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2
Prologo.
Uno.
Due
Per lungo tempo ho creduto che Luigi fosse, tra i figli, il preferito. Quando l’ho udito
strillare chiara e forte la sua venuta in questo mondo, quando ho sentito le minuscole
dita che serravano il mio indice mentre, chino su di lui, ero intento a scostare la coperta
e a rassicurarmi della sua buona salute, ho pensato di essere di nuovo nato io stesso.
In quel momento, Giovannina era tenuta lontana e assistita da levatrici e donne,
chiamate in gran fretta per tirar fuori al mondo questo figlio che non voleva più
aspettare.
L’aria, intorno, profumava di caldo e di sangue. Un sangue buono, così diverso da
quello di battaglie e di morti.
“Chi è?”, ha chiesto Giacomo, in punta di piedi aggrappato alla cuna che da non molti
mesi aveva lui stesso abbandonato.
“Un fratello”, gli ho risposto, allontanando i suoi ricci scuri dalla fronte e chiedendomi
perché non avessi sentito per lui quel colpo profondo nelle viscere che mi aveva preso
davanti a Luigi.
“Chi è?”, ha chiesto ancora, e ho chiamato Mita, che venisse a prenderselo e a portarlo
nella sua stanza.
“È Luigi Ludovico”, ho risposto, mentre lo spingevo nelle braccia della balia e pensavo
a come organizzare il battesimo e a come questa nascita avesse di colpo spazzato via il
ricordo fresco della morte di mio padre.
Mita è tornata subito, sola, mi ha fatto cenno alla porta e si è avvicinata alla cuna.
“Cose per donne, non per uomini”, ha borbottato mentre si chinava sulle fasce e
sollevava il neonato, sicura che da lei avrei sopportato persino di esser cacciato dalla
stanza del mio secondogenito.
Ricordo di aver sceso piano le scale, cercando Toniola o forse Caterina. Erano ospiti da
settimane, e si stavano occupando della casa, dell’ultima sorella, e anche di mia moglie,
finché non avesse abbandonato il letto. La mia dimora cominciava ad affollarsi e io
pensavo, allora, a cosa sarebbe successo dopo qualche anno.
Sono entrato nella sala grande e mi sono seduto a capotavola. Ho osservato i posti
lasciati vuoti quello stesso anno da mio padre Zilieto e da sua moglie Franceschina. Ho
immaginato mio fratello Antonino, cresciuto, al mio fianco, e dall’altro lato Giacomo e
il nuovo arrivato, e poi gli altri che sarebbero venuti dopo di loro.
Avremmo festeggiato presto quella nascita, intorno a quel tavolo, con cosce di cervo ben
disposte sulle focacce, e altra carne arrosto, con salse di erbe verdi e spezie, e salsa
bianca agliata, mele e pere delle nostre terre e confetti con nocciole e miele e cotti nel…
“Sei qui? –, mi ha chiamato Caterina, ferma sulla soglia, la mano che stringeva la mano
di Margarita, poco più grande di Giacomo. – Tua moglie può vederti, ora”.
Mi sono alzato e sono salito a ringraziare Giovannina e, insieme a lei, Dio.
E ora, chi posso ringraziare per ciò che mi è stato tolto?
Tre
Ma se chiudo gli occhi e accosto le spalle alla parete disordinata, che ancora sembra
trattenere il calore delle spalle di Luigi; se poggio i calzari alle tavole sconnesse e le
mani sulle ginocchia, abbandonate; se respiro piano nel silenzio di questo mattino
appena nato, e alzo profondo il fiato su dai polmoni, le domande inutili si allontanano.
Rivedo, con lo sguardo del ricordo, così ingannevole, così gentile, la casa che ho
lasciato per correre a riprendermi Giacomo e a salvarlo dalle mani del duca.
Entro nell’androne annerito dall’ombra, più scura a me che arrivo dal sole caldo della
strada, salgo le scale larghe e silenziose, e spingo il legno pesante che cede e mi apre la
sala grande.
Chi sarà, a quest’ora, nella sala grande? Certo non i miei nipoti, i miei nipoti senza più
un padre, che non amano vedere le luci dell’alba. Ci sarà Toniola, che di nuovo ha
abbandonato la sua casa per tenere in piedi ciò che rimane della mia famiglia e
affiancare Giovannina nel governo della casa. Manco da nove, dieci giorni? Sarà corsa
anche Margarita, e forse suo marito Ottone l’ha accompagnata e, mentre io buco le mura
della prigione con i pensieri, mia moglie e le mie due sorelle sono sedute al lungo
tavolo, in un angolo, a tenersi le mani strette e a chiedersi quando torneranno gli uomini
di casa.
Venti gradini più su, nel solaratum, i miei nipoti ancora dormono, e le mie figlie stanno
forse vegliando. Francina saprà rassicurare la giovane Taddea, e può darsi che Leonarda,
benché sposata, abbia lasciato per qualche giorno la casa di messer Malaspina e sia
tornata a Lodi a confortare le sorelle, a ordinare di lavare bene le camisie e passeggiare
per mille passi prima di andare a dormire.
La città si sveglia, a quest’ora, e posso figurarmi che ci sia mercato e che si passi
strusciando per le vie strette mentre gli artigiani tolgon le assi alle porte e i venditori
preparano i banchi nella piazza. Si mormora e si urla, e si chiama all’acquisto, e sotto il
palazzo sfilano insieme mendicanti e ladri, truffatori e bottegai. Le donne, allora, si
affacciano e spingono fuori i servi, ché acquistino vino e carni e dolciumi per la tavola,
ché anche nella disgrazia e nel dolore il corpo chiede la sua paga, per sopravvivere.
E io sono qui, che mi perdo in strade ormai lontane, e mi figuro luoghi e sento grida
fissati nella memoria. Veloce, affiora tra i pensieri l'implorazione di Giobbe e vorrei
sapere ugualmente rimproverare Dio e invocare la maledizione sul giorno che mi ha
visto nascere. Ma più forti del vedere finire i miei giorni nell’infamia, più acuti del
tormento di vedermi strappato un figlio e di sapere prigioniero l’altro, salgono adesso,
insieme alla luce, i ricordi di quello che è stato. Di quello che sono stato.
Quattro
C’è una riva dell’Adda che si raggiunge scivolando da un pendio dolce. Ci si
sgraffignavano i palmi e le ginocchia, quando si decideva di fuggire da quelle parti, ma
il gioco valeva la pena. A pochi minuti da casa, Antonino e io potevamo perderci tra
arbusti e canne e sciacquìo leggero. Nessuno sapeva che eravamo lì, o almeno così ci
facevano credere e ci piaceva credere.
Allora, Antonino reputava io fossi un eroe. Allora, non dubitava che avrei potuto sempre
salvarlo con una sola mano, come feci quando scivolò in Adda per non dargliela vinta a
un suo trofeo, un brutto rospo rugoso che stringeva forte a sé e che, mi raccontò poi,
intendeva impalare e trasformare in segnale della sua furia combattente.
Lo salvai, Antonino, lui e il suo rospo, e gliele suonai pure, mentre tremavo per l’acqua
ghiaccia e la collera.
“Che ti è preso?” e gli mollai un ceffone prima ancora che aprisse bocca. Non che mi
aspettassi davvero una risposta, una scusa o una spiegazione. Capivo soltanto, in quel
momento, che aveva rischiato grosso. Capii solo più tardi che ciò che mi arrossava il
volto era lo spavento, non la rabbia.
È che il fiume in quel punto forma dei vortici: a guardarli, pare vogliano portarti con
loro e ti chiamano. Molto prima del giorno del rospo ho saputo di dovermi negare,
finché duravo a resistere. Ero stato più e più volte messo in allerta da balie, servi, zii e
padre. Ora toccava a me allertare mio fratello. Quello schiaffone e le lacrime che ne
derivarono mi sembrarono sufficienti.
Talvolta, però, più avanti, più grande e forte, mi sono arreso alle lusinghe dell’acqua, ho
rischiato, mi sono gettato. A volte solo, a volte con Antonino. Siamo sempre tornati vivi.
La cosa meravigliosa è che non me ne sono mai stupito: la vita, me ne convinsi presto,
era per me un dovere, un obbligo, ma innanzi tutto un regalo.
La sera, tutte le sere, poggiavo le ginocchia nude al pavimento. Per mio padre, un modo
per rafforzare il carattere; per mia madre, l’umiltà di preghiera al Signore nostro Dio.
Recitavo a memoria le litanie dovute, e alla fine ringraziavo con fervore e decisione.
Qualcuno, mi raccontavano, mi aveva donato la vita, e dovevo benedirlo. Lo facevo
convinto, ma intanto pensavo che ormai quella vita era diventata mia.
Nessuno avrebbe potuto togliermela.
Cinque
Una sera, su quella riva, mio padre mi arrivò alle spalle e poi al fianco, in piedi.
Osservavo i grandi calzari e sapevo che cosa avrei visto, levando appena lo sguardo: un
uomo pallido, che allora mi sembrava anziano, quasi pronto a morire.
Oggi, io mi sento padre a mio padre. Se lui fosse qui, nella mia cella, in piedi, alzerei gli
occhi e vedrei un uomo pieno di vigore, con i capelli ancora scuri, mentre i miei sono
grigi da tempo.
Lo ricordo, dunque, e quello che ricordo è un uomo giovane, mentre io non lo sono più.
Non sembra assurdo, e crudele? Mio padre, morto nell’anno domini 1386, non
riconoscerebbe più suo figlio in questo maschio curvo e bianco, segnato dal tempo e
dalla sofferenza.
Mi osserverebbe dall’alto, nello stesso modo in cui quel giorno, di fronte all’acqua
corrente, mi sovrastava a spiegare quello che stava accadendo nelle terre intorno e nelle
terre più lontane.
Confesso: smetto presto di ascoltarlo. Non è per superbia o per mancanza di rispetto, il
Signore me ne è testimone.
Quella volta, io non lo ascolto per leggerezza, per giovinezza, per incoscienza. Le stesse
mancanze che ho sempre rimproverato a Luigi, e a Giacomo, ma che sono state mie, un
tempo. Mio padre Zilieto non insisté, quel giorno. Ma il giorno dopo, e quello di seguito
ancora, continuò a parlarmi, a raccontarmi, a mostrarmi carte e luoghi.
“È inevitabile, figlio. Devi sapere”.
“Perché io? –, chiesi. – Perché non mio fratello Antonino?”
Era una domanda sciocca, e dunque inutile.
Riconosco ormai che sapere significa spesso vivere.
Vorrei continuare a fare gli stessi discorsi a Luigi, spiegare gli avvenimenti, le persone,
le vendette e i doppi giochi; vorrei che lui mi chiedesse, ugualmente, perché io?; e gli
risponderei, e farei il padre, indirizzerei mio figlio, gli aprirei la strada.
Taccio, invece, per non sentirmi ricordare a me stesso che è tutto inutile. Che figli, al
fianco, non ne ho più. Che le strade, avanti, son tutte sbarrate.
Adesso, prigioniero e lontano, posso soltanto ricordare.
Fare a sé stessi memoria del passato dilata i tempi, annebbia la certezza della morte. Per
qualche istante, mi riporta indietro, a un tempo in cui Luigi non morirà, ché non è
ancora di questa terra, e io non sono ancora padre, né sposo, né soldato, né destinato.
Non esisto, nemmeno nei pensieri di una madre.
Sei
In vent’anni, tra il 1334 e il 1355, i terreni del contado passano in mano a sei signori
diversi, tutti imparentati con i Visconti di Milano. Gli abitanti delle terre della Bassa,
ricche d’acque e di beni, si sentono trasmessi da un diavolo a un altro, costretti a essere
rapinati e a perdere denaro più di quanto possano guadagnarne. Singoli cittadini,
comuni, monasteri e Chiesa vengono privati di averi e terreni, in cambio di un censo
insignificante. Situazione non rara, anche nel resto del paese, ma il vescovo della zona,
proveniente da nobile famiglia, lamenta le rendite ingiustamente godute dai signori
della città lontana, al punto che i giurisperiti, esaminato il caso, proprio pochi anni
prima della nascita di Giovanni condannano i Visconti, per due volte, a restituire alla
Chiesa i beni usurpati.
Accuse, decisioni e offese, soprattutto legate a ricchezze o a speranza di ricchezza,
richiamano sempre la compagnia della vendetta. È quello che accade anche allora, e a
farne le spese è la famiglia del vescovo, i cui componenti vengono imprigionati,
minacciati di tortura e costretti a rinunciare ai feudi. E prosegue il tentativo dei signori
di Milano di controllare tutta la regione, di eliminare i privilegi dei feudatari e dei
nobili, di procurarsi in qualunque modo il denaro necessario alle guerre che li vedono
protagonisti.
Giovanni Vignati nasce nell’anno 1360, in quella zona bagnata dalle curve capricciose
dell’Adda: qua e là, il letto del fiume disegna riccioli e uncini che a poco a poco
vengono abbandonati al loro destino dalla corrente quando prende un’altra direzione.
Non si comprende se l’Adda abbia fretta di gettarsi nel grande Po o voglia invece
ritardare il più possibile l’annullamento.
Certo è che in questo angolo di terra persino la terra si muove: in essa e negli alvei
delle acque sono incise le trasformazioni e le traversie di un paesaggio che muta in
modo graduale la sua fisionomia. Il lavoro degli uomini, i terrazzamenti, le strade, le
strisce di letti antichi e le acque dei fiumi vitali disegnano fattezze che, come le rughe di
un volto umano, ricordano le sfide e le servitù della vita. Ma i ritmi sono quieti, e
visibili con fatica e con il passare dei secoli, e solo se si è in grado di volare come un
falco pescatore.
Eppure.
Eppure, nel loro dimenarsi, gli uomini si illudono di modificare durevolmente la terra
che calpestano. Di porre limiti non assegnati dalla natura, confini e distanze, chiusure e
barriere. E a volte davvero così fanno.
Il processo, nella zona come altrove, è contorto e composito. Attraversa lotte comunali,
accordi, alleanze incrociate, scontri, spalleggiamenti, sconfitte, ribellioni, riconquiste,
nascite e morti, di terre e di signori.
Sette
È l'ottobre del 1386. La luce del sole accarezza il cotto rosato e si fa rompere soltanto
dalla lieve ombra delle colonne, di lato all’entrata. Le due finestre aperte sul vuoto, là in
alto, rendono onore al loro nome e al cielo, così limpido e sereno.
Viene da pensare che non ci sia posto per pianti e lutti.
Ma io indosso l’abito della tristezza, ho il capo chino, e abbandono l’aria chiara e il sole
per entrare nella chiesa a celebrare una morte. Che penso? Alla perdita di mio padre?
Alla successione? Ai miei ventisei anni?
Nulla di tutto ciò. Osservo le mura spoglie, le navate, i passi lenti di chi mi precede, il
velo di mia sorella Toniola, che nasconde a malapena i singhiozzi. Penso che saluterò
mio padre tra le mura di un edificio sacro pagato dal nostro signore. Penso che, se il
nobile Fissiraga avesse potuto vedere i suoi denari circondare la nostra famiglia,
accoglierla, aiutarla a sopportare la definitiva partenza del vecchio Zilieto Vignati, ecco,
se avesse saputo, forse avrebbe stretto i cordoni della borsa e non avrebbe ceduto alle
lusinghe e alle preghiere del santissimo vescovo Bongiovanni.
O forse no. Forse penso male. Forse, nell’alto dei cieli, dove adesso il nuovo vescovo
spedirà mio padre per consolare noi figli della sua morte, lassù in alto scompaiono odi e
rivalità, possessi e contese.
Sospiro. Probabilmente sorrido. Lo so perché Giacomo, mio figlio, così piccolo e serio
accanto a me, mi osserva curioso; e Toniola mi guarda con aria di buio rimprovero.
Amava suo padre, lei. Amava, volevo dire, nostro padre. Crede, forse, che io non l’abbia
mai amato, che stia rallegrandomi di terre e palazzi che sono nelle mie proprie mani e,
quando sarà il momento, in quelle di Antonino.
Dovrei rassicurarla, ma mi pare troppo lo sforzo, oggi. Dovrei dirle: sii tranquilla con
me, Toniola, sono qui, sono io, e questa è la vita e questa è la morte. Dovrei ricordarle
che mi sono già visto strappare amici e affetti grandi, e che non posso ogni volta cedere
una parte di me per rimpiangerli e per soffrirne. Che adesso non ho il tempo per
addolorarmi e dispiacermi.
Meglio accettare e allontanare il pensiero e i timori. In tal modo mi perdo dietro anche il
dolore, e nemmeno di esso sento la mancanza.
Otto
Nove
Sta pensando, ora, se quella moglie bambina e quel figlio mai vissuto abbiano patito
quello che sente intorno: il caldo afoso e umido che rabbrividisce, il soffocamento di chi
vede immediati i limiti del proprio spazio fisico, la desolazione di chi si immagina e si
sente lontano da tutto e da tutti e non ha nulla da fare, perché nulla gli è concesso
operare e sperare, nella scatola bassa e petrosa della sua prigionia.
Ma è quasi felice, d’un tratto. Alza lo sguardo all’inferriata, intreccia le mani alla
schiena, offre il viso al chiarore che filtra, e sorride: improvvisamente vede la
possibilità di prendersi il tempo. Quello che gli è mancato o si è fatto mancare per
pensare i suoi pensieri, e i suoi lutti.
Vorrebbe, e si sente sciocco, vorrebbe leggere i suoi trovatori, occuparsi delle figlie,
stare coi nipoti. Vorrebbe assaporare il dolore messo sempre in un canto, e
riconoscerlo finalmente come terra straniera, che cose straniere fa fare alle nostre
menti.
Ha sempre pensato che il tempo per soffrire fosse buttato via, ma non lo è affatto. Ha
sempre creduto che fosse necessario liberarsi in fretta dal dolore, via, in fretta, più in
fretta possibile. Invece si può solo accettarlo, il dolore, tenerlo, magari aspettare che si
metta a gridare. Grida così forte, il dolore, oggi che può lasciarlo libero di scorrere e
di vivere, così forte da coprire ogni altro pensiero, da farlo camminare i pochi passi che
sono concessi, fino all’angolo in ombra e poi di nuovo a quello in luce, e ancora ombra
e luce, ombra e luce, polvere e mattina, scuro e chiaro, avanti e indietro, salvezza e
perdita, aiuto e fine.
Aiuto? Scurisce in volto. Il politico, il guerriero, allontana ancora una volta l’uomo.
Sa che non arriverà aiuto, da nessuna parte. Ognuno si guarda da sè, in quei tempi di
disordine e di confusione.
Ha visto alleanze formarsi e sciogliersi, come un panetto di burro si scioglierebbe al
sole scottante di agosto; si è messo a fianco di chi, disinvolto, gli ha poi girato le spalle
per profittare di un vantaggio di terre o di lance o di castelli.
La repubblica fiorentina lo ha sommerso di lettere, lui e gli altri signori della zona.
Trattati segreti e corrispondenze, tanto con loro quanto con i conestabili di certe bande
che avrebbero aiutato i toscani a far calca intorno ai duchi di Milano.
Razza dura a morire, quella dei Visconti. A farne solo sua memoria, Giovanni può
contare gli anni di Galeazzo e di suo fratello Bernabò, di suo nipote Gian Galeazzo con
i figli, Giovanni Maria e Filippo Maria, quello che tra poco vedrà la sua fine.
Razza meno fortunata quella del Vignati, che pure, solo una manciata di anni prima,
che a contarli servono poco più di due palmi, ha saputo imporsi e tenere con forza e
giudizio le terre della Bassa.
Dieci
È un vecchio qualunque quello che vedo passare nella piazza grande. Rasenta i portici e
conversa con un uomo alto e magro, che gli sta di fianco e lo precede di poco.
Si chiama Antonio e porta sulle spalle una mantella bruna e il nome di chi, un secolo fa,
ha mosso all'attacco di Milano, fronteggiato in campo aperto da Matteo Visconti.
Antonio Fissiraga è davanti a me. Devo ammirarlo? Devo portargli riconoscenza perché
nelle vene, in quelle vene fragili, sente scorrere il sangue di chi ha saputo, anni fa,
opporsi ai signori di Milano? Di chi è stato chiamato, allora, a comporre addirittura le
guerre fra i Bianchi e i Neri di Firenze?
Devo riverirlo perché, appena tre mesi fa, raccolto buon nerbo di gente nell’agro
intorno, l’ha fatta finita con i Visconti? Perché ha saputo manomettere le case dei
ghibellini, nostri nemici, devastandone i beni, sfondandone porte, cancelli e barricate?
Devo rispettarlo ancora, oggi, perché la città, con lui, ha scosso l’odiato giogo dei
Visconti?
Io credo di no. Io credo che ciascuno, in sé stesso, abbia il merito di ciò che fa e la colpa
di ciò che sbaglia.
Antonio Fissiraga porta un nome antico e riconosciuto, ma qui, e al presente, ha
sbagliato. Sta sbagliando. Ha ereditato dal suo avo la nobiltà del sangue e le tradizioni,
ma non la magnanimità, e l’ingegno, e la lealtà. È già pronto a riconsegnarci all’antico
servaggio de’ Visconti.
Cammino piano, metto i piedi dove lui li ha appena posati, ma so che la mia strada è
un’altra, i miei pensieri sono altri. Il mio futuro, è altro.
Anche di fianco a me. Eccolo, il mio futuro, o parte di esso. Ho portato con me
Giacomo, stavolta. Emancipato tre anni fa, ma chiuso sempre in quelle sue letture, in
quei suoi studi che sembra vogliano rinnegare ciò cui è destinato. Vero è che, quando
sono sincero con me stesso, e a volte accade, so che l’avvenire che io vedo per lui è
solo, per adesso, immaginato; voluto da me, e non da questo giovanetto, che mi
cammina vicino per dovere, per rispetto filiale, con lo sguardo perso in chissà quale
filosofia, con la sicurezza di sprecare con me il suo vero tempo.
O forse no. Forse più attento e presente di quanto io pensi, se è lui che sobbalza e mi
tocca leggero il braccio e mi indica che Antonio Fissiraga ha appena cambiato lato di
strada, e si avvicina alla piazza della chiesa.
Torno al momento, fermo Giacomo con il braccio teso a bloccargli il petto e la
camminata, osservo poco oltre l’ondeggiare della mantella chiamata a riparare le
vecchie spalle dalla nebbia di novembre, una nebbia che si infittisce con l’andare della
giornata, invece di sollevarsi e dare tregua. Cerco nell’uomo che ho davanti un segno
sicuro della sua forza, di ciò che lo ha trascinato al comando della città. Della mia città.
Assurdamente, come mi capita spesso, vorrei trovare nella carne e nelle ossa una traccia
del passato e della sorte delle persone che ho davanti; vorrei vedere Antonio che si alza
impavido e serio, pronto a lottare e deciso persino alla sconfitta, ma con dignità, forza,
grandezza, d’animo e di statura. Oppure, vorrei scoprirlo già debole e incerto nella
camminata, nei gesti, nella curva accentuata del dorso, quasi presago della fine.
Niente di ciò che mi aspetto. È un vecchio qualunque quello che vedo passare. Ma è lui,
ed è segnato.
Arrivano dalla strada alla mia destra Erasmo e Betono, mi si affiancano e mi guardano
seri, ignorando mio figlio. Io accenno poco oltre. Mi superano e si accostano ai due.
Antonio Fissiraga e il suo compare salutano, senza far mostra di nulla. Entrano tutti
nella chiesa di San Francesco, dove, lo so, sono in attesa gli altri. La fazione guelfa è
pronta a ricevere la sua vecchia guida, e a offrirgli il definitivo comando della città.
Ma Antonio è sciocco, e crede di potersi adagiare sul biscione dei Visconti. Immagino,
seguo, da qui fuori, i suoi ragionamenti, le sue difese. Penserà, dirà, che non è il
momento di battersi contro i Visconti di Milano. Spiegherà che non è d’uopo fidarsi dei
fiorentini, e neppure degli Estensi e dei Carraresi. Parlerà di uomini e di lance, di guerra
e di pace.
Gli diranno che i Visconti stanno allungando le mani sui territori intorno, che a Crema i
Benzoni han fatto ribellione e già preso potere, che a Cremona sono giunte le truppe
toscane, pronte ad armare le mani nostre e dei nostri alleati; protesterà dicendo che Gian
Galeazzo è morto, è stato fermato, e Giovanni Maria ha solo tredici anni; allora gli
racconteranno dei mastini di quel tredicenne, e degli uomini vivi che hanno sbranato.
E lui parlerà della potenza del duca, e della pochezza di Lodi, e spiegherà che non è cosa
saggia ergersi di fronte ai milanesi, e che lui dice di no a una signoria pericolosa, se
avversaria dei Visconti e che è tanto meglio avere un solo signore che molti, e in lite tra
loro.
Sciocchezze, appunto.
Mi avvolgo nel farsetto che poco mi ripara dal freddo ormai sceso su tutta la piazza; a
malapena vedo tra la nebbia la cima della chiesa che i Fissiraga hanno voluto e che ne
vedrà la fine. Abbasso lo sguardo, mi giro e vedo vicino a me il fiato di Giacomo,
nebbioso anch’esso nel freddo. Scuote la testa e mi osserva in silenzio; io non parlo e lui
accenna al grande portone scuro sotto il protiro. Alla domanda inespressa rispondo: sì.
Sì, è il momento. Erasmo e Betono stanno di certo circondando Antonio. Sanno cosa
farne. La rocca di porta Milano è in attesa. Lì, Antonio potrà pensare al suo dominio
perduto. Lì, potremo dimenticarcelo. Morire dimenticati e abbandonati non è la peggiore
delle morti.
Dodici
23 novembre, san Clemente. Un buon giorno per diventare signore di questa città.
Mi siedo accanto al fuoco e osservo il gioco delle fiamme che qualche bravo servo mi ha
appena ravvivato. È stata una lunga giornata e tutti mi hanno lasciato solo, quasi che io
sia entrato in casa con ben scritto in faccia: statemi lontani.
Provo avversione per i miei simili. Dopo l’arresto del Fissiraga, li ho avuti intorno a
rassicurare loro e me che tutto era stato fatto per il meglio. Parole, toccar di mani, gesti,
risate e brindisi hanno solleticato un’insofferenza che è cresciuta a dismisura. I
cremaschi si sono trattenuti fino al pieno pomeriggio; poi, felici della riuscita ma
timorosi del ritorno al crepuscolo, hanno abbandonato la compagnia. Quelli di Turano
sono rientrati in fretta nel feudo. I miei nobili concittadini, ora che tutto sembra
compiuto, hanno riversato la tensione della giornata nei fiaschi e nelle portate generose
che il nuovo signore ha voluto offrire.
Li ho esaminati attentamente, miei sodali e complici; ho disposto le loro figure in un
ballo ideale che si intrecciava con la mia vita, con i miei affetti, con la mia famiglia. In
un angolo della stanza, accanto alla finestra, Erasmo dell’Acqua stava borbottando con
Betono Riccardi che gli aveva sottratto l’ultimo goccio del vino novello, sapore di primo
autunno che ho fatto arrivare dal colle di San Colombano. Erasmo è parente a mia
cognata, moglie di Antonino, e Betono è un Riccardi, come il marito di zia Caterina:
chissà se sono legami che basteranno a rendermeli fedeli.
Pietro Cadamosto e Antonio, suo figlio, si sono messi più accanto al fuoco, a riscaldare
le ossa del vecchio; così, i riflessi rossastri delle fiamme sui capelli bruni di Antonio
ricordano quelli di mia moglie Giovannina, una Cadamosto sposata senza amore, perché
l’amore e le lettere e gli studi e i versi dei trovatori sono cose lontane, che non si
addicono a un uomo di mezza età.
Lascio vagare i miei pensieri, buttato di sbieco sul seggiolone, occhi aperti che non
vedono, mani abbandonate oltre i braccioli, e la testa pesante, che chiede il riposo.
Mi hanno salutato tutti, e anche i miei mi hanno lasciato solo.
Li sento parlottare in qualche stanza vicina, qualcuno urta un piatto che cade con
fragore, la voce petulante di Leonarda chiede qualcosa alla balia, il capriccio di Taddea
è frenato dal ribattere secco di Giacomo: le risponde qualcosa che la fa piangere. Io
desidero, d’improvviso, essere solo, chiudere oltre una parete spessa il resto del mondo,
e più mi sono vicini, e vicini di sangue, più voglio allontanarli. Mi pentirò un giorno di
simili desideri? Scuoto la testa, rabbioso. Son paure di donnicciole.
E io sono Giovanni Vignati, signore della città. Ciò che ho fatto, tutto ciò che ho fatto,
valeva la pena, se mi ha fatto arrivare qui.
Tredici
“Dove volevi arrivare?”, gli chiedono mentre gli spingono davanti il vassoio.
“Che cosa volevi ottenere?”, lo deridono mentre gli indicano il pagliericcio, ché si sieda
tranquillo mentre consegnano del vino, del pane e della minestra. I gesti dei suoi
carcerieri sono ancora di riguardo, trattenuti, ma non le parole, che pungono, sollecitano,
scherniscono. Lui non risponde. Questo li irrita, li innervosisce. Il silenzio, a volte,
nasconde tali e tante cose da preoccupare chi non lo sa decifrare. Il silenzio è la coltre
più pesante che uno possa mettere intorno ai suoi atti e ai suoi pensieri. Non è nulla, ma
è nero, scuro, soffocante. Il silenzio preoccupa e ingigantisce le ipotesi: temono una sua
ribellione? Un aiuto inatteso? Sapessero leggergli nella mente, vedrebbero soltanto un
uomo che si rimprovera per la sua ingenuità e per la stoltezza con la quale ha creduto di
potersi fidare, e affidare, al nuovo duca di Milano.
Dove voleva arrivare? Se lo chiede quando, di nuovo solo, può sedersi sul pagliericcio e
riandare agli anni passati.
Si guarda intorno, e alla luce del mezzogiorno che arriva solo in un angolo della
prigione, scivolando calda dalla grata che a malapena si intravvede, là in alto, non sa
rispondere a sé stesso.
Che cosa voleva ottenere? Terre, potere, autorità, esercito. Li ha avuti, e si accorge che
non sono bastati. E dunque? Qual è lo scopo?
Domanda a sé stesso, e tenta la risposta, e borbotta persino, piano, tra sé. Poi,
interrompe il giro inutile dei suoi pensieri e delle sue parole, perché lui non ha paura del
silenzio. Nei momenti estremi non c’è ansia di concludere. Si può aspettare il passare
del tempo, con timore, con pudore di quello che succederà, quando anche Dio
abbandona il mondo e ci lascia soli davanti alla nostra anima.
E il tempo, in quel mattino di agosto, arriva e scorre, caldo, pieno di ansia, di nuovo
colmo di ricordi.
Quattordici
La notte, nella mia campagna, arriva tardi, d’estate. La terra è grassa e scura, anche
quando secca per carenza d’acque, terra che se ci affondi la mano senti che è viva. E
pronta a essere presa e fecondata e dare frutto.
Quel fine giornata la terra, seminata di corpi, non riuscivo però nemmeno a vederla.
Da tutto il giorno non la vedevo. La mattina, girava la foschia sottile che ancora ci
sorprende, a volte, agli inizi del caldo, e sale dalle rogge, e si spande come acqua
leggera, e copre la terra rivoltata, la nasconde agli occhi, la rivela soltanto al rumore
sordo degli zoccoli. Si affonda, nelle zolle soffici, aperte, d’improvviso mancanti. Ma ci
siamo abituati, noi, a cavalcate irregolari e al botto attutito del leggero galoppo, che non
sentiamo più, presi come siamo dalla meta.
Qui, oggi, prigioniero del duca, potrei immaginare di cavalcare di nuovo, domani. Potrei
illudermi di poterci tornare, in quei campi, se non fosse che tocco le mura spesse che
trasudano e c’è un freddo umido che, a fine agosto, mi fa respirare greve.
C’è il buio, e il mio respiro lamentoso, e il sapere che ben pochi giorni nuovi mi
attendono.
Chissà se ai vecchi capita lo stesso. Chissà se davanti alla certezza della fine, che i
vecchi accettano e mostrano nell’appannamento degli occhi, chissà se anche a loro
succede come a me: i ricordi più freschi e vividi si allontanano, si nascondono. Quelli
lontani sono nitidi e chiari.
Per me è meglio.
Così, per la prima volta nella mia vita, fuggo.
E come i vecchi biascicanti contadini che rammentano lontani inverni ma dimenticano
l’ultimo raccolto, anch’io mi rifugio nel passato. Come i rattrappiti mendicanti che
elemosinavo sotto il rosone di San Francesco, allungo la mano ai tempi che sono stati
miei e chiudo gli occhi al presente, dove più neppure la vita è mia.
So perché lo faccio. Perché di un tempo lontano posso scegliere ciò che voglio. Perché
la bruma non è solo quella delle rogge, ma anche quella della memoria. E può coprire
volti o accaduti o rimorsi che non desidero vengano a turbarmi.
Perché, sì, anche ora, anche a vita finita, cadavere che cammina, già impiccato prima
ancora che la corda adatta sia stata preparata, improvvisamente ottuso di fronte al mio
destino, pure, io sento a ondate, in me, ancora tutte le speranze.
Le stesse di quella giornata.
Quindici
Sedici
Diciassette
Cavalcabò arriva da Cremona la sera e pretende subito vitto e alloggio per sé e per i
suoi. Sono una masnada rumorosa, che le risate, alte e forti, e la parlata aperta,
strascicata, fanno spiccare nella città che ha ripreso a sonnecchiare in riva all’Adda.
Cavalcabò pretende e ottiene. Porta con sé truppe fiorentine, millecinquecento cavalli,
ed estensi, buon aiuto per ciò che si ha intenzione di provare.
La lega tra noi potrebbe funzionare. Con Crema, siamo in grado di mordere ai fianchi i
milanesi e di non dare tregue alla loro arroganza.
“Siamo sicuri?” mi dice Ugolino mentre assaggia timoroso uno dei pesci che i miei
cuochi hanno preparato per noi.
“Sicuri, sì, quanto lo si può essere oggi”, gli rispondo, e faccio un cenno ad Alberico,
che se ne sta appena discosto dalla tavola, più appassionato al calice che gli ho messo
davanti che ai profumi di arrosto e di pane. Lui alza brevemente le spalle e comincia a
contare sulle dita:
“Ci sono io, e quelli di Ferrara, e di Padova. Duemila cavalli e millecinquecento fanti.
Tu hai… quante? Duecento, trecento lance?”
“Trecento, sì, al comando di Alberto”.
“Alberto de Ruberti… conosco… buona spada, buon comando”, bofonchia Ugolino, che
si è ormai affidato senza riserve ai profumi di rosmarino e alle carni dei piccoli ghiozzi
che spariscono veloci davanti a lui.
Osservo Alberico mentre fissa il signore di Cremona con aria nel contempo assente e
sprezzante. È di profilo, non mi vede. O non vuole guardarmi. Ha i capelli chiari, mossi,
appena sotto le orecchie. Le sopracciglia sono più scure, ampie, folte; corruga la fronte,
ed esse disegnano una linea netta e incupiscono lo sguardo. Appena poco fa, era un
tranquillo signore di campagna, dai lineamenti appena arrotondati dall’età. Ora, mentre
sembra pensare che nessuno di noi è degno di sedersi al suo desco, ha un aspetto
crudele: le narici si sono appena dilatate, e una ruga taglia la guancia dal naso verso il
mento. Ha, credo, intorno ai sessant’anni. Viene da una grande famiglia: i da Barbiano si
dicono addirittura discendenti di Carlo Magno. Io non so se sia vero, ma lo rispetto per
quello che è ed è stato. Ha combattuto con il grande Giovanni Acuto, che ancora oggi
ammira, e lo dice spesso; ma è rimasto disgustato dalla veemenza e dalla violenza degli
stranieri, e anche di questo parla ancora. Ciò che mi sembra grande, di lui, è però la
fondazione di una sua compagnia, tutta sua, tutta fatta da milizie italiane. Ne mena
vanto, e a ragione. Non gli invidio l’età, e nemmeno la baldanza che ancora lo anima,
ma gli invidio il grande stendardo bianco a croce rossa che il Papa gli ha donato, quello
che dice chiaro e tondo: “l'Italia liberata dai barbari”.
Dicono che persino quella senese, quella Caterina che il popolo vuole già sugli altari,
persino lei abbia chiesto l’aiuto di Alberico in difesa di Roma contro le milizie
mercenarie bretoni.
Io non so se sia vero o sia leggenda. So che Alberico mi è utile alleato, qui e oggi, e che
con lui e le sue truppe riusciremo a colpire i Visconti e a farci più forti. Per me, adesso, i
‘barbari’ sono loro.
“Quando attacchiamo?”, domando, e ho subito l’attenzione di tutti.
Diciotto
Decidiamo di avanzare almeno trecento pertiche, dritti nel territorio dei Visconti.
Saremo la spina che punge la loro carne scoperta. Gli accordi sono pochi e chiari:
bottino, prigionieri e bestie. Non toccare le chiese, nemmeno se piene di ori: chi tocca
anche solo un calice, chi ruba in luogo sacro, assaggerà la prigione. O l’albero cui sarà
appeso.
Partiamo dopo il pranzo. Pranzo leggero, ché dobbiamo essere desti e vigili. Ci
incamminiamo piano. Si fa il vuoto nella campagna intorno. Qualcuno ci vede e fa
marcia indietro. Qualche contadino si intana subito. Se vediamo un’ombra che corre, è
facile pigliarla e farne quello che dobbiamo. Che sia paura o che siano chiacchiere non
dovute, importa poco. La paura la leviamo di torno, e le spie pure.
I cremaschi si fanno baldanzosi. Dirigiamo a Bergamo e si sentono ormai nel loro
territorio. Appaiono sicuri, mentre il trotto cadenzato dei cavalieri ci porta sempre più in
là. I pensieri corrono e si spezzano nella mia testa. Nessuno parla. Alberico mi supera e
mi fa un cenno con il capo. Ugolino è più indietro, con la celata che già lo copre. Chissà
che cosa hanno da perdere, loro.
Chissà se rimuginano nella mente ciò che affiora in me. Considero per la prima volta,
con stupore, che dietro di me, oltre alle tombe di mio padre e di una moglie, e il letto di
un'altra sposa diversamente presa e voluta, sto lasciando i miei figli, da Giacomo, che
combatterà presto al mio fianco, all’ultima, Taddea, che tanto mi irrita con le sue
richieste da bambina.
Non sono un buon padre. Ho sei figli certi e qualcuno più incerto, ma ciò che voglio è la
guerra, il bottino, altre terre. Dovrei tenermi vivo e sicuro per loro, per il loro domani,
mentre penso a me, e al mio oggi. Dovrei recitare con loro il Pater noster, e sono qui ad
augurarmi di incontrare i nemici, magari oltre quel mulino, o appena usciti dalla cascina
dove le nostre guide ci fanno fermare, il tempo di bere vino caldo e prendere gli ultimi
accordi.
Le cascine Gandini ci portano un po’ fuori strada, e sono troppo vicine al paese. Ma
Pandino, che era terra di caccia dei signori Visconti, con i boschi ricchi di selvaggina,
non ci riserverà sorprese. Dall’anno scorso è in mano ai Benzoni, quelli di Crema, che
ho invidiato, un tempo, ma che in questi giorni sto imitando, alla pari.
Signori loro, signore io, a insidiare Milano e a prenderci i suoi uomini e le sue bestie.
Il resto non conta.
Contano i cavalli che inciampano nella guazza di novembre, l’avanzare silenzioso delle
mie lance, il tentativo di soffocare grida di richiamo e respiri pesanti, lo sbuffare delle
froge del mio cavallo, che a stento trattengo, il piglio sicuro di Alberto, il suo sorriso, il
calpestio accelerato su un campo ribattuto da poco, lo stridere di qualche corvo sulle
nostre teste, che sia malaugurio?, il passo di nuovo pesante dei cavalli sulla riva di una
roggia che sbarra improvvisa il cammino, l’odore di terra bagnata, di sudore, di nebbia,
se la nebbia avesse un odore, ancora nebbia nelle mie giornate, sarà buon augurio?,
nessuno ci vede, avanziamo, nessuno pare sentirci, ci facciamo vicini, contiamo le
nostre forze, forziamo la nostra volontà, chiudiamo le celate, alziamo le armi, induriamo
il cuore, dimentichiamo i giorni passati, siamo soltanto pronti, eccoci, a fare ciò che
dobbiamo, un cavaliere mi urta, si sposta, si prepara, Alberto ripassa, spinge, chiude il
gruppo, controlla, dà il segnale e di nuovo andiamo a prenderci la nostra ricompensa.
Diciannove
Luigi attende ancora alzato, fissando il fuoco. Giacomo gli fa apparente compagnia, ma
legge uno dei suoi libri.
Sono così diversi.
Luigi è più giovane di due anni, ma più alto; snello, scuro come sua madre, ma
battagliero come me. Gli piace la campagna della bassa, correrla, pensare che è sua.
Ama la lotta e il lavoro, ed è stata più dura fatica costringerlo sui libri e sulle carte che
rimetterlo a cavallo dopo l’ennesima caduta, da ragazzo.
Giacomo avrebbe la mia pelle olivastra e strisce più chiare nei capelli, se uscisse da
queste mura, se abbandonasse ogni tanto nell’angolo i suoi libri, se smettesse di
filosofare e corresse per le strade dietro al fratello. È un gran cavaliere, capace di parlare
al suo destriero con il linguaggio muto o appena accennato di chi ha un legame diretto
con tali animali, e non gli importa. Impallidisce e dimagra e silenzioso obbedisce
sempre alle mie imposizioni tanto che nemmeno posso essere con lui troppo severo, o
critico, o sprezzante.
Anni fa, con Giacomo di quindici anni e Luigi di tredici, uscimmo dalle mura per
dirigerci al mulino galleggiante.
“È proprio necessario, padre?”, mi aveva domandato lui mentre Luigi era già nel cortile
con la cavezza in mano.
“È necessario, se non vuoi diventare una donnetta incapace di portarti a cavallo, di
curare i tuoi interessi, di difendere le tue terre, di sostenere le fatiche di tuo padre, di
combattere quando si deve e si vuole!”, ero esploso, con voce bassa e tesa, a scaricare
gli ultimi mesi passati a vederlo crescere rivolto ad altro, non a me.
Lo avevo guardato senza più parlare, mostrandogli la porta, deciso a ricacciargli in gola,
alla prima mancanza, il tono e lo sguardo. Lungo la strada le chiacchiere di Luigi
avevano fatto il loro dovere: impedirci di aggravare con parole pesanti la situazione
oppure di procedere in silenzio, scavando ancora di più il distacco tra noi.
Eravamo quasi in vista del mulino, e il cavallo di Luigi ha scartato improvviso, forse per
qualche biscia, forse condotto malamente da quello che era allora soltanto un ragazzo
presuntuoso di sé e della sua bravura; il mio è arretrato e ha fatto due giri spaventati su
sé stesso. Quando sono tornato a guardare nella direzione giusta, e a tenere con forza le
redini, Luigi era ormai lontano, e dietro lui stava già galoppando Giacomo, lo
affiancava, si stendeva alla destra, e la sua figura bassa, massiccia, sembrò prima
appoggiarsi all’aria e poi assecondare la natura delle cose e precipitare a terra, fino a
quando il braccio non si tese ad afferrare le briglie del cavallo in fuga, a strapparle, a
frenare la bestia e a riportarla, al passo, fin dove mi ero fermato.
Luigi, pallido e spaventato, mi fissò cambiando colore e arrossendo per l’imbarazzo del
guaio sfiorato; aprì la bocca, ansimante, forse per scusarsi, forse per accusare il cavallo,
ma io girai subito lo sguardo su Giacomo, e vidi la sua mano che, “Tieni, padre”, mi
affidava il cavallo del fratello. Poi alzai gli occhi ai suoi occhi: sembravano più chiari,
colpiti così dal sole. Occhi tranquilli, sereni, calmi. Non fosse stato per il sudore che gli
correva su un lato della fronte, lo si sarebbe detto reduce da una delle sue letture
preferite.
Credevo di trovare odio, in quegli occhi. Credevo di trovare sfida, battaglia, persino
disprezzo. Credevo che avrei visto nel profondo dei suoi pensieri la cattiva risata di chi
poteva ben dirmi: hai visto, padre, che non son poi quella donnicciola che credi?, hai
visto di che cosa sono capace?
“Padre, davvero, non so che cosa…”, aveva cominciato Luigi, costringendomi a volgere
a lui la mia attenzione.
“Non importa, è finita”, mi trovai a replicare.
“È finita? Padre, mi avete detto una volta che se capitava di…”, continuava a parlare,
mio figlio minore, ma non lo ascoltavo. Mi girai di nuovo verso Giacomo, ma stava
fissando avanti, a cercare spazio per cavalcare verso la nostra meta.
Si accorge per primo di me questa sera; alza lo sguardo dal volume e mi vede
appoggiato alla porta. Infila un dito tra le pagine, chinando piano la testa, in un saluto
rispettoso. Poi ci ripensa, chiude definitivamente la sua lettura e si alza. Il movimento fa
sussultare Luigi, che si volge alla porta e sorride, trionfante, alzandosi e venendomi
incontro. Non gli importano i morti, non gli importa sapere se di nuovo, con la mano che
mi stringe, ho separato aria e tendini e sangue.
Mi trascina al fuoco, mi fa sedere e chiede soltanto: racconta, padre.
Venti
Quella sera, raccontò al giovane Luigi che molte volte, poiché non avevano trovato
alcun contrasto, avevano cavalcato sino alle porte di Milano, sempre pigliando preda
di uomini e di bestie. E dentro la grande città, dietro le sue mura, si erano levate grandi
rumori e discordie tra il popolo e il duca. Loro continuarono, e ancora insieme più
volte corsero nelle campagne, gridando “carro, carro!” e facendo gran danno a quei
territori e arrivando sino alle porte di Pavia, dove trovarono grandi prede, e
guadagnarono molto. E di nuovo anche in quella città seguirono grandi disordini, e
discordie ancora, contro il giovane duca di quel luogo.
E Luigi, quella sera, ridente davanti al padre, chiese se il giovane duca, il piccolo
Visconti, sarebbe stato preso, e ucciso, e lui rispose di no, e non sa perché disse quel
no. Ché forse, se avessero avuto abbastanza uomini e cavalli e aiuti e coraggio, ecco,
forse avrebbero cavalcato lungo le strade della contea di Filippo Maria, relegato
presso il Ticino da un fratello crudele e distratto; sarebbero dovuti entrare in Pavia e
prenderlo e ucciderlo, senza pietà per le giovani ossa malate e per le parentele
sbagliate.
Se l’avessero fatto, allora, la storia sarebbe cambiata e lui non sarebbe qui a contare il
tempo di un pomeriggio caldo e prigioniero.
Ventuno
È pomeriggio tardo. C’è di nuovo silenzio, in sala. Piero sta osservando da vicino, da
molto vicino, il codice che ho sistemato accanto alla luce fioca della finestra. Sembra
quasi se lo voglia mangiare con gli occhi, dimentico dello spiffero di freddo che, io lo so
bene, in quell’angolo, in questo periodo dell’anno, si fa sentire in qualunque momento
della giornata.
Sfiora con le dita le righe della pagina e mormora piano una frase silenziosa: legge, o
commenta il tesoro che certo vorrebbe portarsi a casa, da mettere accanto ai suoi, antichi
e moderni, a stupire parenti e amici. Gira piano il foglio crocchiante, mentre Luigi mi
guarda innervosito e Giacomo, sorridendo, si avvicina all’ospite.
“Vedete qui?”, gli suggerisce, dirigendo lo sguardo del nostro ospite alle firme finali.
“Bo… nifacio?”, compita sussurrando lo Strozzi, che sembra avere messo da parte il
motivo della sua venuta.
“Marchese di Monferrato –, annuisce Giovanni, che torna all’inizio e spiega: – e anche
suo figlio, qui, vedete? Guglielmo. Leggete. Leggete, vi prego. È l’accordo con il
comune di Milano, per la giurisdizione sulle terre intorno, e fino, pensate, fino a
Piacenza, e Varese e… qui, riuscite a leggere?, qui c’è anche Bobbio e Pontremoli con
altre riserve date in…”
Un rumore improvviso; ci voltiamo verso Luigi che, imporporato in volto, raccoglie
goffo il calice appena versato da un suo gesto maldestro e stizzoso. Ancora Giacomo
sorride: conosce il fratello, sa che uno scatto di impazienza era prevedibile, e che Luigi
vorrebbe subito parlare di accordi, di lance, di truppe e di denaro.
Firenze ci ha mandato lo Strozzi, approfittiamone, vorrebbe dirmi il suo sguardo di
rimprovero, mentre mio figlio maggiore, più paziente, più astuto, si scusa e torna a
mostrare a Piero ciò che lo attira in quel momento: le pagine vergate da una scrittura
antica, l’inchiostro che a tratti sbiadisce, l’accordo che più di duecento anni orsono
decideva delle sorti di uomini e terre. Le stesse terre che vorrei mie.
Piero, lo so, è arrivato per offrirmi aiuto e per controllarmi. Ha cavalcato fino a qui,
migliaia e migliaia di pertiche, con una lettera datata in Firenze che forse confermerà
quella che ho ricevuto io, io in persona, amico carissimo della repubblica fiorentina.
Così mi hanno chiamato e così ricordo, senza più rileggere le loro parole: magnifico
signore, amico carissimo.
Mi chiedo soltanto, mentre l’ambasciatore Piero Strozzi, finalmente soddisfatto, si gira
verso di me e si siede, mi chiedo soltanto chi, in tempo di guerre, possa essere chiamato
amico.
Ventidue
Il nostro ospite fiorentino se n’è andato. Noi giriamo pigri tra le vie strette. La
passeggiata fa bene a Margarita e a Toniola, che invece di beccarsi e litigare
chiacchierano tranquille.
“Signore…”, saluta il fabbro abbassando appena la testa e tossendo piano ai fumi che
escono da sotto la cenere.
Ricambio, ma penso ad altro. Voglio bene a Margarita, sopporto appena Toniola e sono
testimone del fatto che il sangue e gli anni passati nella stessa casa non sono motivo o
scusa sufficiente per costringerci ad amare qualcuno.
Le mie sorelle controllano le due nipoti, sempre pronte a farle inciampare, a spingersi, a
scansare i garzoni e le serve, e a fermarsi sorridenti davanti al banco del fioraio, che
galante offre alle signore un arbusto dai fiori giallo oro, tra le urla del merciaio vicino.
Toniola rifiuta, scuote la testa, ma:
“Zia –, ridacchia Francina, – prendilo, senti il profumo”.
È allora Margarita ad afferrare con garbo l'omaggio, a portarlo alle nari: china il capo a
ringraziare, ma rimane seria e composta, deludendo la sua nipote preferita, che spesso la
sogna impalmata da qualche gran signore, e più spesso ancora la immagina rapita da un
giovanotto alto e bruno come quello che sta rimettendo a posto i mazzi di fiori.
Nemmeno mi guarda, Margarita, mentre avanza spingendo avanti Francina e sua sorella
Taddea proprio come farebbe una chioccia, evitando le sguattere a caccia di buona carne
e sfuggendo alle offerte strillate dei caciaioli e dei rigattieri.
Non mi guarda, ma sa che ci sono, che sono ancora, per qualche mese, suo fratello e suo
tutore, e che presto la lascerò andare a incontrare il suo destino. Marito, figli.
Ieri sera tardi, prima di ritirarsi a prepararsi per il viaggio, Piero Strozzi ha salutato tutti
noi. Piero è alto, bello, dicono, e avrà figli bellissimi. Ha piegato i suoi interessi
umanistici agli affari del padre e della repubblica che lo ha fatto ambasciatore, ma ha
mantenuto un’aria sognante, così diversa da quella rude e concreta che gli sarebbe
adatta. Ho colto un'occhiata lanciata a mia sorella minore: mi ha fatto comprendere che
non è più quella che cullavo e facevo scivolare nel riposo, ma una giovine capace di
attrarre e di suscitare ammirazione.
Quell’occhiata mi ha fatto capire molte cose. Che, per esempio, mia sorella è pronta ad
abbandonare la tutela e che è tempo di maritarla.
“Vieni qui –, sta rimproverando la mia Francina che si avvicina a un banco di dolciumi e
spazza con la veste un angolo fangoso della via, – non ti allontanare troppo”.
“Signore mie –, saluta intanto il calzaiolo con un inchino esagerato, mentre passiamo
davanti al suo buco, – signor Giovanni…”
“Buona giornata, Battista –, sorride Toniola che tiene per mano, saldamente, Taddea, –
vi aspettiamo la settimana l’altra, per le calzature leggere”.
“Ai vostri ordini –, altro inchino, – ai vostri ordini, signore mie. Signor Giovanni…”.
Saluto tranquillo, calcolando quanto mi costeranno tutti quegli inchini, osservando il
confuso movimento intorno, e in mezzo al rumore del mercato affianco al viso di mia
sorella minore quello di Ottone. Non mi è caro, il Rusca: benché abbia saputo
conquistare Como, l’ha poi ugualmente persa, e con essa le case saccheggiate e lasciate
in balìa della soldatesca. Ma è di famiglia buona e sicura, e bene lo vedo al fianco di
Margarita. Saprà condurla lui. Per me, dunque, è sua.
Ventitré
La donna dice che a Padova ci sono tredici porte e tredici ponti, e ogni ponte porta a
tredici strade che menano fuori città.
Dice che può portare me, straniero e nuovo a tutto, a vedere la cappella che Enrico
Scrovegno per scampare dal fuoco dell’inferno ha tirato su, spaventato dagli errori del
padre.
“Era un trafficone –, ridacchia mentre si aggiusta la gonna e infila il corpetto chiaro
dentro la cintura, – un mercante ladro e bugiardo, bugiardo lui e strozzino suo padre, e la
cappella tirata su per farsi perdonare i soldi che han figliato soldi per le loro casate, e
dipinta da uno che…”
“Denaro da denaro”, la interrompo soprappensiero, e finalmente la guardo e mi accorgo
dei capelli che le scendono sulle spalle, e sono spalle stanche e larghe, e la pelle segnata
e la vita pesante e il calore che mi è salito tra il cavo straniero delle sue cosce che poi
subito si assottigliano e arrivano alle palme nude dei piedi.
Mi osserva un momento, mentre alza le braccia magre a raccogliere la crocchia; mi
lancia un’occhiata come stupita che una volta, una sola volta, qualcuno degli uomini cui
si offre abbia davvero ascoltato il chiacchiericcio solitario con il quale probabilmente
sempre riempie il tempo della vestizione e del saluto.
“Proprio –, ribatte e continua, di colpo animata e presente, continuando a rivestirsi. – Io
l’ho vista, io l’ho vista la cappella del pittore e mi ci sono persa gli occhi perché non
avevo mai visto cosa più bella che pareva di essere dentro nel mondo di quei signori, e
vedersi lì davanti la Beata Vergine Maria e suo figlio Gesù uno poteva credere di essere
già in cielo, anche se poi mi hanno fatto vedere il signore Enrico, che l’ha fatta e che c’è
lì dentro anche lui, dipinto sul muro e c’ha in mano la cappella e la Beata Vergine gliela
prende ma secondo me, a parlare come dicono quelli che quello lì lo conoscevano bene,
secondo me quello lì la cappella l’ha fatta fare solo per fare vedere che era un gran
riccone, e davanti ci ha messo pure la sua statua tutta dipinta che pare un re, altro che
storie del pentimento!”
Prende respiro, questa donna che non conosco e non avrò più, e forse le piacerebbe
continuare, ma ha finito il suo lavoro, mi ha soddisfatto, e nel suo momentaneo silenzio
le faccio segno di uscire.
Si spegne subito, parole e sguardo, le spalle si piegano, le mani scendono a lisciare la
gonna pesante e si allungano per la ricompensa. Poi si gira ed esce e mi lascia solo.
Non mi farò portare alle tredici porte, e nemmeno alle nuove mura; non visiterò la
cappella di Enrico, quella che ha fatto giungere la fama di suo padre Reginaldo e delle
sue usure fino a noi. Ho già soddisfatto l’altr’anno la mia curiosità del vedere come si
mondano sulla terra i peccati dell’aldilà. O con quanti denari può essere riscattata
un’anima.
L’altr’anno, però, tornai da Padova con l’aiuto di Francesco che assediò Brescia con noi
e per noi. Ma oggi il fallimento di ciò che pensavo deciso mi rende alterato e ombroso.
A cosa è servito il convegno? Cosa ho ottenuto da questo lungo viaggio nella terra dei
Carraresi, al di là della carne di quella donna? Nulla.
Mi è soltanto servito a comprendere che la lega contro i Visconti non vale più nulla per i
grandi signori della Repubblica fiorentina arrivati qui soltanto a dirci di no. Mille lance
sono troppo costose, dicono. Denaro, denaro. Non arriveranno a sostenerci. Non con
così grande e oneroso aiuto. Denaro, denaro, Piero Strozzi non li ha convinti a dovere.
Ma la lotta va continuata, dicono. A quanto pare, senza di loro.
Bene. Se così s’ha da fare, si farà. Soli, contro il biscione milanese.
Ventiquattro
È suonata da poco l’ora nona e il silenzio caldo e tranquillo porta a tratti l’eco di voci
lontane. Eroe? No, non è un eroe l’uomo che, sdraiato sulla lettiera, le braccia alzate a
sostenere la testa, sente la risonanza di un responsorio brontolato a voce alta. Non è un
eroe a pensare con rabbia che il duca Filippo Maria in quel momento chiede ingiusto
aiuto per il suo ducato e ipocrita perdono ai suoi tanti peccati.
Le voci della preghiera, la prigione, la solitudine, la mancanza di Luigi lavorano nei
suoi pensieri ed è un distante ricordo che lo prende, lo culla e lo fa bisbigliare piano,
con gli occhi al soffitto e le labbra che si aprono appena. La nenia è faticosa, dapprima,
quasi dimenticata, e poi sempre più precisa e sicura; affiora da gesti, insegnamenti,
obblighi lontani che si affiancano all’inquietudine: del santo al nome fuggono febbri
ferite e peste…
Eppure nessun santo aiutò quelli che lui incontrò nei mesi concitati che seguirono gli
assalti a Milano, ancora e ancora.
…morbi dolori e demoni e grandine e tempeste…
E lui fu grandine, e fu tempesta: su Pradalunga, e su Cornali e presso Nembro,
inseguendo uomini, donne e bambini che arrancavano, spruzzando intorno acqua e
grida stridule, al di là del torrente Vallogna, cercando scampo.
…ai ciechi ai sordi, a muti, ai zoppi porgi aita…
Il terrore e millecinquecento armati spazzavano le distese erbose e spingevano i
fuggitivi alle pendici del monte, alla ricerca di un rifugio e di un aiuto che nessun santo
voleva dare, perché i santi han da pensare alle nostre anime e lì c’erano soltanto corpi,
vecchi, giovani, grandi, piccoli, solo corpi.
…la prole implori e tornano i morti a nuova vita…
Corpi catturati a tradimento, se mai vi sia tradimento in battaglia, e fatti morire, otto
uomini, e quarantasei donne e bambini, mandati a raggiungere il Nostro Creatore che
un giorno, forse, chissà, li riporterà davvero a nuova vita.
…non recan danno i fulmini, né il terremoto o il fuoco…
E fuoco, sì, a bruciare Pradalunga, e la torre in cui quelli si erano rifugiati, e le terre
intorno nella valle,
…lacci, perigli e insidie, per te non han più loco…
E pericoli, e ancora insidie, e dunque a che vale la preghiera se nulla ha potuto contro
gli uomini armati che lui ha raccolto, contro le squadre guelfe che devastano e
uccidono e ricominciano e si ricompattano e si preparano a nuovi assalti?
La preghiera non può nulla. Eppure, adesso che il tocco delle campane segna la fine
della preghiera, e le voci salmodianti tacciono, lui mette le ginocchia a terra, appoggia
il capo sulle braccia allungate sul pagliericcio, le mani che si intrecciano e stringono;
colpevole di morti innocenti, responsabile della vita del figlio, chiude gli occhi e si
trova a riprendere a bassa voce l’antico conosciuto breve salmo: Onnipotente, nelle tue
mani affido il mio Spirito.
Ventisei
Ventisette
Mio fratello è rimasto nella stanza dove abbiamo dormito. Ci ha guardato, stamane,
mentre in silenzio ci coprivamo e ci apprestavamo a uscire. Non ha parlato lui e non
abbiamo parlato noi. Solo un cenno frettoloso di saluto e nessun chiarimento del su
fermarsi.
La spiegazione stava nelle sue occhiaie scure e nell’ansito del respiro quando si è alzato.
Si è portato alla piccola finestra e si è appoggiato al davanzale e lì si è fermato. L’ho
guardato e ha scosso la testa. Giacomo gli si è avvicinato e lo ha coperto con la veste
bruna che lui aveva gettato in un angolo. Lo ha abbracciato ed è uscito prima di noialtri.
E mentre il sole si alza al culmine, io sono contento che Antonino sia malato, che il suo
respiro abbia ceduto, che non sia qui, ora.
Siamo fermi accanto a un carpino che sbuca dal suolo del bosco, seminascosto alla vista
della strada. È un albero vecchio, provato, che forma sette ramificazioni poderose già
appena fuori dal terreno, gigantesco candelabro al quale appoggio la mia sconfitta.
I bergamaschi si sono ritirati e hanno lasciato sul terreno la testimonianza della loro
vittoria.
Qualcuno ha avvertito che stavamo arrivando. Qualcun altro ha pensato: guai a noi se
l’unione del Vignati con i suoi amici avrà campo libero. La loro salvezza stava
nell’impedire l’unione. E perciò, prima che avvenisse, sono riusciti a dare addosso a
quelli che noi attendevamo come aiuto e loro attendevano come minaccia.
Siamo arrivati tardi sia pure per vedere i nemici ritirarsi, ma il sole che brilla ancora
deciso ci mostra il loro lavoro. Ben fatto, diranno i Suardi, che certo hanno serrato le
mura di Bergamo e ci hanno visto tirarci indietro e si sentono al sicuro.
“Più di trecento”, mormora Francone, uno dei miei migliori, asciugandosi il sudore dal
viso mentre si avvicina.
“Più di trecento?” faccio eco stupidamente.
Lui si appoggia a uno dei rami, che pare piegato apposta per accoglierlo, e guarda
lontano e poi si gira e mi fissa bene in viso:
“Forse quattrocento”, e aspetta la mia reazione.
“E prigionieri?”, chiedo calmo.
“Prigionieri… Prigionieri, cento. Forse più, vediamo”.
“Francesco? Carlo?... Cristoforo?”, nomino gli uomini che ho voluto al fianco nella
scorreria, cerco nella memoria altri uomini, vedo i loro visi ma quando cerco di
pronunciarli non trovo più il loro nome e mi sembra di fare peccato, di averli cancellati
dalla terra prima ancora di sapere se sono morti o se adesso sbucheranno da là in basso e
mi raggiungeranno.
“Li cercano”, dice Francone, ma guarda altrove e io so che così fa quando teme le
notizie che deve portarmi.
“Jacopo?”, domando ancora appoggiando la mano sul suo braccio, costringendolo a
girarsi e a guardarmi. Un momento di silenzio e:
“Laggiù”, fa segno alla sua destra, dove stanno stendendo i corpi di quelli che hanno
lasciato la Bassa per venire a morire tra questi monti scuri. Poi si muove strappando
piano la manica della mia giubba e chiedendomi di seguirlo.
Jacopo è lì, disteso a faccia in su, con una ferita aperta appena dietro l’orecchio, e uno
strappo profondo nella cotta inutile, che non lo ha difeso e nella quale vedo infilato
ancora un pezzo della lama che gli ha spalancato il fianco e ne ha fatto uscire sangue,
umori e respiro.
Un brav’uomo, un bravo soldato, un buon marito e un ottimo padre. Ha lasciato la
famiglia per seguirci, per sbucare dal castello di Martinengo e scivolare con noi fin sotto
Bergamo e dare battaglia. Soprattutto, per stare vicino ad Antonino, suo amico
carissimo, suo compagno di avventure galanti in tempi lontani, e di discorsi paterni negli
ultimi anni.
Non l’ho voluto con noi ad attaccare i ghibellini bergamaschi, della città e del contado.
Abbiamo discusso, lungo la strada, e l’ho convinto con una frase:
“Sarai più al sicuro, tornerai e potrai stare al fianco di Antonino”.
Così l'ho allontanato dalla battaglia vicina, l’ho mandato al ponte, a far scorta ai
valligiani, a tenere d’occhio gli alleati, e a morire dissanguato.
Che se la morte di un uomo buono e giusto, amico e vicino, pesa tanto quanto sento
pesare in me gli occhi chiusi e sanguinanti di Jacopo, credo di avere con lui scontato i
peccati di ogni morte che ho voluto dare fino a oggi.
Ventotto
Troppo clemente con me stesso, nel perdono frettoloso di un dolore acuto, vengo
richiamato ai miei pesi subito, al mio rientro a Lodi. Ho dinnanzi un contadino, uno de
miei. Conosco il nome dell’uomo, ma non lo ricordo. L’ho osservato bene, mentre
veniva avanti, con le braghe larghe e stazzonate, un cappello destinato a farsi tormentare
da quelle dita lunghe, forti, macchiate di scuro. Porta con sé, l’uomo, il puzzo di certi
giorni passati con mio padre a correre la campagna e a pestare i solchi umidi appena
rivoltati e bagnati dall’acqua della roggia vicina. Ha un viso largo, scuro, dove affiorano
gli zigomi alti e si affossano le orbite degli occhi, puntati addosso a me con tranquillità
rassegnata.
“Quante bestie rimaste?”, chiedo, avvicinandomi.
Lui fa un passo indietro, come se fosse suo compito tenermi lontano, come se fossi io a
puzzare. E forse ha ragione. Puzzo di guerra, puzzo di saccheggi, puzzo di morte e sono
tornato nelle mie terre soltanto per avvedermi che posare armi e guerre, in questo
inverno, non ha evitato malanni peggiori.
“Poche. Poche, così”, e apre un palmo, lo alza, passando il cappello dalla sinistra alla
destra, sembra un gioco di destrezza, è l’ammissione della paura. Meno bestie perché
meno raccolto. Persino erba medica e trifoglio si sono arresi.
Arturo, ecco, è il nome: Arturo si chiama, di Castione, e mi ha lasciato poggiato in un
angolo un pane scuro, chiamato a testimonio di ciò che manca oggi, a noi e ai nostri
vicini.
Pane che ho assaggiato e, Dio perdoni, sputato a terra, sotto gli occhi del contadino che
non ha distolto lo sguardo, ha annuito, e spiegato:
“Fave, radici, semi di uva, farina e terra”.
“Terra?”, ho provato a chiedere, e ho distolto lo sguardo da lui che alzava piano le spalle
e annuiva e mormorava:
“Pane di carestia”.
Pane di carestia, sì, ed è la voce di Zilieto che torna da lontano e mi racconta degli anni
intorno alla mia nascita. Mentre io crescevo nel ventre di mia madre, spiegava mio padre
con tono da fola, intorno a noi faceva freddo quando doveva far caldo e asciutto quando
doveva bagnare e bagnato quando doveva seccare. E fu, quella avanti la mia venuta al
mondo, una primavera di piogge continue, e ugualmente l’estate, e il grano non maturò,
e chi poteva lo portava a casa, in urne e in vasi. Si dice che perfino il re d’Inghilterra, in
viaggio, non avesse trovato pane per lui e per il suo seguito. E se nemmeno i re
trovavano pane per il loro denti nobili, che cosa poteva restare per tutti gli altri? Pane di
carestia: quel pane che i contadini impastavano con farina mescolata a ghiande, semi,
terra.
Il pane di Arturo. Quello che l’anno appena passato lascia in eredità al prossimo.
“I figli?”, chiedo.
“Quelli, quelli reggono ancora”, borbotta lui e prende fiato, e si ferma.
“C’è altro?”, la mia voce suona alterata.
Arturo si stringe ancora nelle spalle, come se ormai niente di ciò che potrebbe accadere
fosse importante o vitale.
“Simone… Simone di Basiasco e moglie e figli e bestie, quasi tutte le bestie…”, e
scuote la testa e abbassa lo sguardo. Non faccio seguito alle notizie, non voglio sentire
esprimere con parole esatte ciò che ho già indovinato, ciò che altre voci mi avevano già
riportato.
“Sementi, voi, ne avete?”
“Poca roba –, borbotta a bassa voce e poi alza la testa. – Le sementi non si toccano,
padrone, ché se tocchiamo le sementi…”
“Si fa quel che è necessario, Arturo”.
“Ma le sementi, quelle sono per l’autunno e se adesso…”
“Domani –, chiudo brusco il discorso. – Domani sono a Basiasco e poi a Castione.
Vedremo”.
E mi avvicino, a spingerlo fuori e a fare i conti con ciò che gli uomini stavolta hanno
mosso e provocato. Ché non ci sono stati mesi di troppe piogge, o troppo poche; di gran
caldo, o di freddo gelato. Ma guerre e battaglie e corse e saccheggi e distruzioni, rovine,
crudeltà e miserie, questo, sì, questo è stato. Il pane di carestia, servito ai loro sudditi dai
loro signori.
Ventinove
Trenta
Ma c’è un Dio sordo a ogni preghiera, o forse stanco di quello che distingue quando si
abbassa a spiare tra le nubi della Lombardia e più in là, fino al mare.
Oppure, al suo posto, qualche demone malevolo e astioso riempie le sue eterne giornate
rimescolando le intese e le convenzioni, spingendo il fratello a versare il sangue del
fratello, l’alleato a tradire la parola data, le soldataglie a cambiare di bandiera, il
ribelle a opporsi al ribelle.
Vignati e l'ultimo alleato, Pandolfo Malatesta, battono ancora il territorio di Bergamo,
e ne vengono cacciati.
Si stipulano allora col Visconti trattati di tregue che i capitani del duca fanno e
disfanno a loro piacimento: Giacomo Dal Verme, capitano ducale, parte da Trezzo e
muove tutto l’esercito contro Lodi; Facino Cane, despota e ambiguo nella sua condotta,
abbandona Giovanni Maria Visconti e per danaro si accorda con i Colleoni e con il
Malatesta; cresce la confusione, il disordine e la babilonia. Chi è stato nemico del duca
Visconti ne diviene amico e arbitro; i suoi capitani perdono la sua amicizia e il suo
favore; Giovanni Maria è preso e stretto in un consiglio di guelfi, dove Pandolfo e suo
fratello la fanno da padroni.
D'un tratto, sembra concluso ogni motivo e fomento di guerra, tanto che si parla di
interruzione, di tregua, fra i contendenti dell’una e dell’altra parte. Una tregua di
quattro mesi, o anche più, e accenti di pace che risuonano da Milano, giù fino alla
Bassa e a Lodi.
Tuttavia, proprio in quel momento, verso oriente, mentre ancora Caterina Vignati si
abitua alla nuova città di cui è diventata signora, Cremona e i dintorni si riempiono di
grida di guerra e di vendetta. Sono le voci che prendono Giovanni e lo spingono, di
nuovo, nell’impeto delle armi e della battaglia.
Trentuno
C’è caldo e foschia lungo la strada. È come se ancora il terreno trasudasse l’acqua del
lago scomparso. Alcuni degli uomini si guardano intorno con aria spavalda ma le voci si
smorzano mentre la sera si avvicina. Hanno paura. Non dell’assassino che stiamo
andando a stanare, ché gli uomini in carne e ossa, anche armati fino ai denti, non fanno
paura. No, i miei uomini temono le chiacchiere con cui sono stati spaventati. Non sono
mai stati da queste parti e c’è chi, tra i vecchi miei armati, ha raccontato loro, con aria
seria, di Tarantasio, il dragone mangiabambini che si nascondeva tra le acque tiepide del
lago Gerundo. Lo stesso che dicono ucciso secoli fa da un Visconti. Lo stesso che si è
portato via, con il suo fiato fetido e le ossa dei bambini divorati, anche tutta l’acqua del
lago. Lo stesso che vedo campeggiare sullo stemma dei signori di Milano, avvoltolato e
intento al suo pasto.
Riderei con gli uomini dello scherzo fatto ai nuovi, se non avessi fretta di arrivare e
rabbia da conservare per l’attacco. Caterina, mia figlia appena maritata, è già vedova,
chiusa da qualche parte a difendere da sé stessa la vita che il marito ha appena perso.
Le notizie giunte non sono state credute, all’inizio, da tanto erano inaccettabili. Gli
uomini arrivati a Lodi a inizio del pomeriggio hanno balbettato di mio genero morto.
“Carlo? –, ho detto io, scrollando le spalle. – Carlo è partito ieri per Cremona, con
Ludovico Cavalcabò, con gli altri, con… Non c’è motivo perché sia morto”.
Mi sono ascoltato borbottare l’ultima frase nello stesso attimo in cui mi davo dello
sciocco: esiste, per morire, una causa precisa e adatta? C’è altro, oltre al caso, che
decide di fare della nostra vita un mucchio di ossa?
No. Il fato decide e saltella pescando nel mucchio, e chi si è riparato per bene fino a
quell’attimo, ecco, è il primo a essere adocchiato e strappato via. E non esiste gioventù e
non esiste vecchiaia, così che, dopo lo sconcerto, so che quegli uomini dicono il vero, e
che Carlo Cavalcabò ha trovato il suo destino nella strada da qui a casa, tanto breve da
essere percorsa in mezza giornata.
Giacomo entra, con viso preoccupato, già raggiunto dalla notizia. Luigi mi sta al fianco,
e tiene un braccio sulle spalle del giovane Zilieto, il nipote che riempie il posto lasciato
libero da mio fratello. Scivola dentro Toniola, con Margarita che è venuta a trovarci e
tiene per mano Francina e Taddea.
“Come?”, chiede cupo Giacomo.
E gli uomini raccontano.
Trentadue
Quando si vive una contingenza non si è attenti a ciò che i nostri sensi percepiscono.
Essi lavorano liberamente, senza controllo, e depositano nella nostra memoria ciò che
poi dal tempo sarà setacciato e spulciato, col sacrificio indifferente di suoni, parole,
volti, certezze. Quando la contingenza è vissuta da altri, si cerca di imbastire con
pazienza ciò che altri sensi hanno veduto e ascoltato, e si giunge a raffigurarsi tante
realtà quante sono gli occhi che hanno visto o le orecchie che hanno udito.
Mi dicono che Carlo, dopo aver seppellito lo zio nel fondo di una cella, si sia preso
paura degli stessi cremonesi e sia andato a consegnare sé, la città e il prigioniero in
mano al duca Giovanni Maria. Giacomo impreca piano mentre uno degli uomini
impolverati e sporchi ci racconta che proprio per questo Carlo è stato a Lodi, ieri: perché
il viaggio di ritorno da Milano a Cremona non si sarebbe potuto fare d’un fiato; perché
la mia città era opportuna stazione a metà strada; perché a Lodi signoreggio io, che gli
ho appena concesso in moglie mia figlia ed è onorevole e rispettoso far visita al proprio
suocero.
E l’altro prosegue: Carlo, una volta partito, si è fermato ancora, alla rocca di Cabrino
Fondulo, e questi li ha invitati alla sua tavola. Comprendo bene come al Fondulo sia
balenata l’idea di potere, in una sola mano, liberarsi di zio e nipote, e di prendersi
Cremona tutta per sé.
Il primo uomo prende di nuovo la parola e favoleggia di lautissima cena e di buon vino,
tali e tanti da fare seppellire nel sonno Carlo e i suoi e da rendere facile a Cabrino di
farli tutti scannare.
E mentre le donne rabbrividiscono e si siedono, Luigi chiede torvo il seguito e le voci si
accavallano: ministro dell’uccisione è stato il Fondulo, o forse un certo cavaliere di
Bologna, capitano dei Cavalcabò stessi; il Fondulo ha violato i sacri diritti dell’ospitalità
e li ha uccisi durante la caccia o meglio, no, li uccise in casa, ma pare che, no, li abbia
fatti uccidere, dopo la cena, e li chiuse in sacchi e li gettò in Po; ma si dice, sussurra uno
che fino ad allora è stato zitto, si dice che li abbia gettati in una latrina e sia poi volato la
notte stessa a Cremona con alquanti cavalli, e abbia strozzato in carcere lo zio di Carlo e
ottenuto a tale prezzo la signoria.
Un prezzo che a me pare ora troppo lieve.
Ben altro deve pagare il Fondulo per tenersi Cremona: e allora corro, anche se ormai è
notte e i miei soldati temono l’apparire del Tarantasio. Corro per afferrare l’assassino di
mio genero, e se non mi riuscirà, perché le serpi velenose son le più veloci a scappare,
sarò pago di assaltare, espugnare e saccheggiare il suo castello, e riprendermi mia figlia,
e continuare a combatterlo, in modo palese o coperto, finché ne avrò la forza o la voglia,
o finché qualcuno non mi convincerà che è mio utile fermare le armi.
Trentatré
Quante morti ancora per indirizzare la mia vita così come mi sono prefissato? Quanto
sangue da versare di nuovo e di nuovo?
Il paese dorme e io veglio nella rocca del Bel Pavone che soltanto pochi mesi fa Ugolino
Cavalcabò ha stretto nelle sue mani. E oggi? Nella serata che va intiepidendosi con
l’arrivo della notte? Dov’è Ugolino? Ha mangiato alla mia tavola, ha combattuto al mio
fianco. In quale tomba è stato cacciato dal tradimento del suo stesso nipote?
E Carlo? Carlo, che ugualmente, per interesse, per calcolo, ho voluto al mio fianco, nella
mia famiglia? Ha pagata la sua viltà con una moneta ancora più scellerata.
Il Fondulo, per suo vantaggio, ha cambiato strada troppe volte per esitare di fronte a un
nuovo cadavere. Dicono che, appena emancipato, abbia consegnato persino il suo borgo
ai nemici dei Visconti, e che abbia raggiunto i Gonzaga per tramare contro i milanesi.
Al servizio di Ugolino, ha fatto sollevare Cremona e combattuto nelle terre intorno e
massacrato i ghibellini e i viscontei che si sono avvicinati alle sue milizie.
E al servizio di Carlo ha preso Ugolino e lo ha buttato, raccontano a Cremona, nella
cella più fonda del castello di Santa Croce.
Ma è solo in favore di sé stesso che ha troncato le vite di Carlo e dei suoi. È soltanto per
sé che è fuggito e si è rinchiuso tra le mura sicure di…
“Signore. Signore, qui sotto abbiamo finito”.
Sobbalzo alle parole di Alberto, mio fidato aiutante nell’assalto finalmente concluso.
“Gli uomini del Fondulo?”
“Presi. Tutti. Si sono consegnati, con la Rocca. Ma…”
“Ma?”
“Hanno rovinato e rubato quello che potevano, anche se dicono di servirvi. Possiamo
rovinare loro, adesso”.
“Ci pensiamo, Alberto, ci pensiamo. Per il momento, non voglio altro sangue. Non
stasera”
“Come volete, signore, anche se…”
“Alberto, da mesi è lotta aperta tra me e il nuovo signore di Cremona. La lotta
continuerà. Teniamoci i suoi uomini tra le mani. E vediamo che succede”.
Scuote le spalle, Alberto, e sbuffa di disaccordo mentre si inchina in fretta e si allontana.
Lo lascio andare: mi è fedele, e so che farà ciò che deve, non ciò che vorrebbe. Mi
avvicino al finestrone aperto sulla notte ormai giunta. Finisce il mese di ottobre ma il
freddo, la sera, ci lascia ancora tranquilli e io posso osservare il buio che circonda
questo paese di poche anime, una manciata di costruzioni messe a guardia di una delle
ultime anse dell’Adda, a segnare il confine tra noi e Cremona.
Confine fragile, come fragile è il confine tra me e Cabrino Fondulo, che poco fa
disprezzavo. Mi sentivo migliore di chi aveva ucciso mio genero, assalito mia figlia,
bruciato le mie alleanze.
Oggi, alla fine del mio viaggio terreno, intendo che non lo sono stato. Quasi che la
certezza della morte renda più acuto il pensiero e più ampia la vista, mi avvedo che ho
fatto e disfatto con indifferenza le amicizie e le inimicizie: la ragione di stato, il calcolo
e il bisogno sono stati più forti di lealtà e di vincoli di sangue. No, non ero migliore, né
in miglior condizione del Fondulo o di altri compagni di signoria: la mia salvezza
poggiava sull’unione coi nemici dei duchi di Milano. L’obiettivo mio necessario e
principale è stato sempre quello, innanzi al quale ogni altro ha ceduto. A esso soltanto
ho rivolto dunque attenzione e ingegno, le forze e la vita, la mia e degli altri.
Trentaquattro
Ha forse mancato l’obiettivo per sua colpa? È stato cieco o soltanto sciocco,
costruendosi da sé stesso gli inciampi che lo hanno fatto rotolare nelle segrete del duca
Visconti?
Si fa memoria delle ostilità con il Fondulo e rievoca mormorando tra sé i passi con cui
Venezia, proprio in quei tempi, si è avvicinata circospetta ai signorotti che, ben
condotti, così gratuita barriera avrebbero opposto al nemico milanese.
Ha agito con cautela, la Serenissima, lo ha blandito, lodato, lusingato. Lui, consapevole
ma complice.
Nel novembre del 1406, poco dopo la conquista della rocca di Maccastorna, mentre il
Fondulo si teneva Cremona, Giovanni si è ripreso la figlia Caterina. E il Doge Michele
Steno, in una solenne adunanza del Consiglio Generale, lo ha nominato patrizio veneto,
proprio lui, il magnifico e potente domino Giovanni da Vignale, signore di Lodi, con i
suoi discendenti.
In tal modo, e a questo può ora pensare con chiarezza, il Doge si è accaparrato il
Vignati nella maniera più astuta e obbligante, e ha proseguito nell’aprire a Venezia
anche la terra ferma. E certo era necessario tener debole e divisa la Lombardia, perché
non ritornasse la potenza dei tempi di Gian Galeazzo. A tal fine, è stato esaltato questo
tirannello o quel signore contro i simili o contro lo stesso Visconti, per distruggere uno
con la mano dell’altro e per costruire la propria potenza terrestre sulle rovine altrui.
Sapeva, lui, di questa politica? Aveva penetrato le ambizioni della Repubblica o si
contentava degli onori che ne derivavano, prendendo da ciò maggior confidenza e
coraggio?
Se lo chiede, rinchiuso a Milano, abbandonato anche dai veneziani. Si domanda se ha
fatto mosse errate, se si è scelto gli uomini sbagliati. Se, in una parola, si è stretto il
cappio con le sue stesse mani.
Trentacinque
Trentasei
Trentasette
Trentotto
Luigi illustra sereno le qualità delle ultime bestie che si è procurato. Annuisco e
mormoro un assenso, quando mi sembra opportuno, con qualche pacca sul dorso del
corsiero più vicino. Momenti di grazia come quelli che sto vivendo mi sono dati di rado
e di rado so approfittarne.
Cammino piano di fianco a mio figlio, che parla di maggengo e crusca, di cavalli a
riposo e di quelli a lavoro pesante. Ci spostiamo lenti, tra il ronzio agitato delle mosche
e gli odori pesanti del fieno e delle erbe fino all. Talvolta, in questo angolo del palazzo,
sembra di stare nella mia campagna, campi verdi o scuri che qui, nell’aria chiusa e
pesante delle strade cittadine, è facile dimenticare.
Questo solo forse mi manca, tra le mura che difendono me e la mia famiglia. Per il resto,
passeggio volentieri tra i vicoli stretti, consueti; mi piace vagare tra le vie più lontane,
riconoscere un muro, uno stemma, un volto e alzare piano la mano per un saluto veloce.
Esaurito il giro della stalla, invito perciò Luigi nel portico buio che l’unisce al palazzo, e
mi dirigo all’uscita.
“Attendi, padre”, mi fa cenno lui e dalla corte lancia un fischio breve e potente. Lassù, a
una delle finestre della sala, si affaccia Zilieto e sparisce subito al cenno del cugino che
lo chiama dabbasso.
“Giacomo respirerà meglio, ora che gli hai tolto di mezzo il giocatore di scacchi”,
commento, e lancio un gesto d’intesa alle donne affacciate a sincerarsi che il ragazzo a
precipizio sulle scale abbia un sicuro approdo e sia ben controllato.
“Dove andiamo?”, affanna la voce di mio nipote, che con noi verrebbe fino all’inferno,
pur di starci vicino.
“Verso il fiume”, risponde per me Luigi, che sembra avere indovinato la mia voglia di
verde e di azzurro.
E ci incamminiamo, tre generazioni affiancate, nell’aria tranquilla di questa città dove la
gente passeggia, chiacchiera, ci saluta, ride. In qualche angolo nascosto, un musico di
strada accompagna il nostro cammino, senza che neppure Zilieto, correndo avanti e
svoltando un angolo, riesca a vederlo. Più facile tornare indietro e lanciarsi a spaventare
un gruppo di piccioni che subito inanellano i loro voli chiassosi nel cielo. Due donne,
strascicando le vesti ancora pesanti, si volgono appena allo schiamazzo del ragazzo e
degli uccelli, e chinano leggere il capo a salutare il loro signore e a lanciargli intanto
un’occhiata curiosa. Arriva, poco oltre, Bassiano, ci vede e ci viene incontro, serio ma
sereno; lo riconosco, prima ancora che dal viso, dalla tunica blu bordata d’oro e dalla
berretta leggera che porta per ripararsi dal freddo o dal sole.
“Giovanni, eccovi, finalmente”, saluta il mio vicario mentre mi si accosta.
“Finalmente? Accade qualcosa?”, chiedo.
Ma Bassiano scuote la testa e mi prende sottobraccio:
“Nulla, Giovanni, nulla, ma qualcuno pare interessato al vostro ultimo stallone e mi
sollecita a parlarvene. Cose leggere, vedete, cose leggere di cui discutere”.
“Non con me, allora –, Bassiano si gira a scrutarmi il volto, sorpreso, – non sono io
l’esperto, sapete?”, e richiamo mio figlio, indicandogli il dottore al mio fianco.
Luigi ci raggiunge, con Zilieto al seguito. Un saluto rispettoso di entrambi, un inchino
compito del ragazzo e procediamo verso il fiume, mentre mi lascio avvolgere dalla voce
roca del vicario e da quella sonora di mio figlio, che discutono assorti di talentuose
razze iberiche, di agilità e di denari capaci di compensare nella vendita tutte le migliori
qualità di un grande destriero.
Fa quasi spavento e sembra mare, questo fiume che taglia le terre della Bassa e che mi
sta dinnanzi, mentre Alberto si occupa dei cavalli e Giacomo con Luigi prende gli
accordi del passaggio. Giornata limpida e fredda, così che posso spingere lo sguardo ai
monti che bloccano il cielo, là in fondo, e sembrano circondare l’orizzonte per tutto il
suo estendersi. Sono abituato a spazi aperti, a pianura larga e distesa, e la cornice
rocciosa che mi sembra di poter toccare ma so lontana pare mettere una barriera al mio
cammino, quasi a consigliare il riposo. Mi sembra di scorgere il biancore delle cime e
qualche profonda scura ferita della roccia, ma forse è mia immaginazione, oppure i miei
occhi sono traditi da certi luccicori che il sole freddo trae dalle acque del Po.
Può essere che, davanti a una barriera montuosa, la mia smania di terre e comando si
sarebbe arrestata con maggior accettazione? Mi figuro il tentativo di allargare i miei
domini sconfitto non dal duca di Milano o dai suoi alleati, ma dalla natura, che mi si
poteva porre dinnanzi con una parete di pietra a ordinare: fermati, non hai più
possibilità, non hai più scelta. E non avere scelta è talora la miglior condizione possibile.
Un grido di allerta mi richiama dalle mie vagabonde congetture e abbasso lo sguardo
alla sponda sabbiosa, dove un cavallo dei miei recalcitra e dà problemi ai ragazzotti
impegnati a caricarlo senza essere scalciati. Uno di loro, rosso di pelo come mai mi era
capitato di vedere, allunga il più possibile le braccia aggrappate ai finimenti e sembra
marciare a ritroso, col busto proteso in avanti e il posteriore proteso all’indietro, a
difendere il corpo da un colpo che potrebbe essere assai doloroso ma, di contro, ad
agitare oltre il cavallo, che si sente ritmicamente strattonato e ancor più si impaurisce.
Alberto guarda all’insù, mi vede, sorride e allarga le braccia, come a dichiararsi vinto
davanti a tanta insipienza; poi si avvicina, molla un manrovescio al garzone, calma la
bestia e riesce a farla salire vicino alle altre.
Giacomo fa segno di raggiungerli. Piacenza ci attende.
Quaranta
Quarantuno
“Dicono –, prosegue lenta ma decisa la voce di Giacomo, – dicono abbia un'aquila ad ali
aperte sopra lo scudo, e che come un'aquila sappia strappare la carne ai nemici”.
“Anche le aquile vengono abbattute”, interviene Luigi, mentre Alberto scuote il testone
a dire che, sì, questo succede e che lui non teme un aiglon français che svolazza sulla
pianura.
“Giusto. Sì. E Boucicault perse un po' di piume, laggiù, in terra danubiana, quando il
sultano lo fece prigioniero”.
“E seppe fuggire dai turchi?, sbalordisce Alberto, per il quale pare sia assai più mirabile
la liberazione dai cani turchi che un'intera battaglia.
“No. No di certo – , chiarisce subito il nostro narratore. – Fu pagato un riscatto, e fu
liberato, e bene si vendicò, qualche anno più tardi, davanti alla capitale...”
“Costantinopoli...”, suggerisce Luigi.
“A Costantinopoli, sì, inviato dal suo re in aiuto all'imperatore bizantino, assediato da
quegli stessi turchi che lo avevano imprigionato. Li costrinse ad arretrare, e ad
andarsene e si prese la sua vendetta e i suoi onori. Tornò in Francia e forse pensò ad
altre guerre in Oriente, ma non era quello che gli era stato riservato”.
“Non più guerra?”, chiede accigliato Alberto, quasi deluso da un tale combattente
costretto nelle pastoie della pace.
“Non subito. Gli diedero Genova. La Genova mercantessa, la Superba che passò in
mano ai francesi, in loro protezione”.
“E per ben proteggerla – , aggiunge Luigi, – il Boucicault”.
“E per ben proteggerla, il Boucicault – , conferma Giacomo. – Governatore della
repubblica, legislatore, e gran finanziere dei denari genovesi, visto che dicono abbia
spinto la fondazione di un Banco simile a quelli dei fiorentini”.
“Soldi e potere, a Genova, e dunque che cosa lo ha portato oltre il Po?”
“Ciò che spesso accade nelle nostre terre. Accordi. Rappacificazioni. Leghe. Tradimenti.
Ribellioni. Boucicault ha stretto con il duca Giovanni Maria la lega che noi abbiamo
rotto a dicembre. Quattro mesi più tardi era ormai governatore in nome dei milanesi e
quattro mesi dopo ha occupato Piacenza e ha assalito Milano”.
“Voltando l'amicizia in ribellione”.
“E costretto alla fuga dagli stessi milanesi”.
“E Piacenza?”
“Piacenza –, Giacomo accenna con il capo verso prua, dove il fiume si apre sotto di noi,
in attesa di sbarcarci nei pressi della città, – è in mano a un podestà del Boucicault,
difesa dai suoi presidi”.
“Da conquistare, dunque”, Alberto sorride.
“Da conquistare”, approva Luigi.
“All'armi, dunque?”, di nuovo è Alberto che si esprime per primo.
“Non è detto”, dichiaro io, a voce alta.
Ho i loro sguardi addosso, in attesa.
“All'armi o al denaro. Ciò che converrà, signori”.