nel 1545, ma il monumento, collocato in San Pietro in Vincoli, è ormai completamente diverso rispetto
al disegno originario.

207
CAPITOLO 10

DAL MANIERISMO AL BAROCCO

209
CAPITOLO 10 DAL MANIERISMO AL BAROCCO

L’arte del ‘600 fu interamente influenzata dal dominio della Chiesa in Italia e in Europa.
Dopo la riforma luterana la Chiesa aveva avuto la meglio, imponendo i suoi principi, attraverso il concilio di
Trento.
Per quel che riguarda le arti figurative, il concilio aveva imposto il richiamo al rispetto dei testi sacri, il biso-
gno di convenienza e decoro, il rifiuto del mondo classico e quindi l’abolizione del nudo.
Tra i più rigorosi “moralisti” si ricordato Bartolomeo Ammannati, Gabriele Palotti e i due cardinali Carlo e
Federico Borromeo.
É molto probabile che proprio questo rigorismo religioso, combinato a una voglia di fuga dalle regole ma-
nieriste, abbia dato lo stimolo alla fantasia creativa propria del Barocco; mentre è innegabile che il mondo
classico, nonostante l’esplicita condanna dei teorici della Controriforma, sia stato il modello di riferimento
per tutto il seicento.
Il centro culturalmente più vivo di tutta l’Europa fu Roma, non soltanto sede della potenza cattolica ma
anche capitale in grado di esercitare grande influenza politica in un’Italia ormai asservita alla Spagna.
Artisti di ogni parte d’Italia e d’Europa vennero a Roma, specialmente nei primi decenni del secolo per am-
mirare i resti della gloriosa antica civiltà, desiderosi di ammirare da vicino le opere grandiose dei maestri del
Cinquecento, e attratti dalle commissioni che clero e privati distribuivano a piene mani.
Il clero, in particolar modo, aveva lo scopo di diffondere, tramite l’arte, i principi della controriforma.
Dunque quest’arte doveva essere in grado di stupire, emozionare, commuoverei fedeli e stimolare la loro
immaginazione.
Il risultato fu un tipo di arte originalissimo, magniloquente, esuberante, elusioni sta, teatrale, e che faceva
interagire vari stili.
Fu tutto questo il barocco, in parole povere, un’arte che doveva far presa sui sensi.
Non sorprende, a questo punto, che al suo interno si siano distinti vari filoni, decisamente tre: quello classici-
stico di Carracci, quello naturalistico di Caravaggio, infine quello dei seguaci del barocco ultimo, più maturo,
a partire dal 1630; tutti e tre fuggono dal passato manieristico, riproponendo però ognuno in chiave diffe-
rente la loro nuova visione barocca.
Tra i padri del barocco, molti critici annoverano il fiammingo Pieter Paul Rubens e gli italiani Pietro da Cor-
tona, Baciccio e Andrea Porro.

DONATO BRAMANTE

Donato di Angelo di Pascuccio detto Bramante nasce a Monte Asdrualdo (Fermignano - Pesaro nel 1444)
architetto e pittore marchigiano.
La cultura classica del Bramante si è formata alla corte di Urbino di Federico da Montefeltro, dove segue
l’insegnamento di Piero della Francesca da cui prenderà la concezione dello spazio e, dopo un soggiorno a
Mantova dove apprende la lezione architettonica di Alberti e quella pittorica di Mantegna.
In seguito il Bramante si reca a Milano e alla corte degli Sforza di Ludovico il Moro dove incontra Leonardo
da Vinci, con il quale ha stretti rapporti.
Gli anni del permanenza lombarda sono quelli determinanti per l’elaborazione di una concezione architet-
tonica che sarà presente anche nelle opere successive.

210
DAL MANIERISMO AL BAROCCO CAPITOLO 10

SANTA MARIA PRESSO SAN SATIRO

Intorno ai primi anni Ottanta del Quattrocento pre-


cisamente nel 1477, Bramante da avvio alla costruzi-
one di Santa Maria presso San Satira.
L’edificazione di questo edificio è in relazione a un
evento miracoloso avvenuto nel Trecento.
L’edificio è costituito da un lungo corpo longitudi-
nale a tre navate e si distingue per il finto coro in
stucco.
Il progetto era costruire l’edificio in commissione
con la cappella già presente senza cambiare l’assetto
urbanistico della contrada.
La navata centrale e il transetto presentano volte a
botte sorrette da pilastri cruciformi, invece, la cupola
emisferica a cassettoni come modello del Phan-
teon.
Bramante per dare continuità prospettica nella na-
vata centrale crea un finto coro costituito da tre ar-
cate che danno l’illusione della profondità e della
continuità dello spazio.
In seguito nel 1492 Ludovico il Moro gli affida
l’intervento su un corpo di fabbrica preesistente e
si limita sulla zona absidale destinata ad accogliere
il monumento funebre della moglie Beatrice d’Este
e quella del Moro stesso.
La struttura si svolge attorno a un vano cubico dove
Santa Maria presso San Satiro
si imposta la cupola emisferica sorretta da pennac-
chi. Nella zone sottostante si trovano due absidi semicircolari laterali.
Il tutto è intessuto da decorazioni circolari sull’abbinamento dell’intonaco chiaro e una base scura sulle
quali ci sono figure geometriche.
Quindi un ambiente luminoso che contrasta la navata in stile gotico.

IL PERIODO ROMANO

Nel 1499 Bramante lascia Milano e raggiunge Roma, qui ha la possibilità di dedicarsi agli studi dei repertori
classici.
A Roma fa conoscenza con Giulio II, pontefice impegnato nel rinnovamento dello Stato della Chiesa e di-
venta architetto della Santa sede.
La prima commissione è del Cortile del Belvedere in Vaticano nel 1503, uno spazio aperto che deve trasfor-
mare la residenza pontificia in una sorta di villa imperiale.
Nel 1502 a Bramante viene commissionato il “Tempietto di San Pietro in Montorio” da Ferdinando di Spagna
e sua moglie Isabella, sul luogo dove secondo una tradizione medioevale era avvenuta la crocifissione
dell’apostolo Pietro.
Questo luogo ha ragione simbolica, poiché rappresenta la chiesa fondata da Pietro.
Il modello si ispira a quello tracciata da Leon Battista Alberti nel “De re edificatoria”dove si afferma che la
forma più adatta per un tempio sia quella circolare.
Il metodo che Bramante, deduce da Vitruvio e quello della composizione modulare, cioè dello sviluppo
di un’unita formale data (la colonna) in modo da assicurare la simmetria tra il singolo edificio e l’insieme
urbanistico.
Il tempietto è costituito da un corpo longitudinale e coperto da una cupola emisferica.
Circondato da 16 colonne doriche, sormontate da una trabeazione con un fregio e metope.
Le metope sono decorate con motivi religiosi e liturgici che ricordano l’autorità del pontefice.
Giulio II incarica Bramante di progettare la basilica di San Pietro sia per dare un segno tangibile del suo po-

211
CAPITOLO 10 DAL MANIERISMO AL BAROCCO

tere, sia per fornire una degna collocazione all’enorme mausoleo funerario, progettato da Michelangelo.
L’idea di Bramante prevedeva un edificio con pianta a croce, inscritta in un quadrato, sul quale si articola-
vano una seria di cappelle angolari.
Il progetto non è differente da quello in San Pietro in Montorio.
Dopo la morte di Bramante (1514) la direzione dei lavori viene affidata a Raffaello e proseguita da altri ar-
chitetti che hanno modificato l’idea bramantesca.

I CARRACCI

Negli ultimi decenni del Cinquecento Ludovico Carracci e i due cugini più giovani furono i protagonisti del
rinnovamento della pittura bolognese.
Essi non avevano nessun contatto nella capitale romagnola, ma intorno al 1582 diedero vita ad un’Accademia
Arstica, nominata accademia dei Desiderosi e più tardi degli incamminati.
Il loro vivo proponimento era quello di contrapporre all’artificioso manierismo un tipo di arte narrativo e
facilmente comprensibile, basato sullo studio del “vero naturale”, che recuperasse i grandi maestri del Rina-
scimento e fortemente ispirato ai pittori veneti e ai carreggio, di cui amavano il “morbido sensuale”.
Con questa loro interpretazione dell’arte avrebbero stimolato una diretta partecipazione emotiva.

LUDOVICO CARRACCI BOLOGNA, PINACOTECA NAZIONALE

L’arte dei tre cugini rispondeva perfettamente alle


esigenze della Chiesa Cattolica e del Concilio di
Trento, il più sensibile ai dettati della controriforma
fu però Ludovico, i cui dipinti comunicano una reli-
giosità semplice e popolare, così da rendere comp-
rensibile le più ostiche verità di fede.
A lui fu commissionata un’opera, l’ ”Annunciazione”,
che rientra in quelle maggiori.
La profondità della scena è data semplicemente
dall’intelaiatura prospettica del pavimento, molto
simile ai quadri rinascimentali.
In primo piano vi è l’angelo inginocchiato davanti
a Maria che abbassa lo sguardo e incrocia le mani
sul seno, in segno di umile accettazione del disegno
divino prestabilito per lei.
L’impianto è semplice e chiaro, così da rendere più L’annunciazione
reale il fatto rappresentato; non vi sono cori d’angeli
o altri elementi soprannaturali.
I colori smozzati e la penombra contribuiscono a creare un’atmosfera raccolta.
Lo studio dei particolari ci fa avvertire la grande conoscenza che Ludovico aveva dell’esperienze pittoriche
rinascimentali.

AGOSTINO CARRACCI

Egli fu il più colto dei tre; ebbe, infatti, una curiosità insaziabile per svariate discipline: matematica, geome-
tria, filosofia, storia, geografia, musica, poesia oltre che per l’arte.
Tutti questi studi da lui compiuti si sintetizzano nel suo dipinto più famoso: “La comunione di San Giro-
lamo”.
Il dipinto”narra”gli ultimi momenti della vita del santo in una composizione ordinata e raccolta di person-
aggi dipinti in modo davvero realistico. In primo piano, al centro il vecchio San Girolamo si inginocchia si
prepara alla comunione, coperto solo in parte da un mantello rosso, mostrando per il resto le carni bianche
e cadenti.

212
DAL MANIERISMO AL BAROCCO CAPITOLO 10

Egli tiene le mani strette sul petto e lo sguardo alto.


Vicino a lui sul pavimento è appoggiato un teschio,
simbolo della morte imminente.
Il sacerdote è invece vestito da una pianeta lucente
ed elegante, ed è chinato verso il santo, in un atteg-
giamento di compassione.
I due protagonisti sono circondati da molte altre fig-
ure i cui movimenti rendono la scena animata, real-
istica, emozionante.
Ad esempio sull’estrema destra si trova un altro sac-
erdote che sostiene dal gomito il braccio sinistro del
santo, oppure all’estrema sinistra tre personaggi, due
sorpresi e rivolti verso il soffitto e l’altro pensieroso
con la mano che tende il viso, in segno di cruccio.
Molti dei personaggi rivolgono gli occhi in alto per
la presenza di due angeli che svolazzano tra le nuv-
ole, unici elementi soprannaturali, ma che danno un
ché di religioso che si mescola perfettamente con il
resto dell’opera.
I colori manifestano chiaramente l’influsso dei pit-
tori veneziani e l’illuminazione più intensa in primo
piano, sottolinea lo sviluppo della scena in profon-
dità, dove le ombre dell’arcata lasciano la visuale ad
un tramonto che ricorda i dipinti di veronese.

La comunione di San Girolamo

ANNIBALE CARRACCI

Egli fu la personalità più irruente e vivace dei tre


cugini, nonché il più lontano dalle regole dettate
dalla controriforma, prediligendo il gusto erotico e
il nudo.
Il suo carattere principale si nota, però, già a com-
inciare dalle opere giovanili, come la “bottega del
macellaio”, dove Annibale ha fatto uso di una tecnica
veloce, con pennellate larghe e dense, che donano
alla scena grande plasticità ed energia.
Il carattere di cui si parlava è il crudo realismo e la
chiarezza con cui Annibale dipinge schiettamente
scene di vita quotidiana.
L’opera matura di Annibale è la Galleria Farnese,
commissionatagli da Orlando Farnese.
L’architettura riprende molto quella della Cappella
Sistina e riprende motivi della metamorfosi di Ovi-
dio.

Galleria Farnese, 1597-1600, Roma, Palazzo Farnese

213
CAPITOLO 10 DAL MANIERISMO AL BAROCCO

CARAVAGGIO

Michelangelo Merisi nacque nel 1571, probabilmente a Milano e non


a Caravaggio, cittadina in provincia di Bergamo dove si trasferì con la
famiglia nel 1578 e da cui prese il nome, a quattordici anni rientrò nella
città natale dove andò a bottega presso un pittore manierista, Simone
Peterzano, dal quale ricevette un’educazione artistica convenzionale.
Fu nel periodo lombardo, ossia fino al 1592, che il giovane allievo ebbe
modo di conoscere la pittura di Savoldo, Lotto, Moretto, nonché sec-
ondo recenti acquisizioni critiche, dei Campi di Cremona, entusias-
mandosi per quella pittura realistica giocata su un linguaggio molto
semplice e una religiosità umile e quotidiana.
Nel 1593 si spostò a Roma, una città piena di attrazioni culturali.
Per i primi suoi tempi lavorò presso artisti di poco rilievo, ma subito
dopo riuscì ad entrare nella bottega di
un famosissimo pittore che godeva di grande prestigio presso il papa
Aldobrandini: Giuseppe Cesari, detto il Cavaliere D’Arpino.
Nel 1595 venne introdotto presso il cardinale Del Monte, suo primo mecenate.
Quattro anni dopo ricevette dal cardinale un “importate commissione”: le due tele laterali della Cappella
Contarelli, e successivamente la pala d’altare: queste due opere gli assicurarono una posizione di grandis-
simo rilievo.
Il rapporto di Caravaggio con le committenze pubbliche e con i soggetti sacri fu però sempre controverso:
moltissime pale d’altare e opere a tema sacro che gli erano state commissionate furono poi rifiutate.
Il modo in cui egli dipingeva affascinava i suoi contemporanei ma ciò che egli dipingeva, la nitidezza e la
schiettezza con cui lo faceva era troppo “umana” per essere accettata come oggetto di devozione e vener-
azione.
Così accadde anche per le prime committenze pubbliche con La Conversione e il Martirio di San Matteo.
La sua attività artistica fu sempre ostacolata dal carattere del pittore.
Assiduo frequentatore di taverne e luoghi poco raccomandabili, era spesso al centro di risse e schiamazzi.
La sicurezza con cui ostentava un talento non comune e la facilità con cui scivolava nella violenza gli pro-
curarono non pochi problemi.
Molti erano i suoi nemici anche tra i colleghi. In molti casi, riuscì a venir fuori da situazioni difficili solo grazie
all’intervento dei suoi potenti amici ed ammiratori.
Caravaggio morì a soli 39 anni il 18 luglio del 1610.

RIPOSO DURANTE LA FUGA IN EGITTO

É un dipinto ad olio su tela di cm 135,5 x 166,5


realizzato tra il 1595 ed il 1596.
Il dipinto è conservato nel principale museo di
Monaco, la tela raffigura la fuga di Maria, Gesù
e Giuseppe in Egitto, dopo la strage degli in-
nocenti ordinata da re Erode. Probabilmente
questo di-pinto fu commissionato da un laico.
Molti inserti di natura morta sono dipinti con
l’abilità tipica di Caravaggio, e dimostrano
l’assimilazione della cultura pittorica lombarda
e veneta.
Tutta la scena è permeata dalla pace e dalla
serenità di un meritato riposo, pienamente in-
tuibili grazie all’azzeccata scelta dei colori caldi,
che cantano una vera e propria ninna nanna.
Di notevole bellezza è la postura dell’angelo
musicista, che sembra dividere la scena in due Il riposo durante la fuga in Egitto

214
DAL MANIERISMO AL BAROCCO CAPITOLO 10

parti distinte: a sinistra la vita attiva (Giuseppe che regge lo spartito), a destra la vita contemplativa (il sonno
della Vergine e del Bambino).
Mirabile è anche il piccolo paesaggio sullo sfondo a destra, unico nella pittura caravaggesca insieme a
quello del Sacrificio di Isacco.

MARTIRIO DI SAN MATTEO

Dalla radiografia sappiamo che Caravaggio compose tre diverse versioni del quadro.
Nella terza versione, Caravaggio ambienta la scena in uno spazio profondo, con al centro il martirio del
santo, riverso a terra, con ai lati una corona di astanti che fuggono inorriditi.
La scena è rappresentata all’ interno di una struttura architettonica che ricorda quella di una chiesa (ciò si
deduce dalla presenza di un altare con la croce e di un fonte battesimale) e quindi si atterrebbe alla Leg-
enda Aurea per cui S. Matteo sarebbe stato assassinato dopo una messa.
I personaggi sono stati disposti su una sorta di piat-
taforma inclinata che ha l’effetto di avvicinarli allo
spettatore e aumentare il pathos della raffigurazi-
one.
AI centro del quadro vi è San Matteo che giace a ter-
ra dopo essere stato colpito dal suo carnefice, il per-
sonaggio semi nudo (probabilmente il falso neofita)
che gli blocca il braccio; il corpo di quest’ultimo è
tornito, a ricordo dell’Adamo della Sistina di Michel-
angelo.
La posizione delle braccia di San Matteo, aperte, ri-
chiama la croce, tuttavia egli non è illuminato total-
mente quanto lo è il carnefice, perché egli è già in
Grazia Divina.
Il vero protagonista-peccatore è dunque il sicario, è
su di lui che deve agire la luce salvifica di Dio.
In alto a destra un angelo di ispirazione tardo-man-
ierista, elegantissimo e raffinato anche nella postura
Martirio di San Matteo sinuosa, si sporge da una nuvola per tendere a San
Matteo la palma del martirio.
Attorno, in tutto lo spazio figurativo disponibile, Caravaggio inserisce i fedeli presenti alla messa: due per-
sonaggi di fronte, uno volto in avanti e l’altro presentato con uno scorcio ardito, un bimbo che scappa, altri
uomini scomposti in gesti e posture dalle quali traspare tutto l’orrore e la tensione per essere testimoni di
una scena simile.
È da notare un autoritratto di Caravaggio in fondo a sinistra, nel personaggio che osserva.

Novità pittoriche

- Le braccia dell’uomo a sinistra ed il corpo dell’uomo a destra “aprono” la scena perché sono illuminate, of-
frendo allo spettatore la visione della profondità dello spazio.
- La luce, illuminando il braccio dell’angelo, guida l’attenzione verso il suo gesto: egli dà al santo la palma
del martirio.
- La fuga del bimbo, a destra, è vissuta con partecipazione, poiché egli è illuminato in modo accentuato.

215
CAPITOLO 10 DAL MANIERISMO AL BAROCCO

CANESTRA

Il dipinto è stato realizzato da Caravaggio nel 1600 ca.


È stato richiesto al pittore dal cardinale Francesco Maria Del Monte per regalarlo al cardinale Federico Bor-
romeo di Milano.
Si trova ancora all’Ambrosiana: la biblioteca fondata dello stesso Borromeo.
Stando ai documenti, la Canestra appartenne al Borromeo fin dal 1607.
Egli era un appassionato di natura morta, genere che si stava diffondendo in quegli anni.
La Canestra di Caravaggio è un capolavoro di importanza fondamentale non perché sia il primo, del suo
genere, anzi, il genere della natura morta esisteva già ed aveva una lunga tradizione alle spalle, ma perché
con questo dipinto Caravaggio contravviene alle regole della gerarchia dei generi, sostenendo che la qual-
ità del dipinto non dipende dal soggetto ma dalla fattura.
Con questo quadro si apre una fase nuova, moderna della pittura.
Osservando questo quadro possiamo notare la grande naturalezza, c’è un effetto di cose che sembrano
messe là così come sono: la mela buona, quella bacata, le foglie secche, il cesto di vimini.
Oggi ammiriamo il forte naturalismo, la pienezza delle forme, i colori e la luce così “veri” che riescono quasi
a farci sentire il profumo.
Il rapporto con la realtà è uno degli aspetti più importanti della pittura di Caravaggio.
Inoltre si avverte anche una luminosità e un’ energia positiva, trasmessa da questo quadro, che apparente-
mente allude alla bellezza della natura così com’è in maniera spontanea.
Ma osservando con più attenzi-
one, si notano altri particolari che
possono sembrare abbastanza
strani.
La completa assenza dello sfondo
ci fa capire che Caravaggio non
ha esattamente ritratto dal vero la
scena, ma ha operato una sintesi,
per concentrare tutta la nostra at-
tenzione sul primo piano.
L’inquadratura della canestra è
decentrata, come se il pittore vo-
lesse farci capire che anche le fo-
glie secche sono importanti.
La mela buona è quasi nascosta
da quella bacata, messa davanti,
ben in vista.
Inoltre, la cesta è posata sull’orlo
del tavolo, in bilico e non al cen-
tro, come avviene normalmente,
Canestra di frutta ciò suggerisce un senso di preca-
rietà, transitorietà.
Anche il punto di vista è molto strano: è esattamente perpendicolare al bordo del tavolo, si tratta di una
visione particolare, privilegiata, assolutamente anomala.
É quindi chiaro che la canestra di Caravaggio non è semplicemente ciò che sembra, ma è un’ allegoria,
allude al tema religioso della Vanitas. Ma “la Canestra di frutta” ha le foglie appassite immettendoci in un
clima autunnale.
Tradizionalmente alle nature morte venivano associati significati allegorici.
In questo caso l’appassire della frutta e della verdura sembrano parlare del rapporto strettissimo tra la vita
e la morte.
Pur vivendo nella trasgressione Caravaggio ha inseguito disperatamente la salvezza.
Il concetto della natura effimera della vita e delle cose terrene è una delle riflessioni centrali sulle quali si
soffermano i due cardinali e in particolare il Borromeo.
L’accezione religiosa di questa natura morta è evidenziata soprattutto dall’ uso che Caravaggio fa della luce,
oltre che dalla stessa composizione.

216
DAL MANIERISMO AL BAROCCO CAPITOLO 10

Il colore caldo e dorato della luce allude (riprendendo una tradizione antica, che risale all’ arte bizantina)
alla presenza divina.
Nel quadro ogni oggetto è vivificato dalla luce divina, che si sofferma su ogni cosa e crea questi magnifici
effetti: riflessi, trasparenze, bagliori, inoltre la luce pervade interamente lo spazio, la canestra occupa solo
metà quadro.
La metà superiore del quadro è tutta occupata da questo colore giallo oro: allusione alla presenza di Dio e
alla salvezza nella vita eterna.
É il mondo del trascendente, regno dello spirito che si contrappone alla natura terrena delle cose.
Anche gli stessi frutti non sono stati scelti a caso, sono frutti simbolici riferiti a testi sacri come il Cantico dei
Cantici e ad altre fonti di carattere religioso, filosofico e scientifico, molto ben conosciuti sia da Del Monte
che dal Borromeo.

RAGAZZO MORSO DA UN RAMARRO

Si tratta di un olio su tela delle cui dimensioni 65,8 cm x 52,3 cm datata tra la metà del 1595 e la metà
del 1596. Il dipinto ad olio su tela mostra la figura di un ragazzo dalle parvenze quanto meno effeminate
(questo lo si può visibilmente denotare dal fatto che l’autore lo ha volutamente rappresentato con una
rosa tra i capelli ed una spalla visibilmente scoperta) tutto ciò è stato pensato per far meglio capire il sottile
significato tra amore e dolore.
Il ragazzo è posto dietro una scrivania di fronte ad
una natura morta dalla quale si nasconde un ramaz-
zo che gli morsica un dito.
Dall’espressione facciale del ragazzo che viene mor-
so si riesce perfettamente a percepire un senso di
stupore e di dolore nel vedersi di fronte un animale
spuntar da dietro una natura morta e dall’altro ap-
punto dolore a causa del morso stesso.
Non solo dall’espressione del viso si percepisce
questo misto di reazione ma se vi si pone la debita
attenzione si può notare come la mano sinistra o
meglio le dita della mano sinistra, (quella non mor-
sa) e buona parte del corpo stesso abbiano assunto
una sorta di rigidità nell’atto in cui il dito del giovane
viene morso dall’animale.
Vi è un significato nascosto in questo dipinto: il ra-
marro allude alla delusione d’amore, suggerendo
con la sua azione il rifiuto delle avances del ragazzo.
In effetti il ramarro, animale a sangue freddo, ap-
pare nell’arte e nella letteratura emblematica del
sedicesimo secolo come simbolo della timidezza o
freddezza in amore.
Perciò, quel che dice il quadro del Caravaggio è che
la bellezza a volte nasconde un cuore freddo, e che il
giovane amante lo scoprirà dolorosamente. Ragazzo morso da un ramarro

- Curiosità -

Si dice che, come per il dipinto della Medusa anche per questa opera ne esistano di due modelli: il primo,
ad olio su tela, delle dimensioni enunciate poco sopra (65,8 cm x 52,3 cm), sia stato fatto dalle esperte mani
del Caravaggio, mentre, la seconda datata tra la metà del 1500 e i primi del 1600 sempre ad olio su tela, sia
opera di un allievo del grande Caravaggio.
Altra particolarità del dipinto è data dalla presenza di due piccoli frutti di colore rosso presenti nella natura
morta di fronte al giovane, bene essi in realtà fanno parte di una particolare mora cinese, da non confond-
ere con delle mele.

217
CAPITOLO 10 DAL MANIERISMO AL BAROCCO

GIUDITTA E OLOFERNE

Il quadro fa parte di quella serie di opere dipinte da Caravaggio durante il soggiorno presso il cardinale Del
Monte, nelle quali configura una “seconda fase” della sua pittura caratterizzata da una mutata ricerca della
luce e dei colori, non più dolci e con poche tinte, ma risuonanti di chiari e scuri violenti e gagliardi.
Caravaggio si serviva spesso del nero e rinchiudeva i suoi modelli in una stanza dalle pareti scure che
prendeva luce solo da un’apertura in alto.
“Giuditta e Oloferne” è un dipinto realizzato nel 1598-99, probabilmente per il banchiere genovese Orazio
Costa, è corrispondente a quel periodo in cui l’artista si cimentava nella cosiddetta pittura di storia, ovvero
nella rappresentazione delle storie sacre.
Nei suoi quadri, quindi, doveva
tener conto delle esigenze di una
figurazione più complessa, e cer-
care il modo di comunicare visi-
vamente le situazioni per colpire
lo spettatore.
Per il pittore, i soggetti sacri dove-
vano essere calati nel presente e
la pittura doveva rappresentare
l’intensità e la crudezza della sce-
na il cui corpo è contratto in un
ultimo sussulto, il volto è stravol-
to da una smorfia terrificante, la
bocca spalancata, gli occhi rove-
sciati all’indietro immortalati nel
passaggio dalla vita alla morte.
Questo poi viene contrapposto al
volto di Giuditta di una bellezza
incontaminata, composto e de-
ciso, appena corrucciato in un Giuditta e Oloferne

breve istante di ripensamento.


La rappresentazione è spettacolare e terrificante, poiché tutto è ripreso con estremo realismo: il fiotto di
sangue che esce dal collo reciso, quasi perpendicolare alla lama, il busto muscoloso di Oloferne che avanza
verso lo spettatore, e persino la vecchia nutrice, sulla destra, pronta a raccogliere nel sacco la testa moz-
zata.
L’inserimento di questo terzo personaggio obbedisce ai gusti del tempo per i contrasti in questo caso gio-
vinezza e vecchiaia, infatti Caravaggio indugia impietosamente a descrivere la bruttezza quasi caricaturale
della donna, con il viso segnalato da profonde rughe.
L’inserimento dei personaggi nella scena è studiatissimo: Oloferne è racchiuso in un arco immaginario che
và da un gomito all’altro e che contiene la testa, la figura di Giuditta. Sebbene solida nella posa,si flette
anch’essa in un arco che và dal capo al panneggio dell’abito: un terzo arco comprende la tenda sospesa, che
contribuisce a dare rilievo alla scena.
Infine, un ruolo importante svolge la luce che, piombando dall’alto è forte e contrapposta agli scuri, e viene
utilizzata per evidenziare determinati gesti o figure.
Qui il fascio di luce colpisce la spalla di Oloferne e si concentra sul suo volto e sulla figura di Giuditta, della
quale si evidenzia le braccia e le mani che stanno uccidendo l’uomo, e i lineamenti del volto, mentre le
guance e il collo sono in ombra.

218
DAL MANIERISMO AL BAROCCO CAPITOLO 10

LA VOCAZIONE DI SAN MATTEO

La prima importante commis-


sione di Caravaggio, che ne deter-
minò poi la fama a Roma, furono
le tele per la cappella Contarelli in
San Luigi dei Francesi.
Il pittore teneva molto all’incarico,
e quando questo divenne uffi-
ciale, dipinse senza sosta notte e
giorno, in una vera gara contro il
tempo.
Una di queste tele è “La vocazione
di San Matteo”. Essa rappresenta
la chiamata diretta dell’apostolo
da parte di Gesù.
La scena sacra è raffigurata in un
ambiente povero, senza sfondo
prospettico e illuminato debol-
mente da una finestra posta sulla
parete di fondo, i cui vetri sono
opachi di sporcizia.
Matteo, esattore delle tasse, è
seduto al tavolo con un gruppo di
colleghi intenti nel loro lavoro.
Questi personaggi sono rappre-
La vocazione di San Matteo
sentati in abiti moderni per sotto-
lineare l’attualità del fatto e sono
rivolti a guardare il Cristo il quale, posto sulla destra e accompagnato da Pietro, indica Matteo chiamandolo
a sé in un gesto che ricorda quello della ”Creazione di Adamo” di Michelangelo.
Questo gesto è evidenziato da un potente fascio di luce proveniente anch’esso da destra, e instaura un
dialogo essenziale: Cristo tende il braccio verso Matteo che sembra chiedere, con la mano puntata al petto,
se è proprio lui l’eletto.
La luce, che ha una precisa valenza divina, illumina tutti i volti degli uomini, anche quello dell’avaro insensi-
bile alla presenza divina che continua a contare i soldi, contrapposto ai due eleganti giovinetti che alzano
gli occhi sorpresi.
A destra sono Cristo e Pietro, staccati e in disparte, coperti nell’ombra: Pietro ripete, con la mano nodosa e
tozza, il gesto di Gesù, sottolineando il volere del suo Signore.

LA MORTE DELLA VERGINE

Il dipinto fu eseguito da Caravaggio in una casa in vicolo San Biagio, nella quale era agli arresti domiciliari
per una serie di condanne dovute al suo carattere aggressivo e violento, assunto a partire dal 1600.
L’opera venne commissionata dal brillante avvocato Laerzio Cherubini per la sua cappella in Santa Maria
della Scala a Trastevere.
Il quadro rappresenta una tragica morte qualsiasi dove il cadavere della Vergine è posto scomposto su di
un tavolo nudo, con attorno gli apostoli che compongono un gruppo di figure disperate e dolenti di gente
povera e vestita di stracci, conformemente alla povertà e allo squallore della stanza.
Probabilmente Caravaggio usò come modella il corpo di una prostituta annegata nel Tevere, facendola ap-
parire scomposta con il ventre rigonfio, i piedi divaricati, le caviglie scoperte.
Nessuno dei personaggi si preoccupa di riordinarle i vestiti o porla in una posizione più console, essi piut-
tosto si lasciano andare a gesti ingenui e naturali che esprimono in pieno il loro dolore. All’epoca Caravag-
gio era al corrente del decreto che sottoponeva al giudizio della chiesa le opere destinate ai luoghi sacri ed
era altrettanto consapevole dell’aspetto dissacratorio e indecoroso di questo suo quadro, ma l’artista era

219
CAPITOLO 10 DAL MANIERISMO AL BAROCCO

ormai cosi famoso da sentirsi sicuro e potersi permettere qualsiasi libertà nelle sue interpretazioni delle
scene. Nonostante questo l’opera fu ugualmente condannata e rimossa dai frati di Santa Maria della Scala.
Oltre che dall’iconografia e dal realismo lo scandalo fu provocato dalla forza pittorica del dipinto.
La composizione è organizzata obliquamente lungo il fascio di luce che parte in alto a sinistra rimbalza
sulle teste degli apostoli, accarezza il corpo e il volto della Vergine e termina lungo la schiena piegata della
donna seduta sullo sgabello.
L’ambiente interno non è descritto, ma è caratterizzato soltanto dalla tenda ricurva sopra la scena, per
dare risalto all’avvenimento, mentre ogni figura è realizzata dall’eccezionale attenzione alla fisionomia e
all’atteggiamento ognuno differente dagli altri.
Infine anche in questo dipinto colpisce l’uso della luce che non è mobile è guizzante, ma ferma e risoluta
nell’immortalare nel momento più significativo in ogni minimo particolare.

La morte della vergine

220
CAPITOLO 11

IL BAROCCO

221
CAPITOLO 11 IL BAROCCO

Il Seicento si presenta come un secolo di aspri conflitti e profonde trasformazioni.


É in questo secolo che giunge a pieno sviluppo e trova la sua soluzione lo scontro tra Controriforma e Rifor-
ma, che non risparmia nessun aspetto della vita della società.
Equilibri secolari vengono distrutti; dalla crisi delle antiche certezze emerge una nuova concezione del
mondo; questo avviene in quanto il Seicento non è chiamato solo a ridefinire la carta politica dell’Europa
ma anche l’intera carta dell’universo ad opera delle scoperte galineane che assestano un colpo definitivo
alla cosmologia tradizionale e che comporteranno quindi il diffondersi di una situazione di disorientamen-
to profondo.
All’interno della cultura europea maturano nuove concezioni politiche che affermano la separazione di
religione e politica, fondando la legittimità dello Stato su nuove basi laiche e razionali.
Nel territorio italiano tale processo inizia a farsi sentire solo verso la fine del secolo poiché sino ad allora
l’influenza del potere pontificio rimane viva e determinante sia per la definizione degli assetti territoriali sia
per la promozione della cultura, da ciò si spiega anche come io sviluppo del pensiero scientifico proseguì
nei paesi in cui il controllo della Chiesa sul mondo intellettuale risultava meno efficace.
Nel corso di questi anni, in Italia si succedono una serie di papi illuminati che appartengono alle più influen-
ti famiglie dell’aristocrazia romana: questi pontefici decidono e indirizzano le sorti delle arti figurative, che
fioriscono dando luogo a una stagione quasi irripetibile per l’originalità delle idee e la quantità delle opere
commissionate.
Dopo la svolta controriformista la chiesa di Roma raggiunge infatti il suo apice con Urbano VIII Barberi-
ni (1623-44), Innocenzo X Panfili (1644-55) e Alessandro VII Chigi (1655-67), i quali porteranno al trionfo
dell’arte di Bernini, Borromini e Pietro da Cortona.
Dopo la morte di Alessandro VII si verifica un periodo di crisi, anche a causa della crescente supremazia
esercitata dalla politica del re di Francia Luigi XIV.
Le grandi commissioni pontificie si diradano e lo sviluppo artistico romano attraversa un momento di stallo,
durante il quale altri centri italiani non mancano di dare luogo a una nuova a significativa stagione per l’arte
della penisola.

I CARATTERI DEL BAROCCO

Col termine “Barocco” si definisce, nell’accezione temporale più vasta, l’arte sviluppatasi dalla fine del XVI
sec. ai primi decenni del XVIII sec.. Non tutta l’arte del Seicento può essere inclusa nella categoria estetica
del Barocco: il pensiero critico moderno tende a riconoscere una compre senza stilistica tra una corrente
barocca e una classicista che, negli stessi anni, trovano il loro centro di propulsione a Roma.
In primo luogo il Barocco si configura come un eccezionale contesto culturale basato sul potenziale comu-
nicativo delle immagini, che mirava alla conquista del pubblico e alla sua persuasione.
Il linguaggio pittorico barocco si distingue per il dinamismo e la vitalità delle composizioni, composte spes-
so con pennellate larghe e rapide.
Le figure sono caratterizzate da gestualità esasperate e teatrale, i colori sono caldi, e accesi sono i contrasti
cromatrici.
Si ricorre spesso alle allegorie, non che alla sensualità delle carni, alla morbidezza delle linee. Tutti questi
fattori permettevano una comunicazione chiara ed efficace.
Nella scultura si ricercano ancora effetti stupefacenti, composizioni festose e movimentate; la scultura, tut-
tavia, fu spesso utilizzata come arredo urbano col fine però di celebrare la potenza della committenza.
Rimanendo sempre in campo scultoreo, si ricordo un tipo particolare di essa: una produzione allestita per
celebrare occasioni, o semplicemente per fare spettacolo nelle strade, nei cortei nelle piazze e nelle chiese,
e che poi veniva “smontata”.
Nell’ambito architettonico predomina lo spazio concavo o convesso, e il rifiuto della proporzionalità tipica
dei precedenti secoli.
Gli spazi vengono così dinamici, illusionistici ed infiniti.
Le invenzioni strabilianti esaltavano sia il trionfo della chiesa cattolica che i palazzi nobiliari privati.
I generi maggiormente sviluppati in questo periodo sono: la pittura di frutti e fiori (che trovavano un vasto
pubblico e mercato), le scene di vita popolare e di taverne, rumori all’aperto marine, interni di Chiese, pittu-
ra di interni domestici.

222
IL BAROCCO CAPITOLO 11

L’ILLUSIONISMO

Il Barocco è il trionfo della linea curva, che costituisce delle forme non più chiuse, definite, ma tendenti
all’infinito e volte a dare libero sfogo alla fantasia più sfrenata.
Di conseguenza la rappresentazione dello spazio viene dilatata senza limiti: lo spazio non viene più sem-
plicemente suddiviso in partiture armoniche, come nell’arte classica e rinascimentale, ma viene inventato
nuovamente, espanso all’infinito senza soluzioni di continuità, in accordo proprio con la nuova concezione
dell’ universo promossa da Galileo Galilei.
La luce ha importanza fondamentale per ottenere tale risultato: sia quella dipinta, che, oltre ad essere sim-
bolo dell’ illuminazione divina sottolinea la resa dello spazio e dei volumi; sia quella naturale che dilata la
percezione spaziale delle architetture, e nel contempo crea effetti continuamente diversi al mutare delle
ore del giorno.
L’illusionismo barocco è poi creato dalla verosimiglianza della rappresentazione: ovvero, ottenendo effetti
fantastici nel descrivere luoghi e figure in modo realistico.

UN’ARTE “TOTALE”

Viene poi meno la tradizionale differenza tra architettura, scultura, pittura, arti “minori”: l’opera d’arte baroc-
ca è un’opera d’arte “totale”, in cui le diverse arti e i diversi materiali convivo-no e si compenetrano per con-
seguire un effetto finale unitario: così l’architettura si ammanta di sculture, spesso a stucco, di decorazioni
in marmi policromi, ed è cornice per la pittura.
In sintesi il Barocco è il trionfo della forma aperta su quella chiusa, e nel contempo estremamente affine al
teatro, in quanto leggere un opera barocca è come addentrarsi in una scenografia teatrale.

LA “MERAVIGLIA”

Questa molteplicità di vedute nell’unità dell’opera si estende al campo semantico, perché anche i significati
dell’arte barocca sono un continuo rimando ad altri significati, un continuo rinvio di metafore.
Per l’artista barocco il fine è quello stesso che deve essere per il poeta: la meraviglia.

LA COMMITTENZA

Nel Barocco la committenza, cioè chi ordina ad un artista un’opera, spesso dettandone anche il soggetto
da rappresentare, è per eccellenza ecclesiastica: i pontefici o i cardinali più potenti provenienti dalle grandi
famiglie nobiliari (i Barberini, i Borghese, i Farnese, gli Spada) spesso appas-sionati d’arte e mecenati.
Il centro di formazione dello stile barocco è quindi Roma.

223
CAPITOLO 11 IL BAROCCO

GIAN LORENZO BERNINI

LE SCULTURE: Enea, Anchise e Ascanio

Enea, Anchise e Ascanio è un gruppo scultoreo eseguito da


Gian Lorenzo Bernini, eseguito tra il 1618 e il 1619, conservato
nella Galleria Borghese a Roma.
Domenico Bemini, figlio di Gian Lorenzo, attribuiva l’opera al
padre quindicenne datandola quindi al 1613. Anche Filippo
Baldinucci accettava la datazione proposta, ma considerava
l’opera come frutto di una collaborazione tra Gian Lorenzo e
suo padre Pietro.
Il ritrovamento di una nota di pagamento per il piedistallo ri-
salente al 1619 a posticipato la realizzazione del gruppo scul-
toreo a ridosso di questa data (1618-1619): l’opera sarebbe
stata quindi realizzata da un Gian Lorenzo ventiduenne e senza
alcuna sorta di collaborazione.
Di fatto è comunque il gruppo scultoreo più antico dei quat-
tro realizzati per il cardinale Scipione Borghese (gli altri sono:
Apollo e Dafne, Ratto di Proserpina, David).
Il soggetto è tratto dall’ Eneide di Virgilio: è il momento della
fuga da Troia in fiamme. Enea ha sulle spalle il vecchio padre
Anchise ed è seguito dal figlioletto Ascanio.
Bernini segue alla lettera il testo virgiliano, dove Anchise siede
su una sola spalla di Enea.
La diversa età dei tre protagonisti ha dato occasione all’artista Enea, Anchisio e Ascanio

di sfoggiare il suo virtuosimo tecnico nella resa epidermica vel-


lutata e morbida del bambino, vigorosa e muscolosa di Enea e
cadente e raggrinzita di Anchise.
I tre protagonisti sono colti nel pieno del proprio doloroso
dramma, dove si percepisce il timore del padre Anchise, la virile
rassegnazione di Enea, e la flebile speranza del riccioluto As-
canio che mostra nella fiamma accesa le speranze di una nuova
civiltà.
Lo sviluppo verticale è ani-mato dalla rotazione dei tre corpi
su se stessi, dall’anatomia che ne distingue le età, il tutto com-
preso in un movimento contenuto che accentua la severità e la
gravità del contenuto che la scultura esprime.
Scendendo nel particolare, il movimento è espresso mirabil-
mente nello sforzo di Enea che sorregge il padre fra le braccia,
con muscoli e tendini in piena evidenza, soprattutto nella tor-
sione del ginocchio, piegato dal peso sostenuto.
É forse la prima opera in cui si manifesta una così netta psicolo-
gia espressiva, un’evoluzione stilistica che si manifesta nei gesti
contrapposti, con Anchise che sostiene amorevolmente in alto
il simbolo della patria abbandonata, Enea giovane e severo ma
fiducioso in se stesso e nei presagi che lo designano quale fon-
Enea, Anchisio e Ascanio
datore di una nuova civiltà, e infine il piccolo Ascanio, fanciullo
spaventato che stringe timidamente la fiamma con la quale ac-
cenderà la nuova vita di Roma.
Il tema del gruppo scultoreo è tratto da un passo di Virgilio, ma l’insieme è interpretato con spunti person-
ali, profondità di pensiero e umanità senza precedenti.

224
IL BAROCCO CAPITOLO 11

APOLLO E DAFNE

Gian Lorenzo Bernini esegue questo gruppo sculto-


rio tra il 1621 e il 1623, in concomitanza con altre
due sculture (Enea, Anchise e Ascanio e il Ratto di
Proserpina), tutte destinate al potente Scipione Bor-
ghese per la sua villa del Picino. Oggi l’opera si trova
nella Galleria Borghese a Roma.
Era ospitato nella stessa stanza dell’Enea e Anchise
seguendo il progetto ambizioso di Scipione Bor-
ghese di dare forma moderna ai miti del passato
antico, offrendo l’opportunità ad uno scultore dalle
doti eccezionali come Bernini di confrontarsi con
la letteratura e con la rappresentazione del difficile
tema della metamorfosi.
In queste sculture si esemplifica, inoltre, l’intenzione
di fondere i modelli statuari greco-romani con le
nuove visioni dello spazio proprie del Rinascimento,
e poi del Barocco.
Apollo e Dafne
Il soggetto del gruppo è tratto dalle Metamorfosi
di Ovidio, testo diffusissimo nel XVI secolo, soprat-
tutto tramite stampe e fonte d’ispirazione per artisti
e poeti che amavano rappresentare e cimentarsi nei
temi delle trasformazioni.
Nel testo di Ovidio Apollo si era vantato di saper
usare come nessun altro l’arco e le frecce, per la sua
presunzione Cupido lo punisce colpendolo e facen-
dolo innamorare della bella ninfa Dafne, la quale
però aveva consacrato la sua vita a Diana e alla cac-
cia.
L’amore di Apollo è irrefrenabile, Dafne chiede aiuto
al padre Penéo, dio dei fiumi, il quale per impedire ai
due di congiungersi la trasforma in un albero, il lauro,
che da quel momento diventerà sacro per Apollo.
Bernini rappresenta proprio il momento della tras-
formazione della ninfa in pianta.
La scena è al tempo stesso spettacolare e terribile,
sensuale e tragica.
Rincorsa da Apollo Dafne si protende in avanti, la
sua metamorfosi si compie ed è visibile nelle mani
che prendono la forma di rami e di foglie, i capelli e
le gambe si trasformano in tronco e i piedi in radici;
Apollo la guarda incredulo, ma trattandosi di un Dio
rimane impassibile, invece lo sguardo della Ninfa è
al contempo sbigottito e pieno di terrore.
Come accennato, il gruppo fotografa l’attimo esatto
della metamorfosi. Il contatto tra le due figure av-
viene attraverso il tatto: la mano sinistra sell’Apollo
si posa sul fianco dell’amata, e sembra quasi che è
proprio questo gesto a far avvenire la metamorfosi,
a far trasformare il corpo della bella Dafne in un im-
mobile albero.
Tutti e due i protagonisti sono rappresentati Apollo e Dafne
dall’autore come adolescenti, con i capelli folti e
scompigliati. Il marmo è lavorato magistralmente, e

225
CAPITOLO 11 IL BAROCCO

reso più scabro nella rappresentazione del legno o della roccia, e più morbido e “umano” per la resa dei
giovani corpi.
Il confronto con il testo letterario e con il valore evocativo della parola scritta costringeva Bernini ad inven-
tare una figurazione inedita per creare un effetto di spettacolarità e verosimiglianza, una prova che supera
brillantemente.
Il Mito ha naturalmente un risvolto moraleggiante, interpretabile anche in chiave cristiana, è per questo
motivo che poteva tranquillamente essere esposto nella casa di un cardinale.
Nell’ottica cristiana il significato è quello della difesa della virtù della donna che sfugge alle insidie del
piacere fino alle estreme conseguenze e la delusione amara per l’amante che ha inseguito un piacere effim-
ero. L’immagine ha una sua sequenza temporale, si percepisce il movimento, la provenienza dei protago-
nisti e nel caso di Dafne, il suo aspetto prima e dopo l’attimo raffigurato, ma aveva anche una sequenza che
l’artista con una soluzione da regista teatrale aveva previsto per l’osservatore, che entrando nella stanza dal
lato sinistro, incontrava con lo sguardo prima Apollo, notandone il movimento, poi ponendosi frontalmente
veniva posto davanti allo spettacolo raccapricciante della trasformazione con tutti i suoi particolari.
Infine scorrendo verso destra scorgeva le espressioni drammatiche dei due “attori”, completando la sua im-
mersione nella storia.
L’arte di Bernini sapeva accontentare in pieno i gusti dei committenti che da lui si aspettavano
quell’invenzione e quello scatto di genio che potesse dar corpo alle loro attese, in questo caso creare delle
forme che, nate da un contesto letterario mantenevano, anzi, amplificavano il valore evocativo della pa-
rola.
La spettacolarità dell’immagine tramite i molti particolari verosimili come la carne che si trasforma in legno
o le dita che prendono la forma di sottilissime foglie, è uno dei principi di base dell’estetica Barocca.
Il significato morale cristiano venne dato a questo gruppo marmoreo di tema pagano ed erotico, dallo
stesso committente, che dettò il seguente distico latino “Quisquis amans sequitur fugi! ivae gaudiaformae/
fronde manus implet, baccas seu carpi! amaras” (Chi insegue le forme fuggitive del godimento, coglierà
solo bacche amare).

RATTO DI PROSERPINA

Il Ratto di Proserpina è un gruppo scultoreo di Gian Lorenzo Bernini esposto nella Galleria Borghese di
Roma. Fu commissionato da Scipione Borghese ed eseguito tra il 1621 e il 1622: per l’occasione Maffeo Bar-
berini, il futuro Papa Urbano VIII, che si dilettava di poesia compose un distico dedicato al gruppo.
Fu donato al cardinale Ludovico Ludovisi nipote del papa Gregorio XV e tornò nella Galleria Borghese
all’inizio del secolo scorso.
Il soggetto è tratto dalle Metamorfosi di Ovidio e le-
gato al tema del ciclo delle stagioni.
Proserpina figlia di Giove e Cerere, dea della fertilità
fu notata da Plutone, Re degl’ inferi, che invaghito la
rapì mentre ella raccoglieva fiori, secondo il mito, al
lago di Pergusa presso Enna.
Cerere per il dolore abbandona i campi, causando
la carestia, mentre Giove interviene trovando un
accordo con la mediazione di Mercurio; Proserpina
avrebbe trascorso nove mesi con la madre favoren-
do l’abbondanza dei raccolti, per i restanti mesi
dell’anno, quelli invernali, sarebbe rimasta con Plu-
tone all’inferno.
In ambito cristiano il mito rappresentava il ritorno
dell’ anima umana dal mondo dei morti alla speranza
della vita e la possibilità di redenzione dal peccato e
per questo fu rappresentato nelle porte bronzee di
San Pietro dallo scultore quattrocentesco Filarete.
Plutone è riconoscibile dai suoi attributi regali, la co-
Il ratto di Proserpina
rona e lo scettro, mentre dietro di lui Cerbero figura

226
IL BAROCCO CAPITOLO 11

mostruosa controlla che nessuno ostacoli il percor-


so del suo padrone girando le tre teste in tutte le
direzioni.
L’intento di Bernini è quello di bloccare l’azione al
culmine del suo svolgimento, per rendere attraverso
l’espressività corporea dei personaggi il loro carat-
tere e il dramma che vivono.
La composizione del gruppo segue delle direttrici
dinamiche sottolineate dai movimenti degli arti e
delle teste, accentuato da quello dei capelli e del
drappo che scopre il corpo giovanile e sensuale
della Ninfa sul cui volto rivolto all’ indietro è visibile
una lacrima.
Il corpo di Plutone è invece possente e muscolare
la sua virilità e accentuata dal complicatissimo bra-
no della barba e dei capelli, le ciocche creano delle
pieghe profonde in cui è riconoscibile un abbon-
dante uso del trapano.
Bernini si compiace di offrire agli spettatori brani
di scultura virtuosistica e particolari che rendono
figure reali i personaggi mitici, ma quello che da il
senso dell’ artificiosità della scena è la natura del
Il ratto di Proserpina
movimento.
l’atteggiamento dei due è piuttosto improbabile,
sembrano quasi danzare, con uno spiccato senso
teatrale l’artista offre una “rappresentazione” del Mito, oltre ad un andamento a spirale di gusto ancora
manierista.
Proserpina lotta inutilmente per sottrarsi alla morsa spingendo la sua mano sul volto di Plutone, il quale
affonda letteralmente le mani sulla coscia e sul fianco della donna con un effetto virtuosistico eccezionale
il marmo da Ìa sensazione della morbidezza della carne.
L’opera ha un punto di vista privilegiato, quello frontale, che rende riconoscibili i personaggi e comprensi-
bile la scena, ma è anche perfettamente rifinita in tutte le sue parti, piena di particolari anche minimi, che
invitano l’osservatore ad un esame più approfondito.

DAVID

Il David di Gian Lorenzo Bemini che ri-


prende il mito biblico di Davide e Golia
-il quale vede- Davide (David) affrontare
il gigante Golia armato di una fionda - è
stato scolpito tra il 1623 e il 1624 dopo
che l’opera fu commissionata all’artista
dal cardinale Scipione Borghese.
Bernini, seguendo gli schemi del Baroc-
co, raffigura il David un momento prima
che quest’ultimo scagli la pietra che
ucciderà il gigante Golia, cogliendolo
in una torsione e in una espressione di
sforzo con una massima tensione fisica
ed emotiva.
A differenza della visione rinascimen-
tale, la visione barocca del Bernini è
elaborata nel movimento, coglie tutte
Il David
le espressioni corporee che manifesta-

227
CAPITOLO 11 IL BAROCCO

no lo sforzo riportando anche il minimo particolare,


in una posa sinuosa e plastica.
Il viso del David sembra essere un autoritratto del
Bemini stesso alle prese con la durezza del marmo.
Da notare, la fronte corrugata e gl i occhi rivolti ver-
so il bersaglio, le labbra rientrate a testimonianza
del grande sforzo effettuato nello scatto e i capelli
ondulati (o ricci) che riportano nuovamente alla rap-
presentazione del movimento.
La statua, che si situa nello spazio secondo una strut-
tura a spirale, non è concepita per essere osservata
da una qualsiasi posizione ma, come testimoniato
dallo stesso Bernini, solo in posizione frontale, con la
statua situata dinnanzi a uno sfondo scenico.
Ai piedi del David vi è la corazza (secondo il mito
prestata dal re Saul), lasciata cadere perché troppo
pesante, sotto alla quale è possibile scorgere una
testa d’aquila (innestata nell’arpa che David suonerà
dopo la vittoria) in riferimento alla casa Borghese.
Bernini ha volutamente rappresentato il David in
modo da dare la possibilità allo spettatore di osser-
varlo da tre diverse angolazioni, dalle quali è possi-
bile cogliere altrettanti diversi aspetti della scultura
e del suo movimento.

Il David

ESTASI DI SANTA TERESA

L’Estasi di santa Teresa d’Avila (1647- 1652) è scultura in marmo e bronzo dorato posta nella chiesa di Santa
Maria della Vittoria in Roma, ed è unanimemente considerata dalla critica come uno dei capolavori di Gian
Lorenzo Bernini.
Nel 1647 - in un periodo in cui, con il pontificato di Innocenzo X, la straordinaria carriera artistica di Bemini
stava conoscendo qualche appannamento - il cardinale Federico Comaro affida alle sue qualità di architet-
to e di scultore la realizzazione della cappella funeraria della propria famiglia nel transetto sinistro della
chiesa di Santa Maria della Vittoria.
Bemini, nell’eseguire la commissione, cerca una sua rivincita professionale verso l’atteggiamento tiepido
che il nuovo pontefice mostra nei suoi confronti e chiama, per così dire, a raccolta tutta la sua inventiva di
architetto e di scultore sino a giungere a realizzare uno degli esempi più alti di arte barocca.
Una delle cifre per intendere l’arte barocca è, come noto, il gusto per la “teatralità”: la rappresentazione spet-
tacolare e talvolta anche enfatica degli eventi. In quest’opera Bemini, mettendo a frutto la sua esperienza
diretta di organizzatore di spettacoli teatrali, trasforma, in senso non metaforico ma letterale, lo spazio della
cappella in teatro.
Per far ciò egli amplia innanzitutto la profondità del transetto; poi, aprendo sulla parete di fondo una fin-
estra con i vetri gialli, pensata per rimanere nascosta dal timpano dell’altare, si procura una fonte di luce
che agisce dall’alto, come un riflettore e che conferisce un senso realistico alla irruzione sulla scena di un
fascio di raggi in bronzo dorato, così la luce che scende sul gruppo, attraverso i raggi, sembra momentanea,
transitoria e instabile in modo da rafforzare la sensazione di provvisorietà dell’evento.
Si può facilmente immaginare quanto tale effetto, nella penombra della chiesa, dovesse apparire a quel
tempo suggestivo.
L’elegante edicola barocca, realizzata con marmi policromi, nella quale Bemini colloca la scena dell’Estasi
di Santa Teresa, funge da boccascena del teatro: essa mostra la figura della santa posata su una vaporosa
nuvola che la trasporta - come se fosse operante una macchina da teatro nascosta - verso il cielo.
La trasformazione della cappella in teatro diventa letterale con la realizzazione, ai due lati del palcosce-

228
IL BAROCCO CAPITOLO 11

nicoaltare, di “palchetti” sui quali, in forma di bassorilievo, sono raffigurati - ritratti a mezzo busto - i vari
personaggi della famiglia Comaro.
L’evento privatissimo dell’estasi della santa diviene in questo modo evento pubblico, al quale i nobili spet-
tatori paiono assistere non già con trepido stupore e con vivo trasporto devozionale, ma con staccato dis-
incanto; li vediamo anzi - come avviene spesso a teatro - intenti a scambiarsi i loro commenti.
Ma non è per la famiglia committente, bensì per l’ideale platea dei fedeli che si accostano all’altare-palco-
scenico della cappella che Bernini mette in scena l’estasi della santa.
Egli dimostra qui tutta la sua maestria di scultore, capace di lavorare il marmo come fosse cera, con estrema
attenzione ai particolari.
La veste ampia e vaporosa della
santa, lasciata cadere in modo
disordinato sul corpo, è un capo-
lavoro di virtuosismo tecnico, per
effetto del quale il marmo perde
ogni rigidezza e la scultura sem-
bra voler contendere alla pittura
il primato nella rappresentazione
del movimento.
Commenta a questo riguardo
Ernst Gombrich «Perfino il tratta-
mento del drappeggio è, in Ber-
nini, interamente nuovo. Invece
di farIo ricadere con le pieghe
dignitose della maniera classica,
egli le fa contorte e vorticose per
accentuare l’effetto drammatico
e dinamico dell’insieme.
Ben presto tutta l’Europa lo imi-
tò».
La raffigurazione delle estasi mis-
tiche dei santi e delle loro visioni
del divino, rappresenta uno dei
temi più cari all’arte barocca: i
santi “con gli occhi al cielo” aiuta-
no - seguendo le raccomandazio-
ni dei Gesuiti sulle funzioni peda-
gogiche dell’ arte sacra - a sentire
emozionalmente, con il sangue
e con la carne, cosa significhi
l’affiato mistico che porta alla co-
municazione con Cristo e che è
prerogativa della devozione più
profonda.
Anche sotto questo aspetto, della
Estasi di Santa Teresa
raffigurazione dell’estasi, l’opera
realizzata da Bernini nella cappel-
la Cornaro, sarà destinata a far scuola e ad essere presa a modello innumerevoli volte nella storia dell’arte
sacra. Sul piano iconografico l’Estasi di Santa Teresa è direttamente ispirata ad un celebre passo degli scritti
della santa, in cui ella descrive una delle sue numerose esperienze di rapimento celeste: «Un giorno mi ap-
parve un angelo bello oltre ogni misura. Vidi nella sua mano una lunga lancia alla cui estremità sembrava
esserci una punta di fuoco.
Questa parve colpirmi più volte nel cuore, tanto da penetrare dentro di me.
II dolore era così reale che gemetti più volte ad alta voce, però era tanto dolce che non potevo desiderare
di esserne liberata.
Nessuna gioia terrena può dare un simile appagamento. Quando l’angelo estrasse la sua lancia, rimasi con

229
CAPITOLO 11 IL BAROCCO

un grande amore per Dio».


Il resoconto che la santa ci offre è raffigurato quasi
alla lettera da Bernini nella sua composizione mar-
morea, con il corpo completamente esanime e ab-
bandonato della santa, il suo volto dolcissimo con
gli occhi socchiusi rivolti al cielo e le labbra che si
aprono per emettere un gemito, mentre un cheru-
bino dall’ aspetto di fanciullo giocoso, con in mano
un dardo, simbolo dell’Amore di Dio, scosta le vesti
della santa per colpirla nel cuore.
La interpretazione che studiosi della psicoanali-
si come Marie Bonaparte hanno dato (proprio a
partire dai resoconti di “transverberazione” lasciatici
da Santa Teresa) all’esperienza dell’estasi mistica in
termini di pulsione erotica che si esprime subliman-
dosi nel deliquio dell’afflato spirituale, ha condotto
la critica a sottolineare in quest’ opera di Bernini la
bellezza sensuale ed ambigua dei protagonisti, av-
valorando così la possibilità di una sua lettura in ter-
mini psicanalitici.
Collateralmente a questa interpretazione che
considera l’esperienza di Teresa, e la scultura che
Estasi di Santa Teresa
la ritrae, nei termini di quello che (per usare una
espressione di George Bataille) potremmo chia-
mare “erotismo sacro”, si deve tuttavia osservare che
l’approfondimento della biografia dell’artista napoletano ha recentemente messo nella giusta luce la sua
religiosità; una religiosità che in quel periodo della sua vita (quando aveva circa cinquant’anni) si era raf-
forzata attraverso la pratica degli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, eseguiti sotto la guida dei padri
gesuiti che egli frequentava.
Verosimilmente la lettura della vita di Santa Teresa non dovette essere un fatto occasionale, limitato a sin-
goli passi, segnalati magari dal committente.
Al contrario, alcuni studiosi hanno letto nell’Estasi di Santa Teresa anche l’eco del racconto di altre espe-
rienze mistiche, come quella della santa genovese Caterina Fieschi Adorno.
La straordinaria qualità estetica e l’intensa drammaticità del gruppo marmoreo è dunque da collegare alla
personale ricerca spirituale di Bernini, al suo impegno a scoprire per sé stesso, per poi mostrare a tutta la
comunità dei fedeli, il senso di quell’amore espresso oltre ogni misura verso il Redentore, che trova esempio
nella vita dei santi.
L’influenza dell’opera di Bernini fu enorme non solo sui contemporanei, ma anche su molti artisti dei secoli
successivi.
Il famoso compositore Pietro Mascagni, ad esempio, nel 1922 compose una visione lirica per orchestra dal
titolo Contemplando la Santa Teresa del Bernini, un brano della breve durata di 4 minuti appena.

LA VERITÀ SVELATA DAL TEMPO

Bernini ha creato per se stesso un’opera come monumento alla sua arte della scultura, La Verità svelata dal
Tempo. La raffigurazione del Tempo, che doveva essere posta nella parte alta non fu mai eseguita. L’opera
nacque in un periodo di difficoltà presso la corte papale, per le accuse infondate mossegli dagli avversari
contro il suo operato a San Pietro, che avrebbe causato problemi statici.
Bernini iniziò quindi il lavoro preparatorio alla Verità intorno al 1645 in un periodo critico, dopo la morte
di Urbano VIII. Nel 1625 la figura era qusi completa, ma ancora nel 1665 Bernini espresse l’intenzione di
integrare il gruppo con la figura del Tempo. Nel testamento il Bernini destinò la Verità, come monito in
perpetuo, al primogenito della famiglia; l’opera rimase in casa Bernini fino al 1924, quando fu trasferita alla
Galleria Borghese e collocata nella sala VIII con il plinto inclinato indietro (per l’inserimento di un cuneo di
stucco nella base ottocentesca).

230
IL BAROCCO CAPITOLO 11

Durante il recente restauro è sta-


ta restituita alla base la posizione
orizzontale, e quindi un atteggia-
mento più eretto alla Verità, come
in origine. Il disco solare che sor-
regge nella mano destra è il sim-
bolo della Ragione.
La potente figura della Verità con
riferimento a Michelangelo per
il voluto contrasto tra parti levi-
gatissime e parti incompiute e per
l’affinità alla sciolta tensione nella
fisicità delle figure femminili può
essere considerata la quintessen-
za della scultura barocca. Certa-
mente è la scultura più personale
di Gian Lorenzo Bernini.
La figura è un frammento di una
composizione che prevedeva
uno scenario analogo a quello
dell’estasi di santa Teresa: «una
donna ignuda collocata sopra
uno scoglio in atto ridente... sopra
di essa in aria si vederà il Tempo
che sosterrà un panno, most-
rando di haverla scoperta». Con
quest’opera il Bernini intendeva
rispondere alla campagna diffam-
atoria di cui fu vittima nei primi
mesi del pontificato di Innocenzo
X. Questo nudo sinuoso e grasso,
che ha è uno dei massimi risultati
artistici di tutto il Barocco, fond-
endo in personalissima sintesi i
dettami di un reali-smo pungente
e sensuale e un’eccezionale qual-
ità luministica, che culmina nella
maschera astratta del volto.

La verità svelata dal tempo

231
CAPITOLO 12

IL ROCOCÒ

233
CAPITOLO 12 IL ROCOCÒ

Il termine è usato per indicare l’arte che si sviluppa in Europa nella prima metà del Settecento.
Tra Barocco e Rococò vi sono molti aspetti omogenei, soprattutto per l’identico atteggiamento di privile-
giare una decorazione eccessiva e ridondante, ma vi sono anche delle notevoli differenze.
In realtà i tempi sono diversi e il XVIII sec. Si presenta con caratteri molto diversi dal secolo precedente, e ciò
riflette diversità anche nell’arte.
Il XVII sec. è stato il periodo d’incubazione del mondo moderno: Galilei, Newton, Leibnitz hanno gettato le
basi per il moderno pensiero scientifico, ma ciò avvenne anche con grandi conflitti, perché, come sempre
avviene, ogni rivoluzione incontra sempre una tendenza reazionaria.
In questo caso fu soprattutto la Chiesa cattolica, mai così potente come ora, a imporre un clima di censura
contro le novità di un progresso non accettato.
Tuttavia, i tempi erano decisamente diversi, e la Chiesa, anche per questa sua incapacità di adattarsi al pro-
gresso, non solo in campo scientifico ma anche sociale ed economico, conobbe un progressivo declino.
La grande differenza che passa tra XVII e XVIII sec. è proprio nel diverso peso che ebbe la Chiesa, e la religio-
ne nel suo complesso, sulla vita e sul pensiero del tempo. In pratica, il Settecento è decisamente un secolo
più laico rispetto al precedente. Anche l’arte si appresta, in quanto interprete dei tempi, a diventare più
laica. Le trasformazioni del XVIII sec. non riguardano solo la Chiesa.
Si produsse, in campo sociale, un’altra importantissima trasformazione: il declino sempre più evidente
dell’aristocrazia, a favore di nuove classi sociali emergenti (in particolare la grande borghesia) che acqui-
steranno sempre più il ruolo di egemonia politica. Anche qui la trasformazione non ebbe luogo per caso: i
nuovi orizzonti aperti a Occidente, con la scoperta dell’America, e a Oriente, con la conquista dei territori e
dei mercati asiatici, produssero una rivoluzione straordinaria in campo economico.
I beni di produzione che distinguevano la ricchezza non erano più le proprietà terriere, monopolio delle
classi aristocratiche, ma i commerci e le industrie, per le quali era richiesto ben altro spirito di iniziativa e di
avventura, che l’aristocrazia non possedeva.
Così sia il clero sia la nobiltà, che avevano retto le sorti dell’Europa fino ad allora, cominciarono a declinare,
fino alla definitiva crisi aperta dalla Rivoluzione Francese alla fine del secolo.
Tuttavia il percorso fu diverso: per quasi tutto il XVIII sec. l’aristocrazia mantenne, seppure in posizione di
declino, la sua posizione di monopolio sociale. Infatti l’arte del XVIII sec., soprattutto nella prima metà del
secolo, fu laica, mondana e aristocratica.
Così fu anche lo stile rococò: laico, mondano e aristocratico.
Niente più atmosfere cupe e angosciose, ancora memore di reminescenze caravaggesche, ma colori vivaci,
scene chiare, immagini di gioiosa allegria e vitalità. Rispetto al Barocco, la base estetica rimase la stessa:
l’arte è solo e soprattutto decorazione, che si aggiunge per abbellire.
Anche nei confronti del periodo rococò si è spesso prodotto lo stesso giudizio negativo, a volte anche peg-
gio, che molta critica ha condiviso nei confronti del Barocco.
È tuttavia da rimarcare un carattere di grande novità: in questo periodo si produsse per la prima volta
un’arte totalmente laica.
Con ciò gli artisti ebbero la possibilità di svincolarsi da monopoli più o meno diretti legati alla Chiesa e di
aprirsi a nuovi strati sociali e a nuovi committenti che favorirono il diffondersi dell’arte in più ampi settori
della società.

LA PIAZZA DI TREVI

Domina la piazza di Trevi – il cui nome deriva dal trivio che confluisce su piazza dei Crociferi – la celebre
fontana di Trevi, che compone uno degli scenari più famosi del mondo, e che rappresenta una delle mete
turistiche più visitate della città.
La fontana è l’elemento terminale dell’acquedotto Vergine, uno dei più antichi acquedotti romani, tuttora
in uso fin dal tempo di Augusto. Fu voluto nel 19 a.C. da Marco Vipsanio Agrippa, per alimentare le terme
che egli stesso aveva fatto costruire al Pantheon.
Nel 1453 il papa Nicolò V avviò un’opera di bonifica dell’acquedotto, della quale furono incaricati Leon Bat-
tista Alberti e Bernando Rossellino, archi tetti dell’Acqua Vergine.
L’opera fu evidentemente di estrema importanza per la città, che poteva servirsi nuovamente di acqua
sorgente, invece che dell’acqua del Tevere.
In sostituzione della fontana originaria, a tre vasche – quanti i condotti dell’acqua – e con il prospetto paral-

234
IL ROCOCÒ CAPITOLO 12

lelo a via del Corso, fu realizzato un


nuovo prospetto, che prevedeva
un’iscrizione con gli stemmi del
pontefice e del popolo romano, al
di sotto della quale l’acqua, sgor-
gando da tre getti, si raccoglieva
in una vasca rettangolare.
La fontana che oggi ammiriamo
fu iniziata per volere del papa
Clemente XII, nel 1732, dopo che
nell’area, a partire dal 1640, si
erano intrapresi lavori di restauro
fermatisi, però, a un basamento a
esedra, realizzato da Gian Lorenzo
Bernini.
Nello stesso tempo la famiglia
Poli, proprietaria degli edifici
retrostanti, aveva edificato i due
prospetti simmetrici che avrebbe-
Piazza di Trevi
ro poi fatto da sfondo alla splen-
dida scenografia della fontana.
La spettacolare costruzione barocca, opera di Nicola Salvi (vincitore del concorso bandito da Clemente XII),
capolavoro d’architettura, scultura e ingegneria, è addossata al lato minore di Palazzo Poli, che ne diventa
un’integrazione naturale.
La parte centrale, realizzata in forma d’arco trionfale, assume particolare rilievo, soprattutto nella profonda
nicchia affiancata da una coppia di colonne corinzie ad ordine unico che riprendono, in altezza, l’ordine
gigante delle paraste sulle ali laterali del palazzo.
Al centro della nicchia spicca l’imponente figura di Oceano, trainato su un cocchio a forma di conchiglia da
cavalli marini guidati da tritoni.
E tema centrale della rappresentazione è proprio
l’acqua, nel suo incessante e turbinoso divenire, nel
quale tutto è trascinato.
Artificio e natura si fondono nella rappresentazione
degli scogli e della vegetazione pietrificata, che si
annida sul basamento del palazzo e fin sui bordi ri-
alzati della grande vasca che rappresenta il mare.
L’intera architettura sembra generarsi da questo flu-
ido vitale, nella raffigurazione degli effetti benefici
dell’acqua e della storia stessa dell’acquedotto.
La scogliera, che caratterizza la parte inferiore della
fontana, è opera degli intagliatori Francesco Pince-
llotti e Giuseppe Poddi.
Il gruppo di Oceano, dei tritoni e dei cavalli si deve
invece a Gian Battista Maini, che nel 1738 realizzò i
modelli in gesso mentre le statue definitive furono
compiute in marmo e collocate nella fontana solo
dopo la sua morte, da Pietro Bracci, tra il 1759 e il
1762.
Ai lati della nicchia centrale, inquadrate dalle gi-
gantesche colonne, spiccano le statue della Salu-
brità e dell’Abbondanza di Filippo
Della Valle e i rilievi con la raffigurazione della
Vergine che indica la sogente ai soldati di Giovan
Battista Grossi (con riferimento alla leggenda sec-
Fontana di trevi - oceano ondo la quale l’acqua venne denominata Vergine in

235
CAPITOLO 12 IL ROCOCÒ

omaggio a una fanciulla che avrebbe indicato la sorgente ai soldati romani assetati) e Agrippa che approva
la costruzione dell’Acquedotto, di Andrea Bergondi.
Alla morte del Salvi i lavori furono condotti da Giuseppe Pannini quale nuovo architetto dell’Acqua Vergine.
Il progetto del Salvi venne parzialmente trasformato in chiave neoclassica, con la realizzazione di bacini
regolari, con bordo levigato, nella parte centrale della scogliera, che era stata precedentemente danneg-
giata con il posizionamento delle statue del Bracci.
L’inaugurazione della fontana avvenne il 22 maggio del 1762. Alla fontana è legata una celebre tradizione
popolare, che assicura a chi vi getta una monetina il ritorno nella città eterna (i soldi recuperati in occasione
della pulizia vanno tradizionalmente agli operai addetti alla manutenzione).
Una fontanella sul lato sinistro, invece, detta fontanina degli innamorati, assicura a coloro che vi bevono
eterna fedeltà.

LA PIAZZA DI SPAGNA

Ancora alla metà del ‘600 l’attuale piazza di Spagna non era altro che la somma di due distinte piazze di
forma triangolare, ognuna con la propria autonomia.
Anche il nome era differente e rispecchiava i differenti punti di vista che si affacciavano sullo slargo:da una
parte stava piazza di Spagna, all’ombra della sede dell’ambasciata spagnola, dall’altra piazza di Francia,
sede dell’ambasciata francese.
Anche così si fronteggiavano le due potenze rivali. La presenza delle due ambasciate conferiva importanza
alla sede, contribuendo enormemente ad accrescere la fama di questa parte di Roma, anche quale centro
residenziale e turistico, soprattutto per i viaggiatori stranieri.
Lungo la direttrice di via dei Condotti, sullo sfondo della piazza, si stagliava la Chiesa della Trinità, unita allo
spiazzo sottostante solamente dalla fontana della Barcaccia, opera del Bernini, ma le due realtà risultavano
entità estranee, totalmente scollegate tra loro.
Il collegamento fra la chiesa e la piazza, allo stato attuale, era garantito solamente da una coppia di scale
alberate molto ripide, scale che costituivano più una frattura che un legame, dovuta essenzialmente ad un
forte dislivello.
Il primo ad ideare una scala monumentale che sostituisse l’accesso alla Chiesa della Trinità, fu il cardinale
Mazzarino, che nel 1660 incaricò l’abate Elpidio Benedetti di ricevere i migliori progetti dei più valenti ar-
chitetti romani, affinchè realizzassero una magnifica costruzione, per la quale metteva a disposizione una
forte somma di denaro.
In questa epoca, nonostante una predilezione per l’arte del Bernini, finì per proporre se stesso in qualità di
progettista.
Morto il cardinale Mazzarino, l’impegno per la realizzazione della scalinata passò a Stefano Guaffer, un
membro dell’ambasciata francese.
Purtroppo, dopo aver lasciato una cospicua eredità ai Minimi francesi, con il vincolo di usare la somma per
la realizzazione della scalinata, morì, seguito a distanza di pochi mesi dal cardinale Mazzarino.
Per oltre sessant’anni le sue volontà rimasero solo carta.

DUE PROSPETTIVE, UNA SCALA

Fu Clemente XI a spingere per la realizzazione della scalinata, obbligando i Minimi a mantenere l’impegno
di costruire la via d’accesso utilizzando il lascito ricevuto.
Durante gli anni che vanno dal 1717 al 1720 gli architetti Alessandro Specchi, Francesco De Sanctis, Ales-
sandro Gaulli, Francesco Cipriani, proposero i loro progetti.
Innocenzo XIII scelse il progetto di Francesco De Sanctis, assecondando la volontà dei Minimi che preme-
vano affinché la scelta ricadesse su di un loro architetto.
Il progetto del De Sanctis deve molto ai disegni realizzati dallo Specchi, pur prefigurando con grande origi-
nalità la soluzione definitiva.
La sensibilità artistica del De Sanctis si evidenzia soprattutto nella concezione priva di eccessivi razional-
ismi e aperta alle linee morbide e al gioco.
Le linee seguite dall’architetto nella fase di progettazione sono ampiamente spiegate dal De Sanctis nella

236
IL ROCOCÒ CAPITOLO 12

sua relazione.
Una delle principali preoccupazioni fu quella di realizzare un luogo aperto, scoperto da ogni lato, in modo
tale che anche dal basso fosse facilmente visibile la sommità della scala.
Ciò è dovuto a motivi di ordine pubblico, poiché una delle necessità fondamentali era quella di evitare la
creazione di luoghi coperti o nascosti in modo tale da evitare gli inconvenienti e oscenità varie cui i Padri
del Convento erano abituati.
La ripartizione soddisfa invece al contempo esigenze di ordine pratico ed ideologico, assecondando il titolo
della chiesa, la Trinità.
Le rampe sono infatti suddivise in tre scale centrali, separate da sedili, e ciascuna delle tre scale è a sua volta
divisa in tre rampe ognuna composta da tredici gradini.
Nel mezzo le rampe si unificano in uno scalone solo a formare una nobile piazza, elevata e scoperta, con
altri sedili e un grande obelisco.
Fra gli elementi previsti dal De Sanctis, ma mai realizzati, sono da segnalare una doppia fila di alberi ai lati
dello scalone, in modo tale da offrire una visione più armoniosa e un riparo dalla canicola estiva.
Alternate agli alberi avrebbero dovuto trovare posto statue e sculture e altri ornamento da distribuire in
vari luoghi.
Il vero significato della scala realizzata da Francesco De Sanctis è da ricercarsi nella volontà dell’architetto
di costruire un organismo destinato non solo al passaggio, ma anche alla circolazione e alla sosta delle per-
sone, pensando movimenti e spostamenti all’interno di una cornice che consenta tali attività.
Il maggior merito tecnico che può essere ascritto alla genialità del De Sanctis consiste nella grande abilità
di regista, grazie alla quale è riuscito a rendere unitari una serie di elementi fra loro asimmetrici, irregolari
ed eterogenei.
La mirabile sintesi è dovuta all’effetto illusionistico ottenuto con una sapiente strutturazione dello spazio,
attraverso le serie dei gradini, le pause misurate dei ripiani, l’alternanza di piani concavi e convessi.
La difficoltà principale risiedeva nella mancanza di simmetria fra l’asse della facciata della Trinità e la pros-
pettiva ottica naturale fornita da via dei Condotti.
La soluzione prospettica ideata da De Sanctis obbliga lo spettatore a soffermarsi ora sull’uno, ora sull’altra
prospettiva, senza imporre alcuna scelta, riassumendo le contraddizioni e accogliendo senza soluzioni
rigide che escludessero l’una o l’altra visuale.
Con la scalinata di Trinità dei Monti l’architettura barocca guadagna un monumento essenziale apprezzato
in tutto il suo splendore per la chiarezza e la profonda visione che lo anima.

LUIGI VANVITELLI - LA REGGIA DI CASERTA

L’architetto Luigi Vanvitelli (Napoli 1700 - Caserta) era figlio di un pittore olandese, Gaspard Van Wittel,
detto all’italiana Vanvitelli, perché trasferitosi giovanissimo a Roma dove restò per tutta la vita.
Luigi ha iniziato come pittore di storia, seguito da suo padre, ma si è dedicato soprattutto all’architettura.
Era allievo di Juvarra e studiava i monumenti romani e i testi dei grandi trattatisti.
Si è collocato in una significativa posizione artistica, ovvero fra la fine del rococò e l’inizio del neoclassi-
cismo.
La sua carriera artistica ha inizio negli anni Quaranta,
quando prende in mano la direzione della Fabbrica
di San Pietro ed esegue i lavori di restauro della cu-
pola di Michelangelo.
Da ricordare i suoi interventi nella basilica romana
di Santa Maria degli Angeli, le chiese di San Pietro a
Pesaro, di San Francesco e San Domenico a Urbino,
del Gesù ad Ancona.
Ma la grande occasione, destinata a rivelare le
sue qualità, gli giunge solo quando, poco più che
50enne, viene invitato a intraprendere i lavori della
Reggia di Caserta.
L’idea di far costruire una grande reggia e, attorno
Reggia di Caserta
ad essa, una nuova città, a imitazione di Versailles,

237
CAPITOLO 12 IL ROCOCÒ

come sede del sovrano, della corte e del governo,


viene concepita invece dal nuovo re di Napoli e di
Sicilia, Carlo VII di Borbone.
La Reggia di Caserta viene progettata secondo i
moderni principi funzionali della logica urbanistica.
Prendendo spunto da Versailles, l’architetto separa
il nuovo centro urbano dalla reggia, collocandola
in posizione ortogonale rispetto alla strada che
deve collegare Napoli a Caserta, e in questo modo
l’edificio diviene il fulcro prospettico e simbolico del
nuovo piano urbano.
Il piano del Vanvitelli è grandioso, comprende oltre
al palazzo:
- la sistemazione del palazzo antistante;
- il vasto parco;
- la città;
- l’acquedotto.
Purtroppo però questo progetto non è stato intera-
mente completato, un po’ per le difficoltà finanziarie
Reggia di Caserta
e un po’ per la partenza di Carlo VII in vista del suo
nuovo importante ruolo: Re di Spagna.
Il palazzo ha forma rettangolare ed è costituito da 4 corpi reciprocamente ortogonali (perpendicolare-
angolo retto) e da 2 bracci interni intersecati a croce che delimitano i quattro cortili simmetrici.
La facciata posteriore, prospiciente l’immenso parco, è più variata di quella anteriore a causa dei semipilas-
tri che dividono le numerose finestre, aggettando leggermente sull’ampia superficie muraria e staccan-
dosene anche per il differente colore.
La fronte esterna ha invece un andamento uniforme, la cui monotonia è rotta appena da quelle stesse lievi
sporgenze centrali e laterali che abbiamo notato nell’altra facciata e dai 3 archi al pian terreno.
Infatti la facciata è scandita da colonne e paraste d’ordine gigante alternate a piccole finestre sormontate
da timpani, che evidenziano i volumi dell’edificio scavati solo in corrispondenza del nicchione centrale
sull’ingresso e degli archi al piano terra, che introducono ai cortili interni.
Un altro progetto non realizzato sono le 4 torrette angolari e la cupola sopra l’incrocio dei bracci interni, che
avrebbero permesso una maggiore varietà se fossero state costruite.
Ma l’edificio non è fatto solo per essere visto isolatamente.
Esse deve essere percepito nel complesso scenografico formato dal grande viale di accesso per chi provi-
ene da Napoli; dal piazzale e dall’infilata prospettica del braccio interno longitudinale, al di là del quale si
intravede il parco e, più lontana, la salita verso la collina con le cascate d’acqua.
All’interno, una volta varcato il portone principale, percorrendo la galleria in cui alle ombre si alternano le
luci degli archi aperti sui cortili, si giunge nel punto di intersecazione dei bracci, al vestibolo principale, vero
nucleo del palazzo, che appare quasi costruito attorno ad esso.
Il vestibolo, ottagono, è il punto
di incontro di varie direttrici, che
costituiscono perciò spazi diver-
genti, secondo punti di vista an-
golari, tipici delle scene teatrali
600esche, con un impianto di-
namico che prosegue anche nello
scalone dove, si vengono rivelan-
do aspetti man mano diversi in
relazione al mutare dei rapporti
prospettici.
È la parte più geniale, più creativa,
mossa e al tempo stesso discipli-
nata.
Reggia di Caserta Dal vestibolo centrale, fulcro

238
IL ROCOCÒ CAPITOLO 12

dell’edificio, parte il celebre scalone d’onore che conduce al piano superiore e a un ambiente dalla stessa
pianta ottagonale, dove il visitatore vede aprirsi gli spazi delle stanze di rappre-
sentanza e della cappella.
La prima rampa di scale termina fiancheggiata da due leoni marmorei, simboleggianti la “forza della ragio-
ne” e la “forza delle armi”.
All’interno, oltre alla bella serie si sale, è interessante notare la presenza del Teatro di Corte e della Cappella,
costruita in ricordo di Versailles.
Il Parco è stato concepito unitariamente con il palazzo, del quale è il completamento necessario.
È un vasto complesso dove si fondono elementi del giardino all’italiana disegnato con la libera affermazi-
one della natura boscosa sul colle, dal quale discende l’acqua, alimentando fontane successive, animate da
bei gruppi di statue i cui temi mitici sono trattati elegantemente, con raffinati rapporti ritmici fra le varie
figure, come in un balletto del teatro musicale.
Il palazzo antistante la reggia, realizzato solo parzialmente, avrebbe dovuto avere forma ellittica.
Si è perciò pensato a un’idea berniniana del Colonnato di Piazza San Pietro.
L’opera dell’architetto, proseguita dopo la sua morte dal figlio Catlo, è grandiosa, ma, purtroppo, incom-
piuta, anzi spesso deturpata.
La città è sorta disordinatamente e la visione prospettica anteriore è interrotta dalla presenza della fer-
rovia.

239
CAPITOLO 13

IL VEDUTISMO

241
CAPITOLO 13 IL VEDUTISMO

Il vedutismo è un genere pitto-


rico che ha per soggetto vedute
prospettiche di città o paesaggi,
attenendosi alla realtà in modo
scientifico tramite l’uso della ca-
mera ottica.
Essa era già nota nel Cinquecento,
ma nel Settecento ven- ne perfe-
zionata e resa d’uso comune.
Essa consiste in un sistema di
lenti mobili che proiettano su un
foglio l’immagine capovolta del
soggetto.
La camera ottica mutò totalmen-
te il modo di dipingere del Sette-
Il Campo di Rialto, Canaletto
cento: le architetture divennero il
principale soggetto delle opere
artistiche, perdendo il loro ruolo
di semplice fondale su cui si svolgevano le azioni dei personaggi principali.
Il vedutismo si sviluppò soprattutto a Venezia per via della sua particolarità e suggestività; questo favorì
lo sviluppo di una vera e propria scuola veneziana che tra i suoi maggiori esponenti vantava il Canaletto,
Francesco Guardi e Bernardo Bellotto.
Facevano parte del vedutismo i cosiddetti “capricci” ovvero interventi di mescolanza e sostituzione di alcuni
elementi da un paesaggio all’altro.

GIOVANNI ANTONIO CANAL

Giovanni Antonio Canal, meglio conosciuto come il Canaletto (Vene-


zia, 7 ottobre 1697- Venezia, 19 aprile 1768), è stato un pittore e inciso-
re italiano, noto soprattutto come vedutista.
I suoi quadri, oltre ad unire nella rappresentazione topografica, archi-
tettura e natura, risultavano dall’attenta resa atmosferica, dalla scelta
di precise condizioni di luce per ogni particolare momento della gior-
nata e da un’indagine condotta con criteri di scientifica oggettività, in
concomitanza col maggiore momento di diffusione delle idee razio-
nalistiche dell’Illuminismo, l’artista insistendo sul valore matematico
della prospettiva, si avvale, nei suoi lavori, della camera ottica.
Era lo zio del pittore Bernardo Bellotto, anche lui talora noto come Ca-
naletto.
Fece il suo apprendistato con il padre ed il fratello e cominciò la sua
carriera come pittore di scene per il teatro, attività che era stata l’occu-
pazione del padre.
Giovanni Antonio Canal
Canaletto fu ispirato dal vedutista romano Giovanni Paolo Pannini e in-
cominciò a dipingere nel suo famoso stile topografico dopo una visita
a Roma nel 1719. Il suo primo lavoro firmato e datato conosciuto è Capriccio architettonico (1723, Milano,
collezione riservata).
Una delle sue opere migliori è The Stonemason’s Yard (1729, Londra, National Gallery) che descrive un sem-
plice luogo di lavoro della città.
Canaletto, tuttavia, è meglio conosciuto per le sue grandi scene dei canali di Venezia e del palazzo Ducale.
Molti dei primi lavori di Canaletto, al contrario delle abitudini del tempo, sono stati dipinti “dal vero” (piutto-
sto che da abbozzi e da studi presi sul luogo per essere poi rielaborati nello studio dell’artista).
Alcuni dei suoi lavori tardi tornano a questa abitudine, suggerita dalla tendenza per le figure distanti ad
essere dipinte come macchie di colore, un effetto prodotto dall’uso della camera oscura, che confonde gli
oggetti distanti.

242
IL VEDUTISMO CAPITOLO 13

Molti dei suoi quadri erano venduti agli inglesi durante il loro Grand Tour, tra i più noti il mercante Joseph
Smith (che più tardi fu nominato console britannico a Veneziane, 1744. Fu lo stesso Smith a fare da agente
per Canaletto, aiutandolo a vendere i suoi quadri ad altri inglesi.
Verso il 1740 il mercato di Canaletto si ridusse drasticamente quando,la Guerra di successione austriaca
(1741-1748), portò ad una riduzione del numero dei visitatori britannici a Venezia.
Smith organizzò anche la pubblicazione di una serie di acquaforte di Capricci, ma il ritorno economico non
fu abbastanza elevato e nel 1746 Canaletto si mosse verso Londra, per essere più vicino al suo mercato.
Nella capitale britannica, il successo delle sue vedute gli procurò importanti commissioni, come la Veduta di
Corfù realizzata per il maresciallo Schulenburg o le famose tombe allegoriche dipinte su richiesta di Owan
Mc Swiney.
Canaletto rimase in Inghilterra sino al 1755, pro-
ducendo vedute di Londra e delle residenze dei suoi
patroni. Tuttavia il periodo non fu di totale soddis-
fazione, dovuto in parte allo scadere della qualità
pittorica di Canaletto.
I suoi lavori iniziarono a soffrire di ripetitività, per-
dendo la sua tradizionale fluidità ed incisività e di-
venne così meccanico che un critico d’arte inglese,
George Vertue ipotizzò che l’uomo che dipingeva
con il nome di “Canaletto” fosse in realtà un impo-
store.
Canaletto diede una pubblica dimostrazione del
suo lavoro per confutare, questa lamentela; tuttavia
non riuscì durante la sua vita a recuperare comple-
tamente la sua reputazione.
Dopo il suo ritorno a Venezia, Canaletto fu eletto all’Accademia veneziana nel 1763. Continuò a dipingere
fino alla sua morte nel 1768.
Durante i suoi anni tardi lavorò spesso da vecchi schizzi, ma a volte ha prodotto nuovi sorprendenti compo-
sizioni. Era disposto a fare sottili cambiamenti della realtà topografica pur di ottenere un effetto artistico.
Joseph Smith vendette gran parte della sua collezione a Giorgio III, creando la base per la grande collezione
di dipinti di Canaletto di proprietà della Royal Collection.
Ci sono molti quadri in altre collezioni britanniche.
Tra cui la Wallace Collection di Londra; c’è un insieme di 24 opere nella sala da pranzo della Wobum Abbey,
nel Bedfordshire.
Il prezzo record pagato a un’asta per un Canaletto sono l8,6 milioni di sterline per una Vista di Canal Grande
da Palazzo Balbi a Rialto, venduta da Sotheby’s a Londra nel luglio del 2005, (il nome del collezionista non
è noto).

IL RITORNO DEL BUCINTORO AL MOLO IL GIORNO DELL’ASCENSIONE

Una festa veneziana, una cerimonia che ricorda una vittoria antica, proprio il giorno dell’Ascensione. È lo
Sposalizio del Mare. Raccontato da Canaletto con un suggestivo impianto narrativo.
Che combina i colori sfavillanti della laguna con un efficace taglio prospettico.
Gettando un anello in acqua il giorno dell’Ascensione il Doge rinnovava ogni anno il legame tra Venezia
e il suo mare. È lo Sposalizio del Mare, cerimonia ripetuta nei secoli per commemorare la vittoria ottenuta
intorno al 1000 dai veneziani sui pirati che infestavano l’Adriatico.
Una festa che Canaletto (Giovanni Antonio Canal, Venezia 1697-1768) ha rappresentato in numerose vari-
anti, affidando il fascino della città lagunare alla bellezza orientaleggiante dei palazzi, alla cristallina limpi-
dezza della luce, ma anche alle celebrazioni solenni, ai ricevimenti sontuosi.
Canaletto che aveva iniziato dipingendo scenografie teatrali nella bottega del padre, dipingendo ribalta
completamente il punto di vista dello scenografo: per lui Venezia non è un immobile teatro per le azioni
degli uomini, al contrario i personaggi che animano calli e canali sono dei particolari che, al pari di altri det-
tagli, contribuiscono alla magnificenza della città.
Il dipinto, attualmente nelle Collezioni Reali di Windsor, fu realizzato attorno al 1734.

243
CAPITOLO 13 IL VEDUTISMO

Canaletto raffigura il momento in


cui il Bucintoro, la grande galea
a remi decorata da una tenda di
seta rossa e da bassorilievi dorati,
rientra nel bacino di San Marco.
Il ritmo lento della nave sembra
scandito dalla fuga degli archi
che si intrecciano sulla facciata di
marmo bianco e rosa di Palazzo
Ducale, sulla quale “la vibrazione
della luce scende come un pul-
viscolo luminescente” (Pedrocco);
la ricca decorazione dell’edificio
rivaleggia con gli ori della barca.
In primo piano le limpide acque
Il ritorno del Bucintoro al molo il giorno dell’Ascensione del mare, solcate da un vivace
gruppo di gondole, gondolieri e
aristocratici i cui abiti sono riprodotti con ricchezza di particolari.
Figure definite con tocchi rapidi di colore che si moltiplicano sulla tela, lasciando immaginare il brusio al-
legro della folla.
Ogni imbarcazione traccia sull’acqua la propria ombra, che in Canaletto “non incide mai come macchia, ma
come cesura di vibranti effetti di luce” (Pallucchini).
Felice intuizione, che avrà un séguito nella pittura di luce e colore del secolo successivo.
L’attenzione di chi guarda, però, oltrepassa le gondole, attratta dalla rossa galea e dalle sue sfarzose deco-
razioni, anche se questa non è posta al centro, ma sul lato destro del dipinto.
Intensità del colore e linee di fuga conducono l’occhio su quel punto.
La struttura prospettica non è definita da ampie quinte laterali, né da linee di fuga convergenti verso il cen-
tro; queste attraversano trasversalmente la tela, per incontrarsi sul Bucintoro.
La trasparenza dell’atmosfera, i colori brillanti, la grazia con la quale Canaletto riproduce i particolari senza
essere banalmente fotografico rendono quest’opera vivace ed elegante.
L’artista intende coinvolgere lo spettatore nell’atmosfera gioiosa del giorno di festa e ricorre ad un insolito
(per lui) registro cromatico (dominato dal contrasto tra il rosso brillante e l’oro) e ad un efficace impianto
prospettico; abbandona il ritmo geometrico e solenne della “veduta” e intreccia linee e colori, regalando al
dipinto un fresco tono narrativo.
Luce, colore e prospettiva strutturano quest’opera di Canaletto. Il quale, è noto, faceva uso della camera
ottica per catturare ogni dettaglio e riprodurre con illuministica esattezza la profondità degli spazi e la
prospettiva degli edifici.
Un uso consapevole e non banale, inseguendo non una riproduzione fotografica della realtà, ma un “effetto
di realtà” (Pedrocco).
Egli riutilizzava in modo critico le immagini ottenute con la camera ottica e impiegava con maestria il colore
per ammorbidire la luce e l’atmosfera.
Canaletto si rivolgeva alla realtà non tanto con una razionale fiducia nella possibilità di riprodurla fedel-
mente, ma piuttosto “con un amore per ciò che si vede... che gli fa cogliere di quella realtà il magico mo-
mento della sospensione” (Briganti).

244
CAPITOLO 14

IL NEOCLASSICISMO

245
CAPITOLO 14 IL NEOCLASSICISMO

Il Neoclassicismo inizia alla metà del XVIII sec., per concludersi con la fine dell’impero napoleonico nel
1815.
Ciò che contraddistingue lo stile artistico di quegli anni fu l’adesione ai principi dell’arte classica.
Quei principi di armonia, equilibrio, compostezza, proporzione, serenità, che erano presenti nell’arte degli
antichi greci e degli antichi romani.
Arte che fu riscoperta e ristudiata con maggior attenzione e interesse, grazie alle numerose scoperte arche-
ologiche.
I caratteri principali del Neoclassicismo sono diversi:
1. esprime il rifiuto dell’arte barocca e della sua eccessiva irregolarità;
2. fu un movimento teorico, grazie soprattutto al Winckelmann che teorizzò il ritorno al principio classi-
co del “ bello ideale”;
3. fu una riscoperta dei valori etici della romanità, soprattutto in David e negli intellettuali della Rivolu-
zione Francese;
4. fu l’immagine del potere imperiale di Napoleone che ai segni della romanità affidava la consacrazione
dei suoi successi politico-militari;
5. fu un vasto movimento di gusto che finì per riempire con i suoi segni anche gli oggetti d’uso e d’ar-
redamento.
L’Italia nel Settecento fu la destinazione obbligata di quel “Grand Touf” che rappresentava, per la nobiltà
e gli intellettuali europei, una fondamentale esperienza di formazione del gusto e dell’estetica artistica.
Roma, in particolare, ove si stabilirono scuole e accademie di tutta Europa, diventò la città dove avveniva
l’educazione artistica di intere generazioni di pittori e scultori.
Tra questi vi fu anche David che rappresentò il pittore più ortodosso del nuovo gusto neoclassico.
Con l’opera del David il neoclassicismo divenne lo stile della Rivoluzione Francese e ancor più diventò, in
seguito, lo stile ufficiale dell’impero di Napoleone.
Dalla fine del Settecento, la nuova capitale del Neoclassicismo non fu più Roma, ma Parigi.
Il Neoclassicismo tende a scomparire subito dopo il 1815 con la sconfitta di Napoleone.
Nei decenni successivi fu progressivamente sostituito dal Romanticismo che, al 1830, ha definitivamente
soppiantato il Neoclassicismo.
Tuttavia sopravvisse come fatto stilistico per quasi tutto l’Ottocento, soprattutto nella produzione aulica
dell’arte ufficiale e di stato e nelle Accademie di Belle Arti.
Questa sopravvivenza stilistica, oltre ai consueti limiti cronologici, è riscontrabile soprattutto nella produzi-
one di un artista come Ingres, la cui opera si è sempre attenuta ai canoni estetici della grazia e della perfezi-
one, capisaldi di qualsiasi classicismo.

LE TEORIE E LO STILE

Massimo teorico del Neoclassicismo fu il Winckelmann.


Nel 1755 pubblicava le Considerazioni sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura, nel
1763 pubblicava la Storia dell’arte nell’antichità.
In questi scritti egli affermava il primato dello stile classico (soprattutto greco che lui idealizzava al di là
della realtà storica), quale mezzo per ottenere la bellezza “ideale” contraddistinta da “nobile semplicità e
calma grandezza”.
Winckelmann considerava l’arte come espressione di “un’idea concepita senza il soccorso dei sensi”.
Un’arte tutta cerebrale e razionale, purificata dalle passioni e fondata su canoni di bellezza astratta.
Le sue teorie artistiche trovarono un riscontro immediato nell’attività scultorea di Antonio Canova e di
Thorvaldsen.
La scultura, più di ogni altra arte, sembrò adatta a far rivivere la classicità.
Le maggiori testimonianze artistiche dell’antichità sono infatti sculture.
E nella scultura neoclassica si awerte il legame più diretto ed immediato con l’idea di bellezza classica.
Una pittura classica non esiste, anche perché le testimonianze di quel periodo sono quasi tutte scom-
parse.
Le uniche pitture a affresco comparvero proprio in quegli anni negli scavi di Ercolano e Pompei.
Esse, tuttavia, per quanto suggestive nella loro iconografia così esotica, si presentavano di una semplificazi-
one stilistica (definita compendiaria) inutilizzabile per la moderna sensibilità pittorica.

246
IL NEOCLASSICISMO CAPITOLO 14

Così i pittori neoclassici dovettero ispirarsi stilisticamente alla pittura rinascimentale italiana, in particolare
Raffaello, non all’arte classica vera e propria.
l caratteri della scultura neoclassica sono la perfezione di esecuzione, l’estrema levigatezza del modellato,
la composizione molto equilibrata e simmetrica, senza scatti dinamici.
La pittura neoclassica si riaffidò agli strumenti del naturalismo rinascimentale: costruzione prospettica, vol-
ume risaltato con il chiaroscuro, la precisione del disegno, immagini nitide senza giochi di luce a effetto, la
mancanza di tonalismi sensuali.
I soggetti delle opere d’arte neoclassiche diventarono personaggi e situazioni tratte dall’antichità classica
e dalla mitologia.
Le storie di questo passato, oltre a far rivivere lo spirito di quell’epoca, che tanto suggestionava l’immaginario
collettivo di quegli anni, serviva alla riscoperta di valori etici e morali, di alto contenuto civile, che la storia
antica proponeva come modelli al presente.
La storia antica, quindi, fu un serbatoio d’immagini allegoriche da utilizzare come metafora sulle situazioni
del presente.
Ciò è maggiormente avvertibile per un pittore come il David nei cui quadri la storia del passato è solo un
pretesto, o una metafora, per proporre valori ed idee per il proprio tempo.
Il Neoclassicismo, nella sua poetica, invertì il precedente atteggiamento dell’arte.
Questa, nella sua ricerca della sensazione emotiva o sensuale, sceglieva immagini che materializzavano
l’”attimo fuggente”.
Il Neoclassicismo non propone mai attimi fuggenti, ma, coerentemente con la sua impostazione classica,
rappresenta solo “momenti pregnanti”.
I momenti pregnanti sono quelli in cui vi è la maggiore carica simbolica di una storia.
In cui si raggiunge l’apice di intensità psicologica, di concentrazione, di significato: il momento in cui, un
certo fatto o evento entra nella storia o nel mito.

IL NEOCLASSICISMO IN ITALIA

Il ruolo svolto dall’Italia nella nascita del Neoclassicismo fu determinante.


In Italia furono effettuate le maggiori scoperte archeologi che del secolo: Ercolano, Pompei, Paestum, Tivoli,
che si aggiunsero alle già imponenti collezioni di arte romana che, dal Cinquecento in poi, si erano costitu-
ite un po’ ovunque.
Roma diventò la capitale del Neoclassicismo e fu un ruolo centrale che conservò fino allo scoppio della
Rivoluzione Francese.
Il Neoclassicismo, come fatto stilistico, è sopravvissuto nell’arte italiana per buona parte dell’Ottocento.
Anche pittori che per i soggetti sono considerati romantici, quali Hayez o Bezzuoli, continuano a praticare
una pittura con connotati stilistici neoclassici, che tenderanno a scomparire solo dopo la metà del secolo.

247
CAPITOLO 14 IL NEOCLASSICISMO

ANTONIO CANOVA

(Possagno, 1º novembre 1757 – Venezia, 13 ottobre 1822) è stato uno scultore italiano, ritenuto il massimo
esponente del Neoclassicismo e soprannominato per questo il nuovo Fidia.
Fu soprattutto il cantore della bellezza ideale femminile, priva di affettazioni: basti a tale proposito ricord-
are le opere ispirate alle tre Grazie e a Ebe, oppure alcuni suoi capolavori come Venere uscente dal bagno, la
Venere Italica e la statua dedicata a Paolina Borghese.
La sua arte e il suo genio ebbero una grande e decisiva influenza nella scultura dell’epoca.
Iniziò giovanissimo il proprio apprendistato e lo svolse esclusivamente nella città di Venezia, distante circa
80 km dal suo paese natale, Possagno. Nella città lagunare iniziò a scolpire le sue prime opere. L’ambiente
veneziano fu per il giovane Canova quello della sua formazione.
Egli subì, specialmente nel primo periodo di produzione artistica, l’influenza ed il fascino dello scultore del
Seicento Gian Lorenzo Bernini, indiscusso maestro dello stile barocco.
Ventiduenne, si trasferì a Roma dove ebbe modo di incontrare e conoscere i maggiori protagonisti dell’arte
neoclassica, inserendosi anch’egli in quel clima di capitale della cultura che era la città capitolina del Set-
tecento.
Dopo la sua scomparsa, per tutto l’arco dell’Ottocento, per quanto riguarda l’arte della scultura, i critici sono
concordi nel sostenere come l’Italia non abbia svolto un ruolo di primo piano nel panorama europeo.
Gli è stato dedicato un asteroide, 6256 Canova.
Canova rimase orfano del padre all’età di appena quattro anni.
La madre, Angela Zardo, dopo non molto tempo contrasse un nuovo matrimonio con Francesco Sartori e si
trasferì nel suo paese natale, Crespano.
La sensibilità di Antonio Canova assorbì questi eventi molto profondamente, tanto da restarne segnato per
tutta la vita.
Antonio restò a Possagno con il nonno, Pasino Canova (1711-1794), tagliapietre ed anche scultore locale di
discreta fama.
Questi, avendone intuito la vocazione all›arte della scultura, si procurò di avviarlo e guidarlo nei suoi primi
passi. Già da ragazzino, infatti, il Canova dimostrò di possedere una predisposizione per la scultura model-
lando, con l’argilla di Possagno, opere piccole, ma già bellissime.
È famoso l’episodio che narra di un giovane artista che, verso i sei o sette anni di età, durante una raffinata
cena di nobili personalità veneziane nella villa di Asolo del senatore Giovanni Falier, suscitò enorme mer-
aviglia fra gli invitati, incidendo nel burro in breve tempo, ma già con grande maestria e bravura, la figura
di un leone.
Il padrone di casa, intuendo le grandi potenzialità artistiche ed il grande talento del giovane, si interessò
personalmente del suo futuro, avviandolo allo studio e ad una idonea formazione professionale.
All’età di undici anni Canova iniziò a lavorare a Pagnano d’Asolo, nello studio di scultura di Giuseppe Ber-
nardi-Torretti, non molto lontano da Possagno.
Furono certamente quelli l›ambiente e la scuola d’arte che fecero crescere artisticamente il piccolo Tonin.
Tramite i suoi maestri, i Torretti, Canova ebbe modo di essere introdotto nel prestigioso mondo veneziano,
già ricco di molti fermenti artistici e culturali, ma ancora di influenza Rococò.
Nella città di Venezia egli approfondì e studiò il disegno, frequentando la scuola di nudo dell’Accademia
dove si esercitava, facendosi ispirare dai calchi in gesso della Galleria di Filippo Farsetti.

LA BOTTEGA D’ARTE

Nel 1775, diciottenne e in cerca di nuovi stimoli e nuove esperienze, lasciò lo studio dei Torretti e si mise
in proprio, aprendo una sua bottega d’arte da dove incominciò l’ascesa artistica che lo doveva rendere fa-
moso, prima a Venezia, nel Veneto ed in Lombardia, e poi, piano piano, in tutta l’Europa.
Le prime opere da lui prodotte furono: Orfeo ed Euridice (1776) e Dedalo e Icaro (1779), eseguito per il
procuratore Pietro Vittor Pisani.
Lasciata da parte l’influenza della scultura settecentesca, s’ispirò alla classicità greca, senza però mai cadere
nell’imitazione.

248
IL NEOCLASSICISMO CAPITOLO 14

IL TRASFERIMENTO A ROMA

Nel 1779, dopo aver esposto il Dedalo e Icaro alla


fiera della Sensa in piazza San Marco a Venezia ed
averne ottenuto lusinghieri ed ampi riconoscimenti,
decise di partire per Roma e lo fece il 9 ottobre dello
stesso anno.
Lì, studiò la statuaria antica e frequentò la scuola di
nudo dell’Accademia di Francia e dei Musei Capito-
lini, inoltre ebbe modo di incontrare e conoscere i
maggiori protagonisti dell’arte neoclassica e far
proprie le teorie artistiche, di «nobile semplicità» e
«quieta grandezza» del Winckelmann.
Fu facile per lui inserirsi in quel clima da capitale
della cultura che fu Roma nel Settecento riuscen-
do anche a cre-scere come artista, esercitando per
lunghissimo tempo la sua attività ed influenzando
altri artisti, quali il forlivese Luigi Acquisti.
Proprio da Roma iniziò quel riconoscimento al suo
genio ed al suo talento che gli procurò in seguito un
successo ed una fama mondiale.
A Roma dimorò a Palazzo Venezia e fu ospite
dell’ambasciatore veneto Girolamo Zulian.
Durante il soggiorno romano conobbe la figlia
dell’incisore Giovanni Volpato, Domenica Volpato,
iniziando un’amicizia ed un rapporto faticoso e mol-
to travagliato.
A Roma il Canova eseguirà le sue opere più belle:
Amore e Psiche, Le tre Grazie e numerose altre, tra
cui la “Maddalena penitente”, compiuta nel 1796 e Le tre Grazie
divenuta presto celebre in tutta Europa (la versione
originale è a Genova, Musei di Strada Nuova - Palazzo Bianco; la replica all’Ermitage di San Pietroburgo).

PITTURA

Antonio Canova svolse anche l’attività di pittore, ma


in questo campo artistico non eccelse, producendo
opere che non potevano essere confrontate con lo
splendore e la magnificenza delle sue sculture; per-
tanto, come pittore, fu sempre considerato un artista
non di primo piano.
Durante l’occupazione di Roma da parte dei fran-
cesi, egli abbandonò la città, per fare ritorno al suo
paese natale, Possagno.
Nei due anni che vi soggiornò, si dedicò quasi esclu-
sivamente alla pittura.
Lo stesso Canova nutriva dubbi sulla sua produzi-
one artistica su tela.
In essa però si possono leggere, in trasparenza, la
forte emotività dell’artista, le passioni ed i dubbi che
egli andava rimuovendo nella sua produzione statu-
aria ufficiale.
A qualche suo fedele amico il Canova confidava che
Autoritratto, 1792 dipingeva solo per sé e questo ci fa comprendere

249
CAPITOLO 14 IL NEOCLASSICISMO

meglio la sua ritrosia nel mostrare al pubblico queste opere che, a volte, quasi nascondeva.
Non è un caso infatti che l’opera pittorica del Canova sia in buona parte, o quasi tutta, sempre rimasta di
proprietà dell’artista: oggi è possibile vedere la raccolta nel Museo Gipsoteca Canoviana di Possagno, in
quella che fu la sua casa natale.
In essa si trovano circa 300 opere dell’artista, in buona parte provenienti dallo studio romano del Canova.
Tra le sue tele si ricordano un autoritratto, un ritratto di T. Lawrence e Le Grazie, olio su tela del 1799, il Com-
pianto di Cristo, Tempio, Possagno, 1800.

INFLUENZA DELL’ARTE GRECA

Canova ebbe il grande merito artistico, più di qualsiasi altro scultore, di far rivivere, nelle sue opere, l’antica
bellezza delle statue greche, ma soprattutto la grazia, non più intesa come epidermica sensualità Rococò,
ma come una qualità, che solo attraverso il controllo della ragione può trasformare gli aspetti leggiadri, e
sottilmente sensuali, in un’idealità che solo l’artista può rappresentare evitando le violente passioni e i gesti
esasperati.
Egli, nella sua arte, aveva studiato come ricalcare le tecniche degli antichi scultori greci; dal disegno (schiz-
zo), idea iniziale di un lavoro, passava albozzetto in terracotta o, cruda, o in cera, materializzando subito la
forma reale dell’opera.
La seconda fase era quella dedicata alla statua in argilla sopra la quale veniva colato il gesso.
Su questo modello venivano fissati i chiodini (repère) che, attraverso l’utilizzo di uno speciale compasso
(pantografo), servivano a trasferire nel marmo le esatte proporzioni dell’opera in gesso.
Alcune di queste opere in gesso, complete di repère, sono oggi pezzi unici al mondo e considerati loro
stessi capolavori perché non esistono più gli originali in marmo, andati perduti o di strutti.
Tra gli altri il monumento a George Washington, distrutto in un incendio negli Stati Uniti, i busti di Gioac-
chino Murat e di Carolina Bonaparte, regnanti di Napoli.
Una grande influenza ebbero su di lui i temi e le letture dei classici della mitologia greca, che era solito farsi
leggere mentre lavorava; più di tutte, le opere di Omero.

LO STILE INCONFONDIBILE

Antonio Canova lavorò per papi, sovrani, imperatori e principi di tutto il mondo.
Nelle sue sculture era solito adoperare il marmo bianco che riusciva a rendere armonioso, modellandolo
con tale plasticità e grazia, finezza e leggerezza che le sue figure sembravano quasi avere un proprio movi-
mento, vivere nella loro immobilità.
Un’altra caratteristica particolare del suo talento era la levigatura delle opere, sempre raffinata al massimo,
grazie alla quale i suoi lavori avevano uno speciale effetto di lucentezza che ne accentuava la naturale e
splendida bellezza; una bellezza radiosa di purezza, secondo i canoni del classicismo più ortodosso, la rap-
presentazione della bellezza idealizzata, eterna ed universale.
Rari, e per questo molto ricercati dai collezionisti, i disegni, che rivelano un artista totale, dotato di una vi-
sione assolutamente personale che anticipava molte delle intuizioni artistiche degli anni a venire.

250
IL NEOCLASSICISMO CAPITOLO 14

MONUMENTI FUNEBRI

Nella rappresentazione dei monumenti funebri,


Canova era solito adoperare lo schema classico, a tre
piani in sovrapposizione.
Nei monumenti che ideò per i due Papi, Clemente
XIII e Clemente XIV, al primo livello sono situate le
statue che rappresentano le immagini allegoriche,
che stanno ad indicare il senso della morte.
Al secondo livello è situata la centralità del monu-
mento stesso; il sarcofago. Al terzo livello, a domin-
are l’intera struttura dall’alto, la statua che raffigura
il Papa.
Era questo uno schema consolidato che aveva parti-
colarmente caratterizzato quasi tutta la produzione
relativa ai monumenti funebri del Trecento.
Nel monumento a Maria Cristina d’Austria invece
il Canova, uscendo dalla tradizione, apporta una
Monumento funebre a Maria Cristina d’Austria variazione; in esso egli dà una rappresentazione
dell’oltretomba, idealizzata nella rappresentazione
di una piramide, verso la quale un piccolo corteo funebre si avvicina nell’intento di varcare la soglia che
divide la vita dalla morte.
L’immagine della defunta appare in un medaglione (che viene portato dalla Felicità Celeste, la quale prende
la forma di una fanciulla).
Sulla destra due figure dormienti: un leone, simbolo della Fortezza, altra virtù di Maria Crisitina, e, poggiato
sul suo dorso, un genio alato dai dolci linea menti. Costui rappresenta υπνος (che in greco significa “sonno”).
Nella mitologia greca υπνος è fratello di θανατος (che in greco significa “morte”). Questo indica che la
morte è vista come un sonno eterno.
Quest’opera del Canova è piena di simboli di virtù: il leone accovacciato indica la fortezza, una giovane
donna che conduce un vecchio cieco simboleggia la Beneficenza e lo sposo (sotto la forma di Genio Alato)
rappresenta la Pietà.
Quest’opera viene spesso messa in relazione con la poesia di Ugo Foscolo “Dei sepolcri”.
Anche nei monumenti a stele, il Canova si richiama, e ne risulta evidente il riflesso, alle innumerevoli stele
funerarie che ci sono state tramandate dall’antica Roma.

IL TEMA DELLA MORTE

La rappresentazione della morte nei monumenti funebri fu un tema specifico e caratteristico di tutto il
periodo del neoclassicismo; furono molti gli artisti che lo sentirono particolarmente.
Non è infatti un caso se, nello stesso periodo, anche il poeta Ugo Foscolo riaffermava l’importanza dei sep-
olcri, come memoria del passato e del ricordo dei grandi personaggi che avevano segnato la storia, merite-
voli dunque di esaltazione del valore e del riconoscimento delle proprie virtù.
A differenza del periodo barocco nel quale la morte era intesa come un qualcosa che dava raccapriccio,
funesta e macabra, nell’arte neoclassica era idealmente come il momento culminante della vita stessa.

251
CAPITOLO 14 IL NEOCLASSICISMO

NAPOLEONE

Nel periodo napoleonico il Canova venne scelto e


designato dall’imperatore Napoleone Bonaparte
quale suo ritrattista ufficiale. Di lui l’artista es-
eguì molti ritratti, tra i tanti anche il Monumento
a Napoleone I in bronzo che attualmente si trova
all’Accademia di Brera (copia delle statua di Napo-
leone da Apsley House a Londra). A proposito di
questa opera è da ricordare l’aneddoto che riferisce
di un Napoleone irritato per l’audacia dell’artista, al
punto da rifiutare la statua perché si vergognava di
essere stato ritratto nudo, nella personificazione di
«Marte il Pacificatore».
Il periodo napoleonico fu per Canova un periodo
molto fecondo artisticamente, anche se non volle
mai diventare l’artista della corte dell›imperatore
francese.
Uno dei ritratti che il Canova produsse per la
famiglia imperiale di Napoleone, ed anche uno dei
più famosi e belli, è quello che rappresenta Paolina
Bonaparte, sorella di Napoleone, seminuda, semisd-
raiata su un triclinio romano, con una mela in mano,
nell’allegoria di “Venere vincitrice”.
In questa rappresentazione si sente l’influsso di
un’iconografia cara aTiziano,pur se,nell’intenzionalità
Apsley House, statua di Napoleone del Canova, vi era il desiderio di rappresentare la
tentazione della bellezza femminile come origine
del peccato. Intanto la sua fama cresceva sempre di più, in Italia e all’estero ed aumentavano considerevol-
mente le commesse da tutta Europa.
Papa Pio VII, quale segno tangibile di riconoscenza e di ringraziamento per questo suo grande impegno
nella difesa dell’arte italiana, gli conferì il titolo nobiliare di Marchese d’Ischia.

MORTE

Canova si spense a Venezia la mattina del 13 ottobre


1822, mentre si trovava ospite a casa del suo amico
Francesconi, in una tappa intermedia del suo viag-
gio di ritorno a Roma.
Lasciò suo erede universale il fratellastro, il vescovo
Giovanni Battista Sartori.
Il sepolcro che custodisce le sue spoglie è a Possa-
gno, suo paese natale, in provincia di Treviso, dove
egli stesso, tre anni prima di morire, nel luglio 1819, si
recò personalmente, progettò e fece edificare a sue
spese il Tempio, posandone personalmente la prima
pietra. Questo edificio maestoso, dedicato alla SS.
Trinità, era una chiesa parrocchiale che sarà portata
a termine però solo a dieci anni dalla sua morte.
Il Tempio di Canova a Possagno
Proprio nel Tempio, sempre nel 1832 e per volere del
fratellastro, vennero traslate, come definitiva sede, le
spoglie terrene del grande artista dalla vecchia chiesa parrocchiale dove erano conservate dal 1830.
In questo Tempio, ideato e voluto dal Canova e che egli volle donare ai suoi concittadini, si trovano tuttora
le sue spoglie mortali.

252
IL NEOCLASSICISMO CAPITOLO 14

Il suo cuore è conservato all’interno del cenotafio che i suoi allievi gli
vollero dedicare a Venezia, in Santa Maria Gloriosa dei Frari, navata sin-
istra.
La sua mano destra si trovava presso l’Accademia di Belle Arti di Vene-
zia, ora si è ricongiunta al corpo dell’artista nella chiesa parrocchiale di
Possagno.
La più celebre biografia di Canova dovuta ad un suo contemporaneo
è stata scritta dall’abate forlivese, suo amico e segretario, Melchiorre
Missirini: Della Vita di Antonio Canova. Libri quattro.

Cenotafio di Canova nella Basilica


di Santa Maria Gloriosa dei Frari (Ve)

MUSEO “GIPSOTECA CANOVIANA” DI POSSAGNO

La casa natale di Antonio Canova in Possagno è oggi diventata un museo che raccoglie la pinacoteca
dell’artista (oli su tela e tempere), alcuni disegni, le incisioni delle opere e numerosi cimeli.
Accanto alla casa, sorge la Gipsoteca canoviana, un enorme edificio a forma basilicale, voluto dal fratellastro
dell’Artista, Giovanni Battista Sartori (1775-1858), e progettato (1836) dall’architetto veneziano Francesco
Lazzari (1791-1871) per raccogliere i modelli in gesso (gipsoteca infatti significa letteralmente «raccolta dei
gessi», i bozzetti in terracotta, alcuni marmi che si trovavano nello studio dell’artista a Roma al momento
della sua morte.
Nel 1826 lo studio romano fu chiuso da Sartori, le opere arrivarono a Possagno dopo settimane di trasporto
per terra (con carri trainati da buoi) e per mare.
Nel 1853, tutti gli edifici e le collezioni della gipsoteca e della casa furono ceduti da Sartori al comune di
Possagno.
La Gipsoteca canoviana fu ampliata nel 1957, nell’occasione delle celebrazioni del 200º anniversario della
nascita dell’Artista, con una nuova Ala progettata dall’architetto veneziano Carlo Scarpa (1906-1978).
A Possagno, nella casa natale, Canova trovò spesso l›ambiente adatto per riposarsi dall’enorme mole di
lavoro che gli veniva continuamente commissionata a Roma; si ritemprava all’aria fresca e dolce della sua
terra natia.
Nei suoi «ritiri» di Possagno, mancandogli il marmo, l’artista si dedicava alla pittura per risollevarsi lo spirito
(definiva le tempere, che dipingeva nella «torretta» della Casa, i suoi «ozii»), mentre i Possagnesi erano soliti
riservargli feste e «luminarie» quando ritornava a Possagno dai suoi viaggi a Vienna, Parigi e Roma.
La raccolta delle centinaia di gessi conservati nella Gipsoteca di Possagno sono la testimonianza di un lav-
oro continuo e gravoso che Canova profondeva nelle sue opere: le statue canoviane infatti non nascevano
quasi mai dalla lavorazione diretta e intuitiva del marmo, ma dopo un metodico e precisissimo studio, dal
disegno all’argilla, dal gesso al marmo.
Il modello in gesso, in particolare, veniva realizzato con una colata su un «negativo» ricavato dalla prece-
dente opera in argilla; nel gesso venivano applicati i «repère», chiodini di bronzo tuttora visibili nelle statue
di Possagno, che consentivano - con un apposito pantografo - di trasferire le misure e le proporzioni del
gesso nel marmo.
Inoltre Canova lavorava con i suoi 12 collaboratori che inizialmente sbozzavano la scultura, poi esso la rifini-
va con gli ultimi ritocchi, levigando e dando la forma con le ombreggiature adatte.
Le sculture sembrano vere perché impregnava la spugna nell’acqua del secchio con i suoi strumenti sporchi
la passava sul marmo poroso ed infine ci metteva la cera dando così il colore della pelle.
Molte sculture durante dei restauri sono state rovinate perché si pensava fossero sporche.

253
CAPITOLO 14 IL NEOCLASSICISMO

STORIA
La commissione di questo grande cenotafio si deve a Alberto Di Sassonia-Teschen, in occasione della morte
della sua consorte Maria Cristina, nel 1798.
L’obiettivo dell’opera è di rendere omaggio alla memoria di questa donna e alle sue molteplici virtù.
Il lavoro di realizzazione del monumento si svolse in più fasi dei sette anni successivi, terminando nel set-
tembre 1805.
Per il progetto Canova si servì dei bozzetti già realizzati per un monumento funebre a Tiziano Vecellio per
la basilica dei Frari di Venezia, il quale non fu mai messo in opera.

PAOLINA BORGHESE

Paolina Bonaparte rappresentata come Venere Vin-


citrice, è una scultura neoclassica di Canova.
Questo blocco scultoreo esprime gli idea-li canoviani
nel rispetto delle teorie winckel-manniane; l’amore
per la natura subisce una sublimazione, un supera-
mento negli ideali così da esser tramutato in bellez-
za.
Il marmo della sorella di Napoleone presenta un rig-
ore chiaramente dettato dalla necessità di oggetti-
vare le forme, di ritrovare la trasparenza in contrasto
con gli eccessi e la complessa ridondanza propria
del barocco. La rigidità viene però smorzata dalla
naturale morbidezza con cui sono rappresentati i
drappeggi e il triclinio, abilità che Canova apprende
grazie ai numerosi studi in gesso e in terracotta fi-
Paolina Borghese
nalizzati ad una elevatissima conoscenza del nudo
umano.
L’artista riprende la tradizione dell’antica Roma, ri-
traendo un individuo mortale nelle vesti di un dio, o come in questo caso, di una dea. Inoltre la postura della
figura femminile adagiata e reclinata su un triclinio è quella tipica utilizzata per ritrarre gliermafroditi.
I nudi artistici non erano comuni, hanno infatti dei drappi che strategicamente coprono diversi punti del
corpo. È materia di dibattito se Paolina Borghese abbia posato veramente nuda per la scultura, dato che
soltanto il volto è realistico, anche se in parte idealizzato, mentre la parte superiore del corpo ricalca esat-
tamente i canoni di bellezza neoclassici.
Quando le fu chiesto come avesse potuto posare vestendo così pochi indumenti lei rispose che nello studio
c’era una stufa che le teneva caldo.
La scultura presenta una sfaccettatura mitologica: Paolina in mano tiene una mela, evocando la vittoria di
Afrodite nelGiudizio di Paride:riprende infatti il momento decisivo in cui fu chiesto a Paride di esprimere un
giudizio in riferimento alla bellezza, dovendo scegliere a chi attribuirlo tra tre dee: Era, Atena e Afrodite.
Il premio consisteva in un pomo d’oro presentante un’incisione sulla superficie:“Alla più bella”; Paride scelse
la dea dell’amore.
La scelta del Canova di posizionare quel pomo nella mano della donna pone la scultura stessa all’apice
dell’espressione della bellezza naturale femminile.
La stanza in cui fu esposta la scultura, alla Galleria Borghese ha un soffitto dipinto che ritrae il giudizio, real-
izzato da Domenico de Angelis nel 1779 e ispirato alla facciata di Villa Medici.
La base di legno, drappeggiata come un catafalco, originariamente conteneva un meccanismo che consen-
tiva alla scultura di ruotare, come per gli altri lavori di Canova.
I ruoli dello spettatore e dell’opera erano quindi rovesciati; era la scultura che ruotava, permettendo allo
spettatore di osservarla da ogni angolo stando fermo.
In passato, si poteva ammirare la scultura a luce di candela; la sua superficie lucida non era dovuta soltanto
alla finissima qualità del marmo, ma anche alla patinatura effettuata con lacera.
Il recente restauro della statua ha conservato anche questa patinatura.

254
IL NEOCLASSICISMO CAPITOLO 14

EBE

Ebe nella mitologia greca è la divinità della gioventù,


figlia di Zeus e di Era.
La sua figura appare più volte nei poemi omerici e
viene citata anche da Esiodo.
Nel monte Olimpo Ebe era l’enofora, l’ancella delle
divinità, a cui serviva nettare e ambrosia (nell’Iliade,
libro IV). Il suo successore fu il giovane principe
troiano Ganimede.
Nel libro V dell’Iliade è anche colei che immerge il
fratello Ares nell’acqua, dopo la battaglia con Dio-
mede.
Nell’Odissea (libro XI) è la sposa di Eracle (anche se
l’autenticità del brano non è certa).
Euripide comunque la cita nelle Eraclidi. Non sono
sopravvissuti miti relativi a Ebe.
In Arte, è una famosa statua di Antonio Canova, di
cui esistono quattro versioni: oltre a quella conser-
vata a Forlì, nel Museo di San Domenico in una sala
appositamente dedicata, è possibile ammirarne un
superba versione in gesso alla Galleria d’Arte Mod-
erna di Milano. La dea corrispondente nella mitolo-
gia romana è Iuventas, mentre il suo opposto nella
mitologia greca è Geras.

JAQUES LOUIS DAVID

Jacques Louis David (Parigi, 30 agosto 1748 - Bruxelles, 29 dicembre 1825) era un pittore francese. Dopo una
formazione compiuta in ambito tradizionale, ancora seguendo il gusto rococò, ottenne l’ambitissimo Prix
de Rome che, nel 1775, gli permise di raggiungere l’Italia.
Il quinquennale soggiorno romano fu per lui un periodo tormentato e difficile, poco soddisfacente dal
punto di vista della produzione eppure ricco di esperienze fondamentali, come la scoperta dell’arte italiana
(non solo l’antico, ma anche Michelangelo, Raffaello e Caravaggio) e, verosimilmente, la conoscenza degli
scritti di Winckelmann, Mengs e altri teorici del Neoclassicismo.
Pare che in occasione di un viaggio a Napoli del 1779, David abbia avuto una sorta di improvvisa illuminazi-
one che lo indusse a liberarsi delle esperienze precedenti per guardare agli antichi con gli occhi di Raffaello,
come esempio di stile e di grandezza umanistica.
Jacques Louis David nasce a Parigi il 30 agosto 1748, in una casa del Quai de la Mégisserie, da una famiglia
piccolo borghese: il padre, Louis Maurice David, è un commerciante in ferro che, per elevarsi socialmente,
aveva acquistato - come allora era possibile - una carica di «commis aux aydes», divenendo così fornitore
dello Stato e appaltatore a Beaumont-en-Auge, nel Calvados.
La madre, Marie Geneviève Buron, lontana parente del famoso Pittore François Boucher appartiene a una
famiglia di muratori, nella quale il fratello François Buron è architetto delle acque e foreste e, dei suoi due
cognati, uno è architetto e l’altro carpentiere.
Jacques Louis viene battezzato nella chiesa di Saint Germain l’Auxerrois il giorno stesso della nascita e suoi
padrini sono Jacques Prévost e Jeanne Marguerite Lemesle.
Quando il padre muore, a soli trentacinque anni, nel 1757, sembra per le conseguenze di una ferita ripor-
tata in un duello alla spada, Jacques Louis ha nove anni e viene messo a pensione nel convento del Picpus.
Della sua istruzione si occupa, dopo che la madre si è ritirata in campagna a Evreux, lo zio materno François
Buron, il quale prima lo fa seguire da un precettore privato e poi lo iscrive nella classe di retorica del Collège
des Quatre Nations.
Notate le sue disposizioni per il disegno, lo zio decide di fargli intraprendere la carriera di architetto, ma nel

255
CAPITOLO 14 IL NEOCLASSICISMO

1764, dopo aver frequentato il corso di disegno dell’Académie Saint Luc, David manifesta la sua intenzione
di dedicarsi alla pittura, e allora la famiglia lo raccomanda a François Boucher, primo pittore del re, il quale
però, ormai anziano e malato, consiglia di affidarlo al pittore Joseph Marie Vien.
Dal 1766, oltre a fargli frequentare il proprio atelier, il Vien lo fa studiare nell’Académie royale dove, sotto la
direzione di Jean Bardin, David apprende miglioramenti lenti e difficili: la novità dell’ambiente romano, con
la viva presenza delle antichità classiche che si contrappongono a quel gusto dell’antico prima soltanto col-
tivato da David attraverso suggestioni puramente letterarie, ha inizialmente sul giovane pittore un effetto
straniante e paralizzante, tanto da portarlo a dubitare di poter mai migliorare nella sua arte.
Tuttavia il tratto del suo disegno si trasforma, si fa più incisivo e scabro, si depura della vaporosità del ro-
cocò.
Le copie delle tele del Cinquecento e del Seicento romano gli sono utili soprattutto allo scopo di impadron-
irsi del segreto del metodo compositivo dei grandi maestri del passato.
Nel luglio del 1779, David comincia a manifestare i primi segni di una crisi depressiva che si prolungherà per
alcuni mesi: per svagarsi, viaggia a Napoli in compagnia dello scultore François Marie Suzanne e insieme
visitano le rovine di Ercolano e di Pompei.
In questa occasione David dichiara apertamente la sua conversione al nuovo stile ispirato all’antico: dirà
che era come aver fatto un’operazione di cataratta: compresi che non potevo migliorare la mia maniera, il
cui principio era falso, e che dovevo separarmi da tutto ciò che in precedenza avevo creduto essere il bello
e il vero.
È possibile che l’influsso dell’antiquario Quatremère de Quincy, seguace di Winckelmann e di Lessing, sia
stata importante per la risoluzione di David, Era dal 1781 che David pensava di fare, per rispondere ai de-
sideri dei Batiments du Roi, una grande pittura di storia, ispirata al duello degli Orazi e dei Curiazi e perciò
anche alla tragedia di Corneille, Horace, molto popolare in Francia.
Solo tre anni dopo David conduce in porto il progetto scegliendo però un episodio assente nella pièce cor-
neilliana, Il Giuramento degli Orazi, ripreso forse dalla Histoire romaine di Charles Rollin, ispirato dalla tela
“Il giuramento di Bruto” del pittore britannico Gavin Hamilton.
Grazie all’aiuto finanziario del suocero, David parte per Roma nell’ottobre del 1784, accompagnato dalla
moglie e dal recente vincitore del Prix de Rome, suo allievo e assistente Jean Germain Drouais.
Alloggiato a Palazzo Costanzi, prosegue a dipingere la tela, già iniziata a Parigi.
Il giuramento degli Orazi è un’opera neoclassica dai contenuti repubblicani fu fatta da Jacques Louis David
su commissione del re Luigi XVI; dipinta a Roma fu poi trasportata al museo di Louvre di Parigi dove si trova
attualmente.
La data della sua esecuzione, a soli 4 anni dallo scoppio della Rivoluzione francese, fanno di questo quadro
la rappresentazione del clima prerivoluzionario della Francia.
Il tema è romantico ma l’ambientazione è neoclassica.
Il soggetto e ispirato alla leggenda romana secondo la quale, nell’età del re Tullo Ostilio tre fratelli Orazi
furono scelti per combattere contro i tre fratelli Curiazi per decidere le sorti della guerra tra Roma ed Alba-
longa.
Il soggetto storico e l’esaltazione dell’eroismo, non solo da parte dei tre fratelli che mettono a rischio la
propria vita ma anche delle donne che devono pagare il prezzo del dolore.
Iconografia: la scena è collocata in un cortile di severa e spontanea solidità che mette in evidenza l’importanza
del fatto il porticato a tre arcate divide lo spazio antistante in tre zone corrispondenti a tre momenti psico-
logici: al centro la ferma volontà del padre che assume un aspetto solenne, ha in mano le tre spade che sta
per consegnare ai figli dopo aver accolto il loro giuramento, l’altra sua mano è sollevata in alto a simboleg-
giare la superiorità del principio per il quale vanno a combattere, la difesa della patria e delle loro famiglie.
A sinistra l’adesione totale al giuramento postogli dal padre “vincere o morire”, vi sono i tre fratelli visti di
scorcio cosi che vanno a formare un unico corpo.
Hanno le gambe leggermente divaricate in avanti, il braccio proteso, i loro lineamenti sono tesi, le espres-
sioni sono concentrate, esprimono la loro determinazione a sacrificare la propria vita a destra, le mogli
degli Orazi con due figli, esprimono l’angoscia silenziosa per la coscienza del dramma, sono accasciate ed
addolorate anche se non piangono, perché sopportano ciò con grande dignità; infatti, comprendono la
necessità di quel gesto tutto e definito.
Non ci sono sfumature forme disegnate con grossa precisione il rilievo e dato al classico trattamento chiar-
oscurale la determinazione degli uomini determinato e percepito dalle linee rette nette, triangolari o paral-
lele o intersecanti e l’impianto prospettico centralizzato nell’incontro degli sguardi e delle mani abbandono

256
IL NEOCLASSICISMO CAPITOLO 14

doloroso delle donne dato dalle linee ondeggianti dei corpi e dalla disposizione obliqua in profondità col-
ori freddi la luce proviene dal lato e dà statuarietà ai corpi degli uomini e ne accentua l’evidenza, colpisce
fortemente il viso del padre e scivola delicatamente sui corpi delle donne. La luce è netta e tagliente.

IL GIURAMENTO DEGLI ORAZI

La tela non doveva superare i tre metri per tre, secondo la commissione reale, ma David finisce per in-
grandirla di alcuni metri - le sue dimensioni sono di 3,30 x 4,25 metri - e questa sua noncuranza delle istruzi-
oni ufficiali gli varranno la nomea di artista indipendente, se non ribelle.
Oltre tutto, prende l’iniziativa di esporre l’opera già nel suo studio romano, prima della presentazione uf-
ficiale al Salon, dove produce una profonda impressione negli ambienti artistici.
Anche se fu definito dal diret-
tore dell’Accademia «un attacco
al buon gusto», esso fu acclamato
dai più come «il più bel quadro del
secolo».
Il dipinto rappresenta il momento
in cui i tre fratelli Orazi giurano di
sacrificare la propria vita per la pa-
tria. La scena è inserita davanti a un
semplice portico con archi a tutto
sesto, ognuno dei quali racchiude
uno dei gruppi dei personaggi, al-
lineate su uno stesso piano-scena:
i tre fratelli, il padre che unisce le
tre spade e le spose piangenti,
quest’ultimo gruppo facendo da
contrappeso emozionale ai due
precedenti.
Nella sua semplicità e gravità, la
tela può essere accostata sia ai bas-
Il Giuramento degli Orazi
sorilievi antichi, che alle opere del
primo Rinascimento, allora al cen-
tro di una nuova riscoperta e assunse grande importanza anche perché riuscì a rappresentare lo stato
d’animo di molti francesi di quel delicato periodo.
Vi si lesse l’esaltazione dei valori di rigore morale e spartana semplicità dell’antica Repubblica romana, sec-
ondo il dettato di una lunga e fortunata tradizione retorica, ma non sembra che si percepissero messaggi
rivoluzionari.
Del resto, lo stesso David, in una lettera del 1789, descrivendo il dipinto non accenna a significati rivoluzion-
ari, ma la Rivoluzione si «impossessò» dell’opera, traendovi l’esaltazione della fede repubblicana.
II giuramento degli Orazi consacra David come capofila della moderna scuola di pittura, che si chiama Vrai
style (vero stile).
Egli è così anche soggetto alle gelosia di molti colleghi d’Accademia, tanto che il del è annullato, perché i
candidati sono tutti suoi allievi e la sua candidatura alla direzione dell’Accademia è respinta.
Il quadro, commissionato a David subito dopo l’uccisione dell’amico del popolo, avvenuta nel Luglio 1793 ad
opera della cospiratrice Charlotte Corday, rappresenta il cadavere di Marat lì dove era avvenuto l’omicidio,
ossia nella vasca in cui era costretto a trascorrere molte delle sue ore per lenire una grave affezione cutanea,
e perciò attrezzata come studio con un tavolaccio.
La donna che lo assassinò si era introdotta dal politico con la richiesta di un aiuto, difatti mentre egli le fir-
mava un assegno fu accoltellato.
Buona parte del quadro è vuota, con uno sfondo neutro che isola il soggetto; gli assi di simmetria bilanciano
la distribuzione dei pesi: rispetto ad essi le parti sono asimmetriche ma equilibrate (ponderatio classica);
la luce proviene dall’alto a sinistra e illumina il volto sereno e gli oggetti del dramma; la descrizione degli
oggetti è precisa (si legge il testo della lettera).

257
CAPITOLO 14 IL NEOCLASSICISMO

Tutto parla della nobiltà del politico. Il giusto muore col sorriso sulle labbra. L’assegno appena firmato sul
blocco di legno testimonia la generosità dell’uomo; nella mano c’è la lettera della traditrice.
La penna era lo strumento della battaglia del politico. Vicino c’è il coltello, lo strumento dell’assassina.
Il tavolaccio dello scrittoio e il ceppo di legno ci dicono della semplicità dell’uomo.
La dedica di David a Marat incisa nel blocco con caratteri latini è l’epigrafe di un monumento alla memoria
di un eroe.

MARAT

All’annuncio dell’assassinio di Marat, il13 luglio 1793,


la Convenzione incarica David di fare per Marat quel
che aveva fatto per Lepeletier.
Amico di Marat, David era stato tra gli ultimi ad aver-
lo visto ancora vivo.
Egli si occupa anche dei funerali che si svolgono il
16 luglio nella chiesa dei Cordeliers.
In ottobre, la tela è terminata e viene esposta, insie-
me con quella di Lepetelier, nella sala delle sedute
della Convenzione dal novembre del 1793 fino al
febbraio del 1795.
La tela presenta in una luce caravaggesca la figura
di Marat abbandonata alla morte del corpo emerge
dalla vasca come da un sarcofago, con il capo av-
volto in un panno che evoca l’infula di un antico
sacerdote.
L’uomo ha in mano la lettera con cui la Corday gli
chiedeva udienza, per introdursi in casa sua, ed ha
accanto una cassa di legno che funge da scrittoio,
con ‘penna e calamaio, sulla quale il pittore incide la
propria dedica: A MARAT - DAVID.
Nel dipinto David non ricorre a tradizionali repertori
retorici per commentare l’omicidio, ma si limita a
descrivere il fatto, dal quale tuttavia emerge la virtù
La morte di Marat
di Marat e, di conseguenza, la condanna del delitto.

DESCRIZIONE DEL DIPINTO

II tribuno era sofferente da tempo, e tuttavia continuava a lavorare; era povero, come dimostra la rozza cassa
che gli fa da tavolino, e perciò onesto; era generoso, perché benché povero egli stesso, mandava un asseg-
nato a una donna il cui marito difendeva la patria in pericolo; il delitto è tanto più infame, perché perpetrato
contro un uomo virtuoso ricorrendo al tradimento della falsa supplica.
La composizione, di accentuata essenzialità, è costruita su un ritmo orizzontale spezzato dal braccio del
morto che cade verticalmente, ed evoca in alcuni tratti - la solennità, la ferita al costato, l’espressione man-
sueta della vittima - quasi un Cristo morto, come ricorda il reclinare del capo sulla spalla e il braccio che
evoca quello analogo della giovanile Pietà michelangiolesca e della Sepoltura di Caravaggio.
Più della metà del dipinto è vuota e buia, a evocare la morte e il lutto.
«Nel quadro c’è un deciso contrapposto di ombra e di luce, ma non c’è una sorgente luminosa, che lo gius-
tifichi come naturale.
Luce sta per vita, ombra per morte: non si può pensare la vita senza pensar la morte e inversamente.
Anche questo è nella logica della filosofia di David.
La fermezza e la freddezza del contrapposto luce-ombra dà al dipinto un’intonazione uniforme, livida e
spenta, i cui estremi sono il lenzuolo bianco e il drappo scuro.
In questa intonazione bassa spiccano, agghiaccianti, le poche stille di sangue: segnano l’acme di questa

258
IL NEOCLASSICISMO CAPITOLO 14

tragedia senza voci e senza gesti».

L’ARTE DI DAVID

Nella sua formazione e nel percorso artistico David è innanzi tutto un pittore di storia, il «genere grande»
della pittura, secondo la classificazione elaborata da Féliben nel XVII secolo:
«colui che dipinge paesaggi alla perfezione sta in un grado più alto di chi dipinge solo frutta, fiori e con-
chiglie. Colui che dipinge animali vivi merita maggior considerazione di chi dipinge cose morte e prive di
movimento [...] colui il quale imita Iddio dipingendo figure umane, è assai più eccellente di tutti gli altri [...]
il pittore che fa solo ritratti non ha ancora raggiunto la perfezione nell’arte [...] per questo è necessario pas-
sare dalla rappresentazione di una sola figura a quella di più figure insieme, trattare la storia e la mitologia,
rappresentare, come gli storici, figure grandi [...] bisogna saper adombrare sotto il velo delle allusioni mito-
logiche le virtù dei grandi uomini e i misteri più elevati».
E David, fino all’esilio, attribuisce la maggiore importanza alle composizioni storiche ispirate a soggetti tratti
dalla mitologia - Andromaca, Marte disarmato da Venere - o dalla storia romana e greca - Bruto, Le Sabine,
Leonida.
Con la Rivoluzione, cerca di adattare la sua ispirazione fondata sull’antico a soggetti del proprio tempo,
dipingendo anche opere con soggetti contemporanei: il giuramento della Pallacorda, La morte di Marat,
L’incoronazione.
Il secondo genere prediletto, ancora sull’esempio di Félibien, è il ritratto.
All’inizio della carriera e fino alla Rivoluzione, ritrae suoi famigliari e notabili della sua cerchia, poi Napoleone,
il papa e qualche esponente del regime; in questo genere, il suo stile prefigura la ritrattistica di Ingres.
Il suo catalogo comprende anche tre autoritratti.
Solo tre sono i soggetti religiosi: un San Girolamo, il San Rocco che intercede presso a Vergine, e un Cristo in
croce. Gli si attribuisce un solo paesaggio e nessuna natura morta.

I DISEGNI

L’opera grafica di David si divide in due gruppi: nel primo, disegni originali, fregi classici, caricature, il celebre
schizzo di Maria Antonietta condotta al patibolo e progetti di medaglie e di costumi; nel secondo, schizzi e
abbozzi preparatori alle tele, dalla semplice idea fino all’elaborazione ricca di dettagli, ai disegni di monu-
menti e di paesaggi romani raccolti nei suoi album che utilizza da modelli per le future composizioni. Le
tecniche impiegate vanno dal carboncino alla matita, dall’acquerello all’inchiostro.
David, nato in pieno periodo rococò, non poté che esserne un rappresentante.
Il soggiorno in Italia fu fondamentale per lo sviluppo della sua personalità artistica, potendo conoscere e
apprezzare due maestri del Rinascimento come Raffaello e Correggio, un classicista come Guido Reni fino
alla scoperta di Caravaggio e della sua scuola.
AI suo ritorno da Napoli, maturato l’abbandono della formazione barocca, la sua conversione al Neoclas-
sicismo passa innanzi tutto attraverso gli insegnamenti del proprio maestro Joseph Marie Vien, dalla medi-
tazione dell’opera di Poussin, di Gavin, di Hamilton, di Pompeo Batoni, di Raffaello Mengs e dei suoi studi
dell’antichità, favoriti dall’opera di Winckel-mann.

LO STILE

La novità di David consiste nell’aver combinato una ispirazione sia estetica che morale, unendo ragione e
passione, piuttosto che l’imitazione della natura e dell’antico.
Con il Belisario e II giuramento degli Orazi David trova il suo stile che varierà appena con Le Sabine.
Nel ritratto, la sua maniera è più libera, vicina al naturalismo di Chardin, e rappresenta un’evoluzione al ri-
tratto psicologico iniziato da Quentin de la Tour.

259
CAPITOLO 14 IL NEOCLASSICISMO

LA TECNICA

La tecnica utilizzata da David è visibile negli abbozzi incompiuti che ci sono rimasti e che permettono di
osservare la sua maniera di dipingere e di conoscere i processi di realizzazione.
Così, l’incompiuto Ritratto di Bonaparte lascia apparire lo strato di preparazione di pigmenti bianchi a base
di piombo sul quale dipinge, ma egli dipingeva anche su una preparazione collose.
La tavolozza di David era costituita nell’ordine dai colori: bianco piombo, giallo Napoli, ocra gialla, ocra
rossa, ocra Italia, bruno rosso, terra di Siena bruciata, lacca carminio, terra di Kassel, nero avorio, nero pesca
o vigna.
Indistintamente blu di Prussia, blu oltremare, blu minerale, poi poneva sotto questi colori cinabro e ver-
miglione.
Verso la fine della carriera aggiunse il giallo cromo e il cromo rosso per dipingere i soli arredamenti.
Nella composizione, abbandona la struttura piramidale in voga nel XVII secolo preferendo quella a fregio
ispirata ai bassorilievi antichi, generalizzandola a partire da II giuramento degli Orazi, una composizione di
struttura rettangolare.
Probabilmente David utilizzava uno schema ortogonale basato sul ribaltamento dei lati minori del rettan-
golo, ma nessun disegno di David mostra tracciati che permettano di verificare il suo modo di comporre.

FILIPPO JUVARRA

Filippo Juvara (noto anche come Juvarra) nacque a Messina nel 1678 da una famiglia di argentieri, padre e
fratelli orafi; manifestò sin da piccolo un’inclinazione speciale per il disegno e sviluppò con estrema facilità
la sua straordinaria capacità di espressione grafica, oltre a doti non comuni per le belle arti.
Seguì contemporaneamente gli studi di teologia e architettura e, dopo avere eseguito alcuni lavori a Mes-
sina, tra questi la Chiesa di San Gregorio, fu ordinato sacerdote a venticinque anni.
In quel periodo Messina, dopo la ribellione alla corona spagnola, versava in condizioni di estrema difficoltà
politica ed economica e molti suoi figli d’ingegno dovettero prendere la via dell’esilio.
Tra questi Filippo Juvara che si trasferì a Roma alla scuola di Carlo Fontana (1703), nel 1705 conseguì il
primo premio al concorso clementino con un progetto di villa.
Nel 1715 Juvara partecipò, insieme a Nicola Michetti, Antonio Canevari e ad altri al concorso per la sacrestia
della Basilica di San Pietro.
Il successo fu unanime, ma il progetto (di cui resta un modello, in cattive condizioni, nei depositi della Ba-
silica) non fu mai posto in opera per i costi troppo elevati. È suo il disegno della Cappella Antamori in San
Girolamo della Carità a Roma.
Avaro di soddisfazioni fu un altro soggiorno romano, quello del 1735.
La facciata di San Giovanni in Laterano, per cui Juvara aveva preparato alcuni “schizzi” e disegni a mano
libera, fu infatti costruita da Alessandro Galilei.
Il successo vero e proprio arriva per Juvarra nel 1714 quando fu chiamato a Torino da Amedeo II di Savoia su
raccomandazione del cardinale Pietro Ottoboni per il quale Filippo aveva svolto attività di scenografo;
subito dopo il grande architetto messinese inizia il progetto per la Basilica di Superga.
L’impostazione della chiesa, assolutamente geniale, è a pianta centrale su un alto basamento che impone
la veduta dal basso in su, trasfigura i motivi stilistici attinti al barocco berniano e borrominiano e con-ferisce
al complesso architettonico uno slancio spaziale.
La tendenza alla pianta centrale sarà il motivo dominante delle opere del periodo piemontese, durato circa
un ventennio, come la Cappella della Venaria (1716) a croce greca con cappelline angolari.
Nelle piante longitudinali, di solito a navata unica, con cappelle laterali, come nella chiesa torinese di San
Filippo dell’architetto Guarini, crollata nel 1714 e ricostruita nel 1716, la vena artistica dell’architetto messi-
nese trova accenti di autentica grazia.
Suo è il progetto del 1716 della facciata della chiesa di Santa Cristina oltre a numerose altre opere di rinno-
vamento di edifici preesistenti; tra questi progetti sono da menzionare: la Villa di caccia della Venaria (1714-
1716) con la già citata Cappella, la stupenda scuderia, il castello di Rivoli (1715-1725) per il quale Juvara ideò
uno spettacolare effetto scenico: la facciata a terrazze e scalinate (incompiuta).
Nel 1718 Juvara iniziò la parte ovest di Palazzo Madama a Torino, certamente la più monumentale e solenne
facciata di tutto il Settecento europeo.

260
IL NEOCLASSICISMO CAPITOLO 14

La facciata appare fastosa ed austera allo stesso tempo e si adegua perfettamente alla Piazza che lo ospita;
l’interno, in particolare l’atrio e l’elegante scalone, è concepito per l’effetto scenografico, peculiarità sempre
presente in tutte le sue opere.
Nel 1720-1721 l’architetto messinese eseguì lavori al Palazzo Reale di Torino, tra questi la “scala delle forbici”
con l’ardita rampa a ponte e il vano decorato di stucchi bianchi.
Sempre a Torino, dal 1716 al 1728, progettò e costruì “i quartieri militari” in corso Valdocco, edifici austeri e
aggraziati nello stesso tempo.
La sua parentesi piemontese si esaurì con alcuni viaggi che lo portarono prima a Lisbona nel 1719, a Londra
nel 1721 dove ebbe contatti con Christopher Wren, quindi a Parigi sino al 1722 quando riprese la parentesi
torinese col progetto della ricostruzione (non attuata) del Duomo, ovviamente a pianta centrale.
Costruisce la Palazzina di caccia di Stupinigi nel 1729, dal padiglione centrale leggero e luminoso e dalle
quattro ali a croce di Sant’Andrea concepite ad abbracciare il vasto paesaggio.
Dopo aver ultimato la Chiesa del Carmine nel 1735, riprende il tema di Stupinigi.
La fantasia inesauribile dell’artista messinese traspare anche dalle “prospettive ideali” dedicate al re Au-
gusto di Polonia e dai numerosi disegni di monumenti funebri.
Dopo aver progettato nel 1734 la Chiesa della Trinità (Santa Maria Maggiore) a Vercelli, si recò in Spagna nel
1735, richiesto da quella corte per il nuovo Palazzo Reale.
Sicuramente l’opera spagnola più significativa del grande architetto messinese è la Granja presso Segovia
con una facciata che richiama e sviluppa lo stile di Palazzo Madama.
Con Filippo Juvara l’architettura settecentesca piemontese assunse un ruolo di livello europeo.

PALAZZINA DI CACCIA DI STUPINIGI

La Palazzina di caccia di Stupinigi è un’opera di Fil-


ippo Juvarra, facente parte del circuito delle resi-
denze sabaude in Piemonte, proclamato patrimonio
dell’umanità dall’UNESCO.
È situata nella località di Stupinigi (comune di
Nichelino), alla periferia sud-occidentale di Torino.

Palazzo di caccia di Stupinigi

STORIA

Il territorio definito in età medievale Suppunicum presentava già un piccolo castello, tuttora visibile a le-
vante della palazzina, che anticamente difendeva il paese di Moncalieri.
Il castello, chiamato Castelvecchio, fu abitato dai Savoia - Acaia che nel 1439 lo vendettero al marchese
Rolando Pallavicino.
Nel 1563 la proprietà fu ceduta a Emanuele Filiberto, quando questi trasferì la capitale del ducato di Savoia
da Chambéry a Torino.
In seguito Emanuele Filiberto donò Stupinigi all’Ordine dei santi Maurizio e Lazzaro, noto oggi come Or-
dine Mauriziano.
Siccome il Gran Maestro dell’Ordine era il capo di Casa Savoia, Stupinigi era gestito direttamente da questi,
e nel corso degli anni le terre adiacenti al castello erano divenute luogo ideale per le battute di caccia dei
duchi.
Fu Vittorio Amedeo II di Savoia a vagheggiare la trasformazione del complesso in una palazzina degna della
nuova figura reale.
Era l’aprile del 1729, e venne affidato il progetto a Filippo Juvarra.

261
CAPITOLO 14 IL NEOCLASSICISMO

Ma fu sotto il regno di Carlo Emanuele III che la


palazzina vide la nascita: nel 1731 già veniva inau-
gurata con la prima battuta di caccia.
Ma la costruzione si ampliò durante i regni di Carlo
Emanuele III e Vittorio Amedeo III con il contributo
di altri architetti, tra i quali Prunotto e Alfieri.
Nel 1740 furono aggiunte altre due ali, ospitanti le
scuderie e le rimesse agricole.
Anche Napoleone Bonaparte vi soggiornò, dal 5
maggio al 16 maggio 1805, prima di recarsi a Milano
per cingere la Corona Ferrea.
Qui egli discusse con le principali cariche politiche
di Torino, accogliendo il sindaco, la magistratura e il
clero.
Nel 1832 la palazzina divenne di nuovo proprietà
della famiglia reale. La Basilica di Superga
Fu ceduta al demanio statale nel 1919 e nel 1925 fu
restituita, con le proprietà circostanti, all’ordine Mauriziano.
Nell’Ottocento ospitò per diversi anni un elefante indiano maschio, che era stato regalato a Carlo Felice.
L’elefante Fritz divenne famoso, ma dopo qualche anno l’elefante impazzì e incominciò a distruggere ciò
che lo circondava (i segni sono ancora visibili sulle parti in legno).
Dal 1919 la palazzina di Stupinigi ospita il Museo di arte e ammobiliamento, riunendo al suo interno molti
mobili provenienti dalle residenze sabaude oltre ad altri appartenenti alle corti italiane preunitarie, come
quella dei Borboni di Parma e del loro Palazzo Ducale di Colorno.
La palazzina ospita periodicamente mostre d’arte di livello internazionale.
Attualmente la Palazzina è chiusa per restauri.

ARTE

La pianta è a quattro bracci a croce di Sant’Andrea.


Bellissimo il giardino e affascinante il lungo viale che conduce alla palazzina, arrivando da Torino, fiancheg-
giato da cascine e scuderie.
Il nucleo centrale è costituito da un grande salone centrale di pianta ovale da cui partono quattro bracci più
bassi a formare una croce di Sant’Andrea.
Nei bracci sono situati gli appartamenti reali e quelli per gli ospiti.
Il cuore della costruzione è il grande salone ovale a doppia altezza dotato di balconate ad andamento
concavo - convesso, sormontato dalla statua del “Cervo”, opera di Francesco Ladatte: con l’allontanarsi di Ju-
varra da Torino (destinazione Madrid), il principe Carlo Emanuele III affidò la direzione dei lavori a Giovanni
Tommaso Prunotto, il quale provvide ad ampliare la palazzina partendo dagli schizzi lasciati dall’architetto
messinese, cercando così di salvaguardare i complessi giochi di luce e di forme cari al suo predecessore.
È così che vengono chiamati a corte, nella “Real Fabrica”, un gran numero di artisti per decorare i nuovi am-
bienti (l’interno è in Rococò italiano, costituito da materiali preziosi come lacche, porcellane, stucchi dorati,
specchi e radiche); in complesso, sono presenti 137 camere e 17 gallerie.
La costruzione si protende anteriormente racchiudendo un vasto cortile ottagonale, su cui si affacciano gli
edifici di servizio.
Tra i pregiati mobili eseguiti per la palazzina vanno ricordati quelli dell’intagliatore Giuseppe Maria Bonza-
nigo, di Pietro Piffetti e di Luigi Prinotto.
L’edificio conserva decorazioni dei pittori veneziani Giuseppe e Domenico Valeriani, di Gaetano Perego, e
del viennese Christan Wehrlin. Vanno ricordati inoltre gli affreschi di Vittorio Amedeo Cignaroli, Gian Bat-
tista Crosato e Carlo Andrea Van Loo.

262
IL NEOCLASSICISMO CAPITOLO 14

IL SALONE

Il salone, cuore della palazzina, fu la prima idea dello Juvarra ad essere portata a termine, tant’è vero che già
nel 1730 era concluso e il 10 febbraio 1731 il re commissionava ai fratelli Giuseppe e Domenico Valeriani un
grande affresco sulla volta, raffigurante il Trionfo di Diana, la dea della caccia.
I lavori per la realizzazione di tali affreschi iniziarono già l’8 marzo, concludendosi nel 1733.
Sembra che lo Juvarra abbia imposto lo schema della quadrature ai due fratelli per non rovinare il suo
complesso disegno d’insieme: tale ipotesi appare avvalorata dalle finte architetture della volta, di stile ju-
varriano.
Scomparso Juvarra, non venne più ultimata l’idea dell’artista messinese di porre dei grandi gruppi scultorei
di cani e cervi presso i grandi finestroni del salone.
In compenso, venne completato il progetto, affidato a Giuseppe Marocco, delle trentasei ventole in legno
con teste di cervo che danno sfoggio di sé sulle pareti della sala.
Dello stesso periodo sono gli intarsi in legno dorato della balaustra.
Da segnalare, ancora, i quattro busti in marmo realizzati, dopo il 1772, da Giovanni Battista Bernero, che
sovrastano altrettanti ingressi al salone.
Il complesso è inserito all’interno di un vastissimo giardino geometrico con un continuo succedersi di ai-
uole e viali: il parco circostante, delimitato da un muro di cinta ed intersecato da lunghi viali, fu progettato
dal giardiniere francese Michael Benard nel 1740.
Nel 1992 è stato istituito il Parco naturale di Stupinigi, che si estende per quasi 1.700 ettari ed ha una dis-
creta varietà faunistica.

LA BASILICA DI SUPERGA

La Basilica di Superga è stata edificata per soddisfare un voto che Vittorio Amedeo II fece davanti alla statua
del- la Madonna delle Grazie in un momento difficile per il regno Sabaudo.
Nel 1706 Torino era assediata dalle truppe francesi. Luigi XIV, nella sua grande ambizione, mirava a tras-
formare il Piemonte in una provincia francese, ma trovò una ferrea resistenza da parte del Duca Vittorio
Amedeo II di Savoia.
La storia narra che il 2 settembre del 1706 il Duca, con il Principe Eugenio, salì sul colle di Superga per esa-
minare, da quella altura, il campo di battaglia. Successivamente entrarono nella chiesetta che fungeva da
parrocchia per pochi fedeli di Superga.
Davanti alla statua della Madonna il Duca fece un voto: avesse ottenuto la vittoria sui Francesi, avrebbe fatto
innalzare in quel luogo una grande chiesa in suo onore.
Scesi dal colle i due principi misero in esecuzione il loro piano di battaglia.
La mattina del 7 settembre alle ore 10 iniziarono i combattimenti.
Lo scontro fu terribile e massacrante, ma l’esercito piemontese ebbe la meglio e quello francese fu defini-
tivamente sconfitto.
Torino era libera, il Piemonte manteneva la sua lib-
ertà.
Il Duca Vittorio Amedeo Il di Savoia, assunta la co-
rona di Sicilia e poi di Sardegna, nel 1717 poneva
la prima pietra del glorioso Tempio votivo in onore
della «Madre del Salvatore - Salvatrice di Torino».
Il primo progetto di costruzione elaborato dallo
Juvarra era irrealizzabile a causa della costituzione
geografica del colle, è stato necessario abbassare
il colle di quaranta metri, dopo avere demolito la
chiesa preesistente, ceduta al Sovrano dal Comune
di Torino.
Il progetto della Basilica e del palazzo venne affidato
all’architetto messinese abate Filippo Juvarra, che
ne fece un capolavoro. La Basilica di Superga
Nel corso dei lavori risultò che l’area occupata

263
CAPITOLO 14 IL NEOCLASSICISMO

dall’antica chiesa e i terreni ceduti dal comune, non erano sufficienti a formare un piazzale con le dimen-
sioni richieste dal Juvarra.
Il re dovette perciò comprare altri appezzamenti di terreni da alcuni privati.
Mentre le squadre degli operai lavoravano allo scavo, la grande quantità di materiale (pietre, mattoni, mar-
mi, legnami ecc.) che proveniva da luoghi diversi veniva depositata ai piedi della salita che porta al colle, per
cui la località venne chiamata “Sassi” nome con cui ancora oggi è conosciuta dai torinesi.
Il 20 Luglio 1717, terminati gli scavi, venne deposta la prima pietra collocata sotto il grande pilastro che
divide la sacrestia dalla cappella dedicata alla Beata Margherita di Savoia.
Le cave di marmo maggiormente sfruttate erano quelle di Frabosa, Cassino, Rossasco, Foreste.
Per la maggior parte i blocchi di marmo, venivano abbozzati e talvolta lavorati sul posto, poi trasferiti a
Superga.
La sabbia veniva scavata e tolta presso la confluenza del Po con la Stura presso Lanzo.
La calce e mattoni venivano preparati sul colle.
Il Tempio fu ultimato e aperto al pubblico, dopo un lavoro di quattordici anni, l’11 novembre 1731.
La parte posteriore del complesso basilicale è stata colpita il 4 maggio 1949 dall’aereo in arrivo da Lisbona,
che trasportava la squadra di calcio del Grande Torino, nell’incidente morirono i giocatori e i tecnici della
squadra, i giornalisti al seguito e i membri dell’equipaggio.
I muri distrutti dall’impatto sono ancora visibili, in quanto si è deciso di non ricostruirli.
Oggi il tragico evento è ricordato da un museo all’interno e da una lapide sul retro dell’edificio, meta di
pellegrinaggi di sportivi e non sportivi; ogni 4 maggio infine si celebra una messa solenne in ricordo delle
vittime.

LA CHIESA

L’edificio costruito sul colle di Superga dal Juvarra è un vero capolavoro di architettura barocca del sette-
cento, la sua bellezza si nota già guardando dal basso, da Torino.
La maestosa facciata è sormontata da una cupola e affiancata da due campanili gemelli. Raggiunto il piaz-
zale si sale da tre gradinate sulla piattaforma balaustrata, da dove sorge edificio. Il pronao a otto colonne
di marmo introduce nell’interno.
La Basilica è a pianta circolare, con un prolungamento longitudinale verso il presbiterio, il pavimento di
marmo colorato è a rosoni circolari.
La chiesa misura 75 metri di altezza, 51 di lunghezza e 34 di larghezza.
Entrando nella Basilica si può notare che la cupola poggia su una maestosa struttura divisa in due ordini. Il
primo ordine è costituito da otto colonne scanalate di marmo grigio.
Nonostante le nove sezioni in cui sono divise, queste colonne non perdono la loro eleganza. La loro altezza,
dal piedistallo di base ai capitelli corinzi, è di 20 metri e 30 centimetri.
Il secondo ordine è costituito dalla balaustra in legno scuro e dal tamburo, tramezzato da otto finestroni
ritmati da otto colonne rudentate di marmo di Gassino o da altre otto di marmo di Brossasco, queste ultime
sono tortigliate per un terzo del busto.
L’intensità della luce che filtra dai finestroni e dalle lunette proietta una luminosità eccezionale. Percor-
rendo lo spazio sottostante alla cupola si arriva alla balaustra di marmo scuro di Frabosa, la si sorpassa per
mezzo di un cancello in ferro battuto del Sachetti (1736) e si arriva al presbiterio.
Alla destra vi si trova la sacrestia a forma di cupola terminante in un lanternino ellittico, la sacrestia è tutta
rivestita da armadi in legno di noce disegnati dallo stesso architetto.
Alla sinistra invece si trova una cappella modesta, con tre finestre rettangolari e una lunetta.
Lo Juvarra aveva fatto costruire questa cappella perché servisse ai convittori da coro invernale, non per
accogliere la statua della Madonna del voto, che in un primo tempo aveva pensato di collocare sull’altare
maggiore, cambiata poi idea, la statua fu messa nel coro invernale su di un altare in legno appositamente
costruito.

264
IL NEOCLASSICISMO CAPITOLO 14

GLI ALTARI

Lo Juvarra era consapevole della necessità di allestire nell’interno della chiesa decorazioni e altari funzionali
per il culto, ma che nello stesso tempo armonizzassero con le linee architettoniche e fossero di comple-
mento al Tempio.
Nel 1726 iniziarono i lavori del bassorilievo dell’altare della SS. Annunziata e quello della Natività di Maria.
Il primo venne scolpito da Bernardino Cametti da Cattinara, il secondo iniziato da Francesco Moderati, non
venne finito a causa della morte dello scultore e fu terminato da Agostino Cornacchini da Pistola, che lo
modificò sino al punto da non lasciare nessuna traccia del primitivo lavoro.
Il 16 novembre 1729, lo Juvarra trasmetteva al Cametti da Gattinara l’ordine di elaborare il bassorilievo per
l’altare maggiore e i quattro altari da collocarsi nelle quattro rispettive cappelle.
La scultura deve rappresentare in aria la gloriosa Vergine con il Bambin Gesù in braccio retta da grappoli
di angeli, con il B. Amedeo di Savoia in atteggiamento di preghiera; sotto in basso un gruppo di cavalli e di
cavalieri in combattimento, in lontananza la veduta di Torino per ricordare gli avvenimenti del 7 settembre
1706.
Vengono poi commissionate a Sebastiano Ricci le tele che rappresentano S. Luigi, re di Francia, che mostra
la corona di spine in presenza di S. Remigio, Vescovo di Reîms, e il martirio di S. Maurizio e compagni.
Le rimanenti sono commissionate al Beaumont e rappresentano l’una S. Carlo Borromeo che distribuisce
l’Eucarestia agli appestati di Milano, l’altra la Beata Margherita di Savoia con accanto il Salvatore.
Stefano Andrea Fiore, maestro di musica della Real Casa, dietro istruzioni del Juvarra costruì l’organo
che aveva due tastiere di 3 registri, fu poi l’organaro Giuseppe Calandra che mise in esecuzione nel 1735
l’istruzione del Fiore; Carlo Maria Ugliengo costruì la cassa armonica.
Nel 1789 Gioacchino Concone ricostruì dal vecchio organo uno nuovo, quello attuale.
Tolse una tastiera e modificò in tutto i registri, anche la cassa armonica venne cambiata in quella attuale
dallo stesso Concone.

L’INAUGURAZIONE DELLA BASILICA

Verso la fine dell’anno 1730 la chiesa era finita, anche il caseggiato, destinato ad accogliere i convittori era
finito, arredato e reso abitabile, mancava da finire la residenza del re (la parte rimasta incompiuta) a questa
si sarebbe pensato in seguito, purtroppo non se ne fece nulla ed è rimasta così come era allora.
Il 23 ottobre 1731 Carlo Emanuele III nominò i dodici convittori e stabilì la data dell’inaugurazione.
La sera del 31 ottobre il grande elemosiniere del Re, il rev. Don Francesco Arborio da Gattinara benediceva
la chiesa alla presenza dell’architetto Juvarra.
Il giorno seguente il 1° novembre 1731 la chiesa veniva aperta al pubblico con una solenne celebrazione.
Alla cerimonia era presente il re Carlo Emanuele III, lo Juvarra, i convittori, le autorità civili e un numeroso
pubblico; mancava solo Vittorio Amedeo II, l’ispiratore e l’ideatore della Basilica.
Il figlio non gli permise di essere presente all’inaugurazione lasciandolo relegato nella residenza di Cham-
bery.
La consacrazione della Basilica venne effettuata più tardi il giorno 12 ottobre 1749 dal Cardinale Delle
Lanze.

LE TOMBE REALI

Nel 1774 verrà realizzato il progetto “cripta” quando Vittorio Amedeo III incaricò l’architetto Francesco Mar-
tinez, nipote del Juvarra, di sistemare i sotterranei trasformandoli in un mausoleo.
Alla morte del Martinez, avvenuta nel 1777, i lavori erano quasi del tutto ultimati, Vittorio Amedeo III l’anno
successivo poté inaugurare la cripta e iniziare le tumulazioni delle salme, traslocandole dalle varie località
in cui erano state tumulate.
La cripta è a forma di croce latina con ai lati del braccio trasversale due cappelle sottostanti, una il lato della
sacrestia e l’altra il lato della cappella del voto.
Alla cripta si accede percorrendo, prima, un maestoso scalone di marmo, poi un ampio corridoio.
Il vano semicircolare al termine dello scalone è abbellito da una scultura di marmo di Carrara, che il Re Vit-

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torio Emanuele II vi fece collocare nel 1878.
La scultura era precedentemente esposta nella sala di ingresso dell’Armeria Reale di Torino alla quale era
stata donata da Maria Teresa di Borbone e raffigura S. Michele Arcangelo che sconfigge il demonio.
CAPITOLO 15

IL ROMANTICISMO

267
CAPITOLO 15 IL ROMANTICISMO

L’età della Restaurazione ebbe inizio con il Congresso di Vienna (novembre 1814 - giugno 1815) con il quale
si cercò, elaborando un progetto conservatore che tentasse di invertire il corso della storia, cancellando la
Rivoluzione Francese e l’esperienza napoleonica, di riportare al vecchio assetto l’Europa ormai in subbuglio
dopo le prime avvisaglie rivoluzionarie.
Con la Restaurazione, infatti, si ristabil“ la situazione politica dell’ Ancient Regime e quindi si insediarono
al potere le vecchie dinastie esautorate. Inoltre con la costituzione della Santa Alleanza (Austria, Prussia e
Russia) si mirava a garantire il pacifico ritorno dei vecchi sovrani sui troni europei e a difendere l’ordine
internazionale da ogni minaccia rivoluzionaria.
Questa obbligata immobilità da parte del potere urtava contro i propositi liberali e le esigenze innovatrici
in campo economico della borghesia e contro il nazionalismo dei popoli sottoposti al dominio straniero
che rivendicavano la libertà e l’indipendenza.
Questi contrasti durante il periodo della Restaurazione si andarono sempre più sviluppando soprattutto in
ambito nazionalistico con la crescita di gruppi patriottici clandestini largamente sostenuti dalla borghesia
(le società segrete).
I cambiamenti decisivi si ebbero però con i moti del 1848-1849 durante i quali la borghesia condusse la sua
ultima battaglia contro l’assolutismo.
Se per il resto d’Europa si parla di un periodo che va tra il 1815 e il 1848 per l’Italia e la Germania si parlerà
rispettivamente del periodo che va dal 1815 al 1861 (Unità d’Italia) e dal 1815 al 1871, poiché subiscono un
processo di liberazione e di indipendenza nazionale molto più lento.
Contemporaneamente al periodo della Restaurazione si verifica un nuovo movimento culturale e ideologico
che, producendo un profondo rinnovamento in nome della soggettività, della spontaneità, della libertà del
sentimento determinò una nuova concezione dell’uomo e della storia: il Romanticismo.
Il Romanticismo stato un movimento artistico, culturale e letterario sviluppatosi in Germania preannunciato
in alcuni dei suoi temi dal movimento pre-romantico dello Sturm und Drang, al termine del XVIII secolo e
poi diffusosi in tutta Europa nel secolo seguente.
Il termine “romanticismo” viene dall’inglese “romantic” che nella metà del XVII secolo indicava ciò che
rappresentava non la realtà ma quello che veniva descritto in termini “romanzeschi” in certa letteratura
come quella dei romanzi cavallereschi.
Accanto a questo primo significato si sviluppò e alla fine prevalse nel XVIII secolo quello di “pittoresco”
riferito non solo a ciò che veniva artisticamente raffigurato ma soprattutto al sentimento che ne veniva
suscitato.
Non è possibile definire il Romanticismo in senso univoco poiché si tratta di un fenomeno complesso che
assume connotazioni diverse a seconda delle nazioni in cui si sviluppa.
Nel movimento romantico non c’è un riferimento preciso a un sistema chiuso di idee che possa
compiutamente definirlo ma esso fa piuttosto riferimento a un “modo di sentire” a cui gli artisti del tempo
adeguarono il loro modo di esprimersi artisticamente, pensare e vivere.
Per quanto il Romanticismo sia un movimento culturale di origini tedesche, esso si sviluppa anche in
Inghilterra, a seguito del declino dell’Illuminismo.
Pittori come Géricault, Delacroix e Caspar David Friedrich emergono come importanti artisti romantici
mentre in Inghilterra Turner dà una impronta personale al sentire visivo romantico.
Come reazione all’Illuminismo e al Neoclassicismo, cioè alla razionalità e al culto della bellezza classica,
il Romanticismo contrappone la spiritualità, l’emotività, la fantasia, l’immaginazione, e soprattutto
l’affermazione dei caratteri individuali d’ogni artista.
Il termine “romanticismo” venne applicato per primo da Friedrich von Schlegel (1772) alla letteratura da lui
considerata “moderna” e contrapposta a quella “classica”.
August Wilhelm von Schlegel scrive (nell’opera Corso di letteratura drammatica) che era un termine più
che adeguato per definire il movimento che si era venuto a creare verso il 1790, perché alludeva alla lingua
romanza, originata dalla mescolanza dei dialetti tedeschi con il latino.
E proprio la diversità e l’eterogeneità erano rappresentative, secondo lui, dell’era romantica, in cui l’uomo
non era più integro, unico e sufficiente a sé stesso come nell’antichità classica.
Infatti, secondo i filosofi come Schopenhauer, l’uomo, essere finito, tende all’infinito, cioè è alla costante
ricerca di un bene o di un piacere infinito, mentre nel mondo finito a sua disposizione non trova che risorse
limitate.
Questo fa sì che l’uomo senta un vuoto, una mancanza, che lo relega in una inevitabile situazione di
infelicità.

268
IL ROMANTICISMO CAPITOLO 15

Tornando al termine “romanticismo” che, utilizzato in modo sempre più ampio ed esteso, venne applicato
dapprima ad una nuova tendenza della sensibilità basata sull’immaginazione e in seguito a un orientamento
più diffuso del pensiero filosofico, parlando, man mano, non solamente più di arte romantica, ma anche di
scienza o filosofia romantiche.
Le opinioni divergono non solo sul termine ma anche sulla omogeneità europea del fenomeno sostenendo
una sostanziale omogeneità o sulla diversità delle sue manifestazioni nazionali.
Nel considerare il termine solo per indicare alcuni precisi fenomeni letterari bisogna in ogni caso tener
presente che essi si svilupparono in date differenti (tra il 1800 e il 1830) nei diversi paesi europei.
Il Romanticismo nacque infatti dapprima in Germania ed Inghilterra (pubblicazione delle “Lyrical ballads”
di Coleridge e di Wordsworth, 1798) poi in Francia (pubblicazione, a Londra ma in francese “De l’Allemagne”
di Madame De Stael, 1813) ed infine in Italia.

Temi tipici del romanticismo sono:

• Negazione della ragione illuminista: gli autori romantici rifiutano l’idea illuministica della ragione, poiché
questa non si è rivelata in grado di spiegare la totalità del mondo e di tutto ciò che è. Nell’era romantica si
verifica pertanto un notevole progresso nell’esplorazione dell’irrazionale: i sentimenti, la follia, il sogno, le
visioni assumono un ruolo di primaria importanza.
• Esotismo: è una fuga dalla realtà, che può essere sia temporale che spaziale, e perciò rivolge il proprio
interesse verso mete esotiche o comunque lontane dai luoghi di appartenenza, oppure ad un’epoca diversa
da quella attuale, come il Medioevo o l’età classica antica.
• Soggettivismo e individualismo: con l’abbandono della ragione illuministica, tutto ciò che circonda
l’uomo, la natura, non ha più una sola e razionale chiave di lettura, ed è così che si arriva al concetto per cui
ogni uomo riflette i propri problemi, o comunque il proprio io, nella natura, che ne diventa così il prodotto
soggettivo.
• Concetto di popolo e nazione: una fonte di ispirazione dei poeti romantici è l’opera di Omero, che si
prefigura come il risultato della tradizione orale e folcloristica dell’intero popolo greco antico; in questo
periodo l’individualismo assume tra l’altro, su grandi dimensioni (quindi a livello di stato e/o nazione),
l’aspetto del nazionalismo, sviluppando grande interesse per il popolare e le espressioni folcloristiche,
spesso unito al desiderio di ricerca delle antiche origini da cui sono sorte le nazioni moderne: da qui il
profondo interesse per il Medioevo, così disprezzato dall’illuminismo, che viene considerato come periodo
di nascita delle nazioni moderne e che perciò viene molto rivalutato.
• Ritorno alla religiosità ed alla spiritualità: oltrepassando i limiti della ragione stabiliti dagli illuministi,
l’uomo romantico cerca stabili supporti nella fede e nella conseguente tensione verso l’infinito.
Si determina così un ritorno all’utilizzo di pratiche magiche e occulte, spesso accidentale motivo di
importanti scoperte scientifiche.
• Studio della storia: mentre nel Settecento illuminista l’uomo veniva considerato quale essere razionale
sempre dotato di dignità a prescindere dal suo particolare contesto storico, in età romantica si recupera
una visione dell’uomo in costante cambiamento. Si sviluppano così nuove discipline come la numismatica,
l’epigrafia, l’archeologia, la glottologia. Parallelamente si sviluppa una forte critica allo spregiudicato uso
del lume della ragione, che nel Settecento aveva condotto molti pensatori illuministi a stigmatizzare il
popolo del Medioevo, ritenuto oppresso dal peso di una religione oscurantista: i romantici, predicando un
ritorno alla religiosità e invitando al tuffo nella fede, riabilitano i tempi bui del Medioevo, apprezzando quei
caratteri che l’illuminismo criticava.

PUNTI CHIAVE DEL ROMANTICISMO

Il romanticismo si rifà in linea di massima alla necessità di attingere all’infinito. A causa di ciò sono spesso
ricorrenti alcuni essenziali punti cardine come:
• Assoluto e titanismo: caratteristica inequivocabile del romanticismo è la teorizzazione dell’assoluto,
l’infinito immanente alla realtà (spesso coincidente con la natura) che provoca nell’uomo una perenne e
struggente tensione verso l’immenso, l’illimitato. Questa sensibilità nei confronti dell’assoluto si identifica
nel titanismo: viene paragonata dunque allo sforzo dei Titani che perseverano nel tentativo di liberarsi dalla
prigione imposta loro da Zeus, pur consapevoli di essere stati condannati a restarci per sempre.

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CAPITOLO 15 IL ROMANTICISMO

• Sublime: secondo i romantici, l’infinito genera nell’uomo un senso di terrore e impotenza, definito sublime,
che non sono tuttavia recepiti in modo violento, tali da deprimere il soggetto, ma al contrario l’incapacità
e la paralisi nei confronti dell’assoluto si traduce nell’uomo in un piacere indistinto, dove ciò che è orrido,
spaventevole e incontrollabile diventa bello.
• Sehnsucht: dal tedesco traducibile come desiderio del desiderio o male del desiderio. È la diretta
conseguenza di quanto sperimenta l’uomo nei confronti dell’assoluto, un senso di continua inquietudine e
struggente tensione, un sentimento che affligge il soggetto e lo spinge ad oltrepassare i limiti della realtà
terrena, opprimente e soffocante, per rifugiarsi nell’interiorità o in una dimensione che supera lo spazio-
tempo.
• Ironia: la consapevolezza della finzione delle cose che circondano l’uomo e che egli stesso crea si traduce
nell’ironia, per cui l’uomo prende coscienza della sua stessa limitatezza.
L’ironia, che Socrate medesimo usava per auto sminuirsi quando si confrontava con i suoi interlocutori
(ironia socratica), si identifica quindi in un atteggiamento dissimulatore.

IL ROMANTICISMO NELL’ARTE

Nel 1819 viene definita romantica la scuola che mira alla rappresentazione fedele di profonde e toccanti
emozioni, mentre nel 1829 l’attributo romantico viene esteso a molti fenomeni collaterali delle arti visive,
entrando nel gergo delle sarte, delle modiste e persino dei pasticceri, romantico è tutto ciò che ha un’aria
di inverosimile, irreale e fantastico, tutto quello che si contrappone all’arte accademica definita forzata,
artificiale dogmatica e priva di fantasia.
Charles Baudelaire a commento del Salon del 1846 scrisse il saggio Che cos’è il Romanticismo?, in questo
definisce romantico chi “conosce gli aspetti della natura e le situazioni degli uomini che gli artisti del passato
hanno sdegnato o misconosciuto”.
Lo scrittore inoltre fa coincidere romanticismo e modernità affermando: “Chi dice romantico dice arte
moderna, cioè intimità, spiritualità, colore, aspirazione verso l’infinito espresse con tutti i mezzi che le arti
offrono”.
Un dipinto romantico è facilmente riconoscibile perché fa largo uso di panorami naturali sterminati e
violenti, definiti sublimi come nei caso del Viandante sui mare di nebbia, di Friedrich, dove un uomo è
ritratto di spalle (questo rappresenta la parte inconscia e nascosta del suo animo) ed è affacciato su di un
mare di nebbia che invade un paesaggio montagnoso.
È importante il fatto che l’uomo viene identificato come viandante, che lo ricollega al tema romantico
dell’esule.
Questo quadro non è bello nel senso di equilibrato e piacevole, al contrario manca di punti di riferimento e
suscita inquietudine e paura. Allo stesso tempo, un altro quadro, Paesaggio invernale, presenta altri tipi, come
quello dell’inverno e della neve, che rappresenta la vecchiaia, oppure gli alberi spogli che rappresentano la
morte.
L’uomo nel dipinto si regge ad un bastone: quelle sono le illusioni che l’uomo coltiva per vivere.
Così si va delineando un tipo di arte che riflette la filosofia e le tendenze artistiche di quegli anni, dove
l’artista era in conflitto con la società borghese ed i suoi valori, che vedevano l’arte come qualcosa di
commercialmente non produttivo e quindi inutile.
Autori tipici del romanticismo sono anche Delacroix, Géricault, Turner.

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IL ROMANTICISMO CAPITOLO 15

LA NUOVA SENSIBILITÀ

La nuova poetica romantica alla fine del Settecento, non va ricercata nelle novità formali, ma nell’invenzione
di numerosi temi e motivi che verranno più ampiamente sfruttati tra il 1820 e il 1840.
Il principale mutamento nella scelta del soggetto concerne sia l’aspetto letterario che storico.
Da una parte ormai si preferiva Shakespeare, Jean Froissart e Ossia n agli autori classici, dall’altra è la storia
nazionale e non più quella antica a diventare protagonista delle tele.
In Francia, per iniziativa del conte d’Angiviller, furono commissionate pitture e statue dedicate agli eroi
della storia francese.

THÉODORE GÈRICAULT

Jean Louis Théodore Géricault (Rouen, 26 settembre 1791 - Parigi, 26 gennaio 1824) è stato un francese
esponente dell’arte romantica.
All’età di quattro anni si trasferisce a Parigi.
Cresce in una famiglia solida e abbiente, il che gli garantisce una buona e regolare istruzione.
Presto il giovane Géricault scoprirà le sue passioni, quella artistica e quella militare, entrambe accomunate
dall’amore profondo per i cavalli, i quali saranno oggetto di numerosi studi e tele.
L’agiatezza economica verrà a mancare solo poco prima della sua morte precoce, a causa di investimenti
sbagliati da parte sua e di suo padre.
La sua fama inizia nel 1812 quando presenta al Salon il quadro Ufficiale dei Cavalleggeri della Guardia
imperiale alla carica, nato dall’osservazione al mercato di un cavallo impennatosi mentre trainava un
carretto, e poi trasformando il soggetto in eroico grazie ad un amico ufficiale (Dieudonné, luogotenente
delle Guide) che posò per il cavaliere, e grazie ai consigli per la posa fatti dal barone d’Aubigny.
Il momento storico che contemplava le vittorie di Napoleone rese ancora più apprezzabile il dipinto.
AI Salon del 1814 l’artista espose la tela col Corazziere ferito che abbandona il campo di battaglia (Parigi,
Louvre), dove pur conservando il tono epico dei quadri di storia in accordo col nuovo clima romantico,
sostituisce alla consueta celebrazione della vittoria, la rappresentazione della sofferenza e della dignitosa
sconfitta in una visione antieroica, almeno secondo l’iconografia tradizionale, caratterizzata dall’incertezza
nell’incedere e nella difficoltà di tenere a freno il cavallo sul terreno scosceso.
Sia il fatto che il momento sfavorevole per le campagne napoleoniche rendeva poco felice il soggetto, sia
il fatto che le proporzioni fra cavallo e corazziere non erano sentite corrette (i primi studi per il quadro non
prevedevano il cavallo), fece sì che Géricault non potesse riottenere il successo di due anni prima.
Nel 1816 partecipa al “Prix de Rome” (premio che, sulla base di una selezione molto dura a forma di
concorso a più prove, dava una borsa di studio per studiare un anno a Roma, considerata città dell’arte per
eccellenza) senza però avere successo. L’artista decide di andare, a proprie spese, comunque in Italia (aveva
da concludere una vicenda personale - una relazione amorosa con la zia d’acquisto - e sperava che una
lunga separazione potesse risolvere la questione).
In Italia studia intensamente l’arte e la grafica italiana (apprezzando e imitando, in alcuni fra i suoi migliori
lavori, i chiaroscuri del Manierismo), soprattutto durante il soggiorno a Firenze.
A Roma immortalerà i suoi amati cavalli ritratti alla Corsa dei cavalli barberi e nella campagna romana.
Nel 1817 torna definitivamente a Parigi.
La relazione con la giovane zia non solo non è conclusa, ma gli darà anche un figlio.
AI rientro a Parigi decide di dedicarsi maggiormente alla grafica (utilizzando la litografia, in auge proprio in
quegli anni, che consentiva una grande espressività).
Temi preferiti quelli sociali. La sua indagine è attratta dalla sofferenza umana, dalla sconfitta, dalla tragedia.
Da ricordare le litografie Ritorno dalla Russia, dedicata ai soldati francesi, feriti e stremati, che ritornano
dalla disastrosa campagna militare, e La guardia del Louvre in cui illustra una notizia letta sul giornale, di un
mutilato di guerra che, scambiato per mendicante, viene allontanato dal Louvre dalla guardia.
Il veterano, allora, apre il cappotto mostrando le medaglie, nel plauso degli astanti, provocando il giusto
imbarazzo della guardia, che forse fino a quel momento si sentiva orgogliosa e superiore agli altri per la
divisa che porta d’ordinanza, e ora ha davanti un vero eroe.
Proprio questa passione per l’indagine della realtà lo porta ad occuparsi di cronaca.
Mentre sta studiando il caso dell’omicidio di un giudice, viene raggiunto dalla sconvolgente cronaca di un

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CAPITOLO 15 IL ROMANTICISMO

tragico naufragio occorso nel 1816.


Siamo nel 1818 e solo ora arrivano al pubblico le notizie circa questo fatto che il Governo vuole
insabbiare.
La fregata Meduse stava trasportando, insieme ad altre navi, una delegazione francese nella Colonia
senegalese di Saint Louis.
A bordo c’erano circa 400 persone. Il 12 luglio 1816 (al quattordicesimo giorno di navigazione) la Meduse
naufragò su una secca.
Le scialuppe erano insufficienti e si costruì una zattera per ospitare i naufraghi rimasti senza mezzo di
salvataggio.
Erano centoquarantanove uomini, stipati sulla zattera.
Ben presto (incomprensibile il motivo) venne tagliato il cavo che permetteva il traino della zattera da parte
delle altre scialuppe.
La zattera fu abbandonata ai flutti e non si fece nulla per soccorrerla.
Iniziò (e fu questo che colpì Géricault) una dura lotta per la sopravvivenza.
Alcuni, moribondi, vennero buttati a mare, la fame, la sete e la disperazione diedero origine persino ad
episodi di cannibalismo.
Dodici furono i giorni dell’abbandono e della lotta, e quando una nave, l’Argus, raccolse i naufraghi, essi
erano solo in quindici e tutti moribondi.
Significa che ben centotrentaquattro furono i morti in quei terribili dodici giorni passati nell’angosciante
coscienza di avere la morte a bordo.
Inizialmente Géricault pensò di ricavarne una serie di litografie che illustrassero l’intera vicenda.
Poi gli venne l’idea di farne un unico, grande, quadro, che prevedesse anche l’episodio di cannibalismo
(significativo per illustrare la disperazione).
Prese uno studio vicino all’Ospedale, e studiò dal vivo malati, moribondi, cadaveri, copiando persino pezzi
anatomici (teste, braccia, piedi) da utilizzare per indicare il cannibalismo.
Chiese, poi, agli amici di fargli da modelli per comporre la scena (fra cui un amico con l’itterizia, scelto come
perfetto per il ruolo).
Fra i modelli da segnalare l’amico pittore Eugène Delacroix.
Il quadro fu ritoccato quando era già stato collocato per l’esposizione del Salon del 1819.
Il titolo era, genericamente, Scena di naufragio, ma era evidente a tutti di che naufragio si trattasse.
Lo vide anche il re (Iodandone l’arte, e sorvolando sull’imbarazzante soggetto: aspre erano le polemiche
sulle responsabilità dell’accaduto).
Il quadro, poi, ottenne una Mostra esclusiva in Inghilterra e Irlanda che portò Géricault via da Parigi per più
di un anno, per vederlo tornare ricco e onorato.
Nel 1822 gli investimenti finanziari fatti al rientro dall’Inghilterra si dimostrano una truffa che gli causa
perdite enormi.
Si manifesta anche una forma depressiva (secondo alcuni causata dalle critiche alla sua arte, sofferte per la
sua straordinaria sensibilità, secondo altri causata dalla situazione sentimentale) che lo porta a rivolgersi al
giovane e già noto alienista dottor Etienne Jean Georget.
Oltre alla terapia, sembra nascere un sincero rapporto di reciproca stima, che porterà Géricault a realizzare
dal vivo 10 ritratti di alienati monomaniacali.
Non sappiamo se l’idea di ritrarre i malati fosse di Géricault, e il dottore gli abbia concesso i permessi
necessari per avvicinare questi soggetti e farli posare, e poi abbia ricevuto i quadri in dono come segno
di gratitudine, oppure se l’idea fosse del dottore stesso, mettendo a profitto il raro talento del pittore per
ottenere dei dipinti in grado di testimoniare i tratti tipici delle singole manie.
Le dieci opere furono presto divise fra il dr. Georget (presso cui ne rimasero cinque, quelle che abbiamo) e i
suoi colleghi (queste cinque opere,invece, risultano oggi disperse).
Le monomanie che ci restano documentate sono l’invidia, la mania del gioco, la cleptomania e l’assassinio,
il rapimento dei bambini e la mania del comando militare.
Le espressioni sono colte con un’acutezza e una precisione eccezionali, tanto da rendere possibile la
diagnosi. Restano fra i ritratti più belli mai realizzati.
La loro datazione non è certa, ma dovrebbe essere compresa fra 1822 e 1823.
Nel 1822 avvennero anche le due cadute da cavallo che (trascurate) portarono ad una lesione del midollo
spinale che condusse l’artista alla paralisi e alla morte.
Il 26 gennaio 1824, infatti, Géricault morì, dopo un mese e mezzo di agonia.

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IL ROMANTICISMO CAPITOLO 15

Il Louvre, in quello stesso anno, acquistò l’ormai


famoso dipinto della Zattera della Medusa.
Il Corazziere ferito che abbandona il campo
di battaglia è un dipinto di Thèodore Géricault
connesso alla sconfitta subita dall’esercito
napoleonico da parte del Regno Unito e degli altri
paesi europei.
La scena rappresenta un soldato che, da solo col
suo cavallo, arranca fuori dal campo di battaglia, tra
fumo e nuvole minacciose. Géricault rimane molto
al di sotto della sua produzione.
L’esecuzione è fiera, ma troppo aspra e sembra di
notare uno schizzo troppo impreciso e trascurato.
Il disegno è pieno di imperfezioni:il cavallo è
mostruoso e senza alcuna unità; il colore infine, è in
generale scuso e alterato.
Così la critica aveva colto il nuovo carattere della
sensibilità romantica: il tratto più nervoso, le
espressioni caricate, il colore scuro e alterato.
Le pennellate decise e i toni cupi comunicano un
senso di vulnerabilità e solitudine, regalandoci un
esempio della condizione umana.
La mancanza di ogni espressione di sofferenza nel
volto del soldato e l’attenzione tutta rivolta verso la
perfezione formale, denunciano la dipendenza dal
sistema compositivo neoclassico.
Esposto al salon del 1814 esso è connesso alla
disfatta napoleonica.
Ciò che viene illustrato nel quadro di Géricault avvenne realmente, il 2 luglio 1816: la Méduse, una fregata
della marina francese, in navigazione da Brest verso il Senegal, antica colonia francese restituita da Londra
appena dopo Waterloo, si incagliò su un banco di sabbia, 160 chilometri allargo della attuale Mauritania
probabilmente a causa dell’inettitudine del comandante De Chaumaray, il quale non disponeva di carte
nautiche aggiornate.
De Chaumaray imbarcò 250 passeggeri notabili, incluso il governatore del Senegal, Julien Désiré Schmaltz,
la moglie e la figlia, e 139 persone fra equipaggio, sottufficiali e il medico di bordo su una zattera di 20x10
m, legata alle scialuppe da una cima.
In questo modo i superstiti iniziarono il viaggio verso la costa, ma, poco dopo l’inizio della navigazione, la
cima si ruppe (o venne tagliata) e la zattera fu abbandonata al suo destino.
Probabilmente gli uomini sulle scialuppe si stancarono di trascinare la zattera.
Dei 139, 20 morirono (o si suicidarono) già la prima notte, quasi la metà finì in mare in seguito a lotte tra gli
stessi naufraghi.
AI nono giorno i venticinque sopravvissuti si diedero al cannibalismo: a 12 giorni dal naufragio, il tredicesimo
giorno i superstiti (sul cui numero si hanno discordanti versioni: 13, 15 o 20) vengono salvati dal battello
Argus, cinque morirono la notte seguente.
Lo scandalo scoppiò il 13 settembre seguente, allorché il foglio antiborbonico Journal des débats, pubblicò
una relazione del chirurgo Henry Savigny, sopravvissuto della zattera: egli raccontava del clima di violenza
e sopraffazione fra i sopravvissuti.
Ma gli avversari del governo sottolinearono innanzitutto la discriminazione sofferta dai non privilegiati, e
poi la circostanza che il comandante De Chaumaray fosse un emigrée, rientrato nel 1814.
Montarono un affare politico che ebbe la sua risonanza, tanto che, nel 1819, il pittore Géricault realizzò il
dipinto, ancor oggi ben conosciuto, che identifica il naufragio della Medusa con quello del Primo Impero.
Un’opera che fece sensazione, anche poiché rappresentava una delle prime opere della neonata scuola
romantica, e suscitò vive proteste in Francia, per la durezza con cui era esposto l’accaduto.
Il 13 marzo 1817 De Chaumaray venne condannato a tre anni di prigione.
Nel quadro risulta evidente la spinta da sinistra verso destra.

273
CAPITOLO 15 IL ROMANTICISMO

Ritrae in uno schema piramidale dovuto dall’albero


e dalle due corde.
La struttura della composizione è accostabile a La
libertà che guida il popolo di Eugène Delacroix.
I due stracci sventolati (rosso e bianco) simboleggiano
la speranza dei poveri naufraghi alla vista di una
nave in lontananza.
Da notare il ragazzo, trattenuto da un vecchio che
sembra una scultura ellenistica: il giovane indossa
ancora i calzini, e in questo vediamo il realismo del
quadro, visibile anche nei nudi michelangioleschi
dei marinai. Nell’opera sono da notare anche i tratti
romantici come il sollevarsi della zattera da una
La zattera della medusa
parte e il contrapposto gonfiarsi della vela dall’altro,
e la luce livida e drammatica.
Si pensa inoltre che Géricault avesse usato dei cadaveri veri per ritrarre i corpi così ben rappresentati. Si noti
il carico di tensione dei corpi aggrovigliati, vigorosi ed imponenti.
Si notano anche i lineamenti scolpiti dei naufraghi.
Per la prima volta viene usata una tela grande per un tema non importante, ma di cronaca comune.

ANEDDOTI

Il dipinto è stato utilizzato dalla band irlandese The Pogues per il loro disco “Rum, Sodomy and the Lash”,
solo che i volti sono stati sostituiti dai componenti del gruppo musicale.
I tedeschi Ahab, band Funeral Doom Metal, l’hanno usata per il loro disco The Divinity or Oceans.
Questo terribile episodio è stato raccontato, in modo romanzato, da Alessandro Baricco nel suo Romanzo
Oceano Mare pubblicato nel 1993.

UFFICIALE DEI CAVALLEGERI DELLA GUARDIA IMPERIALE

La scena è dominata da un cavallo impennato, incitato dall’ufficiale che seguendo il movimento dell’animale
sfodera la spada e la agita animatamente pronto alla carica; il busto girato verso destra controbilancia lo
scatto della bestia che girandosi mostra il fiero e coraggioso sguardo.
L’azione è veloce ma colta con grande attenzione.
La bellezza del quadro cela gli “errori” anatomici del disegno: le gambe posteriori del cavallo sono troppo
esili e sembrano eccessivamente sforzate, come sottoposte a un gesto
titanico; ma questo errore, contestato dai critici che videro il quadro
al Salon del 1812, è da considerare una precisa scelta di Géricault che
voleva così esaltare il movimento eroico dell’animale.
Ancora, sia il braccio destro del cavaliere che la spada che tiene in
pugno sono troppo corti, ma forse tale accorgimento può essere letto
come mezzo per suggerire la profondità.
Il dipinto spicca per le indubbie qualità pittoriche: la stesura del colore
così netta e contrastata non mancò tra l’altro di stupire David, grande
protagonista dell’arte francese.
Ancora quasi del tutto sconosciuto, Géricault ebbe l’onore di vedere
il suo quadro presente al Salon del 1812, esposto accanto al “Ritratto
Equestre di Murat” di un artista di grande fama come Gros.
I giudizi favorevoli ricevuti misero in buona luce il giovane pittore,
tanto da essere premiato con una medaglia.
Malgrado le tante lodi, il quadro non trovò nessun acquirente e si
Ufficiale dei cavallegeri della guardia imperiale risolse con un insuccesso di Géricault anche il tentativo di venderlo
mediante il pare del suo allievo, Jamar, che era un mercante d’arte.

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IL ROMANTICISMO CAPITOLO 15

Pare che la mancata vendita avesse creato tanti problemi all’artista che giunse al punto di girare il verso del
quadro contro il muro e di chiedere all’allievo di ridipingerlo con colore bianco e di sbarazzarsene.
Ma nonostante gli sforzi, il quadro restò nell’atelier e lì fu ritrovato: venne poi acquistato dal Duca d’Orleans,
futuro re Luigi Filippo.
La presenza all’esposizione al bazar Bonne - Nouvelle nel 1848, salvò l’opera dall’incendio che distrusse la
collezione della galleria del Palais Royal.

RITRATTI DI ALIENATI

I famosi “ritratti di alienati” di


Géricault rappresentano ancora
oggi un mistero.
Innanzi tutto,sembra che Géricault
ne abbia dipinti dieci, ma se ne
conoscono soltanto cinque. Gli
altri sono dispersi. Inoltre, manca
una datazione precisa, perché
è molto difficile stabilire con
certezza se Géricault ha concepito
i suoi ritratti di alienati prima o
dopo la sua partenza per Londra.
Quando l’alienista Georget lo
presenta al celebre medico e
Gli Alienati scienziato Esquirol, Géricault,
dopo l’insuccesso della Medusa, si Gli Alienati

trova tra i pionieri della psichiatria


moderna.
Si ignora cosa abbia spinto
l’artista a dipingere questi esempi
di umanità sofferente.
Forse Georget, che stava
conducendo importanti ricerche,
gli ha proposto di illustrare i suoi
libri?
I quadri servivano allo psichiatra
per le sue lezioni di patologia?
Doveva decorare lo studio del
dottore?
O è un metodo terapeutico
Gli Alienati sperimentato su di lui?
Quale sia la ragione, Géricault vi si Gli Alienati
è dedicato con molta attenzione e impegno, è visibile una volontà di
procedere a un lavoro clinico che ha qualcosa di sistematico, come una ricerca scientifica.
Nei Ritratti di alienati Géricault conduce, attraverso la pittura, un’indagine scientifica sulla follia.
Attraverso la pittura studia a fondo l’individuo e la sua profondità mediante una visione rigorosa e quasi
spietata della realtà che ricorda gli studi di Leonardo sulla fisiognomica e i “moti dell’animo”.
Alla comprensione del mondo interiore, misterioso e irrazionale, si affianca il tema dell’infelicità e sofferenza
umana, e della condizione sociale. È una denuncia contro l’emarginazione dei malati mentali contro la quale
si battevano anche scienziati come appunto, Georget ed Esquirol, che per primi considerano questi malati
come esseri umani bisognosi di cure. Il forte realismo rende particolarmente espressivi ed inquietanti questi
ritratti. Gli “alienati” sono visti come personaggi misteriosi, che incuriosiscono, colpiscono per le facce e le
espressioni intense, così caratteristiche e molto particolari, ma allo stesso tempo, profondamente umane.
Dal punto di vista dello stile e della dimensione tragica offrono molti punti di contatto con la Zattera della
Medusa.

275
CAPITOLO 15 IL ROMANTICISMO

LA FORNACE DI GESSO

Si tratta di una delle ultime opere dipinte da


Thèodore Géricault prima della morte, avvenuta nel
gennaio del 1824.
È un periodo in cui l’artista, da poco rientrato a
Parigi dal soggiorno in Inghilterra, alterna periodi di
sconforto e depressione, dovuti anche alla frenetica
attività, ma soprattutto alle precarie condizioni
fisiche e ai numerosi incidenti avuti.
Frutto di questi momenti di felicità creativa è “La
fornace di gesso”.
In un paesaggio appena definito vediamo una strada
di campagna, impervia e fangosa, che conduce a
uno squallido edificio, parzialmente distrutto e con
tetti sfondati.
Dall’edificio esce una densa nuvola di fumo bianco-
grigio: è il risultato della lavorazione all’interno della La fornace di gesso
fornace.
Dal largo portale sta uscendo un carro trainato da robusti cavalli, mentre altri cavalli da tiro attendono
a poca distanza, docili e quasi remissivi di fronte alloro duro lavoro con i musi infilati nei sacchi di biada.
L’atmosfera è cupa: la scena è giocata su toni grigi e marroni, ravvivati qua e là da rapidi tocchi di bianco,
bagliore di luce piuttosto sinistra.
Questa sorta di monocromatismo è caratteristica della tarda attività di Géricault, che si ricollega idealmente
con queste opere alla grande lezione caravaggesca.
Il dipinto, firmato in basso a sinistra Géricault, era presente nel catalogo della vendita postuma dell’artista,
e fu acquistato dal Louvre alla vendita Mosselmann nel 1849.
Tuttavia, alcuni studiosi credono che il quadro sia stato comperato direttamente dal pittore da Costantin,
un mercante d’arte, il quale lo avrebbe poi rivenduto.

EUGÈNE DELACROIX

Eugène Delacroix nasce nel 1798 a Charenton Saint Maurice, da Charles ministro degli esteri sotto il
Direttorio e poi prefetto imperiale a Marsiglia e Bordeaux, e da Victoire Oeben, figlia del famoso ebanista
di Luigi XVI.
Morto il padre nel 1806 a Bordeaux, la famiglia si trasferisce a Parigi, dove Eugène si iscrive al liceo
imperiale.
Nell’ottobre 1815 è nello studio di Pierre Narcisse Guérin, e due anni più tardi s’iscrive all’Ècole des Beaux
Arts, dove stringe amicizia con Géricault.
La prima commissione pubblica è del 1819, quando dipinge per la chiesa di Orcemont la Vergine delle
messi, ispirata a Raffaello; del 1820 è l’incarico di eseguire la Vergine del Sacro Cuore per il vescovado di
Nantes.
Nel 1822 espone al Salon Dante e Virgilio all’Inferno, dipinto in soli tre mesi. Frequentatore dei salotti
mondani, Delacroix stringe amicizia con il pittore inglese Henry Fielding, con il quale divide uno studio in
rue Jacob. Nel Salon del 1824 presenta Il massacro di Scio e Torquato Tasso in manicomio, nel 1826 realizza
“La Grecia sulle rovine di Missolungi”, e nel 1827 partecipa al Salon con alcune opere fra le quali Morte di
Sardanapalo, che suscita gran clamore.
Nel 1830 dipinge La Libertà che guida il popolo, che sarà esposto al Salon del 1831; nel mese di settembre
riceve la Legione d’onore.
L’anno seguente accompagna il conte de Mornay, ambasciatore di Luigi Filippo, in Marocco; visita inoltre la
Tunisia e la Spagna, facendo ritorno a Pane nel 1833, riceve la commissione per la decorazione della Sala del
re di Palazzo Borbone, impegno che lo terrà occupato fino al 1836.
Nel 1839 compie un viaggio in Olanda e Belgio in compagnia di Elise Boulanger.
L’anno seguente riceve due importanti commissioni: la Pietà per la chiesa di Saint Denis du Saint Sacrament,

276
IL ROMANTICISMO CAPITOLO 15

e la decorazione della biblioteca del Lussemburgo.


Nel 1842 una grave forma di laringite lo costringe a lunghe cure, che alterna con soggiorni presso gli amici
Riesener e George Sand.
Non rallenta tuttavia l’attività artistica che lo vede impegnato nella realizzazione delle serie di litografie per
l’Amleto di Shakespeare e nella decorazione della Camera dei Deputati.
Nel 1850 riceve l’incarico di eseguire il soffitto della Galleria di Apollo al Louvre, al quale fanno seguito le
pitture del Salone della pace all’Hotel de la Ville.
Nel 1852 pubblica un saggio su Nicolas Poussin, e due anni dopo una riflessione dal titolo Questioni sul
bello.
Nel maggio 1855 partecipa all’Exposition Universelle con quarantadue quadri.
Nel 1857 è accolto fra i membri dell’Institut, e decide di scrivere un Dictionnaire des Beaux Arts; è anche
l’anno in cui trasloca al 6 di Place de Furstenberg, dove oggi è il Musèe Delacroix.
Nel 1859 partecipa al suo ultimo Salon con trentaquattro opere.
Nel 1861 riesce a portare a termine le pitture murali di Saint Sulpice.
Muore a Parigi il 13 agosto 1863.
“La Libertà che guida il popolo” è un dipinto di
Eugène Delacroix, a olio su tela (260 x 325 cm),
quest’opera fu eseguita nel 1830, pervenne al
Museo del Louvre solo nel 1874, dopo un percorso
alquanto travagliato che l’aveva tenuta lontana dal
pubblico a causa del suo contenuto rivoluzionario.
L’opera raffigura una scena dell’insurrezione che,
nel luglio del 1830, pose fine al “terrore bianco”
instaurato dall’ultimo dei Borboni, Carlo X.
Essa è considerata dalla critica come la prima
composizione politica nella storia della pittura
moderna.
Fu eseguita nello stesso anno in cui avvennero i fatti
cui fa riferimento e fu acquistata dal Museo Royal
nel 1831: Luigi Filippo non ebbe tuttavia il coraggio
di esporla e la collocò provvisoriamente al Lussemburgo.
L’opera non può non essere considerata un vero e proprio quadro storico, in quanto la scena non riporta un
fatto preciso, realmente avvenuto, ma si può ritenere semmai un dipinto realistico per la rappresentazione
realistica dei personaggi che sono ritratti con quelle caratteristiche proprie del ceto sociale di
appartenenza.
Su queste figure, tese nello sforzo rivoluzionario, spicca quella della Libertà, che è però resa in modo più
allegorico che reale.
Da notare che Delacroix ha raffigurato se stesso nella veste del giovane studente con il fucile in mano.
Proprio nella perdita della solennità classica sta la differenza più evidente tra i personaggi che compaiono
nell’opera di Delacroix e quelli che animano “La zattera delle Medusa” (1818-1819) di Géricault, con cui la
critica ha sempre visto alcune assonanze.
E se ci sono analogie nella posizione assunta dai protagonisti e nella resa in crescendo del movimento,
nell’opera di Delacroix questo moviménto si trova invertito, culminante nello slancio della Libertà che si
protende in avanti verso lo spettatore; i dati realistici, presenti in entrambe le opere, sono esaltati dalla
caratterizzazione della condizione sociale dei soggetti.
Per quanto riguarda il colore, si possono cogliere riferimenti a Rubens: esso, infatti, si presenta fluido, con
ampie possibilità di timbro e di tono, e avvolge le figure in un’atmosfera carica di emotività.
L’artista sembra così partecipare, almeno sperimentalmente, ai moti del 1830, testimoniando il suo impegno
personale e la sua adesione al dramma della rivoluzione.
“La libertà che guida il popolo”, personificazione di tutte le rivoluzioni, ha goduto di grande fortuna in tutto
il mondo ed è stata più volte riprodotta con varie tecniche, soprattutto dopo il 1848, quando fu utilizzata
per il frontespizio del giornale “Le Salut Public”, e successivamente per “La République”.
In tempi a noi più vicini, fu impiegata dal generale Charles de Grulle per invitare i Francesi a partecipare al
referendum del 21 ottobre 1945. Renato Guttuso, nel 1957, si ispirò ad essa per il suo disegno “La liberta
guida il popolo algerino”.

277
CAPITOLO 15 IL ROMANTICISMO

LA BARCA DI DANTE

“La barca di Dante” è un dipinto ad olio su tela di cm 189 x 246 realizzato nel 1822 dal pittore francese
Eugène Delacroix.
È conservato al Museo del Louvre di Parigi.
Il quadro tratto dall’ottavo canto dell’inferno dantesco raffigura Dante e Virgilio, traghettati oltre il lago
dell’Inferno, mentre nel fango della palude infernale le anime immerse dei dannati cercano di assalire la
barca mordendosi avvicenda.
La barca è pilotata da Flegias il demone nocchiero.
Il dipinto rappresenta la traversata che avrebbe
portato Dante e Virgilio nell’infuocata città di Dite,
dove si narra del passaggio dello Stige, nel quale
durante il tragitto, il poeta incontra l’anima di Filippo
Argenti, un iroso fiorentino che intende rovesciare la
barca.
L’artista ha messo tutti i personaggi in un ambiente
tenebroso, dal cui fondo emergono fuoco e nuvole
di fumo.
Ogni corpo comunque ha dei bagliori di luce che
lo modellano: Flegias è intento a remare e, Dante
impaurito cerca riparo presso Virgilio.
La barca di Dante
I corpi richiamano quelli michelangioleschi. Le
goccioline d’acqua sul ventre della donna dannata
sono formate da colori puri e giustapposti.
Qui conta l’azione, il contesto ambientale, ma la figura di Dante è comunque sentita e resa con vigore.
II poeta appare come un eroe che supera l’ostacolo delle acque tempestose, il gesto della mano acconpagna
e fissa la sua determinazione e, quasi di conseguenza, il volto risuìta meno caratterizzato.
Dal punto di vista artistico la composizione è piramidale.
Le figure vengono verso di noi, c’è richiesta di partecipazione, la storia ci viene incontro, ne facciamo
parte.
I corpi sono rappresentati con realismo, si dipingono i particolari senza un filtro idealizzante.
Notevole è la ripresa di Géricault per la struttura: il tutto è, infatti, giocato su una costruzione piramidale che
però manca anche in questo caso di una base stabile.
Sono molto forti e ben resi i rossi dell’incendio.

FRANCESCO HAYEZ

Francesco Hayez è stato uno dei più grandi pittori italiani aderenti al
movimento Romantico di carattere storico.
Nacque il 10 febbraio 1791 in una famiglia veneziana di condizioni
modeste.
Ultimo di cinque figli, venne affidato ad una sorella della madre
che aveva sposato un mercante d’arte proprietario di una discreta
collezione di dipinti.
Già da piccolo mostrò una predisposizione per il disegno e lo zio lo
affidò ad un restauratore affinché ne imparasse il mestiere.
Divenne allievo del pittore Francesco Magiotto presso il qua-le ri- mase
per tre anni.
In seguito venne ammesso ai corsi di pittura della Nuova Accademia di
Belle Arti dove fu allievo di Teodoro Matteini.
Ma sicuramente il suo maestro più importante sarà Antonio Canova,
che divenne anche il suo protettore oltre che la sua guida nel periodo
Autoritratto di Francesco Hayez all’età di 69 anni romano seguente alla vincita del prestigioso concorso indetto
dall’Accademia di Venezia (1809).

278
IL ROMANTICISMO CAPITOLO 15

Nel 1814 lasciò Roma in seguito ad un’aggressione, pare per vicende sentimentali, e si trasferì a Napoli.
Nel 1822 viene chiamato ad insegnare all’Accademia di Belle Arti di Brera, come aiuto di Luigi Sabatelli.
Insegnò all’Accademia, come aggiunto, fino al 1850, quando, alla morte di Sabatelli, ne assunse la cattedra
che tenne fino al 1879.
Si spense a Milano il 21 dicembre 1882 alla ragguardevole età di 91 anni.
La sua arte, basata su eccellenti doti di disegnatore, non è esente da una certa freddezza ed artificiosità.
Il suo romanticismo è sempre stato considerato infatti più formale che sostanziale.
La sua miglior produzione artistica è considerata quella dei ritratti che egli fece ad alcuni degli uomini più
famosi dei suoi tempi: Gioacchino Rossini, Ugo Foscolo, Alessandro Manzoni, Antonio Rosmini, Massimo
d’Azeglio e Cavour.
L’elencazione delle opere di Hayez non è agevole in quanto spesso non le firmava oppure non le datava.
Spesso la data indicata nei testi non è veramente la data di produzione, ma è quella di donazione.
Inoltre dipingeva più volte gli stessi soggetti con minime variazioni oppure a volte senza modifica alcuna.
La sua produzione fu vastissima (si contano circa 60 opere solo tra le maggiori) e distribuita in un arco di
vita che comprende oltre 75 anni.
Tra i suoi più noti capolavori possiamo sicuramente annoverare il Bacio, l’Accusa segreta e L’ultimo
abboccamento di lacopo Foscari.

IL BACIO

Il bacio è un’opera, realizzata da Francesco Hayez nel 1859 e conservata a Milano nella Pinacoteca di Brera.
Oltre questo dipinto, l’artista realizzò tre repliche con lo stesso soggetto, delle quali due versioni sono in
collezioni private ed un’altra, in
cui il vestito della donna è bianco,
fu realizzata nel 1861.
In questo quadro l’autore riunisce
le principali caratteristiche del
romanticismo storico italiano,
ovvero un’assoluta attenzione
verso i concetti di naturalezza e
sentimento puro (l’amore ideale),
ma soprattutto verso gli ideali
risorgimentali (l’amore per la
patria).
Ciò che colpisce immediatamente
l’osservatore è l’enorme sensualità
e sincerità che scaturisce
dall’abbraccio dei due amanti.
Per la prima volta viene espresso
in un quadro un bacio passionale
e carico di emotività.
Questo legame è tanto forte che
riesce ad annullare ogni contrasto,
come quello del freddo celeste
della veste della donna e del
colore caldo dell’abito dell’uomo
(il quale ha le gambe posizionate
in modo tale da assecondare la
sensuale inclinazione del corpo
femminile).
La gamba sinistra dell’uomo,
appoggiata sul gradino, è
espressione della prematura
partenza del personaggio, ed è
Il bacio
proprio questo particolare che

279
CAPITOLO 15 IL ROMANTICISMO

dona enfasi alla composizione, e dolcezza nel gesto.


La scelta dell’artista di celare i volti dei giovani conferisce importanza all’azione e le ombre che si possono
scorgere dietro al muro, nella parte sinistra del quadro, indicano un eventuale pericolo.
È però da non dimenticare il reale significato storico dell’opera, infatti Hayez attraverso i colori (bianco della
veste, il rosso della calzamaglia, il verde del cappello e del risvolto del mantello e infine, l’azzurro dell’abito
della donna) vuole rappresentare l’alleanza avvenuta tra l’Italia e la Francia (accordi di Plombierès). Bisogna
ricordare che questo quadro venne presentato all’Esposizione di Brera del 1859, a soli tre mesi dall’ingresso
di Vittorio Emanuele II e Napoleone III a Milano.
L’intera scena, a giudicare dagli abiti e dall’architettura, si svolge in un’ambientazione medioevale, ma in
realtà è del tutto immersa nel presente a causa del significato e del soggetto iconografico (il bacio) del tutto
nuovo.
Inoltre quest’opera esprime, non solo il concetto sentimentale, ma crea all’interno dell’opera un vero e
proprio spazio intimo di coinvolgimento emotivo dell’osservatore; la presenza di miste-ro legata alla figura
in penombra dell’androne non appare primaria alla visione globale, in quanto l’osservatore viene catturato
dall’intensità degli amanti che sono posizionati sull’asse di simmetria.
Riassumendo, Hayez con quest’opera vuole trasmettere il senso di amore, di desiderio e il senso di
irrequietezza popolare per quello che poi sarà il Regno d’Italia.

L’ACCUSA SEGRETA

Il celebre dipinto è entrato a far parte delle collezioni


civiche nel 1919 per dono di Maria Marozzi l’Accusa
segreta di Francesco Hayez e La signora di Monza
di Giuseppe Molteni si affiancavano, dotati della
medesima elaborata cornice in legno dorato che
tuttora conservano.
La data dell’esecuzione - tra il 1847 e il 1848 - si
desume dalle paro-le di Luigi Toccagni: “Mi ricordo
di avere visto, due o tre anni fa - scrive il critico
attorno al 1845 - nello studio dell’Hayez , un quadro
che rappresentava una sola figura di giovane donna
bellissima, se non che gli alterati e pallidi sembianti
di lei, gli occhi pieni di lagrime e le vesti disordinate
troppo mi dicevano che quella sventurata bellezza era
in preda a doppio ed opposto effetto d’amore insieme
e di furore.
Quella non so s’io debba dir meglio dolorosa od insana
donzella stringeva fremente con la manca, facendone
tutto in viluppo, la ricca gonna dinanzi, e la maschera
trattasi pure test, dal volto, e con le due prime dita della
destra teneva un foglio, in atto di deporlo nella bocca a
un leone scolpito a lei d’accosto.L’architettura maestosa
dell’edificio, la veduta nel fondo della Laguna, alcune
gondole galleggianti su questa, la magnificenza dei
circostanti paragi, senza più mi annunziavano che il
luogo del fatto in quella tavola istoriata era Venezia,
e proprio il palazzo ducale, dove, co-me tutti sanno, L’accusa segreta, 1847-48, Pavia, Pinacoteca Civica Malaspina

era la tremenda gola del leone sempre spalancata ad


ingojar le denunzie dei segreti delatori, ed a vomitar poi le più volte la morte contro i miseri denunziati“.
Come testimoniano le parole dello stesso Hayez, in questa opera si narra la vicenda (con tutta probabilità
realmente accaduta) di una giovane veneziana che, tradita dall’amante, si reca al palazzo dei tre Cardinali
del Consiglio di Venezia per muovergli un’accusa di Stato.
Infatti, nella piazza del Consiglio vi era la statua di un mostro con le fauci aperte dove i veneziani si recavano
per gettarvi dentro lettere con accuse varie, che poi il consiglio analizzava.

280
IL ROMANTICISMO CAPITOLO 15

Gli occhi della giovane sono proprio volti verso questa statua, e lasciano trasparire tutta l’indecisione
e la sofferenza per la scelta, che è dettata dall’amore per l’uomo e allo stesso tempo dall’odio per il
tradimento.
Com’è noto, l’Accusa segreta è il primo, in ordine di tempo, di una serie di tre dipinti dedicati da Hayez al tema
della delazione per motivi amorosi, di cui fanno parte “Il consiglio alla vendetta” (opera oggi non visionabile
in quanto non si conoscono né il proprietario né l’ubicazione) dove Rachele suggerisce all’amica Maria
di vendicarsi dell’amante che l’ha tradita, denunciandolo come cospiratore contro la Serenissima e che
rappresenta, dunque, il momento dell’azione precedente - e “Vendetta di una rivale” (anche di quest’opera
non si conosce il proprietario è l’ubicazione), che raffigura la scena successiva all’atto di delazione e il
compimento della vendetta della bella veneziana.
Non vi è dubbio che nell’ideazione iconografica del trittico Hayez sia stato consigliato, affiancato, influenzato
dall’amico poeta e collezionista Andrea Maffei, che in quegli stessi anni stava componendo, sul medesimo
tema della vendetta per amore, due romanze: Le veneziane, cui si riferisce il dipinto omonimo, e La vendetta,
di cui i primi due dipinti hayeziani sembrano la fedele trasposizione pittorica.
Per quanto riguarda in particolare l’invenzione della tela pavese, sono da sottolineare soluzioni formali
d’altissima qualità nel taglio scenografico dell’ambientazione architettonica e paesistica; nella ripresa
ravvicinata - di grande suggestione drammatica - del volto femminile, tormentato e contratto; nella resa
magistrale della veste color smeraldo e del velo nero trasparentissimo; nell’uso sapiente della luce e del
controluce, che staglia i contorni della bella veneziana sullo sfondo ombroso delle arcate di Palazzo Ducale
e di una Venezia assolata e afosa.

L’ULTIMO ABBOCCAMENTO DI GIACOMO FOSCARI

Questo dipinto è considerato uno


dei capolavori della produzione
hayeziana.
Fu commissionato nel 1838
dall’imperatore Ferdinando I
che, recatosi a Milano per la
cerimonia dell’incoronazione,
incontrò Hayez, con cui già nel
1836 aveva avuto un colloquio
per le decorazioni della Sala delle
Cariatidi di Palazzo Reale.
Esso costituì uno dei pezzi
più preziosi e innovativi della
collezione reale per la quale
il sovrano ordinò un nu cleo
consistente di opere a numerosi.
Essa è ispirata ad uno tra i temi
più frequentati del repertorio
L’ultimo abboccamento di Jacopo Foscari, 1852-54, olio su tela, cm 121 x 167,5
Firenze, Galleria d’Arte Moderna, Palazzo Pitti romantico, quello dei Due Foscari,
la cui fortuna è testimoniata dalla
tragedia byroniana del 1821 e dal melodramma di Giuseppe Verdi del 1844. Stando a quanto Hayez stesso
annotò nelle Memorie, la scelta di questo soggetto si deve ad una serie di circostanze particolari spiegate
così dall’artista: “(...) mi dissero che mi avrebbero dato una commissione e che intanto pensassi ad un qualche
soggetto di mio genio purché tratto dalla storia veneta.
Difatti non passò due giorni e la commissione mi fu data e che dovessi presentare il soggetto, ed io senza perder
tempo proposi Vittorio Pisani liberato dal carcere (...). In pari tempo siccome queste cose si trattavano in Cancel
leria del conte Kolowrat qual ministro dell’Interno S.E. nell’approvare il soggetto per S.M. e volendo egli stesso
un mio dipinto me lo commetteva indicandomi per tema il Doge Francesco Foscari che vede il figlio per l’ultima
volta prima che questo parta per l’esilio, il quadro di gran dimensione.
Il giorno appresso il segretario del detto Conte venne da parte di questo sig. a dirmi che il Foscari lo dovessi
eseguire per S.M. beninteso con figure a 2/3 che piacendogli di più pregava il suo Ministro a cederglielo quindi

281
CAPITOLO 15 IL ROMANTICISMO

per il sig. Conte il Pisani con figure piccole, così fu fissato anche con mia soddisfazione (...)”.
Le ragioni di questa vicenda, che documenta l’interesse di Ferdinando I per questo particolare episodio
storico, possono essere ricondotte ad un probabile processo di identificazione del committente nel
protagonista del quadro, confermato, dal ritratto del sovrano, realizzato da Hayez nel 1840, che raffigura
un personaggio “malinconico, quasi spettrale, oppresso sotto il peso insopportabile dell’ermellino regale,
simile a quello che costringe le spalle ricurve del Foscari.
Una particolare predilezione dell’artista stesso per questo soggetto è comunque testimoniata dalla
presenza di numerose varianti: Hayez aveva infatti realizzato, nel 1832, una prima versione, oggi dispersa,
commissionata da Luigi Taccioli.
Alla versione per Ferdinando I seguirono altre due varianti: la prima, più celebre, del 1852-1854, acquistata
da Andrea Maffei, la seconda, dispersa, realizzata per il banchiere napoletano Giovanni Vonwiller e riferibile
al 1859.
La fonte letteraria utilizzata da Hayez è l’Histoire de la République de Venise di Daru, un testo presente nella
biblioteca del pittore nell’edizione del 1826.
Rispetto però alle indicazioni del testo francese l’artista volle rievocare la suggestiva atmosfera della Venezia
quattrocentesca ambientando la scena nell’angolo del portico al primo piano di Palazzo Ducale, con la
chiesa di San Giorgio ancora in stile gotico sullo sfondo.
La complessa regia del dipinto, che, in occasione della sua presentazione a Brera nel 1840 suscitò grande
interesse, risulta basata sulla presenza centrale dell’imponente e solenne figura del doge, padre del
condannato, cui si contrappone, per atteggiamento, quella del figlio supplicante.
Jacopo Cabianca, autore di un commosso commento pubblicato sull’Album dell’esposizione, si soffermava
in particolare sulla riuscita caratterizzazione del doge, in cui “la maestà della sventura, e l’aria generosa di
una straziante rassegnazione fanno più venerabile l’antica sua testa”.
Alle due cupe e tragiche figure della moglie di Jacopo e della vecchia madre, isolate sulla sinistra, si alterna
quella “elegiaca”, ma ancora più patetica dei bambini.
Infine, in secondo piano, il gruppo dei persecutori tra i quali spicca la figura di Loredano, nemico della
famiglia Foscari.
Il suo volto è barbaramente tranquillo e nemmeno parzialmente scalfito dalla soddisfazione per la
vendetta.
Mostra con un dito la galera già pronta a ricevere l’esiliato; e quell’atto freddo e sicuro come scrive Cabianca
“mette ribrezzo nel cuore”.
Sullo sfondo, oltre gli archi, è visibile la chiesa di S Giorgio, un’ulteriore rievocazione della Venezia del
Quattrocento.
Le aspettative di Hayez, che confessò la sua certezza di guadagnare anche la stima dei pittori tedeschi
di Vienna”, non furono deluse: il dipinto godette, infatti, di una straordinaria ammirazione negli ambienti
artistici viennesi, che ne apprezzarono soprattutto l’interpretazione stilistica caratterizzata, nel gioco di
tonalità calde e di trasparenti e dorate velature, da quell’impronta neoveneta, già notata dal recensore
milanese, che è cifra inconfondibile di questa fase della produzione hayeziana.

FRANCISCO GOYA

Francisco José de Goya Lucientes (Fuendetodos, 30 marzo 1746 - Bordeaux, 16 aprile 1828) è stato un pittore
e incisore spagnolo.
Nasce in un piccolo pezzo dell’Aragona nei pressi di Saragozza da una famiglia della piccola borghesia. Il
padre José era un maestro doratore.
Trasferitosi nel 1763 a Madrid, partecipa senza successo al concorso indetto dall’Accademia di Belle Arti di
San Fernando di Madrid per l’assegnazione di una borsa di studio.
Al bando successivo del 1766, Goya ritenta, sempre senza risultato, l’ammissione all’Accademia di Madrid.
In ricerca di una qualificazione professionale maggiore, nel 1770 intraprende un viaggio in Italia a proprie
spese per studiare i maestri dell’antichità classica e rinascimentale.
Visita Venezia, Siena, Napoli e Roma dove ha contatti con molti giovani artisti europei.
A Parma, nel 1771, partecipa ad un concorso di pittura indetto dall’Accademia di Belle Arti, ottenendo però
solo il secondo posto.
Forte del nuovo status di artista derivato dall’esperienza italiana, il 21 ottobre 1771 fa ritorno in Spagna

282
IL ROMANTICISMO CAPITOLO 15

dove vince la sua prima commissione ufficiale per le decorazioni della cappella di Nuestra Senora del Pilar
a Saragozza.
Il 25 luglio 1773, Goya sposa Josefa Bayeu (1747-1812), sorella del suo amico Francisco Bayeu, pittore già
affermato a corte.
In quegli anni il pittore dipinge numerose opere religiose a Saragozza, tra le più importanti ci sono
certamente le pitture realizzate nel 1774 per la cartuja, o monastero certosino, l’Aula Dei a circa 25 chilometri
dalla città.
In quegli anni comunque non furono i soli lavori cui si dedicò. Nel luglio 1778 Goya pubblica una raccolta
di nove incisioni, nove acqueforti in cui riproduce celebri opere di Diego Velazquez, il pittore che aveva
dominato l’arte della corte spagnola del diciassettesimo secolo.
In quegli anni non esistevano in Spagna musei pubblici, ed i palazzi reali erano chiusi al pubblico.
Per apprezzare le opere dei grandi maestri ci si doveva accontentare delle copie eseguite dagli incisori.
Grandi incisori del passato erano stati l’italiano Marcantonio Raimondi, che nel sedicesimo secolo si era
dedicato a riprodurre Raffaello, ma in Spagna non esisteva nessuna tradizione nell’incisione.
Per questo motivo molti capolavori spagnoli rimanevano del tutto sconosciuti a chi non appartenesse alla
ristretta cerchia dei privilegiati che frequentava la corte.
Grandi maestri del passato non potevano essere studiati dai pittori dell’epoca e rimanevano del tutto
sconosciuti al di fuori della Spagna.
Nel 1779 circa Goya realizza l’acquaforte Agarrotado, raffigurante un condannato a morte strangolato
tramite la garrota.
Di quest’opera non fu mai tirata un’edizione e, data anche la crudezza del soggetto, si suppone che sia stata
incisa solo per se stesso.
Goya con quest’opera comincia a mostrare il suo interesse quasi morboso per i criminali, scene violente,
ingiustizie sociali, inizia così ad emergere il lato oscuro di Goya.
Un lato oscuro che si manifesterà pienamente venti anni più tardi nella serie di incisioni Capricci dove
spiccano numerose scene di stregoneria, un tema affrontato anche in grandi opere pittoriche, sia precedenti
sia posteriori.
Successivamente Goya si dedicherà alla ritrattistica, genere che lo confermerà definitivamente come il
pittore spagnolo di maggior rilievo di quest’epoca.
Mentre si trova in Andalusia, Goya si ammala gravemente e solo alla fine del 1793 sarà in grado di tornare a
Madrid, sordo e duramente provato da un attacco di paralisi.
Nonostante la cattiva salute dal 1794 al 1800 Francisco Goya dipinge un numero di capolavori
impressionante.
I soggetti sono spesso ispirati dal gruppo dei suoi amici liberali, aspetti di vita popolare, ma anche le prime
scene di follia, stregonerie e supplizi.
Il suo stile cambia, poco a poco abbandona l’uso dei colori freschi per gli effetti monocromatici, usando una
pennellata più aspra ed incisiva.
Nel 1797 Francisco Goya inizia a lavorare ai “Capricci”, una serie di 80 incisioni in grande formato, numerate
e firmate, che sono una satira appassionata all’eterna miseria umana vista attraverso i costumi del suo
tempo.
Con l’utilizzo, artisticamente sapiente dei bianchi e dei neri, Francisco Goya riesce ad ottenere effetti estetici
e psicologici unici, esprimendo, con grande fantasia, la sua ribellione contro ogni forma di oppressione e
superstizione.
Le incisioni “Disastri della guerra” eseguiti da Goya tra il 1810 ed il 1820 e le due celebri “Fucilazioni” del 1814:
il 2 maggio 1808 e il 3 maggio 1808, documentano in modo drammatico le feroci rappresaglie dell’esercito
di Napoleone e le sofferenze del popolo spagnolo.
Per complesse ragioni politiche e per maneggi di cortigiani, Francisco Goya compromesso dalle sue
posizioni “liberali”, perde alcuni dei suoi protettori e cade in disgrazia a corte.
Questo è per il pittore, ormai ultrasettantenne, l’occasione per ritirarsi nella sua casa di campagna, la “Quinta
del Sordo”, dove ricopre le pareti con immagini angoscianti e visionarie: le cosiddette “Pitture nere”.
Nel 1824 parte per la Francia e si stabilisce a Bordeaux dove muore il 16 Aprile del 1828.
Nei suoi ultimi lavori, nonostante la malattia, i problemi di vista e la sordità, Francisco Goya si esprime con
una tecnica che mostra come la sua arte fosse ancora in evoluzione.
La maja desnuda (1800) e La maja vestida (1800) sono due dipinti di Francisco Goya.
Sono oggi conservati al Museo del Prado di Madrid.

283
CAPITOLO 15 IL ROMANTICISMO

In origine facevano parte della collezione di opere d’arte del Ministro spagnolo Manuel Godoy.
Occorre a questo punto precisare che in Spagna le immagini di nudo, anche quelle ipocrita mente
ammantate dell’aura mitologica tipica della pittura europea del tempo, ma queste erano proibite dalla
Chiesa e punite dall’Inquisizione: si arrivò al punto che nel XVIII secolo due re spagnoli mandarono al rogo
tutti i nudi presenti nelle collezioni reali.
La Desnuda è evidentemente un nudo del tutto diverso: solo un uomo potente come Godoy poteva sfidare
in modo così aperto le disposizioni del Sant’Uffizio e tenersi in casa un quadro del genere.
Nel 1807 Godoy cadde in disgrazia presso il nuovo re Ferdinando VII che si appropriò della sua collezione
di dipinti.
Il 16 marzo 1815 la Camera Segreta dell’Inquisizione ordinava:“ ... che si chiami a comparire davanti a questo
tribunale il detto Goya perché le riconosca e dica se sono opera sua, con che motivo le fece, per incarico di
chi e che fine si proponesse”.
Non sappiamo quali furono le risposte che Goda dovette dare dinanzi al Tribunale dell’Inquisizione:
sappiamo che il pittore evitò una condanna grazie all’intercessione del cardinale Luigi Maria di Barbone -
Spagna, ma la Denuda fu sequestrata perché ‘oscena’ e praticamente cancellata alla vista di chiunque fino
all’inizio del XX secolo.

LA MAJA DESNUDA

Benché il suo genio porti Goda


a trascendere ogni possibile
movimento o tendenza artistica
è possibile collocare il quadro
nell’ambito del Neoclassicismo.
Pur in questo ambito tuttavia
quest’opera, come altre dello
stesso autore, risulta audace
e singolare per l’epoca, come
parimenti audace è l’espressione
dello sguardo e l’atteggiamento
della modella che sembra
La Maja desnuda
sorridere soddisfatta e contenta
delle sue grazie.
Oltre agli altri nudi che si trovavano nel gabinetto segreto di Goya gli studiosi hanno individuato altre
possibili fonti iconografiche, in particolar modo Tiziano e le sue opere presenti nelle collezioni reali.
Nella cultura occidentale fino a Goya la rappresentazione del corpo nudo femminile ha sempre dovuto
ricorrere a vari sotterfugi (“temi mitici”... ); con questo dipinto la donna è reale, carne e sangue.
È cioè il ritratto sconcertante e preciso di una donna nuda sdraiata fra lenzuola stropicciate che espone la
propria sessualità per attrarre lo spettatore: si comprende come dovette essere celata sotto l’immagine ben
più rassicurante e generica della Vestida.
Il volto è affilato, sottile, gli occhi allucinati, senza trucco ma vivi e mobili, i capelli morbidi e arricciati.
Il corpo, di orgogliosa naturalezza, dalle minute proporzioni, è particolarmente luminoso.

LA MAJA VESTIDA

Il velo bianco di questa Maja si stringe talmente alla figura, in particolare ai fianchi e al seno, da farla sembrare
quasi più nuda di Waltra.
La fascia ai fianchi è di seta luminosa, la giacchettina gialla e nera non è il classico bolero, e le sue scarpe
dalla punta lunga e affusolata sono più tipiche delle ricche signore che delle majas: sembra quasi che il
pittore abbia voluto ritrarre una donna aristocratica che amava vestirsi come le giovani popolane; questo,
insieme con gli abiti disegnati con l’unico scopo di far risaltare la sensualità del corpo, rende il tutto carico
di ambiguità: il travestimento fonte di erotismo, lasciando allo spettatore il compito di sve-lare.
Goya ha dipinto con pennellate svelte, pastose e molto leggere, a differenza della Desnuda, tocchi più

284
IL ROMANTICISMO CAPITOLO 15

casuali e meno rifiniti, colori più


accesi.
La giacchetta e il divano sono
resi in modo molto sommario,
i merletti e la biancheria sono
modificati e semplificati. Anche
lo spazio in fondo è piatto, senza
illuminazione diffusa che, nella
Desnuda, dava risalto al corpo
nudo in primo piano.
Della naturalezza ostentata della
Desnuda rimane flebile traccia
solo nel volto: tuttavia è molto La Maja vestida
diverso, tanto da far pensare a
qualcuno che non si tratti della stessa persona.
In realtà la Vestida, con le guance pienotte, il mento tondo, gli occhi truccati e i capelli neri non ha gli stessi
caratteri della Desnuda: volto affilato, non truccata, capelli castani.
La Vestida, a ben guardare, non rappresenta alcuna donna particolare: è solo il generico ritratto di un ritratto
pittoresco di donna esuberante, raffigurazione convenzionale di una maja.

IL 3 MAGGIO 1808

Il 3 Maggio 1808 è uno dei quadri storici più drammatici che mai siano stati realizzati.
Il sentimento che emana l’opera è l’amore per la libertà e la patria; un sentimento che diviene storicamente
una rivolta contro la crudeltà delle esecuzioni in massa del popolo per opera dei soldati francesi.
Goya quindi rappresenta la ribellione delle passioni popolari che vengono immortalate nei gesti di
sofferenza dipinti da Wartista.
Ma la sua espressione visiva va al di là della rappresentazione dell’evento, assumendo una dimensione
umana universale, il simbolo cioè della rivolta dei popoli contro le oppressioni di altri popoli.
Sul parallelismo fra i due dipinti due storici dell’arte inglesi, Hugh Honour e Jo Fleming, affermano: «I soldati
francesi di Goya echeggiano le posizioni degli Orazi, ma stanno fucilando un gruppo di civili indifesi arrestati
a Madrid dopo la rivolta del giorno prima contro l’esercito di occupazione.
Ma l’accento è posto sulle vittime, e su di loro è attirata la simpatia dello spettatore, specialmente sull’uomo
in camicia bianca che si contrappone a braccia tese all’anonimo plotone di esecuzione.
I due autori sottolineano ancora che il dipinto trova il suo autentico e profondo significato: “Come martirio
laico, un martirio senza il minimo raggio di speranza nella possibilità che gli evidenti mali di questo mondo
siano riparati nell’altro.
La sola fonte di luce è la gigantesca lanterna ai piedi dei soldati, forse un simbolo della logica rigorosa
dell’illuminismo nella quale gli intellettuali spagnoli, Goya compreso, avevano posto le proprie speranze di
salvezza.
Tutto sembra essere fallito, l’illuminismo come la Chiesa, rappresentata dai campanili sullo sfondo e dal
monaco tonsurato che figura tra i condannati.
A dar significato a un mondo caotico restano soltanto l’artista e la sua visione, e quella di Goya era già troppo
amareggiata e violenta per concedere sollievo o distrazione dall’orrore del soggetto con la delicatezza delle
pennellate o l’armonia dei colori, che già avevano “neutralizzato” altri temi feroci nell’arte precedente”.
Goya qui esalta la scena rendendo il terrore con dita di colore e volti di uomini appena abbozzati.
Egli così capovolge in questo dipinto la tradizione occidentale dell’eroismo, tacendo emergere una nuova
visione della storia in cui le strutture ideali, morali e politiche dell’Occidente sono destrutturate a favore del
conflitto anonimo tra uomini.
Nell’anno in cui fu dipinto il 3 Maggio 1808, la visione di Goya di un’umanità disumanizzata appare come
una profezia lucida e drammatica che inaugura una nuova ed inquietante epoca storica.

285
CAPITOLO 15 IL ROMANTICISMO

SATURNO CHE DIVORA I SUOI FIGLI

Rappresenta un tema: il dio essendogli stato


profetizzato che uno dei suoi figli lo avrebbe
soppiantato, era solito divorarli al momento stesso
della loro nascita.
L’opera fa parte della serie detta delle “Pitture nere”,
serie di tredici dipinti realizzati da Goya sulle pareti
della propria casa.
Dipinti della serie sono tutti caratterizzati da toni
scuri, temi macabri e volti deformati e spaventosi.
Non erano stati commissionati e non erano intesi
per essere mostrati al pubblico.
Il dipinto di Saturno che divora i suoi figli era uno dei
sei con cui Goya aveva decorato la sala da pranzo
della casa.
Come per gli altri dipinti della serie, il titolo dell’opera
fu dato da altri dopo la sua morte.
Presenta pochi elementi, vivificati da un sapiente uso
degli effetti di luce, che fanno risaltare il contrasto
tra i colori scuri con cui è resa la figura del dio e il
sangue rosso acceso del figlio dilaniato.
L’opera sembra aver subito meno degli altri i
danni del tempo e della delicata operazione di
trasferimento dall’intonaco alla tela.
Sono state offerte varie interpretazioni del significato
del dipinto: il conflitto tra vecchiaia e gioventù, il
tempo che divorava i suoi figli migliori in guerre e
rivoluzioni, o, più in generale, la condizione umana
nei tempi moderni.
Goya trasse forse ispirazione da un’altra opera
conservata anch’esso
presso il Prado: si tratta tuttavia di un dipinto
maggiormente convenzionale e rappresenta il dio
compiere l’atto con maggiore freddezza e calcolo,
mentre nell’opera di Goya viene mostrato come Saturno che divora i suoi figli, Goya, olio su tela
un uomo preso dalla follia; inoltre il corpo del figlio
divorato è mostrato come quello di un bambino indifeso.
Lo stesso Goya aveva prodotto un disegno sul medesimo soggetto, più vicino al modello di Rubens.

286
CAPITOLO 16

L’IMPRESSIONISMO

287
CAPITOLO 16 L’IMPRESSIONISMO

L’Impressionismo è un movimento artistico (ed in modo speciale pittorico) nato in Francia nella seconda
metà dell’Ottocento e durato fino ai primi anni del Novecento.
Una precisa esperienza di gusto, un momento caratteristico e storicamente definito, identificano questa
tendenza nella civiltà artistica moderna.
Fondamentali per la nascita dell’Impressionismo furono le esperienze del Romanticismo e del Realismo,
che avevano rotto con la tradizione, introducendo importanti novità: la negazione dell’importanza del sog-
getto, che portava sullo stesso piano il genere storico, quello religioso e quello profano; la riscoperta della
pittura di paesaggio; il mito dell’artista ribelle alle convenzioni; l’interesse rivolto al colore piuttosto che
al disegno; la prevalenza della soggettività dell’artista, delle sue emozioni che non vanno nascoste e ca-
muffate, rapidi colpi di spatola, creando un alternarsi di superfici uniformi e irregolari, divenne il punto di
partenza per le ricerche successive degli impressionisti.
Un altro importante riferimento, difficilmente inquadrabile, fu Camille Corot, chiamato affettuosamente
dai suoi discepoli père Corot (papà Corot), con i suoi paesaggi freschi e semplici, lontani dalle convenzioni.
Nuovi stimoli vennero anche dall’Esposizione universale di Parigi del 1867, dove trovò sfogo l’interesse per
l’arte esotica, in particolare quella giapponese.
Hokusai e la scuola Ukiyo e rappresentavano scene di vita quotidiana molto vicine al realismo che andava
diffondendosi in Francia e in Europa. Già Baudelaire, alcuni anni prima, aveva distribuito agli amici delle
stampe giapponesi, che presto divennero una moda e furono apprezzate e acquistate anche dai pittori
impressionisti.
Si deve però ricordare che, nonostante l’allontanamento dalla tradizione, restava il punto fermo della copia
delle opere dei grandi del passato, custodite al Louvre.
Infine, importanti novità vennero dalle scoperte delle scienze, come la macchina fotografica e le Leggi
sull’accostamento dei colori di Eugène Chevreul: queste furono alla base della teoria impressionista sul
colore, che suggeriva di accostare i colori senza mescolarli, in modo tale da ottenere non superfici uniformi
ma “vibranti” e vive.
Gli impressionisti dipingevano all’aperto, con una tecnica rapida che permetteva di completare l’opera in
poche ore.
Essi volevano riprodurre sulla tela le sensazioni e le percezioni visive che il paesaggio comunicava loro nelle
varie ore del giorno e in particolari condizioni di luce, lo studio dal vero del cielo, dell’atmosfera, delle acque,
eliminò il lavoro al chiuso, in atelier, lo studio nel quale venivano completati i quadri più grandi o eseguiti i
ritratti; molti ritratti erano però anche realizzati all’aperto.
Lo sfondo, il paesaggio, non è qualcosa di aggiunto, ma avvolge le figure. Oggetti e persone sono trattati
con la stessa pennellata ampia e decisa.
La storia dell’impressionismo nasce ancora prima che si possa parlare di un vero e proprio movimento: nel
1863 Napoleone III inaugurò il Salon des Refusés, per ospitare quelle opere escluse dal Salon ufficiale. Vi
partecipò, tra gli altri, Édouard Manet con Le Déjeuner sur l’herbe, che provocò un notevole scandalo e che
venne definito immorale.
Due anni più tardi, lo stesso Manet scandalizzò nuovamente l’opinione pubblica con Olympia.
La prima manifestazione ufficiale della nuova pittura si tenne nel 1874, presso lo studio del fotografo Nadar,
alla quale parteciparono Claude Oscar Monet, Edgar Degas, Alfred Sisley, Pierre Auguste Renoir, Paul Cézan-
ne, Camille Pissarro, Felix Bracquemond, Jean-Baptiste Guillaumin e l’unica donna Berthe Morisot.
La mostra del ‘74 fu di per sé un’azione eversiva in quanto, al di là dell’estrema modernità delle singole
opere che sconvolse la critica, venne compiuta in risposta e contro il Salon, che le aveva rifiutate, e gli studi
accademici in generale.
Il nome di battesimo del nuovo movimento si deve al critico d’arte Louis Leroy, che definì la mostra Exposi-
tion Impressioniste, prendendo spunto dal titolo di un quadro di Monet, Impression, soleil levant.
Inizialmente questa definizione aveva un’accezione negativa, che indicava l’apparente incompletezza delle
opere, ma poi divenne una vera bandiera del movimento.
Caratteristiche della pittura impressionista erano i contrasti di luci e ombre, i colori forti, vividi, che avrebbe-
ro fissato sulla tela le sensazioni del pittore di fronte alla natura.
Il colore stesso era usato in modo rivoluzionario: i toni chiari contrastano con le ombre complementari, gli
alberi prendono tinte insolite, come l’azzurro, il nero viene quasi escluso, preferendo le sfumature del blu
più scuro o del marrone.
Fondamentale era dipingere en plein air, ovvero al di fuori delle pareti di uno studio, a contatto con il mon-
do.

288
L’IMPRESSIONISMO CAPITOLO 16

Questo portò a scegliere un formato delle tele più facile da trasportare; si ricorda che risale a questo perio-
do anche l’invenzione dei tubetti per i colori a olio e al cavaletto da campagna, facile da trasportare.
Il pittore cerca di fissare sulla tela anche lo scorrere del tempo, dato dal cambiamento della luce e dal pas-
sare delle stagioni.
Si ricordano a questo proposito le numerose versioni della Cattedrale di Rouen, riprodotta nelle diverse ore
del giorno e in diverse condizioni climatiche, di Claude Monet verso la fine del 1890.
Nonostante un filo rosso molto evidente colleghi tutti gli artisti impressionisti, sarebbe un errore conside-
rare questo movimento come monolitico.
Ogni artista, infatti, secondo la sua sensibilità lo rappresenta in modo diverso.
Per esempio Monet non si interessò principalmente alla rappresentazione di paesaggi urbani, ma soprat-
tutto naturali, arrivando, negli ultimi anni della sua vita, a ritrarre moltissime volte lo stesso soggetto (le
Ninfee) in momenti diversi, per studiarne i cambiamenti nel tempo.
Altri, come Renoir o Degas, si interessarono invece alla figura umana in movimento.
Molti sono gli artisti che non si possono definire del tutto impressionisti, ma che dell’Impressionismo sono
evidenti precursori, molti quelli che, nati in seno all’Impressionismo, se ne distaccheranno per intraprende-
re nuove strade.
L’unico artista che sempre, per tutta la sua vita, rimase impressionista fu Monet. In sintesi, si può affermare
che l’Impressionismo sia ai suoi inizi con Manet, culmini con Monet e si chiuda con Cezanne, che poi ne
uscirà.

EDGAR DEGAS

Edgar Hilaire Degas (Parigi, 19 luglio 1834 - Parigi, 27 settembre 1917),


è stato un pittore e scultore francese. La maggior parte delle opere di
Degas possono essere ascritte al grande movimento dell’Impressioni-
smo; nato in Francia verso la fine del diciannovesimo secolo in reazio-
ne alla pittura accademica dell’epoca.
Gli artisti che ne facevano parte come Claude Monet, Paul Cézanne,
Pierre Auguste Renoir, Camille Pissarro, stanchi di essere regolarmente
rifiutati al Salone Ufficiale, si erano riuniti in una società anonima per
mostrare la loro arte al pubblico.
In genere le caratteristiche principali dell’arte impressionista sono il
nuovo uso della luce e i soggetti all’aperto.
Edgar Degas è considerato un pittore impressionista che si stacca da
tale linguaggio artistico per diverse ragioni.
La prima deriva dal suo preferire il lavoro in studio anziché all’aria
aperta, la seconda è data dal suo completo disinteresse nella ricerca
Autoritratto della luminosità con le nuove e rivoluzionarie tecniche delle macchie
di colore accostate le une alle altre. La terza motivazione è il suo scar-
so interesse per il paesaggio e l’ultima, non meno importante, è la sua grande passione e il rispetto per il
disegno.
Nonostante tutto, partecipa a ben sette mostre impressioniste su otto.
La sua situazione d’eccezionalità non sfuggì ai critici di allora: anche se il suo modernismo imbarazzante
veniva messo in evidenza, fu il meno controverso degli artisti francesi dell’epoca.
Figlio del ricco banchiere di nobile famiglia Auguste Edgar De Gas, egli cresce in ambiente assai raffinato.
Ha quattro fratelli e gode di un’infanzia dorata.
Grazie alla posizione agiata della sua famiglia, trascorre gran parte della giovinezza viaggiando, soprattutto
in Italia, ma anche a New Orleans, dove ha dei parenti, e può scegliere per sè i maestri che preferisce.
Per amalgamarsi meglio ai suoi colleghi ed amici impressionisti, unirà il cognome in Degas, di aspetto meno
aristocratico e più borghese.
Nel frattempo, preferendo avvicinarsi direttamente all’arte dei grandi maestri classici quali Luca Signorelli,
Sandro Botticelli e Raffaello, viaggia spesso tra il 1856 e il 1860 in Italia, dapprima a Napoli, ove risiedeva la
sua famiglia, e poi a Roma e Firenze, dove diventa amico del pittore Gustave Moreau.
Tra le opere giovanili troviamo alcuni dipinti d’ispirazione neoclassica ma soprattutto numerosi ritratti di

289
CAPITOLO 16 L’IMPRESSIONISMO

membri della sua famiglia. Dal 1865 al 1870, Degas propone le sue opere al Salon.
Dal 1874 al 1886, Degas, invece le invia alle mostre impressioniste partecipando attivamente all’organizza-
zione delle stesse.
In questo modo stabilisce molti contatti con pittori della sua generazione, in particolar modo con Pissarro
ma anche con i giovani artisti dell’avanguardia.
A partire dal 1875, a seguito di numerose difficoltà materiali, la pittura diventa il suo mezzo di sostentamen-
to. Negli anni intorno al 1880, quando inizia a perdere la vista, Degas privilegia la tecnica del pastello, alla
quale a volte mescola la matita e la tecnica a guazzo.
I quadri di questo periodo testimoniano un lavoro molto moderno sull’espressività del colore e della linea.
Alla fine del 1890, quasi cieco, si consacra esclusivamente alla scultura che già praticava da una dozzina
d’anni, trasferendo i suoi soggetti preferiti in cera.
La mostra di ventisei paesaggi, che presenta nell’ottobre 1892 alla galleria Durand-Ruel, è la sua prima ed
ultima mostra personale.
A partire dal 1905, il pittore si ritira sempre più nel suo studio, lottando contro la cecità che avanza.
Quasi completamente cieco, Degas muore di una congestione cerebrale a Parigi 27 settembre 1917, all’età
di 83 anni. Viene seppellito al cimitero di Montmartre.
L’anno successivo, le opere accumulate nel suo studio e la sua importante collezione vengono vendute
all’asta.
La cosa principale che accomuna Degas agli altri impressionisti è la sensibilità innovativa ed informale che
entra in gioco nel dipingere la realtà.
Le sue tematiche preferite sono, i campi di corse, i caffè, i teatri, i boulevard, gli spettacoli di ballo, ed in gene-
rale gli ambienti interni con donne nella loro intimità ed immerse nel loro ruolo (dalle ballerine alle stiratrici,
alle donne in atteggiamenti di pettinarsi o di mettersi una scarpa).
Nulla sfugge alla sua esplorazione, crudele e qualche volta spietata, ma di solito penetrante.
Egli è un attento osservatore ed è in una continua ricerca psicologica nelle più profonde intimità dei perso-
naggi che rappresenta nelle sue tele, inserendo in esse la spontaneità della vita quotidianamente vissuta.
Studia appassionatamente le stampe giapponesi, dalle quali riesce a prendere le cose che più lo stimolano,
come ad esempio la composizione asimmetrica, apparentemente squilibrata, con figure umane raggrup-
pate ai lati più esterni della tela.
Per Edgar Degas è di importanza fondamentale il disegno. Ricorre spesso ad accurati studi preparatori e
molte volte, non essendo soddisfatto del lavoro finale, lo riprende in tutte le sue particolarità tanto da ren-
derlo diverso.
Qualche volta lo ricalca con carta trasparente per riportarlo su una nuova tela iniziando a ridipingerlo.
La sua tecnica non si limita alla pittura a olio ed al pastello, ma sperimenta sempre nuove forme artistiche
con combinazioni fuori dalla norma.
Intorno agli ultimi due decenni del secolo (l’Ottocento) ad Edgar si indebolisce fortemente la vista e si vede
così costretto a passare ad altre forme artistiche, con cui potersi più facilmente esprimere.
Scultura e pastello diventano il suo alimento quotidiano.
Con essi riesce a catturare il movimento nella sua immediatezza e tutte le figure vengono colte in pose
naturali che non riescono a nascondere gli sforzi fisici.
Le opere in pastello sono generalmente composizioni molto semplici e con poche figure, che vengono af-
fidate per comunicatività ed incisività al puro cromatismo, realizzando così una splendida semplicità com-
positiva.
La scena teatrale e soprattutto quella del balletto, costituiscono le sue grandi tematiche, e riproduce con
grande immediatezza e maestria le illuminazioni, gli sforzi, le tensioni, i gesti, i movimenti aggraziati delle
ballerine, la loro spossatezza, gli atteggiamenti di rilassamento e di riposo, e tutte le attività del “dietro le
quinte”. Degas acquisisce tale immediatezza e spontaneità grazie ad un’accurata ricerca durata molti anni.

CAVALLI DA CORSA DAVANTI ALLE TRIBUNE

Il tema delle corse è ricorrente nell’opera di Degas, un arti- sta che si ispira alla vita quotidiana dei suoi con-
temporanei. Questo fatto consente al pittore di affrontare un soggetto tradizionale, come quello dei fantini
e delle corse di cavalli, trasferendolo in un contesto moderno.
Infatti, è proprio durante la seconda metà del XIX secolo che i campi da corsa diventano un luogo di socia-

290
L’IMPRESSIONISMO CAPITOLO 16

lizzazione molto alla moda.


I borghesi parigini come Degas vi condividono la
loro passione per questo svago di origine britanni-
ca e aristocratica. Degas è altresì attratto da questo
tema per le possibilità che lo stesso offre di studiare
le forme e il movimento.
Degas subisce, inoltre, l’influsso dei vari artisti inglesi
specializzati nella raffigurazione delle corse di cavalli
che, in quel periodo sono di gran moda e delle rap-
presentazioni di scene equestri per merito dei gran-
di maestri del passato (Uccello, Gozzoli, Van Dyck) o
di artisti più contemporanei come Vernet, Géricault
o Meissonier.
Realizzata negli anni compresi tra il 1866 e il 1868,
La sfila, anche conosciuta con il titolo di Cavalli da Cavalli da corsa davanti alle tribune
corsa davanti alle tribune, è una delle prime pitture
che affrontano questo tema.
Degas riproduce la stessa atmosfera che si respira su un campo da corse.
In questa tela, l’idea dell’imminente partenza è suggerita dall’incedere nervoso dell’ultimo purosangue.
La scena solo in apparenza banale, di questo preciso istante, testimonia la volontà di limitare il ruolo del
“soggetto” in quanto tale nella pittura.
Degas accorda la precedenza alla luce e al disegno: l’artista mostra più interesse per le figure dei fantini e
per i cavalli che essi montano che alla partenza vera e propria della corsa.
Degas omette volontariamente alcuni elementi che consentirebbero di identificare subito il luogo dove si
svolge l’azione o i proprietari dei cavalli, come il colore delle casacche.
I singoli elementi del quadro in diagonale, i forti contrasti di luce, soprattutto le ombre che inseguono i
cavalli, sottolineano ulteriormente la prospettiva fino al punto di fuga situato sensibilmente al centro e che
mette in risalto l’ultimo fantino.

LA CLASSE DI DANZA

Degas si recava spesso dell’Opéra di Parigi non sol-


tanto in veste di spettatore ma intrufolandosi anche
dietro le quinte, dove era stato introdotto da un suo
amico musicista d’orchestra.
Sin dagli inizi degli anni settanta del XIX secolo e
fino alla morte dell’artista, le ballerine raffigurate
alla sbarra, alle prove o a riposo diventano il sogget-
to preferito di Degas, ripreso con una quantità incre-
dibile di varianti nei gesti e nelle posture, in molte
sue tele.
Più che dal fuoco sacro dell’arte e dalle luci della ri-
balta, il suo interesse è catturato dal lungo lavoro di
preparazione che sta alla base di ogni rappresenta-
zione.
In questa opera Degas raffigura la conclusione di
una lezione: le allieve, del tutto esauste, si riposano,
alcune si stiracchiano, altre si piegano per grattarsi
la schiena o per sistemarsi l’acconciatura, il costume
da ballo, un orecchino, un nastro, prestando poca
atten-zione all’inflessibile insegnante che, in que-
sto quadro, assume le sembianze di Jules Perrot, un
vero maestro di ballo.
La classe di danza
Degas ha osservato con attenzione i gesti più spon-

291
CAPITOLO 16 L’IMPRESSIONISMO

tanei, naturali e abituali dei momenti di pausa in cui la concentrazione si allenta ed il corpo si rilassa, dopo
lo sforzo di un’estenuante lezione condotta con ferrea disciplina.
Come di consueto, Degas sceglie un angolo decentrato per inquadrare la scena e il forte scorcio è accentua-
to dalle linee oblique delle tavole del parquet.
A tal proposito, Paul Valéry ha scritto: “Degas è uno dei pochi pittori che abbiano riconosciuto al suolo l’impor-
tanza che esso merita.
Alcuni pavimenti da lui raffigurati, rivestono grande importanza nella composizione”.
Questa affermazione è particolarmente vera se riferita alle ballerine per le quali il parquet che rappresenta
il loro principale strumento di lavoro, viene frequentemente pulito con un panno per scongiurare scivoloni
e cadute. Si tratta dello stesso parquet sul quale il maestro picchia il bastone per dare il tempo.

L’ASSENZIO

A differenza degli altri suoi amici impressionisti, Degas è un pittore che ha dipinto prevalentemente scene
di vita urbana privilegiando la raffigurazione di ambienti al chiuso, destinati alla proiezione di spettacoli, ai
divertimenti ed ai piaceri.
Tra le opere che raffigurano la vita interna del caffè, la più celebre è certamente l’Assenzio, dove in un an-
golino di un luogo pubblico, siedono immobili e con un’aria vagante, davanti al tavolo con due bicchieri
ed una bottiglia, una donna ed un uomo indifferenti alla vita che si svolge intorno a loro, assorti nei loro
pensieri, che sembrano ignorarsi a vicenda, ridotti a vita bruta dai fumi dell’alcool.
L’opera è stata anche accostata al celebre romanzo di Emile Zola, L’Ammazzatoio, composto qualche anno
dopo.
Lo scrittore stesso, rivolto a Degas,
gli confessa: “Ho semplicemente
descritto, in vari passaggi del mio
libro, alcuni dei suoi quadri”.
La portata realista del dipinto ap-
pare in tutta la sua evidenza: l’in-
quadratura stessa rende l’idea di
un’istantanea scattata dal vivo da
un testimone seduto ad un tavo-
lo vicino. Tuttavia, questa è un’im-
pressione ingannevole in quanto
l’effetto del reale è il risultato di
una minuziosa elaborazione.
Il quadro è un’opera di bottega e
non è stato realizzato sul posto.
I personaggi raffigurati nella tela
sono conoscenti dell’artista.
Si tratta di Ellen André, attrice e
modella d’arte e del pittore e in- L’Assenzio
cisore Marce II in Desboutin.
Poiché il quadro intaccava la loro reputazione, Degas sarà costretto a precisare pubblicamente che i due
non sono alcolisti.
L’inquadratura decentrata della tela, che tiene conto degli spazi vuoti e che divide in due la pipa e la mano
del personaggio maschile, si ispira alle stampe giapponesi.
Degas, tuttavia, ricorre a questo tipo di inquadratura per sottolineare i disagi e i malesseri provocati
dall’abuso di alcool. Espressiva e significativa è anche la presenza dell’ombra dei due personaggi, riflessa di
profilo sul grande specchio alle loro spalle.
La donna è una “ bella di notte” con un atteggiamento tra il pensieroso e lo smarrito, le mani strette le une
alle altre, dal vestito visibilmente di falsa lussuosità, l’uomo un robusto homeless con un sigaro in bocca e
il cappello tirato all’indietro, anch’esso con lo sguardo nell’abisso, non si capisce bene se assorto nei suoi
pensieri oppure assente.
Nell’opera si legge chiaramente una denuncia sui devastanti effetti che l’alcol produce quotidianamente e

292
L’IMPRESSIONISMO CAPITOLO 16

mette in evidenza gli stati sociali di appartenenza dei due protagonisti.


Lo sguardo degli osservatori del periodo si dirige sui due personaggi, non sul dramma da loro vissuto, ma
focalizzando la loro depravazione.
L’opera suscita subito un grande scandalo fra i conservatori che la vedono come una rappresentazione
di degenerazione, mentre per Degas rappresenta l’esplorazione profonda di un frammento di realtà colta
all’improvviso e di nascosto.

ÉDOUARD MANET

Édouard Manet è stato un pittore francese.


È conosciuto come il padre dell’Impressionismo, sebbene egli stesso
non abbia mai voluto essere identificato col gruppo degli Impression-
isti, né partecipò mai alle loro esposizioni.
Questo perché, per tutta la vita, preferì avere un riconoscimento uf-
ficiale davanti allo Stato mediante l’ammissione al Salon, e non “at-
traverso sotterfugi”, come lui stesso affermò.
Egli infatti manifestò una decisa posizione in difesa del principio del-
la libertà espressiva dell’artista, con opere che suscitarono scandalo
presso i suoi contemporanei, come La colazione sull’erba e Olympia.
A partire dal 1869 si dedicò alla pittura “en plaine air” (all’aperto) e le
sue uscite ai giardini delle Tuileries, sul retro del Louvre, divennero
quasi degli appuntameni mondani.
La sua attività di pittura continuò fino al 1883, con l’arrivo della sua
morte.
Il pittore ottenne una grandissima fama e tutt’oggi rimane il più grande
interprete della pittura preimpressionista.
Édouard Manet nacque a Parigi nel 1832 in una famiglia ricca e influ-
ente.
Édouard Manet nel 1867 (circa)
Il padre, Auguste Manet, era un giudice che avrebbe voluto che Ed-
ouard intraprendesse la sua stessa carriera.
Il giovane presto espresse il desiderio di entrare alla prestigiosa Ecole des-beaux-arts, ma come risposta, il
genitore lo fece imbarcare su una nave.
Il viaggio, che durò più di un anno, fortificò ancor di più le aspirazioni di Manet, che al ritorno ottenne final-
mente il permesso di studiare arte presso il celebre pittore Thomas Couture.
Lo stile accademico e banalissimo di Couture, però, mal si sarebbe adattato all’indole del giovane Manet,
che lasciò il suo maestro polemicamente, dopo sei anni.
Passato all’Academie, ebbe modo di seguire le lezioni del celebre Léon Bonnat, e di lì a poco conobbe i suoi
futuri compagni impressionisti (Monet, Sisley, Cézanne, Pissarro) ed dei letterati.
Viaggiò in Germania, Italia, Spagna e Olanda dove conobbe le opere di Frans Hals, Diego Velázquez e Fran-
cisco Goya. Divenne amico degli impressionis-
ti Edgar Degas, Claude Monet, Pierre-Auguste
Renoir, Alfred Sisley, Paul Cézanne e Camille
Pissarro, attraverso la pittrice Berthe Morisot,
che introdusse l’artista nel gruppo.
La Morisot convinse Manet a dedicarsi alla
pittura en-plein-air, conosciuta grazie a Jean-
Baptiste Camille Corot: fu anche fonte di ispi-
razione per alcuni spunti tecnici che l’artista
introdusse nelle proprie opere.
Nel 1863 Édouard sposò Suzanne Leenhoff.
Nel 1881, su suggerimento di Antonin Proust,
amico dell›artista, il governo francese insignì
Manet della Legion d’onore.
Manet morì per sifilide e reumatismi non cu- Olympia, Manet

293
CAPITOLO 16 L’IMPRESSIONISMO

rati, contratti a quarant’anni (o, secondo alcuni, addirittura in gioventù, quando era imbarcato sulla nave).
La malattia gli causò forti dolori e una parziale paralisi negli ultimi anni di vita.
Il 6 aprile 1883, dopo un estenuante tira e molla, gli venne amputato il piede sinistro, ma l’operazione
non servì a risparmiarlo dalla morte, che sopraggiunse quasi un mese dopo, il 30 aprile 1883, dopo
un’interminabile agonia sfociata nel coma.
Le sue ultime parole prima di perdere conoscenza e sprofondare nel coma, furono di rimpianto per l’ostilità
del suo avversario Alexandre Cabanel: «Sta bene, quello!».
Venne sepolto nel Cimitero di Passy, ed accanto a lui, anni dopo, saranno sepolti sia il fratello Eugène che
Berthe Morisot.
Nel 1856 aprì il suo studio: in questo periodo, il suo stile era caratterizzato da pennellate libere, dettagli
stilizzati e assenza di sfumature.
Adottò lo stile realista di Gustave Courbet, in particolare nel dipinto Il bevitore di assenzio (1858-1859) e in
altri soggetti come accattoni, cantanti, zingari, persone nei caffè, e combattimenti di tori.
Raramente dipinse scene religiose o mitologiche o storiche: un raro esempio è il “Cristo morto con gli an-
geli” (1864), conservato al Metropolitan Museum of Art di New York.

LE DÉJEUNER SUR L’HERBE

L’opera, realizzata nel 1863, venne presentata


al Salon di Parigi, da cui venne respinta: entro
lo stesso anno, il dipinto venne esposto al Salon
des Refusés, voluto dall’imperatore Napoleone III
dopo che il Salon ufficiale rifiutò oltre quattro-
mila opere solo nel 1863.
La giustapposizione di due uomini ben ves-
titi e due donne quasi nude fu contestata, non
tanto perché conferisce un senso di erotismo
ma piuttosto perché rappresentano persone di
quell’epoca: le donne rappresentate sono due
modelle e i due uomini sono giovani studenti (lo
si può notare dal modo di vestire).
L’opera venne contrastata anche per la mancan-
za di prospettiva (il senso di profondità è dato
soltanto dalla presenza degli alberi) e dal fatto Le dejeneur sur l’herbe, Manet, 1863
che non si distinguono bene le varie parti del
quadro (non si capisce dove finisca l’erba e dove inizi l’acqua); ciò fa si che i personaggi sembrino sollevati
da terra.
Il dipinto si distingue anche per il trattamento rapido, quasi da abbozzo, che lo distingueva dai lavori del
maestro Gustave Courbet.
Allo stesso tempo, la composizione rivela gli studi dai grandi maestri, come la disposizione delle figure che
riprende le incisioni di Marcantonio Raimondi, ispirate da Raffaello Sanzio, o “La tempesta” di Giorgione, che
raffigura un uomo in uniforme e una donna nuda che allatta un bambino.
Diversamente dal gruppo Impressionista, Manet riteneva che gli artisti moderni dovessero esporre al Salon,
piuttosto che abbandonarlo per le mostre indipendenti.
Tuttavia, quando Manet venne escluso dall’esposizione internazionale del 1867, organizzò una propria
mostra personale.
Sebbene i suoi lavori influenzarono e anticiparono lo stile impressionista, non volle essere coinvolto nelle
mostre del gruppo, da una parte perché non voleva essere considerato come rappresentante del gruppo,
dall’altra perché avrebbe preferito esporre al Salon.
Manet realizzò diversi dipinti raffiguranti scene di bar, fresche osservazioni della vita sociale del XIX secolo
a Parigi: persone che bevono, ascoltano musica, si corteggiano, leggono, aspettano.
Molti di questi dipinti sono basati su rapidi studi dal vivo: spesso l’artista si recava alla Brasserie Reichshoffen,
sul boulevard de Rochechouart, oppure al ristorante lungo la Avenue de Clichy, Pere Lathuille, dove si pote-
va pranzare all’aperto.

294
L’IMPRESSIONISMO CAPITOLO 16

Un altro soggetto trattato erano le attività della borghesia, come i balli in maschera o le corse campestri,
oppure le strade o le stazioni di Parigi.
Nel 1882, Manet realizzò Il bar delle Folies-Bergère e lo espose al Salon dello stesso anno.

CURIOSITÀ

Nonostante l’amico dottor Gachet gli avesse scon-


sigliato di farlo, Manet si fece amputare la gamba in
casa, per la precisione sul grande tavolo del salotto,
dopo esser stato cloroformizzato.
I medici, andandosene, lasciarono l’arto amputato
dietro il paravento del caminetto, dove Leon Koella,
volendo accenderlo, lo trovò.
Nonostante la reciproca complicità, era celebre
l’antipatia personale che Manet provava per Cé-
zanne, il quale, a sua volta, lo ricambiava con altret-
tanta scortesia.
È divenuta celebre la frase con cui quest’ultimo una
volta lo salutò: “Non le stringo la mano, monsieur Ma-
net, perché è una settimana che non la lavo”.
Manet ebbe fama di donnaiolo, e tra le sue con-
quiste va annoverata Marie Pauline Laurent (che fu
poi musa di Stéphane Mallarmé).
La stessa Berthe Morisot si era invano innamorata di
lui, al punto tale di sposarne il fratello Eugéne pur
di stargli vicino, e dando luogo a furibonde scene
di gelosia, in particolar modo quando Manet prese
come allieva l’avvenente Eva Gonzalez.
Pur se legato a lui da reciproca amicizia, provava ini-
zialmente molto disturbo per la sua quasi omonimia
con Monet, che era motivo di equivoci per il pubblico.
Il balcone, Edouard Manet

CLAUDE OSCAR MONET

Claude Oscar Monet (Parigi, 14 novembre 1840 – Giverny, 6 dicembre 1926) è


stato un pittore francese, tra i maggiori esponenti dell’Impressionismo.
Claude Monet nacque a Parigi, in rue Laffitte 45-47, secondogenito di Claude
Auguste e di Louise Justine Aubrée, una giovane vedova al suo secondo mat-
rimonio.
Nel 1845 i Monet si trasferirono a Sainte - Adresse, un sobborgo di Le Havre,
dove il padre iniziò a gestire un negozio di drogheria e di forniture marittime
insieme con il cognato Jacques Lecadre.
A quindici anni l’adolescente Claude cominciò a disegnare a matita e a car-
boncino, e a vendere bonarie caricature di personaggi della città alla buona
somma di una diecina di franchi l’una, acquistando così una certa fama nella
città insieme con un discreto gruzzolo.
Dal 1856, nella scuola di Le Havre in cui era iscritto, Claude studiò disegno
con un vecchio allievo di David, Jacques François Ochard, e conobbe il pittore
Eugène Boudin, il suo vero, primo maestro, che gli insegnò «come ogni cosa
Claude Monet nel 1899 dipinta sul posto abbia sempre una forza, un potere, una vivacità di tocco che

295
CAPITOLO 16 L’IMPRESSIONISMO

Veduta di Rouelles

non si ritrovano più all’interno dello studio», indirizzandolo così alla pittura del paesaggio en plein air; con
lui, quell’anno Monet espose a Rouen per la prima volta una sua tela, la Veduta di Rouelles.
Monet dirà poi che Boudin «con instancabile gentilezza, intraprese la sua opera di insegnamento. I miei
occhi finalmente si aprirono e compresi veramente la natura; imparai al tempo stesso ad amarla. L’analizzai
con una matita nelle sue forme, la studiai nelle sue colorazioni. Sei mesi dopo [...] annunciai a mio padre che
desideravo diventare un pittore e che mi sarei stabilito a Parigi per imparare».
Nel gennaio 1857 morì sua madre.
Nel marzo del 1859 il padre di Monet fece richiesta al Municipio di Le Havre di una borsa di studio che per-
mettesse a Claude di studiare pittura a Parigi.
Non la ottenne ma, grazie ai propri risparmi, Claude in maggio partì ugualmente per la capitale a studiare
con poca spesa all’Académie Suisse - fondata al Quai des Orfèvres da Charles Suisse, un vecchio modello di
David - perché agli allievi non si mettevano a disposizione insegnanti, ma solo modelli.
Qui ebbe modo di conoscere Delacroix, Courbet e Pissarro, col quale andava spesso a mangiare alla Bras-
serie des Martyrs, frequentata dai pittori realisti, oltre che da Baudelaire e dal critico Duranty, futuro sosteni-
tore degli impressionisti sulle colonne della «Gazette des Beaux-Arts».
Frequentando anche il Café Guerbois, vide Manet e nei Salons conobbe Constant Troyon, pittore della
Scuola di Barbizon che, evidentemente scettico della sua tecnica, gli consigliò di approfondire lo studio del
disegno all’atelier di Couture, pittore rinomato e di notevoli capacità tecniche, ma autore di tele enfatiche
di soggetti storici.
Monet non ascoltò quel consiglio, ma preferì seguire in particolare le opere di Daubigny, che amava dipin-
gere paesaggi dal vero.
Il 24 maggio 1860 Monet pubblicò nella rivista «Diogène» la sua ultima caricatura, quella di Lafenière, un
noto attore dell’epoca, e in ottobre venne chiamato a prestare il servizio militare, che sarebbe dovuto du-
rare sette anni, a meno che, secondo la legislazione francese del tempo, non si trovasse un sostituto che
intendesse svolgerlo al suo posto.
Arruolato nel Reggimento dei Cacciatori d’Africa, di stanza ad Algeri, rimase affascinato dalla luce e dai
colori di quei luoghi.
Ammalato, nel 1862 tornò in licenza di convalescenza nella sua casa di Le Havre e qui riprese a dipingere
insieme con il suo maestro Boudin e con Johan Barthold Jongkind, appena conosciuto casualmente.
Per Monet fu importante l’esempio di questo pittore olandese che, all’aperto, si limitava a riprodurre il pae-

296
L’IMPRESSIONISMO CAPITOLO 16

saggio in schizzi e acquerelli, per poi definirli sulla tela nel suo studio, conservando tuttavia la freschezza
della prima osservazione.
Intanto il padre trovò un giovane che, in cambio di una somma di denaro, fece il servizio militare al posto di
Claude che così, consapevole di aver bisogno di migliorare i propri mezzi tecnici, poté tornare a Parigi per
studiare nell’atelier di Charles Gleyre, un pittore neoclassico frequentato anche dai giovani Renoir, Sisley e
Bazille.
È di quest’anno il suo primo dipinto importante, i Trofei di caccia, al d’Orsay di Parigi, una natura morta che
guarda alla classica pittura olandese; anche nella Fattoria normanna, del 1863, è rilevante l’influsso della
pittura olandese, oltre all’esempio di Boudin e Jongkind.
Insieme con Bazille, dalla finestra della casa di un amico comune in rue Fürstenberg, guarda lavorare nello
studio di fronte Delacroix, il suo attuale maestro spirituale.
Nell’estate del 1864 si stabilisce a Honfleur con Bazille, col quale e con Boudin e Jongkind, dipinge paesaggi
e marine.
Un violento litigio con il padre ha per conseguenza la perdita di ogni aiuto economico: torna così a Parigi
alla fine dell’anno.
Qui, l’anno dopo, per la prima volta è ammesso al
Salon con due sue marine, Il molo a Honfleur e La
foce della Senna a Honfleur; di quest’ultima, il critico
Paul Mantz scrive nella Gazette des Be-aux-Arts che
“non la dimenticheremo più.
Eccoci interessati a seguire nei suoi tentativi futuri
questo sincero autore di marine”, lodando la sua
maniera ardita di vedere le cose.
È ispirato da un’analoga composizione di Jongkind,
dipinta dall’artista olandese nello stesso luogo e
nello stesso anno: se il colore è quello di Courbet, pe-
culiari di Monet sono i tocchi fitti e rapidi sull’acqua
e le pennellate spesse nella rappresentazione delle
nuvole.
Trasferitosi in una pensione di Chailly, nei pressi del
bosco di Fontainebleau, comincia a lavorare alla Co-
lazione sull’erba, ispirata all’analogo, famoso dipinto
di Manet.
L’intenzione è di dipingere una grande tela di sei
metri per cinque; posano per lui la sua intima am-
ica Camille Doncieux e Bazille, l’uomo sdraiato a
destra, mentre il personaggio seduto in primo piano Colazione sull’erba

potrebbe essere il pittore Lambron o Courbet.


Il dipinto non piace a Courbet e Monet lo lascia, incompiuto, come pegno per il pagamento della pen-
sione.
Lo riprenderà nel 1884 in cattive condizioni: tagliato in due parti, è conservato al Musée d’Orsay; ne esiste
una replica, di piccole dimensioni e con varianti rispetto alla prima versione, eseguita nel 1866 e ora al Mu-
seo Puškin di Mosca.
Anche qui mantiene il colorito di Courbet, ma l’effetto del dipinto è di una scioltezza che manca in Courbet
ed è più immediata che in Manet.

297
CAPITOLO 16 L’IMPRESSIONISMO

VERSO UNA NUOVA VISIONE

Monet non amava e non


s’interessava ai classici esempi
della pittura, tanto da non entrare
quasi mai al Louvre: la sua cultura
artistica era e rimase limitata, ma
egli compensava quell’apparente
difetto nel vantaggio di poter
guardare alla natura - l’unica
fonte della sua ispirazione - senza
precostituite impalcature mentali,
abbandonandosi all’istinto della
visione che, quando è immediata,
ignora il rilievo e il chiaro-scuro
degli oggetti, che sono invece il
risultato dell’applicazione al dis-
egno di scuola.
Pur ammirando i realisti come
Corot e Courbet, non li imitava;
eliminando la plasticità delle
cose, Monet si sforzava di rap-
presentarle nell’immediatezza
del fissarsi della loro immagine
nella rètina dell’occhio, nel loro
primo apparire alla coscienza: e
l’apparenza della cosa non è la re-
altà della cosa.
Nel 1866 presenta al Salon di Pari-
gi due tele, il ritratto di Camille in
abito verde, un interno che ot-
tiene l’approvazione di Émile Zola
e di Édouard Manet, e Saint Ger- Donne in giardino

main l’Auxerrois, dipinto da una


terrazza del Louvre, dove protagonista è il brillare della luce nelle foglie degli alberi.
Inizia a dipingere all’aperto Donne in giardino, dove Camille è l’unica modella delle quattro donne rappre-
sentate nel dipinto; rifiutato l’anno dopo dal Salon, gli viene comprato da Bazille per 2.500 franchi; tornato
molti anni dopo in possesso di Monet, lo venderà nel 1921 allo Stato francese per 200.000 franchi.
Una ripresa fotografica del giardino gli ha suggerito la profondità dello spazio ma Monet è interessato sol-
tanto ai piani e ai colori: eliminato anche il rilievo, il risultato dà nel mosaico, perché ai colori mancano gli
effetti di tono e la luce non vibra nella penombra e non penetra le figure e gli oggetti.
Nel giugno 1867 lascia momentaneamente Camille, che da lui aspetta un figlio, per andare ad abitare a
Sainte Adresse con la zia; l’8 agosto nasce il figlio Jean e Monet va a Parigi, abitando con Renoir e Bazille.
Nel 1868 espone al Salon la Nave che lascia il porto di Le Havre; si trasferisce con Camille e il figlio prima a
Fécamp e poi a Étretat per sfuggire ai creditori; arriva a tentare il suicidio nel giugno: è aiutato da Renoir e
dal mercante Gaudibert, che gli compra delle tele, gli commissiona il ritratto della moglie e gli procura una
casa a Saint-Michel, presso Bougival, sulla Senna, dove abita insieme con Renoir.
Qui, in riva alla Senna, dipingono entrambi gli effetti della riflessione della luce sull’acqua; ne La Grenouillère
- lo stagno delle rane, uno stabilimento balneare di Bougival, le rapide e decise pennellate che accostano le
differenze tonali e cromatiche realizzano una superficie liquida dinamica ed evidenziano i contrasti di luce
e di ombra ma l’eccesso di nero utilizzato da Monet impedisce ancora di ottenere trasparenza dalle om-
bre;
lo sfondo, malgrado l’intensa colorazione verde-oro del fogliame, manca di vibrazioni luminose e non riesce
ad raccordarsi in una visione unitaria con la centralità del dipinto.
Il 26 giugno 1870 sposa Camille e la famiglia si trasferisce a Trouville, in Normandia; scoppiata la guerra con

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L’IMPRESSIONISMO CAPITOLO 16

la Prussia, per evitare il richiamo alle armi, va a Londra, dove ritrova Charles-François Daubigny e Camille Pis-
sarro, con i quale dipinge, visita i musei londinesi, interessandosi alle opere di Turner e Constable, e conosce
l’importante mercante d’arte francese Paul Durand Ruel, che ha una galleria d’arte in New Bond street.
Il 17 gennaio 1871 muore suo padre.
Finita la guerra, torna in Francia passando per l’Olanda, dove resta affascinato dal paesaggio e dove comp-
era molte stampe giapponesi di Suzuki Harunobu, Hokusai e Hiroshige.
A Parigi è informato della morte in guerra di Bazille e va a trovare in carcere Gustave Courbet, accusato di
simpatie comunarde.
Nel 1871, si stabilisce ad Argenteuil, vicino Parigi, in una casa con giardino davanti alla Senna, presa in affitto
grazie ad una raccomandazione di Manet, in una casa con giardino di proprietà della vedova del notaio
Aubry.
Poco tempo dopo allestirà, su una barca cabinata, uno studio galleggiante, che rappresenterà nel 1874 nel
Battello, ora al Rijksmuseum di Otterloo.
Conosce il pittore dilettante e collezionista d’arte Gustave Caillebotte; grazie anche all’eredità paterna, può
permettersi di vivere in modo confortevole.

LA NASCITA DELL’IMPRESSIONISMO

Impressione, sole nascente (1872)


Musée Marmottan Monet Il 15
aprile 1874 s’inaugura, nello stu-
dio del fotografo Nadar, al secon-
do piano del 35 di boulevard des
Capucines, la mostra del gruppo
Societé anonyme des peintres,
sculpteurs et graveurs, composto,
fra gli altri, da Monet, Cézanne,
Degas, Morisot, Renoir, Pissarro e
Sisley, polemici nei confronti della
pittura, allora di successo, accet-
tata regolarmente nei Salons.
Monet vi presenta la tela, dip-
inta due anni prima, Impressione,
sole nascente; il critico Louis Le-
roy prende spunto dal titolo del
quadro per definire ironicamente
impressionisti il gruppo dei pit-
tori. Impressione, sole nascente

Scrive Leroy che fu una giornata


tremenda quella in cui osò recarsi alla prima sul Boulevard des Capucines insieme con Joseph Vincent, pae-
saggista, allievo di Bertin, premiato sotto diversi governi.
L’imprudente era andato lì senza pensarci, credeva di vedere della pittura come se ne vede ovunque, buona
e cattiva, più cattiva che buona, ma che non attentasse ai buoni costumi artistici, al culto della forma, al
rispetto dei maestri.
Ah, la forma! Ah, i maestri! Non ne abbiamo più bisogno, mio povero amico! Tutto questo è cambiato.
In compenso, un altro critico contemporaneo, Jules Castagnery, accettando il neologismo di impression-
isti, scrive che questi pittori “sono impressionisti nella misura in cui non rappresentano tanto il paesaggio
quanto la sensazione in loro evocata dal paesaggio stesso.
E proprio questo termine è entrato a far parte del loro linguaggio [...]. Da questo punto di vista hanno las-
ciato alle loro spalle la realtà per entrare nel regno del puro idealismo.
Quindi la differenza essenziale tra gli impressionisti e i loro predecessori è una questione di qualcosa in più
e qualcosa in meno dell’opera finita. L’oggetto da rappresentare è lo stesso ma i mezzi per tradurlo in im-
magine sono modificati [...]”.
È certamente Turner ad avergli suggerito come dissolvere la forma mediante il colore: fondendo il mare

299
CAPITOLO 16 L’IMPRESSIONISMO

e il cielo così da annullare l’orizzonte, rese ombre grigie le navi dello sfondo, il paesaggio, divenuto,
nell’immediata impressione visiva del pittore, un insieme di forme vaghe, dà all’osservatore di quella im-
pressione riportata sulla tela un’emozione suggestiva e indefinita.
Sono questi gli anni in cui Monet dà il meglio di sé: nella Vela sulla Senna ad Argenteuil scompaiono i con-
trasti di tono, che si mutano in passaggi tonali ottenuti non fondendo ma accostando le tinte, fra le quali
non è utilizzato il nero, ma le ombre vengono ricavate accentuando l’intensità del tono.
“La rappresentazione dello spazio, non articolata, senza piani precisi, unisce il vicino e il lontano.
Viola e gialli sono nell’azzurro dell’acqua come del cielo, eppure il loro tono diverso distingue la sostanza
liquida dall’eterea, in modo da costruire lo specchio del fiume come base del cielo.
La prospettiva geometrica è abbandonata per rivelare il fluire infinito della vita atmosferica.
Ciascun colore è attenuato, ma il loro insieme è intenso, per rivelare la contemplazione del giorno che mu-
ore infocato all’orizzonte, mentre la gran vela si raffredda in penombra grigia.
È la contemplazione del visionario che partecipa alla vita della luce, al suo lento morire al tramonto, al suo
diffondere su tutta la natura un velo di malinconia” (Venturi).
Il Ponte di Argenteuil, del 1874, un
tema dipinto da molti impression-
isti, è una composizione equili-
brata, classicamente ritmata: gli
alberi delle barche richiamano i
piloni del ponte e la vela arrotola-
ta, la sponda; l’azzurro dell’acqua
in primo piano richiama l’azzurro
del cielo mentre i verdi e i gialli vi-
brano nell’acqua come nella riva
e negli alberi del fondo.
Il 24 marzo 1875 il gruppo degli
impressionisti organizza una ven-
dita collettiva di dipinti che, mal-
grado il basso prezzo dell’offerta,
non ha successo; Monet è nuova-
mente in difficoltà economiche,
malgrado gli aiuti di Caillebotte
e di Manet. Anche una seconda
Il Ponte di Argenteuil - 1874
mostra, tenuta l’anno seguente,
dove Monet presenta 18 tele, si
rivela un fallimento.
Nell’estate conosce il ricco finanziere e collezionista Hoschedé, del quale diviene amico e allaccia una relazi-
one con la moglie di questi, Alice. È il periodo in cui i critici d’arte si pongono con serietà il problema di una
corretta comprensione del fenomeno impressionista: per Paul Mantz l’impressionista è “l’artista sincero e
libero che, rompendo con i procedimenti di scuola, con i raffinamenti alla moda, subisce, nell’ingenuità del
suo cuore, il fascino assoluto che promana dalla natura e traduce, con semplicità e con la maggiore fran-
chezza possibile, l’intensità dell’impressione subìta”; per Duranty, “la scoperta degli impressionisti consiste
propriamente nell’aver riconosciuto che la grande luce scolora i toni, che il sole riflesso dagli oggetti tende,
per forza di chiarezza, a ricondurli a quella unità luminosa che fonde i setti raggi prismatici in un unico
sfavillio incolore, che è la luce.
D’intuizione in intuizione, a poco a poco sono arrivati a decomporre la luce solare nei suoi raggi, nei suoi
elementi, e a ricomporre la sua unità attraverso l’armonia generale delle iridescenze che essi spandono
nelle tele”.
Nel 1877 il gruppo fonda il giornale L’impressioniste, rivendicando il rifiuto di dedicarsi a temi pittorici allora
maggiormente in voga, come quelli storici e di genere e affermando che ciò che distingue dagli altri pittori
gli impressionisti è che essi trattano un soggetto per i valori tonali e non per il soggetto in se stesso. È anche
l’anno in cui Monet dipinge una serie di vedute, in ore e luci diverse, e in differenti angolature, della stazione
parigina di Saint-Lazare, moderna costruzione in ferro e vetro, uno dei maggiori simboli della modernità.
Scrive Zola che “vi si sente lo sferragliare dei treni che arrivano veloci, si vedono le zaffate di fumo che roteano
sotto i vasti hangar”.

300
L’IMPRESSIONISMO CAPITOLO 16

Oggi la pittura è là, in quegli ambienti moderni con la loro bella grandezza.
I nostri artisti devono scoprire la poesia delle stazioni come i loro padri scoprirono quella delle foreste e dei
fiumi.
La casa dell’artista ad Argenteuil (1873) Art Institute of Chicago Qui, oltre a riferimenti al Turner, scoperto a
Londra, della Pioggia, vapore e velocità, appare anche l’interesse di Monet per soggetti fumosi, nebbiosi, di
consistenza incerta - a dispetto della poderosa struttura metallica della stazione e della minacciosa solidità
delle locomotive - e di difficile resa, come se volesse ribadire che la realtà stessa è di dubbia interpretazione
e non esiste un modello definito per sempre per la sua decifrazione.
Il metodo di lavoro di Monet, nel riprodurre lo stesso soggetto in diverse ore della giornata, è stato descritto
da Maupassant, che lo vide dipingere a Étretat “cinque o sei tele raffiguranti lo stesso motivo in diverse ore
del giorno e con diversi effetti di luce.
Egli le riprendeva e le riponeva a turno, secondo i mutamenti del cielo.
L’artista, davanti al suo tema, restava in attesa del sole e delle ombre, fissando con poche pennellate il
raggio che appariva o la nube che passava [...] Io l’ho visto cogliere così un barbaglio di luce su una roccia
bianca e registrarlo con un fiotto di pennellate gialle che stranamente rendevano l’effetto improvviso e
fuggevole di quel rapido e inafferrabile bagliore.
Un’altra volta vide uno scroscio d’acqua sul mare e lo gettò rapidamente sulla tela: ed era proprio la pioggia
che riuscì a dipingere”.
Monet si trasferisce nel 1878 a Parigi, in rue d’Edimbourg, dove nasce nel marzo il secondo figlio Michel.
Nel giugno, il finanziere Hoschedé dichiara fallimento e la sua famiglia, composta di 5 figli, insieme con
quella di Monet, si trasferisce a Vétheuil ma Hoschedé lascia l’anno dopo la famiglia per tornare a Parigi.
Il 5 settembre 1879 Camille, a soli 32 anni, muore di cancro: Monet la riprenderà in un drammatico dipinto,
Camille Monet sul letto di morte, ora al museo d’Orsay, confidando di essersi “trovato al capezzale del letto
di una persona che mi era molto cara e che tale rimarrà sempre.
I miei occhi erano rigidamente fissi sulle tragiche tempie e mi sorpresi a seguire la morte nelle ombre del
colorito che essa depone sul volto con sfumature graduali.
Toni blu, gialli, grigi, che so. A tal punto ero arrivato. Naturalmente si era fatto strada in me il desiderio di fis-
sare l’immagine di colei che ci ha lasciati per sempre”.
Nel 1880 manda due tele al Salon - una sola sarà accettata - e questo suo gesto indispone Degas, che lo ac-
cusa di sfrenata réclame; Monet risponderà indirettamente riaffermando di continuare a essere un impres-
sionista ma di vedere solo raramente i miei confratelli, uomini e donne.
La chiesetta è divenuta una scuola banale che apre le sue porte al primo imbrattatele: sembra che volesse
riferirsi a Gauguin.
Monet non partecipò più alle mostre collettive degli altri impressionisti che continueranno a essere orga-
nizzate fino al 1886.
Zola arriva a pensare che l’impressionismo sia finito:”la grande disgrazia è che nessun artista ha realizzato,
potentemente e definitivamente, la nuova formula che tutti loro apportano, sparsa nelle loro opere.
La formula vi è divisa all’infinito, ma nessuna parte, in ciascuno di loro, la si trova applicata da un maestro”.
Lo scrittore sembra non comprendere che un autentico impressionista non può evidentemente avere un
maestro pittore da imitare, ma in compenso percepisce che la crisi dell’impressionismo è iniziata.
Nelle sale della rivista La vie moderne, il 7 giugno 1880 Monet espone con successo 18 tele.
Dipinge soprattutto sulle coste della Normandia, a Fécamp, Dieppe, Pourville, Le Havre, Étretat.
Il 15 febbraio 1881 offre dei quadri al mercante Paul Durand-Ruel, e si lega commercialmente con lui che
paga bene e accetta da Monet qualunque tela.
Proseguendo nel programma che si era dato dipingendo la stazione Saint-Lazare, Monet progetta una serie
di tele con il medesimo soggetto ripreso in diverse stagioni e in ore diverse del giorno, quasi a voler realiz-
zare quel che lo scrittore Ernest Chesneau, nel suo romanzo La chimera, aveva immaginato nel 1879.
Nel marzo 1883, dopo aver tenuto un’importante mostra, si trasferisce con Alice e la famiglia a Giverny,
in Normandia, affittando un casolare alla confluenza del fiume Epte con la Senna: organizza un giardino
e costruisce un hangar per le sue barche che utilizza per dipingere sull’acqua; in quei giorni, il 30 aprile,
muore Manet.

301
CAPITOLO 16 L’IMPRESSIONISMO

OLTRE L’IMPRESSIONISMO

A dicembre va con Renoir per un breve soggiorno a Bordighera; rientrato a Giverny, a gennaio riparte an-
cora per Bordighera da solo perché, come scrive a Durand-Ruel, come mi è stato piacevole fare il viaggio da
turista con Renoir, così sarebbe per me imbarazzante farlo in due per lavorare; ho sempre lavorato meglio
in solitudine e secondo le mie sole impressioni; vi si trattiene fino all’aprile del 1884.
È in ammirazione di una natura che gli appare esotica, con la luce del Mar Mediterraneo, con le sue palme
e la sua acqua blu; scrive ancora a Durand-Ruel, l’11 marzo, che forse farò gridare un po’ i nemici del blu e
del rosa, per via di questo splendore, di questa luce fantastica che mi applico a rendere; e quelli che non
hanno visto questo paese o che l’hanno visto male, grideranno, son sicuro, all’inverosimiglianza, sebbene
io sia molto al di sotto del tono: tutto è colore cangiante e fiammeggiante, è ammirevole, e ogni giorno la
campagna è più bella e io sono incantato del paese.
Esaspera il colore utilizzando toni puri, rende sommarie le forme ma ne mantiene il volume: scrive ad Alice
di fare molta fatica perché non riesco ancora a cogliere il tono del paese; a volte sono spaventato dai colori
che devo adoperare, ho paura di essere troppo terribile”.
In effetti il suo stile è ormai fuori dall’impressionismo e anticipa i Fauves di venti anni.
Torna a Giverny e a Parigi espone 10 tele nella III Esposizione internazionale organizzata dal mercante d’arte
Georges Petit, in modo da sottrarsi alla tutela di Durand-Ruel e farsi conoscere da un più ampio circuito di
collezionisti; anche negli anni successivi parteciperà alle Esposizioni organizzate da Petit.
Dalla fine di 1884, Monet è diventato l’amico del critico di arte e romanziere Octave Mirbeau, che ha con-
tribuito alla sua riconoscenza pubblica ed alla vendita delle sue opere.
Dal 15 maggio al 15 giugno 1886 si tiene a Parigi, organizzata da Petit, quella che è stata definita l’ottava
e ultima mostra degli impressionisti; in realtà vi partecipano anche i neoimpressionisti Seurat e Signac,
Camille Pissarro, che ora aderisce alle teorie dei pointillistes e Gauguin, che allora si definisce ma non è un
impressionista.
Nel maggio 1887 Durand-Ruel - col quale Monet è ora in rapporti freddi - organizza una mostra di impres-
sionisti a New York; l’anno dopo Monet è a Londra; tornato in Francia, gli viene offerta la Legion d’onore che
tuttavia rifiuta.
Nel giugno 1889 espone nella Galleria di Petit 145 tele in una mostra antologica della sua pittura dal 1864
al 1889; nell’ottobre organizza una sottoscrizione pubblica per acquistare dalla vedova di Manet l’ Olimpia
da donare allo Stato.
Sempre più indifferente al soggetto, Monet non si preoccupa che le forme siano anche elementari purché
gli diano occasione di manifestare il suo interesse per l’irradiazione della luce; non a caso Kandinskij, av-
endone visto un esemplare a Mosca, ricorderà nel 1913 che, solo abituato alla pittura naturalistica, “per la
prima volta mi trovavo di fronte a un dipinto rappresentante un pagliaio, come diceva il catalogo, ma che io non
riconoscevo come tale.
Questa incomprensione mi turbava, m’indispettiva; trovavo che il pittore non aveva il diritto di dipingere in
modo così impreciso; sentivo sordamente che in quell’opera mancava l’oggetto (il soggetto), ma con stupore
e sgomento constatavo che non solo mi sorprendeva ma s’imprimeva indelebilmente nella mia memoria e si
riformava davanti agli occhi nei minimi particolari [...] La pittura mi apparve dotata di una favolosa potenza e
inconsciamente l’oggetto trattato nell’opera perdette, per me, parte della sua importanza come elemento indis-
pensabile”.
Esposti presso Durand-Ruel nel maggio 1891, la serie dei suoi Covoni ha successo e le tele vengono anche
vendute da Monet direttamente ai collezionisti; la stessa cosa avverrà per la serie dei suoi Pioppi, che ven-
gono presentati il 29 febbraio 1892 ancora presso la Casa Durand-Ruel.
Ormai ricco, acquista la casa di Giverny e la ristruttura creando il famoso stagno dove coltiverà le ninfee.
Morto nel marzo 1891 Ernest Hoschedé, Monet può sposare Alice il 16 luglio 1892; inizia a dipingere la serie
delle Cattedrali di Rouen.
Con la morte di Caillebotte, il 2 marzo 1894, per testamento la sua collezione di dipinti impressionisti viene
donata ai Musei francesi.
Venti delle cinquanta Cattedrali dipinte da Monet a Rouen negli inverni del 1892 e del 1893, e poi comple-
tate a Giverny, sono esposte in una mostra nel 1895; il pittore le riprese dal secondo piano di un negozio
situato di fronte alla facciata occidentale, col consueto metodo di lavorare a ogni tela nel momento del
cambiamento della luce del giorno.
L’amico Georges Clemenceau le elogia, scrivendo che Monet “ci ha dato la sensazione che le tele avreb-

302
L’IMPRESSIONISMO CAPITOLO 16

bero potuto essere cinquanta, cento, mille, tante quante i minuti della sua vita; Pissarro scrive che “è l’opera
di un volitivo, ponderata, che insegue le minime sfumature degli effetti che non vedo realizzati da nessun altro
artista”; per Signac sono “pareti meravigliosamente eseguite”; per Proust, guardando per la prima volte quelle
tele nelle quali “si svela la vita di quella cosa fatta dagli uomini, ma che la natura ha ripreso immergendola in sé
[...] voi sentite davanti a questa facciata un’impressione confusa ma profonda”.
Ma non mancano anche le critiche negative: per Lionello Venturi lo studio della luce nelle serie dei Covoni,
come nelle Cattedrali, nelle successive vedute londinesi e infine nelle Ninfee, “è un programma scientifico,
ma la realizzazione pittorica rivela tendenze sentimentali.
L’espressione dell’inesprimibile, del mistero, di sentimenti così generali che perdono il loro carattere con-
creto e la loro evidenza artistica, rivela in Monet quel medesimo gusto donde nacque il simbolismo.
Qui Monet appare un velleitario, perché quel che rimane in lui di impressionistico gli impedisce di realizzare
appieno il nuovo ideale.
La cathédrale de Rouen, façade occidentale, 1894, è una delle più chiare della serie.
Blanche parla di «dramma atmosferico».
Ma l’opinione più diffusa tra i critici è che le Cattedrali siano il segno più evidente della decadenza creativa
di Monet: nelle «Meules» [Covoni] la natura non ha ottenuto una forma, ma la Cattedrale di Rouen ha essa
stessa una forma che la pittura di Monet cerca di conservare senza riuscirvi”.
Dal gennaio all’aprile 1895 è in Norvegia, a Sandviken, dipingendo fiordi e paesaggi invernali; scrive il 26
febbraio a Geffroy: “sono stupito di tutto quel che vedo in questo meraviglioso paese [...] sono come in un in-
cantesimo, malgrado la perfida alimentazione; e che sangue cattivo mi son fatto per non poter dipingere tutto
ciò che volevo!”.
Dal gennaio al marzo 1897 è a Pourville, dipingendo una serie di marine, mentre a Stoccolma si organizza
una mostra di sue opere; nell’estate, alla II Biennale di Venezia vengono esposte venti sue opere.
Nel giugno 1898 viene allestita nella Galleria Petit di Parigi un’esposizione di 61 tele di Monet.
Il 6 febbraio 1899 muore Suzanne Hoschedé, la figliastra che aveva sposato il pittore, allievo di Monet, Théo-
dore Butler; poco dopo, muore Alfred Sisley.
In estate, Monet è a Londra, e vi tornerà ancora per tre anni: dal balcone della sua stanza al Savoy Hotel ri-
prende vedute del panorama londinese e del Tamigi; nell’autunno, a Giverny, si dedica a dipingere le ninfee
del suo giardino.
Trentasette tele con vedute del Tamigi sono esposte nella Galleria Durand-Ruel nel 1904; Monet scrisse di
amare la Londra invernale, quando la città diviene una massa, un tutto unico ed è così semplice.
Ma più di ogni altra cosa, di Londra mi piace la nebbia.
Più di tante altre opere, le 41 tele complessive del ciclo testimoniano ancora una volta l’uscita di Monet
dall’impressionismo verso approdi di visionarietà simbolistica: se il Ponte di Waterloo, del 1902, conservato
in una collezione privata, è un grumo di pennellate nere con uno sfondo inquietante di fabbriche fumose
avvolte nella nebbia, l’analogo tema ripreso nella tela dell’Ermitage di San Pietroburgo è pressoché illeg-
gibile nella rappresentazione di una nebbia assoluta - un manto misterioso - che avvolge tutta la città con-
ferendole, secondo il pittore, una meravigliosa grandiosità.
È evidente come, da questo suo programma di resa del mistero e del grandioso, l’impressionismo non abbia
nulla a che vedere: così è del Parlamento di Londra, del 1904, al d’Orsay di Parigi, che scioglie le forme per
approdare all’espressione di una deliberata visionarietà.
Dal settembre al novembre 1908 è a Venezia; dice di Palazzo Ducale che l’artista che concepì questo palaz-
zo fu il primo degli impressionisti.
Lo lasciò galleggiare sull’acqua, sorgere dall’acqua e risplendere nell’aria di Venezia come il pittore impres-
sionista lascia risplendere le sua pennellate sulla tela per comunicare la sensazione dell’atmosfera.
Quando ho dipinto questo quadro, è l’atmosfera di Venezia che ho voluto dipingere. Il palazzo che appare
nella mia composizione è stato solo un pretesto per rappresentare l’atmosfera.
Tutta Venezia è immersa in quest’atmosfera. Nuota in quest’atmosfera.
Venezia è l’impressionismo in pietra.
Ritorna a Venezia anche l’anno dopo e continuerà a dipingere a memoria vedute veneziane.

303
CAPITOLO 16 L’IMPRESSIONISMO

LE NINFEE

Il 19 maggio 1911 muore la moglie Alice; il 1º feb-


braio 1914 perde anche il figlio Jean - l’altro figlio,
Michel, morirà in un incidente d’auto nel 1966 - e la
figliastra Blanche si stabilisce con Monet; nella casa
di Giverny dispone un nuovo, più grande studio,
adatto a contenere i grandi pannelli con la rappre-
sentazione delle ninfee del suo giardino.
“Lavoro tutto il giorno a queste tele, me le passano
una dopo l’altra.
Nell’atmosfera riappare un colore che avevo scoper-
to ieri e abbozzato su una delle tele.
Immediatamente il dipinto mi viene dato e cerco
il più rapidamente possibile di fissare in modo de-
finitivo la visione, ma di solito essa scompare rapi-
damente per lasciare al suo posto a un altro colore
già registrato qualche giorno prima in un altro stu-
dio, che mi viene subito posto innanzi; e si continua
così tutto il giorno”. Nel 1920 Monet offre allo Stato
francese dodici grandi tele di Ninfee, lunga ciascuna
circa quattro metri, che verranno sistemate nel 1927
in due sali ovali dell’Orangerie delle Tuileries; altre
tele di analogo soggetto saranno raccolte nel Mu-
sée Marmottan.
Le ninfee “Non dormo più per colpa loro” - scrive nel 1925 - “di
notte sono continuamente ossessionato da ciò che sto
cercando di realizzare. Mi alzo la mattina rotto di fati-
ca [...] dipingere è così difficile e torturante. L’autunno scorso ho bruciato sei tele insieme con le foglie morte del
giardino. Ce n’è abbastanza per disperarsi. Ma non vorrei morire prima di aver detto tutto quel che avevo da dire;
o almeno aver tentato. E i miei giorni sono contati”. Condannate come un grave errore artistico dal Venturi,
sono esaltate da Cesare Brandi, che vede in esse “il quadro da mostrare a chi ricerca il soggetto, il messag-
gio, la comunicazione: il quadro che fa capire cos’è la pittura o, se non si capisce, la fa ignorare per sempre
[...] si assiste come a una continua partenza, quasi le ninfee salissero vorticosamente al cielo sboccando in
pioggia di stelle come i bengala.
Ed esse sono là, nel languore esaltato di quell’acqua torbida e purissima, in cui nascono di volta in volta i
colori più squillanti della tavolozza più ricca che sia mai esistita”.
Il ponte giapponese, nelle versioni del 1924 al Musée Marmottan, o La casa dell’artista, dello stesso anno,
sono opere ormai astratte, che vengono giustificate non solo da uno specifico programma artistico ma
dalla stessa malattia agli occhi che gli impediva di riconoscere l’effettiva tonalità dei colori: scriveva lo stes-
so Monet: “i colori non avevano più la stessa intensità per me; non dipingevo più gli effetti di luce con la stessa
precisione. Le tonalità del rosso cominciavano a sembrare fangose, i rosa diventavano sempre più pallidi e non
riuscivo più a captare i toni intermedi o quelli più profondi [...]
Cominciai pian piano a mettermi alla prova con innumerevoli schizzi che mi portarono alla convinzione che lo
studio della luce naturale non mi era più possibile ma d’altra parte mi rassicurarono dimostrandomi che, anche
se minime variazioni di tonalità e delicate sfumatu- re di colore non rientravano più nelle mie possibilità, ci ve-
devo ancora con la stessa chiarezza quando si trattava di colori vivaci, isolati all’interno di una massa di tonalità
scure”.
Nel giugno del 1926 gli viene diagnosticato un carcinoma del polmone e il 6 dicembre muore: ai funerali
partecipa tutta la popolazione di Giverny.
Quello stesso anno aveva scritto di aver avuto “il solo merito di aver dipinto direttamente di fronte alla
natura, cercando di rendere le mie impressioni davanti agli effetti più fuggevoli, e sono desolato di essere
stato la causa del nome dato a un gruppo, la maggior parte del quale non aveva nulla di impressionismo.

304
CAPITOLO 17

IL REALISMO

305
CAPITOLO 17 IL REALISMO

Il Realismo è un movimento culturale che comincia a delinearsi in Francia a partire dal terzo decennio del
diciannovesimo secolo (1825/30); ottiene, poi, vasto seguito in molti stati europei tra cui anche l’Italia, per
esaurirsi negli anni 1870-80, quando s’impone la nuova corrente impressionista.
Il Realismo affonda le sue radici nel Romanticismo, ovvero già in alcune tele “romantiche” si intravedono
motivi o particolari realisti, per esempio nelle figure in primo piano dell’opera “La libertà che guida il popo-
lo” dell’artista romantico Eugene Delacroix.
Della corrente romantica il Realismo conserva soprattutto la raffigurazione quasi immanente della natura;
se, però, nel Romanticismo la natura giocava un ruolo primario nelle emozioni dell’uomo (il romantico sen-
tiva di doversi allontanarsi dalla negativa realtà urbana e di avere un contatto diretto con la natura, quasi
essa fosse un rifugio) nel Realismo gli elementi naturali non partecipano allo stato emotivo dei personaggi
delle opere e quindi del lettore dell’opera, ma contribuiscono all’intento di suscitare nel lettore la sensazio-
ne di verità, a volte una verità fin troppo cruda o volgare per la società del tempo.
Questo attaccamento fedele alla verità, quindi alla realtà si può considerare come la reazione degli intellet-
tuali e degli artisti alle condizioni sociali storiche di quel tempo.
Erano gli anni della seconda rivoluzione industriale, che vedeva scienza e progresso accordarsi in modo
sempre più stretto e innalzarsi ad uniche garanti del benessere e dunque di una relativa felicità dell’uomo.
Questa mentalità positivista era, tuttavia, propria della classe borghese (imprenditori, industriali, grandi
proprietari terrieri, medici, ecc.), cui sottostava ancora la bassa classe del proletariato, molto disagiato, po-
vero e impotente.
Le sensibilità di scrittori e artisti si sforzano così di cogliere i particolari più sinceri, veri, quotidiani di tale
condizione proletaria, senza voler necessariamente fare scandalo o denuncia, così da rendere consapevoli
se stessi e chi fruisce dell’opera, della situazione di quei lavoratori tutelati da nessuna legge, da nessun
diritto alla dignità.
Ed è per questo che il pittore realista non può riportare alcun giudizio soggettivo che rimandasse ad uno
suo stato d’animo, ma tende sempre più ad una ricerca analitica dei dettagli della realtà, e alla correttezza
ottica dell’opera, come nel reale.
Tale studio dei colori e della luce, che veniva condotto principalmente en plein-air, sarà poi ripreso, svilup
pato e reso canone dagli impressionisti.
Tra gli artisti che spiccano all’interno della corrente si menzionano Gustave Courbet, considerato l’indiscus-
so capostipite, François Millet, dal realismo più religioso, e i pittori di Barbizon, chiamati così perché erano
soliti dipingere in una foresta nei pressi del villaggio francese Barbizon.
Molti di questi, tra cui lo stesso Courbet, furono in un primo momento rifiutati dai Salon ufficiali di Parigi
poiché sembravano denunciare apertamente alcuni esponenti della borghesia e che quindi avrebbero po-
tuto incitare a nuove sanguinose rivoluzioni come quelle napoleoniche da cui si era appena venuti fuori, e
le loro tele furono raccolte per allestire mostre in alcune sale denominate proprio Salon dei rifiutati.
In Italia si sviluppa un’originale esperienza realista, che prende il nome di pittura della macchia, la quale
deriva la tecnica francese del pointillisme.
Nel campo della letteratura, il teorico principale del realismo è lo scrittore francese Champfleury, altri espo-
nenti emergenti furono Baudelaire, Flaubert e più tardi Zolà e Verga.
Ho apprezzato molto l’arte realista, perché sebbene, come già detto, non vi fosse un intento politico nelle
opere dei pittori, mi è sembrato che vi si celasse comunque un fine rispettabilissimo: quello di restituire
dignità ai soggetti delle opere, ovvero a quegli umili lavoratori e alla classe proletaria in generale.

306
IL REALISMO CAPITOLO 17

GUSTAVE COURBET

Gustave Courbet nacque a Ornans nel 1819 e fu il


pittore francese più rappresentativo del movimento
realista francese.
Nato in una prospera famiglia di agricoltori che vor-
rebbe si dedicasse allo studio della legge, decide di
trasferirsi a Parigi nel 1839, trovando lavoro presso
lo studio di Steuben e Hesse.
Ben presto abbandona i maestri preferendo svi-
luppare uno stile personale attraverso lo studio
dei pittori spagnoli, francesi e fiamminghi. Courbet
è un pittore di composizioni figurative, paesaggi e
paesaggi marini. Si occupa anche di problematiche
sociali, prendendosi a cuore le difficili condizioni di
vita e lavoro dei contadini e dei poveri.
Courbet crede che la missione dell’artista realista sia
la ricerca della verità, che aiuterebbe ad eliminare le
contraddizioni e le disuguaglianze sociali.
Per Courbet il realismo non ha a che fare con la perfezione del tratto e delle forme, ma richiede un uso del
colore spontaneo ed immediato, che suggerisca come l’artista grazie all’osservazione diretta ritragga an-
che le irregolarità della natura.
Durante il soggiorno a Parigi, a soli venticinque anni, Courbet dipinse il suo autoritratto, intitolato “Uomo
ferito” e qui non era ancora un realista.
Ci presenta quindi un’immagine di se stesso letta attraverso una sensibilità ancora romantica.
L’uomo si mostra ferito da un’arma da taglio accanto ad una grande quercia realmente esistente ad Or-
nans.
Colpisce in primo luogo lo sguardo: gli occhi sono socchiusi e rivelano un’espressione persa ed estraniata.
L’occhio in ombra, per i romantici, allude ad uno sguardo interiore, in netto contrasto con i ritratti accade-
mici e classici, dove i personaggi sono rappresentati invece con gli occhi ben illuminati.
Già dall’anno successivo, comunque, Courbet cambiò stile.
Quando lasciò Parigi e si ritirò nella città natale, dipinse la vasta tela intitolata “” che, assieme ad altri due
dipinti “Gli spaccapietre” e “Contadini di Flagey”, costituisce la trilogia del Realismo.
Il dipinto rappresenta il funerale
di un perfetto ignoto.
La tela, larga quasi 7 metri, raffigu-
ra un gruppo di abitanti di Ornans
riuniti per assistere alla sepoltura
di un loro concittadino. L’artista,
lasciando celata l’identità del
morto, oppone l’idea darwiniana
della morte, intesa come passag-
gio da uno stato di esistenza ad
uno di non esistenza e descrive
un avvenimento ordinario, un fu-
nerale, ma adottando le dimen-
sioni che tradizionalmente erano
riservate al quadro storico.
Pur trattandosi di un funerale, come ricordano il titolo e vari elementi rappresentativi, non sembra che le
figure provino grande dolore o partecipazione per questa morte; infatti i personaggi sono rappresentati in
modo fisso e volutamente distratto.
I volti sono ben visibili, reali, ma hanno tutti la stessa espressione e nessuno sguardo è rivolto al defunto o
alla tomba, così da rendere impossibile l’identificazione di un punto focale.
Alcuni volti sono resi in modo volutamente grottesco come i personaggi con le toghe rosse.
La composizione, presenta le figure disposte in una lunga fila ed il colore dominante è il nero, anche se vi

307
CAPITOLO 17 IL REALISMO

spiccato tonalità più brillanti, come il colore carne dei volti e delle mani dei paramenti del prete, delle man-
iche del seppellitore e del cane in primo piano.
Il colore è usato grezzo e mescolato con sabbia per aumentare la sensazione di spessore e materialità.
Courbet dipinge rapidamente e con grande abilità ed è tra i primi artisti ad utilizzare il couteau anglais (col-
tello inglese), una sorta di spatola lunga e flessibile che consente un tocco leggero e veloce.
Un’altra opera analizzata è “Gli
spaccapietre” che però è anda-
ta distrutta durante la seconda
guerra mondiale, ci resta perciò
solo una documentazione fo-
tografica.
Essa, tuttavia, è una delle opere
che meglio sintetizza la scelta sia
poetica sia stilistica di Courbet.
I due personaggi raffigurati sono
due lavoratori dediti ad un lavoro
rude e pesante.
Lavorano in una cava di pietra
spaccando la roccia con la sola
forza fisica. Dei due uno è più an-
ziano, è piegato su un ginocchio
per spaccare i massi e Courbet lo
raffigura di profilo.
L’altro, più giovane, è intento a trasportare le pietre e viene raffigurato di spalle. Fa da sfondo alla scena il
fianco di una montagna che occupa tutto l’orizzonte. Si intravede solo un po’ di cielo in alto a destra.
Le due figure sembrano inserite quasi nel fianco di un monte ed hanno volti inespressivi.
Il lavoro che fanno è povero ed è una povertà non solo materiale ma anche interiore.
In questa tela oltre al soggetto, anche la composizione risulta inaccettabile per i canoni estetici del tempo.
Manca un equilibrio compositivo preciso.
Un asse orizzontale non c’è, dato che manca la linea di orizzonte.
L’asse verticale risulta troppo decentrato a destra: esso, infatti, passa per il punto in cui l’uomo inginoc-
chiato sta per colpire il masso con il suo arnese di lavoro.
Non c’è neppure simmetria tra le due figure.
Esse, infatti, sono collocate in modo del tutto casuale.
Questa mancanza di esteticità canonica finiva per accentuare ulteriormente l’intento di Courbet: egli non
vuole assolutamente proporre un’arte che trova nella bellezza una facile funzione consolatoria ma vuole
proporre documenti visivi che creano lo shock della verità.

308
IL REALISMO CAPITOLO 17

JEAN-FRANÇOIS MILLET

Jean-François Millet nacque nel 1814 in un villaggio della Francia settentrionale.


Nelle sue opere, Millet, rappresenta soprattutto la realtà della vita dei campi, una realtà che conosce bene
non solo perché di origine contadina ma anche perché, dopo la morte del padre, si dedicò personalmente
al lavoro della terra per mantenere la sua famiglia.
La sua particolare sensibilità, ma anche la devozione e la religiosità presente nei suoi dipinti, lo differenziò
da molti artisti.
Nel 1848, l’anno del Manifesto dei comunisti e delle grandi lotte operaie, Millet espone un quadro che rap-
presenta un contadino al lavoro. Per la prima volta un lavoratore è presentato come un eroe della rappre-
sentazione e il contadino è legato alla terra, alla natura, a modi di lavoro e di vita tradizionali.
La borghesia si entusiasma per Millet proprio perché dipinge i contadini, che sono lavoratori buoni, igno-
ranti e senza rivendicazioni salariali.
Millet regredisce dal realismo al naturalismo romantico, infatti, sceglie contenuti poetici, ama le penombre
che legano figure e paesaggio, i suggestivi effetti di luce, i motivi patetici.
Nel 1857, Millet dipinse “Le spigolatrici” che venne
accolto come uno dei più importanti esempi di pit-
tura realista.
Le spigolatrici, chine sulla terra, svolgono il loro lav-
oro con una dedizione quasi religiosa. Sullo sfondo,
avvolto da una luce molto intensa, si intravedono i
covoni e il carro con il fieno, simbolo del ricco rac-
conto della terra.
Solo pochi, però, potranno godere di questo rac-
colto, e sicuramente non saranno le tre contadine
poste in primo piano che raccolgono le poche
spighe rimaste sulla terra dopo la mietitura.
Le forme sono solide, semplificate, realizzate con
colori dai toni dorati, molto vicini al colore della ter-
ra e del grano.
Un’altra opera importante di Millet è “L’Angelus”.
Questo dipinto fu esposto nel 1867 ed ebbe subito un grande successo. Il soggetto pittorico è una coppia
di contadini che interrompono il loro lavoro al suono delle campane che annunciano l’Angelus, quindi,
sono intenti della preghiera.
Commissionato da un ricco americano e completato nell’estate del 1857, Millet aggiunse un campanile visi-
bile sullo sfondo, e cambiò il titolo iniziale dell’opera “Preghiera per il raccolto di patate” con “L’Angelus”.
L’opera cambiò mani più volte, aumentando di poco il suo valore perché molti consideravano sospette le
simpatie politiche dell’artista.
Alla morte di Millet, avvenuta nel 1875, si scatenò
una guerra di offerte, tra Francia e Stati Uniti, che
terminò alcuni anni dopo con il prezzo di 800.000
franchi in oro.
L’Angelus fu più volte copiato e reinterpretato da
molti artisti. Salvador Dalí rimase così affascinato da
questo dipinto che gli dedicò un intero libro intito-
lato “Il tragico mito dell’Angelus di Millet”. Nel 1938
Dalí scrisse che i contadini del quadro non erano solo
in preghiera per l’Angelus, ma erano raccolti davanti
ad una piccola bara. Nel 1963 Dalí chiese ed ottenne
un’analisi ai raggi x dell’opera pressi il Louvre da cui
emerse che in primo piano era proprio nascosta la
bara di un bambino.

309
CAPITOLO 18

I MACCHIAIOLI

311
CAPITOLO 18 I MACCHIAIOLI

Parallelamente all’Impressionismo ed al post-Impressionismo, l’unica corrente artistica che acquista un cer-


to rilievo nell’Ottocento italiano è quella dei Macchiaioli.
Questi erano un gruppo di giovani artisti, letterati, patrioti che, spinti da un clima liberale e da un governo
moderato, si riunivano nella vivace Firenze intorno alla metà del secolo.
Nel 1856 era infatti il caffè Michelangelo in via Larga il luogo di ritrovo e confronto dal quale fiorivano poi
le idee macchiaiole, idee di rinnovamento e di profonda opposizione alle convenzioni della cultura accade-
mica tradizionale.
Lo stesso nome “Macchiaioli” fu assunto a partire dal dispregiativo di un critico della “Gazzetta del popolo”
nel 1862, il quale volle evidenziare la regressione dall’armonia accademica del disegno alla volgare mac-
chia, ossia il primo abbozzo utilizzato dal pittore per studiare gli effetti cromatici.
Partendo da quadri storici, nei quali sperimentarono la solidità e la forma tramite un forte chiaro-scuro,
questi pittori si concentrarono poi sullo studio della luminosità e dei contrasti luce-ombra.
La parola chiave dei dipinti macchiaioli è appunto la macchia, densa e definita, che rendeva le forme in
modo essenziale e sintetico, e che costituì la linea di contorno, il disegno, le velature e le trasparenze.
Lo scopo della macchia era infatti quello di essere il più realistica possibile, evitando perciò tutto ciò che
non è naturale, come ad esempio la linea di contorno.
La natura ha quindi un ruolo da protagonista nella pittura di questi artisti, tant’è vero che molti di loro
trascorsero lunghi periodi in paesaggi naturali; due luoghi in particolare vanno ricordati: Piagentina e Ca-
stiglioncello, dove Diego Martelli, teorico e coordinatore del gruppo, possedeva una grande tenuta, dove i
pittori ebbero modo di approfondire i loro studi.
Dopo circa un decennio dall’Esposizione Nazionale del 1861, dove questo tipo di arte destò un certo in-
teresse, il gruppo macchiaiolo cominciò a perdere vigore e forma, anche perché nel tempo non presentò
nessuna solida base teorica.

GIOVANNI FATTORI

Giovanni Fattori, nato a Livorno nel 1825, fu il maggior rappresentante della pittura macchiaiola.
Dopo aver imparato a leggere e a scrivere nell’attività commerciale del fratello Rinaldo, grazie al suo spic-
cato talento artistico, fu messo a bottega dal pittore livornese Giuseppe Baldini.
Il suo temperamento ribelle e libertino lo portò ad abbandonare l’Accademia delle Belle Arti di Firenze,
frequentata dal 1846, e ad avvicinarsi sempre più al Partito d’Azione, partecipando come testimone ai moti
rivoluzionari del ’48, che lo segnarono profondamente nelle ideologie. Iniziò anche a frequentare con as-
siduità il Caffè Michelangelo a Firenze, partecipando ai vivaci dibattiti e conversazioni di carattere artistico.

312
I MACCHIAIOLI CAPITOLO 18

“I SOLDATI FRANCESI DEL ‘59”

Una prima serie di dipinti furono quelli dedicati alle milizie francesi che nel 1859 si accamparono al Pratone
delle Cascine per combattere contro gli austriaci.
In questo periodo Fattori ebbe modo di maturare molto i suoi studi sul vero e sull’utilizzo della macchia.
In “I soldati francesi del ‘59”, un gruppetto di militari viene ritratto di spalle, affiancati a coppie in una fila
scomposta, capeggiati da un ufficiale che guarda verso destra, stringendo una lunga sciabola, probabil-
mente in procinto di dettare un ordine di marcia.
La novità di Fattori sta nell’immortalare non l’aspetto fiero e combattivo dei soldati durante una battaglia,
ma un episodio di vita quotidiana e noiosa utilizzando un tono volutamente antieroico.
Seppur un dipinto macchiaiolo, quest’opera presenta un grande equilibrio, quasi classico, sia nei colori che
negli spazi e le forme.
Di fatto l’artista utilizza ampie e nette pennellate di colore che riempiono semplici figure geometriche; le
forme sono solide e consistenti e definiscono saldamente il volume dei personaggi.
La costruzione prospettica è pressoché assente, solo una variazione di tono separa il terreno dal muro sullo
sfondo, oltre il quale si intravede, in alto a destra, una sottile striscia di cielo azzurro.
Si fondono quindi, in questo primo periodo della pittura di Fattori, l’innovazione della ricerca macchiaiola
alla più raffinata tradizione toscana.

“LA ROTONDA PALMIERI” E “IN VEDETTA”

Dopo il 1860, l’artista è costretto ad un lungo soggiorno a Livorno per curare la moglie malata di tuberco-
losi, ed è qui che egli ha modo di dedicarsi a delicati paesaggi agresti e piccole vedute marine, dove prevale
l’uso di una luce quasi abbagliante.
“La rotonda Palmieri”, del 1866, raffigura alcune figure femminili sedute all’ombra di un grande tendone,
sulla banchina dello stabilimento balneare Palmieri.
Il linguaggio di Fattori è maturato: innanzitutto egli utilizza un formato orizzontale particolarmente allun-
gato, proprio per rendere maggiormente la profonda vastità dell’orizzonte; le forme sono più rigorose e
sintetiche, evidenziate da tinte contrastanti tra loro, nitidamente definite.
I chiari e gli scuri sono alternati nel paesaggio sullo sfondo, seppur appena accennato: l’azzurro intenso del
mare è delimitato dalla sagoma più scura del promontorio, sovrastato dal tono bianco e luminosissimo del
cielo.
Questa forte luminosità contribuisce a dar maggiore risalto alla scena in primo piano, pienamente in ombra.
La sensazione di calura e afa tipica del primo pomeriggio d’estate è resa efficacemente dal sottile lembo di
luce che illumina il bordo della banchina, come pure dall’assoluta immobilità del gruppo femminile.
Un’ altro dei capolavori dell’artista è “In vedetta”, dipinto tra il 1868 e il 1870.
È un quadro che può essere definito addirittura paradigmatico, con un grande spazio vuoto che a prima vis-
ta investe l’osservatore, con l’utilizzo soltanto di un piano orizzontale ed uno verticale, ai quali corrisponde
una luce altrettanto essenziale, portata al massimo grado di intensità, il bianco.
In questa vastità di spazi e colore, la pattuglia, posizionata all’incontro tra le due coordinate, risalta immedi-
atamente, assieme al cavaliere che si distacca da essa costeggiando il muro.

313
CAPITOLO 18 I MACCHIAIOLI

La scena sembra quasi immobile, quasi una fotografia in cui è ripreso l’istante, e tutti valori del quadro si
allineano in un perfetto corrispondersi di colori-luce e colori-ombra (i chepì bianchi sul cielo grigio azzurro,
le uniformi scure sul chiaro, le bandoliere bianche sulle giubbe turchine, i cavalli bianchi e neri.
Fattori inoltre ha eliminato l’effetto scenografico della prospettiva, spianando la profondità sulla superficie;
tuttavia lo spazio non è astrattamente geometrico: il terreno si presenta sabbioso, con piccoli sassi e mucchi
di detriti, così come pure il muro è visibilmente segnato dall’intonaco calcinato dal sole.
Anche la luce non è quella universale di Piero della Francesca, ma una luce reale, quella di una tarda, afosa
mattinata di estate.
Sintetizzando il particolare dell’istante con l’”universale” dello spazio geometrico, Fattori riesce quindi a
dimostrare come il suo linguaggio storico, tradizionale, si adatti benissimo alla realtà dell’arte italiana mod-
erna.
Dopo un periodo di difficoltà economiche e dopo la morte della moglie nel 1867, Fattori iniziò a viaggiare
in molte città come Parigi, Londra, Philadelphia, Santiago del Cile, dove ottenne vari riconoscimenti. Nel
1869 diventa insegnante all’Accademia di Firenze, dove proseguì un’intensa attività fino alla morte, avve-
nuta il 30 agosto 1908.

314
CAPITOLO 19

IL DIVISIONISMO

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CAPITOLO 19 IL DIVISIONISMO

Il divisionismo è un movimento pittorico che si sviluppò a partire dall’ultimo decennio del XIX secolo italia-
no e si evolve per un periodo piuttosto lungo.
Secondo alcuni studiosi trovò il suo esponente principale in Pellizza da Volpedo, secondo altri in Giovanni
Segantini.
I principi che ne codificarono le direttive furono delineati da Gaetano Previati che ne sviluppò le linee in-
fluendo sia sul territorio ligure che su quello lombardo.
L’atto ufficiale che sancisce la nascita del divisionismo è alla Triennale di Milano dove, nel 1891 viene espo-
sto il quadro «Le due madri» di Giovanni Segantini.
Il divisionismo prese anche spunto dal Pointillisme (Puntinismo) francese.
Quest’ultimo, derivato dalla corrente impressionista, accostava nella tela attraverso puntini e non pennel-
late, colori puri senza mischiarli.
La tecnica del pointillisme consentiva di ottenere la massima luminosità accostando i colori complemen-
tari ma rivelava anche un interesse scientifico. Infatti, con tale tecnica l’artista si prefiggeva di ottenere la
scomposizione del colore quale quella che si riteneva essere allora, sulla scorta delle ultime acquisizioni
scientifiche, la scomposizione ed acquisizione «naturale» dei colori a livello retinico. Secondo tale principio,
sarà la retina dell’osservatore a dover ricomporre tonalità e sfumature derivate dalla pittura «per punti».
Nel divisionismo i puntini diventano filamenti frastagliati che invece di accostarsi spesso si sovrappongono.
Si privilegia il ritratto di introspezione psichica o sentimentale comune anche al Realismo e per la tecnica
pittorica caratterizzata da contorni sfumati, colore spumoso, forte contrasto chiaroscurale.
Verso la fine del secolo, l’aggravarsi dei problemi sociali viene registrato dagli artisti i cui contenuti pittorici
si fanno più tragici, la scienza, invece che sanare la triste condizione delle masse, diventa mezzo per accre-
scerne lo sfruttamento.
L’arte è ora interpretata come una via di salvezza, per cui si estende ad ogni aspetto della vita (da notare gli
sviluppi in Inghilterra con i Preraffaelliti).
Contro il Positivismo si assiste alla rivalutazione della filosofia di Schopenhauer, anche attraverso il pensiero
di Nietzsche l’artista si rifugia nell’interiorizzazione del rapporto arte/natura, che interpreta con sottoline-
ature diverse, accentuandone il significato simbolico evocativo. Per Previati: «Compito dell’artista non è
quello di copiare letteralmente tutto ciò che si vede, ma è una funzione intellettiva sulle forme e i colori del
vero... L’artista deve anzitutto rinunciare alla speranza di ritrovare nel mondo esteriore il quadro già com-
posto. La verità dell’arte è lontana dalla contraffazione del vero.»
Sebbene in un primo periodo vennero riproposti paesaggi e scenari all’aria aperta, questi lasciarono posto
a problematiche sociali e vita quotidiana (sviluppo certamente già presente nei macchiaioli toscani) in par-
ticolare nel caso di Pelizza e Plinio Nomellini i cui interessi artistici si intrecciarono all’attivismo socialista.
Nel caso di Previati invece profonde riflessioni su temi religiosi.

316
IL DIVISIONISMO CAPITOLO 19

GAETANO PREVIATI

Tra le opere esposte alla triennale di Milano una di quelle che colpì maggiormente la critica fu “Maternità” di
Gaetano Previati (1852-1920), un artista di otrigini ferraresi, formatosi però all’accademia di Brera. Gaetano
Previati dipinse uno dei temi più noti della tradizione, la Maternità.
La Madre abbraccia teneramente il proprio bimbo ed un gruppo di angeli sognanti ed in preghiera è dispo-
sto attorno a lei e al figlio quasi a volerli proteggere.
È una interpretazione onirica, un po’ mistica ed eterea della maternità ed il colore steso in filamenti lunghi
e regolari dona luminosità ed armonia al dipinto.
La figura femminile sta allattando il neonato ed è vestita in un abito azzurro con manto bianco. Ella siede su
di un prato fiorito sotto un albero di frutti.
Le figure angeliche hanno un atteggiamento di venerazione e di raccoglimento inetriore.
La scena è ambientata in un paesaggio all’aria aperta e mostra sullo sfondo un cielo azzurro illuminato da
una luce chiarissima, Previati utilizza una tecnica particolare, composta dalla tessitura filamentosa, quasi
pettinata delle pennellate che costruiscono le figure con un andamento striato e leggermente curvo.
I colori sono colori puri e creano un effetto di luminosità che da un valore mistico-simbolico.

GIOVANNI SEGANTINI

Giovanni Segantini, il maggiore pittore divisionista italiano, na-


sce ad Arco in provincia di Trento il 15 gennaio 1858.
Dopo un’infanzia drammatica a causa delle ristrettezze econo-
miche e della morte della madre quando Giovanni ha solo sette
anni, viene affidato alla sorellastra.
Il ragazzo finisce rinchiuso in riformatorio per vagabondaggio
dove resterà fino al 1873, quando viene affidato al fratellastro
Napoleone, residente a Borgo Valsugana dove possiede un labo-
ratorio fotografico.
Per qualche anno Giovanni Segantini lavora nel laboratorio fo-
tografico affinando la sua sensibilità artistica, cosa che lo spinge
ad applicarsi allo studio della pittura.
Dal 1878 al 1879 frequenta corsi regolari all’Accademia di Brera,
segue le lezioni di Giuseppe Bertini e stringe amicizia con Emilio
Longoni, allora aspirante pittore come lui. Durante l’Esposizione
Nazionale di Brera del 1879, viene notato dalla critica milanese,
incontra il pittore ungherese Vittore Grubicy, che ne intuisce il
talento e col quale instaura un rapporto d’amicizia.

317
CAPITOLO 19 IL DIVISIONISMO

AVE MARIA A TRASBORDO

Il soggetto raffigura un traghetto di armenti all’ora del tramonto, quando al suono dell’Ave Maria contadini
e pastori fanno rientro a casa.
Sulla superficie tranquilla del lago scivola in primo piano una piccola imbarcazione muovendo appena le
acque intorno a se.
Sulla barca con numerose pecore il barcaiolo rema lentamente, mentre una giovane donna stringe tra le
braccia la sua bambina.
Intorno cielo e acqua sembrano una cosa sola; li separa soltanto una sottile striscia di terra, popolata di
campi e di case, che si riflettono sulle limpide rive del lago.
La luce proveniente da un punto al di là dell’orizzonte, si scompone in una miriade di di minuscoli raggi
luminosi.
Il paesaggio si accende così di un bagliore dorato che rende più scure, per contrasto, le ombre delle figure
e degli oggetti.

LE DUE MADRI

All’interno di una stalla scarsamente illuminata da una rustica lampada a olio che pende dal soffitto, Gio-
vanni Segantini ha ritratto due madri: una mucca alla mangiatoia che ha accanto il suo vitellino addormen-
tato sullo strame e una giovane contadina che tiene in grembo il suo bambino.
Le due madri sono accomunate dalla durezza del lavoro contadino e simboleggiano inoltre un universale
sentimento di amo-re materno che pervade tutta la natura.
Questo un tema, che Segantini sentiva particolarmente caro a causa delle sue infelici vicende personali.
La formazione di Segantini nell’ambito della pittura naturalistica è evidente nella scelta del soggetto popo-
lare e quotidiano e nell’interesse per lo studio degli effetti di luce.
La difficoltà di realizzare una luminosità bassa, ma diffusa per tutto l’ambiente in modo che nessun det-
taglio fosse avvolto dall’ombra, fu superata dal pittore con l’ausilio della tecnica divisionista, cioè con
l’applicazione separata dei colori sulla tela in luogo del tradizionale impasto di pigmenti sulla tavolozza.
Il grande quadro è firmato e datato 1889 in basso a sinistra.
Fu proprietà di Grubicy a Milano, quindi in deposito per lungo tempo al Museo Segantini di Saint-Moritz.
Prima di giungere alla sede attuale ha fatto parte della Collezione Benzoni, sempre a Milano.
L’opera fu esposta nel 1891 alla Triennale di Brera, dove riscosse un largo successo.

318
IL DIVISIONISMO CAPITOLO 19

GIUSEPPE PELLIZZA DA VOLPEDO

Pellizza da Volpedo era figlio di contadini, frequentò la scuola tecnica di Castelnuovo Scrivia dove apprese
i primi rudimenti del disegno.
Grazie alle conoscenze ottenute con la commercializzazione dei loro prodotti, i Pellizza entrarono in cont-
atto con i fratelli Grubicy che ne promossero l’iscrizione all’Accademia di Belle Arti di Brera dove fu allievo
di Francesco Hayez e di Giuseppe Bertini.
Fu nell’ambito familiare che si formò quella coscienza civile che costituisce una delle principali motivazioni
della sua opera.
Le sue prime opere manifestano una costante attenzione per lo studio del vero, condotto spesso con l’aiuto
di una macchina fotografica e con una tecnica a larghe e compatte stesure di colore.
I soggetti tratti dalla vita quotidiana divengono espressione di sentimenti collettivi.

IL QUARTO STATO

Nel Quarto Stato, iniziato nel 1898 e terminato nel 1901, è evidente che Pellizza non intendeva rappresen-
tare esclusivamente una scena, sia pure molto importante, della vita sociale del proprio tempo, vale a dire
un momento di sciopero e di protesta.
Il Quarto Stato è considerato il manifesto dell’impegno sociale e umanitario del pittore, convinto che nella
società contemporanea all’artista spetti un’importante funzione educativa, elevare spiritualmente la popo-
lazione tramite l’arte e i valori estetici. Per la realizzazione dell’opera l’artista impiegò più di dieci anni.
Viene raffigurata una folla di contadini e lavoratori che avanza verso lo spettatore sullo sfondo di un pae-
saggio dominato da una sottile striscia di cielo.
In primo piano ci sono due uomini e una donna con un bambino in braccio nella piazza di Volpedo i cui
abitanti funsero da modello per i personaggi del dipinto.
L’opera vuole celebrarel’affermazione di una nuova classe sociale di lavoratori che rivendica ora il rispetto
dei propri diritti.
La massa dei popolani, ritratti nei loro umili abiti da lavoro avanza serena e fiduciosa con una marcia lenta
ma ormai inarrestabile.
La composizione è per piani paralleli e per la donna in primo piano l’artista scelse come modella la moglie
Teresa. La donna si volge verso l’uomo in primo piano che attira l’attenzione dell’osservatore per il rosso
del panciotto che contrasta con il bianco della camicia. La folla si muove con atteggiamenti naturali ed è
immersa in un contrasto simbolico tra le tenebre dello sfondo e il chiarore verso il quale fiduciosamente
avanza. ‘’Il Quarto Stato’’ ha incontrato una grande fortuna per il significativo messaggio sociale.

319
CAPITOLO 19 IL DIVISIONISMO

PAUL CEZANNE

Paul Cezanne nacqua nel 1839 ad Aix-en-Provence e raggiunse molto tardi la notorietà ed il successo artis-
tico, infatti, solo negli ultimi anni di vita ebbe riconoscimenti e vendette opera quando gli fu dedicata una
sala al Salon d’Automne nel 1904.
Cezanne è una delle personalità di maggiore rilievo e importanza del secolo ma specialmente è l’esempio
di molti artisti del novecento.
Egli imparò l’arte senza maestri, studiando opere di pittori passati e moderni.
Tra questi ultimi ricordiamo alcuni importanti come Delacroix, Courbet e Daumnier dai quali riprese il modo
di costruire l’immagine facendo uso di una densa materie pittorica.
Passò tanto tempo della sua vita Parigi a partire dal 1861 e qui frequentò pittori che poi sarebbero stati
chiamati Impressionisti.
Come altri autori anche Cezanne necessitava di un netto contatto diretto con la natura per rappresentarla
come qualcosa di immobile con la differenza però, che egli non voleva proporre l’apparenza della realtà e
la sua transitorietà ma specialmente coglierne la struttura profonda.

LA CASA DELL’IMPICCATO A AUVERS

Quest’opera venne realizzata tra il 1872 e il 1873 ed è stata esposta alla prima mostra degli Impressionisti.
In questo quadro Cezanne evidenzia e sottolinea l’utilizzo di timbri chiari e decisi, egli accentua le masse
del paesaggio per evidenziare i volumi.
Nella sua visione egli esige e rappresenta profondità
e ricerca uno spazio mentale e non descrittivo.
Il suo punto di partenza per tutte le sue opere è la
sensazione ma questa volta l’autore prende in con-
siderazione altri aspetti come i rapporti spaziali e
coloristici di ciascun soggetto rappresentato.
Per fare tuttociò Cezanne analizza prima la trama
della realtà attraverso il pensiero e poi la trasferisce
sulla tela.
Da quest’opera l’artista fa scaturire una sorta di
curiosità nell’osservatore per il modo con cui rap-
presenta la casa ma specialmente per gli oggetti e
l’ambiente naturale che la circonda: alberi altissimi
che innescano tensione e immagini che, accompa-
gnate dalla tecnica e dal colore, intrigano la mente
dell’osservatore a immedesimarsi nell’opera.
Egli inoltre fa uso di forme geometriche innovative nel periodo in quanto voleva dare in maniera perfetta
la forma dei soggetti in questione; è proprio lui infatti che nel 1904 ad affermare che bisognava << trattare
la natura secondo il cilindro, la sfera, il cono, il tutto messo in prospettiva >> perchè le immagini e lo spazio
devono essere pensati in una direzione prettamente razionale.
Si ha quindi con Cezanne l’unione dell’immagine del reale con la sensazione personale, il tutto messo in
atto partendo da semplici forme geometriche .

320
IL DIVISIONISMO CAPITOLO 19

IL FUMATORE DI PIPA

Quest’opera è stata realizzata tra il 1890 e il 1892, periodo in cui Ce-


zanne si allontana leggermente dall’Impressionismo anche se l’opera
non è privata di aspetti legati ad esso.
Se guardiamo e studiamo l’opera possiamo notare che l’autore non
indugia su alcuna caratterizzazione psicologica, egli infatti è indiffer-
ente alla personalità del soggetto e non si preoccupa di definirne la
fisionomia.
L’artista si concentra sulla rappresentazione del corpo e sugli elementi
che accompagnano la scena.
L’organizzaione dell’opera segue una linea diagonale che va da una
mano all’altra (del’uomo rappresentato), l’andamento obbliguo della
figura è accompagnato dalla cornice dello specchio, dall’inclinarsi del-
la tenda dalla parte della spalla e dal bordo del tavolo verso il tronco
del modello.
Si noti anche la volumetria eccellente presente nell’opera la quale rap-
presenta pienamente la trama idealizzata dall’autore stesso.

DONNA CON CAFFETTIERA

L’opera è stata realizzata contemporaneamente a «il fumatore di pipa»


ed è un altro esempio di geometrizzazione delle figure.
La donna è seduta accanto al tavolo su cui si trovano una tazza e una
caffettiera ed ha le mani poste in grembo.
Il fondo è costituito da una grande porta verde e da una parete co-
perta da una carta da parati a fiori bianchi, l’immagine è frontale e si
presenta composta e immobile quasi come un monu mento.
Può essere sottolineato anche il perfetto accostamento dei colori da
cui emerge la testimonianza che l’autore sia convinto che la realtà si
presenti in profondità piuttosto che in superficie.
In questo moso non vi è differenza tra lo spazio della vita e quello del
quadro, tramite la profondità l’immagine appare reale, ma anch questa
volta l’artista non bada alla psicologia della donna rappresentata bensì
ala tecina e alla forma.

LA MONTAGNA DI SANT- VICTOIRE

Durante gli ultimi annai di vita Cezanne dipinse più


volte quest’opera che domina il paesaggio di Aix-
en-Provence.
Essendo questo un paesaggio familiari e importante
per l’artista viene trattato con uno spirito sempre
nuovo.
Nella tela i volumi sono più definiti geometrica-
mente e ordinati secondo un banale suggerimento
prospettico, ma vengono scomposti in tasselli di col-
ore che danno origine a cosa e spazi, pieni e vuoti,
fino a stemprerarsi nelle gamme azzurre della mon-
tagna e del cielo.

321
CAPITOLO 19 IL DIVISIONISMO

PAUL GAUGUIN

Paul Gauguin è un vero profeta del suo tempo.


Il suo interesse per la pittura si manifesta solo in seguito al crollo della borsa che gli fa perdere il lavoro,
sceglie così di diventare un pittore professionista.
La sua pittura antinaturalistica cerca di rappresentare le immagini interiori e non la realtà.
Trasferitosi a Pont-Aven, paesino in cui viveva una vera e propria colonia di artisti, trova una prima risposta
al suo bisogno di esotismo e libertà.
A Gauguin interessa rappresentare immagini potenti, evocative, cariche di colori puri e abbaglianti dalle
forme semplici, come quelle dell’arte primitiva che parla direttamente all’immaginazione.
Eugène-Henri-Paul Gauguin nasce a Parigi il 7 giugno 1848.
Da parte della madre, Aline Marie Chazal, egli discende dalla nobile famiglia spagnola dei Tristan de Mos-
coso, trasferitasi in Perù ai tempi della conquista delle Americhe.
Suo padre, Clovis Gauguin, è un giornalista di idee repubblicane che, per le sue opinioni all’opposizione, è
costretto a lasciare Parigi.
Parte con la famiglia per Lima ma durante il lungo viaggio muore, così Aline con i figli Paul e Marie vengono
ospitati dallo zio Tristan che, grazie alla buona condizione economica in cui riversava, permette anche a
Paul di trascorrere una prima infanzia in una condizione di benessere in una splendida dimora di un paese
pittoresco che rimarrà impresso nella sua memoria.

LA VISIONE DOPO IL SERMONE; 1888

Questo dipinto viene realizzato dopo che l’artista


vede il quadro dell’amico E’mile Bernard, che dip-
inse Donne bretoni sul prato.
Il quadro di Gauguin provocò la polemica da parte
dell’amico Bernard e la rottura del rapporto di ami-
cizia con quest’ultimo che lo accusò di aver copiato
il suo stile, il suo soggetto e infine la fama.
Il dipinto segna la rottura definitiva dallo stile im-
pressionista: rappresenta una visione, dove, alcune
donne bretoni, con gli abiti e le acconciature tradiz-
ionali, uscite dalla messa domenicale, vedono il
combattimento di Giacobbe con l’angelo.
L’episodio è narrato nella Genesi e fa riferimento
alla lotta che Giacobbe deve sostenere per un’intera
notte con un misterioso angelo, metafora dell’eterna
lotta tra Male e Bene.
Secondo il racconto biblico, Giacobbe, figlio di Isacco, durante il viaggio verso il paese dei suoi antenati,
fermatosi lungo la sponda di un fiume, fu assalito da un essere misterioso, nella Bibbia definito uomo, ma in
seguito rappresentato come angelo.
I due lottarono fino allo spuntare dell’aurora e al termine del combattimento l’angelo benedisse Giacobbe
e gli disse che, da quel momento in poi, il suo nome sarebbe stato Israele.
Episodio che indica il cambiamento di vocazione di Giacobbe che fu investito del ruolo di capostipite del
popolo di Israele.
Questo episodio si carica di mistero grazie al fatto che esso è in realtà sognato, immaginato dalle donne che
pregano. Forme e colori sono tanto suggestivi quanto irreali: il prato è rosso fuoco, gli abiti neri contrastano
con il bianco dei cappelli.
I volti delle donne, in meditazione, sembrano maschere scolpite nel legno. Contorni spessi e scuri conten-
gono il colore.
La prospettiva tradizionale è annullata in una visione dall’alto, in cui non c’è rapporto reale tra le dimensioni
gigantesche delle donne e quelle dei due lottatori in lontananza.
Un tronco d’albero taglia in diagonale la tela, come nelle stampe giapponesi, dividendola in due triangoli:
quello affollato delle donne, e quello semivuoto, della lotta.

322
IL DIVISIONISMO CAPITOLO 19

Il tronco separa così due scene che appartengono ad una diversa realtà:quella concreta delle donne e
quella immaginaria della visione.
Il forte potere evocativo di questo quadro viene non solo dai colori irreali e dalle forme essenziali, ma pro-
prio dall’unificazione di questi due livelli di realtà.
Questo quadro rappresenta un esempio tipico di un’arte “idealista, simbolista, sintetica, soggettiva e deco-
rativa”.
Alle origini dello stile di Gauguin possiamo così riconoscere il primitivismo delle scene religiose bretoni e il
colore squillante, attraverso l’influsso della pittura giapponese.
Stile astratto, che anticipa espressionismo e cubismo.

IL CRISTO GIALLO

Il dipinto costituisce uno degli


esempi più evidenti del primitiv-
ismo e del sintetismo bretone.
Per il motivo centrale della tela,
Gauguin si ispira a un crocifisso
policromo custodito in una cap-
pella di Trèmalo, nei pressi di
Pont-Aven, ritraendo sullo sfon-
do la cittadina adagiata tra le
colline.
L’ambientazione cromatica in
questa tela è più importante di
quella geografica.
In questo quadro, costruito sec-
ondo schemi regolari, il colore ha
un ruolo fondamentale: la gam-
ma particolare di giallo-arancio
nel crocifisso esprime il dolore
del Cristo, sofferenza condivisa
anche dall’artista, la cui fisiono-
mia è possibile riconoscere nei
tratti del viso del Cristo, il quale
artista, pervaso da un forte mis-
ticismo, si identificava spes so in
lui.
Gauguin, nella rappresentazi-
one di soggetti religiosi legati a
tradizioni secolari, riprende l’arte
popolare bretone.

323
CAPITOLO 19 IL DIVISIONISMO

DA DOVE VENIAMO? CHI SIAMO? DOVE ANDIAMO?

Testamento artistico e spirituale di Gauguin, la tela è una sintesi dei temi della sua pittura e della sua visione
del mondo. Prima di affrontare il dipinto vero e proprio esegue vari disegni. Il dipinto impressiona i critici
per le soluzioni stilistiche e il profondo simbolismo. L’opera può essere interpretata come una metafora
della vita, dall’infanzia alla vecchiaia, ma anche una meditazione sul suo senso, un confronto tra la natura
e la ragione, rappresentata dalle due donne in atteggiamento pensoso. La lettura del quadro avviene da
destra verso sinistra: a destra in basso troviamo un bambino addormentato e tre donne sedute; due figure
vestite di porpora si confidano i loro pensieri; una grande figura accovacciata, che elude le leggi di ogni
prospettiva, leva il braccio e guarda attonita le due donne che osano pensare al loro destino; al centro una
figura coglie frutti; due gatti accanto ad un fanciullo; una capra bianca; un idolo con le braccia alzate sem-
bra additare l’aldilà; una figura seduta sembra ascoltare l’idolo, che ricorda le totemiche divinità orientali;
infine una vecchia, prossima alla morte, presa dai suoi pensieri, completa la storia; mentre uno strano uc-
cello bianco rappresenta la vanità delle parole. La composizione, priva di profondità, riporta tutte le figure
in superficie e le dispone a fianco o intorno all’uomo in piedi con le braccia alzate. La figura in piedi, la più
evidente del dipinto, rappresenta l’uomo che coglie il momento migliore della propria vita, mentre la vec-
chia seduta a sinistra riflette la cupezza dell’esistenza ormai alla fine. L’artista nel paesaggio rappresentato
trasforma la natura in una visione evocativa dai colori irreali.

COME, SEI GELOSA?

La posa della donna in primo piano, dal corpo


massiccio e solido, è studiata con molta atten-
zione.
Le labbra chiuse e la linea curva del naso rive-
lano un carattere deciso e forte.
Il nero dei lunghi capelli si contrappone con la
corona di fiori bianchi, così come il rosa acceso
della spiaggia si stacca dalla pelle scura delle
due figure. La posizione della fanciulla sdraiata,
indica all’artista la ricerca di nuove soluzioni.
Il dialogo tra le due donne non è così evidente
e reale, ma è semplicemente suggerito e richia-
mato dal loro atteggiamento pacato.
I colori della spiaggia non corrispondono alla
realtà.
Sia la sabbia di un rosa cristallino, sia i riflessi del mare, con tonalità rossastre e brune, indicano l’intento di
Gauguin di affidare ai colori il compito di rappresentare il simbolismo della scena, scoperta fondamentale
che avrà influenza sulla nascita dell’astrattismo.

324
IL DIVISIONISMO CAPITOLO 19

VINCENT VAN GOGH

Vincent Van Gogh nasce nel 1853 a Zundert, una città olandese.
Nonostante sia stato uno dei più grandi artisti dell’800 giunse piuttosto tardi alla pittura, negli anni però
aveva accumulato molta esperienza lavorando in una galleria d’arte, in una libreria e come missionario.
La sua carriera artistica iniziò all’età di 26 anni, quando, un po’ d’autodidatta e un po’ seguendo gli insegna-
menti di un pittore olandese, iniziò la sua carriera pittorica, determinato a irrompere sul panorama artistico
europeo.
Molto importante per lui fu il sostegno datogli dal fratello Theo, il quale lo incoraggiava nel suo difficile
tirocinio.
L’intensa corrispondenza dei due fratelli è importante fonte per la ricostruzione del cammino artistico di
Van Gogh, dato che in esse sono racchiusi i suoi miglioramenti, le angoscie, i desideri, i progetti e molto
altro.

MANGIATORI DI PATATE

Nelle sue prime opere più importanti è evidente l’influsso che i pittori sociali hanno avuto su di lui, lo stesso
Van Gogh dichiara di stimare molto soprattutto Millet.
Ispirandosi a egli realizza l’opera “I mangiatori di patate”.
Le intenzioni dell’artista sono chiare, non vuole rappresentare i contadini in un attimo di eleganza, raffi-
natezza, ma bensì coglierne l’aspetto più crudo, dipingendoli in una scena quotidiana.
Questo dipinto mostra, all’interno di una povera stanza illuminata da una debole luce proveniente da una
lanterna sul soffitto, alcuni contadini che consumano il pasto serale servendosi da un unico piatto di patate,
mentre una di loro sta versando il caffè.
La pennellata è aggressiva, i volti dei personaggi sono deformati, quasi grotteschi.
Il colore è cupo e il contrasto tra toni chiari e scuri mette in evidenza le fisionomie dei personaggi. L’ambiente
è semplice e spoglio.

325
CAPITOLO 19 IL DIVISIONISMO

L’opera è attentamente ponderata anche sul piano gestuale: i personaggi sono distribuiti con ordine at-
torno al tavolo, con movimenti e atteggiamenti equilibrati tra loro, alla donna sulla destra che alza il braccio
per sollevare la teiera si oppone infatti il braccio sollevato dell’uomo con il berretto sulla sinistra.

AUTORITRATTO

Durante il suo soggiorno parigino durato due anni,


dal 1886 al 1888, l’artista ebbe modo, anche grazie
alle numerose conoscenze di suo fratello Theo, di
entrare in contatto con numerosi artisti e opere.
Questo fu un periodo molto importante per Van
Gogh, conobbe numerose correnti artistiche e
mostrò notevoli miglioramenti nelle sue tecniche
pittoriche.
Una delle opere realizzate durante questo periodo
è “l’autoritratto”, dove egli utilizza con una funzione
espressiva la tecnica del pointillisme.
Nell’opera l’artista raffigura se stesso posizionato di
¾, con in testa un cappello, mediante l’accostamento
di pennellate rivolte ognuna verso direzioni diverse,
divenendo più larghe e spesse nella giacca, e de-
scrivendo una specie di girandola sullo sfondo alle
spalle del personaggio.
Il dipinto trasmette sensazioni di ansia e fremito, non
ha valore descrittivo, l’artista vuole solo trasmettere
la sua emotività attraverso il colore e le forme.

LA CAMERA DA LETTO

A causa dell’incrinarsi del rapporto con il fratello Van Gogh dovette abbandonare Parigi, in direzione della
cittadina di Arles, per poter anche studiare con un contatto diretto la luce e i colori delle terre del sud.
Ad Arles acquistò una casa in-
teramente gialla all’esterno, dal
quale fu molto colpito, e che inol-
tre era molto spaziosa all’interno,
requisito perfetto visto il suo de-
siderio di fondare e ospitare una
comunità artistica, di cui avrebbe
dovuto far parte anche l’amico
Gaugain, che in seguito avrebbe
convissuto con Van Gogh per un
breve periodo.
L’artista fu talmente colpito dalla
casa che decise di fare un quadro
su di essa,“La camera da Letto”,che
è anche de scritto in una delle let-
tere che mandate al fratello Theo,
che nel frattempo lo sosteneva
economicamente. Sulla destra vi
è un letto, ripreso da piedi, sulla
parete accanto al quale sono

326
IL DIVISIONISMO CAPITOLO 19

appesi quattro quadri su due ordini: mentre quelli in basso sono sommari e sintetici, quelli in alto sono
identificabili in un autoritratto; a sinistra del letto c’è una coppia di sedie ed un tavolino all’angolo, sopra il
quale nel muro si apre, decentrata sulla destra, una finestra il cui panorama ci è negato dai vetri: la ripresa si
ferma infatti al caldo interno, piccolo ma spazioso ed arioso.
I toni del verde e del celeste mirano a dare un senso di tranquillità e comoda serenità, rinforzati dalla figu-
razione pittorica che si sofferma sul grande letto e sui pochi oggetti nella stanza, ordinata e pulita.
Van Gogh avrebbe voluto esprimere nell’opera un senso di tranquillità, ma il risultato è un senso d’angoscia
dovuto alla linea spezzata che contorna gli oggetti, i colori netti e privi di ombre e le pareti ed il pavimento
inclinati, quasi sul punto di crollare.

VASO CON GIRASOLI

Durante il suo soggiorno ad Ar-


les Van Gogh realizza una serie
di dodici tele su un unico sog-
getto, i girasoli. La maniacalità di
rappresentare questo soggetto è
dovuta al suo significato cristiano,
i girasoli rappresentano il divino,
una cosa molto importante per
l’artista, assieme al loro colore gi-
allo tanto amato dal pittore poi-
ché gli ricordava la luce del sole.
Su un tavolo giallo, dentro un vaso
giallo, i girasoli appaiono disposti
in maniera disordinata, con alcu-
ne parti ricoperte da uno strato
più denso di colore che sembra
conferire quasi la sensazione di
uno spessore.
I fiori si alzano orgogliosamente
sullo stelo, oppure piegano il capo
ormai prossimi a sfiorire, o ancora
si tendono verso l’esterno.
La composizione è semplice e
compatta, costruita con elementi
base: un piano, un fondo e il bloc-
co unico del vaso e dei fiori.
In quest’opera il pittore si con-
centra soprattutto sullo studio
del colore, per cercare di dare ar-
monia alle varie tonalità di giallo.
Ancora una volta la pennellata
diventa un mezzo di espressione
emotiva: la pennellata a cellete da stabilità al piano, al vaso e al fondo, mentre la pennellata frantumata da
materialità e vitalità ai fiori.

327
CAPITOLO 19 IL DIVISIONISMO

NOTTE STELLATA

L’opera intitolata “Notte Stellata”


viene realizzata da Van Gogh
durante il suo periodo di ricove-
ro all’ospedale psichiatrico di
St.Paule, dalla quale godo di ot-
tima vista paesaggistica.
Nonostante nel dipinto siano an-
cora presenti elementi tradizion-
ali come i cipressi sulla sinistra, o
il villaggio visibile in lontananza,
si può ben comprendere la linea
pittorica adottata dall’artista olan-
dese. Van Gogh non vuole riprod-
urre la realtà così come essa ap-
pare, ma vuole ricreare sulla tela
il paesaggio che appare alla sua
anima, ciò che lui sente.
L’elemento sicuramente più
sconvolgente di tutta la tela è il
turbinoso cielo bluastro nella quale sono immerse la luna e le stelle che rischiarano leggermente con la
loro luce.
Il dipinto, realizzato con pennellate larghe e vibranti, trasmette quell’energia vitale e quell’emozione che
solo i quadri di Van Gogh sono in grado di suggerire all’osservatore.

CAMPO DI GRANO CON VOLO DI CORVI

L’ultimo dipinto realizzato da Van Gogh si intitola “Campo di grano con volo di corvi”. In questo grado la sua
pittura raggiunge il massimo grado di emotività, nell’opera si percepisce la profonda inquietudine che tor-
menta l’artista e lo opprime rendendolo incapace di qualsiasi cosa. Risalta subito all’occhio il giallo dorato
del campo di grano ormai maturo, il cui splendore è però offuscato da un oscuro cielo opprimente, solcato
da degli uccelli, illuminato solamente dal debole chiarore delle nuvole che lo attraversano. Il dipinto orga-
nizzato orizzontalmente è diviso verticalmente in due parti dalla strada in terra
che lo attraversa obliquamente. Le pennellate sono frenetiche e veloci, tantissimi colpi di pennello creano il
cielo scuro attraverso delle linee autonome indirizzate tutte verso sinistra, mentre la cosa opposta avviene

328
IL DIVISIONISMO CAPITOLO 19

per il campo di grano, le cui pennellate sono indirizzate verso destra, come se il grano fosse schiacciato dal
vento. Dopo aver realizzato questo dipinto la vita di Van Gogh si spense tragicamente, muore sofferente nel
letto della sua casa ad Arles, con suo fratello accanto, dopo essersi sparato con un colpo di rivoltella.

JAMES ENSOR

Introverso e misantropo, trascorse gran parte della sua vita nella sua città natale, Ostenda, dedicandosi ad
una pittura che fu una delle manifestazioni più significative del periodo e che si pose al centro della cultura
del tempo.
Nel 1877 s’iscrisse all’Accademia di Bruxelles, dove rimase fino al 1880, entrando in contatto con gli ambi-
enti anarchici e intellettuali della città, e dove nel 1881 tenne la prima mostra personale.
Le opere di questo periodo, che arrivò fino al 1885 , formano il cosiddetto periodo scuro, in cui i colori sono
profondi e cupi, con una luce attenuata ma vibrante; in questo si vede l’influenza del naturalismo tipico
della tradizione fiamminga e dei realisti francesi, in particolare di Courbet.
Verso il 1885, rielaborando l’uso del colore brillante degli impressionisti e la grottesca immaginazione dei
primi maestri fiamminghi come Bosch e Bruegel, Ensor si rivolse verso i temi e gli stili dell’avanguardia.
Si accostò così a suo modo al simbolismo e al decadentismo, svolgendo un ruolo determinante nel rinno-
vamento dell’arte belga e anticipando le correnti dei fauves e dell’espressionismo.
Il distacco dalla visione naturalistica rivela nel pittore quella crisi del rapporto tra l’uomo e la natura e quella
tendenza all’allusione simbolica tipica di tutta l’arte post-impressionista.
Questo processo di trasfigurazione della realtà è basato su di un linguaggio fatto di colori puri e aspri, con
vibranti colpi di pennello interrotti che accrescono l’effetto violento dei suoi soggetti.
Il suo lavoro esercitò un importante influsso sulla pittura del XX secolo: i suoi luridi soggetti aprirono la
strada al surrealismo e al dadaismo, mentre la sua tecnica, in modo particolare l’uso del pennello e il senso
del colore, condusse direttamente all’espressionismo.
Alla cultura del suo tempo Ensor non partecipò attivamente, anche perché le sue opere erano spesso rifiu-
tate alle esposizioni per la loro eccentricità.
Si limitò solo a pubblicare alcuni scritti violentemente polemici verso la critica ufficiale. Morì nel 1949 ad
Ostenda.

INGRESSO DI CRISTO A BRUXELLES

Nell’”Ingresso di Cristo a Bruxelles”


l’episodio evangelico dell’entrata
a Gerusalemme è interpretato in
modo grottesco e feroce: Gesù,
che si distingue per la presenza
dell’aureola, è posto tra la folla
ammassata; le figura che lo cir-
condano hanno volti deformati o
maschere grottesche.
L’orrenda sfilata, corredata da
striscioni con scritte, è stata in-
terpretata come denuncia di
una società schiava delle mode e
delle convinzioni comuni, pronta
ad accogliere e a schiacciare ine-
sorabilmente tutti gli ideali, siano essi religiosi o politici.
In quest’opera Ensor è riuscito a tradurre il suo disagio esistenziale e il disprezzo verso il mondo che lo
circonda con intensità e rabbi, infatti dieci anni dopo la realizzazione del dipinto, l’artista vi aggiunse infatti
alcune frasi illuminanti.
La grande tela, di oltre quattro metri di lunghezza, affollata fino all’inverosimile, sembra ricollegarsi alla
tradizione di quegli artisti nordici cinquecenteschi che avevano popolato le loro opere di visioni mostruose

329
CAPITOLO 19 IL DIVISIONISMO

e grottesche. Dopo la svolta del nuovo secolo, la forza e l’efficacia inventiva del maestro belga, che aveva
trattato con sensibilità quasi poetica anche il tema del paesaggio, quasi come una pausa dalla rumorosa
visione del mondo messa in scena dalla sua pittura, tesero ad attenuarsi.

EDVARD MUNCH

«Non dovremmo più dipingere interni con uomini che leggono e donne che lavorano a maglia. Dovremmo
dipingere gente che respira, soffre e ama”. (Edvard Munch, 1889)
Artista simbolista e precursore della corrente espressionista, di cui anticipa l’esasperazione e la violenza col-
oristica, Edvard Munch nasce a Loten, in Norvegia, nel 1863, ove trascorrerà la sua adolescenza, per poi tras-
ferirsi ad Oslo, ove frequenterà l’accademia delle belle arti e l’ambiente bohemien del tempo, e soggiornerà
in seguito a Parigi, centro del fermento culturale europeo assieme alla nascente area della Mittleuropa. Qui,
dopo essere venuto a contatto con la corrente Impressionista, ben presto superata, Munch comincerà nel
1880 ad indagare la profondità dell’animo umano e dell’inconscio attraverso l’arte, dipingendo numerose
opere caratterizzate da un senso di inquietudine e tormento che non vennero subito apprezzate dai suoi
contemporanei a causa della loro indiscussa originalità.
Segnato da numerosi lutti familiari infatti, come la morte della madre quando era solo un bambino, e
costretto ad assistere, impotente, alla lenta e travagliata scomparsa della sorella, malata di tubercolosi, il
giovane Munch rompe con le convenzioni artistiche e sperimentò nuovi materiali e tecniche, alla ricerca
di un personale linguaggio espressivo, ed esprimerà le sue angosce e i disagi esistenziali mediante l’uso di
colori violenti e irreali, linee sinuose e continue, immagini deformate, consumate dal tormento interiore.
L’artista, che durante la sua carriera, come prepostosi, ha sempre dipinto la vita, l’amore, ma anche la soli-
tudine e il terrore, ha infatti una visione della realtà profondamente permeata dal senso incombente e
angoscioso della morte, e in quest’ottica anche l’amore è visto come l’affiorare di un’animalità primitiva
e insopprimibile, e la voglia di annullarsi uno nell’altro viene ancora una volta letta come espressione di
morte. L’utilizzo del rosso, soprattutto, è dovuto alla lunga permanenza dell’artista al capezzale della sorella,
un trauma che influenzerà molto spesso le scelte tonali dei suoi dipinti, i quali, grazie alla scelta dei sog-
getti, all’audacia compositiva e alla fluidità di linee e colori rendono la pittura di Munch ancora capace di
scovolgerci.

LA «PUBERTÀ»

Olio realizzato all’incirca nel 1894 e replica di un soggetto


dipinto tempo prima e andato perduto, «Pubertà» raffigu-
ra un’adolescente nuda in un ambiente altrettanto nudo,
seduta di traverso su un letto appena rifatto, simbolo di una
verginità ancora intatta, le braccia incrociate sul pube in un
gesto istintivo di vergogna, e lo sguardo, impaurito e incer-
to, rivolto verso l’osservatore, e alle cui spalle, sulla parete, si
proietta la sua ombra.
Il disegno è penetrante e sottile, come sempre nelle opere di
Munch, tant’è che viene rappresentato soltanto l’essenziale:
la ragazza, il letto e l’ombra della ragazza sulla parete.
I colori usati sono in contrapposizione tra di loro per creare
un senso di aggressività e di inquietudine: al bianco del
letto e al colorito bianco della fanciulla si contrappongono,
infatti, il marrone della parete e del pavimento e il nero
dell’ombra.
Come risultato della forte espansione emotiva dell’interiorità
umana, Munch arriva a deformare l’aspetto esteriore delle
persone, seppure la figura della fanciulla, sebbene stilizzata,
conservi una parvenza di realismo; il suo corpo appare an-
cora acerbo: ai fianchi che sono già di donna, infatti, fanno

330
IL DIVISIONISMO CAPITOLO 19

stridente riscontro le spalle ancora infantili e i seni appena abbozzati.


Lo sguardo è fisso, quasi sbigottito, simbolicamente fisso verso un futuro che le si riserva incerto e forse
gravido di sofferenze.
Il volto incerto e spaurito ci racconta il turbamento della ragazza e sottolinea il rimpianto per la fanciullezza
perduta e la contemporanea ango-scia per una maturità alla quale non ci si sente ancora preparati.
L’ ombra alle sue spalle è abbastanza realistica e la sua forma è giustificata dall’illuminazione frontale, solo
un po’ spostata verso sinistra; tuttavia quell’ ombra ingigantita, che nasce del corpo stesso della fanciulla,
incombe su di essa come un fantasma, e rappresenta le incognite future e le sofferenze a cui l’amore e la
sua nuova maturità fisica inevitabilmente condurrà.
Il letto è anch’esso dipinto in maniera realistica, tant’è che è possibile vedere l’ impronta della ragazza
seduta e par quasi di sentire il tepore lasciato dal corpo; tuttavia esso diviene il simbolo di due poli opposti
che appunto, nel letto, trovano il loro compimento: l’ amore e la morte.

IL «GRIDO»

«Camminavo lungo la strada con


due amici quando il sole tramontò,
il cielo si tinse all’improvviso di
rosso sangue. Mi fermai, mi ap-
poggiai stanco morto ad un re-
cinto.
Sul fiordo neroazzurro e sulla città
c’erano sangue e lingue di fuoco.
I miei amici continuavano a cam-
minare e io tremavo ancora di
paura... e sentivo che un grande
urlo infinito pervadeva la Natura.»
(Edvard Munch, 1893).
L’analisi introspettiva di Munch
raggiunge probabilmente, con
questa celeberrima opera, il mas-
simo della sua espressione pit-
torica.
Segno e colore acquistano il mas-
simo della sinteticità e il con-
fine che li separa diventa labile,
come quello che divide la realtà
e l’interiorità stessa dell’artista,
la cui suggestione si concretizza
nella percezione distorta del
mondo raffigurato in questa tela
a partire da un›esperienza real-
mente vissuta.
Nel «Grido», realizzato nel 1893
con oli, tempere e pastelli su car-
tone, viene infatti rappresentato
un uomo in primo piano, Munch
appunto, la bocca spalancata in
un urlo muto e le mani serrate attorno alla testa, che esprime, nella solitudine della sua individualità, il
dramma collettivo dell’umanità intera.
Il ponte, la cui prospettiva fortemente inclinata sfugge alla vista e si perde all’orizzonte, richiama i mille
ostacoli che ciascuno di noi deve superare nella propria esistenza, mentre i presunti “amici” che continuano
a camminare, incuranti dello sgomento dell’uomo, rappresentano con cruda disillusione la falsità dei rap-
porti umani.

331
CAPITOLO 19 IL DIVISIONISMO

Il cielo e il mare, dai colori violenti e irreali, dipinti attraverso linee sinuose e un turbinio congiunto, sono
invece espressione del caos di cui il mondo non solo è pregnato, ma di cui si fa portatore.
Infine, l’uomo che preme le mani sulle orecchie vuole esprimere una dualità: quella di un’umanità che soffre
e quella di un’umanità che non vuole sentire quell’urlo di dolore.
Il naturalismo, in quest’opera, è ormai un ricordo lontano: l’uomo è un essere serpentinato, quasi senza
scheletro, fatto con la stessa materia filamentosa con cui sono realizzati il cielo infuocato o il mare oleoso.
Al posto della testa vi è un enorme cranio repellente, senza capelli, le cui narici sono mostruosamente ridotte
a due fori; gli occhi sbarrati sembrano aver visto un abominio immondo mentre le labbra nere rimandano
alla putrescenza dei cadaveri, ma è l’urlo disperato e primordiale che scaturisce da quella bocca straziata e
che si propaga nelle convulse pieghe di colore del cielo, della terra e del mare, che infonde nell’osservatore
il senso profondo di angoscia e di lacerante disperazione che Munch deve aver provato e che magistral-
mente ci comunica attraverso il “Grido”. Paragonandolo a Gauguin, di cui adotta le forme semplificate, un
critico sottolinea la di- versità di Munch, il suo cercare prrima di tut- to dentro di sè i motivi della pittura:
“Non ha bisogno di andare a Tahiti per vedere o per provare ciò che vi è di primitivo nella natura umana.
Egli porta dentro di sè la sua propria Tahiti.” L’opera, infatti, agisce nell’animo stesso dell’osservatore per-
ché è espressione diretta dell’animo dell’autore; i colori irreali del rosso e dell’arancio, del blu, del bianco,
contrastanti, i contorni dissolti e le forme indefinite sembrano emergere direttamente dalla dimensione del
sogno: pare, osservando il “Grido” di Munch, di essere di fronte alla concretizzazione di ogni nostra angoscia,
incubo e tormento interiore, condensati ad un livello tale di dolore da essere quasi insostenibile.

LA «MADONNA»

«Madonna», opera ripetuta varie volte su tele e lito-


grafie, è un’altra opera scandalosa del Munch che
non può che sconcertare l’osservatore che vi si trova
dinanzi.
Come indica il titolo stesso, la donna raffigurata è
l’icona per eccellenza della religione cristiana, Maria,
madre e vergine allo stesso tempo, venerata per la
sua purezza e infinita dedizione al figlio.
Ma l’immagine che ci presenta Munch rompe total-
mente tutte le regole e le convenzioni, offrendoci
una nuova Madonna, totalmente avulsa dal presus-
pposto di castità ed estraneità alle vicende terrene:
la donna è nuda, sensuale, abbandonata in un atteg-
giamento di estase che nulla ha di religioso, i capelli
lunghissimi e neri sparsi attorno al volto in maniera
scomposta. Con gli occhi chiusi, cerchiati tuttavia da
profonde occhiaie che rendono il suo volto pallidis-
simo simile ad un teschio, immagine di morte, e il
corpo ondeggiante, la figura, chiusa in una cornice
su cui fluttuano degli spermatozoi, sembra in preda
ad un delirio o ad un orgasmo dei sensi, simbolo di
un amore carnale dai risvolti prettamente sessuali.
Ma la scena, di per sè già sconcertante, si carica di
connotati inquietanti e angosciosi non appena si
nota, in basso a sinistra, la figura del feto, con gli oc-
chi privi di speranza e le braccia conserte sul petto,
come per difendersi: la vita nasce caricandosi subito del senso della morte e della disperazione.
La donna, infatti, ha perso il proprio ruolo di protettrice: il figlio, che manifesta nella sua posa la sua soli-
tudine, è separato da lei, forse addirittura destinato a non nascere, mentre la madre è persa nel proprio
mondo. L’amore e la sessualità, tema, quest’ultimo, su cui Munch si era soffermato anche nalla “Pubertà”,
sembrano dunque essere indissolubilmente legati all’idea del male e della morte, senza alcuna speranza.

332
CAPITOLO 20

ART NOUVEAU

333
CAPITOLO 20 ART NOUVEAU

Lo stile che meglio rispecchia gli ideali di eleganza e raffinatezza della società del periodo compreso tra
la fine dell’Ottocento e la prima guerra mondiale è quello dell’Art Nouveau che, a livello internazionale, si
sviluppa tra il 1890 e il 1915.
Contemporaneamente al diffondersi di questa corrente, si assiste anche al sorgere di altri movimenti, quali
le “avanguardie” come l’Espressionismo e il Cubismo, che indirizzano l’arte verso nuove vie rifiutando però
i canoni estetici ottocenteschi.
Agli inizi del Novecento, il mondo artistico esprime
la tendenza alla creazione di un nuovo stile che sia
unitario nella vasta diffusione delle forme tipiche
dell’Art Nouveau.
Questa nuova produzione figurativa si rende noto
al pubblico soprattutto grazie alle Esposizioni inter-
nazioni.
Il termine Art Nouveau riprende il nome da un ne-
gozio parigino di oggetti artistici, e indica quell’indi-
rizzo di gusto, o particolare stile, che fiorisce circa nel
1890 fino alla prima guerra mondiale, ma che trova il
suo riconoscimento ufficiale nel 1900 all’Esposizio-
ne Universale di Parigi.
L’Art Nouveau nasce come polemica reazione
all’eclettismo e all’accademismo dell’Ottocento, po-
nendosi a capo di “un’arte nuova” il cui scopo era la
diffusione di oggetti e opere di elevata qualità.
In principio si afferma come stile ornamentale ma
molto presto l’Art Nouveau coinvolge tutti i campi
della produzione artistica.
E tralasciando le varianti nazionali di questo stile,
possiamo individuare alcuni caratteri generali: adozione di motivi naturalistici e floreali, l’utilizzo della linea
flessuosa e serpentinata, la tendenza al disegno asimmetrico e stilizzato.
Victor Horta è l’architetto belga considerato uno dei più importanti esponenti dell’Art Nouveau in Europa, a
cui si deve l’introduzione della linea serpentinata, con il caratteristico “colpo di frusta” utilizzato ampiamen-
te nelle decorazioni d’interno dei suoi edifici costruiti a Bruxelles.
Horta si occupò anche di grafica e pittura, e disegnò arredi, tappezzerie e oggetti di uso comune.
Ed è una delle realizzazioni di Victor Horta “la balaustra in ferro battuto” dello scalone dell’ Hôtel Solvay a
Bruxelles.
Un altro esponente che porta l’Art Nouveau ai massimi livelli è Henry Van de Velde con cui meritano parti-
colare attenzione i mobili ed altri oggetti vari.
I mobili, come la sua “scrivania di quercia”, ora vengono disegnati per uno specifico ambiente che ha una
propria identità funzionale e formale.
Distante da questi è lo scozzese Charles Rennie Mackintosh il cui stile è estremamente originale, sia per
decorazioni che per struttura, con forme soprattutto geometriche.
Ne è un esempio la “Biblioteca della nuova Scuola di Arte di Glasgow ” con ritmi compositivi regolari e retti-
linei e considerando come motivo dominante della sala il quadrato, il quale lo ritro-viamo nella pianta della
stanza, negli schienali delle sedie, nelle vetrate e nei cassettoni del soffitto.
Gli arredi non sono pensati come elementi isolati
e autonomi, ma sono ideati in modo che risultino
strettamente legati all’ambiente che li contiene,
secondo il principio dell’Art Nouveau che deve in-
teressare tanto il disegno complessivo dell’edificio
quanto il più piccolo soprammobile della stanza.
In Italia, l’Art Nouveau viene chiamata Stile Liberty
e venne ufficialmente riconosciuta nel 1902 nella
prima Esposizione internazionale d’arte decorativa
moderna a Torino.
I principali centri di diffusione dello stile in Italia sono

334
ART NOUVEAU CAPITOLO 20

Torino, Palermo e Milano, ma a questi si possono ag-


giungere anche Napoli, Genova e Trieste. Uno dei
rappresentanti italiani del Liberty è Ernesto Basile, il
disegnatore ufficiale di una ditta di mobili e arredi e
i cui esiti delle sue realizzazioni sono al passo con i
prodotti delle nazioni europee più avanzate, sia per
finezza d’intaglio sia per raffinatezza.
Le fonti d’ispirazione dell’Art Nouveau vengono
direttamente dalla natura :rami, foglie, piante ed in
particolar modo fiori.
I motivi naturali sono quelli più utilizzati e con essi
si cerca di esprimere l’energia dinamica delle forze
della natura, seppur respingendo per vocazione e
programma qualunque stile storico del passato.
La minuziosa attenzione per la natura e la volontà
di stilizzazione e astrazione sono caratteristiche ti-
piche della cultura orientale, ed infatti fondamen-
tale è risultata la conoscenza dell’arte giapponese.
L’attenzione ai motivi naturali caratterizza la pro-
duzione di Émile Gallé, che mostra anche una profonda conoscenza della botanica e per le decorazioni con
piante e insetti come farfalle e libellule di magnifica varietà cromatica.
Caratteristiche e abilità che Gallé mostra nel suo “cofanetto” dove si palesa una strana combinazione di arte
giapponese e simbolismo.
L’intenzione dichiarata di Gallé è quella di suscitare, con le sue opere, o uno stato d’animo o un’emozione.
E spesso Gallé, per raggiungere il suo scopo, vi incide un verso di qualche poeta simbolista. Inoltre egli riuscì
a ottenere una vasta gamma di effetti decorativi e paste originali molto raffinate.
L’Art Nouveau riscosse grande successo anche nell’oreficeria con motivi d’ispirazione tratti da animali, a
volte anche sgradevoli.
Eccellenza in questo settore fu Eugène Feuillâtre.
Con una combinazione di un volto femminile con
preziose ali di farfalla Feuillâtre realizza la “ broche”
utilizzando un’ampia gamma di materiali, colori vi-
vaci, smalto traslucido con inserimenti di scaglie
d’argento su una struttura interamente d’oro.
Nel 1900, con l’ideale dell’opera d’arte totale, ogni
oggetto d’uso o motivo decorativo era disponi-
bile in stile Nouveau il quale lo si poteva applicare
ad ogni dettaglio della vita quotidiana e domes-
tica. L’Art Nouveau inoltre si preoccupò di rendere
gradevole ed elegante la città ormai deturpata
dall’industrialismo.
Lo stile floreale con fregi e rampicanti invase l’arredo
urbano di città come Parigi e Vienna.
Hector Guimard ad esempio realizza alcune entrate delle stazioni del Métro parigino, mentre ad August
Endell si devono alcune ornamentazioni per le facciate.
Decorazione, forma e struttura diventano inscindibili e gli architetti e i progettisti erano pienamente con-
sapevoli dell’importanza dell’attività progettuale nell’ornamentazione della città, anche se praticamente
gli interventi furono duramente limitati sia da pregiudizi per il nuovo stile, sia dalla preferenza per gli stili
storici del passato, ancora largamente utilizzati negli edifici pubblici o di alta rappresentatività.

335
CAPITOLO 20 ART NOUVEAU

GUSTAV KLIMT

“Nessun settore della vita è tanto esiguo e insignificante da non offrire


spazio alle aspirazioni artistiche.”
(Gustav Klimt)
Gustav Klimt , secondo di sette figli, era nato il 14 luglio 1862 a Baum-
garten, un sobborgo di Vienna, da una famiglia modesta.
Il padre Ernest era un orafo incisore,mentre la madre, Anna Finster, ave-
va tentato la carriera da cantante lirica,senza riuscire ad affermarsi.
Certamente influenzato dal padre, Gustav compì gli studi superiori nel-
la scuola di arti e mestieri del museo austriaco per l’arte e l’industria.
Nonostante l’insegnamento dell’istituzione fosse in prevalenza rivolto
alle arti minori – grafica, oreficeria, intaglio - Klimt studio quasi com-
pletamente pittura,ma ebbe modo di conoscere anche tecniche, quali
il mosaico e la lavorazione del metallo che utilizzerà nelle sue opere.
Nel 1879 fondò insieme al fratello Ernst e al compagno di studi Franz
Matsch la “la Compagnia degli Artisti“, piccola società che,grazie
all’appoggio del loro professore, ottenne immediatamente diverse
commissioni.
La società durerà fino al 1892 quando Ernest fratello di Klimt morirà, creando un periodo di profonda mal-
inconia per Gustav.
Nel 1897 diventerà il principale esponente della Secessione, con questo termine si intendono quei movi-
menti artistici, nati a fine ’800 tra Germania ed Austria, che avevano come obiettivo la creazione di uno stile
che si distaccasse da quello accademico, chi ne faceva parte voleva un’arte che esprimesse i bisogni degli
uomini moderni e trovasse uno stile nuovo,e contemporaneo.
Di fatto, le Secessioni introdussero in Austria e in Germania le novità stilistiche dell’’Art Nouveau che in quel
momento dilagavano per tutta Europa.
Il periodico dell’associazione “Ver Sacrum“ che fu pubblicato per sei anni e il cui significato era “Primavera
sacra” era composto da una miscela di contributi artistici e letterari.
In dieci anni di intensa attività, Klimt fiancheggiato dai colleghi ,era riuscito a svecchiare il panorama artis-
tico Austriaco e di aprirlo alle novità.
Grazie alla collaborazione fra pittori,grafici, scultori,architetti, il rinnovamento aveva investito ogni settore
a Vienna, da fanalino di coda dell’Europa,era stata trasformata in uno dei centri di elaborazione artistica del
continente.
Ma infondo le idee che avevano portato alla vittoria ne determinarono la fine, poiché erano principalmente
idee utopistiche.
la svolta che portò Klimt al suo inconfondibile stile avene 1903 quando effettua un viaggio in Italia.
Fa tappa a Venezia, Ravenna e Firenze.
Rimane molto impressionato dai mosaici bizantini.
Ad affascinarlo è il loro splendore, la preziosità, ma soprattutto la straordinaria luminosità.
In alcune opere precedenti Klimt aveva già usato l’oro.
Era però in funzione essenzialmente decorativa.
Serviva, ad esempio, per le cornici, per dare risalto ai gioielli e agli ornamenti. Dopo il viaggio in Italia l’artista
inizia a farne un uso più sistematico e strutturale. L’oro viene impiegato in maniera massiccia, applicato in
foglia.
Per Klimt assume una nuova funzione: quella di creare uno stacco tra la fisicità della figura e il resto della
composizione, sfondo e vesti comprese.
In pratica, finisce per isolarne, estraniarne la parte più carnale, confinandola in zone ristrette e ben delimi-
tate. Per questo uso strutturale si parla di periodo «d’oro».
Seguì un periodo di crisi esistenziale dell’artistica dal quale Klimt uscì dopo qualche anno. Il suo stile conob-
be una nuova fase.
Scomparsi gli ori e le eleganti linee liberty, nei suoi quadri diviene protagonista il colore acceso e vivace.
Questa fase viene di certo influenzata dalla pittura espressionista che già da qualche anno si era manifes-
tata in area tedesca.
La sua attività si interruppe nel 1918, quando a cinquatasei anni morì a seguito di un ictus cerebrale.

336
ART NOUVEAU CAPITOLO 20

GIUDITTA I

Il quadro è la prima versione del soggetto «Giuditta» che Klimt realizza,


ed è considerata come la prima opera del periodo aureo.
Da questo momento in poi, per circa un decennio, l’uso del colore oro
diviene uno dei tratti stilistici del Klimt più noto.
Il soggetto è ovviamente una rivisitazione della storia biblica di Giu-
ditta, protagonista della vicenda che la porta a tagliare la testa del gen-
erale Oloferne capo dell’esercito degli Assiri per vincere l’assedio in cui
era tenuta la sua città.
Il pittore raffigura la protagonista come una donna moderna e le da il
volto di Adele Bloch-Bauer, una signora dell’alta borghesia viennese. Il
soggetto è stato sempre utilizzato quale metafora del potere di seduz-
ione delle donne, che riesce a vincere anche la forza virile più bruta.
In clima simbolista la figura di Giuditta si presta ovviamente alla esalt-
azione della donna fatale, crudele e seduttrice.
Dietro la testa di Giuditta di disegna un paesaggio arcaico e stilizzato
di colline e alberi, che riprendono i motivi delle ceramiche micenee. La
testa di Oloferne appare appena di scorcio, in basso a destra, tagliata
per oltre la metà dal bordo della cornice.
Da notare la notevole differenza tra gli incarnati della figura, che han-
no una resa tridimensionale, e le vesti, trattate con un decorativismo
bidimensionale molto accentuato.
Si tratta di un sistema rappresentativo già utilizzato dalla pittura gotica
del Trecento, ma che in Klimt assume una nuova valenza stilistica, riu-
scendo a fondere mirabilmente figura e decorazione astratta, in uno
schema compositivo di grande eleganza formale.
La splendida cornice in rame sbalzato, anch’essa in chiaro stile «secessione viennese», fu realizzata da suo
fratello Georg, scultore.

LE TRE ETÀ

Klimt rappresenta il trascorrere della vita attraverso


tre figure femminili in età diverse.
Una giovane madre stringe al petto la figlia,entrambe
sono addormentate e la loro tranquillità e in netto
contrasto con la Vecchiaia.
Il diverso sentimento della vita è suggerito dalle
posizioni assunte dalle figure e dalla scelta di rap-
presentarle nude su vari livelli di un fondo privo di
dati naturalistici. Il pittore ritrae la vecchia di profilo,
per evidenziare, attraverso un forte realismo, la de-
formazione provocata dal tempo sul corpo.
La rinuncia ad aprire gli occhi sulla realtà, l’impotenza
di fronte a quello che riserva il futuro si manifesta
nel gesto disperato di coprirsi il volto con le mani.
La giovane madre invece si offre frontalmente alla
visione, in contrasto con l’altra figura: il nudo risulta
piatto nel rilievo e luminoso nella colorazione quasi
ad evocare una dimensione sacra, una allusione alla maternità della Madonna a cui sembra riferirsi anche
il coronamento di fiori collocato sulla testa; un serpente stilizzato, mimetizzato con il drappo trasparente
avvolto intorno alle gambe, indica il male sempre in agguato, il pericolo incombente in ogni momento della
vita. La bimba, infine, assorbita totalmente nella figura materna, è ritratta di tre quarti con il corpo paffuto e
arrotondato, abbandonata in un sonno profondo.

337
CAPITOLO 20 ART NOUVEAU

L’ATTESA

L’attesa che fa parte del fregio del palazzo Stoclet


assume la forma di una danzatrice egiziana, con il
volto posto di profilo e gli occhi dal taglio allungato
rivolti in lontananza.
Tutto nella donna, splendidamente adornata di
monili, diventa decorazione,a cominciare dalla mas-
sa di capelli neri,che viene innaturalmente prolun-
gata. Le mani cui klimt attribuisce spesso posizioni
particolari, sono orientate come un movimento di
danza nella stessa direzione dello sguardo.
Al di sotto dello della testa,che è completamente
fuori asse rispetto al resto del corpo, si sviluppa
l’abito della ballerina, realizzato come un lungo tri-
angolo che na-sconde completamente l’anatomia.
La stoffa del vestito è composta di triangoli, addol-
citi dai riccioli dorati dell’albero della vita.
Per Klimt l’albero è un simbolo che riunifica tutti
i temi a lui più cari, dai motivi floreali alla figura
femminile, dalla morte della vegetazione alla rina-
scita attraverso il ciclo delle stagioni. L’Albero e la
donna si riuniscono qui in un mondo paradisiaco ed
incantato in cui si danza, si ama e in cui le donne,
trasformate in alberi, invadono la natura intera.

GINO COPPEDÈ

Gino Coppedè nacque a Firenze nel 1866. Fu architetto, scultore e decoratore, un artista eclettico che svi-
luppò uno stile ornamentale tutto suo che divenne famoso e che fu chiamato “Stile Coppedè”.
Figlio di Mariano Coppedè e fratello di, fu un artista eclettico, sviluppò un suo stile ornamentale che coin-
cise, nella scelta di alcuni motivi, con i caratteri più immediati dello stile Liberty.
Allievo della scuola di Alfredo D’Andrade - restauratore d’origine spagnola, principale esempio in Italia della
falsificazione dei monumenti antichi - Coppedè si dedicò inizialmente ai restauri “in stile” che lo portarono a
studiare l’architettura del passato e a riproporla poi nei suoi progetti in Toscana e in Liguria. L’esperimento
artistico-architettonico più originale intrapreso a Roma nei primi decenni del XX secolo è senza dubbio
quello che si scorge nelle case della zona tra la Salaria e la Nomentana che prende il nome di Quartiere
Coppedè., che progettò e ne guidò per la più parte la realizzazione, dal 1913 e poi, con una lunga interruzi-
one dovuta alla Prima Guerra Mondiale, fino alla morte, avvenuta nel 1926.
A quel tempo Coppedè padroneggiava nello stesso tempo gli stili decorativi più in voga in Europa, come il
Liberty e l’Art Déco, e il repertorio italiano dei secoli passati (con una predilezione per il Medio Evo, il Man-
ierismo e il Barocco).
Ne risulta un paesaggio unico: villini circondati da una discreta vegetazione, edifici in cui l’antichità greca,
con i suoi motivi mitologici, si uniscono al medioevo, un medioevo che si immagina da fiaba, con le fate e i
cavalieri corazzati. In altri edifici si nota una dominanza del contemporaneo Liberty, fondato sulla stilizzazi-
one di determinati elementi della natura, come gigli, rose, campanelle, rami che si intersecano, uno stile a
Roma piuttosto insolito, sormontato com’è dal cosiddetto «umbertino» neorinascimentale.
Ma non è tutto: la Palazzina del Ragno, ad esempio, con i suoi archi disposti asimmetricamente e il fac-
cione scolpito, vuole riecheggiare la statuaria assiro-babilonese (a cui del resto occhieggiava anche l’arte
barocca). Ma nel repertorio di Gino Coppedè c’era dell’altro: egli era stato allievo della scuola di Alfredo
D’Andrade, l’architetto e restauratore d’origine spagnola che costituiva, in Italia, l’esempio principe per la
falsificazione dei monumenti antichi (suo è il Borgo Medievale di Torino).
È a questo filone di genialità capricciosa ed eclettica che dobbiamo lo sviluppo, nel Quartiere Coppedè,
di svariate suggestioni scultoree e decorative, sempre peraltro con un’attenzione prevalente alla natura e

338
ART NOUVEAU CAPITOLO 20

all’elemento passionale, e ad una mitologia spesso decisamente rude.


Il tutto senza negare spazio al sacro della religiosità cattolica: un’edicola con una Madonna con il Bambino
si trova su una delle torri che fiancheggiano l’enorme arco che delimita l’accesso al quartiere, in piazza Min-
cio (un’altra è in via Brenta, sul muro di una casa simil medievale).
E nemmeno alle eventuali suggestioni cinematografiche, se è vero che il portone di piazza Mincio, 2, ri-
salente al 1926, e dunque, probabilmente, l’ultima costruzione di mano del maestro Coppedè, è copiata
fedelmente da una scena del film Cabiria del 1914.
Dopo la sua costruzione il Quartiere Coppedè è finito in un oblio generale, screziato qua e là dalla curiosità
di qualche visitatore più o meno erudito.
Il fatto è che le costruzioni fantasiose che Gino Coppedè vi volle realizzare, all’interno risultarono ben pres-
to piuttosto scomode e invecchiate. Inoltre, l’innalzarsi di nuovi palazzi all’intorno nei decenni successivi, la
fiumana di traffico automobilistico e la selva di insegne al neon sempre più vivaci fanno sì che il quartiere
abbia un aspetto antiquato e un po’ spento.
Un’operazione architettonico-urbanistica interessante ma che non teneva conto dei successivi sviluppi del
la città e della società ma che certamente era assai interessante, nel suo sincretismo e nella sua apertura al
mito senza apparati ideologici (come sarebbe stato, di lì a poco, per l’architettura del fascismo).
Gino Coppedè muore a Roma il 20 settembre 1927.
È sepolto a Firenze, nel cimitero di S. Miniato, nella tomba di famiglia.
Gino Coppedè, fu un architetto che visse metà della sua vita nel ‘900 pur rimanendo con il cuore e con la
testa nel secolo precedente, anzi, nei secoli più remoti della storia dell’umanità. Almeno a giudicare dalla
sua architettura.

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ART NOUVEAU CAPITOLO 20

GAUDÍ

Gaudí nacque nella provincia di Tarragona, nella Catalogna meridionale.


Benché il suo luogo di nascita sia disputato, i documenti ufficiali lo stabiliscono nella cittadina di Reus,
mentre altri rivendicano la sua nascita a Riudoms, un piccolo villaggio a 3 km di distanza; certo è che fu bat-
tezzato a Reus un giorno dopo la nascita.
I genitori provenivano entrambi da famiglie di artigiani calderai.
Dal 1868 studiò a Barcellona, una città che stava crescendo e cambiando tumultuosamente e dove stavano
maturando i fermenti culturali del modernismo catalano e della Renaixença, il movimento culturale e po-
litico del recupero della lingua e della cultura catalana e delle rivendicazioni nazionalistiche contrapposte
al centralismo castigliano.
Gaudí condivise per tutta la vita tali aspirazioni autonomistiche facendo pienamente parte dell’atmosfera
di rinnovamento culturale che caratterizzava allora Barcellona.
Si diplomò nel 1878 alla Scuola Superiore di Architettura, ma già prima di diplomarsi riuscì a lavorare con i
migliori architetti del tempo.
La sua formazione fu ampia. Studiò i testi di John Ruskin, Viollet-le-Duc e Richard Wagner, ma anche la tec-
nica dei nuovi materiali da costruzione come il cemento.
Nello stesso 1878, a Parigi durante l’Esposizione Universale, avvenne l’incontro fondamentale, quello con
l’industriale catalano Eusebi Güell i Bacigalupi, che divenne il suo principale mecenate commissionandogli
alcune delle sue più famose opere.
In questo periodo Gaudí parteciperà alla vivace vita sociale della città, mentre negli anni successivi sarà
noto per il particolare carattere schivo e solitario.
Dopo aver collaborato con Joan Martorell, nel 1883, a soli 31 anni, venne nominato architetto capo della
costruzione in città del tempio Espiatorio della Sagrada Família, cominciando a costruire la cripta (1884-
1887) e poi l’abside (1891-1893).
Si tratta di una costruzione monumentale e complessa, tuttora in fase di costruzione, che assorbì le sue
energie fino alla morte esemplificando l’associazione tra arte, architettura e vita che caratterizza l’intensa
opera di Gaudí.
Nello stesso 1883 cominciò a costruire la Casa Vicens, in cui rifiuta il rigore geometrico della tradizione e
reinterpreta lo stile mudéjar accostando mattone e azulejo.
Nel 1887 il conte Güell gli affida la costruzione della sua residenza di città, il Palazzo Güell, in cui Gaudí usa
per la prima volta gli archi parabolici che saranno un elemento costante del suo linguaggio architettonico.
Negli anni 1898-1900 fu costruita la Casa Calvet, un edificio in pietra che ottenne il premio assegnato dal
Comune di Barcellona per il miglior edificio realizzato in città, confermando il successo professionale di
Gaudí.
A partire dal 1900, nascono i maggiori capolavori, quasi tutti a Barcellona: il parco Güell in cui natura, scul-
tura e architettura si confondono in una grande maestria artigianale nell’uso dei materiali, la Casa Batlló
(1904 - 1907) con la facciata rivestita da un mosaico di paste vitree colorate, la chiesa della Colònia Güell a
Santa Coloma de Cervelló di cui fu costruita la sola cripta.
La Casa Milà (1906 -12) dalla movimentata e plastica facciata in pietra, fu l’ultima opera civile dell’architetto,
che dal 1914 si dedicò esclusivamente ai lavori della Sagrada Família, accentuando la tendenza alla solitu-
dine, tanto da vivere in una stanzetta nel cantiere.
Il 7 giugno del 1928 fu investito da un tram.
Il suo miserevole aspetto ingannò i soccorritori, i quali lo credettero un povero vagabondo e lo traspor-
tarono all’ospedale della Santa Croce, un ospizio per i mendicanti fondato dai ricchi borghesi della Catalo-
gna.
Fu riconosciuto soltanto il giorno successivo dal cappellano della Sagrada Família e morì il 10 giugno.
Nonostante questa fine quasi miserabile, al suo funerale parteciparono migliaia di persone.
I barcellonesi lo soprannominarono da quel momento «l’architetto di Dio».
È sepolto nella cripta della Sagrada Família.
Quasi tutta l’opera del maestro è legata alla capitale catalana, la sola città spagnola in cui a cavallo tra XIX e
XX secolo si fosse manifestato un principio di sviluppo industriale ed importanti fermenti culturali che det-
tero vita al movimento artistico del modernismo catalano di cui Gaudí fu il principale esponente.
La sua carriera di architetto è caratterizzata dall’elaborazione di forme straordinarie, imprevedibili ed onir-
iche, realizzate utilizzando i più diversi materiali (mattone, pietra, ceramica, vetro, ferro), da cui Gaudí seppe

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CAPITOLO 20 ART NOUVEAU

trarre le massime possibilità espressive con una profonda attenzione per le lavorazioni artigianali.
La profonda fede cattolica di Gaudí, la sua spiritualità ed il suo peculiare misticismo permeano tutte le sue
opere, costellate di motivi simbolici complessi, ricorrenti e spesso non immediatamente evidenti.

CASA VICENS

In connessione con lo spirito innovatore che per-


corre tutto lo stile moderno internazionale è l’opera
di Gaudí.
La prima grande opera realizzata dall’architetto cat-
alano, Casa Vicens, costruita a Barcellona, fra il 1878 e
il 1880, appare segnata da forti ascendenze arabe, in
particolare dallo stile ispano-islamico mudéjar.
Le frastagliate superfici composte dai più diversi
materiali sono trattate con grande fantasia decora-
tiva e formale. Gaudí impiega in grande quantità, sia
all’interno che all’esterno, piastrelle policrome in ce-
ramica, le cosiddette azulejos, decorate con motivi
floreali.
Se gran parte della decorazione di Casa Vicens deve
molto all’arte islamica, i principi strutturali sono prev-
alentemente gotici, mentre gli audaci ritmi lineari
degli elementi metallici che coronano l’abitazione
sembrano preannunciare i tipici movimenti dell’Art
Nouveau degli anni Novanta.

CASA MILÀ

Mentre Casa Vicens è ancora


legata a motivi dell’architettura
musulmana e gotica, nelle opere
realizzate a partire dagli ultimi
anni del secolo Gaudí cominciò
a esprimere la sua originale idea
di uno spazio fluido, avvolgente e
dinamico, che lo avrebbe portato
a realizzazioni sempre più audaci.
Casa Milà, costruita fra il 1905 e
il 1910, con le sue potenti ondu-
lazioni petrose sembra il frutto di
antichi fenomeni tettonici e non a
caso è detta “La Pedrera”, ossia “la
cava di pietra”.
Sviluppata intorno a due cortili
interni più o meno circolari, ed
elevata su cinque piani, questa
grande abitazione sorge su una

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ART NOUVEAU CAPITOLO 20

pianta che, al pari delle superfici esterne, è tutta risolta ad andamento curvilineo. Vista da lontano la casa
sembra modellata nella roccia.
Rispetto a Casa Vicens qui manca la policromia della ceramica e sono scomparse del tutto le linee rette a fa-
vore di quelle ondulate che, secondo Gaudí, fervente cattolico, racchiudono profonde simbologie mistiche
e religiose.

SAGRADA FAMILIA

L’opera che più di tutte esprime la


profonda fede religiosa di Gaudí è
la Sagrada Familia a Barcellona.
Iniziati nel 1882 secondo un pro-
getto neogotico dall’architetto
Villar, i lavori per l’enorme chiesa
vennero assunti l’anno seguente
da Gaudí, che riuscì a concludere
entro il 1893 la sola zona ab-
sidale.
In quegli anni l’architetto elaborò
la pianta definitiva che preve-
deva una struttura a croce latina
a cinque navate e transetto di tre,
conclusa da un deambulatorio in
cui si aprivano cappelle secondo
una configurazione planimetrica
tipicamente gotica.
Nel progetto erano previste di-
ciotto torri, che avrebbero dovuto
simboleggiare i dodici apostoli,
i quattro evangelisti, la Vergine
e Gesù; la torre dedicata a Gesù
avrebbe dovuto sovrastare in al-
tezza tutte le altre.
Erano inoltre previste tre facciate,
ciascuna dedicata ad un episodio
della vita di Cristo, ma l’architetto
riuscì a compiere solo quella della
navata trasversale con la Natività.
La grande facciata si eleva diretta-
mente da terra, senza basamento,
e presenta una straordinaria ab-
bondanza di elementi scultorei.
La febbrile decorazione che invade ciascuno dei tre portali è affollata da figure che narrano le scene evan-
geliche, da simboli e da elementi tratti dalla flora e dalla fauna.
Le quattro torri traforate, collegate tra loro da passaggi e rivestite con mosaici e marmi policromi, sono sor-
montate da alti pinnacoli geometrici in stile cubista, manifestando così il succedersi degli stili.
Questa, infatti, era una delle primarie necessità di Gaudí: realizzare un’opera “aperta”, in perpetua costruzi-
one. Alla morte dell’architetto, avvenuta nel 1928 in seguito ad un incidente stradale, risultava terminata
solo la prima delle quattro torri della facciata della Natività, portata a compimento solo nel 1936.
Nel 1976, sulla base di un disegno di Gaudí, benché rielaborato secondo uno stile improntato a forme cubo-
espressioniste, venne conclusa anche la facciata della Passione, ma i lavori per la Sagrada Familia, a causa
anche di difficoltà finanziarie, procedono tutt’oggi con grande lentezza.

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CAPITOLO 20 ART NOUVEAU

VICTOR HORTA

Precursore dell’Art Nouveau, Horta ha rivoluzionato il modo di concepire gli edifici di abitazione, allargando
il compito dell’architetto dalla progettazione degli spazi, interni ed esterni, a una concezione che com-
prendeva anche lo studio e la realizzazione delle luci, degli arredi, della decorazione delle pareti, perfino
dell’oggettistica.
Secondo la definizione di uno dei suoi ammiratori, l’architetto francese Hector Guimard, Horta è stato un
«architetto artista» che concepiva la casa come opera d’arte «totale», come una «conchiglia» costruita at-
torno al suo proprietario.Studiò a Parigi; tornato in Belgio, completò gli studi presso l’accademia di Belle
Arti di Bruxelles e presso lo studio dell’architetto Alphonse Balat.
Horta progettò numerosi edifici destinati a destare scalpore, quali: la Casa Tassel, Bruxelles 1893; la Casa
Solvay, Bruxelles 1895-1900; la Casa Horta, Bruxelles 1898.
Viene giustamente considerato l’architetto che per primo definì i canoni architettonici dell’Art Nouveau,
attraverso il progetto della casa Tassel.
È soprattutto nell’interno della casa Tassel, considerata come il primo edificio promotore del nuovo stile, che
Horta manifesta e dà rilievo alla nuova tendenza artistica; infatti, la scalinata, che si sviluppa nell’ingresso
della casa, non è modellata secondo forme classiche ma si compone di agili colonnine di ferro che, come
steli di una rigogliosa vegetazione, si protendono verso l’alto in forme sinuose e ritorte.
Il tutto in una incredibile armonia con gli affreschi delle pareti e della volta e con i mosaici del pavimento.

HOTEL SOLVAY

1984/95 Bruxelles.
Il programma prevede al piano
terra un ufficio privato, grandi
spazi di servizio; al piano nobile
un salone con un balcone e una
grande sala da pranzo verso il
giardino; ai piani superiori gli ap-
partamenti privati.
L’hotel Solvay è una sintesi dei
temi sviluppati nelle precedenti
realizzazioni: muri incurvati, com-
binazioni tra ferro e pietra, para-
mento bicolore, corrispondenze
simmetriche.
L’incurvatura della facciata con-
tribuisce alla compressione degli
spazi interni.
Il richiamo dell’architettura ba-
rocca, nel contrasto di elementi
concavi e convessi conferisce
all’insieme un movimento fluido.
Accanto ai materiali più pregiati e
ricercati da Horta usa la carpente-
ria metallica a vista.
La fluidità è accentuata dal diseg-
no di elementi come le ringhiere
dello scalone d’onore e dalle
portefinestre degli ambienti sog-
giorno.

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ART NOUVEAU CAPITOLO 20

JOSEPH HOFFMAN

Esponente della Secessione Viennese, con l’architetto Otto Wagner, fra gli altri, già suo insegnante
all’Accademia di Vienna, fu anche un designer, la cui opera, improntata ad una spinta ed essenziale as-
trazione geometrica (tipiche le sue prevalenti quadrettature), apre il nuovo secolo in chiave decisamente
modernistica. Per la rivista della Secessione, Ver Sacrum, edita fra il 1898 e il 1903, eseguì illustrazioni (in par-
ticolare, vari progetti d’arredo per interni domestici, o per padiglioni espositivi), fregi decorativi e vignette:
caratteristiche elaborazioni dello Jugendstil austriaco.
Si occupò quindi degli allestimenti delle periodiche esposizioni viennesi della Secessione nel padiglione
realizzato per lo scopo nel 1898 da Joseph Maria Olbrich, ed ebbe un ruolo importante nel lancio europeo
dello scozzese Charles Rennie Mackintosh; il giovane architetto di Glasgow fu invitato ad esporre alla mostra
del 1900 le creazioni di design del gruppo di quattro artisti di cui era, per così dire, il regista.
Nel 1903 Hoffmann fondò col collega Koloman Moser e il finanziere e amatore d’arte Fritz Wärndorfer la Wie-
ner Werkstätte, associazione fra designers, artisti e produttori (chiuse nel 1932) ispirata alle analoghe inglesi
sorte circa un ventennio addietro, impostate secondo il movimento e-stetico morrisiano dell’artigianato
artistico delle Arts and Crafts.
Nel 1987 il Museum für angewandte Kunst (MAK) di Vienna ha organizzato una mostra intitolata “Josef
Hoffmann: Ornament zwischen Hoffnung und Verbrechen”.
Nel 1992 il MAK ha concepito insieme alla Galleria moraviana di Brno un’esposizione nella casa natalizia
“Museo Josef Hoffmann” a Brtnice e dal 2006 le due istituzioni presiedono la direzione a diritti uguali.
Il museo presenta una esposizione permanente e inoltre vengono concepite mostre particolari sull’architetto
e i suoi contemporanei.

PALAZZO STOCLET

Palazzo Stoclet (dal nome del suo primo proprietario - Adolph Stoclet, banchiere e collezionista di Brux-
elles) fu realizzato fra il 1905 ed il 1911 su progetto di Joseph Hoffmann (1870-1956) per l’esigenza di
vivere in una abitazione che fondesse arte e vita; l’edificio fu una mirabile sintesi delle arti (architettura, pit-
tura, decorazione, design d’interni e d’oggetti d’uso), chiamata spesso nella storia a fare da opera-simbolo
(“summa”) degli artisti che cooperarono per realizzarla, concretizzazione, vale a dire, degli ideali di quella
Secessione viennese da cui essi provenivano. Situato nei sobborghi della capitale belga (Tervurenlaan), sec-
ondo le intenzioni del committente il Palazzo doveva essere il luogo adibito a ospitare collezioni ed eventi
culturali; per il suo progetto Adolphe e Suzanne Stoclet non posero limiti di costi, perché i realizzatori rag-
giungessero l’obiettivo dell’Opera d’Arte Totale - una sintesi unitaria di arti diverse (come era stato già per
l’esperienza del manifesto del movimento succitato, la rivista “Versacrum”), adoperate per dare forma alla
stessa Idea attraverso le diverse incarnazioni dello Stile.
Hoffmann, che aveva già an-
ticipato le principali linee guida
della costruzione con il sanato-
rio di Purkersdorf (1904-1908),
per semplificazioni delle forme,
scarnificazione delle superfici e
l’integrazione di differenti arti,
con questo Palazzo osò ulterior-
mente tramite l’aggregazione dei
diversi moduli geometrici, di cui
è costituito all’esterno, secondo
una articolazione libera, mentre
l’appiattimento totale delle su-
perfici e la cesellatura in bronzo
scuro dei cordoli, che delimita-
vano in maniera netta le parti e
davano una cornice alle aperture,
ebbero la funzione di alleggerire

347
CAPITOLO 20 ART NOUVEAU

notevolmente la massa dell’edificio, una scatola priva di evidente spessore, quasi le pareti fossero appog-
giate l’una all’altra.
A sormontare il Palazzo Hoffmann collocò una torre, precorritrice di simili soluzioni Art Déco nei decenni a
venire (pensiamo ai grattaceli statunitensi).
Grande importanza rivestono gli interni, quasi completamente decorati con materiali importati dall’Austria,
che realizzano il sogno degli artisti della secessione viennese di una fusione tra arte e vita, resa possibile
dalla professione del committente.
La sala da pranzo fu decorata da Gustav Klimt con un fregio (L’albero della vita) in una fantasmagoria di
colori.
I 9 disegni ideati da parte di Klimt oggi si trovano nella collezione permanente del Museum für angewandte
Kunst a Vienna.
Anche la sala da bagno del Palazzo è disegnata nei minimi dettagli.

OTTO WAGNER

Otto Koloman Wagner nasce a Penzing, un piccolo sobborgo di Vienna, il 13 luglio 1841.
Proveniente da una famiglia della ricca borghesia asburgica, figlio di Rudolf Wagner, notaio di corte della
corte reale ungherese, e di Susanne von Helffenstorffer-Hueber, rimane orfano di padre a soli cinque anni e
viene educato da precettori privati.
A partire dal 1850 frequenta l’Akademisches Gymnasium di Vienna, mostrando già notevoli capacità
nell’arte del disegno e dell’architettura; successivamente continua gli studi presso il monastero benedet-
tino di Kremsmünster.
Nel 1857 si iscrive al Polytechnisches Institut viennese e dopo tre anni si trasferisce a Berlino per frequen-
tare la KÖnigliche Bauakademie.
I suoi studi tuttavia terminano di nuovo a Vienna presso l’Akademie dove è allievo dei due progettisti
dell’Opera: Eduard van der Nüll e August Siccard von Siccardsburg.
Sostenne un’architettura spoglia, che non s’ispirasse più ai principi della natura ma a quelli costruttivi, e
all’uso onesto dei materiali.
Cominciò allora ad interessarsi alle possibilità offerte all’architettura dai nuovi materiali tipici della produzi-
one industriale (vetro, ferro e cemento).
Nel 1897 si recò a Bruxelles, al Congresso Internazionale d’Architettura, come rappresentante dell’Accademia,
e conobbe di persona Van de Velde, grande esponente dell’Art-Nouveau, e nelle loro opere Paul Hankar a
Terveren, che lo colpirono favorevolmente.
In lui s’accrebbe così la trasformazione, e nel 1899 passò dalla Künstlerhaus alla Secessione, fondata solo
due anni prima da alcuni suoi allievi.
Intanto tra il 1895 e il 1912 scrisse vari libri sulle lezioni degli anni di insegnamento.
In quegli stessi anni viene nominato consigliere per l’arte e consigliere di corte.
Nel frattempo aveva abbandonato definitivamente l’architettura storicistica, per orientarsi verso opere in-
novative come le stazioni della metropolitana di Vienna, e poi come la diga e la palazzina per gli uffici
dell’amministrazione fluviale a Nussdorf, 1897; le case d’affitto a Vienna, (tra cui la celebre Casa in maiolica);
la banca postale a Vienna, 1904; la sua villa a Vienna, 1913.
L’11 aprile del 1918, a Vienna, morì.

STAZIONE METROPOLITANA DI KARLSPLATZ

Wagner studia il sistema delle linee e le opere di ingegneria e di architettura della capitale austriaca, i
viadotti, le stazioni, l’arredo e costruisce gli edifici della metropolitana, dove l’impianto neoclassico si sem-
plifica (il primo periodo della sua architettura lo vede lavorare nel solco della tradizione classica viennese)
mentre un nuovo linguaggio decorativo prende il soprevvento sul consueto repertorio di imitazione.
Elemento predominante delle stazioni della metropolitana è l’elemento centrale di ingresso e il suo rap-
porto con le parti laterali.
Wagner nei padiglioni per la metropolitana collega con spregiudicatezza la struttura metallica con quella
muraria, più formale e non rinuncia agli elementi del linguaggio classico soprattutto nelle cornici conclu-

348
ART NOUVEAU CAPITOLO 20

sive ai piani superiori.


Le dimensioni di questi Pa-
diglioni non sono mai eccessive.
L’elemento funzionale non viene
mai mascherato dall’architettura,
ma definito ed esibito.
In quegli anni Olbrich lavorava
nello studio di Wagner; in questi
padiglioni si nota infatti un rap-
porto con l’edificio della Seces-
sione di Olbrich, per esempio gli
elementi parallelepipedi laterali
e l’unione di volumi diversi in pi-
anta e in volumetria a seconda
delle funzioni.
Difficile affermare chi dei due ab-
bia influenzato l’altro: sicuramente si può pensare ad uno scambio reciproco, da una parte la fantasia e
l’impeto di Olbrich secessionista, dall’altro lo studio delle geometrie degli stili da parte di Wagner.

JOSEPH MARIA OLBRICH

Architetto, grafico e designer austriaco (Troppau 1867 - Düsseldorf 1908).


Dopo gli studi all’Accademia di Vienna, fu allievo di Otto Wagner, nel cui studio lavorò alcuni anni, e divenne
uno tra i rappresentanti più tipici della Secessione viennese, di cui fu nel 1897 uno dei fondatori, insieme a
Klimt, Hoffmann e altri giovani artisti.
Grafico di grande finezza, fu illustratore di libri e periodici (particolarmente Ver Sacrum, organo della Seces-
sione) elaborando motivi ornamentali di tipo geometrico che ebbero grandissima diffusione, e autore di
originali progetti e disegni architettonici (oltre 28.000).
Nelle realizzazioni, la fantasia di Olbrich si rivela assai più controllata, anche per l’influsso della lezione di
Wagner, nella predilezione per forme squadrate e semplificate, con uso sobrio dell’ornamentazione (pias-
trelle di ceramica colorata) e precisa attenzione ai valori spaziali e distributivi.

PALAZZO DELLA SECESSIONE

Dopo un accurato studio, la disposizione planimetrica è risolta con l’intersezione di quattro rettangoli; di
conseguenza, la pianta risulta quasi a croce greca.
L’interno ospita l’atrio d’ingresso,
gli uffici e i locali riservati agli ar-
tisti.
L’edificio, costituito da nitidi bloc-
chi di volumi, se osservato e misu-
rato con attenzione rivela che nes-
suna superficie o nessuno spigolo
sono perfettamente verticali, ma
si restringono verso l’alto.
Come le correzioni ottiche
dell’architettura antica in pietra,
questi accorgimenti permettono
alla forma di andare incontro alla
nostra sensibilità percettiva.
Olbrich bilancia con grande mae-
stria una sfalsatura nella disposiz-
ione assiale simmetrica: il volume

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CAPITOLO 20 ART NOUVEAU

della cupola è lievemente arretrato rispetto agli altri due, e da questo arretramento risulta una cavità, un
antro, che conferisce monumentalità all’intero edificio.
Hermann Bahr interpreta questo ingresso come l’avvio di un percorso iniziatico a una vita spirituale supe-
riore, di significato massonico, verrebbe da aggiungere.
L’opera si pone così come un involucro ricco di passato, la cui cavità è fatta per accogliere il futuro che di-
venterà il vissuto; attesa e memoria, dunque, racchiuse nella stessa opera, con una nota musicale che sale
dal vicino Oriente, in piena Vienna.
L’interno, totalmente rifatto nel restauro del 1963, era riccamente decorato con fiori stilizzati alle pareti,
rivestimenti, mobili e tessuti; caratteristico il motivo dell’elianto.
Nell’ala propriamente dedicata alle esposizioni, però, Olbrich abbandona gli intenti monumentali e sim-
bolici per aderire, come si è visto, a una logica funzionale: l’assenza di pareti interne portanti e inamovibili
facilita la mutazione continua dello spazio per gli allestimenti delle mostre.

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CAPITOLO 21

IL CUBISMO

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CAPITOLO 21 IL CUBISMO

Il cubismo è una corrente artistica fortemente innovatrice che nasce nel 1907 dalle ricerche di Picasso e
Braque.
Il critico Louis Vauxcelles coniò il termine Cubismo nel 1908. Le opere cubiste furono per la prima volta
apprezzate nel 1911, quando gli artisti esposero il frutto delle proprie ricerche al Salons des Indépendants
a Parigi.
I pittori di questa corrente artistica prima di riprodurre un oggetto, lo analizzano mentalmente e, dopo uno
studio attento e accurato, lo riportano sulla tela così come la mente lo ha percepito.
I cubisti vogliono in poche parole avvicinare l’oggetto rappresentato il più possibile alla sua concretezza
fisica. Per rendere l’oggetto il più reale possibile, essi lo scompongono in figure geometriche, studiandolo
sotto molteplici punti di vista.
Il precursore della pittura cubista è senza dubbio Paul Cézanne, il quale fu il primo a cercare di rendere la
forma plastica delle cose e a studiare gli oggetti da più punti di vista, così da indagare le forme geometriche
che costituivano la struttura delle cose rappresentate.
Una novità di questa corrente “d’avanguardia” sta nell’introduzione di una quarta dimensione: il tempo, un
tempo che era fondamentale nella rappresentazione di un oggetto, poiché la conoscenza di quest’ultimo
avviene attraverso fasi successive che non corrispondono al tempo reale della visione.
I soggetti più comuni del Cubismo sono il nudo, il paesaggio, la natura morta e il ritratto, tutti raffigurati
con un’estrema essenzialità, semplificando e geometrizzando al massimo le forme, concretizzandole il più
possibile.
I colori utilizzati hanno dei toni smorzati; diventa frequente l’uso dei grigi, dei neri e dei verdi spenti.
Il Cubismo nasce grazie al costante studio della pittura operato dai fondatori di questa corrente: Picasso e
Braque.
I due artisti si erano conosciuti tramite il poeta Guillaume Apollinaire e, nonostante la differenza di tempe-
ramento tra i due, la loro collaborazione fu particolarmente fruttuosa e portò a dei risultati strabilianti.
Fu Picasso, nel 1907, a dare le basi del movimento tramite il dipinto “Les Demoiselles d’Avignon”; fu proprio
grazie a questa opera che Braque si interessò al Cubismo e iniziò così la collaborazione tra i due.
A partire dagli esperimenti di Picasso e Braque, sono quattro le fasi di maturazione del Cubismo: il Protocu-
bismo, il Cubismo analitico, il Cubismo sintetico ed il Cubismo orfico.

PROTOCUBISMO E CUBISMO ANALITICO

Nel periodo protocubista ci si dedica a dimensioni in risalto su uno sfondo non definito; è solo nel periodo
analitico che inizia l’analisi dell’oggetto raffigurato, e quindi la sua rappresentazione sotto molteplici as-
petti. Nella fase analitica il rilievo è ridotto al minimo e, per quanto riguarda i colori, l’artista tende quasi ad
utilizzare una sola tinta.

CUBISMO SINTETICO

Nel periodo sintetico si assiste a una raffigurazione dell’oggetto più libera e intuitiva; tale rappresentazione
si presenta alla mente del pittore nell’attimo in cui lo pensa rivivendolo interiormente.
Proprio grazie a questa “libertà di rappresentazione” i pittori cubisti cominciano a incollare sulla tela vari
materiali (come ad esempio gli inserti tagliati dai giornali).

CUBISMO ORFICO

Il Cubismo orfico rappresenta l’ultima fase della storia di questa corrente.


Mentre nelle precedenti fasi il colore si riduceva quasi alla monocromia, in quest’ultima fase vi è il recupero
della dimensione lirica del colore.
Nell’orfismo si assiste a una pittura “pura” e, come afferma lo stesso Apollinaire, questa fase rappresenta
l’evoluzione dell’Impressionismo, del Divisionismo e del Cubismo.
Il nome “orfico” è stato assegnato a questa corrente proprio per la sua capacità di animare, tramite la sua
bellezza, le forze della natura, proprio come Orfeo animava quest’ultima con il suo canto.

352
IL CUBISMO CAPITOLO 21

I cubisti tendono sempre a non rappresentare la dimensione interiore, ma una realtà concreta.
La realtà è letta in chiave volumetrica e, come già affermato in precedenza, sono moltiplicati i punti di vista
secondo cui l’oggetto viene raffigurato.
L’osservatore, osservando un’opera cubista, deve essere in grado di compiere un viaggio virtuale a 360°
nello spazio e nel tempo.
Il Cubismo accentua il valore del volume su quello del colore, che viene quasi del tutto eliminato; gli unici
colori che vengono utilizzati sono infatti il grigio e i colori scuri.
Il chiaroscuro è dato dalle combinazioni di luce ed ombra.
Il colore è quasi visto come una fonte di disturbo, come un ostacolo decorativo che impedisce all’artista ed
all’osservatore di indagare la realtà.

PABLO PICASSO

Picasso, nato in Spagna (Malaga


1881), ha la sua formazione cul-
turale nella tradizione artistica
iberica, avviato in ciò dal padre,
insegnante nella scuola d’arte lo-
cale.
All’età di 10 anni si trasferisce a La
Coruña, capoluogo della Galizia,
dove frequenta la Scuola d’Arti
e Mestieri, ma già nel 1895 viene
ammesso all’Accademia di Belle
Arti di Barcellona, città alla quale
rimarrà sempre legato tanto da
sentirsi catalano nel profondo
dell’anima.
Due anni dopo frequenterà la
prestigiosa Accademia Reale “S.
Ferdinando” di Madrid. Pur es-
sendo molto giovane si sposta
con facilità da un luogo all’altro,
privilegiando la Catalogna.
A Madrid, frequenta soprattutto il
Museo del Prado dove si applica
nello studio dei grandi capolavori
del passato (Velásquez e Goya).
Nel 1900, l’artista, non ancora
ventenne, si reca a Parigi dove si
stabilirà successivamente.
Gli studi di questi anni creeranno
le basi di quella che sarà la sua
straordinaria capacità di dedicarsi
a qualsiasi tipo di espressione ar-
tistica.
Dal 1901 al 1904 si individua il co-
Autoritratto
siddetto “Periodo Blu».
Si tratta, come dice il nome stesso, di una pittura giocata sui colori freddi, dove i soggetti umani rappre-
sentati, appartenenti alla categoria degli emarginati e degli sfruttati, sembrano sospesi in una atmosfera
malinconica e assumono un’asciutta monumentalità. Successivamente vivrà un periodo Rosa, nel quale è
presente un rinnovato interesse per lo spazio ed il volume, ma nel quale la malinconia, per quanto tem-
perata, è sempre presente.
I soggetti privilegiati sono saltimbanchi, acrobati o comunque legati al mondo del circo.

353
CAPITOLO 21 IL CUBISMO

Gli ultimi mesi del 1906 lo portano a contatto con la cultura negra, non
ancora contaminata da ideologie e condizionamenti sociali.
Nel 1907, la mostra retrospettiva dedicata a Cézanne, al Salon
d’Automne, gli rivela l’opera di questo grande artista; sempre in questo
stesso anno, c’è l’incontro con Braque con il quale inizia un proficuo
sodalizio artistico.
Da questa loro collaborazione nasce il Cubismo.
Un punto d’arrivo del cammino artistico di Picasso sono «Les Demoi-
selles d’ Avignon», opera con la quale abbiamo la premessa del Cub-
ismo.

Les Demoiselles d’Avignon

354
INDICE

Prefazione 2
Presentazione 3

CAP 1 - PREISTORIA DEL GARGANO 5

I nostri progenitori: una nuova teoria 6


Giacimento: un tesoro d’enorme ricchezza 6
I graffiti 7
Le pitture 7
L’uomo di Paglicci e le sepolture 8
Il ritrovamento del ragazzo 8
La ragazza di paglicci 8
Ricostruzione fisiognomica della “donna di paglicci” 9

CAP 2 - ARTE GRECA E ARCAICA 11

Le scuole locali di scultura alla fine dell’età Arcaica 12


Alla ricerca del canone 14
Mirone: il Discobolo 15
Mirone: Atena e Marsia 16
Policleto: il Diadumeno 17
Fidia: Atena Lemnia 18
Fidia: Atena Promachos 19
Skopas 20
Menade danzante 20
Mausoleo di Alicarnasso 20
Prassitele 21
Hermes con Dionisio fanciullo 22
Afrodite Cnidia 23
Apollo Sauroctonos 24
Lisippo: l’Apoxyómenos 24
Eracle detto Ercole Farnese 26
Eros con L’arco 26
A rchitettura: un nuovo mondo di riforme 27
Le istanze razionali dell’arte Greca e relazioni tra arte e religione 27
La nascita di nuovi territori: le colonie 28
L’incremento degli spazi urbani 28
L’influsso dell’Oriente in Grecia e la crisi delle Polis 28

CAP 3 - ARTE GRECA ELLENISTICA 29

Fanciulla di Anzio 30
Nike di Samotracia 31
L’impianto scenografico della città ellenistica 32
I Santuari Panellenici 35
Il Santuario di Delfi 36
Il Santuario di Olimpia 37
Il Partenone: eleganza ed innovazione 38
Agoracrito: Nemesi di Ramnunte 41
Tempio di Apollo Epikouros a Bassae 43
Tholos di Epidauro 43
Tempio di Atena Alea 43
La Koinè ellenistica 43
Il Dio di Capo Artemisio 45

355
INDICE

L’Auriga di Delfi 46
Afrodite Sosandra 47
Efebo 48
Bronzi di Riace 48
Analisi delle statue 49
Ritrovamento e restauro 49
Studi sulla provenienza e sugli artefizi secondo il prof. Moreno 50
Identificazione degli artisti 50
Esame dei documenti storici 50
L’Arte Rodia: la scultura 50
Gruppo del Toro Farnese 51
Gruppo del Laocoonte 52
Accecamento di Polifemo 53

CAP 4 - LA PITTURA GRECA 55

La Tomba del Tuffatore 56

CAP 5 - LA PITTURA VASCOLARE 59

CAP 6 - IL ROMANICO 63

La Società Comunale 64
Impero e Papato 64
La situazione in Italia 65
Caratteri generali e principali innovazioni 65
L’Architettura 66
Una nuova tecnica costruttiva: l’arco a tutto sesto 66
La struttura della chiesa romanica 66
L’Italia Settentrionale 67
Basilica di San Marco 67
L’esterno: la facciata 67
La quadriga 68
Il nartece 68
L’interno 68
Il presbiterio 68
Transetto destro 69
Transetto sinistro 69
I mosaici 69
Il duomo di Modena 70
L’Italia Centrale 70
Castel del Monte 71
Struttura dell’edificio 71
L’interno 72
L’esterno 72
Il cortile interno 73
La Basilica di San Nicola a Bari 73
L’esterno 73
La facciata posteriore (est) 74
La facciata laterale (nord) 74
Il portale dei leoni 74
L’esaforato 75
La torre delle milizie 75
La facciata principale (ovest) 76
La facciata sud (sul cortile interno) 77

356
INDICE

Portico dei Pellegrini 78


L’interno 79
La navata centrale 79
La navata destra 80
La navata sinistra 81
Transetto di destra e di sinistra 82
Presbiterio e abside 84
La colonna dell’inferriata 84
La cappella dei padroni d’Europa 85
La tomba di san Nicola 85
L’icona di Urosh III 86
La cappella Orientale 87
La chiesa di San Gregorio 87

CAP 7 - IL GOTICO 91

Origini dell’architettura gotica 92


Innovazione 93
Notre-Dame de Paris 94
L’interno 95
L’esterno 95
I portali 95
La galleria dei Re 96
Il rosone 96
Le torri 96
Il Duomo di Milano 97
L’interno 98
L’esterno 98
GIOTTO 99
Il presepe di Greccio 100
La predica agli uccelli 101
Il miracolo della fonte 101
Il dono del mantello 102
La rinunzia dei beni 102
Le esequie di San Francesco 102
Il bacio di Giuda o cattura di Cristo 103
La croce di Giotto 103
Compianto sul Cristo morto 104
La Madonna d’Ognissanti 104

CAP 8 - IL RINASCIMENTO 107

Il concetto di rinascita 110


Lo studio e la ricerca della divina proportione 110
La prospettiva 111
FILIPPO BRUNELLESCHI 112
Il sacrificio di Isacco 113
Santa Maria del Fiore 114
L’Ospedale degli innocenti 115
Basilica di San Lorenzo 116
Basilica di Santo Spirito 117
DONATELLO 119
Il profeta Abacuc 120
Il banchetto di Erode 120
San Giorgio 122

357
INDICE

David - Mercurio 122


Monumento equestre al Gattamelata 123
Crocifisso di Donatello 124
MASACCIO 124
Sant’Anna Metterza 124
Il polittico di Pisa: la Crocifissione 125
La Maestà 126
La Trinità 126
La Resurrezione del figlio Teofilo 127
La distribuzione delle elemosine e la morte di Anania 128
PAOLO UCCELLO 128
Monumento a Giovanni Acuto 129
La Caccia 130
La Battaglia di San Romano 131
San Giorgio e il drago 132
BEATO ANGELICO 133
Pala di Santa Trinità 133
Giudizio universale 134
L’Annunciazione 135
Trasfigurazione di Gesù 136
Derisione di Cristo 137
LEON BATTISTA ALBERTI 137
Palazzo Rucellai 138
La facciata di S. Maria Novella 139
LA PITTURA FIAMMINGA 140
I caratteri dell’arte fiamminga 141
L’espansione dell’arte olandese 142
ANDREA MANTEGNA 143
La camera degli Sposi 143
Il Cristo Morto 145
San Sebastiano 146
JAN VAN EYCK 146
Polittico dell’agnello mistico 147
Ritratto dei coniugi Arnolfini 149
PIERO DELLA FRANCESCA 150
La leggenda della vera Croce 151
Adorazione del sacro Legno e incontro tra la regina di Saba e Salomone 151
La battaglia di Costantino contro Massenzio 152
Il sogno di Costantino 152
Sacra Conversazione 153
Il Battesimo di Cristo 154
Dittico dei duchi di Urbino 154
ANTONELLO DA MESSINA 155
Ecce Homo 156
Pala di San Cassiano 156
San Sebastiano 157
La Vergine Annunziata 158
San Gerolamo nello studiolo 158
SANDRO BOTTICELLI 159
Natività mistica 160
Madonna della melagrana 160
La Primavera 161
Nascita di Venere 163
Adorazione dei Magi 164
La Calunnia 165

358
INDICE

Compianto su Cristo morto 166


Madonna con bambino 167
Venere e Marte 168
La Madonna del Magnificat 169
La Fortezza 169
PIETRO PERUGINO 170
La consegna delle chiavi 171
Compianto su Cristo morto 172
Lo sposalizio della Vergine 173
Ascensione di Cristo 174
LEONARDO DA VINCI 174
L’Annunciazione 175
Vergine delle rocce 176
La dama con l’ermellino 178
L’ultima cena 179
La Gioconda 180
RA FFAELLO SANZIO 181
Madonna del cardellino 182
La Scuola di Atene 183
Liberazione di San Pietro dal Carcere 184
Monte Parnaso 186
La cacciata di Eliodoro dal tempio 186
L’incendio di borgo 187
Disputa del Sacramento 187
La messa di Bolsena 188
Incontro di Leone Magno con Attila 188
Lo Sposalizio della Vergine 189
Madonna del Belvedere 190
Madonna Sistina 191
Deposizione Borghese 192
Il trionfo di Galatea 193
La Trasfigurazione 193

CAP 9 - I MAESTRI DEL CINQUECENTO 195

MICHELANGELO BUONARROTI 197


La Battaglia dei Centauri 197
La Pietà 198
La Volta della Cappella Sistina 199
La Decorazione della Cappella Sistina 200
Il Giudizio Universale 202
Tondo Doni 204
David 205
Tomba di Giulio II 206

CAP 10 - DAL MANIERISMO AL BAROCCO 209

DONATO BRAMANTE 210


Santa Maria presso San Satiro 211
Il periodo Romano 211
I CARRACCI 212
Ludovico Carracci 212
Agostino Carracci 212
Annibale Carracci 213
CARAVAGGIO 214

359
INDICE

Riposo durante la fuga in Egitto 214


Martirio di San Matteo 215
Canestra 216
Ragazzo morso da un Ramarro 217
Giuditta e Oloferne 218
La Vocazione di San Matteo 219
La Morte della Vergine 219

CAP 11 - IL BAROCCO 221

GIANLORENZO BERNINI 224


Enea, Anchise e Ascanio 224
Apollo e Dafne 225
Ratto di Proserpina 226
David 227
Estasi di Santa Teresa 228
La Verità svelata dal tempo 230

CAP 12 - IL ROCOCÒ 233

Piazza di Trevi 234


Piazza di Spagna 236
Due prospettive, una scala 236
LUIGI VANVITELLI 237
La reggia di Caserta 237

CAP 13 - IL VEDUTISMO 241

GIOVANNI ANTONIO CANAL 242


Il ritorno del Bucintoro al molo il giorno dell’Ascensione 243

CAP 14 - IL NEOCLASSICISMO 245

Le teorie e lo stile 246


Il Neoclassicismo in Italia 247
ANTONIO CANOVA 248
La bottega d’arte 248
Pittura 249
Monumenti funebri 251
Napoleone 252
Museo di Possagno 253
Paolina Borghese 254
Ebe 255
JAQUES LOUIS DAVID 255
Il Giuramento degli Orazi 257
Marat 258
FILIPPO JUVARRA 260
Palazzina di caccia di Stupinigi 261
La Basilica di Superga 263
Le Tombe Reali 265

CAP 15 - IL ROMANTICISMO 267

THÉODORE GÈRICAULT 271

360
INDICE

Ufficiale dei Cavallegeri della Guardia Imperiale 274


R itratti di Alienati 275
La Fornace di Gesso 276
EUGÈNE DELACROIX 276
La barca di Dante 278
FRANCESCO HAYEZ 278
Il Bacio 279
L’accusa segreta 280
L’ultimo abboccamento di G. Foscari 281
FRANCISCO GOYA 282
La Maja Desnuda 284
La Maja Vestida 284
Il 3 Maggio 1808 285
Saturno che divora i suoi Figli 286

CAP 16 - L’IMPRESSIONISMO 287

EDGAR DEGAS 289


Cavalli da corsa davanti alle tribune 290
La Classe di Danza 291
L’Assenzio 292
ÉDOUARD MANET 293
Le Déjeuner sur l’herbe 294
CLAUDE OSCAR MONET 295
Le Ninfee 304

CAP 17 - IL REALISMO 305

GOUSTAVE COURBET 307


JEAN-FRANÇOIS MILLET 309

CAP 18 - I MACCHIAIOLI 311

GIOVANNI FATTORI 312


I soldati francesi del ‘59 313
La rotonda Palmieri e in vedetta 313

CAP 19 - IL DIVISIONISMO 315

GAETANO PREVIATI 317


GIOVANNI SEGANTINI 317
Ave maria a trasbordo 318
Le due madri 318
GIUSEPPE PELLIZZA DA VOLPEDO 319
Il quarto stato 319
PAUL CEZANNE 320
La casa dell’impiccato a Auvers 320
Il fumatore di pipa 321
Donna con caffettiera 321
La montagna di Saint-Victoire 321
PAUL GAUGUIN 322
La visione dopo il sermonte 322
Il Cristo giallo 323
Da dove veniamo? chi siamo? dove andiamo? 324

361
INDICE

Come, sei gelosa? 324


VINCENT VAN GOGH 325
Mangiatori di patate 325
Autoritratto 326
La camera da letto 326
Vaso con girasoli 327
Notte stellata 328
Campo di grano con volo di corvi 328
JAMES ENSOR 329
Ingresso di Cristo a Bruxelles 329
EDVARD MUNCH 330
La pubertà 330
Il grido 331
La Madonna 332

CAP 20 - ART NOUVEAU 333

GUSTAV KLIMT 336


Giuditta I 337
Le tre età 337
L’attesa 338
GINO COPPEDÈ 338
GAUDÌ 343
Casa Vicens 344
Casa Milà 344
Sagrada familia 345
VICTOR HORTA 346
Hotel Solvay 346
JOSEPH HOFFMAN 347
Palazzo Stoclet 347
OTTO WAGNER 348
Stazione metropolitana di Karl Splatz 348
JOSEPH MARIA OLBRICH 349
Palazzo della Secessione 349

CAP 21 - IL CUBISMO 451

PABLO PICASSO 353

362
APPENDICE

Appendice

In questo volume si offrono agli studenti riferimenti strettamente correlati allo studio della
“Storia dell’Arte” e che già dovrebbero far parte del bagaglio culturale degli studenti di scuo-
la superiore.
Le conoscenze hanno bisogno di continui richiami e questo lavoro può essere di grande
abilità didattica.
Il volume è un primo esperimento coinvolgente, entusiasmante, che andremo a migliorare,
ad abbellire e approfondire andando avanti con gli anni.
Avere apparati di consultazione collegati alla trattazione dell’arte presentata dagli stessi stu-
denti, dovrebbe facilitare lo studio e l’approccio.
Materia? Disciplina? No!
Cultura armoniosa che deve far parte del bagaglio personale di ognuno di noi.
Io ringrazio profondamente il capo d’Istituto che mi ha dato fiducia sin dal principio, ma un
enorme “Grazie” va rivolto soprattutto ai miei studenti che con la mia stessa passione mi
hanno accompagnato in questo cammino che spero continui a lungo.
Grazie a tutti!
E poi vi dico: “Come sarebbe la nostra vita senza pane?”;
e aggiungo: “ Come sarebbe la nostra vita senza arte?”.

363
Si ringrazia la classe
5AS - 2012/13

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