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Francesco Toto, L’individualità dei corpi. Percorsi nell’Etica di Spinoza, Mi-


mesis, Milano 2015.

Il libro di Francesco Toto L’individualità dei corpi. Percorsi nell’Etica


di Spinoza (Mimesis, Milano, 2015), aggiunge alla ricca e variegata collana
Spinoziana il testo finora più voluminoso. In questo lavoro, Toto più che
ripercorrere l’Etica di Spinoza soffermandosi sui punti capitali per rico-
struirne il senso generale, preferisce visitarne luoghi poco studiati per ap-
profondirne le tensioni e gli interrogativi che essi suscitano. Dei percorsi,
giustamente chiamati in questo modo dall’autore, che non hanno la pretesa
di contenere né l’Etica né Spinoza. I grandi problemi dello spinozismo ven-
gono affrontati indirettamente e in controluce, mostrando come alcuni det-
tagli apparentemente marginali dell’opera svolgano un ruolo decisivo per la
comprensione del testo e per i grandi interrogativi che da sempre suscita il
pensiero spinoziano.
A questo approccio contemporaneo, vicino a diversi autori dello spino-
zismo francese con cui Toto si confronta nel corso del lavoro, si affianca il
rigore di un’analisi che non lascia spazio a equivoci. L’acribia, l’argomentare
complesso e minuzioso sono uno dei segni più caratteristici della prosa di
Toto, che non vuole dare mai nulla per scontato. Nonostante sia l’Etica il
testo sotto esame, non manca il dialogo con i grandi filosofi che Spinoza
lesse e studiò. Primi su tutti Hobbes e Descartes, ma anche autori minori
del xvii secolo da cui Toto recupera quelle espressioni linguistiche che si
trovano nel testo spinoziano e dalle quali prendono avvio le tre sezioni del
libro. Sono infatti quattro i lemmi/concetti che scandiscono il ritmo del te-
sto: «individuum» (Sezione i), «motus spontaneus corporis» (Sezione ii),
«fabrica» e «constitutio» (Sezione iii). Le scelte terminologiche suggeriscono
sin dall’inizio che è il corpo l’epicentro intorno al quale si diramano gli ar-
gomenti del libro. Negli ultimi anni la letteratura spinoziana si è notevol-
mente arricchita di contributi tesi a rimarcare il ruolo della corporeità. Il
testo di Toto segue questo orientamento offrendo un importante contri-
buto, volto a interrogare scrupolosamente non solo le ragioni per le quali
il corpo ha una centralità indiscussa nella filosofia spinoziana, ma anche le
implicazioni e le difficoltà che questa centralità porta con sé. È proprio il
corpo per Toto l’essenza dell’uomo, ciò che soltanto può permettere una
teoria dell’individuazione che non faccia del corpo né mera estensione né

LA CULTURA / a. LIV, n. 3, dicembre 2016 553


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mera forma di ciò che è interiore, ma struttura complessa, intrinsecamente


dinamica, sede allo stesso tempo di differenza e concordanza. Il testo riesce
nell’intento, dichiarato dall’autore fin dall’introduzione, di «costruzione di
un’antropologia capace di parlare sensatamente di natura umana facendo a
meno di ogni definizione essenzialistica dell’uomo» (p. 31).
La ricognizione antropologica condotta da Toto ha dunque come esi-
genza primaria quella di conferire una certa specificità all’umano senza
esaurire in essa il senso della singolarità. Secondo Toto la sede principale in
cui Spinoza delinea la sua antropologia è l’excursus di fisica dopo la propo-
sizione 13 della seconda parte dell’Etica, il quale, si legge nell’introduzione,
ha lo scopo «di costruire una comprensione del corpo e della mente  –  e
dunque dell’uomo come unità di entrambi – indipendente da ogni presup-
posta conoscenza della loro natura» (p. 26). Il trattatello di fisica fornisce
il materiale principale di cui Spinoza si serve per costruire un’antropologia
dove le caratteristiche della natura in generale confluiscono all’interno di
una natura specifica. Toto rilegge dunque positivamente l’antropologia spi-
noziana, ricorrendo non alla metafisica ma alla fisica. Una fisica che nella
Sezione i del lavoro si configura soprattutto come analisi e studio dei corpi
semplici e composti, fino ad arrivare all’importante nozione di «indivi-
duum», che Spinoza pensa sia come parte di un tutto sia come tutto di una
parte. La teoria dell’individuo converge in quella del rapporto parti-tutto
che Toto indica come la piattaforma dove può costituirsi la forma sociale
uomo, la quale riassume in un’unica modalità d’esistenza caratteristiche
comuni a tutta la natura. Nell’impossibilità di pensare il tutto senza le sue
parti, e le parti fuori dall’appartenenza al tutto, Toto pensa l’essenza dell’in-
dividuo come costituita «dalla totalità delle sue cause parziali, la congiun-
zione delle quali rappresenta la causa interna o adeguata dell’individuo allo
stesso modo in cui la congiunzione delle loro idee è la causa adeguata della
sua idea o conoscenza» (p. 123). In questo modo, il rapporto parti-tutto,
si lega a quello causa-effetto ed essenza-cosa, dove i tre tipi di connessione
«si rivelano nel caso dell’individuo come un solo e medesimo rapporto» (p.
127). Quanto c’è di metafisico nel lavoro di Toto è sempre ben ancorato al
mondo fisico, non staccando mai la presa dall’esistente.
Tutta la Sezione ii, dedicata al delicato concetto di “spontaneità” non
è che il tentativo di mostrare come la rete causale che fa dello spinozismo
un sistema deterministico non si opponga mai a un principio interno, ac-
cogliendo la sfida spinoziana di una libertà interamente giocata fuori dal
motore del libero arbitrio. Toto si spinge ancora più avanti, mostrando che
quando Spinoza parla di spontaneità, non intende indicare una forza che
si oppone alle cause esterne, ma un certo tipo di cooperazione con que-
ste. Una delle idee guida del testo di Toto è proprio quella di mostrare
come la fondamentale distinzione tra attività e passività non stia a signifi-
care, nell’individuo, la vittoria delle cause interne sulla coazione delle cause
esterne. Piuttosto, facendo leva su tutti quei passi che mostrano l’incon-
cepibilità dell’individuo al di fuori del proprio rapporto con l’ambiente,
pensare ogni agire dell’individuo, e in ultimo anche la libertà, come «una
specifica modalità di determinazione da parte delle cause esterne» (p. 183),
facendo di queste non ciò che si oppone a un principio interno – essenza
dell’individuo – ma ciò che può essere sia «fonte di passività e coazione o
di attività e liberazione» (p. 184), facendo del conatus null’altro che un pre-
ciso rapporto tra queste modalità.

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L’esigenza di dare supporto a una teoria dell’individualità su base ma-


terialistica non sottrae Toto dal postulare l’esistenza di un’essenza generale,
condivisa da tutti i corpi della stessa specie, che non indica nulla di deter-
minato, ma solo un campo di possibilità e capacità condiviso da un certo
gruppo più o meno esteso di individui. L’essenza del corpo e della mente
è, nella sua genericità, uguale in tutti gli uomini solo finché viene consi-
derata assolutamente, in sé sola, definendo tutto ciò che può seguire dalla
loro natura, lasciando dunque da parte le «circostanze concrete dalle quali
la comune natura umana deve essere determinata» (p. 352). Scrive Toto,
«il fatto di non avere in sé la causa o ragione della propria essenza e di di-
pendere quindi da condizioni esterne per la propria effettiva realizzazione,
consente alla natura umana di essere una sola e la medesima in ognuno dei
molteplici uomini attualmente esistenti. L’essenza dell’uomo deve essere
dunque un’essenza specifica, e non individuale, suscettibile di una moltepli-
cità di attualizzazioni numericamente distinte le cui identità individuali, con
le loro reciproche differenze, non possono derivare in maniera immediata
da una natura che è loro comune» (p. 311). Senza esistenza è impossibile
determinare la natura singolare di un dato individuo. Ogni singolarità è af-
fidata sempre e solo al dato esistenziale e mai a quello essenziale.
In questo alternarsi tra singolarità e generalità, tutta la Sezione iii cerca
proprio di determinare e chiarire da vicino questo rapporto, assumendo
come centrale sempre l’aspetto corporeo. L’idea fondamentale è quella che
non vede essenze da una parte e cose da un’altra, ma, coerentemente con
le premesse delle Sezioni precedenti, l’esistenza delle sole res singulares,
così da assoggettare le essenze alla temporalità e al mutamento. Analoga-
mente accade per il tempo e l’eternità, dove quest’ultima, piuttosto che es-
sere un termine opposto al primo, diviene un modo diverso d’intendere la
temporalità, intesa come un durare che si manifesta a una «comprensione
adeguata come necessario ed eterno» (p. 397). La mente che dura e im-
magina e la mente che vive in eterno sono la stessa mente. La distinzione
tra parte eterna e parte peritura non distingue, scrive Toto, «la permanenza
dell’essenza e la transitorietà degli accidenti, ma due insiemi di idee ugual-
mente mutevoli, ognuno dei quali appartiene a pari titolo alla mutevole es-
senza attuale della mente» (p. 396). In questo modo, quella parte eterna
della mente di cui si parla nella proposizione 23 della parte quinta dell’E-
tica, e che coincide con l’intelletto, non è una porzione d’eternità sottratta
al divenire, ma è anch’essa inserita all’interno di un processo di genera-
zione e corruzione. Il concetto di essenza, per Toto, non ha più nulla a che
vedere con i «contenuti che esso era tradizionalmente supposto veicolare»
(p. 422), e l’eternità di un’essenza, non più separata dalla mortalità dell’e-
sistenza, è tale «non malgrado la nostra finitezza e la nostra mortalità, ma
solo nella misura in cui godiamo di questa finitezza e mortalità» (p. 398).
Risultano impervi questi passaggi dove Toto sostiene che «di noi non re-
sta propriamente nulla» (p. 397), laddove invece Spinoza sembra proprio
rimarcare una distinzione forte tra il piano essenziale e quello esistenziale,
mostrando proprio perché, e nonostante tutto, noi possiamo dirci eterni.
Nella “quasi conclusione” Toto riprende il tema dell’eternità allaccian-
dolo a quello che ritiene il momento culminante dello spinozismo: l’amore
intellettuale di Dio. Toto cerca di leggere questo amore in un senso molto
terreno, lontano da una dimensione religiosa e separata dalla corporeità,
la quale invece, viene recuperata e inserita al centro del cammino beati-

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fico. Un amore che può essere compreso soltanto come l’evoluzione posi-
tiva dei rapporti che gli uomini creano e conservano con la natura e tra di
loro, un amore dove il «Sé e l’Altro si incontrano e si rivelano nella loro
inseparabilità» (p. 442).

[Daniele D’Amico]

Adalberto Coltelluccio, «Nel dolore del vivente». Il superamento del princi-


pio di non-contraddizione nella dialettica di Hegel, Aracne, Roma 2015.

Lo studio di Adalberto Coltelluccio nasce con un intento ben preciso,


che consiste nel mostrare «l’insostenibilità» della posizione coerentista sul
significato della contraddizione nella dialettica di Hegel. Il coerentismo,
spiega l’autore nella breve e chiara introduzione, ammette «che Hegel non
sia stato un sostenitore della verità della contraddizione, ma che sia stato
addirittura un “difensore” della non-contraddizione» (p. 13). In maniera
opposta, l’autore avanza l’idea che Hegel abbia «inteso davvero violare (su-
perare) il principio di non-contraddizione (d’ora in poi: PNC), anche nella
sua versione aristotelica» (p. 14), e che il filosofo tedesco abbia «conside-
rato la contraddizione logica e ontologica che risulta da tale superamento
come verità» (ivi). Sulla polarità costituita da queste due proposte di let-
tura si erige l’intera struttura del saggio. Il libro risulta quindi «diviso in
due Parti»: la prima parte affronta l’analisi delle principali tesi coerentiste,
che si vogliono confutare; la seconda parte è dedicata alla esposizione della
posizione dell’autore e alla dimostrazione che la logica hegeliana ammette
la verità della contraddizione ontologica.
La critica del coerentismo, che l’autore affronta nella prima parte del
volume, si svolge essenzialmente intorno al tema della negazione determi-
nata, che il coerentismo concepisce come struttura «non-contraddittoria» e
che qui viene invece identificata con la contraddizione stessa. L’interpreta-
zione coerentista, secondo l’autore, non esclude che la determinazione in-
stauri un rapporto anche negativo con il proprio opposto, ma interpreta
male questa negatività, che sarebbe un rapporto estrinseco con l’altro, una
modalità cioè non costitutiva, che si immedesima con l’atto dell’escludere
semplicemente qualcos’altro, e non ammette il ripiegarsi della negazione
stessa nella positività di ciò che si determina. «Per il coerentismo – spiega
a questo proposito l’autore – la negazione determinata denoterebbe sol-
tanto il determinarsi della negazione; determinarsi, a sua volta, inteso sem-
plicemente come assunzione della non contraddittorietà della categoria che
si determina, la quale sarebbe soltanto escludente l’esser-altro» (p. 79).
Nella lettura difesa dall’autore la negatività del positivo è un atto della
determinazione, che così produce e include il proprio altro, senza assu-
merlo estrinsecamente da fuori. La determinazione è l’internarsi della ne-
gatività nella costituzione della positività e non il risultato del rapporto
estrinseco – sia pure escludente e negativo – con altro. «Ciò significa che
la determinazione si nega da sé, nega cioè anche se stessa oltre che l’altro,
e perciò è necessariamente auto-contraddittoria» (p. 169). L’autore insiste
nel mostrare che la determinazione coincide con l’opposizione e che la ne-
gatività costitutiva degli opposti si esplica nella esclusione di un’alterità im-
manente, che costituisce l’essere di ogni determinazione. Il coerentismo in

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definitiva sbaglia là dove pretende di identificare il negativo della determi-


nazione (il non-A) con il non essere nel senso di «mancanza» e «indeter-
minatezza», là dove in Hegel «il vero senso di “non-A” e di “negativo”, in
quanto determinatezza in sé (opposto in sé) è anzi proprio quello di “con-
traddittorio”» (p. 174).
Una posizione come quella anticoerentista, che ammette la violazione,
il superamento nella logica hegeliana del principio di non contraddizione,
prevede lo sviluppo di alcuni temi, che risultano implicati nella tesi e su
cui l’autore effettivamente si sofferma. Questi temi riguardano, in primo
luogo, la possibilità di dimostrare il mantenimento della coerenza e della
integrità del sistema, una volta ammessa la violazione hegeliana del prin-
cipio di non contraddizione, in modo da escludere «esplosioni» o conflitti
interni all’apparato concettuale del sistema stesso. In secondo luogo, si do-
vrà dimostrare che l’ammissione della verità della contraddizione da parte
di Hegel non implichi l’insorgere di paradossi logico-semantici, nella forma
di concatenazioni di proposizioni dall’esito aporetico. Infine, ammettere l’i-
dea hegeliana della verità della contraddizione significa mostrare come la
cosiddetta Aufhebung, il movimento tipico del togliere per conservare l’op-
posizione nell’unità superiore della sintesi, non risolva la contraddizione nel
senso della sua eliminazione, ma determini, al contrario, la sua attuazione
nella realtà obiettiva.
Rispetto al primo punto, l’autore argomenta in favore dell’idea che la
contraddizione, a livello speculativo, e cioè una volta superata la prospet-
tiva unilaterale del Verstand, lungi dal rappresentare una struttura ano-
mala della realtà, si configura come «l’ordinario modo di essere nel mondo
reale-razionale» (p. 276). Questa conclusione, a sua volta, è l’esito di un
percorso che conduce al riconoscimento della contraddizione come «strut-
tura della Ragione», e perciò un dispositivo permanente, un orizzonte ine-
liminabile e per di più costitutivo, che fonda, anziché escludere, l’essenza
del reale, radicalizzandosi nell’essere e nella costituzione stessa della Sache.
La risoluzione della contraddizione nella struttura dell’essere è molto im-
portante ai fini dell’esito del saggio, perché se davvero la contraddizione
si risolve nel Grund e si radicalizza nella res, fino a farsi fondamento della
realtà oggettiva, si esclude da una parte il suo annullarsi, il suo svanire ine-
sorabile nel nulla, e d’altra parte il suo sfociare in un risultato aporetico e
insolubile, tipico del paradosso logico-semantico.
Che la contraddizione non si risolva nel nulla per l’autore è sufficien-
temente dimostrato a partire dalla dinamica del superamento dell’opposi-
zione, che scandisce il ritmo della Aufhebung. Riprendendo il passo della
Scienza della logica (Roma-Bari, p. 483) relativo alla categoria della con-
traddizione, Coltelluccio ricorda che per Hegel «il resultato della con-
traddizione non è soltanto zero». O meglio, è bensì lo zero, il nulla, come
superamento della contrapposizione tra gli opposti, che «si distruggono»,
spariscono nella loro indipendenza, nel loro essere l’uno il semplice contra-
rio dell’altro. Ma il risultato è anche positivo, nella misura in cui gli oppo-
sti parimenti si conservano a un diverso livello di attuazione, che si esplica
nel loro reciproco contraddirsi e nel loro risultare nella medesima struttura
positiva, nella identità dovuta alla «riflessione-in-sé» e alla «riflessione-in-
altro» con la quale ciascun termine guadagna il vero essere. «La relazione
che gli opposti attuano ciascuno verso l’altro – conclude Coltelluccio su
questo punto – non è più ormai soltanto la loro relazione negativa reci-

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proca, qualcosa che resti comunque esterno ai termini in quanto considerati


positivi e per sé stanti, ma è anzi ciò che costituisce la loro stessa indipen-
denza positiva» (p. 213).
Che invece la contraddizione escluda la logica del paradosso deriva da
una sostanziale difformità tra i due dispositivi. È questo il problema del se-
condo tema, relativo alla possibilità di stabilire un esito determinato e con-
cludente del contraddirsi categoriale, che si distinguerebbe così, in maniera
inequivocabile, dalla struttura logico-semantica del paradosso. Analizzando
quest’ultima struttura, l’autore rileva uno scarto costitutivo rispetto alla
contraddizione, che risolvendosi nella realtà obiettiva, e determinandosi nel
Grund, nel fondamento della cosa stessa, si libera dall’inesorabile ripetersi
dello «stesso andirivieni all’infinito», che caratterizza il «vincolo indissolu-
bile» del paradosso.
Mentre, infatti, la contraddizione obbedisce alla regola della negazione
determinata, del «riferimento a sé che toglie» (Scienza della logica, Roma-
Bari, p. 484), e che nel togliere si riafferma come negatività medesima, nel
paradosso questo stesso impianto della negazione, che si distingue da sé e
si determina positivamente, si perde in favore «di una coincidenza imme-
diata di non-identici», «di un equivalere senza residui dei contraddittori»
(p. 234), che genera una «ricorsività infinita» e che dal punto di vista on-
tologico si presenta come «una indifferenza assoluta delle determinazioni
contraddittorie, tale da implicare una vera e propria indistinzione in cui
non viene salvaguardata alcuna possibilità di individuare o determinare
i termini in gioco» (ivi). Il risultato è che lo stesso negare il proprio al-
tro, che nella contraddizione si rivolge a sé e si conserva come positività
della negazione stessa, nel paradosso si perde dileguando in un’apparente e
falsa negatività, che in definitiva si riduce alla semplice identificazione degli
incompatibili, a una giustapposizione, che non nega, non implica la rela-
zione  – «il predicato», scrive Coltelluccio – dei contraddicentesi, ma che
davvero lascia separati e immobili gli opposti, nell’immediatezza di un’alte-
rità pertanto irresolubile, incapace di determinare e di determinarsi.
Sul significato dell’Aufhebung, che evidentemente andrà assunta come
la contraddizione che si realizza, come il contraddirsi stesso che si attua
nello svolgersi categoriale, l’autore si sofferma nella parte conclusiva del
saggio. Una volta confutata la tesi dell’annullamento della contraddizione
nello zero, si concentra sull’idea, opposta, che «l’Aufhebung non può mai
andare intesa come un eliminare la contraddizione e un ripristinare il PNC,
bensì anzi come un realizzarsi effettualmente della contraddizione negli enti
concreti» (p. 212). La dinamica del togliere e conservare «in uno stesso
atto» rinvia immediatamente, secondo l’autore, alla struttura della contrad-
dizione. Ma questo aspetto non è affatto sufficiente se si vuole dimostrare
che il contraddicentesi è ciò che si oggettivizza, ciò che si attua nella real­tà
obiettiva, e non soltanto il movimento dello sprofondare nell’essenza, l’in-
verarsi progressivo della determinazione stessa. In altre parole, affinché si
possa parlare della contraddizione «come un’essenza reale, oggettiva», è ne-
cessario vedere come l’andamento del risolversi e del risultare della con-
traddizione, che costituisce il ritmo stesso dell’Aufhebung, possa configu-
rarsi come una categoria, come una struttura della realtà stessa, e identifi-
carsi con la ratio della concretezza.
Per affrontare questo punto, Coltelluccio dimostra che la contraddi-
zione è una «sfera determinata», una unità di senso razionale e compiuto

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che coincide con la produzione stessa della determinazione. Poiché il con-


traddirsi è un movimento di autosviluppo immanente, «nel senso che non
pone l’altro in una estrinseca separatezza, ma pone l’altro appunto dentro
se stesso e come se stesso», «il risultare della contraddizione non è che il
suo stesso porsi come fondamento della realtà, il suo concretizzarsi da sé»
(pp. 252-253). Più precisamente, il movimento del contraddirsi viene a
coincidere con quello della «Soggettività», che nega l’immobilità della «so-
stanzialità spinoziana e che costituisce il pieno compimento dello Spirito»
(p. 252). La sostanza, il movimento stesso del farsi, è dunque la contrad-
dizione che risulta. Non soltanto, quindi, non ci può essere sviluppo senza
contraddizione, ma questa è l’andamento stesso del produrre, il movimento
della determinazione che coincide «con la sua immanente e propria sogget-
tività». In questo senso, il movimento del determinarsi diventa la struttura
del soggetto, e si costituisce «l’Aufhebung della contraddizione come “cate-
goria”» (p. 254).
Sempre fedele alla “lettera” hegeliana, Coltelluccio costruisce un testo
estremamente chiaro e intelligibile. Colpisce da un lato il continuo riferi-
mento ai testi, richiamati in nota e nella bibliografia essenziale al termine
del libro, e d’altro lato la capacità di sciogliere argomenti anche molto
complessi in passaggi più semplici, che incoraggiano la lettura e favori-
scono la comprensione dei punti più difficili. Molto ben delineata e chiara
anche l’immagine della dialettica che si ricava dalla lettura del testo. Richia-
mando le parole del filosofo tedesco (Scienza della logica, Roma-Bari, p.
655), l’autore chiarisce che «persino il sistema superiore, e così pure infine
il sistema ultimo e compiuto, “sarebbe esso stesso un che di unilaterale” se
mantenesse nei confronti di quello [scil. il sistema precedente] il contegno
di “essergli soltanto opposto”, dato che invece esso “essendo il superiore,
deve contenere in sé il subordinato”» (p. 279). La contraddizione è così ri-
portata sul terreno del sistema e va a costituire l’orizzonte stesso dello svol-
gersi della filosofia.

[Marco Diamanti]

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