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Rileggere la Fisiologia del Gusto

10 ottobre 2013 Michele Filippo Fontefrancesco

Viviamo come in un quadro di Brugel, in cui il cibo, il cucinare, rivestono un ruolo


centrale della nostra società, nel modo stesso di immaginare il mondo. Il cibo,
nell’arco dell’ultimo secolo ha visto oscillare il suo significato culturale: da bene
inaccessibile a delicatezza; da merce massificata a preziosa risorsa di cui si stima
la specificità, l’unicità; da prodotto globale a oggetto locale. In questa pluralità di
significati, il cibo è diventato oggetto importante del dibattito pubblico: un dibattito
che complessivamente celebra l’importanza della cura dell’alimentazione, della
cucina, del prodotto “buono” e, perché no, “pulito e giusto” (Petrini, 2005). In questo
contesto storico, i cuochi, i grandi chef, i connoisseur di vini e pietanze, i grandi
gastronomi sono diventati personaggi mediatici, spesso riconosciuti come
intellettuali, attivisti, attori della politica oltre che della cultura del Paese e del
Mondo. In tal senso non fa specie pensare ad un libro di teoria gastronomica: un
libro che ci dice perché un cibo è buono, dove debba essere trovato, come debba
essere cucinato e soprattutto gustato. Basta pensare ai moderni spadellatori
televisivi ed ai loro scritti. Ma se oggi parlare e ragionare di cibo appare quasi
banale, solo pochi decenni or sono ciò non lo era: il cibo era frontiera
dell’immaginazione, della scienza. Queste note prendono in esame uno dei
primissimi esempi moderni in cui un intellettuale decise di affrontare la sfida di
ragionare di uomo, cibo e società: La fisiologia del gusto di Jean-Anthelme Brillat-
Savarin

Brillat-Savarin.
Dietro un libro di gastronomia subito si immagina la penna di un cuoco. Non è il
caso di questo prodromo della moderna gastronomia. B.S. fu tante cose (avvocato,
giudice, politico, ufficiale dell’esercito, esule, professore di francese e musicista) ma
non fu mai un cuoco, un professionista della cucina. B.S., a dispetto delle tante
professioni, fu in primo luogo un buongustaio, un appassionato che, si descrive ed
è descritto dai suoi contemporanei come colui che più di altri, senza venir meno
all’impegno professionale e pubblico, fece di alcuni principi i motori del suo
esplorare e vivere il cibo. Ce li indica lui stesso:
“V. Il Creatore, obbligando l’uomo a mangiare per vivere, ve lo invita per mezzo
dell’appetito e lo ricompensa per mezzo del piacere;
VII. Il piacere della tavola è di tutte le età, di tutte le condizioni, di tutti i paesi e di
tutti i giorni: può associarsi a tutti gli altri piaceri e rimane per ultimo a consolarci
della loro perdita;
XX. Invitare una persona è occuparsi della sua felicità durante tutto il tempo
ch’essa passa sotto il vostro tetto.” (Brillat-Savarin, 1996 [1825], pp. 29-30)

È basandosi sulla sua esperienza di uomo e di buongustaio, che B.S. scrisse e


completò la sua opera, attingendo ad episodi ed a nozioni acquisite nel corso della
sua vita passata tra centro e periferia nella Francia a cavallo tra Ancient Regime e
Restaurazione

B.S. nacque il 2 Aprile del 1755 da una famiglia di avvocati di Belley, nel Bugey una
provincia al confine con la Savoia: una famiglia di buongustai, sottolinea Anne
Drayton (1996 [1825], p. 8). All’età di ventitre anni B.S concluse i suoi studi di
giurisprudenza a Lione, tornando nel suo territorio natale ad esercitare la
professione di avvocato.

Nel 1789, all’alba della Rivoluzione, è eletto delegato del Terzo Stato all’Assemblea
degli Stati Generali. Ivi si distingue come paladino dell’autonomia della sua regione,
il Bugey. Ritornato a Belley, venne eletto presidente del Tribunale civile, quindi
sindaco della cittadina.

“Ex membro del circolo giacobino, [nei giorni della Rivoluzione], passò ai girondini e
quando scoppil la guerra con le nazioni vicine […]l’opposizione provinciale
giacobina ai provvedimenti rivoluzionari decretati da Parigi fu interpretata come un
tradimento che sarebbe sfociato in una guerra civile, a beneficio dei nemici della
Francia. L’assemblea, in mano a i giacobini, inviò rappresentanti nelle province per
arrestare i capi girondini locali. Brillat, imprudentemente, aveva parteciapto in
passato a un paio di discussioni e, sapendo che affrontare un processo a Bourg,
Lione o Parigi avrebbe significato la ghigliottina, riparò oltre
confine” (MacDonough, 2006 [1992], p. 19)

Prima la Svizzera, quindi gli Stati Uniti in cui sbarcò il lunario come insegnante di
lingua e violinista. Nel 1796, ritornò in Francia, speranzoso che la caduta della
Convenzione (1795) potesse significare la possibilità di una sua riabilitazione. Così
fu: divenne prima segretario di stato maggiore assegnato all’esercito francese nella
Foresta Nera; quindi presidente del tribunale penale di Bourg (1798).

Gli anni successivi, fino alla morte, videro B.S. impegnato nella magistratura: da
Bourg a Versailles, quindi a Parigi come membro della Cour de cassation.
Un’ascesa che si legò, sin da subito, al favore di Napoleone. Tant’è che:

“quando le fortune di Napoleone subirono un rovescio a Lipsia nel 1813, Brillat


dovette pensare che anche la sua buona stella sarebbe tramontata. Si rifugiò nel
Bugey e, avendo poco da fare oltre a ricucire i rapporti con il nuovo tribunale reale,
scrisse qualche racconto pornografico. Tuttavia, Luigi XVIII sembrava intenzionato
ad accettare le assicurazioni di Brillat […] sicché Brillat rientrò in magistratura.
Napoleone non si rivela diverso dal paffuto sovrano Borbone [e] tornato a Parigi per
i Cento Giorni, anch’egli accettò le dichiarazioni di fedeltà dei magistrati. Dopo
Waterloo questa congrega di opportunisti togati fece il tris: la loro petizione fu
nuovamente accettata.”(MacDonough, 2006 [1992], p. 20)

Questa vita (politicamente) movimentata, nella sua prassi quotidiana seguiva una
fondamentale routine all’insegna della “bella vita”.

“Ogni settembre tornava nella provincia che tanto amava per andare a caccia,
leggere e, di sera, indulgere alle chiacchiere con i libertini locali. Talvolta metteva
alla prova la vita delle matrone del luogo, ma sempre con la gaiezza frutto di una
considerevole esperienza. La sua generosità d’animo toccava il culmine nei due
mesi che ogni anno trascorreva nel maniero di Vieu, dove organizzava banchetti e
danze che costituivano i momenti salienti della stagione della caccia. All’inizio di
novembre faceva ritorno nella capitale e al tribunale, nei ristoranti di Parigi e da
Madame Récamier.” (MacDonough, 2006 [1992], p. 21)

L’esperienza di vita così maturata divenne la solida base su cui B.S. costruì la sua
opera pubblicata pochi mesi prima della sua dipartita.

La fisiologia
Il libro che decretò il successo e la notorietà di B.S. al vasto pubblico fu l’ultima
opera di una più vasta produzione letteraria. B.S. fu autore infatti di trattati di
politica economia e di giurisprudenza che scandirono in particolare gli anni del
ritorno in Francia[2], oltre che di opere di narrativa in gran parte perdute
(MacDonough, 2006 [1992]). A fronte di questa produzione “seria”,
la Fisiologia rappresenta un divertissement , la cui stesura occupò diversi anni della
vita dell’autore. Nel corso di questa lunga gestazione, il lavoro divenne una delle
sue preoccupazioni principali, tanto da portar con sé il manoscritto a lavoro:
antidoto al tedio della quotidianità del Palais de Justice (Drayton, 1996 [1825], p.
11). Se, in serate conviviali, stralci di quest’opera erano lette agli amici come
passatempo notturno, il libro venne pubblicato con riluttanza solo nel 1825. La
pubblicazione fu fatta a sue spese e l’opera fu data alle stampe anonima: una
piccola precauzione, questa, per “salvarsi” dall’eventuale scandalo puritano che
avrebbe potuto suscitare la notizia che un giudice della Corte di Cassazione si
dilettasse di ghiottonerie e frivolezze gastronomiche. A discapito dell’anonimato,
ben presto in tutta Parigi e la Francia venne a sapere di quest’opera e del suo
autore. La Fisiologia divenne un vero e proprio best-seller che attrasse l’attenzione
del vasto pubblico, ricevendone plauso e qualche critica. Famoso è per esempio il
paragone di Balzac che descrisse l’opera come una olla podrida, un minestrone, a
causa della sua struttura non esattamente coesa (MacDonough, 2006 [1992], p.
250).

Il libro si presenta come una raccolta di meditazioni, trenta, seguite da una


miscellanea di aneddoti che completano il volume ed un percorso che dalla teoria si
dipana nella pratica della gastronomia. Come spiega Gianfranco Marrone:

“Come il piacere che evoca, costitutivamente composit o, il t esto della Ph. è


estremamente variegato. Discontinua nei toni, frammentaria nei discorsi, oscillante
nell’interesse, la Ph. è stata più volte considerata dalla critica un’opera mal riuscita,
priva di unità e di coerenza, estremamente povera dal punto di vista stilistico. Una
delle principali cause di questa ostilità nei confronti della Ph. deriva molto
probabilmente dalla difficoltà di collocarla entro un preciso genere di discorso: si
tratta di un’opera scientifica o letteraria? divulgativa o specialistica? È un libro di
cucina o un manuale di buone maniere? Effettivamente, già nel gioco fra titolo e
sottotitolo sembra stridere l’opposizione tra un genere scientifico qual è la
“fisiologia” e un genere filosofico qual è la “meditazione”.

Sappiamo però che ai primi dell’Ottocento le “fisiologie” si costituiscono in Francia


come specifico genere di discorso, il quale st rizza l’occhio al trattato scientifico,
salvo poi alleggerirne il tono comunicativo e diffonderne il verbo. La fisiologia, in
altre parole, è l’esito costruito di una contaminazione tra generi, dove il discorso
della scienza viene preso in carico da un enunciatore che, mimandone le forme, ne
divulga i temi, non senza una vena parodistica di fondo o, in ogni caso, una
evidente ripiego sul côté letterario.

Il che non toglie affatto al testo di B.S. la sua plausibilità teorica o la sua riuscita
letteraria: semmai le rafforza entrambe. Dietro il tono edonistico e accattivante del
discorso di B.S. si lasciano intravedere, infatti, temi e problemi di portata
antropologica, psicanalitica e semiotica ben più ampia della semplice
conversazione condotta dinanzi a degli scoiattoli grigi al Madera o a un luccio di
fiume ripieno e bagnato in salsa di gamberi. Il discorso “aimable” della Ph. è
dunque funzionale sia al tema gastronomico in quanto tale sia al modo precipuo
con cui B.S. si propone di svolgerlo. […]

Il libro rivela così una curiosa mescolanza di generi discorsivi e di stili testuali, dove
l’argomentazione, la narrazione in prima e in terza persona, il dialogo, la memoria,
la confessione intima, la trattazione dotta etc. vengono convocate e intrecciate
insieme grazie a una “prassi enunciativa” dall’esito del tutto imprevisto. In tal modo,
gli stereotipi discorsivi dati dall’uso (i generi e gli st ili) subiscono all’unisono una
deformazione coerente che finisce per produrre un nuovo genere e un nuovo stile, i
cui esiti si rivelano di primaria importanza per l’intero impianto semiotico del
volume.”(Marrone, 1998)

Il libro nella sua struttura segue un modello classico della letteratura filosofica-
scientifica che in Francia ebbe prodromi importanti come le opere di Montaigne e di
Pascal. B.S. riflette sulle cose del mondo e della cucina, proponendo una sintesi
del sapere scientifico medico dell’epoca con l’esperienza quotidiana del cibo.
Potremmo dire che l’Uomo di B.S. è in qualche misura un uomo meccanico,
organico, biologico, ma soprattutto sensoriale ed estetico, capace di costruire dalla
base della fame e della sete un universo culinario, alla ricerca di nuovi piaceri. In
fondo è egli stesso che sottolinea: “IX. La scoperta di un manicaretto nuovo fa per
la felicità del genere umano più che la scoperta di una stella.”

In queste pagine la riflessione scientifica si lega all’esperienza quotidiana fatta di


paesaggi, leccornie ed episodi di vita che tratteggiano la realtà della cucina dell’alta
borghesia e della nobiltà francese a cavallo dell’Ottocento: questa commistione è il
tratto stilistico più importante di quest’opera che di fatto, come suggerisce Marrone,
crea e consolida il genere semi-serio delle “fisiologie” particolarmente in voga tra
Sette ed Ottocento.
Elementi di cucina e società.
Se le teorie, le fonti scientifiche che B.S. usa nel suo lavoro chiaramente ci parlano
dell’affermarsi del pensiero naturalista nella cultura borghese, segnale
dell’emergente positivismo, è il materiale vivo dell’esperienza quotidiana che meglio
ci racconta di un momento particolarmente vibrante per la società e la cucina
francese. Laddove gli ultimi decenni dell’Ancient Regime videro a Parigi la nascita
dei moderni ristoranti, rompendo il modello di norme e privilegi legati al sistema
delle gilde medievali, ancora più che mai vive nella Francia di Voltaire, Diderot e
Rousseau (MacDonough, 2006 [1992], pp. 93-98), è la Rivoluzione a dar vita ad
una nuova letteratura incentrata sul tema del cibo e del dove e come consumarlo al
meglio. In particolare fu Alexandre-Balthazar-Laurent Grimod de La Reynière il
padre di questo nuovo modo di occuparsi del cibo con il suo Almanach des
gourmands. Era il 1803 quando la prima edizione di questo almanacco vide la luce:
un momento di transizione sociale e culturale che Grimod non manca di notare
nell’introduzione del suo volume:

“Lo sconvolgimento avvenuto nella distribuzione della ricchezza, risultato naturale


della Rivoluzione, ha trasferito vecchie fortune in nuove mani. Poiché la mentalità di
questi improvvisi milionari ruota attorno a piaceri puramente animali, si pensa di
poter rendere loro un servigio offrendogli una guida attendibile a quella parte così
materiale dei loro affetti. Il cuore della grande maggioranza dei ricchi parigini si è
trasformato di colpo in gola, i loro sentimenti non sono altro che sensazioni, i loro
desideri appetiti; è dunque con l’idea di servirli nel più utile dei modi che offriamo
loro, in queste poche pagine, il miglior modo possibile di trarre il massimo profitto
dai loro gusti e dalle loro tasche” (traduzione del testo originale estrapolata da:
MacDonough, 2006 [1992], p. 237)

A fronte di questa nuova umanità, descritta con toni sprezzanti, Grimod offre il
primo esempio di quello che diverrà noto come giornalismo gastronomico:
recensioni, approfondimenti, consigli su prodotti e produzioni delle provincie e del
vasto mondo, spesso sconosciuti alla borghesia parigina desiderosa di assaporare i
nuovi-vecchi frutti dell’Impero.

Il libro di B.S. continua, con nuovi modi, questa tradizione letteraria descrivendo la
società francese di cui l’autore si distinse come attivo gourmand. I ricordi di B.S. ci
mettono in luce un mondo in transizioni in cui antiche delicatezze – quali dolciumi,
vini e liquori custoditi e prodotti nei conventi – scomparivano sotto la scure della
Rivoluzione, soppiantati da nuove ricette, nuove geografie di cibi e nuovi modi di
mangiare. In questo memoriale gastronomico, B.S. mette in luce un gusto verso la
cucina che predilige il prodotto locale e stagionale. Laddove nel mercato delle
stoffe, dei tappeti, dell’abbigliamento iniziava a farsi strada un nuovo modo di
intendere la qualità non curante delle specificità locali (Spooner, 1986), la
gastronomia di inizio Ottocento è ancora profondamente legata al particulares delle
produzioni locali, ma è tutto fuorché a chilometro zero: il buongustaio parigino
voleva conoscere, gustare ed avere sulla sua tavola le delicatezze più particolari e
cercava il modo di gustarle ad ogni costo.

Al di là dei prodotti, l’opera di B.S. offre interessanti spunti per comprendere la


quotidianità delle preparazioni alimentari, discutendo ed investigando i metodi di
cottura più in uso nella Parigi del primo Ottocento: bollitura, frittura, arrostitura. La
Fisiologia si apre quindi ad un apprezzamento anche dei metodi più semplici, più
antichi di preparazione alimentari, quelli quotidiani per le casi borghesi, mostrando
come il gusto culinario dell’epoca si stesse allontanando dall’esotismo della cucina
di Luigi XIV e Luigi XV (MacDonough, 2006 [1992], p. 236). In un’epoca in cui
erano ancora da affermarsi i moderni fornelli a gas regolabili e i fuochi delle cucine
anche nobiliari erano lungi dall’essere domi, non stupisce che all’occhio attento
del gourmand potesse sottolineare che: “XV. Cuochi si diventa, ma rosticcieri si
nasce.”(Brillat-Savarin, 1996 [1825], p. 30)

La lezione gastronomica
È per questa varietà di informazioni che la Fisiologia può attrarre il lettore moderno,
conscio del fatto che tra le mani troverà un esperimento letterario a cavaliere tra
trattato scientifico e memoriale, e non una guida gastronomica.

Il testo nel suo complesso è chiaramente un invito a ripensare la cucina


riscoprendo nel cibo un piacere. Parlandoci di osterie e non solo di regge, ci
insegna che la buona cucina non è per sé un fatto legato alla ricchezza né tanto
meno una pratica arcana e difficile. In tal senso la cucina domestica, oggi
riscoperta e blasonata, ma fino a poco fa terreno oscoso nell’immaginario collettivo,
può offrire tutto ciò che il palato e il cuore possono richiedere. Come sottolinea
Georges Bernier:

“L’essenziale è non farsi più stupidi di quelli che si è, di non far male per principio,
secondo l’atteggiamento masochistico[…] consigliato dalla stampa femminile, di
non arrivare a tavola con un’ora di ritardo per mangiare qualcosa di crudo, molto
caro e cattivo, innaffiato con vino chimico servito in bicchieri coperti di una nobile
polvere.”(Bernier, 1996, p. 12)

A dirla quindi con Marrone, la lettura del volume offre quindi una lezione cogente
anche al presente legato al senso, al significato della gastronomia:

“La gastronomia, dunque, non è soltanto «la connaissance raisonné de tout ce qui
a rapport à l’homme, en tant qu’il se nourrit», ma è soprattutto la rivendicazione del
carattere positivo di quella “forma di vita” che è la gourmandise. Per nulla
pantagruelico o vorace, carnascialesco o ghiottone, il gourmand è colui il quale sa
approfittare delle delizie della natura per orientare l’inestetico bisogno
d’alimentazione verso un’arte del mangiar bene, sa incanalare le virtualità
inespresse della meccanica del gusto verso le gioie condivise della convivialità. Le
trasformazioni della materia alimentare in succulenti manicaretti non sono altro che
un’intensificazione del processo del gusto, il passaggio diretto dalla regione della
sensibilità a quella della socialità, dal corpo che si nutre a quello che ne
parla.” (Marrone, 1998)

È questa forse la lezione più preziosa che B.S. ci ha lasciato.

Riferimenti bibliografici
 Bernier, G. (1996). Brllat-Savarin o dello stile amabile. In A. Brillat-Savarin
(Ed.), Fisiologia del gusto ovvero Meditazioni di gastronomia trascendente.
Milano: Rizzoli.
 Brillat-Savarin, A. (1996 [1825]). Fisiologia del gusto ovvero Meditazioni di
gastronomia trascendente. Milano: Rizzoli.
 Drayton, A. (1996 [1825]). Introduction. In A. Brillat-Savarin (Ed.), The
physiology of taste. London: Penguin Books.
 MacDonough, G. (2006 [1992]). Gastronomo e giudice. Vita di Jean-
Anthelme Brillat-Savarin. Bra: Slowfood Editore.
 Marrone, G. (1998). La narrazione del gustro in Brillat-Savarin. Nouveaux
Actes sémiotiques, 55-56.
 Petrini, C. (2005). Buono, Pulito e Giusto: Principî di nuova gastronomia.
Torino: Einaudi.
 Spooner, B. (1986). Weaver and dealers: the autenticity of an oriental carpet.
In A. Appadurai (Ed.), The social life of things : commodities in cultural
perspective (pp. 3-63). Cambridge: Cambridge University Press.
[1] Una prima stesura di quest’articolo è stata presentata quale intervento per
l’evento “Al cinema con… gusto! La fisiologia del gusto” tenutosi a Parodi Ligure
(AL) il 20 settembre 2013.

[2] Esempi di questa vasta bibliografia sono: Vues et projets d’économie politique,
Paris, Giguet et Michaud, 1801; Essai historique sur le duel : d’après notre
législation et nos mœurs, Lyon, Audin, pour la Société des médecins bibliophiles,
1819; Théorie judiciaire, Paris, Huguet, 1808; Note sur l’archéologie de la partie
orientale du département de l’Ain, dans Mémoires de la Société des Antiquaires,
1820; Discours de Brillat-Savarin sur la manière d’organiser les tribunaux d’appel,
Paris, Imprimerie Nationale, 1790; De la Cour suprême, Paris, Teslut, 1814.

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