Numerosi sono i drammatici fatti di cronaca che negli ultimi anni hanno richiamato l'attenzione degli italiani sul tema
dell'eutanasia: dal caso di Terri Schiavo, la giovane donna statunitense, da tempo in stato vegetativo persistente, per la
quale, dietro la richiesta del marito, l'autorit giudiziaria dispose la sospensione dell'alimentazione artificiale, al caso di
Piergiorgio Welby, che affetto da distrofia muscolare progressiva e costretto a respirare tramite una macchina, chiese la
sospensione delle terapie e scrisse un libro dall'eloquente titolo, Lasciatemi morire. Intanto, nel 2001, il parlamento di
una democrazia avanzata, l'Olanda, ha promulgato una legge, molto circostanziata, che, in determinate circostanze e
soddisfatte alcune precise condizioni, autorizza l'eutanasia. Si tratta di notizie che scuotono profondamente la nostra
coscienza di forte matrice cristiana, - duemila anni di storia, in un Paese che ospita il Papa conteranno pure qualcosa
nello sviluppo delle coscienze -, una cultura, la nostra, tesa fino a qualche anno fa a difendere strenuamente i valori della
sopravvivenza e di una concezione della medicina come disciplina impegnata in una lotta a oltranza contro la morte.
Inutile aggiungere che da noi il dibattito intorno alla "buona morte" e alla legittimit di sospendere in casi particolari le
cure mediche, si particolarmente acceso, radicalizzando vieppi le posizioni dei favorevoli e dei contrari.
Personalmente, credo si tratti di un problema bioetico di notevole complessit, poco adatto ai ferrei e irrinunciabili
convincimenti e che dia adito, invece, sempre secondo la mia modesta opinione, a dubbi personali, ripensamenti e
perplessit. Da un lato, la nostra educazione moderna, laica e illuminista, sensibile in sommo grado ai diritti umani, ci
porta a pensare che siamo legittimi proprietari della nostra vita, liberi di condurla come ci piace e perci anche di
interromperla quando l'esistenza ci appare troppo dolorosa o priva di significato. Come abbiamo il diritto di vivere
riteniamo di avere anche il diritto di morire. Dall'altro, la nostra anima cristiana, cattolica, romantica, che sopravvive
persino in quest'epoca di sbadata secolarizzazione, magari in forma larvata e inconscia, ma vigorosa, ci avverte che la
sfera del razionale non spiega tutto e che la vita umana possiede un valore incommensurabile e una sacralit, che
nessun dolore e nessuna disabilit autorizzano a scalfire. In alcuni momenti ci scopriamo a pensare, insomma, che non
possiamo escludere l'esistenza di un Dio cui dobbiamo rendere conto e a cui dobbiamo la vita. Sentiamo il suicidio (e
l'eutanasia , in un certo senso, una forma di suicidio) o la soppressione di un altro essere vivente, in condizioni critiche
e pur rispettando tutte le cautele del caso, come peccato. Conciliare e armonizzare questi due poli dialettici all'interno
della nostra coscienza non compito facile. Spesso la sintesi e l'equilibrio raggiunti sono provvisori e soggetti a
ripensamenti. Il dolore e la morte, poi, sono temi con cui l'uomo contemporaneo non ama intrattenersi e preferisce
rimuovere ed esorcizzare, stordendosi nell'attivismo e nel divertimento. Paradossalmente ci rende il nostro approccio a
queste esperienze rudimentale e immaturo. Ripetute ricerche confermano, ad esempio, che i medici, in Italia in
particolare, tendono a trattare il dolore fisico dovuto alle malattie in maniera inadeguata, irrazionale, "sottodosata".
Fortunatamente sta sviluppandosi anche da noi, negli ultimi anni, la medicina palliativa, capace di elaborare interventi atti
a lenire con efficacia le sofferenze dei malati cronici o terminali e in grado di contribuire a rendere pi chiaro il dibattito
sull'eutanasia. Altri studi sottolineano come l'esperienza della morte, sempre pi spesso relegata nell'indifferenza di una
corsia di ospedale, non sia mai stata cos negata, respinta, impoverita come nelle moderne societ affluenti. Ecco, forse
essere a favore dell'eutanasia, della "buona morte", nella sua forma positiva significa oggi principalmente ridare
significato e dignit ad esperienze come il dolore, la morte, la solidariet fra gli uomini. Significa farsi responsabile carico
dei problemi generati dalla sofferenza dei malati terminali di cancro o di qualche altra grave patologia, di chi costretto a
condurre un'esistenza ai limiti dell'umano. Ma i distinguo da operare sono tanti e difficilissimo generalizzare. Gli abusi
poi, sono sempre dietro l'angolo. La coscienza di familiari, medici e operatori sanitari non sempre adeguatamente
sviluppata. Gli interessi economici poi premono da ogni parte e, oggigiorno, si sa che l'onere della spesa sanitaria
giudicato insostenibile e l'assistenza a lungo termine ai malati tenuti in vita dalle prodigiose e recenti tecniche
rianimatorie comporta un onere spaventoso in termini di costi, di energie e di organizzazione.
Fonte/i:Alla societ e alle singole coscienze, invece, debbono essere richiesti sensibilit e un diffuso e sviluppato senso
di responsabilit. Per esempio: se la persona incosciente, chi decide? E qual il confine preciso fra il legittimo
intervento sanitario per salvare una vita e quello che viene definito accanimento terapeutico? In altre parole sono
diffidente verso un'eutanasia affidata alla discrezione di un comitato di medici e infermieri, ai calcoli economici degli
amministratori, agli interessi egoistici dei familiari. S, forse, a un'eutanasia voluta in modo inequivocabile e reciso dalla
persona sofferente, allo stremo, senza pi alcuna speranza, in grado di esprimere (o che aveva gi espresso attraverso
il cosiddetto "testamento biologico") una ferma e meditata volont di porre fine alla propria esistenza, date determinate
drammatiche condizioni. Pu succedere, pi di frequente di quanto si pensi, che chi soffre, anche intensamente, sia
ancora fortemente attaccato alla vita. In questo caso, penso che chi decidesse al suo posto, che giunto il momento per
l'infermo di lasciare questa terra, non gli darebbe una "buona morte", ma commetterebbe un ingiustificabile omicidio. Il
pericolo cui ci espone l'ideologia occidentale contemporanea di considerare umano soltanto chi giovane, sano e
produttivo. La malattia e la morte appartengono alla sfera dell'umano come la buona salute. Sono esperienze dense di
significato, non pesi che ci impediscono di consumare e divertirci, costi sociali da abbattere, inevitabili scorie di cui
disfarsi al pi presto
Quello che per specifico del nostro tempo il progresso delle tecniche mediche, della rianimazione, dei palliativi per
prolungare la vita (o la sopravvivenza). Fino a pochi decenni fa la morte sopraggiungeva abbastanza presto perch non
si conosceva la cura per molte malattie o per complicanze che spesso si rivelavano mortali, anche una piaga da decubito
o una polmonite potevono recare alla morte in tempi relativamente brevi.
Oggi let media della popolazione molto pi alta e non si muore quasi pi per malattie acute, ma sempre pi spesso
per malattie croniche e degenerative. La scienza medica in grado di garantire le funzioni vitali come la respirazione e
lalimentazione, nei casi in cui il paziente non sia in grado di respirare ed alimentarsi autonomamente.
A questo punto io mi chiedotutte queste tecniche di sostegno delle funzioni vitali, sono un prolungamento della vita
(sempre che possa essere chiamata vita in quelle condizioni) o solo un rimandare la morte inutilmente?
Il problema che forse nella nostra societ bella, giovane, ricca, sana (o almeno cos ci fanno credere che sia con i
bombardamenti mediatico-pubblicitari), si sia venuta a creare linconscia e malsana idea che non si debba morire
mainon riusciamo pi ad ammettere che prima o poi tutti dobbiamo morire, e quindi facciamo di tutto perch lultimo
respiro giunga il pi tardi possibile a qualunque condizione, ad ogni costo!