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Ancora senza titolo

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Prologo.

È il 27 agosto del 1416, l’anno cinquantaseiesimo della sua vita.


È l’ultimo dei suoi anni. Non vivrà più molto. Gli hanno rivelato la sua sorte.
Ha voluto sapere quando e dove sarà. Avrebbe almeno avuto un vantaggio, tra gli
uomini: conoscere l’ora definita e il momento, e il modo. Ha domandato, più e più
volte, la sicurezza della fine.
Gli hanno risposto malamente. È carne da macello, e alla carne da macello non si
devono gentilezze.
Restano le congetture, i sussurri che arrivano fino a quel buco, i conti, i rimpianti e i
ragionamenti, e le previsioni. Qui ha tempo per farne, costruirne, demolire e
ricominciare da capo.
Ma domani, crede, lo impiccheranno. La corda strapperà e lui renderà l’anima al
Signore.
Lo può sopportare.
Ha avuto una vita piena e bastante. Una vita, crede, giusta.

Cerca di convincersi: giusta.


Perché, in fondo, che cosa si può chiedere a un uomo?
Di essere forte, sano, astuto e coraggioso.
Di fondare la prosperità propria e della famiglia sull’unica politica adatta e utile,
quella della conquista.
Di non lasciare spazio a lealtà e fedeltà, se son fuori dalla propria carne, e talvolta
neppure dentro essa.
Questo è ciò che pensa; questo è ciò che lo ha portato lì.
In tutti gli anni passati ha cercato di entrare nei giochi, di uscirne indenne, di prevenire
le mosse, di figurarsi al posto di chi avrebbe potuto ridurlo in polvere.
Ha perso, lo sa.
Lo può sopportare.
È del mestiere.
Ma è contro natura veder morire il proprio figlio e sapere che è per causa sua che
scorrerà sangue giovane. Lo stesso sangue che un giorno aveva immaginato a
succedergli. E renderlo eterno.
Ma Giacomo è nascosto da qualche parte, nelle segrete del duca Visconti e il sangue di
Luigi bagnerà le corde dei cavalli che li porteranno alle forche. Riempirà gli occhi e
l’aria di chi verrà a vedere com’è fatto un signore caduto, e come si recidono
anzitempo il suoi polloni.
Non biasima il duca che lo ha infeudato e che lo ucciderà.
Avrebbe preso, lo sa, uguale decisione.
Tuttavia, brucia sapere i suoi figli nelle stesse mani e nello stesso destino.
Si spartiranno le sue terre, ma hanno già fatto a pezzi il suo cuore.

Uno.

“Che succederà, ora?”


Sento la voce di Luigi ma stento a riconoscere le parole. Non rispondo.
“Padre, che succederà, ora?”
“Non sono un indovino. Taci”, replico infine a bassa voce, ma con una scortesia secca
che fa indietreggiare il viso di mio figlio, proteso verso di me, pallido, spaventato e
coraggioso insieme.
Lo sento che si appoggia al muro al mio fianco, ma fisso ostinato la porta della nostra
cella, la schiena curva, le braccia poggiate alle cosce, le mani strette, intrecciate,
nervose. Non ce l’ho con lui, ma la rabbia cupa che mi ha preso non ammette
distrazioni. La coltivo, la sento crescere, la spiego e la cullo dentro di me, la amo. Non
voglio che se ne vada, mi piace sentirla annidarsi nella mia testa, nelle mie braccia. Ho il
mondo intero contro, nemico, e voglio che così sia.
Fermarmi, voltarmi a guardare gli occhi grigi di mio figlio, rispondere, levargli dalle
spalle la preoccupazione agitata delle sue trasparenti parole, non lo voglio fare. Non
ancora.
So che, se parlassi, perderei la concentrazione indignata che unica può tenermi in vita,
presente a me stesso, pronto a lottare e difendermi.
Ad alzarmi deciso, adesso che entrano quattro uomini e si avvicinano.
“Signore”, abbassano la testa in un saluto rispettoso.
“Signori”, saluto a testa alta, fissandoli bene in viso, mostrando che non li temo, né loro,
né il loro padrone.
Il primo, lo stesso che ha partecipato alla mia cattura, avanza di un passo. È senz’armi,
ma forte dei tre che gli stanno alle spalle, con la mano alla cintola, pronti a estrarre dal
fodero le corte, sottili lame che si indovinano desiderose di colpire.
“Vostro figlio, signore”, mi fissa e allunga il braccio sinistro a indicare Luigi che si è già
alzato e mi si è fatto di fianco, spalla contro spalla, immobile.
“Mio figlio?”, echeggio inutilmente, ancora rabbioso, ma già pronto ad aprire la porta
all’angoscia. Faccio un passo a destra, copro per metà Luigi, penso a difenderlo, mi
chiedo come, mi chiedo che cosa posso, che cosa vogliono, perché lui, perché non io,
perché così, perché.
L’uomo accenna ai tre scherani, loro vengono avanti, li blocco, uno estrae dal fodero il
basilardo e lo stringe nel pugno, l’altro mi allontana col gomito, come sapesse che, in
ogni modo, non sono in grado di oppormi, io allungo il braccio, circondo il petto di mio
figlio senza nemmeno vederlo, lo fermo, sento il suo cuore che batte oltre la stoffa del
mio abito, e me lo strappano, e sono pronto a gettarmi avanti, a colpire, a far finire in
fretta la giornata.
Adesso, però, è la mano di Luigi che si appoggia alla mia, che mi allontana, che si libera
dal mio abbraccio difensivo, mentre fa un passo avanti e si consegna, tranquillo:
“Padre…”, mi guarda e scuote la testa, d’improvviso sicuro, non più impaurito.
Un’occhiata ancora, le sue dita che stringono la mia spalla, e poi si gira, e segue i nostri
carcerieri, e non c’è più, si chiude la porta e io sono solo, e la mia rabbia è sparita, e
l’ultima parola che ho detto a mio figlio è stata: taci.

Due

Per lungo tempo ho creduto che Luigi fosse, tra i figli, il preferito. Quando l’ho udito
strillare chiara e forte la sua venuta in questo mondo, quando ho sentito le minuscole
dita che serravano il mio indice mentre, chino su di lui, ero intento a scostare la coperta
e a rassicurarmi della sua buona salute, ho pensato di essere di nuovo nato io stesso.
In quel momento, Giovannina era tenuta lontana e assistita da levatrici e donne,
chiamate in gran fretta per tirar fuori al mondo questo figlio che non voleva più
aspettare.
L’aria, intorno, profumava di caldo e di sangue. Un sangue buono, così diverso da
quello di battaglie e di morti.
“Chi è?”, ha chiesto Giacomo, in punta di piedi aggrappato alla cuna che da non molti
mesi aveva lui stesso abbandonato.
“Un fratello”, gli ho risposto, allontanando i suoi ricci scuri dalla fronte e chiedendomi
perché non avessi sentito per lui quel colpo profondo nelle viscere che mi aveva preso
davanti a Luigi.
“Chi è?”, ha chiesto ancora, e ho chiamato Mita, che venisse a prenderselo e a portarlo
nella sua stanza.
“È Luigi Ludovico”, ho risposto, mentre lo spingevo nelle braccia della balia e pensavo
a come organizzare il battesimo e a come questa nascita avesse di colpo spazzato via il
ricordo fresco della morte di mio padre.
Mita è tornata subito, sola, mi ha fatto cenno alla porta e si è avvicinata alla cuna.
“Cose per donne, non per uomini”, ha borbottato mentre si chinava sulle fasce e
sollevava il neonato, sicura che da lei avrei sopportato persino di esser cacciato dalla
stanza del mio secondogenito.
Ricordo di aver sceso piano le scale, cercando Toniola o forse Caterina. Erano ospiti da
settimane, e si stavano occupando della casa, dell’ultima sorella, e anche di mia moglie,
finché non avesse abbandonato il letto. La mia dimora cominciava ad affollarsi e io
pensavo, allora, a cosa sarebbe successo dopo qualche anno.
Sono entrato nella sala grande e mi sono seduto a capotavola. Ho osservato i posti
lasciati vuoti quello stesso anno da mio padre Zilieto e da sua moglie Franceschina. Ho
immaginato mio fratello Antonino, cresciuto, al mio fianco, e dall’altro lato Giacomo e
il nuovo arrivato, e poi gli altri che sarebbero venuti dopo di loro.
Avremmo festeggiato presto quella nascita, intorno a quel tavolo, con cosce di cervo ben
disposte sulle focacce, e altra carne arrosto, con salse di erbe verdi e spezie, e salsa
bianca agliata, mele e pere delle nostre terre e confetti con nocciole e miele e cotti nel…
“Sei qui? –, mi ha chiamato Caterina, ferma sulla soglia, la mano che stringeva la mano
di Margarita, poco più grande di Giacomo. – Tua moglie può vederti, ora”.
Mi sono alzato e sono salito a ringraziare Giovannina e, insieme a lei, Dio.
E ora, chi posso ringraziare per ciò che mi è stato tolto?

Tre

Ma se chiudo gli occhi e accosto le spalle alla parete disordinata, che ancora sembra
trattenere il calore delle spalle di Luigi; se poggio i calzari alle tavole sconnesse e le
mani sulle ginocchia, abbandonate; se respiro piano nel silenzio di questo mattino
appena nato, e alzo profondo il fiato su dai polmoni, le domande inutili si allontanano.
Rivedo, con lo sguardo del ricordo, così ingannevole, così gentile, la casa che ho
lasciato per correre a riprendermi Giacomo e a salvarlo dalle mani del duca.
Entro nell’androne annerito dall’ombra, più scura a me che arrivo dal sole caldo della
strada, salgo le scale larghe e silenziose, e spingo il legno pesante che cede e mi apre la
sala grande.
Chi sarà, a quest’ora, nella sala grande? Certo non i miei nipoti, i miei nipoti senza più
un padre, che non amano vedere le luci dell’alba. Ci sarà Toniola, che di nuovo ha
abbandonato la sua casa per tenere in piedi ciò che rimane della mia famiglia e
affiancare Giovannina nel governo della casa. Manco da nove, dieci giorni? Sarà corsa
anche Margarita, e forse suo marito Ottone l’ha accompagnata e, mentre io buco le mura
della prigione con i pensieri, mia moglie e le mie due sorelle sono sedute al lungo
tavolo, in un angolo, a tenersi le mani strette e a chiedersi quando torneranno gli uomini
di casa.
Venti gradini più su, nel solaratum, i miei nipoti ancora dormono, e le mie figlie stanno
forse vegliando. Francina saprà rassicurare la giovane Taddea, e può darsi che Leonarda,
benché sposata, abbia lasciato per qualche giorno la casa di messer Malaspina e sia
tornata a Lodi a confortare le sorelle, a ordinare di lavare bene le camisie e passeggiare
per mille passi prima di andare a dormire.
La città si sveglia, a quest’ora, e posso figurarmi che ci sia mercato e che si passi
strusciando per le vie strette mentre gli artigiani tolgon le assi alle porte e i venditori
preparano i banchi nella piazza. Si mormora e si urla, e si chiama all’acquisto, e sotto il
palazzo sfilano insieme mendicanti e ladri, truffatori e bottegai. Le donne, allora, si
affacciano e spingono fuori i servi, ché acquistino vino e carni e dolciumi per la tavola,
ché anche nella disgrazia e nel dolore il corpo chiede la sua paga, per sopravvivere.
E io sono qui, che mi perdo in strade ormai lontane, e mi figuro luoghi e sento grida
fissati nella memoria. Veloce, affiora tra i pensieri l'implorazione di Giobbe e vorrei
sapere ugualmente rimproverare Dio e invocare la maledizione sul giorno che mi ha
visto nascere. Ma più forti del vedere finire i miei giorni nell’infamia, più acuti del
tormento di vedermi strappato un figlio e di sapere prigioniero l’altro, salgono adesso,
insieme alla luce, i ricordi di quello che è stato. Di quello che sono stato.

Quattro
C’è una riva dell’Adda che si raggiunge scivolando da un pendio dolce. Ci si
sgraffignavano i palmi e le ginocchia, quando si decideva di fuggire da quelle parti, ma
il gioco valeva la pena. A pochi minuti da casa, Antonino e io potevamo perderci tra
arbusti e canne e sciacquìo leggero. Nessuno sapeva che eravamo lì, o almeno così ci
facevano credere e ci piaceva credere.
Allora, Antonino reputava io fossi un eroe. Allora, non dubitava che avrei potuto sempre
salvarlo con una sola mano, come feci quando scivolò in Adda per non dargliela vinta a
un suo trofeo, un brutto rospo rugoso che stringeva forte a sé e che, mi raccontò poi,
intendeva impalare e trasformare in segnale della sua furia combattente.
Lo salvai, Antonino, lui e il suo rospo, e gliele suonai pure, mentre tremavo per l’acqua
ghiaccia e la collera.
“Che ti è preso?” e gli mollai un ceffone prima ancora che aprisse bocca. Non che mi
aspettassi davvero una risposta, una scusa o una spiegazione. Capivo soltanto, in quel
momento, che aveva rischiato grosso. Capii solo più tardi che ciò che mi arrossava il
volto era lo spavento, non la rabbia.
È che il fiume in quel punto forma dei vortici: a guardarli, pare vogliano portarti con
loro e ti chiamano. Molto prima del giorno del rospo ho saputo di dovermi negare,
finché duravo a resistere. Ero stato più e più volte messo in allerta da balie, servi, zii e
padre. Ora toccava a me allertare mio fratello. Quello schiaffone e le lacrime che ne
derivarono mi sembrarono sufficienti.
Talvolta, però, più avanti, più grande e forte, mi sono arreso alle lusinghe dell’acqua, ho
rischiato, mi sono gettato. A volte solo, a volte con Antonino. Siamo sempre tornati vivi.
La cosa meravigliosa è che non me ne sono mai stupito: la vita, me ne convinsi presto,
era per me un dovere, un obbligo, ma innanzi tutto un regalo.
La sera, tutte le sere, poggiavo le ginocchia nude al pavimento. Per mio padre, un modo
per rafforzare il carattere; per mia madre, l’umiltà di preghiera al Signore nostro Dio.
Recitavo a memoria le litanie dovute, e alla fine ringraziavo con fervore e decisione.
Qualcuno, mi raccontavano, mi aveva donato la vita, e dovevo benedirlo. Lo facevo
convinto, ma intanto pensavo che ormai quella vita era diventata mia.
Nessuno avrebbe potuto togliermela.

Cinque

Una sera, su quella riva, mio padre mi arrivò alle spalle e poi al fianco, in piedi.
Osservavo i grandi calzari e sapevo che cosa avrei visto, levando appena lo sguardo: un
uomo pallido, che allora mi sembrava anziano, quasi pronto a morire.
Oggi, io mi sento padre a mio padre. Se lui fosse qui, nella mia cella, in piedi, alzerei gli
occhi e vedrei un uomo pieno di vigore, con i capelli ancora scuri, mentre i miei sono
grigi da tempo.
Lo ricordo, dunque, e quello che ricordo è un uomo giovane, mentre io non lo sono più.
Non sembra assurdo, e crudele? Mio padre, morto nell’anno domini 1386, non
riconoscerebbe più suo figlio in questo maschio curvo e bianco, segnato dal tempo e
dalla sofferenza.
Mi osserverebbe dall’alto, nello stesso modo in cui quel giorno, di fronte all’acqua
corrente, mi sovrastava a spiegare quello che stava accadendo nelle terre intorno e nelle
terre più lontane.
Confesso: smetto presto di ascoltarlo. Non è per superbia o per mancanza di rispetto, il
Signore me ne è testimone.
Quella volta, io non lo ascolto per leggerezza, per giovinezza, per incoscienza. Le stesse
mancanze che ho sempre rimproverato a Luigi, e a Giacomo, ma che sono state mie, un
tempo. Mio padre Zilieto non insisté, quel giorno. Ma il giorno dopo, e quello di seguito
ancora, continuò a parlarmi, a raccontarmi, a mostrarmi carte e luoghi.
“È inevitabile, figlio. Devi sapere”.
“Perché io? –, chiesi. – Perché non mio fratello Antonino?”
Era una domanda sciocca, e dunque inutile.
Riconosco ormai che sapere significa spesso vivere.
Vorrei continuare a fare gli stessi discorsi a Luigi, spiegare gli avvenimenti, le persone,
le vendette e i doppi giochi; vorrei che lui mi chiedesse, ugualmente, perché io?; e gli
risponderei, e farei il padre, indirizzerei mio figlio, gli aprirei la strada.
Taccio, invece, per non sentirmi ricordare a me stesso che è tutto inutile. Che figli, al
fianco, non ne ho più. Che le strade, avanti, son tutte sbarrate.
Adesso, prigioniero e lontano, posso soltanto ricordare.
Fare a sé stessi memoria del passato dilata i tempi, annebbia la certezza della morte. Per
qualche istante, mi riporta indietro, a un tempo in cui Luigi non morirà, ché non è
ancora di questa terra, e io non sono ancora padre, né sposo, né soldato, né destinato.
Non esisto, nemmeno nei pensieri di una madre.

Sei
In vent’anni, tra il 1334 e il 1355, i terreni del contado passano in mano a sei signori
diversi, tutti imparentati con i Visconti di Milano. Gli abitanti delle terre della Bassa,
ricche d’acque e di beni, si sentono trasmessi da un diavolo a un altro, costretti a essere
rapinati e a perdere denaro più di quanto possano guadagnarne. Singoli cittadini,
comuni, monasteri e Chiesa vengono privati di averi e terreni, in cambio di un censo
insignificante. Situazione non rara, anche nel resto del paese, ma il vescovo della zona,
proveniente da nobile famiglia, lamenta le rendite ingiustamente godute dai signori
della città lontana, al punto che i giurisperiti, esaminato il caso, proprio pochi anni
prima della nascita di Giovanni condannano i Visconti, per due volte, a restituire alla
Chiesa i beni usurpati.
Accuse, decisioni e offese, soprattutto legate a ricchezze o a speranza di ricchezza,
richiamano sempre la compagnia della vendetta. È quello che accade anche allora, e a
farne le spese è la famiglia del vescovo, i cui componenti vengono imprigionati,
minacciati di tortura e costretti a rinunciare ai feudi. E prosegue il tentativo dei signori
di Milano di controllare tutta la regione, di eliminare i privilegi dei feudatari e dei
nobili, di procurarsi in qualunque modo il denaro necessario alle guerre che li vedono
protagonisti.
Giovanni Vignati nasce nell’anno 1360, in quella zona bagnata dalle curve capricciose
dell’Adda: qua e là, il letto del fiume disegna riccioli e uncini che a poco a poco
vengono abbandonati al loro destino dalla corrente quando prende un’altra direzione.
Non si comprende se l’Adda abbia fretta di gettarsi nel grande Po o voglia invece
ritardare il più possibile l’annullamento.
Certo è che in questo angolo di terra persino la terra si muove: in essa e negli alvei
delle acque sono incise le trasformazioni e le traversie di un paesaggio che muta in
modo graduale la sua fisionomia. Il lavoro degli uomini, i terrazzamenti, le strade, le
strisce di letti antichi e le acque dei fiumi vitali disegnano fattezze che, come le rughe di
un volto umano, ricordano le sfide e le servitù della vita. Ma i ritmi sono quieti, e
visibili con fatica e con il passare dei secoli, e solo se si è in grado di volare come un
falco pescatore.
Eppure.
Eppure, nel loro dimenarsi, gli uomini si illudono di modificare durevolmente la terra
che calpestano. Di porre limiti non assegnati dalla natura, confini e distanze, chiusure e
barriere. E a volte davvero così fanno.
Il processo, nella zona come altrove, è contorto e composito. Attraversa lotte comunali,
accordi, alleanze incrociate, scontri, spalleggiamenti, sconfitte, ribellioni, riconquiste,
nascite e morti, di terre e di signori.

Sette

È l'ottobre del 1386. La luce del sole accarezza il cotto rosato e si fa rompere soltanto
dalla lieve ombra delle colonne, di lato all’entrata. Le due finestre aperte sul vuoto, là in
alto, rendono onore al loro nome e al cielo, così limpido e sereno.
Viene da pensare che non ci sia posto per pianti e lutti.
Ma io indosso l’abito della tristezza, ho il capo chino, e abbandono l’aria chiara e il sole
per entrare nella chiesa a celebrare una morte. Che penso? Alla perdita di mio padre?
Alla successione? Ai miei ventisei anni?
Nulla di tutto ciò. Osservo le mura spoglie, le navate, i passi lenti di chi mi precede, il
velo di mia sorella Toniola, che nasconde a malapena i singhiozzi. Penso che saluterò
mio padre tra le mura di un edificio sacro pagato dal nostro signore. Penso che, se il
nobile Fissiraga avesse potuto vedere i suoi denari circondare la nostra famiglia,
accoglierla, aiutarla a sopportare la definitiva partenza del vecchio Zilieto Vignati, ecco,
se avesse saputo, forse avrebbe stretto i cordoni della borsa e non avrebbe ceduto alle
lusinghe e alle preghiere del santissimo vescovo Bongiovanni.
O forse no. Forse penso male. Forse, nell’alto dei cieli, dove adesso il nuovo vescovo
spedirà mio padre per consolare noi figli della sua morte, lassù in alto scompaiono odi e
rivalità, possessi e contese.
Sospiro. Probabilmente sorrido. Lo so perché Giacomo, mio figlio, così piccolo e serio
accanto a me, mi osserva curioso; e Toniola mi guarda con aria di buio rimprovero.
Amava suo padre, lei. Amava, volevo dire, nostro padre. Crede, forse, che io non l’abbia
mai amato, che stia rallegrandomi di terre e palazzi che sono nelle mie proprie mani e,
quando sarà il momento, in quelle di Antonino.
Dovrei rassicurarla, ma mi pare troppo lo sforzo, oggi. Dovrei dirle: sii tranquilla con
me, Toniola, sono qui, sono io, e questa è la vita e questa è la morte. Dovrei ricordarle
che mi sono già visto strappare amici e affetti grandi, e che non posso ogni volta cedere
una parte di me per rimpiangerli e per soffrirne. Che adesso non ho il tempo per
addolorarmi e dispiacermi.
Meglio accettare e allontanare il pensiero e i timori. In tal modo mi perdo dietro anche il
dolore, e nemmeno di esso sento la mancanza.
Otto

A diciassett’anni, tuttavia, il dolore, la malinconia, la tristezza, persino l’amore, sono


benvenuti. Si pensa di avere forze sufficienti per andar loro incontro, e sostenerli. Si
porgono volentieri spalle ancora esili a carichi che faremmo meglio ad allontanare fino a
che è possibile, fino a che i dolori, i viaggi, la poesia e lo stesso amore non diventino
leggere ombre della nostra vita. Sopportabili.
A diciassett’anni, io sono forte, scuro di capelli e di temperamento, certo del mio potere
e del mio avvenire.
Mia madre, alta, severa, trattenuta nei suoi gesti di madre, teme per me un futuro da
guerriero, ma accetta. Intanto, cerca di insegnarmi anche altro.
Chino sul tavolo accanto al precettore, mi esercito nella traduzione scritta dal latino. La
mattina, mando a memoria le regole del diritto. Da solo, la sera, finché non mi si
consumano gli occhi, mi applico ai trobadori e ai poeti che mi arrivano dalle terre
siciliane o toscane. Di giorno, esercito cuore e braccio ai pesi delle spade e delle lance e
sogno di spargere sangue nemico. Mentre si fa scuro, ripeto a voce bassa i suoni
mormoranti di canti d’ardore fiorito, le serenate e il fin amor che aspetto come dovuto.
Non parlo delle mie letture con nessuno. Soltanto, talvolta, prendo accanto a me
Margarita: è una bimba, appena svezzata, mia sorella del cuore, e per farla quietare
sussurro lentamente le parole di gente lontana, bisbiglio sottovoce suoni che lei non
comprende, mugolo nenie adatte alla luna polverosa che occhieggia dai finestroni del
palazzo, abbasso tono e voce finché lei si fa persino più piccola e sospirando si lascia
andare al sonno.
Una sera, mentre cerco di far scivolare in letto il corpo di Margarita, così leggero anche
nel completo abbandono, sento una voce.
Perché, di Ailina, apprendo prima le parole che il volto.
Chiacchiera tranquilla con Toniola, ha un tono basso, tranquillo, e mi attira nell’altra
stanza. C’è, ricordo, anche qualche risata, mentre loro si scambiano cestini di scuri
dolcetti mielosi.
Sono curioso. Passo come per caso nel salone grande, e le trovo lì, chine una verso
l’altra a masticare piano e a cercare di decifrare i versi di Catullo alla scarsa, scarsissima
luce del fuoco centrale.
Toniola non somiglia per niente a Margarita. Tanto la bimba è irrequieta e saltellante,
tanto lei circonda i suoi quindici anni di calma gravità. Piccola e bruna, con gli stessi
occhi scuri e la stessa indole di nostra madre, ha voluto imparar di latino e di diritto,
dimenticando il posto che comunque le toccherà tra pochissimo, accanto a un focolare e
nel letto di un Dell’Acqua o di un Cipello.
Zilieto, con le figlie, scorda le durezze che gli sono facili con noi maschi, e indulge a
concedere, ad accettare, a regalare manoscritti, lezioni, pezze di tessuto così come
capricci e mode. Toniola lo sa, e gli corre incontro quando rientra a casa, gli sfila il
giubbetto impolverato, gli offre il vino delle colline di San Colombano, deterge il sudore
e la fatica, lo accompagna gentile al suo panchetto preferito e, talvolta, legge per lui ciò
che ha imparato nel pomeriggio.
“Sei abile a farti benvolere –, le ho detto un giorno. – Tuo marito farà ciò che vorrai, alla
fine”.
Lei mi ha guardato a lungo con il suo sguardo chiuso, immobile, e quando già avevo
scosso le spalle e me ne stavo andando, perché non è fruttuoso fermarsi a cercare di
capire le donne e non mi piace sentirmi sciocco di fronte a nessuna di esse, ha lanciato
una frase alle mie spalle.
“Non ho marito”, mi ha detto.
“Lo avrai presto”, ho ribattuto fermandomi sulla soglia, girandomi a lei e
appoggiandomi allo stipite scuro della porta.
“Questo… è ciò che si dice?”, ha chiesto tranquilla, ma con un fondo di ironia incredula
condita da una pausa sapiente e da quel saliscendi della voce che è sempre stata così
abile a modulare.
Fossimo stati ancora bambini, sarebbe stato un segnale di battaglia tra noi; ormai
cresciuti, potrebbe essere il segnale di una fitta schermaglia e di cattive parole. Ma
quella volta io rinuncio, e muovo piano la mano davanti a me, come se volessi
disperdere i fumi della sfida:
“Non si dice nulla, Toniola, nulla, ma… lo sai anche tu, hai quindici anni, i tempi sono
maturi”.
“Tu sei più vecchio di me. Non c’è maturazione, per gli uomini?”
Ha piegato un poco la testa verso la spalla, mi ha guardato e ha sorriso, e aspettato,
come ha sempre fatto quando voleva saggiare la mia pazienza.
“Può darsi che ci sia, ma rivolta ad altro, per ora”.
“Oh, certo!”, ha esclamato spazzando con un gesto della mano tutto quello che contiene
la mia frase: le sfide, la famiglia, il nome, il contado, le conquiste, le terre.
“Buona notte, fratello”, ha aggiunto con un leggero inchino, e se ne è andata,
costringendomi a cederle il passo e a schiacciarmi contro la porta mentre mi scivolava
davanti per raggiungere le sue stanze.
Adesso è qui, e solleva lo sguardo dal poeta, e lo passa lentamente da me alla sua amica,
e poi di nuovo a me, e alla sua amica. Un’ombra di sorriso va e viene sul suo volto. Mi
irrigidisco, mentre saluto goffamente, ma Toniola, per una volta, pare più complice che
battagliera.
“Questo è mio fratello Giovanni”, dice alla fanciulla seduta lì accanto. Ailina fa un
piccolo cenno con la testa e allunga verso di me il cestino dei dolci al miele. Io accetto e
ringrazio, e penso come sia vero ciò che ho studiato: per Dio, amore, ben facile ti fu
sopraffar me, scarso d’amici e senza protettore!
Decido che sarà lei al mio fianco, nei secoli a venire.
Cinque mesi dopo la decisione, quando erba nuova e nuova foglia nasce e sbocciano i
fiori sul ramo, e l’usignolo acuta e limpida leva la voce e dà principio al canto, siamo
uniti in matrimonio nella chiesa di San Francesco.
E Francesco è il nome del figlio che il ventre di mia moglie vomita al mondo, troppo
presto per lui e per lei, che, nemmeno un anno dopo quella sera, io accompagno a
sepoltura.

Nove

Sta pensando, ora, se quella moglie bambina e quel figlio mai vissuto abbiano patito
quello che sente intorno: il caldo afoso e umido che rabbrividisce, il soffocamento di chi
vede immediati i limiti del proprio spazio fisico, la desolazione di chi si immagina e si
sente lontano da tutto e da tutti e non ha nulla da fare, perché nulla gli è concesso
operare e sperare, nella scatola bassa e petrosa della sua prigionia.
Ma è quasi felice, d’un tratto. Alza lo sguardo all’inferriata, intreccia le mani alla
schiena, offre il viso al chiarore che filtra, e sorride: improvvisamente vede la
possibilità di prendersi il tempo. Quello che gli è mancato o si è fatto mancare per
pensare i suoi pensieri, e i suoi lutti.
Vorrebbe, e si sente sciocco, vorrebbe leggere i suoi trovatori, occuparsi delle figlie,
stare coi nipoti. Vorrebbe assaporare il dolore messo sempre in un canto, e
riconoscerlo finalmente come terra straniera, che cose straniere fa fare alle nostre
menti.
Ha sempre pensato che il tempo per soffrire fosse buttato via, ma non lo è affatto. Ha
sempre creduto che fosse necessario liberarsi in fretta dal dolore, via, in fretta, più in
fretta possibile. Invece si può solo accettarlo, il dolore, tenerlo, magari aspettare che si
metta a gridare. Grida così forte, il dolore, oggi che può lasciarlo libero di scorrere e
di vivere, così forte da coprire ogni altro pensiero, da farlo camminare i pochi passi che
sono concessi, fino all’angolo in ombra e poi di nuovo a quello in luce, e ancora ombra
e luce, ombra e luce, polvere e mattina, scuro e chiaro, avanti e indietro, salvezza e
perdita, aiuto e fine.
Aiuto? Scurisce in volto. Il politico, il guerriero, allontana ancora una volta l’uomo.
Sa che non arriverà aiuto, da nessuna parte. Ognuno si guarda da sè, in quei tempi di
disordine e di confusione.
Ha visto alleanze formarsi e sciogliersi, come un panetto di burro si scioglierebbe al
sole scottante di agosto; si è messo a fianco di chi, disinvolto, gli ha poi girato le spalle
per profittare di un vantaggio di terre o di lance o di castelli.
La repubblica fiorentina lo ha sommerso di lettere, lui e gli altri signori della zona.
Trattati segreti e corrispondenze, tanto con loro quanto con i conestabili di certe bande
che avrebbero aiutato i toscani a far calca intorno ai duchi di Milano.
Razza dura a morire, quella dei Visconti. A farne solo sua memoria, Giovanni può
contare gli anni di Galeazzo e di suo fratello Bernabò, di suo nipote Gian Galeazzo con
i figli, Giovanni Maria e Filippo Maria, quello che tra poco vedrà la sua fine.
Razza meno fortunata quella del Vignati, che pure, solo una manciata di anni prima,
che a contarli servono poco più di due palmi, ha saputo imporsi e tenere con forza e
giudizio le terre della Bassa.

Dieci

“Quindi, sarà di nuovo guerra con i signori di Milano?”


È Antonino a girarsi corrucciato verso di me, quasi a riconoscermi il diritto di condurre
la discussione nel gruppo.
“Non è detto. Non è detto, ma credo sia venuto il momento di non rimanere da soli”.
“Che vuoi dire? Spiegati”.
Potrei leggere la sfida nelle parole di mio fratello, mio unico fratello, mio alleato e
amico. Ma so che non la è. So… Credo che sia il suo modo di dirmi: forza, trascina con
te questi sciocchi impauriti.
Mi appoggio alla tavola, scarico tutto il peso della schiena dolorante sui palmi delle
mani. Sono ancora segnate dalle tracce rosse delle redini. Pietro le osserva e, non appena
mi rivolgo a lui, gira il viso altrove. Erasmo fissa serio Antonino, e poi me, in attesa. Ha
lo stesso sguardo chiaro di mia cognata, tranquillo, distante. Non sembra poi così
spaventato. Solo annoiato.
“Guardatevi intorno, signori. Guardatevi intorno. Qui –, e prendo il calice che ho
vuotato poco prima,– è la nostra città. Questa –, e metto poco più in alto la pagnotta che
nessuno di noi ha toccato,– questa, vedete, è Milano. Cremona –, e sistemo a destra il
calice di Antonino,– Crema, Bergamo, Brescia”.
Elenco togliendo di torno e sistemando davanti a me i calici di Erasmo, Pietro, Antonio
e Betono.
“Lezione di geografia?”, Erasmo interviene quieto. Betono sorride e mi fissa, facendo
cenno con la mano: continua.
“Sì –, rispondo, – sì. Lezione di geografia. Vedete? Siamo circondati. E in pericolo”.
“Ferma –, interviene Pietro, girando intorno al tavolo e mettendosi di fronte a me. – Stai
esagerando. Crema… I guelfi di Brescia… son dalla nostra parte. I nostri ambasciatori
son tornati da Bologna e il legato del papa ha accettato il nostro aiuto. Cremona… Tu
vieni da Cremona, saprai bene dire che cosa sarà. Chi temi?”
Temo tutti, vorrei rispondere a Pietro. Temo anche te, tuo figlio Antonio, i legami di
sangue che hai stretto maritando una delle tue donne con mio fratello; legami che
getterai al vento se ti saranno di ostacolo. Temo i cremonesi, e i guelfi bresciani, e temo
soprattutto il tuo bel papa, che ha bisogno di denari per ripagarsi del suo giubileo e per
festeggiare la fine della peste.
È quello che vorrei rispondere ma che non dirò.
Pietro Dell’Acqua è uomo debole ma onesto, impaurito ma pronto a fare la sua parte.
Non va spaventato, va blandito.
“Pietro –, comincio, sedendomi e facendo cenno agli altri di imitarmi, – la nostra
sopravvivenza, la sopravvivenza di un piccolo dominio, sta in noi. Sta nella nostra
capacità di vedere che i tempi sono cambiati e altri da quelli dei nostri vecchi”.
“Ho solo pochi anni meno di tuo padre, che Dio l’abbia in gloria, Giovanni. Mi stai
spiegando che ho fatto il mio tempo? Che dovrei ritirarmi e lasciare il passo a nuovi
protagonisti? Che non sono in grado di capire cosa…”
“Niente di tutto ciò –, lo interrompo in fretta. – Niente di tutto ciò”.
“Padre –, interviene Antonio, – padre, Giovanni sta soltanto dicendo che non tu sei
invecchiato, ma sono i tempi a essere mutati”.
“I Visconti sono ormai deboli, che cosa vi preoccupa? Gian Galeazzo è morto e sepolto,
e noi possiamo bruciare i suoi statuti. Giovanni Maria ha tredici anni, Milano si è
rivoltata e lui è in mano ai rivoltosi. Filippo ne ha soltanto dieci, di anni, è rachitico e
malato, chiuso nella sua contea di Pavia, ne uscirà morto, che cosa temete?”
“Pietro –, richiamo la sua attenzione, ché smetta di girarsi a destra e a manca e veda
bene quello che voglio dire. – Proprio per questo. Ci dobbiamo staccare dal dominio dei
signori di Milano, ma non lo potremo fare da soli. Mai. Dobbiamo…”
“I nostri interessi sai quali sono –, interviene per la prima volta la voce cordiale di
Betono. – Non siamo abituati a lavorare con altri, se non ci conviene”.
“Ma è proprio qui il punto –, mi anticipa Antonino, con foga. – A noi conviene superare
l’ottica delle partes. È una visione antica, inutile, non capite? Giovanni Maria diventerà
grande, o forse la Reggente riuscirà a dare ordine al ducato o forse qualcuno degli
scagnozzi che girano intorno al suo letto potrà imporsi. Ed è allora che noi dovremo
essere preparati!”
Sorrido, tra me, sentendo Antonino che ripete quello di cui abbiamo discusso tra noi la
sera prima. Sono arrivato a Belvignate appena ho saputo, e ho chiamato qui tutti, ma ne
ho parlato prima con lui. E lui ha elencato, ier sera, ostacoli, ha messo avanti obiezioni,
ha dichiarato il suo scetticismo, ma forse l’ho convinto, se è lui il più fervente
portavoce dei miei progetti.
Pietro tace, osserva fisso Antonino, e poi getta un’occhiata al figlio. Antonio abbassa
lentamente la testa, più volte, guardandolo bene in viso: sì, padre, sta dicendo, i due
Vignati hanno ragione, conviene ascoltarli.
Ma è Betono Riccardi a farsi ancora sentire:
“E al Fissiraga –, ride piano, – al Fissiraga, che tutto a un tratto è diventato amico dei
Visconti, i vostri progetti piacciono?”
Sono tutti girati verso di me. Nessuno più finge di guardare la campagna che si intravede
dalla finestra; nessuno si preoccupa di recuperare il proprio calice per asciugarlo;
nessuno passa il dito sugli intagli della porta scura, mentre passeggia per la stanza.
Erasmo dell’Acqua mi guarda con gli stessi occhi sereni di mia cognata; Antonino mi
osserva con lo stesso sguardo incoraggiante di mia madre; Pietro Cadamosto e suo
figlio Antonio mi fissano con serietà, dimentichi che una Cadamosto giace ogni sera
legittimamente nel mio letto; Betono Riccardi sorride solo con le labbra e pare sfidarmi
a dire a voce alta ciò che è il pensiero di tutti. Che io rendo chiaro:
“Fissiraga? Fissiraga lo togliamo di mezzo”.
Un lungo respiro collettivo sfugge dai polmoni dei miei convitati.
Nessuno replica. La decisione è presa. Si tratta di trovare il modo.
Undici

È un vecchio qualunque quello che vedo passare nella piazza grande. Rasenta i portici e
conversa con un uomo alto e magro, che gli sta di fianco e lo precede di poco.
Si chiama Antonio e porta sulle spalle una mantella bruna e il nome di chi, un secolo fa,
ha mosso all'attacco di Milano, fronteggiato in campo aperto da Matteo Visconti.
Antonio Fissiraga è davanti a me. Devo ammirarlo? Devo portargli riconoscenza perché
nelle vene, in quelle vene fragili, sente scorrere il sangue di chi ha saputo, anni fa,
opporsi ai signori di Milano? Di chi è stato chiamato, allora, a comporre addirittura le
guerre fra i Bianchi e i Neri di Firenze?
Devo riverirlo perché, appena tre mesi fa, raccolto buon nerbo di gente nell’agro
intorno, l’ha fatta finita con i Visconti? Perché ha saputo manomettere le case dei
ghibellini, nostri nemici, devastandone i beni, sfondandone porte, cancelli e barricate?
Devo rispettarlo ancora, oggi, perché la città, con lui, ha scosso l’odiato giogo dei
Visconti?
Io credo di no. Io credo che ciascuno, in sé stesso, abbia il merito di ciò che fa e la colpa
di ciò che sbaglia.
Antonio Fissiraga porta un nome antico e riconosciuto, ma qui, e al presente, ha
sbagliato. Sta sbagliando. Ha ereditato dal suo avo la nobiltà del sangue e le tradizioni,
ma non la magnanimità, e l’ingegno, e la lealtà. È già pronto a riconsegnarci all’antico
servaggio de’ Visconti.
Cammino piano, metto i piedi dove lui li ha appena posati, ma so che la mia strada è
un’altra, i miei pensieri sono altri. Il mio futuro, è altro.
Anche di fianco a me. Eccolo, il mio futuro, o parte di esso. Ho portato con me
Giacomo, stavolta. Emancipato tre anni fa, ma chiuso sempre in quelle sue letture, in
quei suoi studi che sembra vogliano rinnegare ciò cui è destinato. Vero è che, quando
sono sincero con me stesso, e a volte accade, so che l’avvenire che io vedo per lui è
solo, per adesso, immaginato; voluto da me, e non da questo giovanetto, che mi
cammina vicino per dovere, per rispetto filiale, con lo sguardo perso in chissà quale
filosofia, con la sicurezza di sprecare con me il suo vero tempo.
O forse no. Forse più attento e presente di quanto io pensi, se è lui che sobbalza e mi
tocca leggero il braccio e mi indica che Antonio Fissiraga ha appena cambiato lato di
strada, e si avvicina alla piazza della chiesa.
Torno al momento, fermo Giacomo con il braccio teso a bloccargli il petto e la
camminata, osservo poco oltre l’ondeggiare della mantella chiamata a riparare le
vecchie spalle dalla nebbia di novembre, una nebbia che si infittisce con l’andare della
giornata, invece di sollevarsi e dare tregua. Cerco nell’uomo che ho davanti un segno
sicuro della sua forza, di ciò che lo ha trascinato al comando della città. Della mia città.
Assurdamente, come mi capita spesso, vorrei trovare nella carne e nelle ossa una traccia
del passato e della sorte delle persone che ho davanti; vorrei vedere Antonio che si alza
impavido e serio, pronto a lottare e deciso persino alla sconfitta, ma con dignità, forza,
grandezza, d’animo e di statura. Oppure, vorrei scoprirlo già debole e incerto nella
camminata, nei gesti, nella curva accentuata del dorso, quasi presago della fine.
Niente di ciò che mi aspetto. È un vecchio qualunque quello che vedo passare. Ma è lui,
ed è segnato.
Arrivano dalla strada alla mia destra Erasmo e Betono, mi si affiancano e mi guardano
seri, ignorando mio figlio. Io accenno poco oltre. Mi superano e si accostano ai due.
Antonio Fissiraga e il suo compare salutano, senza far mostra di nulla. Entrano tutti
nella chiesa di San Francesco, dove, lo so, sono in attesa gli altri. La fazione guelfa è
pronta a ricevere la sua vecchia guida, e a offrirgli il definitivo comando della città.
Ma Antonio è sciocco, e crede di potersi adagiare sul biscione dei Visconti. Immagino,
seguo, da qui fuori, i suoi ragionamenti, le sue difese. Penserà, dirà, che non è il
momento di battersi contro i Visconti di Milano. Spiegherà che non è d’uopo fidarsi dei
fiorentini, e neppure degli Estensi e dei Carraresi. Parlerà di uomini e di lance, di guerra
e di pace.
Gli diranno che i Visconti stanno allungando le mani sui territori intorno, che a Crema i
Benzoni han fatto ribellione e già preso potere, che a Cremona sono giunte le truppe
toscane, pronte ad armare le mani nostre e dei nostri alleati; protesterà dicendo che Gian
Galeazzo è morto, è stato fermato, e Giovanni Maria ha solo tredici anni; allora gli
racconteranno dei mastini di quel tredicenne, e degli uomini vivi che hanno sbranato.
E lui parlerà della potenza del duca, e della pochezza di Lodi, e spiegherà che non è cosa
saggia ergersi di fronte ai milanesi, e che lui dice di no a una signoria pericolosa, se
avversaria dei Visconti e che è tanto meglio avere un solo signore che molti, e in lite tra
loro.
Sciocchezze, appunto.
Mi avvolgo nel farsetto che poco mi ripara dal freddo ormai sceso su tutta la piazza; a
malapena vedo tra la nebbia la cima della chiesa che i Fissiraga hanno voluto e che ne
vedrà la fine. Abbasso lo sguardo, mi giro e vedo vicino a me il fiato di Giacomo,
nebbioso anch’esso nel freddo. Scuote la testa e mi osserva in silenzio; io non parlo e lui
accenna al grande portone scuro sotto il protiro. Alla domanda inespressa rispondo: sì.
Sì, è il momento. Erasmo e Betono stanno di certo circondando Antonio. Sanno cosa
farne. La rocca di porta Milano è in attesa. Lì, Antonio potrà pensare al suo dominio
perduto. Lì, potremo dimenticarcelo. Morire dimenticati e abbandonati non è la peggiore
delle morti.

Dodici

23 novembre, san Clemente. Un buon giorno per diventare signore di questa città.
Mi siedo accanto al fuoco e osservo il gioco delle fiamme che qualche bravo servo mi ha
appena ravvivato. È stata una lunga giornata e tutti mi hanno lasciato solo, quasi che io
sia entrato in casa con ben scritto in faccia: statemi lontani.
Provo avversione per i miei simili. Dopo l’arresto del Fissiraga, li ho avuti intorno a
rassicurare loro e me che tutto era stato fatto per il meglio. Parole, toccar di mani, gesti,
risate e brindisi hanno solleticato un’insofferenza che è cresciuta a dismisura. I
cremaschi si sono trattenuti fino al pieno pomeriggio; poi, felici della riuscita ma
timorosi del ritorno al crepuscolo, hanno abbandonato la compagnia. Quelli di Turano
sono rientrati in fretta nel feudo. I miei nobili concittadini, ora che tutto sembra
compiuto, hanno riversato la tensione della giornata nei fiaschi e nelle portate generose
che il nuovo signore ha voluto offrire.
Li ho esaminati attentamente, miei sodali e complici; ho disposto le loro figure in un
ballo ideale che si intrecciava con la mia vita, con i miei affetti, con la mia famiglia. In
un angolo della stanza, accanto alla finestra, Erasmo dell’Acqua stava borbottando con
Betono Riccardi che gli aveva sottratto l’ultimo goccio del vino novello, sapore di primo
autunno che ho fatto arrivare dal colle di San Colombano. Erasmo è parente a mia
cognata, moglie di Antonino, e Betono è un Riccardi, come il marito di zia Caterina:
chissà se sono legami che basteranno a rendermeli fedeli.
Pietro Cadamosto e Antonio, suo figlio, si sono messi più accanto al fuoco, a riscaldare
le ossa del vecchio; così, i riflessi rossastri delle fiamme sui capelli bruni di Antonio
ricordano quelli di mia moglie Giovannina, una Cadamosto sposata senza amore, perché
l’amore e le lettere e gli studi e i versi dei trovatori sono cose lontane, che non si
addicono a un uomo di mezza età.
Lascio vagare i miei pensieri, buttato di sbieco sul seggiolone, occhi aperti che non
vedono, mani abbandonate oltre i braccioli, e la testa pesante, che chiede il riposo.
Mi hanno salutato tutti, e anche i miei mi hanno lasciato solo.
Li sento parlottare in qualche stanza vicina, qualcuno urta un piatto che cade con
fragore, la voce petulante di Leonarda chiede qualcosa alla balia, il capriccio di Taddea
è frenato dal ribattere secco di Giacomo: le risponde qualcosa che la fa piangere. Io
desidero, d’improvviso, essere solo, chiudere oltre una parete spessa il resto del mondo,
e più mi sono vicini, e vicini di sangue, più voglio allontanarli. Mi pentirò un giorno di
simili desideri? Scuoto la testa, rabbioso. Son paure di donnicciole.
E io sono Giovanni Vignati, signore della città. Ciò che ho fatto, tutto ciò che ho fatto,
valeva la pena, se mi ha fatto arrivare qui.

Tredici

“Dove volevi arrivare?”, gli chiedono mentre gli spingono davanti il vassoio.
“Che cosa volevi ottenere?”, lo deridono mentre gli indicano il pagliericcio, ché si sieda
tranquillo mentre consegnano del vino, del pane e della minestra. I gesti dei suoi
carcerieri sono ancora di riguardo, trattenuti, ma non le parole, che pungono, sollecitano,
scherniscono. Lui non risponde. Questo li irrita, li innervosisce. Il silenzio, a volte,
nasconde tali e tante cose da preoccupare chi non lo sa decifrare. Il silenzio è la coltre
più pesante che uno possa mettere intorno ai suoi atti e ai suoi pensieri. Non è nulla, ma
è nero, scuro, soffocante. Il silenzio preoccupa e ingigantisce le ipotesi: temono una sua
ribellione? Un aiuto inatteso? Sapessero leggergli nella mente, vedrebbero soltanto un
uomo che si rimprovera per la sua ingenuità e per la stoltezza con la quale ha creduto di
potersi fidare, e affidare, al nuovo duca di Milano.
Dove voleva arrivare? Se lo chiede quando, di nuovo solo, può sedersi sul pagliericcio e
riandare agli anni passati.
Si guarda intorno, e alla luce del mezzogiorno che arriva solo in un angolo della
prigione, scivolando calda dalla grata che a malapena si intravvede, là in alto, non sa
rispondere a sé stesso.
Che cosa voleva ottenere? Terre, potere, autorità, esercito. Li ha avuti, e si accorge che
non sono bastati. E dunque? Qual è lo scopo?
Domanda a sé stesso, e tenta la risposta, e borbotta persino, piano, tra sé. Poi,
interrompe il giro inutile dei suoi pensieri e delle sue parole, perché lui non ha paura del
silenzio. Nei momenti estremi non c’è ansia di concludere. Si può aspettare il passare
del tempo, con timore, con pudore di quello che succederà, quando anche Dio
abbandona il mondo e ci lascia soli davanti alla nostra anima.
E il tempo, in quel mattino di agosto, arriva e scorre, caldo, pieno di ansia, di nuovo
colmo di ricordi.

Quattordici

La notte, nella mia campagna, arriva tardi, d’estate. La terra è grassa e scura, anche
quando secca per carenza d’acque, terra che se ci affondi la mano senti che è viva. E
pronta a essere presa e fecondata e dare frutto.
Quel fine giornata la terra, seminata di corpi, non riuscivo però nemmeno a vederla.
Da tutto il giorno non la vedevo. La mattina, girava la foschia sottile che ancora ci
sorprende, a volte, agli inizi del caldo, e sale dalle rogge, e si spande come acqua
leggera, e copre la terra rivoltata, la nasconde agli occhi, la rivela soltanto al rumore
sordo degli zoccoli. Si affonda, nelle zolle soffici, aperte, d’improvviso mancanti. Ma ci
siamo abituati, noi, a cavalcate irregolari e al botto attutito del leggero galoppo, che non
sentiamo più, presi come siamo dalla meta.
Qui, oggi, prigioniero del duca, potrei immaginare di cavalcare di nuovo, domani. Potrei
illudermi di poterci tornare, in quei campi, se non fosse che tocco le mura spesse che
trasudano e c’è un freddo umido che, a fine agosto, mi fa respirare greve.
C’è il buio, e il mio respiro lamentoso, e il sapere che ben pochi giorni nuovi mi
attendono.
Chissà se ai vecchi capita lo stesso. Chissà se davanti alla certezza della fine, che i
vecchi accettano e mostrano nell’appannamento degli occhi, chissà se anche a loro
succede come a me: i ricordi più freschi e vividi si allontanano, si nascondono. Quelli
lontani sono nitidi e chiari.
Per me è meglio.
Così, per la prima volta nella mia vita, fuggo.
E come i vecchi biascicanti contadini che rammentano lontani inverni ma dimenticano
l’ultimo raccolto, anch’io mi rifugio nel passato. Come i rattrappiti mendicanti che
elemosinavo sotto il rosone di San Francesco, allungo la mano ai tempi che sono stati
miei e chiudo gli occhi al presente, dove più neppure la vita è mia.
So perché lo faccio. Perché di un tempo lontano posso scegliere ciò che voglio. Perché
la bruma non è solo quella delle rogge, ma anche quella della memoria. E può coprire
volti o accaduti o rimorsi che non desidero vengano a turbarmi.
Perché, sì, anche ora, anche a vita finita, cadavere che cammina, già impiccato prima
ancora che la corda adatta sia stata preparata, improvvisamente ottuso di fronte al mio
destino, pure, io sento a ondate, in me, ancora tutte le speranze.
Le stesse di quella giornata.

Quindici

Preparavamo da giorni l’attacco.


Soldati, ne avevamo abbastanza. E io rischiavo di dimenticare che abbastanza è troppo
poco, per chi vuole portare a casa la sua carcassa. Nella mia testa richiamo dunque in
quell’alba entrambi i pensieri: la prudenza del contarsi e del valutare le forze, e la
speranza e l’ansia di chi è pronto a fare quello per cui crede di essere nato.
Mi fermo a guardare, per un momento, ciò che ho intorno e dietro le spalle. Un
momento, ma vedo tutto insieme ciò che potrei dipingere in quadro se avessi la grazia di
una mano felice. Vedo un poco di polvere mossa dal movimento dei cavalli dei miei
soldati. Polvere talmente sottile da levarsi e mischiarsi con l’aria, e da prenderne il
colore. Il viso di Luigi, alla mia sinistra, sbianca col nascere del sole, ma quelli alla mia
destra, messi tra me e il lume del giorno nascente, sono ancora solo ombre scure in
campo chiaro, sempre più chiaro.
Un chiarore che, fatto vivo, ci dà il segnale dell’avvio.
Arriviamo di sorpresa alla linea dei soldati bergamaschi.
E l’aria si riempie di cento grida diverse, e cento diverse saette: di chi sale, di chi
scende, di chi si urta e di chi impenna il cavallo, con la bocca aperta a dire o urlare
rumori che io non sento più, persi e sciolti nel sole ormai pieno, nei salti, nei cavalli
correnti fuori dalla turba, nei caduti scivolati tra la polvere divenuta fango per il sangue.
Vedo un cavallo strascinare morto qualcuno che mi pare riconoscere, e subito dimentico.
Devo badare a colpire quanto posso, a uccidere quanto posso, a rendere onore alla mia
lama, al lavoro del Missaglia, che nella sua bottega di Milano ha battuto e ribattuto per
me l’anima di ferro dolcissimo e di acciaio, seguendo l’antica tecnica di Damasco.
E mi piace.
Mi piace vedere un cavallo leggero correre a criniera al vento fra i nemici e coi piedi e
gli zoccoli far molto danno; osservo ridendo uno di loro, di già storpiato, cadere a terra,
e farsi coperchio col suo scudo, e sopra due dei miei a pesare con forza per dargli la
morte.
Mi piace vedere Antonino correre coi capelli sparsi al vento. E i vinti e battuti li vedo
pallidi, con le fronti abbondanti di rughe e le narici alte a cercare respiro, e le labbra che
scoprono i denti di sopra nei lamenti. Altri li vedo gridare con la bocca sbarrata, ma
ancora non li sento. Altri si fanno scudo con le mani davanti agli occhi paurosi, nel
timore di indovinare la prossima fine.
Mi piace, lo dico sapendo che sto per raggiungerli, vedere uomini morti, ricoperti a
mezzo dalla povere, e altri ricoperti tutti. Altri li vedo morenti, serrare i denti,
stravolgere gli occhi, stringere i pugni a sé, o agitarli verso di noi. Uno, disarmato e
abbattuto, si rivolta e con morsi e graffi tenta una crudele e aspra e inutile vendetta.
Mi piace uscire dalla moltitudine, e pulire con le mani gli occhi e le guance ricoperti dal
fango fatto dal lacrimare degli occhi, e col bastone levato mostrare che, per quel giorno,
è finita.
E guardo i cavalli sgroppati che corrono, e la piana e le pedate intorno coperte di sangue,
e gli spruzzi che si levano alti sulle sponde del fiume dove abbiamo combattuto e che
lava via i resti della battaglia e la memoria delle vite buttate.

Sedici

Ha sognato l’Adda, quel pomeriggio. Ha dormito di un sonno pesante e ha sognato


dell’acqua. Ha sognato acqua che gli correva incontro e poi sopra e sotto di lui e lo
copriva e lo soffocava e gli oscurava vista e sentimenti.
Dicono i vecchi delle sue parti che sognare l’acqua significa cambiamento.
Quale cambiamento può giungere in quella cella? Solo uno gliene viene in mente. E lo
accetterebbe volentieri. La morte può essere compagna e amica, se giunge a sollevare
dall’umidità dei muri e dei pensieri, che gocciolano con simile stillicidio ai suoi piedi e
nella sua testa e tolgono il respiro e spingono al pertugio della porta sbarrata e
invitano a urlare e chiedere pietà e strisciare ai piedi dei carcerieri e promettere terre,
e denari e fedeltà sempiterna, e donne e raccolti e uomini e lance e armi, tutto, tutto
quello che serve a scampare da quella gabbia.
Risvegliato dal sonno, annaspante, per un momento non sa più dove si trova, quale
giorno ha davanti, o quale notte, e quale luogo.
Ricorda di essere stato convocato. Sì, lo hanno chiamato a Milano e lui è andato. È
andato a riprendersi Giacomo. Ma suo figlio Giacomo non lo ha visto. Ricorda di
essere stato trascinato via, e poi gettato in un angolo, così come un basto è gettato con
noncuranza su un asino.
Ricorda il tradimento e le segrete del duca, e poi, inaspettato, il viaggio fino alla sua
città, alla città di cui ancora si sente signore. Lo hanno fatto scendere dal cavallo, e
afferrato malamente e trascinato davanti le mura e hanno chiamato sghignazzando
l’altro figlio: figlio, ecco tuo padre!
Lo hanno mostrato a Luigi come si mostra uno stendardo stracciato, strappato al
nemico, pronto da essere bruciato.
E Luigi, che sempre ha giurato di esser forte e resistere, è stato sconfitto dalla visione
di suo padre, improvvisamente invecchiato, sbandierato al di là delle mura, prigioniero,
impotente. Luigi Vignati è arreso. Ha ceduto la città. Ha buttato nel pozzo dell’amore
filiale tutte le conquiste e gli sforzi degli ultimi tredici anni.
Ecco, è così che sono stati presi tutti.
Li hanno portati lì, e lui non sa nemmeno più dove. Scuote la testa, respira greve, e gli
sembra di respirare l’aria pesante della città del duca. Poi sente, lontano, un parlare
che gli ricorda Pavia. Poi, ma questo è per forza sogno, crede di essere tornato a casa,
e che presto qualcuno verrà e lo riporterà al suo posto di conte.
Il respiro si fa più lento e regolare. Sfrega gli occhi, deglutisce, ritorna in sé e allunga
un braccio a cercare il figlio e non lo trova. Ricorda. I quattro uomini, e lo sguardo di
Luigi, e la sua voce: “Padre…”.
Glielo hanno tolto. Possibile che il suo sangue non lo abbia aiutato urlando? Possibile
che non abbia trovato la forza di scuotersi, di stringere Luigi a sé, e di impedire che gli
fosse strappato?
Anche questo deve patire? Di sopravvivere ai suoi figli?
Arriva a pensare che adesso può invitare lui stesso la morte ad accomodarsi più in
fretta al suo fianco. Per chi l’ha vista così di frequente, per chi l’ha data con tale
noncuranza, non dovrebbe essere cosa difficile.

Diciassette

Cavalcabò arriva da Cremona la sera e pretende subito vitto e alloggio per sé e per i
suoi. Sono una masnada rumorosa, che le risate, alte e forti, e la parlata aperta,
strascicata, fanno spiccare nella città che ha ripreso a sonnecchiare in riva all’Adda.
Cavalcabò pretende e ottiene. Porta con sé truppe fiorentine, millecinquecento cavalli,
ed estensi, buon aiuto per ciò che si ha intenzione di provare.
La lega tra noi potrebbe funzionare. Con Crema, siamo in grado di mordere ai fianchi i
milanesi e di non dare tregue alla loro arroganza.
“Siamo sicuri?” mi dice Ugolino mentre assaggia timoroso uno dei pesci che i miei
cuochi hanno preparato per noi.
“Sicuri, sì, quanto lo si può essere oggi”, gli rispondo, e faccio un cenno ad Alberico,
che se ne sta appena discosto dalla tavola, più appassionato al calice che gli ho messo
davanti che ai profumi di arrosto e di pane. Lui alza brevemente le spalle e comincia a
contare sulle dita:
“Ci sono io, e quelli di Ferrara, e di Padova. Duemila cavalli e millecinquecento fanti.
Tu hai… quante? Duecento, trecento lance?”
“Trecento, sì, al comando di Alberto”.
“Alberto de Ruberti… conosco… buona spada, buon comando”, bofonchia Ugolino, che
si è ormai affidato senza riserve ai profumi di rosmarino e alle carni dei piccoli ghiozzi
che spariscono veloci davanti a lui.
Osservo Alberico mentre fissa il signore di Cremona con aria nel contempo assente e
sprezzante. È di profilo, non mi vede. O non vuole guardarmi. Ha i capelli chiari, mossi,
appena sotto le orecchie. Le sopracciglia sono più scure, ampie, folte; corruga la fronte,
ed esse disegnano una linea netta e incupiscono lo sguardo. Appena poco fa, era un
tranquillo signore di campagna, dai lineamenti appena arrotondati dall’età. Ora, mentre
sembra pensare che nessuno di noi è degno di sedersi al suo desco, ha un aspetto
crudele: le narici si sono appena dilatate, e una ruga taglia la guancia dal naso verso il
mento. Ha, credo, intorno ai sessant’anni. Viene da una grande famiglia: i da Barbiano si
dicono addirittura discendenti di Carlo Magno. Io non so se sia vero, ma lo rispetto per
quello che è ed è stato. Ha combattuto con il grande Giovanni Acuto, che ancora oggi
ammira, e lo dice spesso; ma è rimasto disgustato dalla veemenza e dalla violenza degli
stranieri, e anche di questo parla ancora. Ciò che mi sembra grande, di lui, è però la
fondazione di una sua compagnia, tutta sua, tutta fatta da milizie italiane. Ne mena
vanto, e a ragione. Non gli invidio l’età, e nemmeno la baldanza che ancora lo anima,
ma gli invidio il grande stendardo bianco a croce rossa che il Papa gli ha donato, quello
che dice chiaro e tondo: “l'Italia liberata dai barbari”.
Dicono che persino quella senese, quella Caterina che il popolo vuole già sugli altari,
persino lei abbia chiesto l’aiuto di Alberico in difesa di Roma contro le milizie
mercenarie bretoni.
Io non so se sia vero o sia leggenda. So che Alberico mi è utile alleato, qui e oggi, e che
con lui e le sue truppe riusciremo a colpire i Visconti e a farci più forti. Per me, adesso, i
‘barbari’ sono loro.
“Quando attacchiamo?”, domando, e ho subito l’attenzione di tutti.

Diciotto

Decidiamo di avanzare almeno trecento pertiche, dritti nel territorio dei Visconti.
Saremo la spina che punge la loro carne scoperta. Gli accordi sono pochi e chiari:
bottino, prigionieri e bestie. Non toccare le chiese, nemmeno se piene di ori: chi tocca
anche solo un calice, chi ruba in luogo sacro, assaggerà la prigione. O l’albero cui sarà
appeso.
Partiamo dopo il pranzo. Pranzo leggero, ché dobbiamo essere desti e vigili. Ci
incamminiamo piano. Si fa il vuoto nella campagna intorno. Qualcuno ci vede e fa
marcia indietro. Qualche contadino si intana subito. Se vediamo un’ombra che corre, è
facile pigliarla e farne quello che dobbiamo. Che sia paura o che siano chiacchiere non
dovute, importa poco. La paura la leviamo di torno, e le spie pure.
I cremaschi si fanno baldanzosi. Dirigiamo a Bergamo e si sentono ormai nel loro
territorio. Appaiono sicuri, mentre il trotto cadenzato dei cavalieri ci porta sempre più in
là. I pensieri corrono e si spezzano nella mia testa. Nessuno parla. Alberico mi supera e
mi fa un cenno con il capo. Ugolino è più indietro, con la celata che già lo copre. Chissà
che cosa hanno da perdere, loro.
Chissà se rimuginano nella mente ciò che affiora in me. Considero per la prima volta,
con stupore, che dietro di me, oltre alle tombe di mio padre e di una moglie, e il letto di
un'altra sposa diversamente presa e voluta, sto lasciando i miei figli, da Giacomo, che
combatterà presto al mio fianco, all’ultima, Taddea, che tanto mi irrita con le sue
richieste da bambina.
Non sono un buon padre. Ho sei figli certi e qualcuno più incerto, ma ciò che voglio è la
guerra, il bottino, altre terre. Dovrei tenermi vivo e sicuro per loro, per il loro domani,
mentre penso a me, e al mio oggi. Dovrei recitare con loro il Pater noster, e sono qui ad
augurarmi di incontrare i nemici, magari oltre quel mulino, o appena usciti dalla cascina
dove le nostre guide ci fanno fermare, il tempo di bere vino caldo e prendere gli ultimi
accordi.
Le cascine Gandini ci portano un po’ fuori strada, e sono troppo vicine al paese. Ma
Pandino, che era terra di caccia dei signori Visconti, con i boschi ricchi di selvaggina,
non ci riserverà sorprese. Dall’anno scorso è in mano ai Benzoni, quelli di Crema, che
ho invidiato, un tempo, ma che in questi giorni sto imitando, alla pari.
Signori loro, signore io, a insidiare Milano e a prenderci i suoi uomini e le sue bestie.
Il resto non conta.
Contano i cavalli che inciampano nella guazza di novembre, l’avanzare silenzioso delle
mie lance, il tentativo di soffocare grida di richiamo e respiri pesanti, lo sbuffare delle
froge del mio cavallo, che a stento trattengo, il piglio sicuro di Alberto, il suo sorriso, il
calpestio accelerato su un campo ribattuto da poco, lo stridere di qualche corvo sulle
nostre teste, che sia malaugurio?, il passo di nuovo pesante dei cavalli sulla riva di una
roggia che sbarra improvvisa il cammino, l’odore di terra bagnata, di sudore, di nebbia,
se la nebbia avesse un odore, ancora nebbia nelle mie giornate, sarà buon augurio?,
nessuno ci vede, avanziamo, nessuno pare sentirci, ci facciamo vicini, contiamo le
nostre forze, forziamo la nostra volontà, chiudiamo le celate, alziamo le armi, induriamo
il cuore, dimentichiamo i giorni passati, siamo soltanto pronti, eccoci, a fare ciò che
dobbiamo, un cavaliere mi urta, si sposta, si prepara, Alberto ripassa, spinge, chiude il
gruppo, controlla, dà il segnale e di nuovo andiamo a prenderci la nostra ricompensa.

Diciannove

Luigi attende ancora alzato, fissando il fuoco. Giacomo gli fa apparente compagnia, ma
legge uno dei suoi libri.
Sono così diversi.
Luigi è più giovane di due anni, ma più alto; snello, scuro come sua madre, ma
battagliero come me. Gli piace la campagna della bassa, correrla, pensare che è sua.
Ama la lotta e il lavoro, ed è stata più dura fatica costringerlo sui libri e sulle carte che
rimetterlo a cavallo dopo l’ennesima caduta, da ragazzo.
Giacomo avrebbe la mia pelle olivastra e strisce più chiare nei capelli, se uscisse da
queste mura, se abbandonasse ogni tanto nell’angolo i suoi libri, se smettesse di
filosofare e corresse per le strade dietro al fratello. È un gran cavaliere, capace di parlare
al suo destriero con il linguaggio muto o appena accennato di chi ha un legame diretto
con tali animali, e non gli importa. Impallidisce e dimagra e silenzioso obbedisce
sempre alle mie imposizioni tanto che nemmeno posso essere con lui troppo severo, o
critico, o sprezzante.
Anni fa, con Giacomo di quindici anni e Luigi di tredici, uscimmo dalle mura per
dirigerci al mulino galleggiante.
“È proprio necessario, padre?”, mi aveva domandato lui mentre Luigi era già nel cortile
con la cavezza in mano.
“È necessario, se non vuoi diventare una donnetta incapace di portarti a cavallo, di
curare i tuoi interessi, di difendere le tue terre, di sostenere le fatiche di tuo padre, di
combattere quando si deve e si vuole!”, ero esploso, con voce bassa e tesa, a scaricare
gli ultimi mesi passati a vederlo crescere rivolto ad altro, non a me.
Lo avevo guardato senza più parlare, mostrandogli la porta, deciso a ricacciargli in gola,
alla prima mancanza, il tono e lo sguardo. Lungo la strada le chiacchiere di Luigi
avevano fatto il loro dovere: impedirci di aggravare con parole pesanti la situazione
oppure di procedere in silenzio, scavando ancora di più il distacco tra noi.
Eravamo quasi in vista del mulino, e il cavallo di Luigi ha scartato improvviso, forse per
qualche biscia, forse condotto malamente da quello che era allora soltanto un ragazzo
presuntuoso di sé e della sua bravura; il mio è arretrato e ha fatto due giri spaventati su
sé stesso. Quando sono tornato a guardare nella direzione giusta, e a tenere con forza le
redini, Luigi era ormai lontano, e dietro lui stava già galoppando Giacomo, lo
affiancava, si stendeva alla destra, e la sua figura bassa, massiccia, sembrò prima
appoggiarsi all’aria e poi assecondare la natura delle cose e precipitare a terra, fino a
quando il braccio non si tese ad afferrare le briglie del cavallo in fuga, a strapparle, a
frenare la bestia e a riportarla, al passo, fin dove mi ero fermato.
Luigi, pallido e spaventato, mi fissò cambiando colore e arrossendo per l’imbarazzo del
guaio sfiorato; aprì la bocca, ansimante, forse per scusarsi, forse per accusare il cavallo,
ma io girai subito lo sguardo su Giacomo, e vidi la sua mano che, “Tieni, padre”, mi
affidava il cavallo del fratello. Poi alzai gli occhi ai suoi occhi: sembravano più chiari,
colpiti così dal sole. Occhi tranquilli, sereni, calmi. Non fosse stato per il sudore che gli
correva su un lato della fronte, lo si sarebbe detto reduce da una delle sue letture
preferite.
Credevo di trovare odio, in quegli occhi. Credevo di trovare sfida, battaglia, persino
disprezzo. Credevo che avrei visto nel profondo dei suoi pensieri la cattiva risata di chi
poteva ben dirmi: hai visto, padre, che non son poi quella donnicciola che credi?, hai
visto di che cosa sono capace?
“Padre, davvero, non so che cosa…”, aveva cominciato Luigi, costringendomi a volgere
a lui la mia attenzione.
“Non importa, è finita”, mi trovai a replicare.
“È finita? Padre, mi avete detto una volta che se capitava di…”, continuava a parlare,
mio figlio minore, ma non lo ascoltavo. Mi girai di nuovo verso Giacomo, ma stava
fissando avanti, a cercare spazio per cavalcare verso la nostra meta.
Si accorge per primo di me questa sera; alza lo sguardo dal volume e mi vede
appoggiato alla porta. Infila un dito tra le pagine, chinando piano la testa, in un saluto
rispettoso. Poi ci ripensa, chiude definitivamente la sua lettura e si alza. Il movimento fa
sussultare Luigi, che si volge alla porta e sorride, trionfante, alzandosi e venendomi
incontro. Non gli importano i morti, non gli importa sapere se di nuovo, con la mano che
mi stringe, ho separato aria e tendini e sangue.
Mi trascina al fuoco, mi fa sedere e chiede soltanto: racconta, padre.

Venti

Quella sera, raccontò al giovane Luigi che molte volte, poiché non avevano trovato
alcun contrasto, avevano cavalcato sino alle porte di Milano, sempre pigliando preda
di uomini e di bestie. E dentro la grande città, dietro le sue mura, si erano levate grandi
rumori e discordie tra il popolo e il duca. Loro continuarono, e ancora insieme più
volte corsero nelle campagne, gridando “carro, carro!” e facendo gran danno a quei
territori e arrivando sino alle porte di Pavia, dove trovarono grandi prede, e
guadagnarono molto. E di nuovo anche in quella città seguirono grandi disordini, e
discordie ancora, contro il giovane duca di quel luogo.
E Luigi, quella sera, ridente davanti al padre, chiese se il giovane duca, il piccolo
Visconti, sarebbe stato preso, e ucciso, e lui rispose di no, e non sa perché disse quel
no. Ché forse, se avessero avuto abbastanza uomini e cavalli e aiuti e coraggio, ecco,
forse avrebbero cavalcato lungo le strade della contea di Filippo Maria, relegato
presso il Ticino da un fratello crudele e distratto; sarebbero dovuti entrare in Pavia e
prenderlo e ucciderlo, senza pietà per le giovani ossa malate e per le parentele
sbagliate.
Se l’avessero fatto, allora, la storia sarebbe cambiata e lui non sarebbe qui a contare il
tempo di un pomeriggio caldo e prigioniero.

Ventuno

È pomeriggio tardo. C’è di nuovo silenzio, in sala. Piero sta osservando da vicino, da
molto vicino, il codice che ho sistemato accanto alla luce fioca della finestra. Sembra
quasi se lo voglia mangiare con gli occhi, dimentico dello spiffero di freddo che, io lo so
bene, in quell’angolo, in questo periodo dell’anno, si fa sentire in qualunque momento
della giornata.
Sfiora con le dita le righe della pagina e mormora piano una frase silenziosa: legge, o
commenta il tesoro che certo vorrebbe portarsi a casa, da mettere accanto ai suoi, antichi
e moderni, a stupire parenti e amici. Gira piano il foglio crocchiante, mentre Luigi mi
guarda innervosito e Giacomo, sorridendo, si avvicina all’ospite.
“Vedete qui?”, gli suggerisce, dirigendo lo sguardo del nostro ospite alle firme finali.
“Bo… nifacio?”, compita sussurrando lo Strozzi, che sembra avere messo da parte il
motivo della sua venuta.
“Marchese di Monferrato –, annuisce Giovanni, che torna all’inizio e spiega: – e anche
suo figlio, qui, vedete? Guglielmo. Leggete. Leggete, vi prego. È l’accordo con il
comune di Milano, per la giurisdizione sulle terre intorno, e fino, pensate, fino a
Piacenza, e Varese e… qui, riuscite a leggere?, qui c’è anche Bobbio e Pontremoli con
altre riserve date in…”
Un rumore improvviso; ci voltiamo verso Luigi che, imporporato in volto, raccoglie
goffo il calice appena versato da un suo gesto maldestro e stizzoso. Ancora Giacomo
sorride: conosce il fratello, sa che uno scatto di impazienza era prevedibile, e che Luigi
vorrebbe subito parlare di accordi, di lance, di truppe e di denaro.
Firenze ci ha mandato lo Strozzi, approfittiamone, vorrebbe dirmi il suo sguardo di
rimprovero, mentre mio figlio maggiore, più paziente, più astuto, si scusa e torna a
mostrare a Piero ciò che lo attira in quel momento: le pagine vergate da una scrittura
antica, l’inchiostro che a tratti sbiadisce, l’accordo che più di duecento anni orsono
decideva delle sorti di uomini e terre. Le stesse terre che vorrei mie.
Piero, lo so, è arrivato per offrirmi aiuto e per controllarmi. Ha cavalcato fino a qui,
migliaia e migliaia di pertiche, con una lettera datata in Firenze che forse confermerà
quella che ho ricevuto io, io in persona, amico carissimo della repubblica fiorentina.
Così mi hanno chiamato e così ricordo, senza più rileggere le loro parole: magnifico
signore, amico carissimo.
Mi chiedo soltanto, mentre l’ambasciatore Piero Strozzi, finalmente soddisfatto, si gira
verso di me e si siede, mi chiedo soltanto chi, in tempo di guerre, possa essere chiamato
amico.
Ventidue

Il nostro ospite fiorentino se n’è andato. Noi giriamo pigri tra le vie strette. La
passeggiata fa bene a Margarita e a Toniola, che invece di beccarsi e litigare
chiacchierano tranquille.
“Signore…”, saluta il fabbro abbassando appena la testa e tossendo piano ai fumi che
escono da sotto la cenere.
Ricambio, ma penso ad altro. Voglio bene a Margarita, sopporto appena Toniola e sono
testimone del fatto che il sangue e gli anni passati nella stessa casa non sono motivo o
scusa sufficiente per costringerci ad amare qualcuno.
Le mie sorelle controllano le due nipoti, sempre pronte a farle inciampare, a spingersi, a
scansare i garzoni e le serve, e a fermarsi sorridenti davanti al banco del fioraio, che
galante offre alle signore un arbusto dai fiori giallo oro, tra le urla del merciaio vicino.
Toniola rifiuta, scuote la testa, ma:
“Zia –, ridacchia Francina, – prendilo, senti il profumo”.
È allora Margarita ad afferrare con garbo l'omaggio, a portarlo alle nari: china il capo a
ringraziare, ma rimane seria e composta, deludendo la sua nipote preferita, che spesso la
sogna impalmata da qualche gran signore, e più spesso ancora la immagina rapita da un
giovanotto alto e bruno come quello che sta rimettendo a posto i mazzi di fiori.
Nemmeno mi guarda, Margarita, mentre avanza spingendo avanti Francina e sua sorella
Taddea proprio come farebbe una chioccia, evitando le sguattere a caccia di buona carne
e sfuggendo alle offerte strillate dei caciaioli e dei rigattieri.
Non mi guarda, ma sa che ci sono, che sono ancora, per qualche mese, suo fratello e suo
tutore, e che presto la lascerò andare a incontrare il suo destino. Marito, figli.
Ieri sera tardi, prima di ritirarsi a prepararsi per il viaggio, Piero Strozzi ha salutato tutti
noi. Piero è alto, bello, dicono, e avrà figli bellissimi. Ha piegato i suoi interessi
umanistici agli affari del padre e della repubblica che lo ha fatto ambasciatore, ma ha
mantenuto un’aria sognante, così diversa da quella rude e concreta che gli sarebbe
adatta. Ho colto un'occhiata lanciata a mia sorella minore: mi ha fatto comprendere che
non è più quella che cullavo e facevo scivolare nel riposo, ma una giovine capace di
attrarre e di suscitare ammirazione.
Quell’occhiata mi ha fatto capire molte cose. Che, per esempio, mia sorella è pronta ad
abbandonare la tutela e che è tempo di maritarla.
“Vieni qui –, sta rimproverando la mia Francina che si avvicina a un banco di dolciumi e
spazza con la veste un angolo fangoso della via, – non ti allontanare troppo”.
“Signore mie –, saluta intanto il calzaiolo con un inchino esagerato, mentre passiamo
davanti al suo buco, – signor Giovanni…”
“Buona giornata, Battista –, sorride Toniola che tiene per mano, saldamente, Taddea, –
vi aspettiamo la settimana l’altra, per le calzature leggere”.
“Ai vostri ordini –, altro inchino, – ai vostri ordini, signore mie. Signor Giovanni…”.
Saluto tranquillo, calcolando quanto mi costeranno tutti quegli inchini, osservando il
confuso movimento intorno, e in mezzo al rumore del mercato affianco al viso di mia
sorella minore quello di Ottone. Non mi è caro, il Rusca: benché abbia saputo
conquistare Como, l’ha poi ugualmente persa, e con essa le case saccheggiate e lasciate
in balìa della soldatesca. Ma è di famiglia buona e sicura, e bene lo vedo al fianco di
Margarita. Saprà condurla lui. Per me, dunque, è sua.

Ventitré

La donna dice che a Padova ci sono tredici porte e tredici ponti, e ogni ponte porta a
tredici strade che menano fuori città.
Dice che può portare me, straniero e nuovo a tutto, a vedere la cappella che Enrico
Scrovegno per scampare dal fuoco dell’inferno ha tirato su, spaventato dagli errori del
padre.
“Era un trafficone –, ridacchia mentre si aggiusta la gonna e infila il corpetto chiaro
dentro la cintura, – un mercante ladro e bugiardo, bugiardo lui e strozzino suo padre, e la
cappella tirata su per farsi perdonare i soldi che han figliato soldi per le loro casate, e
dipinta da uno che…”
“Denaro da denaro”, la interrompo soprappensiero, e finalmente la guardo e mi accorgo
dei capelli che le scendono sulle spalle, e sono spalle stanche e larghe, e la pelle segnata
e la vita pesante e il calore che mi è salito tra il cavo straniero delle sue cosce che poi
subito si assottigliano e arrivano alle palme nude dei piedi.
Mi osserva un momento, mentre alza le braccia magre a raccogliere la crocchia; mi
lancia un’occhiata come stupita che una volta, una sola volta, qualcuno degli uomini cui
si offre abbia davvero ascoltato il chiacchiericcio solitario con il quale probabilmente
sempre riempie il tempo della vestizione e del saluto.
“Proprio –, ribatte e continua, di colpo animata e presente, continuando a rivestirsi. – Io
l’ho vista, io l’ho vista la cappella del pittore e mi ci sono persa gli occhi perché non
avevo mai visto cosa più bella che pareva di essere dentro nel mondo di quei signori, e
vedersi lì davanti la Beata Vergine Maria e suo figlio Gesù uno poteva credere di essere
già in cielo, anche se poi mi hanno fatto vedere il signore Enrico, che l’ha fatta e che c’è
lì dentro anche lui, dipinto sul muro e c’ha in mano la cappella e la Beata Vergine gliela
prende ma secondo me, a parlare come dicono quelli che quello lì lo conoscevano bene,
secondo me quello lì la cappella l’ha fatta fare solo per fare vedere che era un gran
riccone, e davanti ci ha messo pure la sua statua tutta dipinta che pare un re, altro che
storie del pentimento!”
Prende respiro, questa donna che non conosco e non avrò più, e forse le piacerebbe
continuare, ma ha finito il suo lavoro, mi ha soddisfatto, e nel suo momentaneo silenzio
le faccio segno di uscire.
Si spegne subito, parole e sguardo, le spalle si piegano, le mani scendono a lisciare la
gonna pesante e si allungano per la ricompensa. Poi si gira ed esce e mi lascia solo.
Non mi farò portare alle tredici porte, e nemmeno alle nuove mura; non visiterò la
cappella di Enrico, quella che ha fatto giungere la fama di suo padre Reginaldo e delle
sue usure fino a noi. Ho già soddisfatto l’altr’anno la mia curiosità del vedere come si
mondano sulla terra i peccati dell’aldilà. O con quanti denari può essere riscattata
un’anima.
L’altr’anno, però, tornai da Padova con l’aiuto di Francesco che assediò Brescia con noi
e per noi. Ma oggi il fallimento di ciò che pensavo deciso mi rende alterato e ombroso.
A cosa è servito il convegno? Cosa ho ottenuto da questo lungo viaggio nella terra dei
Carraresi, al di là della carne di quella donna? Nulla.
Mi è soltanto servito a comprendere che la lega contro i Visconti non vale più nulla per i
grandi signori della Repubblica fiorentina arrivati qui soltanto a dirci di no. Mille lance
sono troppo costose, dicono. Denaro, denaro. Non arriveranno a sostenerci. Non con
così grande e oneroso aiuto. Denaro, denaro, Piero Strozzi non li ha convinti a dovere.
Ma la lotta va continuata, dicono. A quanto pare, senza di loro.
Bene. Se così s’ha da fare, si farà. Soli, contro il biscione milanese.

Ventiquattro

“Da che parte?”


“Porta Giovia”.
“Sicuro?”
“Guardate”.
Ottone trattiene con le sue mani pesanti la carta che svolge piano davanti a noi. Le stesse
mani che da poche settimane ho legato a quelle di Margarita, le stesse nelle quali ho
messo la vita di mia sorella, perché gli desse figli legittimi e desiderati. Le stesse mani
che hanno firmato sei mesi fa la tregua coi Visconti, lo stesso cuore che ha tradito la
tregua e gli accordi ed è fuggito fino a noi, a offrire alleanza e guerra.
Ottone Rusca, cognato da poco, lo so, non mi piace. Ma combatte bene, e sa dove
penetrare a Milano e piace ai miei figli, persino al diffidente Giacomo, che lo ascolta
attento.
“…è dentro, e divide quasi in due. Qui la piazza ducale, la piazza d’armi, e più in giù la
Rocchetta. Dietro, invece, la tenuta, il bosco, lo zardinum, difeso dalle mura”.
“Dovremo arrivare fino all’interno? Sarà impossibile”, obietta subito Antonino a bassa
voce, lanciando un’occhiata intorno, a chiedere conferma.
“Un momento –, Ottone si alza dalla carta con un gemito, appoggia le mani alle reni,
respira forte e chiede con un gesto l’attenzione. – I da Casate sono con noi, è sicuro.
Apriranno la strada a porta Giovia, e da lì potremo spingerci a ponte Vetero”.
“E se attaccassimo dal Seprio?”
“Impossibile –, liquida così, Ottone, la proposta di Luigi. – Impossibile. Il ponte da
quella parte è ancora più difeso e il rischio di perderci nel pantano del bosco più
grande”.
“Quanti uomini?”, intervengo, con questo cognato così sicuro di sé da infastidirmi.
“Quanti a disposizione?”, rilancia subito lui.
“Ottocento, quelli che raccolgo con la lega guelfa”.
“Ottocento, basteranno. Entro io, e i da Casate sapranno favorirmi l’entrata. Mercoledì
notte. La notte ci coprirà”.
“E se qualcosa dovesse andar male?”
“Nulla andrà male. Possiamo resistere ore. E ritrovarci poi al Redefosso della città per
decidere come continuare. Il duca non riuscirà a respingerci. Persino i frati –, ride forte,
Ottone, – perfino i frati ci daranno una mano.
“Frati? Che frati?”
Antonino è stupito. Tossisce, si porta una mano al petto, ma richiede:
“Quali frati?”
Ottone, con un ampio gesto del braccio, mi invita a rispondere a mio fratello, che non
vorrebbe tra i piedi.
Antonino è pallido, magro e stanco. Da mesi inghiotte gli infusi di altea e di timo che
mia cognata si ostina a preparargli, ma la febbre torna a tormentarlo e i decotti di faggio
e agrifoglio sono solo apparenti rimedi al suo male, che si nasconde e poi torna. In casa
siamo diventati esperti speziali e misuriamo con cura le polveri vegetali che, ci dicono,
l’avranno vinta su ciò che lo tormenta dall’inverno scorso.
Sono entrato nelle sua camera, stamane, nel solaratum che mi assale con i fumi delle
erbe, il puzzo della malattia, e l’ostinazione con cui mio fratello segue i consigli di
dottorucoli, le loro purghe, i clisteri, e i regimina che regolano le sue giornate. Qualcuno
lo ha convinto che le res non naturales cureranno e piegheranno gli umori, le
complessioni e gli spiriti di un corpo che io vedo già condannato, troppo simile a tanti
che ho visto consumarsi intorno a me. Sonno e veglia, esercizio e riposo, fame e sete,
cibo e bevande e persino i moti dell’animo vengono controllati perché agiscano e
riportino la buona salute.
Ma l’uomo che ho tirato fuori dal letto si reggeva appena il giusto per scendere nella
sala. L’ho rivestito, ho preso il suo braccio e l’ho portato con me, spiegando dei
preparativi contro Milano. Gli ho raccontato che Ottone aveva perso il dominio della
città di Como proprio nel periodo in cui lui si era buttato malato la prima volta, e lui ha
scosso la testa, silenzioso. Gli ho spiegato che i Rusca hanno continuato a colpire i
Visconti, e che i duchi hanno allora voluto stipulare una tregua, chiedendo ostaggi.
Si è fatto più vivace, Antonino, quasi che il discorrere dei tempi presenti e delle guerre
lo faccia sentire di nuovo sano e forte. Questo, sì, più che salassi, bagni o fumigazioni.
Mi ha chiesto, mentre scendeva piano le scale appoggiato al mio braccio, perché dunque
Ottone fosse allora lì con noi, e non ostaggio visconteo. Così, gli ho rivelato la fuga di
nostro cognato, l’arrivo in città e gli accordi per l’assalto.
Adesso spiegherò il resto, e chiederò il suo consiglio sulle mosse future, e pur sapendo
che per Antonino non c’è grande avvenire, nemmeno in tempi brevi, fingerò che così
sia, e credo che sia l’unico modo per renderlo felice.
“Un frate e un abate di San Simpliciano, con un paio di monaci, e forse altri ancora,
parteciperanno alla ribellione dei guelfi milanesi, e potranno appoggiarci, vicini come
sono alla rocca dei Visconti…”
“Qui”, fa subito segno Ottone, e avvicina la carta a mio fratello, e una candela perché
non sforzi troppo la vista, e un calice di vino liquoroso perché scorra più veloce il
sangue nelle sue vene pallide.
E in quel momento mio cognato acquista qualche merito ai miei occhi, mentre Antonino
alza i suoi in faccia a me e di colpo sorride, con la stessa fiducia e con lo stesso spavento
con cui mi aveva sorriso quel giorno in cui lo ripescai dall’Adda, lui e il suo rospo.
Ma io non sono più l’eroe di allora.
Venticinque

È suonata da poco l’ora nona e il silenzio caldo e tranquillo porta a tratti l’eco di voci
lontane. Eroe? No, non è un eroe l’uomo che, sdraiato sulla lettiera, le braccia alzate a
sostenere la testa, sente la risonanza di un responsorio brontolato a voce alta. Non è un
eroe a pensare con rabbia che il duca Filippo Maria in quel momento chiede ingiusto
aiuto per il suo ducato e ipocrita perdono ai suoi tanti peccati.
Le voci della preghiera, la prigione, la solitudine, la mancanza di Luigi lavorano nei
suoi pensieri ed è un distante ricordo che lo prende, lo culla e lo fa bisbigliare piano,
con gli occhi al soffitto e le labbra che si aprono appena. La nenia è faticosa, dapprima,
quasi dimenticata, e poi sempre più precisa e sicura; affiora da gesti, insegnamenti,
obblighi lontani che si affiancano all’inquietudine: del santo al nome fuggono febbri
ferite e peste…
Eppure nessun santo aiutò quelli che lui incontrò nei mesi concitati che seguirono gli
assalti a Milano, ancora e ancora.
…morbi dolori e demoni e grandine e tempeste…
E lui fu grandine, e fu tempesta: su Pradalunga, e su Cornali e presso Nembro,
inseguendo uomini, donne e bambini che arrancavano, spruzzando intorno acqua e
grida stridule, al di là del torrente Vallogna, cercando scampo.
…ai ciechi ai sordi, a muti, ai zoppi porgi aita…
Il terrore e millecinquecento armati spazzavano le distese erbose e spingevano i
fuggitivi alle pendici del monte, alla ricerca di un rifugio e di un aiuto che nessun santo
voleva dare, perché i santi han da pensare alle nostre anime e lì c’erano soltanto corpi,
vecchi, giovani, grandi, piccoli, solo corpi.
…la prole implori e tornano i morti a nuova vita…
Corpi catturati a tradimento, se mai vi sia tradimento in battaglia, e fatti morire, otto
uomini, e quarantasei donne e bambini, mandati a raggiungere il Nostro Creatore che
un giorno, forse, chissà, li riporterà davvero a nuova vita.
…non recan danno i fulmini, né il terremoto o il fuoco…
E fuoco, sì, a bruciare Pradalunga, e la torre in cui quelli si erano rifugiati, e le terre
intorno nella valle,
…lacci, perigli e insidie, per te non han più loco…
E pericoli, e ancora insidie, e dunque a che vale la preghiera se nulla ha potuto contro
gli uomini armati che lui ha raccolto, contro le squadre guelfe che devastano e
uccidono e ricominciano e si ricompattano e si preparano a nuovi assalti?
La preghiera non può nulla. Eppure, adesso che il tocco delle campane segna la fine
della preghiera, e le voci salmodianti tacciono, lui mette le ginocchia a terra, appoggia
il capo sulle braccia allungate sul pagliericcio, le mani che si intrecciano e stringono;
colpevole di morti innocenti, responsabile della vita del figlio, chiude gli occhi e si
trova a riprendere a bassa voce l’antico conosciuto breve salmo: Onnipotente, nelle tue
mani affido il mio Spirito.

Ventisei

Gli uomini scavallano giù per il sentiero e io seguo piano.


La pianura, da queste parti, lascia ormai spazio ai monti. Il Misma, là davanti, si alza
scuro e preciso e sembra attenderci.
Luigi, Giacomo, Antonino mi appaiono a tratti. Guardano avanti. Respiro profondo
l’aria, più fina e più secca di quella cui siamo abituati. Abbiamo strappato a Pradalunga
una manciata di pietre coti, per affilare le nostre lame. Abbiamo strappato a Pradalunga
anche una manciata di vite, per rafforzare il nostro potere.
Giacomo, l’altr’ieri, mi ha chiesto se era necessario e si è allontanato senza aspettare la
mia risposta. Non sono un uomo egoista, non sono un uomo feroce. Non agisco per fini
personali. Non solo per quelli. Sto costruendo la mia grandezza sui mattoni della
comune prosperità, e non posso essere delicato nella scelta dei mezzi.
Ho spedito centocinquanta cavalieri, dei miei, fino al ponte di Almenno, che trovino e
facciano scorta ai guelfi di Valle San Martino e di Val Brembana, di Sorisole e di
Ponteranica.
Sorisole, ricordo, è sparso in una piccola valle di fronte a monti bassi, che d’estate
sembrano rivestiti con velluto di Lucca, scuro, verde, cedevole e caldo. La prima volta
che ho visto il posto, ho creduto potesse essere riparo per me e per i miei. Il dorso della
montagna è morbido, curvo, dolcemente chiuso in un abbraccio e mentre stiamo
entrando nell’estate e nella calura immagino la freschezza di quelle strade, l'ombra degli
alberi, la pace della sera.
“Non tornano”, mi scuote la voce di Antonino.
“Stai bene?”, chiedo a mio fratello, che è montato in sella con noi e da giorni cavalca
senza riposo. È segnato e stanco, e ancora tossisce a fine giornata, benché l’aria del
posto sembri avergli dato qualche sollievo.
“Non tornano”, ripete, ignorando la domanda e segnando con la mano da qualche parte,
a oriente, dove sono scomparsi i nostri cavalli, ore fa.
“Ci raggiungeranno a Martinengo. Il castello del Malatesta ci attende, e lì ci riposeremo
e prepareremo l’attacco”.
“Padre –, interviene Luigi, che ci ha raggiunto, – dovrebbero essere già qui”.
Rispondo osservando la strada che si snoda verso il basso, e trattengo la mia
preoccupazione che alimenterebbe la loro:
“Conta. Centocinquanta i nostri e almeno ottocento i valligiani che arrivano da ogni
dove. Lascia loro il tempo di trovarsi, di adunarsi, contarsi, prendere fiato e accordi. I
nostri faranno scorta agli altri e quando usciremo dal castello li troveremo a darci man
forte”.
“E i ghibellini? Bergamo ormai è vicina”.
“I bergamaschi li sorprenderemo sotto le mura, noi e i montanari e i guelfi della valle.
Più di duemila. Più di duemila, siamo. O saremo tra un paio di giorni”.
“Tuo fratello…”, la voce di Luigi si interrompe, ma la sua occhiata mi rimprovera con
qualche durezza.
“Mio fratello resisterà. Sta meglio. Sta un po’ meglio, in questi giorni”.
“Starà meglio se rimarrà chiuso nel castello”, la voce di Luigi è rispettosa, come sempre,
ma ferma e sicura.
“Può darsi. Può darsi. Vedremo. Ciò che conta adesso è metterci al riparo”.
“A Martinengo, allora?”
“A Martinengo”.
E mio figlio dà di sprone, e io lo seguo. E dopo un momento, vedo solo la testa del mio
cavallo, che sale e scende ritmicamente. Alberi, cespugli, sassi, erba corrono in senso
contrario, veloci. Guardo avanti, vedo le schiene dei miei uomini, leggo i loro pensieri, e
l’unico rumore che sento è il suono degli zoccoli, e poi il fiato dell’animale sotto di me
che ansima, sbuffa, soffia e forse fatica mentre corre, ma sembra felice. E io lo sono
quasi quanto lui, perché nel tempo che scorre non posso niente, solo aspettare che il sole
avanzi insieme alle pertiche corse al galoppo: nessuna decisione, nessuna possibilità di
intervenire nella storia che sto vivendo, solo attesa, ora, solo attesa e terra che passa e
distanze percorse.
Solo attesa, e, nell’attesa, mi scuoto di dosso i pensieri e le responsabilità e il comando e
le morti, quante morti ancora nei giorni addietro, quelli di Fontanella, e gli incendi, nella
terra di Cividate, e torture e tradimenti e poi, forse, una vittoria di sangue, tra poche ore.
Al castello, quando finalmente arriviamo, mi accolgono i lacché di Pandolfo, che è corso
a proteggere la duchessa Caterina Visconti dai suoi stessi figli e a cercare di rendere
solido il dominio bresciano che vuole ampliare.
I servi ci fanno strada tra le robuste muraglie della fortificazione, mentre Antonino mi
affianca e chiede a bassa voce:
“Pandolfo?”
“Non è qui, Antonino, non è qui, stavolta”.
“Volevo conoscerlo”.
“Lo conoscerai. L’ho visto mezzo mese fa, e ha promesso appoggio e riparo. Lo
conoscerai”.
“E com’è?”, chiede Luigi, che ci ha raggiunti con il silenzioso Giacomo.
Com’è? Com’è Pandolfo Malatesta, condottiero, consigliere della reggenza viscontea,
signore di Brescia in cambio di servizi alla duchessa?
“Alto –, rispondo. – Alto e forte. Buon soldato. Abile condottiero. Utile alleato, ostile al
biscione, cui ha tolto terre e città, e le vuole mantenere”.
“Dicono mangi troppo, per essere buon soldato”, interviene Giacomo e passa un braccio
sotto il braccio di mio fratello, che rallenta anche sui gradini bassi.
Scuoto la testa, a dire che non con lo stomaco si misura la capacità guerriera, ma sorrido
pensando a quest’uomo grande e grosso, al suo ventre prominente e ai mali di denti che
a volte lo hanno tormentato, mentre masticava carne o dolci, tutti quei dolci che ama
così tanto. Mangia troppo, sì, forse. Ma ha su di sé i segni di molte battaglie. Solchi sulla
pelle, la profonda ferita alla coscia destra, che mostra ridendo a chi inorridisce, la mano
destra che fatica a stendersi e rimane piegata come se stringesse sempre un’arma, e il
peso dell’armatura che fa gemere ogni volta la sua schiena.
“Qui”, fa segno uno dei servi che ci hanno accompagnati, e ci apre una porta, e
possiamo finalmente mangiare e dormire, e di nuovo aspettare l’alba dell’attacco tra i
colpi di tosse secca di Antonino e i bisbigli degli uomini nella corte bassa.

Ventisette

Mio fratello è rimasto nella stanza dove abbiamo dormito. Ci ha guardato, stamane,
mentre in silenzio ci coprivamo e ci apprestavamo a uscire. Non ha parlato lui e non
abbiamo parlato noi. Solo un cenno frettoloso di saluto e nessun chiarimento del su
fermarsi.
La spiegazione stava nelle sue occhiaie scure e nell’ansito del respiro quando si è alzato.
Si è portato alla piccola finestra e si è appoggiato al davanzale e lì si è fermato. L’ho
guardato e ha scosso la testa. Giacomo gli si è avvicinato e lo ha coperto con la veste
bruna che lui aveva gettato in un angolo. Lo ha abbracciato ed è uscito prima di noialtri.
E mentre il sole si alza al culmine, io sono contento che Antonino sia malato, che il suo
respiro abbia ceduto, che non sia qui, ora.
Siamo fermi accanto a un carpino che sbuca dal suolo del bosco, seminascosto alla vista
della strada. È un albero vecchio, provato, che forma sette ramificazioni poderose già
appena fuori dal terreno, gigantesco candelabro al quale appoggio la mia sconfitta.
I bergamaschi si sono ritirati e hanno lasciato sul terreno la testimonianza della loro
vittoria.
Qualcuno ha avvertito che stavamo arrivando. Qualcun altro ha pensato: guai a noi se
l’unione del Vignati con i suoi amici avrà campo libero. La loro salvezza stava
nell’impedire l’unione. E perciò, prima che avvenisse, sono riusciti a dare addosso a
quelli che noi attendevamo come aiuto e loro attendevano come minaccia.
Siamo arrivati tardi sia pure per vedere i nemici ritirarsi, ma il sole che brilla ancora
deciso ci mostra il loro lavoro. Ben fatto, diranno i Suardi, che certo hanno serrato le
mura di Bergamo e ci hanno visto tirarci indietro e si sentono al sicuro.
“Più di trecento”, mormora Francone, uno dei miei migliori, asciugandosi il sudore dal
viso mentre si avvicina.
“Più di trecento?” faccio eco stupidamente.
Lui si appoggia a uno dei rami, che pare piegato apposta per accoglierlo, e guarda
lontano e poi si gira e mi fissa bene in viso:
“Forse quattrocento”, e aspetta la mia reazione.
“E prigionieri?”, chiedo calmo.
“Prigionieri… Prigionieri, cento. Forse più, vediamo”.
“Francesco? Carlo?... Cristoforo?”, nomino gli uomini che ho voluto al fianco nella
scorreria, cerco nella memoria altri uomini, vedo i loro visi ma quando cerco di
pronunciarli non trovo più il loro nome e mi sembra di fare peccato, di averli cancellati
dalla terra prima ancora di sapere se sono morti o se adesso sbucheranno da là in basso e
mi raggiungeranno.
“Li cercano”, dice Francone, ma guarda altrove e io so che così fa quando teme le
notizie che deve portarmi.
“Jacopo?”, domando ancora appoggiando la mano sul suo braccio, costringendolo a
girarsi e a guardarmi. Un momento di silenzio e:
“Laggiù”, fa segno alla sua destra, dove stanno stendendo i corpi di quelli che hanno
lasciato la Bassa per venire a morire tra questi monti scuri. Poi si muove strappando
piano la manica della mia giubba e chiedendomi di seguirlo.
Jacopo è lì, disteso a faccia in su, con una ferita aperta appena dietro l’orecchio, e uno
strappo profondo nella cotta inutile, che non lo ha difeso e nella quale vedo infilato
ancora un pezzo della lama che gli ha spalancato il fianco e ne ha fatto uscire sangue,
umori e respiro.
Un brav’uomo, un bravo soldato, un buon marito e un ottimo padre. Ha lasciato la
famiglia per seguirci, per sbucare dal castello di Martinengo e scivolare con noi fin sotto
Bergamo e dare battaglia. Soprattutto, per stare vicino ad Antonino, suo amico
carissimo, suo compagno di avventure galanti in tempi lontani, e di discorsi paterni negli
ultimi anni.
Non l’ho voluto con noi ad attaccare i ghibellini bergamaschi, della città e del contado.
Abbiamo discusso, lungo la strada, e l’ho convinto con una frase:
“Sarai più al sicuro, tornerai e potrai stare al fianco di Antonino”.
Così l'ho allontanato dalla battaglia vicina, l’ho mandato al ponte, a far scorta ai
valligiani, a tenere d’occhio gli alleati, e a morire dissanguato.
Che se la morte di un uomo buono e giusto, amico e vicino, pesa tanto quanto sento
pesare in me gli occhi chiusi e sanguinanti di Jacopo, credo di avere con lui scontato i
peccati di ogni morte che ho voluto dare fino a oggi.

Ventotto

Troppo clemente con me stesso, nel perdono frettoloso di un dolore acuto, vengo
richiamato ai miei pesi subito, al mio rientro a Lodi. Ho dinnanzi un contadino, uno de
miei. Conosco il nome dell’uomo, ma non lo ricordo. L’ho osservato bene, mentre
veniva avanti, con le braghe larghe e stazzonate, un cappello destinato a farsi tormentare
da quelle dita lunghe, forti, macchiate di scuro. Porta con sé, l’uomo, il puzzo di certi
giorni passati con mio padre a correre la campagna e a pestare i solchi umidi appena
rivoltati e bagnati dall’acqua della roggia vicina. Ha un viso largo, scuro, dove affiorano
gli zigomi alti e si affossano le orbite degli occhi, puntati addosso a me con tranquillità
rassegnata.
“Quante bestie rimaste?”, chiedo, avvicinandomi.
Lui fa un passo indietro, come se fosse suo compito tenermi lontano, come se fossi io a
puzzare. E forse ha ragione. Puzzo di guerra, puzzo di saccheggi, puzzo di morte e sono
tornato nelle mie terre soltanto per avvedermi che posare armi e guerre, in questo
inverno, non ha evitato malanni peggiori.
“Poche. Poche, così”, e apre un palmo, lo alza, passando il cappello dalla sinistra alla
destra, sembra un gioco di destrezza, è l’ammissione della paura. Meno bestie perché
meno raccolto. Persino erba medica e trifoglio si sono arresi.
Arturo, ecco, è il nome: Arturo si chiama, di Castione, e mi ha lasciato poggiato in un
angolo un pane scuro, chiamato a testimonio di ciò che manca oggi, a noi e ai nostri
vicini.
Pane che ho assaggiato e, Dio perdoni, sputato a terra, sotto gli occhi del contadino che
non ha distolto lo sguardo, ha annuito, e spiegato:
“Fave, radici, semi di uva, farina e terra”.
“Terra?”, ho provato a chiedere, e ho distolto lo sguardo da lui che alzava piano le spalle
e annuiva e mormorava:
“Pane di carestia”.
Pane di carestia, sì, ed è la voce di Zilieto che torna da lontano e mi racconta degli anni
intorno alla mia nascita. Mentre io crescevo nel ventre di mia madre, spiegava mio padre
con tono da fola, intorno a noi faceva freddo quando doveva far caldo e asciutto quando
doveva bagnare e bagnato quando doveva seccare. E fu, quella avanti la mia venuta al
mondo, una primavera di piogge continue, e ugualmente l’estate, e il grano non maturò,
e chi poteva lo portava a casa, in urne e in vasi. Si dice che perfino il re d’Inghilterra, in
viaggio, non avesse trovato pane per lui e per il suo seguito. E se nemmeno i re
trovavano pane per il loro denti nobili, che cosa poteva restare per tutti gli altri? Pane di
carestia: quel pane che i contadini impastavano con farina mescolata a ghiande, semi,
terra.
Il pane di Arturo. Quello che l’anno appena passato lascia in eredità al prossimo.
“I figli?”, chiedo.
“Quelli, quelli reggono ancora”, borbotta lui e prende fiato, e si ferma.
“C’è altro?”, la mia voce suona alterata.
Arturo si stringe ancora nelle spalle, come se ormai niente di ciò che potrebbe accadere
fosse importante o vitale.
“Simone… Simone di Basiasco e moglie e figli e bestie, quasi tutte le bestie…”, e
scuote la testa e abbassa lo sguardo. Non faccio seguito alle notizie, non voglio sentire
esprimere con parole esatte ciò che ho già indovinato, ciò che altre voci mi avevano già
riportato.
“Sementi, voi, ne avete?”
“Poca roba –, borbotta a bassa voce e poi alza la testa. – Le sementi non si toccano,
padrone, ché se tocchiamo le sementi…”
“Si fa quel che è necessario, Arturo”.
“Ma le sementi, quelle sono per l’autunno e se adesso…”
“Domani –, chiudo brusco il discorso. – Domani sono a Basiasco e poi a Castione.
Vedremo”.
E mi avvicino, a spingerlo fuori e a fare i conti con ciò che gli uomini stavolta hanno
mosso e provocato. Ché non ci sono stati mesi di troppe piogge, o troppo poche; di gran
caldo, o di freddo gelato. Ma guerre e battaglie e corse e saccheggi e distruzioni, rovine,
crudeltà e miserie, questo, sì, questo è stato. Il pane di carestia, servito ai loro sudditi dai
loro signori.

Ventinove

Caterina ha un’andatura morbida che ci fa dimenticare le settimane di piogge


primaverili, gli assalti che i Visconti hanno ripreso, e persino la miseria, la fame e i
dolori che dopo le armi e la guerra hanno tenuto compagnia alla gente nell’inverno che è
finalmente andato.
Caterina sorride appena mentre avanza, e per un momento scordiamo che, al nostro
fianco, non c’è più mio fratello Antonino, arreso ai brividi improvvisi e ai tremori
intensi della malattia che è stata tanto a lungo a combattere nelle sue viscere.
Caterina ha voluto un abito chiaro, ricamato di oro a formare grandi stelle. Il taglio
oblungo sui lati lascia uscire le braccia che tante volte ho visto protese a chiedere un
gioco o un abbraccio. Braccia sottili, nervose, fasciate da una qualche stoffa dorata, di
cui non so il nome ma conosco il prezzo.
Caterina sposerà Carlo Cavalcabò, così duro, dicono, da aver dimenticato suo zio
Ugolino, che ha mangiato alla mia tavola e che ora è chiuso in qualche segreta a Milano;
così abile, Carlo, da averne subito approfittato, prendendo per sé le redini della signoria
di Cremona; così deciso da essere per me buon alleato.
Giovannina, davanti a me, saetta silenziosa lo sguardo intorno: basta lei ad assicurarsi
che nostra figlia sia osservata e trattata con ogni riguardo, che tutto vada come deve e
che nessuno debba lamentare che il signor di Lodi sia pìcul, come mia moglie mormora
sempre quando le nego un acquisto.
No, non è stato avaro, il signore di Lodi, per il matrimonio con gli illustrissimi
Cavalcabò: cavalli e armati a scortarci fin nel cuore della signoria cremonese; abiti rossi
e dorati per la sposa e le dame; e gualdrappa in fili d’oro persino per il cavallo che ha
portato mia figlia per le strade della città.
Fili più sottili, invisibili, sono quelli che spero di tessere dopo essermi guadagnato
l’amicizia e la parentela del nuovo signore di Cremona. Poco importa come sia arrivato
qui. C’è, e mi è utile. Ho una figlia da offrire in cambio di alleanza contro i signori
Visconti, contro Francesco, contro Ottobuono suo aiutante, contro l’assedio che in
questo stesso momento stanno ponendo alla mia città, sperando di trovarla indebolita
dalla fame, sguarnita di armati, pronta a cadere e a trascinare me nella caduta.
Ecco, il marito infila l’anello al dito di mia figlia, e ricorda quanto di denaro ha versato
alla chiesa affinché il matrimonio fosse giustamente benedetto da Dio.
“Con questo anello io ti sposo, con questa dote io ti doto”.
La voce forte di Carlo echeggia intorno a noi, e io penso a quando potrò spingerlo a
partire, a procedere verso il Po e verso Piacenza, a combattere laggiù per distrarre gli
armati dalle terre lodigiane, terre che intanto danno battaglia per me, fangose per le
piogge, pronte a ritardare e impedire i movimenti delle schiere ducali.
Si spezza l’ostia, e i due bevono dalla stessa coppa, e si preparano ad accendere un cero
alla Vergine, e pregheranno per la loro famiglia mentre io pregherò per nuovi raccolti
abbondanti e per scampare il pericolo di cadere nelle mani di chi ci vuole morti e
scomparsi.

Trenta

Ma c’è un Dio sordo a ogni preghiera, o forse stanco di quello che distingue quando si
abbassa a spiare tra le nubi della Lombardia e più in là, fino al mare.
Oppure, al suo posto, qualche demone malevolo e astioso riempie le sue eterne giornate
rimescolando le intese e le convenzioni, spingendo il fratello a versare il sangue del
fratello, l’alleato a tradire la parola data, le soldataglie a cambiare di bandiera, il
ribelle a opporsi al ribelle.
Vignati e l'ultimo alleato, Pandolfo Malatesta, battono ancora il territorio di Bergamo,
e ne vengono cacciati.
Si stipulano allora col Visconti trattati di tregue che i capitani del duca fanno e
disfanno a loro piacimento: Giacomo Dal Verme, capitano ducale, parte da Trezzo e
muove tutto l’esercito contro Lodi; Facino Cane, despota e ambiguo nella sua condotta,
abbandona Giovanni Maria Visconti e per danaro si accorda con i Colleoni e con il
Malatesta; cresce la confusione, il disordine e la babilonia. Chi è stato nemico del duca
Visconti ne diviene amico e arbitro; i suoi capitani perdono la sua amicizia e il suo
favore; Giovanni Maria è preso e stretto in un consiglio di guelfi, dove Pandolfo e suo
fratello la fanno da padroni.
D'un tratto, sembra concluso ogni motivo e fomento di guerra, tanto che si parla di
interruzione, di tregua, fra i contendenti dell’una e dell’altra parte. Una tregua di
quattro mesi, o anche più, e accenti di pace che risuonano da Milano, giù fino alla
Bassa e a Lodi.
Tuttavia, proprio in quel momento, verso oriente, mentre ancora Caterina Vignati si
abitua alla nuova città di cui è diventata signora, Cremona e i dintorni si riempiono di
grida di guerra e di vendetta. Sono le voci che prendono Giovanni e lo spingono, di
nuovo, nell’impeto delle armi e della battaglia.

Trentuno

C’è caldo e foschia lungo la strada. È come se ancora il terreno trasudasse l’acqua del
lago scomparso. Alcuni degli uomini si guardano intorno con aria spavalda ma le voci si
smorzano mentre la sera si avvicina. Hanno paura. Non dell’assassino che stiamo
andando a stanare, ché gli uomini in carne e ossa, anche armati fino ai denti, non fanno
paura. No, i miei uomini temono le chiacchiere con cui sono stati spaventati. Non sono
mai stati da queste parti e c’è chi, tra i vecchi miei armati, ha raccontato loro, con aria
seria, di Tarantasio, il dragone mangiabambini che si nascondeva tra le acque tiepide del
lago Gerundo. Lo stesso che dicono ucciso secoli fa da un Visconti. Lo stesso che si è
portato via, con il suo fiato fetido e le ossa dei bambini divorati, anche tutta l’acqua del
lago. Lo stesso che vedo campeggiare sullo stemma dei signori di Milano, avvoltolato e
intento al suo pasto.
Riderei con gli uomini dello scherzo fatto ai nuovi, se non avessi fretta di arrivare e
rabbia da conservare per l’attacco. Caterina, mia figlia appena maritata, è già vedova,
chiusa da qualche parte a difendere da sé stessa la vita che il marito ha appena perso.
Le notizie giunte non sono state credute, all’inizio, da tanto erano inaccettabili. Gli
uomini arrivati a Lodi a inizio del pomeriggio hanno balbettato di mio genero morto.
“Carlo? –, ho detto io, scrollando le spalle. – Carlo è partito ieri per Cremona, con
Ludovico Cavalcabò, con gli altri, con… Non c’è motivo perché sia morto”.
Mi sono ascoltato borbottare l’ultima frase nello stesso attimo in cui mi davo dello
sciocco: esiste, per morire, una causa precisa e adatta? C’è altro, oltre al caso, che
decide di fare della nostra vita un mucchio di ossa?
No. Il fato decide e saltella pescando nel mucchio, e chi si è riparato per bene fino a
quell’attimo, ecco, è il primo a essere adocchiato e strappato via. E non esiste gioventù e
non esiste vecchiaia, così che, dopo lo sconcerto, so che quegli uomini dicono il vero, e
che Carlo Cavalcabò ha trovato il suo destino nella strada da qui a casa, tanto breve da
essere percorsa in mezza giornata.
Giacomo entra, con viso preoccupato, già raggiunto dalla notizia. Luigi mi sta al fianco,
e tiene un braccio sulle spalle del giovane Zilieto, il nipote che riempie il posto lasciato
libero da mio fratello. Scivola dentro Toniola, con Margarita che è venuta a trovarci e
tiene per mano Francina e Taddea.
“Come?”, chiede cupo Giacomo.
E gli uomini raccontano.

Trentadue

Quando si vive una contingenza non si è attenti a ciò che i nostri sensi percepiscono.
Essi lavorano liberamente, senza controllo, e depositano nella nostra memoria ciò che
poi dal tempo sarà setacciato e spulciato, col sacrificio indifferente di suoni, parole,
volti, certezze. Quando la contingenza è vissuta da altri, si cerca di imbastire con
pazienza ciò che altri sensi hanno veduto e ascoltato, e si giunge a raffigurarsi tante
realtà quante sono gli occhi che hanno visto o le orecchie che hanno udito.
Mi dicono che Carlo, dopo aver seppellito lo zio nel fondo di una cella, si sia preso
paura degli stessi cremonesi e sia andato a consegnare sé, la città e il prigioniero in
mano al duca Giovanni Maria. Giacomo impreca piano mentre uno degli uomini
impolverati e sporchi ci racconta che proprio per questo Carlo è stato a Lodi, ieri: perché
il viaggio di ritorno da Milano a Cremona non si sarebbe potuto fare d’un fiato; perché
la mia città era opportuna stazione a metà strada; perché a Lodi signoreggio io, che gli
ho appena concesso in moglie mia figlia ed è onorevole e rispettoso far visita al proprio
suocero.
E l’altro prosegue: Carlo, una volta partito, si è fermato ancora, alla rocca di Cabrino
Fondulo, e questi li ha invitati alla sua tavola. Comprendo bene come al Fondulo sia
balenata l’idea di potere, in una sola mano, liberarsi di zio e nipote, e di prendersi
Cremona tutta per sé.
Il primo uomo prende di nuovo la parola e favoleggia di lautissima cena e di buon vino,
tali e tanti da fare seppellire nel sonno Carlo e i suoi e da rendere facile a Cabrino di
farli tutti scannare.
E mentre le donne rabbrividiscono e si siedono, Luigi chiede torvo il seguito e le voci si
accavallano: ministro dell’uccisione è stato il Fondulo, o forse un certo cavaliere di
Bologna, capitano dei Cavalcabò stessi; il Fondulo ha violato i sacri diritti dell’ospitalità
e li ha uccisi durante la caccia o meglio, no, li uccise in casa, ma pare che, no, li abbia
fatti uccidere, dopo la cena, e li chiuse in sacchi e li gettò in Po; ma si dice, sussurra uno
che fino ad allora è stato zitto, si dice che li abbia gettati in una latrina e sia poi volato la
notte stessa a Cremona con alquanti cavalli, e abbia strozzato in carcere lo zio di Carlo e
ottenuto a tale prezzo la signoria.
Un prezzo che a me pare ora troppo lieve.
Ben altro deve pagare il Fondulo per tenersi Cremona: e allora corro, anche se ormai è
notte e i miei soldati temono l’apparire del Tarantasio. Corro per afferrare l’assassino di
mio genero, e se non mi riuscirà, perché le serpi velenose son le più veloci a scappare,
sarò pago di assaltare, espugnare e saccheggiare il suo castello, e riprendermi mia figlia,
e continuare a combatterlo, in modo palese o coperto, finché ne avrò la forza o la voglia,
o finché qualcuno non mi convincerà che è mio utile fermare le armi.

Trentatré

Quante morti ancora per indirizzare la mia vita così come mi sono prefissato? Quanto
sangue da versare di nuovo e di nuovo?
Il paese dorme e io veglio nella rocca del Bel Pavone che soltanto pochi mesi fa Ugolino
Cavalcabò ha stretto nelle sue mani. E oggi? Nella serata che va intiepidendosi con
l’arrivo della notte? Dov’è Ugolino? Ha mangiato alla mia tavola, ha combattuto al mio
fianco. In quale tomba è stato cacciato dal tradimento del suo stesso nipote?
E Carlo? Carlo, che ugualmente, per interesse, per calcolo, ho voluto al mio fianco, nella
mia famiglia? Ha pagata la sua viltà con una moneta ancora più scellerata.
Il Fondulo, per suo vantaggio, ha cambiato strada troppe volte per esitare di fronte a un
nuovo cadavere. Dicono che, appena emancipato, abbia consegnato persino il suo borgo
ai nemici dei Visconti, e che abbia raggiunto i Gonzaga per tramare contro i milanesi.
Al servizio di Ugolino, ha fatto sollevare Cremona e combattuto nelle terre intorno e
massacrato i ghibellini e i viscontei che si sono avvicinati alle sue milizie.
E al servizio di Carlo ha preso Ugolino e lo ha buttato, raccontano a Cremona, nella
cella più fonda del castello di Santa Croce.
Ma è solo in favore di sé stesso che ha troncato le vite di Carlo e dei suoi. È soltanto per
sé che è fuggito e si è rinchiuso tra le mura sicure di…
“Signore. Signore, qui sotto abbiamo finito”.
Sobbalzo alle parole di Alberto, mio fidato aiutante nell’assalto finalmente concluso.
“Gli uomini del Fondulo?”
“Presi. Tutti. Si sono consegnati, con la Rocca. Ma…”
“Ma?”
“Hanno rovinato e rubato quello che potevano, anche se dicono di servirvi. Possiamo
rovinare loro, adesso”.
“Ci pensiamo, Alberto, ci pensiamo. Per il momento, non voglio altro sangue. Non
stasera”
“Come volete, signore, anche se…”
“Alberto, da mesi è lotta aperta tra me e il nuovo signore di Cremona. La lotta
continuerà. Teniamoci i suoi uomini tra le mani. E vediamo che succede”.
Scuote le spalle, Alberto, e sbuffa di disaccordo mentre si inchina in fretta e si allontana.
Lo lascio andare: mi è fedele, e so che farà ciò che deve, non ciò che vorrebbe. Mi
avvicino al finestrone aperto sulla notte ormai giunta. Finisce il mese di ottobre ma il
freddo, la sera, ci lascia ancora tranquilli e io posso osservare il buio che circonda
questo paese di poche anime, una manciata di costruzioni messe a guardia di una delle
ultime anse dell’Adda, a segnare il confine tra noi e Cremona.
Confine fragile, come fragile è il confine tra me e Cabrino Fondulo, che poco fa
disprezzavo. Mi sentivo migliore di chi aveva ucciso mio genero, assalito mia figlia,
bruciato le mie alleanze.
Oggi, alla fine del mio viaggio terreno, intendo che non lo sono stato. Quasi che la
certezza della morte renda più acuto il pensiero e più ampia la vista, mi avvedo che ho
fatto e disfatto con indifferenza le amicizie e le inimicizie: la ragione di stato, il calcolo
e il bisogno sono stati più forti di lealtà e di vincoli di sangue. No, non ero migliore, né
in miglior condizione del Fondulo o di altri compagni di signoria: la mia salvezza
poggiava sull’unione coi nemici dei duchi di Milano. L’obiettivo mio necessario e
principale è stato sempre quello, innanzi al quale ogni altro ha ceduto. A esso soltanto
ho rivolto dunque attenzione e ingegno, le forze e la vita, la mia e degli altri.
Trentaquattro

Ha forse mancato l’obiettivo per sua colpa? È stato cieco o soltanto sciocco,
costruendosi da sé stesso gli inciampi che lo hanno fatto rotolare nelle segrete del duca
Visconti?
Si fa memoria delle ostilità con il Fondulo e rievoca mormorando tra sé i passi con cui
Venezia, proprio in quei tempi, si è avvicinata circospetta ai signorotti che, ben
condotti, così gratuita barriera avrebbero opposto al nemico milanese.
Ha agito con cautela, la Serenissima, lo ha blandito, lodato, lusingato. Lui, consapevole
ma complice.
Nel novembre del 1406, poco dopo la conquista della rocca di Maccastorna, mentre il
Fondulo si teneva Cremona, Giovanni si è ripreso la figlia Caterina. E il Doge Michele
Steno, in una solenne adunanza del Consiglio Generale, lo ha nominato patrizio veneto,
proprio lui, il magnifico e potente domino Giovanni da Vignale, signore di Lodi, con i
suoi discendenti.
In tal modo, e a questo può ora pensare con chiarezza, il Doge si è accaparrato il
Vignati nella maniera più astuta e obbligante, e ha proseguito nell’aprire a Venezia
anche la terra ferma. E certo era necessario tener debole e divisa la Lombardia, perché
non ritornasse la potenza dei tempi di Gian Galeazzo. A tal fine, è stato esaltato questo
tirannello o quel signore contro i simili o contro lo stesso Visconti, per distruggere uno
con la mano dell’altro e per costruire la propria potenza terrestre sulle rovine altrui.
Sapeva, lui, di questa politica? Aveva penetrato le ambizioni della Repubblica o si
contentava degli onori che ne derivavano, prendendo da ciò maggior confidenza e
coraggio?
Se lo chiede, rinchiuso a Milano, abbandonato anche dai veneziani. Si domanda se ha
fatto mosse errate, se si è scelto gli uomini sbagliati. Se, in una parola, si è stretto il
cappio con le sue stesse mani.

Trentacinque

Mi prende, mentre osservo Jacopo e Petrino, un senso profondo di incertezza.


“Non ti fidi di noi?”, chiede Jacopo, mentre si accomoda e allunga il braccio a ricevere
un calice pieno. Luigi versa del vino caldo, e il profumo arriva fino a me mentre scuoto
la testa in una fiacca negazione.
“Vogliamo soltanto capire”, interviene Giacomo, che ha davanti a sé la sentenza
arbitrale.
“Che volete?, non c’è molto da capire –, interviene Petrino brusco e deciso. – Non ti
abbiamo mai dato motivo di lagnanze, Giovanni. Perché ora dubiti?”
“Nessun dubbio, Petrino, soltanto chiarezza. Ricomincia.”
“L’impressione nostra –, un’occhiata a Jacopo Cadamosto, che annuisce, – è che
Venezia tenga a una signoria forte, la vostra…”
“Ma non voglia –, interviene Jacopo e calca la voce, ripetendo, – non voglia più scontri
nella Bassa, né col Fondulo, né con altri”.
“Questo… –, interrompe Giacomo con aria incredula, – questo vi è stato detto
esplicitamente?”
Petrino ride.
“A noi? A due poveri procuratori? No –, e ridiventa serio, – né a noi, né ai procuratori
del Fondulo. Ma… –, un sorriso torna a sfiorargli le labbra, – ma abbiamo orecchie per
sentire e occhi per vedere e testa per mettere insieme quello che abbiamo visto e
sentito”.
“Dunque? Che cosa ha in mente Michele Steno?”
“Il Doge è assai anziano e molto rispettato, a parte…”
C’è un’interruzione, di nuovo, e una nuova occhiata tra i due, e ancora, a quanto pare,
una risata nell’aria.
“A parte?”
“A parte?”
Insieme, io e Luigi, formuliamo una domanda che suona dura, forse rabbiosa, ma non
capisco: si parla del nostro avvenire e pare di raccontarsi una novella buffa.
“Giovanni, scusa, abbi pazienza, è successo che un vecchio servo del Dogado ci
intrattenuto, una sera, con le imprese del nostro caro Doge ben prima che ottenesse la
carica. Pare che lo Steno fosse alquanto… agitato. Scapestrato, lo ha definito il vecchio:
Michiel scaenà, ha detto”.
“Pare che intorno ai vent’anni si sia fatto un mese di galera”.
“Motivi politici?”, chiede incuriosito Luigi.
“Non proprio –, ride Petrino. – Non proprio… Si è messo con qualche altro disgraziato e
ha coperto la parete di un camino del Palazzo Ducale con scritte… Come ha detto il
vecchio?”
Jacopo alza solenne l’indice e recita con voce cupa:
“Turpi e ignominiose! Turpi, soprattutto!”, e poi scoppia a ridere.
Eccoci intorno al solito tavolo che ha visto riunioni politiche, familiari, battesimi, morti,
litigi e riconciliazioni. Seduti ad attendere la decisione del Doge della Serenissima, che
segnerà i mesi a venire, e di colpo anche noi, Luigi, Giacomo, io stesso, siamo presi
dalla leggerezza che arriva dai nostri due procuratori, tornati da un viaggio lungo e da un
incarico difficile.
“Così turpi?”, domanda Luigi, adagiandosi sul seggiolone vicino al fuoco.
“Molto turpi!”, ribadisce Jacopo e con un gesto invita Petrino a proseguire.
“Oh, bene, pare che mezzo secolo fa il Doge di allora, il Faliero, avesse sposato una
bellissima giovane…”
“Molto bella e molto giovane”, chiosa subito Jacopo.
“Mentre lui –, chiarisce subito Petrino, – era già avanti con gli anni”.
“Steno ha insidiato la moglie del Doge?”, chiede divertito Giacomo, anche lui arreso al
clima creato dai due.
“La cameriera”, spiega severo Petrino.
“Michele Steno è stato messo in galera per avere insidiato una cameriera?”, sono io che
intervengo incredulo.
Petrino scuote la testa e si alza per riportar meglio la storia:
“È andata così: a una festa al palazzo Ducale il nostro giovane Michele Steno ha avuto
delle… attenzioni per una cameriera. Troppe attenzioni. È stato invitato ad andarsene”.
“E se ne è andato”, aggiunge Jacopo.
“E dunq…”
“Ma –, riprende Petrino, – ha lasciato un’annotazione su un caminetto del Palazzo
Ducale. Un’annotazione sul Doge Faliero e sulla sua giovane e bella moglie”.
“Aspettate”, fa segno Jacopo che si fruga nella scarsella e ne tira fuori uno scritto ben
ripiegato che allunga a Petrino.
“Ecco qui –, Petrino spiega il foglio, lo alza davanti a sé, recita: – ‘Marin Falier da la
bea mugier, tutti la gode e lu la mantien’”, e con un inchino profondo conclude la sua
esposizione.
Un silenzio brevissimo, e la risata che si alza improvvisa fa accorrere Giovannina.
“Credevo foste impegnati con gli affari di Venezia”, osserva stupita guardandosi
intorno.
“Proprio così, madre, proprio così – risponde Giacomo, e mentre mia moglie si allontana
scuotendo la testa si rivolge a noi e ci invita, ancora sorridendo: – Parliamo
dell’accordo, ora”.

Trentasei

Abbiamo allora discusso a lungo dell’accordo voluto da Venezia, seduti intorno al


tavolo, vicini, a contare amici, nemici e denaro. Soprattutto denaro.
Adesso, seduto nella mia prigione, allargo piano il laccio in cuoio che chiude il
sacchetto semivuoto. Infilo le dita nella bocca stretta e ne cavo le poche monete che
portavo con me all’arresto, appese al fianco. Monete che io stesso ho voluto e fatto
coniare, altro passo per rendere il mio nome conosciuto e perpetuato negli anni.
Nessuno me le ha tolte, quasi che volessero assicurarsi che avessi pronto vicino a me il
pagamento del mio prossimo trapasso.
Chissà se la ferocia illuminata di Caronte accetterà per obolo il soldo che porta impresso
il simbolo dello stesso uomo che è stato condannato agli inferi.
Scorro, col pollice, i quattrini rimasti: due grossi in argento, un denaro d’oro, quattro
denari in bronzo. Tutto qui, quello che resta delle mie ricchezze.
Ho sorriso quando ho appreso che la sentenza del Doge minacciava diecimila ducati per
chi di noi avesse rotto la tregua imposta dalla Serenissima. Il notaio Guglielmo aveva
già sottolineato in bel latino quanto illa pax et sincera tranquillitas grata potest esse
Creatori nostro, ma forse il Doge Steno, nella sua vecchiaia, ritenne che una multa in
monete d’oro fosse più efficace della volontà di esser graditi a Dio.
Eppure, quanto facile mi sarebbe stato far tintinnare decine di borse colme davanti agli
occhi del veneziano, acquistando per me il diritto di far guerra, ancora e ancora, col
Fondulo. Se non l’ho fatto, non fu per mancanza di ricchezze, ma perché non mi era
conveniente. Se ho dimenticato che Cabrino Fondulo, nuovo signore di Cremona, era
stato traditore e assassino, ho dimenticato per interesse e tornaconto.
Come le monete che ancora maneggio nel palmo, e che sposto e mescolo con leggeri
movimenti, ho visto sfilare e combinarsi davanti a me alleati e nemici. Ad essi
mescolato, come quest’unico denaro d’oro si mescola agli altri, anch’io ho mostrato, a
volte, la faccia ornata dallo stemma rampante, e a volte la faccia col vescovo Bassiano
benedicente, chiamato a proteggere la mia signoria e i miei beni. E il rumore metallico
di questi pochi denari non porta forse alla mente lo scontrarsi di lame lontane?
Eppure non è stato difficile arrendersi alla pace, accettare la tregua imposta dal Doge,
trovarsi davanti mesi di sosta e sollievo. Non più difficile che accordarsi, poco più tardi,
persino con il rivale di sempre. È accaduto all’inizio di un anno che faccio fatica a
rammentare, benché ricordi l’inverno pieno, freddo, nebbioso durante il quale sono stato
chiamato a Milano, a convenire con il duca e con suo fratello l’utilità di una sospensione
d’armi. Ricordo il ghiaccio che pendeva dalla rocca di Giovanni Maria Visconti e i miei
passi nella rocca del nemico: preceduto da due dei miei uomini e seguito dagli uomini di
Giovanni Maria, sono passato dal gelo dell’esterno al gelo delle mura interne fino a
trovarmi davanti al rigore di un ventenne capace di osservare con sospetto persino sua
madre. Capace anzi, si raccontava, di lasciarla languire nel suo castello di Monza, alla
mercé dei nemici, dei pensieri cupi e della peste, tanto da lasciare al mondo il dubbio su
quale dei due fosse stato per lei più pernicioso, la malattia o il figlio.
Ma questi sono pensieri di oggi e come tali li riconosco. Se è lecito e possibile, per un
uomo alla fine della vita, saper distinguere con qualche sicurezza tra la realtà delle
giornate e l’imperfetta ricostruzione che ce ne lascia la memoria, posso essere certo
quanto basta che allora io chiedevo unicamente la capacità di destreggiarmi tra il volere
del giovane Visconti e gli interessi della mia casa. E ciò che conclusi, in quel pallido
gennaio del 1408, mi mosse ad accettare la tregua proposta dal duca: che fosse
tranquillo, dunque, assicurato che dal sud non sarebbero arrivati attacchi, non più, non
dal signore di Lodi.
So che la meraviglia con la quale questa decisione fu colta da chi mi stava vicino e da
tutta la pianura è stata grande per ognuno, e grande anche per me, quasi avessi fatto un
passo nell’impossibile, all’inizio di una strada sconosciuta e infinita, nel tentativo di
abbracciare il futuro e sentirmi immortale. Nella stretta della mia famiglia che, abituata
a vedermi giocare la guerra, mi ha osservato curiosa giocare alla pace.

Trentasette

“Combattere non è sufficiente, bisogna mantenere”.


“Da quando sei diventato un esperto di politica e di guerra, dunque?”
“Non è necessario essere così esperto per un’osservazione tanto naturale”.
“Tu vaneggi. Ti pare che finora nostro padre non sia riuscito a mantenere ciò che ha
conquistato?”
“Sempre sull’orlo del…”
“Adesso basta!”
La voce di Toniola, fatta stridula dal dispetto, si inserisce nei discorsi dei fratelli, che si
volgono impazienti alla zia, e quindi a me.
“Forse Toniola è stanca di sentir parlare di politica”, mormora lentamente Giovannina,
cercando di mettere concordia tra sua cognata, arrivata qui stanca e desiderosa di
tranquillità, e i figli, pronti a continuare la discussione.
“Anch’io vorrei evitare questi argomenti – la voce allegra di Margarita si intromette. –
In fondo, ci vediamo poco tutti insieme e dopo questi mesi di sosta porta sfortuna parlar
di contese”.
“La fortuna non la si cambia parlando, zia –, sorride Giacomo, che per lei ha un debole,
– e quando riunisci nella stessa stanza due o tre uomini, viene facile parlare di guerra”.
“E io?”, borbotta Zilieto, che si sente escluso dal conto di chi può legittimamente
discorrere di armi e strategie.
È il segnale che fa partire la risata e che interrompe Luigi e Giacomo, traendoli fuori dai
loro discorsi seri.
Ha ragione Margarita: vivo qui, con mia moglie, i miei figli e i figli di Antonino, ma
così di rado riesco a vedere anche le mie sorelle e così poco, ormai, sono capace di
godere di queste settimana di pace.
“Che cosa dici del palazzo?”, interviene quieta Giovannina, alzandosi, come colei che sa
cogliere il momento per intervenire e per sedare gli animi di cognate, figli e nipoti.
Toniola sbuffa appena verso Giacomo che la fissa ridendo, si alza anch’essa e sfiora con
un scappellotto la chioma di Luigi. Prende sottobraccio mia moglie e si avvicina ai
grandi tappeti appesi al muro di settentrione. Li raggiunge Margarita, pronta a
commentare fili e disegno, mentre il giovane Zilieto, a un mio cenno, corre a prendere il
gioco del re e a sedersi con aria trionfante davanti al cugino grande:
“Mi insegni, Giacomo?”
L’occhiata che mi lancia mio figlio è esasperata, ma sa che non ha scampo. Qualcuno ha
spiegato a Zilieto che questo nobile gioco è stato proibito, in terra di Francia, da un
grande re, e ciò lo ha reso desiderabile ai suoi occhi. Giacomo, mesi prima, per
toglierselo di torno si è impegnato a fargli da istruttore e deve pagare il pegno della sua
avventata promessa.
Sorrido, mentre Luigi mi raggiunge sghignazzando apertamente all’indirizzo del
fratello.
“Padre, i nuovi cavalli sono stati sistemati, scendiamo?”
“Scendiamo”, gli rispondo, e ci allontaniamo tra il chiacchiericcio delle donne e la voce
fonda di mio figlio maggiore:
“Allora, la nuova regola è che il pedone, alla prima mossa, può fare due caselle, mentre
il Consigliere va vicino al…”

Trentotto

Luigi illustra sereno le qualità delle ultime bestie che si è procurato. Annuisco e
mormoro un assenso, quando mi sembra opportuno, con qualche pacca sul dorso del
corsiero più vicino. Momenti di grazia come quelli che sto vivendo mi sono dati di rado
e di rado so approfittarne.
Cammino piano di fianco a mio figlio, che parla di maggengo e crusca, di cavalli a
riposo e di quelli a lavoro pesante. Ci spostiamo lenti, tra il ronzio agitato delle mosche
e gli odori pesanti del fieno e delle erbe fino all. Talvolta, in questo angolo del palazzo,
sembra di stare nella mia campagna, campi verdi o scuri che qui, nell’aria chiusa e
pesante delle strade cittadine, è facile dimenticare.
Questo solo forse mi manca, tra le mura che difendono me e la mia famiglia. Per il resto,
passeggio volentieri tra i vicoli stretti, consueti; mi piace vagare tra le vie più lontane,
riconoscere un muro, uno stemma, un volto e alzare piano la mano per un saluto veloce.
Esaurito il giro della stalla, invito perciò Luigi nel portico buio che l’unisce al palazzo, e
mi dirigo all’uscita.
“Attendi, padre”, mi fa cenno lui e dalla corte lancia un fischio breve e potente. Lassù, a
una delle finestre della sala, si affaccia Zilieto e sparisce subito al cenno del cugino che
lo chiama dabbasso.
“Giacomo respirerà meglio, ora che gli hai tolto di mezzo il giocatore di scacchi”,
commento, e lancio un gesto d’intesa alle donne affacciate a sincerarsi che il ragazzo a
precipizio sulle scale abbia un sicuro approdo e sia ben controllato.
“Dove andiamo?”, affanna la voce di mio nipote, che con noi verrebbe fino all’inferno,
pur di starci vicino.
“Verso il fiume”, risponde per me Luigi, che sembra avere indovinato la mia voglia di
verde e di azzurro.
E ci incamminiamo, tre generazioni affiancate, nell’aria tranquilla di questa città dove la
gente passeggia, chiacchiera, ci saluta, ride. In qualche angolo nascosto, un musico di
strada accompagna il nostro cammino, senza che neppure Zilieto, correndo avanti e
svoltando un angolo, riesca a vederlo. Più facile tornare indietro e lanciarsi a spaventare
un gruppo di piccioni che subito inanellano i loro voli chiassosi nel cielo. Due donne,
strascicando le vesti ancora pesanti, si volgono appena allo schiamazzo del ragazzo e
degli uccelli, e chinano leggere il capo a salutare il loro signore e a lanciargli intanto
un’occhiata curiosa. Arriva, poco oltre, Bassiano, ci vede e ci viene incontro, serio ma
sereno; lo riconosco, prima ancora che dal viso, dalla tunica blu bordata d’oro e dalla
berretta leggera che porta per ripararsi dal freddo o dal sole.
“Giovanni, eccovi, finalmente”, saluta il mio vicario mentre mi si accosta.
“Finalmente? Accade qualcosa?”, chiedo.
Ma Bassiano scuote la testa e mi prende sottobraccio:
“Nulla, Giovanni, nulla, ma qualcuno pare interessato al vostro ultimo stallone e mi
sollecita a parlarvene. Cose leggere, vedete, cose leggere di cui discutere”.
“Non con me, allora –, Bassiano si gira a scrutarmi il volto, sorpreso, – non sono io
l’esperto, sapete?”, e richiamo mio figlio, indicandogli il dottore al mio fianco.
Luigi ci raggiunge, con Zilieto al seguito. Un saluto rispettoso di entrambi, un inchino
compito del ragazzo e procediamo verso il fiume, mentre mi lascio avvolgere dalla voce
roca del vicario e da quella sonora di mio figlio, che discutono assorti di talentuose
razze iberiche, di agilità e di denari capaci di compensare nella vendita tutte le migliori
qualità di un grande destriero.

Trentanove (settembre 1408)

Fa quasi spavento e sembra mare, questo fiume che taglia le terre della Bassa e che mi
sta dinnanzi, mentre Alberto si occupa dei cavalli e Giacomo con Luigi prende gli
accordi del passaggio. Giornata limpida e fredda, così che posso spingere lo sguardo ai
monti che bloccano il cielo, là in fondo, e sembrano circondare l’orizzonte per tutto il
suo estendersi. Sono abituato a spazi aperti, a pianura larga e distesa, e la cornice
rocciosa che mi sembra di poter toccare ma so lontana pare mettere una barriera al mio
cammino, quasi a consigliare il riposo. Mi sembra di scorgere il biancore delle cime e
qualche profonda scura ferita della roccia, ma forse è mia immaginazione, oppure i miei
occhi sono traditi da certi luccicori che il sole freddo trae dalle acque del Po.
Può essere che, davanti a una barriera montuosa, la mia smania di terre e comando si
sarebbe arrestata con maggior accettazione? Mi figuro il tentativo di allargare i miei
domini sconfitto non dal duca di Milano o dai suoi alleati, ma dalla natura, che mi si
poteva porre dinnanzi con una parete di pietra a ordinare: fermati, non hai più
possibilità, non hai più scelta. E non avere scelta è talora la miglior condizione possibile.
Un grido di allerta mi richiama dalle mie vagabonde congetture e abbasso lo sguardo
alla sponda sabbiosa, dove un cavallo dei miei recalcitra e dà problemi ai ragazzotti
impegnati a caricarlo senza essere scalciati. Uno di loro, rosso di pelo come mai mi era
capitato di vedere, allunga il più possibile le braccia aggrappate ai finimenti e sembra
marciare a ritroso, col busto proteso in avanti e il posteriore proteso all’indietro, a
difendere il corpo da un colpo che potrebbe essere assai doloroso ma, di contro, ad
agitare oltre il cavallo, che si sente ritmicamente strattonato e ancor più si impaurisce.
Alberto guarda all’insù, mi vede, sorride e allarga le braccia, come a dichiararsi vinto
davanti a tanta insipienza; poi si avvicina, molla un manrovescio al garzone, calma la
bestia e riesce a farla salire vicino alle altre.
Giacomo fa segno di raggiungerli. Piacenza ci attende.

Quaranta

“Come ci muoveremo?”, chiede Giacomo, appoggiato a un mucchio di sartiame umido e


scuro.
Siamo in un angolo riparato, a poppa della batana, ma ugualmente giungono a noi
spruzzi frequenti e fastidiosi, che il sole ancor tiepido non riesce ad asciugare.
“Nascostamente, per intanto”, replica subito Alberto, seduto su una traversa di legno,
braccia appoggiate alle cosce e mani che tormentano un pezzo di cordame raccolto dal
fondo.
Giacomo annuisce e Luigi si volge a chiedere:
“Boucicault?”
“Il Boucicault se n’è tornato in Francia da qualche mese”.
“È rimasto assai poco dalle nostre parti”.
“Sufficiente per affiancarsi a Giovanni Maria Visconti e legarsi a lui, dimenticando i
profumi del mare ligure e il suo...”
“Ligure?”, alza la testa, Alberto, che poco si interessa di schermaglie politiche ma si
porta dietro da sempre, lui, uomo di pianura, un desiderio appena sopito di mare e
salmastro.
“Ligure –, conferma Giacomo, che si è avvicinato strisciando seduto fino a noi. – Ma
francese di nascita”.
“Questo lo so –, mugugna Alberto che, io sospetto, si sente ormai fuori gioco con il
giovin signore colto che un tempo gli trottava a fianco adorante. – So bene che è un
francioso. Con quel nome lì, poi”.
“Francioso, certo – , riprende mio figlio sorridendo, – combattente sopraffino, e
maresciallo di Francia”.
“E in Italia perché?”, chiede Alberto, che è curioso e, alla fin fine, ama vedere il suo
antico protetto sfoderare tutte le sue conoscenze.
“Oh, ma prima dell'Italia... Prima dell'Italia il nostro Boucicault ha combattuto in
Francia, e a quattordici anni si è distinto in numerose battaglie tanto che...”
“Quattordici anni?” stavolta è Luigi che cessa per un momento di sorvegliare le rive e si
gira verso il fratello, con aria incredula e ilare, quasi che Giacomo stesse raccontando
una di quelle leggende di cui ama a volte farci parte.
“Quattordici, sì –, arriva subito la conferma. – Dopo che era stato addestrato alle armi
sotto la guida del condottiero Bertrand du Guesclin”.
“Un altro francioso”, sottolinea Alberto, con aria di pensare che di questi stranieri
oltremontani se ne potrebbe fare a meno, in questo mondo.
“E francioso il suo re, che lo tenne come uomo di fiducia –, spiega la voce di Giacomo,
capace di tenerci avvinti allo svolgersi della vita di un nostro avversario. – E lo inviò in
Terrasanta, e da qui Jean Boucicault divenne convinto di doversi battere per il Nostro
Signore in quelle terre d'Oriente”.
Alberto sfila un piccolo crocefisso dalla casacca e lo alza a mostrarcelo, lo bacia leggero
e lo rintana tra pelle e stoffa, a protezione presente e futura. Approva che il francioso
abbia combattuto contro i Turchi.
“Ha combattuto, nella terra dei bulgari, con gli ungheresi e con gli altri crociati.
Centomila uomini da una parte e cent...”
“Centomila...”, interrompe lo stupore di Alberto.
“Centomila, tanti ne dicono –, corregge appena Giacomo, – ma in ogni modo mal
guidati. O forse... Forse traditi”.
“Da chi? Chi poté tradire i cristiani? Qualche cane ottomano, di certo, ma come?”
“Alberto... – , mio figlio scuote la testa. – Alberto, dicono che il sultano venne avvertito
dal Visconti, dal vecchio Gian Galeazzo, lo stesso che dalle nostre parti faceva il buono
e il cattivo tempo”.
Lo sguardo di Alberto è incredulo, la bocca semiaperta, e scuote la testa girandosi alla
mia volta, a cercare conforto. Ma io, che conosco la storia, raccontata ormai da una
quindicina d'anni, assento. Che sia vera o no, il nome che si sussurrava ai tempi di quella
crociata in terra di Nicopoli, era proprio quello.
Il mio uomo si riprende in fretta, tuttavia, e conviene subito che, in fondo, il vecchio
duca è stato un cane tanto quanto gli ottomani.
“E bruci bene con loro tra le fiamme dell'inferno!”
Si ride, ora, dimentichi per un tratto del Boucicault, e di Piacenza, e siamo in silenzio,
ondeggianti sul Po, corna dorate e testa di toro, che più violento di ogni altro fiume
corre lungo la fertile pianura sino al mare purpureo.
Mormoro sottovoce i versi dell'antico poeta. Giacomo, che riconosce l'amato Virgilio,
mi lancia un'occhiata, annuisce, e torna ad appoggiarsi al sartiame e a raccontare.

Quarantuno

“Dicono –, prosegue lenta ma decisa la voce di Giacomo, – dicono abbia un'aquila ad ali
aperte sopra lo scudo, e che come un'aquila sappia strappare la carne ai nemici”.
“Anche le aquile vengono abbattute”, interviene Luigi, mentre Alberto scuote il testone
a dire che, sì, questo succede e che lui non teme un aiglon français che svolazza sulla
pianura.
“Giusto. Sì. E Boucicault perse un po' di piume, laggiù, in terra danubiana, quando il
sultano lo fece prigioniero”.
“E seppe fuggire dai turchi?, sbalordisce Alberto, per il quale pare sia assai più mirabile
la liberazione dai cani turchi che un'intera battaglia.
“No. No di certo – , chiarisce subito il nostro narratore. – Fu pagato un riscatto, e fu
liberato, e bene si vendicò, qualche anno più tardi, davanti alla capitale...”
“Costantinopoli...”, suggerisce Luigi.
“A Costantinopoli, sì, inviato dal suo re in aiuto all'imperatore bizantino, assediato da
quegli stessi turchi che lo avevano imprigionato. Li costrinse ad arretrare, e ad
andarsene e si prese la sua vendetta e i suoi onori. Tornò in Francia e forse pensò ad
altre guerre in Oriente, ma non era quello che gli era stato riservato”.
“Non più guerra?”, chiede accigliato Alberto, quasi deluso da un tale combattente
costretto nelle pastoie della pace.
“Non subito. Gli diedero Genova. La Genova mercantessa, la Superba che passò in
mano ai francesi, in loro protezione”.
“E per ben proteggerla – , aggiunge Luigi, – il Boucicault”.
“E per ben proteggerla, il Boucicault – , conferma Giacomo. – Governatore della
repubblica, legislatore, e gran finanziere dei denari genovesi, visto che dicono abbia
spinto la fondazione di un Banco simile a quelli dei fiorentini”.
“Soldi e potere, a Genova, e dunque che cosa lo ha portato oltre il Po?”
“Ciò che spesso accade nelle nostre terre. Accordi. Rappacificazioni. Leghe. Tradimenti.
Ribellioni. Boucicault ha stretto con il duca Giovanni Maria la lega che noi abbiamo
rotto a dicembre. Quattro mesi più tardi era ormai governatore in nome dei milanesi e
quattro mesi dopo ha occupato Piacenza e ha assalito Milano”.
“Voltando l'amicizia in ribellione”.
“E costretto alla fuga dagli stessi milanesi”.
“E Piacenza?”
“Piacenza –, Giacomo accenna con il capo verso prua, dove il fiume si apre sotto di noi,
in attesa di sbarcarci nei pressi della città, – è in mano a un podestà del Boucicault,
difesa dai suoi presidi”.
“Da conquistare, dunque”, Alberto sorride.
“Da conquistare”, approva Luigi.
“All'armi, dunque?”, di nuovo è Alberto che si esprime per primo.
“Non è detto”, dichiaro io, a voce alta.
Ho i loro sguardi addosso, in attesa.
“All'armi o al denaro. Ciò che converrà, signori”.

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