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Stefano Balassone I Mass Media fra società, potere e mercato 31/08/2010

book in progress - sezione IV Imprese nel Mercato Globale - Italia


capitolo 2: RAI
Abstract
Dalle “ragioni del Servizio Pubblico” ai movimenti del “tangopolio”. Perimetro
aziendale e ricavi

RAI ...................................................................................................................................................... 1
Il caso del servizio pubblico in Italia ....................................................................................... 1
- Indipendenza .......................................................................................................................... 1
- Innovazione............................................................................................................................ 6
-- L’”accidente” della rete di Guglielmi .................................................................................. 8
- Industria ................................................................................................................................. 9

RAI
Le azioni RAI appartengono per il 99,56% al Ministero dell’Economia e per la frazione residua alla
SIAE.
Il Consiglio di Amministrazione è nominato ogni tre anni da una Commissione Parlamentare (detta
“di Vigilanza”) con criteri di proporzionalità partitica. Il Direttore Generale è nominato dal
Governo.. La società è organizzata per settori: (Televisione, Radio, Nuovi Media, Commerciale,
Esercizio Trasmissioni)

da Rai Report 2009 le cifre fondamentali del bilancio


2009 2008
revenues totale 3.134,1 3.166,8
canone 1.629,6 1.603
pubblicità 988,5 1.187,7
varie 513,1 373,2

Ebitda 667,8 673

Personale 11.387 11.309

Il caso del servizio pubblico in Italia

La transizione dalla solitudine pubblica allo sviluppo delle imprese private è avvenuta dovunque,
tranne che in Italia, in modo pianificato, con l’obiettivo sostanziale di non perdere il controllo dello
sviluppo (in altre parole, di non aprire il varco, con uno sviluppo tumultuoso e sregolato, proprio
all’annichilimento della industria nazionale che per tutti i decenni precedenti ci si era affannati ad
evitare).
Evidentemente le ragioni del Servizio Pubblico hanno trovato in Italia fondamenta più fragili che
altrove. Per questo, è proprio esaminando la vicenda RAI che meglio si misurano tanto la
concretezza delle tre I fondative, Indipendenza, Innovazione, Industria, quanto le ragioni e le
conseguenze del loro fallimento in Italia o dovunque siano venute meno.

- Indipendenza

Per definire una posizione ideale e concreta insieme di Servizio Pubblico indipendente non abbiamo
trovato, ma non possiamo escludere che esistano, contributi italiani datati agli anni della
Rifondazione. Per questo dobbiamo ricorrere ad una elaborazione di fonte BBC, opera di Francis

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capitolo 2: RAI
Williams nell’annuario BBC del 1949 (le sottolineature sono nostre).

Il nocciolo del servizio pubblico di broadcasting ..sta nella... la responsabilità che la BBC
condivide con la stampa di informare gli ascoltatori su temi di grande importanza, e
particolarmente su quelli che sono oggetto di profonda e autentica controversia, affinché gli
ascoltatori –che sono anche membri di una democrazia- possano valutare i fatti per quanto ne sono
capaci e tentare di formarsi una ragionevole opinione.
Dato che la BBC è un servizio pubblico e un monopolio, la sua responsabilità in questo campo,
sebbene sia simile a quella di un giornale, ne differisce per un importante aspetto.
La differenza di responsabilità nasce dal fatto che si è sempre ritenuto che fosse funzione dei
grandi giornali non solo informare, ma consigliare i lettori, mediante l’editoriale, sulle questioni
pubbliche. ... La responsabilità della BBC è confinata alla prima metà di questa funzione di un
giornale –essendo specificamente e propriamente vietato in base alla carta costitutiva di mostrare
il proprio punto di vista o di trasmettere alcunché che possa somigliare a un editoriale.
Nel contempo la dimensione dell’audience impone alla BBC tanto opportunità quanto limiti la cui
natura non riguarda alcun giornale. Tutti i giornali si rivolgono ad un audience particolare i cui
gusti, interessi, competenze particolari, e abilità di comprendere temi difficili e spesso complessi
può essere stimata con ragionevole certezza. ... Non corrono il rischio di offrire ai lettori del Daily
Express un articolo più adatto al più informato pubblico del The Times, o di rivolgersi ai lettori del
Manchester Guardian con un pezzo che andrebbe benissimo nel Daily Mail.
Ben più complesso è il problema che fronteggia la BBC quando ha a che fare con gli argomenti di
rilevanza pubblica. La sua audience potenziale non è di mezzo mlione o anche di dieci milioni, ma è
quasi la totalità dei quaranta milioni di persone oltre i quattordici anni. Il denominatore comune
che deve considerare è basato sul giudizio di quasi l’intera comunità adulta- sebbene in pratica
non può sperare, perché umanamente impossibile, di trattare ogni argomento in un modo da
interessare tutti e da essere da tutti ugualmente compreso.... Una difficoltà ulteriore, per giunta,
sorge dalla natura stessa dell’ascoltare. È il problema dell’ascoltatore parzialmente attento. La
gran parte dell’ascolto della radio, ... è la famiglia o l’ascolto di gruppo. In un gran numero di casi
la radio è accesa in funzione di sottofondo di altre attività capaci di distrarre in diversa misura. Il
ché funziona perfettamente per un sottofondo di musica leggera, con programmi come “Have a
Go” o con “Quiz” in cui il gruppo d’ascolto ha la sensazione di partecipare alle dinamiche in
altro gruppo, o con show o opere a carattere popolare; ma non fornisce un contesto soddisfacente
per una conversazione di tipo serio che richiede una adeguata quantità di concentrazione da parte
di chi ascolta. E infine c’è il problema in cui si imbatte chiunque voglia comunicare idee o
informazioni al pubblico. È il problema non solo di trattenere, ma prima ancora di attrarre la
attenzione. Un giornale fa specifico appello a una audience particolare e può richiamare la
attenzione con accorgimenti tipografici; inoltre può fare affermare personaggi-star che possono
attrarre una audience da se stessi su qualsiasi soggetto, entro un certo margine di oscillazione, del
quale possano scrivere o parlare.... Le radio Americane hanno fatto grande uso di questo stesso
fatto nel costruire commentatori-star.
La BBC in larghissima misura si nega questi mezzi per attrarre gli ascoltatori, sebbene li adotti in
larghissima misura nel campo dell’entertainment e in quel settore abbia affermato molti conduttori
con un largo seguito personale ... temendo da un lato che un commentatore professionale fisso nel
campo degli affari pubblici possa sembrare come colui che esprime il punto di vista della BBC
stessa... ma anche... perché egli per il fatto di essere bravo a comunicare con la radio potrebbe
divenire una figura di rilevo politico.

Questi principi e queste prassi erano propri della RAI di allora? Per rispondere sarebbe necessario
riascoltare i programmi dell’epoca. Nell’attesa di riuscire a farlo, possiamo però osservare che la
indipendenza del Servizio Pubblico non era considerata nella elaborazione di alcuni dei maggiori

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intellettuali del tempo come un valore in sé, tant’è che su di essa non si soffermavano preferendo
invece guardare alle “cose da fare”. Due contributi particolarmente limpidi risalgono a Jemolo e
Garosci.
Arturo Carlo Jemolo 1 scrive nel 1954 per l’annuario della RAI (nell’immediato dopoguerra ne era
stato Presidente) le righe che di seguito riportiamo (le sottolineature sono nostre):
Il cammino della civiltà è contrassegnato da un aumento costante di bisogni; e direi altresì che la
qualifica di una civiltà sia data dalla natura, materiale, intellettuale o spirituale, dei bisogni che
essa fa più sentire: una civiltà del libro e dell'opera d'arte la direi più in alto di una dove la nota
dominante siano i giochi del circo; e più in alto ancora porrei una civiltà contrassegnata dalla
meditazione, dall'assillo della scoperta delle verità morali.
Jemolo è un giurista di formazione cattolica. Lo definiremmo un “progressista” o un “conservatore
strutturato”, nel senso che ordina le civiltà dal basso all'alto, dalla carne allo spirito. Ecco perché ...
un regime politico non suole limitarsi al soddisfacimento dei bisogni che già esistano, ma ha pure
la preoccupazione di coadiuvare a quell'incremento della civiltà che, come si è detto, è
contraddistinto dal sorgere di sempre nuove esigenze; lo Stato moderno è educatore: non tirannico,
non molesto, ma educatore; e l'uomo di Stato sovrasta alla massa, proprio in quanto contribuisce a
educarla ed a dirigerla, a farle lentamente sentire bisogni nuovi, a disintossicarla da esigenze che
consistevano nell'appagamento d'istinti o crudeli o non meritevoli di approvazione (penso all'opera
di bene che compirebbe un uomo di Stato spagnolo disabituandosi lentamente il suo popolo dalle
corride, od uno italiano sopprimendo il lotto ed allontanando il nostro popolo da ogni aspirazione
a conseguire la ricchezza attraverso la scommessa ed il gioco del caso, od uno tedesco,
allontanando la gioventù universitaria dagli usi delle corporazioni cui sta tornando, “mensur” 2
anzitutto).
Qui lo Stato Etico di natura dispotica lascia il passo allo Stato Pedagogo, più lungimirante che
tollerante. Sia l’uno sia l’altro postulano élites che hanno il diritto-dovere di formare al meglio gli
altri, mediante l’esempio, la scuola, la comunicazione. L’Utopia Formativa non era ovviamente solo
di Jemolo nè solo dei cattolici, ma ne erano intrise le società dell’Europa Continentale, anche come
rimedio al pericolo alle lacerazioni etniche e agli scontri nazionalistici che avevano appena
devastato il continente. Allo scatenamento settoriale veniva contrapposta la saldezza della comunità
Il bisogno delle radioaudizioni, cioè di un nuovo mezzo al tempo stesso d'informazione e di
partecipazione alla vita culturale e artistica, ... credo che sia stato uno degli avvenimenti che più
s'imporranno alla attenzione degli storici futuri.
Invero con esso da un lato si è dato un ulteriore colpo a certe barriere d'isolamento d'individui, di
paesi, di ceti, che già il giornale, il cinematografo, avevano attaccato, ma non in modo così
decisivo. Da noi, dovunque c'è un caffeuccio con un altoparlante, ma presso altri popoli quasi
dovunque c'è una casa 3, non concependosi casa senza attacco di energia elettrica e senza radio, le
notizie arrivano immediatamente. E queste stesse notizie, dovunque diffuse con le medesime parole,
creano quegl'interessi comuni che sono uno degli strumenti di fusione sociale, che mancavano
quasi del tutto in altri secoli. ... non è l'ambito politico quello dove più opera il nuovo bisogno che
la radio è venuta a costituire; dove più essa incide, è nel rompere, come già ho accennato, barriere
d'isolamento, e di accentuare quella caratteristica della vita contemporanea che consiste in una
comunità d'interessi tra i vari strati della popolazione, che fu del tutto ignota ancora a generazioni
assai prossime alla nostra. La difesa dell'ascoltatore di ricercare il programma e la parte di
programma che più interessa è una difesa relativa: nella casa sono persone con curiosità diverse;
la notizia sportiva finisce d'imporsi a chi mai avrebbe comprato un giornale sportivo, quella
politica al giovane che non avrebbe ombra d'interessi politici.

1
Arturo Carlo Jemolo (Roma, 17 gennaio 1891 – Roma, 12 maggio 1981) è stato un giurista e storico italiano
2 duello alla sciabola tra studenti universitari
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Jemolo scrive quando l’energia elettrica ancora non arriva nelle campagne, dove risiede allora gran parte della
popolazione.

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Osserviamo che Jemolo sa spiegare l’ascolto di gruppo, caratteristico dei radio e tv set casalinghi,
anche dopo la moltiplicazione degli apparati in tutte le stanze.
In teoria un servizio pubblico può venire esercitato simultaneamente da più enti....MA..... di fronte
ad un servizio come la radio quella dispersione di ricchezza e di energie sarebbe particolarmente
impressionante: perché delle radio in concorrenza non potrebbero essere che radio eminentemente
pubblicitarie, o radio al servizio di grandi organizzazioni industriali, o confessionali o politiche.
Qui Jemolo paventa la balcanizzazione del sistema radiotelevisivo come risultato della molteplicità
delle proprietà qualora esso dipendesse dalla pubblicità anziché da una risorsa pubblica.
L'argomento verrà ripreso spesso e da molti per giustificare in quanto “male minore” la esistenza
del monopolio RAI nella radio e nella tv. Ma va detto fin d’ora che non era il valore dell'argomento
di Jemolo a limitare il peso strategico della pubblicità, ma lo stesso carattere a-pubblicitario delle
industrie italiane, assestate in quanto oligopoli su un sistema di comparaggi distributivi (che
rendevano la pubblicità superflua) e spesso (a partire dalla FIAT) proprietarie di organi di stampa
dei quali conveniva preservare i ricavi contenendo radio e tv in un ambito “pubblico”
commercialmente inoffensivo.
E veniamo all’argomentazione culminante del discorso di Jemolo: come definire la qualità dei
programmi?...
le difficoltà s'intensificano; perché si tratta di conciliare i gusti di oltre due milioni 4 di famiglie
italiane, circa un quarto della popolazione 5, forse un po' più tenuto conto degli ascoltatori in
pubblici locali; persone di età, di posizioni, di gusti svariatissimi.
La legge della maggioranza?
Tutti i rilievi e le osservazioni od inchieste lasciano sempre nel dubbio che la maggioranza sia
effettivamente identificata; ma poi sarebbe giusto accettare questo verdetto della maggioranza
quale esso fosse? Servizio pubblico, quindi con elementi d'interesse generale; e la radio deve essere
strumento di educazione e di elevazione, deve proporsi pure di formare il cittadino che si occupi
della cosa pubblica, il buon cittadino. Se la maggioranza affermasse che desidera solo notizie
sportive, ma non già di conoscere cosa si delibera nei consessi internazionali o cosa si discute in
Parlamento, o dichiarasse di non voler sentire musica che non abbia già il suffragio di almeno
sessant'anni di successo e di voler ignorare ogni musica di autori viventi o morti da poco, non
sembra che questa maggioranza potrebbe imporsi.
Già nell'ambito del teatro lirico e drammatico, e delle stesse bande comunali, si affermarono e
meritano di essere ricordati solo quegli impresari e quei direttori che seppero tenere testa al gusto
del pubblico, e fare ascoltare opere e drammi nuovi, e vincere i misoneismi. Ma quanto più questo
è vero per la radio.
Qui sta la estrema delicatezza del compito dei dirigenti di questa. Tenersi lontano da Scilla e
Cariddi: dal sottostare al gusto dei più, senza controllarlo, rischiando di ripetere all'infinito le
vecchie opere, di dare troppo posto alla canzonetta, alla vecchia operetta, alle più sdolcinate
melodie, alle riduzioni di dolciastre commedie ultimo Ottocento e primo Novecento, o invece dal
lasciarsi assorbire da ristrette cerchie di compositori e di critici, che potranno essere meritevoli di
ogni rispetto, ma che rappresentano un unico indirizzo il quale potrà anche rappresentare un
giorno nella storia della musica o del teatro una via che non ebbe sbocchi. Qui c'è modo di dare
prova di equanimità, di sacrificio delle proprie preferenze, per contemperare le tendenze diverse, il
vecchio e il nuovo, i vari indirizzi, quasi sempre ostili tra loro, che rappresentano il nuovo; per
dare accesso al microfono al maggior numero di persone, di tendenze diverse.

4 È la cifra del 1952, praticamente uguale a quella del 1939


5 Il dato è errato perché negli anni '50, su una popolazione di circa 45 milioni, le famiglie erano circa 14 milioni. In
sostanza, gli abbonamenti arrivavano non a un quarto, ma appena a un settimo della popolazione. E cioé a quella
media borghesia che, grosso modo, viveva nello stesso orizzonte culturale di Jemolo, pronta ad accogliere chi, dagli
strati inferiori della società venisse a rinforzarne i ranghi e ad indossarne i valori, ma ostile alla emersione delle
visioni “volgari” in quanto tali.

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Formazione dell’individuo e coesione della comunità sono dunque per Jemolo le stelle di
riferimento per la navigazione del Servizio Pubblico. Il secondo contributo viene formulato da Aldo
Garosci 6, sempre nel 1954.
Il principale effetto sociale della radio mi sembra sia stato fin qui la sua enorme funzione
uguagliatrice dei gusti, dei bisogni, degli interessi degli uomini viventi in comunità. Quel minimo di
unità, di conformità, senza di cui non c'è vita democratica, anzi neppur vita sociale “tout court”, la
radio lo crea largamente e prontamente.... A quella che era una volta la risposta perentoria data a
chi dubitava d'una notizia o di una voce: “Lo ha detto il ministro” (o, via via, “il sindaco, il
capitano, il parroco”) si è sostituita adesso, nei periodi oscuri, in cui manca ogni certezza, un'altra
asserzione, non meno perentoria: “Lo ha detto la radio”: e la radio ha infatti combattuto e
combatte con gli uni e con gli altri, con il bene e con il male, e dove c'è un'opinione non
organizzata essa assume spesso la funzione di autorità senza appello.
In altre parole, la radio dà la parola agli strati più emotivi, meno organizzati, meno definitamente
attivi della popolazione, ai sentimenti più elementari, ai bisogni più comuni; o. per essere più
precisi, prende la parola per essi. .... In altre parole, la radio si inserisce nel generale processo di
razionalizzazione, di industrializzazione, di creazione di un unico “mercato” di notizie e di piaceri,
a cui, dall'era industriale in poi, molte altre invenzioni hanno portato il loro contributo. Da un lato,
essa confina con la stampa e adempie molti compiti che erano prima riservati ad essa; dall'altro,
essa è parallela al cinematografo e, come questo modella i gusti e le emozioni. Meno preciso è il
suo aspetto razionale di quello della stampa (che proprio per lo sforzo che esige nella lettura, per
l'impegno maggiore nella apprensione della comunicazione, ha risultati più ristretti ma di
maggiore permanenza); meno violento il suo urto emotivo di quello del cinema; ma il suo campo è
molto più ampio, essa agisce con molto maggiore immediatezza di entrambi, e opera con
simultaneità su un'estesissima zona, dove cinema e stampa penetrano solo con lentezza e operano
mediatamente.
Come in tutta la vita moderna, come in tutto il processo di unificazione e di umanizzazione della
vita, accanto agli innegabili vantaggi della generalizzazione delle conoscenze sorgono i danni e gli
inconvenienti. ... La rapidità stessa con cui una canzone conquista il successo su scala nazionale e
spesso mondiale, il confronto brutale e immediato tra l'artista isolato e l'immenso pubblico
anonimo,le seduzioni della moda e dell'uniformità e della conformità al gusto hanno strappato
molte vocazioni al clima ovattato della provincia per gettarle in quello aspro, gelido, sferzante per i
forti, ma facile a fare appassire i virgulti, della notorietà nazionale.
Contro questo fenomeno non vale recriminare. Si può bensì curarne i mali estremi, e questo vien
fatto prestando attenzione a quelli che sono i gusti individuali del pubblico, curando programmi di
carattere specializzato, e soprattutto attraverso una direzione preoccupata, più che dell'immediato
successo, della rispondenza effettiva dei programmi ai bisogni, anche dei bisogni più umili, e
assicurando una larga partecipazione anche alle figure minori e più originali, rispetto al
“divismo”.
Questa è la ragione essenziale per cui nei paesi europei la radio è stata quasi dappertutto
considerata funzione di Stato e non funzione strettamente privata, né industria da legare alla
pubblicità commerciale. Funzione di Stato e controllo pubblico comportano, in regime
democratico, una certa preoccupazione di valori culturali e non strettamente utilitari, e questa
dovrebbe giocare a favore delle classi che trovano, altrimenti, scarsa espressione....e poi...
specialmente attraverso i dibattiti, le discussioni anche su temi culturali, è un modo di pensare e di
argomentare di cultura superiore che viene messo a contatto immediato anche del pubblico che
socialmente ne è stato tenuto più lontano. Ed è quindi un’occasione (rara, in un periodo come
l’attuale, in cui la tendenza della società è un po’ dappertutto quella del ripiegamento su posizioni
chiuse) a una appropriazione dello strumento culturale anche da parte di chi è partito sfavorito
sotto questo rapporto.

6 Aldo Garosci (Meana di Susa, 1907 – Roma, 3 gennaio 2000) è stato uno storico, politico e antifascista italiano

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Sommando i contributi di Jemolo e Garosci diremmo dunq ue che il Servizio Pubblico si caratterizza
per plasmare la società (Jemolo) e per dare voce (Garosci) alle classi e interessi che la logica
commerciale non è interessata ad esprimere. Rintracciamo così sia un’Idea sia un Referente sociale
mentre nulla i nostri dicono sul rapporto con il potere politico: sarà quello di autonomia radicale,
descritto da Williams per la BBC, o qualcosa d’altro? La questione verrà risolta, come vedremo, sul
campo, prima ancora che nelle leggi.
L'esordio della televisione italiana avvenne in un periodo di profondo cambiamento delle condizioni
di vita del Paese, mentre iniziava il boom economico post bellico che avrebbe terminato il suo ciclo
con la prima crisi petrolifera. Il ventennio che vede ondate di urbanizzazione e di emigrazione
interna, dal sud al nord, il trionfo dell'automobile e degli elettrodomestici, l'affermarsi dello
spaghetti-welfare (fondato più sui trasferimenti monetari che sui servizi), la prima popolarità del
termine “consumismo”.
Questa tv fu diretta dai cattolici, che dopo la Seconda Guerra Mondiale si trovarono al potere dopo
la sconfitta delle due classi dirigenti che avevano caratterizzato la storia dell’Italia unita, i liberali e
i nazionalisti (in salsa fascista) e rispetto ai quali i cattolici, pur fra molti compromessi,avevano
mantenuto sostanziali distinzioni. Avevano, ad esempio, sempre lamentato il carattere non popolare
del risorgimento e si sentivano impegnati ad allargare i fondamenti sociali della unità nazionale.
Aggiungiamo che in quanto cattolici erano particolarmente avvertiti ai temi della comunicazione,
della parola, dei media. E così impegnarono nel settore della nascente tv il meglio dei loro
intellettuali (Motta, Gennarini, Bernabei, Fabiani e numerosi altri) per fare più che la tv per l’Italia,
l’Italia stessa. In ciò stava tanto la grandezza quanto il limite del progetto. La grandezza produceva
entusiasmo, ma rispetto al Governo non c’era indipendenza, bensì sintonia. Un ente indipendente
può bensì trovarsi in sintonia con il Governo, e ciò comporta nell’immediato grandi vantaggi,
finanziamenti, scorciatoie di ogni tipo fra cui, non da ultimo, una qualche indifferenza rispetto ai
temi del bilancio, potendo contare comunque sul soccorso della politica. Ma la organizzazione che
contrae i vantaggi della sintonia, prima o poi non potrà non soffrire dei vizi della dipendenza e
diventare un replicante, privo di capacità di autonoma lettura del mondo. Col risultato che il
Servizio Pubblico risulti culturalmente sterile e che esso fallisca, presto o tardi, anche la seconda
delle sue missioni costitutive, quella della Innovazione e finisca con il perdere i contatti con la
realtà del Paese anziché accompagnarne o addirittura precederne gli sviluppi.

- Innovazione

Le trasmissioni del monopolio RAI iniziano nel 1954 e in capo a due anni raggiungono tutto il
territorio italiano. Il televisore sta nel salotto buono, accanto alla radio e al grammofono, e le
famiglie aspettano fino al tardo pomeriggio il crescendo di Rossini che inizia le trasmissioni. A
mezzanotte un altro brano, dai suoni soffici, manda tutti a dormire. Sei ore di trasmissione per un
esordio alla chetichella e con le briglie tirate per non rubare troppo pubblico ai media preesistenti.
Ma c'è poco da moderarsi. La tv infatti:
è un miracolo tecnologico, per gente che ancora prova meraviglia per il cinema e per la radio;
come ultima arrivata, trae vantaggio del lavoro di chi c'era prima, convertendo al piccolo schermo
film, testi teatrali, riviste, gag, trame, autori e attori;
non ha da farsi le ossa, perché si muove nel solco delle collaudate tv americane e della tv inglese.
Mike Buongiorno è l'uomo ponte che introduce in Italia i format USA, da ”Arrivi e Partenze”,
rubrica sui VIP che vanno e vengono, a “Lascia o Raddoppia”, che conquista perfino le sale
cinematografiche, interrompendo il film per evitare che gli spettatori se ne stassero a casa davanti al
televisore. Dalla BBC si imita lo sceneggiato, frutto del romanzo degli ultimi due secoli;
sfrutta al meglio, lo sport, anche grazie a eventi come il Giro d'Italia, dalla struttura seriale a tappe
come una telenovela;
si fa forte in occasione delle catastrofi, (alluvioni, terremoti, stragi), mai prima d’allora vissute in
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diretta.

Grande successo della tv, dunque. Ma non tutti correvano a comprarla. Si ripeteva, a trenta anni di
distanza, il ritardo che già notavamo per la radio
Gli abbonamenti aumentavano, come si vede nella tabella seguente che ne riporta la serie fino agli
anni recenti,
Abbonati RF Abbonati TV Abbonati TV
Anno Abbonati Anno Abbonati Anno Abbonati
1927 40.778 1954 88.675 1981 14.074.687
1928 61.458 1955 182.416 1982 14.224.820
1929 99.146 1956 376.525 1983 14.376.480
1930 176.332 1957 693.604 1984 14.460.468
1931 240.824 1958 1.127.704 1985 14.521.250
1932 303.273 1959 1.618.979 1986 14.605.448
1933 369.690 1960 2.213.336 1987 14.687.126
1934 438.738 1961 2.866.125 1988 14.717.013
1935 535.971 1962 3.592.328 1989 14.851.310
1936 682.656 1963 4.448.250 1990 15.001.516
1937 822.871 1964 5.382.354 1991 15.094.495
1938 997.295 1965 6.175.278 1992 15.267.171
1939 1.169.939 1966 6.994.984 1993 15.675.302
1940 1.375.205 1967 7.816.903 1994 15.863.701
1941 1.638.317 1968 8.559.857 1995 16.091.345
1942 1.827.950 1969 9.265.360
1943 1.784.246 1970 9.979.001
1944 1.608.247 1971 10.642.962
1945 1.646.466 1972 11.268.924
1946 1.850.479 1973 11.800.207
1947 2.011.454 1974 12.243.563
1948 2.242.507 1975 12.489.822
1949 2.611.330 1976 12.748.566
1950 3.167.698 1977 13.094.022
1951 3.703.141 1978 13.415.514
1952 4.222.532 1979 13.707.538
1953 4.761.032 1980 13.982.841

ma tutto sommato assai gradualmente. Ancora all'inizio degli anni '70 (cioé a quasi vent’anni dagli
esordi, quando già la tv aveva trasmesso lo sbarco sulla Luna) riguardavano solo la metà delle
famiglie. Forse perché un televisore costava due mesi di salario e la energia elettrica non
raggiungeva tutte le campagne. In compenso chi non possedeva la tv poteva vederla a casa dei
vicini più benestanti, ma si trattava comunque di un fatto urbano e saltuario.
La platea stabile, quella di riferimento, era così costituita dagli effettivi abbonati e cioé da
professionisti, commercianti, impiegati: i cosiddetti ceti colti, ovvero persone che condividevano gli
orizzonti di reddito, educazione, cultura e valori con gli stessi dirigenti e autori che pensavano e
realizzavano i programmi. Esemplare il caso di “Non è mai troppo tardi”, la rubrica pomeridiana
che svolgeva il programma della scuola elementare (quella d'obbligo allora). Di certo non
alfabetizzò nessuno, ma proclamava che l'alfabetizzazione era il mezzo necessario e sufficiente per
essere accolti a pieno titolo nella comunità-Paese.
Il Maestro, in sostanza, era parte di un più generale progetto di televisione che era
contemporaneamente elitario e paternalista, narcisistico per le elites, pedagogico per gli altri e
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capitolo 2: RAI
dunque, a-nazionale nella sostanza..
L'Italia “colta” era centrata sul lavoro dipendente, la fucina degli uomini e delle donne “nuovi”
generati dal secolo breve, neo libertini o neo bigotti, ma comunque generati dalle stesse forze che
avevano definito le classi, i sindacati, i partiti di idee. I barbari erano costituiti da quello che c'era
prima e da sempre e che continuava a riprodursi entro relazioni sociali, strutture di senso e passioni
ben più antiche della rivoluzione industriale. Per questi uomini e queste donne, esterni al mondo dei
sindacati, della politica, della grande impresa, il '900, breve o lungo che fosse, era un secolo
qualsiasi, nel quale individualmente si affannavano lungo percorsi di sempre, inseguendo amore,
famiglia, prestigio, valori della cui perennità e priorità non avevano mai avuto occasione di
dubitare. La linea di confine tra “loro” e gli “altri” a volte correva gli individui, più spesso passava
dentro gli individui. Erano comunque due universi estranei. Da un lato chi affidava il suo livello di
vita alle acquisizioni della fase socialdemocratica, finanziate dalle tasse. Un'Italia non a caso
sensibile alla solidità dei conti pubblici e che non per caso in seguito ha amato i padri severi, alla
Ciampi. Dall’altro un mondo affollato di individui e “famiglie”, dalle partite IVA ai protagonisti
della economia sommersa, fino ai clan radicati territorialmente. È la parte, direbbe McLuhan,
tribale del Paese, quella la cui esistenza sociale è una estensione della vita familiare, che non
subordina la vita familiare all’individualismo, ma semmai il contrario. Un’Italia che non vede
ragione di contribuire alla tenuta di conti pubblici dalle cui sorti non dipende, mese per mese, la
propria personale condizione; che il secolo breve non lo ha vissuto: che non ha goduto delle sue
conquiste; che ritiene ingiusto farsi carico della sua crisi.
Su questa Italia le illusioni pedagogiche del monopolio RAI sono scivolate come l'olio sull'acqua

La componente “barbara” esce dal rimosso e si rivela anche agli osservatori più riottosi, quando il
telecomando, le tv commerciali e il sismografo Auditel le danno l'occasione di segnalare la propria
esistenza e i propri gusti. Datano da allora le litanie sulla “dittatura dell'indice di ascolto”, le
aspirazioni al Qualitel contrapposto all’Auditel, e via lamentando e sospirando il bel tempo perduto.

A differenza della RAI del monopolio, la tv che si è formato per via deregolata, ha assunto la esatta
forma dei ceti rimossi dalla tv precedente. E la RAI ha perduto definitivamente la possibilità di
rivelare l’Italia all’Italia, mettendosene alla testa anziché, d’allora in poi, rincorrendola un pò
goffamente. Tanto che oggi, se si confronta la composizione per classi di età del pubblico di Rai 1 e
di Canale 5 (ottobre 2008) si nota che a fare massa per la Rai sono, essenzialmente e residualmente,
le classi di età sopra i 65 anni. A fare audience per Canale 5 contribuiscono invece in modo
equilibrato tutte, proprio tutte, le classi di età.

-- L’”accidente” della rete di Guglielmi

C'è stato, è vero, un periodo, alla fine degli anni '80, in cui fra l'individuo “lavoratore”,
rappresentato dalla RAI e l'individuo “consumatore” espresso da Mediaset, pareva che, almeno a
livello della la tv, potesse crearsi un rimescolamento anziché una contrapposizione. I partiti di
massa stavano tramontando e c'era un'aria diffusa da “rompete le righe”. Quel momento e quella
opportunità furoni colti, in particolare dalla Terza Rete di Angelo Gugliemi che dovendosi costruire
da zero procedeva per tentativi ed era più sensibile ai segnali “deboli”, cioé non codificati nelle
visioni “legittimate”, che venivano dal pubblico. Guglielmi e i suoi inoltre, grazie alla solidità delle
culture di provenienza, riuscivano a esprimere lingue e formule nuove che parlavano anche alle
mentalità più lontane e agli stili di vita che stavano emergendo fuori dal velo della Illusione
Pedagogica. Il favore ottenuto rapidamente da quella Rete sembra suggerire che non fosse scontato
che l'Italia si dividesse rozzamente in due parti identificate dalla reciproca contrapposizione, l'una
con i pensieri di un mondo al tramonto, l'altra felice di vederlo finalmente tramontare. La TV
poteva dare una mano a trovare una via d'uscita nazionale. Ma non sempre si verifica ciò che è
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possibile e auspicabile. E così l'occasione non fu colta. Anzi. La Terza Rete era un outsider, quasi
un corpo estraneo, nella stessa RAI e, per quanto nessuno ne contestasse il successo, gli staheholder
che storicamente controllano i destini dell'azienda (politici, giornalisti, produttori di film) alla prima
occasione se ne sbarazzarono ricorrendo al semplice gesto di “normalizzarla” e cioé di rispettare il
guscio e perpetuare i format di programma (che infatti vanno ancora in onda sulla rete stessa –ad es.
“Chi l’ha visto?”o sono stati spostati a irrobustire altri canali – ad es. “Quelli che il calcio…”), ma
privandola dell'anima perché il gruppo dirigente che li aveva creati venne disperso insieme con il
suo specifico know how, che era unico nel panorama televisivo e culturale perché come la tv
commerciale rifuggiva dalla pedagogia, ma aveva basi culturali abbastanza forti e feconde da non
ridurre la strategia di programmazione alla applicazione di banali tecniche di marketing. A tirare le
somme, si può affermare che la Terza Rete aveva il suo unico punto di forza nell'apprezzamento del
pubblico. Il mondo dei cosiddetti Poteri era invece sostanzialmente ostile alla sua insorgenza
culturale contro le ideologie tanto della politica vecchia quanto dell’antipolitica “nuova”. Poiché la
tv non è cosa diversa dal Paese, possiamo essere certi che anche in molti altri comparti della vita
culturale e politica si sia verificata una situazione analoga in cui a dirla in breve- il peggio l'ha avuta
vinta. Anche da qui, pensiamo, trae origine la progressiva desertificazione culturale della politica,
che a forza di sbarazzarsi dei fenomeni che la inquietano si è ridotta a tecnica burocratica a pro' di
rentiers delle istituzioni, capaci di abitarle, ma non di cogliere l'anima del Paese e tantomeno di
farsene riconoscere la leadership.

- Industria

Che i mass media siano industria e che un Servizio Pubblico, nei Paesi di dimensioni adeguate
(come Italia, Inghilterra, Francia e Spagna), debba costituire fattore di sviluppo industriale, era ben
noto molto prima che l’intrattenimento e l’educazione divenissero le attività a più alta e costante
crescita di tutto il mondo. Così non fu per caso che verso la fine degli anni ’60 la fazione della
maggioranza governativa che guidava la RAI ne vagheggiò una sorta di centralità sullo stile di un
Gruppo Integrato 7. Ma la cosa presto si arenò fra i timori degli editori di perdere spazi a favore del
nuovo temuto Moloch nazionale e, gratta gratta, il sostanziale disinteresse dei professionisti politici
per le questioni di strategia, compresa quella industriale.
Dopodiché il tempo della centralità RAI passò del tutto perché le multinazionali del consumo di
massa e il mondo della pubblicità determinarono (con l’acquiscenza della maggior parte dei
deputati e senatori) l’esplosione delle “tv libere”, che rendeva impossibile la pianificazione dello
sviluppo. Il risultato fu, da un anno all’altro, di:
svuotare i cinema, perché i film inondarono di colpo la tv;
dirottare al sistema di Hollywood circa un terzo di tutti i ricavi pubblicitari, perché solo gli USA
potevano fornire tanto prodotto da riempire i palinsesti dilatati all’improvviso sia nel numero sia
nella durata giornaliera;
dimezzare i ricavi alla stampa, risucchiando sulla tv la parte di cui fino allora aveva goduto solo in
virtù della assenza delle tv commerciali (i ricavi consentiti alla RAI erano decisi anno per anno da
una Commissione di Parlamentari ed Editori di giornali);
ridurre il servizio pubblico al ruolo di elemento complementare, garante del monopolio rapidamente
condensatosi nel campo privato
dimezzare la dimensione produttiva del sistema dell’audiovisivo italiano. Questo infatti, perse gli
introiti “propri” delle sale cinematografiche, nonché la produzione degli spot di Carosello, che fu
abolito proprio a fine anni ’70 in quanto estraneo agli schemi operativi del marketing globale;

Dopo queste vicende la RAI ha badato più a sopravvivere che a vivere, salvo per un tentativo,

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il relativo studio di fattibilità fu svolto da te esperti: De Rita, Martinoli, Bruno

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andato a vuoto, di ricollocazione strategica che risale al 1998. In quell’anno il CDA RAI lancia
infatti la divisionalizzazione, e cioé una organizzazione che predisponeva la RAI a distinguere il
canale finanziato pubblicamente (Rai 3) rispetto a quelli commerciali (Rai 1 e 2). L’occasione era
fornita dalla richiesta della Commissione alla Concorrenza della Comunità Europea, allora diretta
da Mario Monti, di evitare che i finanziamenti pubblici, come il canone RAI, inquinassero il gioco
della concorrenza relativa ai ricavi pubblicitari e ai programmi a pagamento.
La RAI si divise in due correnti:
la corrente, maggioritaria, ostile alla richiesta della Commissione europea si mimetizzò dietro la
formula trasformistica dei “bollini blu”, consistente nel distinguere programma da programma a
seconda che i contenuti fossero o meno “di servizio pubblico” (restava peraltro imprecisato e
imprecisabile cosa si intendesse con questa formula). Il finanziamento dei costi di produzione
sarebbe stato in tal caso conteggiato a carico dei ricavi di canone e/o di altre sovvenzioni statali;
la corrente, estrememente minoritaria, dei favorevoli, pensava che si dovesse arrivare a distinguere,
sul modello della BBC, le singole reti e non i singoli programmi giacche in uno stesso palinsesto
non possono alternarsi strategie pubblicitarie con strategie che dalla pubblicità vogliano
prescindere. Chi cercava dall’interno della RAI un punto di leva da cui partire per scuotere
l’equilibrio della complemetarietà con Mediaset, si identificava ovviamente con questa posizione.
La divisionalizzazione decisa dal CDA, ovvero la creazione di una RAI più “commerciale” e di una
più “pubblica”, ma senza distinzioni di risorsa, fu una soluzione che permetteva di fare qualcosa
senza pregiudicare lo sbocco finale, in attesa che nel mondo politico, il vero padrone dell’azienda, si
chiarisse un orientamento pro o contro le sollecitazioni europee e dunque pro o contro la
destabilizzazione del duopolio. In una fase politica di transizione, il CDA tentò due affondi:
Il primo consistette nel portare a compimento lo scorporo delle reti di trasmissione con la
costituzione di una apposita società (Rai Way) offerta per metà al mercato. Crown Castle, uno dei
più grandi operatore del tower business fece l’offerta più alta (circa 400 milioni di euro) arrivando a
depositare la somma in attesa della ratifica del Governo. Ma questa non arrivò mai e, passate le
elezioni gli americani si ripresero i loro soldi e la RAI restò come prima;
Il secondo consistette nel chiedere al Governo l’autorizzazione a trasmettere più pubblicità, ppoiché
il lafond imposto all’azienda non derivava da un vincolo formale di legge (tant’è che parti del CDA
ritenevano possibile agire anche senza chiedere autorizzazione alcuna). Per un attimo, alla fine di
ottobre del 1999, parve che il Governo (Centro Sinistra più Udeur) reggesse il gioco. Ma il Governo
si dimise a seguito dell’esito delle elezioni Regionali e il nuovo Governo nasceva solo per preparare
le elezioni politiche e non per affrontare gatte così difficili da pelare.
Un’altra ipotesi, peraltro mai esistita nel Consiglio di Amministreazione e viva solo sulle pagine dei
giornali era costituita dalla “privatizzazione”. Essendo la meno concreta fu ovviamente la più
applaudita o temuta a seconda dei punti di vista. Perché non era e non è concreta? Innanzitutto
perché manca l’ipotetico acquirente. Non che pezzi di tv pubbliche non siano stati ceduti altrove a
privati. TF1, per fare l’esempio più adeguato, era la principale rete della ORTF francese,
esattamente l’equivalente di RAI 1. Ma allora la cordata di imprenditori francesi che comprò la
Prima Rete correva da sola ed era sicura di potersi consolidare senza rischi. Mentre quindici anni
dopo il sistema italiano - grazie alla successione di colpi di mano pudicamente chiamata “sviluppo
de-regolato”- era già esattamente quello attuale (meno Murdoch) e nessun imprenditore sarebbe
stato tanto folle da imbarcarsi, sia pure detenendo RAI 1 (ma chi poteva garantire che i pezzi forti
della programmazione sarebbero rimasti sul canale?), in una sfida a Mediaset ormai forte di 3 reti e
dunque imbattibile come capacità di conquista della pubblicità, per non parlare del ruolo politico
assunto dal proprietario. Per questo la privatizzazione della RAI era una strada inesistente: tuttavia
ancora oggi molti “eroi” si pavoneggiano per averla sventata.
Fallite anche le ipotesi più moderate di autonomia dell’impresa RAI attraverso la rottura della
complementarietà con Mediaset, non vi era alcuna possibilità che a partire proprio dalla RAI
potesse iniziare una ricostruzione della industria audiovisiva su dimensioni adeguate alla
importanza demografica, politica ed economica del Paese. Il ché sta alla base della situazione
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attuale.

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