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intelletto possibile
Enciclopedia Dantesca (1970)
di Cesare Vasoli

intelletto possibile. - , certo, impresa non facile enucleare da vari passi delle
opere di D. una posizione compiuta e ben definita intorno a questo argomento,
di cui ben nota la singolare importanza nelle discussioni filosofiche del XIII e
XLV secolo. N sempre agevole indicare, con esattezza, i rapporti tra le
dottrine accettate da D. e le varie concezioni proprie di questo o quel filone
della cultura scolastica, alle quali attinse con molta libert e con un
atteggiamento di geniale eclettismo.
Pensatore non legato all'osservanza di una rigorosa linea dottrinale e non
preoccupato di aderire a una specifica tendenza filosofica, D. mostr infatti
anche nel trattare questo argomento la sua notevole conoscenza delle correnti
speculative della cultura duecentesca; ma non pu dirsi che, nei diversi contesti
in cui egli espose le proprie concezioni, accettasse del tutto e compiutamente
una particolare dottrina, sia che si trattasse delle tesi formulate dai filosofi di
tradizione agostiniana, oppure della concezione di Alberto Magno o, ancora,
delle soluzioni tomiste o di quelle sigeriane. A ci si aggiunga che, specie in
questo caso particolare, la definizione dottrinale delle idee dantesche resa
ancora pi complessa dalla varia successione dei testi che c'interessano e dalle
diverse preoccupazioni che li dominavano; sicch forse pi opportuno
riconoscere che la concezione dantesca dell'i. possibile, se pure si muove
sempre entro l'ambito speculativo del suo tempo, legata a influssi dottrinali
che variano naturalmente col mutare delle esperienze e dei propositi spirituali di
Dante.

Comunque, se ci atteniamo ad alcuni passi notissimi del Convivio e del


Purgatorio ove viene specificamente discussa la natura, origine e funzione
dell'i. possibile, chiaro che D. costruisce la sua teoria della conoscenza
muovendo da concezioni schiettamente aristoteliche, diffuse da tempo nella
cultura scolastica occidentale dalle versioni dei testi dello Stagirita, dalle opere
dei grandi commentatori arabi (Avicenna, Averro, ma anche Alfarabi, Avenpace
e Algazali) e dalle discussioni dei maestri scolastici (Alberto Magno, Giovanni
de la Rochelle, Bonaventura, Tommaso, ecc.) che avevano fatto largo uso del
concetto d'i. possibile. Anche l'Alighieri ritiene quindi che il processo della
conoscenza abbia origine sempre dal senso ', poich le forme sensibili ', che
sono i principi universali sigillati ' nell'unit organica dei composti materiali,
penetrando nei nostri sensi, li fanno passare dalla potenza all'atto,
realizzandone le possibilit percettive. E proprio l'esser verace che tali forme
possiedono la causa delle intenzioni (v. INTENZIONE) che determinano i
nostri sensi a conformarsi agli enti reali (Pg XVIII 22-23). Tra le qualit sensibili
alcune, come la luce e il colore, colpiscono un solo senso, altre, invece, sono
comprese da pi sensi (" sensibilia communia "; e cfr. Cv III IX 6); ma se vero
che i sensi esterni non possono mai errare, purch si trovino nelle condizioni
adatte per esplicare le loro funzioni, i sensibili comuni possono invece trarci
facilmente in inganno, confondendo tra loro i dati delle singole percezioni. Ecco
perch, anche secondo D., necessario che la mente umana possieda una
qualit superiore ai sensi, la cogitativa ' o estimativa ', capace, in ogni caso,
di distinguere le percezioni vere dalle false. E non basta: seguendo una
concezione gi definita nei commenti aristotelici di Avicenna e di Averro, D.
indica particolarmente uno dei cinque sensi interni ', la fantasia o imaginativa,
la cui funzione ha un'importanza determinante per il processo conoscitivo. In un
passo del Convivio (III IV 9) D. ripete, quasi con le stesse parole di Aristotele,
che la mente umana non pu intendere senza la fantasia dalla quale trae tutto
ci che pu percepire; e in Pg XVII 13-18 specifica che appunto all'imaginativa
spetta il compito di elaborare il materiale della conoscenza, al di l dei meri dati
sensibili, e che essa opera per diretta influenza del lume che nel ciel s'informa,
ossia per la naturale influenza delle sfere celesti. In tal modo - ha notato
esattamente il Nardi - egli riprende e fa propria un'interpretazione di tono e
origine neoplatonica, avanzata soprattutto da Avicenna, ma ripresa, tra gli altri,
anche da Alberto Magno (Nat. orig. an. II 8) che l'aveva sviluppata con un
interessante riferimento a Ermete Trismegisto, autorit ' ben conosciuta dalla
cultura filosofica del XII secolo e degl'inizi del Duecento.

La percezione sensibile, cos vagliata dall' estimativa ' ed elaborata dall'


immaginativa ', , comunque, il primo presupposto della conoscenza. Ma non
sarebbe possibile vera scienza e vero sapere, ossia compiuta intelligenza
dell'universale, se non intervenisse un principio o facolt superiore, distinta dal
senso e propriamente intellettiva '. E questa, certo, un'opinione comune a tutta
la cultura scolastica e che ha il suo diretto fondamento nella gnoseologia
aristotelica, indipendentemente dal modo con cui viene intesa la natura e
funzione dell'intelletto. E anche D., come una gran parte dei suoi
contemporanei, definisce questa facolt intellettiva con il termine squisitamente
peripatetico di i. possibile. Ora ben noto che questo concetto aveva avuto
interpretazioni molto diverse che andavano da certi tentativi di assimilare i temi
essenziali della teoria aristotelica della conoscenza con dottrine tipiche della
tradizione agostiniana (Ruggero Marston, Giovanni de la Rochelle,
Bonaventura, Ruggero Bacone) a una pi coerente adesione ai testi aristotelici
(Alberto Magno), all'accettazione delle classiche tesi averroistiche (l'i. possibile
separato e unico per tutta la specie umana), alla dottrina tomista che
accentuava, nel modo pi netto, l'individualit dell'intelletto e dell'atto
d'intendere. Sicch sempre nel quadro di queste varie interpretazioni che
occorre analizzare anche la definizione dantesca dell'i. possibile come spirito
novo, di vert repleto (Pg XXV 72) creato direttamente da Dio, che si aggiunge
all'anima vegetativa e sensitiva per costituire, insieme con essa, un'alma sola, /
che vive e sente e s in s rigira (vv. 74-75).

Si tratta, senza dubbio, di una definizione che difficile ricondurre alla dottrina
tomista, ma che, anzi - come ha notato ancora il Nardi - piuttosto simile a una
teoria pi volte discussa e respinta da Tommaso, sia nelle due Summae (Cont.
Gent. II 89; Sum. theol. I 118 2 ad 2) che in altri testi (Quaest. an. II I; Pot. 3 9
ad 9; Quaest. spir. creai. 3 ad 3). Sostenitore di tale dottrina fu invece uno degli
autori che ha maggiormente influenzate il pensiero dantesco, ossia Alberto
Magno, che la sostenne nel De Natura et origine animae; e, secondo tale
concezione, l'anima vegetativa e sensitiva deriva direttamente dalla virt attiva
propria del seme paterno, attraverso un processo graduale che corrisponde ai
vari momenti di sviluppo dell'embrione (cfr. Cv IV XXI 4-10 e Pg XXV 37 ss.).
Quando questo si ormai completamente formato, l'anima vegetativa e
sensitiva prende a trasformarsi in anima razionale, non pi per la semplice virt
del seme paterno, ma per l'azione diretta del motor primo. Non quindi una
specie di seconda e diversa anima che coesista insieme con quella vegetativa e
sensitiva, n tanto meno l' intelletto separato ' della dottrina averroistica, bens
una nuova entit di origine divina che si salda e si unisce con l'anima
preesistente, in modo da formare un'unica anima che costituisce, nel suo
complesso, la sola forma del corpo umano.

D'altra parte la funzione propria di questo intelletto ben definita da D., l dove
scrive, in Cv IV XXI 5, che esso potenzialmente in s adduce tutte le forme
universali, secondo che sono nel suo produttore, e tanto meno quanto pi
dilungato da la prima Intelligenza . Nell'i. possibile risplende infatti la bont
divina, quella luce eterna e immutabile che, non a caso, una vasta corrente
della cultura filosofica scolastica identificava con l'intelletto agente aristotelico.
Ma D., se afferma che l'anima con la nobilitade de la potenza ultima, cio
ragione, participa de la divina natura a guisa di sempiterna intelligenzia, e che
in essa la divina luce, come in angelo, raggia (Cv III 11 14), aggiunge anche
che questa partecipazione pure diversa a seconda della particolare nobilt '
delle singole anime, della loro maggiore o minore perfezione naturale. Come
nell'ordine dell'universo si ascende e si discende per gradi continui da la infima
forma a l'altissima e da questa a la infima, cos la stessa continuit e
successione gerarchica presente anche nella scala di perfezione delle anime;
e come tra l'angelica natura, che cosa intellettuale, e l'anima umana non v'
grado alcuno, ma... quasi l'uno a l'altro continuo per li ordini de li gradi, cos non
esiste quasi soluzione di continuit tra l'anima umana e l'anima pi perfetta de li
bruti animali. Per questo possono esistere molti uomini tanto vili e di s bassa
condizione, che quasi non pare essere altro che bestia (Cv III VII 6), ma, d'altra
parte, vi sono anche nature e anime umane di cos alta nobilt che quasi si
uguagliano alle nature angeliche. N manca, ricorda D., chi ritiene (come, in
realt, affermavano Avicenna e Algazali) che se tutte le virt umane si
accordassero nella loro migliore disposizione per formare un'anima, questa
sarebbe capace di accogliere in s tanta luce e bont divina che quasi sarebbe
un altro Iddio incarnato (Cv IV XXI 10).

La vicinanza di questa dottrina con alcuni temi propri delle correnti agostiniane
e platonizzanti della cultura duecentesca (ad es., le concezioni di Bonaventura
o di Ruggero Marston) non ha bisogno di essere ulteriormente sottolineata. Ma,
a questo proposito, giova altres notare che D., se pure accentua secondo una
tipica componente aristotelica la funzione iniziale della sensibilit nel processo
di conoscenza, sembra per considerare le forme universali come impressioni
' poste e sigillate ' nell'intelletto dall'azione della mente divina. Il che spiega
perch D., com' stato gi pi volte notato, non si soffermi sulla teoria
dell'astrazione e dell'intelletto agente, almeno nel senso cos definito e
sistematico che essa aveva assunto nella filosofia tomista. La sua posizione
molto pi semplice e legata ai canoni filosofici di quelle correnti di pensiero che
si erano sviluppate intorno alla met del Duecento; e il richiamo alla virt divina
che risplende nella mente dell'uomo e vi depone le forme universali gli serve
appunto a risolvere un arduo problema gnoseologico che aveva assunto ben
altra complessit negli scritti e nelle discussioni degli ultimi tre decenni del
secolo.

Del resto la dottrina di D. appare ancora pi chiara se seguiamo la sua analisi


del processo conoscitivo e del modo onde si attua la potenza dell'intelletto
umano. Il punto d' inizio e lo stimolo di questo processo costituito dal naturale
desiderio del sapere (Cv III XV 7), innato in ogni anima umana; ma l'attuazione
dell'intelletto ha veramente inizio solo quando la sua virt propria prende a
elaborare nel giudizio le varie species ricevute dall'esperienza, fondandosi per
su due principi che D., come Tommaso, ritiene connaturati alla nostra anima: lo
'ntelletto / de le prime notizie e de' primi appetibili l'affetto (cfr. Pg XVIII 55-57).
Ora, le prime notizie sono appunto quelle verit assolutamente certe, quei
principi immediatamente evidenti che, secondo Aristotele (An. post. I II 72a 25-
72b 4; III 72b 18-24; II XIX 99b 20-100b 17), costituiscono il punto d'inizio di
ogni dimostrazione, mentre l'affetto dei primi appetibili deriva dalla naturale
disposizione al bene, propria di ogni creatura. D., per, sottolinea che la mente
umana e la sua naturale filosofia non sono capaci d'intendere donde venga lo
'intelletto de le prime notizie che, pure, una sorta d'istinto naturale s come
studio in ape / di far lo mele (Pg XVIII 58-59), uno habitus ', insomma, posto
nell'anima dalla stessa bont divina. E, quanto poi al desiderio di sapere ',
motore primo ed essenziale della conoscenza umana, esso , per D., la
particolare manifestazione di quell'istinto che, per provvidenza divina e legge
naturale, induce ogni cosa a tendere alla propria perfezione. L'anima umana
che forma nobilissima di queste che sotto lo cielo sono generate partecipa
per alla bont divina pi di ogni altra cosa terrena; e poich sa e sente che il
suo essere dipende totalmente da Dio, vuole essere a Dio unita per lo suo
essere fortificare (Cv III II 6-7). Dallo stesso essere divino e dalla luce che esso
irraggia nell'intelletto, deriva quindi anche l'appetito del sapere, amore di
Sapienza, volont di congiungimento con l'eterna verit (IV XXII 4).
La sapienza e la verit sono cos, per l'autore del Convivio, principi e valori del
tutto trascendenti la mente umana, il cui assoluto fondamento in Dio, fonte
ond'ogne ver deriva (Pd IV 116). E anzi la Sapienza sembra identificarsi
totalmente con la stessa Mente divina, dal momento che D. non solo la chiama
di tutto madre, ma dice che con lei Iddio cominci lo mondo e spezialmente lo
movimento del cielo, lo quale tutte le cose genera e dal quale ogni movimento
principiato e mosso (Cv III XV 15). E, tuttavia, bench trascenda cos
infinitamente la natura e le possibilit dell'uomo, D. ritiene che il desiderio del
sapere, insito, insieme agli altri principi, nella mente umana, debba trovare la
sua piena attuazione, che l'amore di Sapienza non possa restare senza
appagamento. Esso, anzi, deve realizzarsi perch altrimenti la natura avrebbe
operato senza scopo e inutilmente (III XV 7-8). Ed ecco perch la stessa luce
divina, che imprime nell'intelletto le forme universali e vi pone le prime notizie,
continua poi ancora ad agire, aiutando a svolgersi quei germi fecondi di sapere
che sono presenti nella mente. Cos il naturale desiderio si trasforma in uno
sforzo continuo di ricerca del vero, in una costante tendenza a superare ogni
ostacolo o difficolt; e in effetti, com' detto in Pd IV 124-126, gi mai non si
sazia / nostro intelletto, se 'l ver non lo illustra / di fuor dal qual nessun vero si
spazia.

In questo lento processo verso la perfezione si dispiega, quindi, tutta la virt


dell'intelletto umano, teso a realizzare compiutamente la propria potenza ' e ad
attuarsi '; ma, certo, questa perfezione non raggiungibile da tutti, perch,
dopo la corruzione portata dal peccato di Adamo, la maggior parte degli uomini
impedita per malizia d'animo o di corpo (Cv IV XV 11-17) e perch molti non
giungono neppure a compiere la loro giornata (IV XIII 7). N D. ignora che, oltre
i confini naturali di ogni sapere, vi sono, per il cristiano, verit che superano
ogni potere, risplendenti solo nella mente divina, l'unica in cui risieda compiuta
la vera filosofia; per questo, essa ne l'altre intelligenze per modo minore,
quasi come druda de la quale nullo amadore prende compiuta gioia, ma nel suo
aspetto contentan la loro vaghezza (III XII 12-13). Nondimeno, anche quel tanto
di verit che si manifesta nella mente umana basta, in qualche modo, ad
attuare il desiderio e a suscitare quella fede profonda nella bont divina, quella
speranza e carit di cui si nutre l'anima. E la stessa filosofia, cosa visibilmente
miraculosa (III VII 16), appare a D. come divina manifestazione, espressione di
una Sapienza che , insieme, conoscenza delle cose umane e divine, e attua e
realizza compiutamente l'intelletto.

Da queste posizioni, testimoniate soprattutto dal Convivio, D. sembra


discostarsi in quei passi della Monarchia che sono stati e sono tuttora oggetto di
vive discussioni tra gli studiosi del pensiero dantesco. In quest'opera predomina
infatti il proposito dantesco di dare un saldo fondamento filosofico alla tesi della
indipendenza dell'autorit imperiale da quella della Chiesa, il che spiega la
netta distinzione tra il fine naturale ' e il fine soprannaturale ' dell'uomo,
distinzione che, peraltro, D. doveva notevolmente moderare nella conclusione
del libro terzo (Mn III XV 17). Egli scrive che il fine naturale compiuto con il
raggiungimento della felicit mondana e consiste nell'operazione della virt
intellettiva propria dell'uomo; laddove, invece, il fine soprannaturale consiste
nella fruizione della visione di Dio che la mente umana non pu raggiungere nisi
lumino divino adiuta (III XV 7). Per conquistare la felicit naturale sono pertanto
sufficienti i phylosophica documenta e, cio, l'esercizio pieno e compiuto
dell'intelletto umano quale realizzato dai filosofi; ma la beatitudine eterna non
pu esser raggiunta che per mezzo dei documenta spirituali o revelata che
trascendono la natura umana (III XV 8-9).

Questa distinzione, che in s non n nuova n originale, poi condotta da D.


a conclusioni assai interessanti. Egli afferma che per la piena attuazione
dell'intelletto umano non sufficiente l'opera dei singoli individui, bens l'intera
umanit di cui l'individuo parte (Mn I III 8); e ci ha permesso, specialmente al
Nardi, di avvicinare tale dottrina alla teoria dell'unit dell'intelletto della specie
umana, quale era stata formulata dagli averroisti (v. AVERROISMO), mediante il
concetto dell'i. possibile unico e separato ' per tutta l'umanit. Anzi lo stesso
Nardi ha sostenuto che l'influenza averroistica palese in tutto il I libro, nel
quale si vuole provare che il fine ultimo dell'umanit considerata nel suo
complesso consiste nell'attuare tutta la potenza dell'i. possibile. Diversa
invece la conclusione del Gilson (v.), il quale ha osservato che se D. riprende
esplicitamente da Averro il punto di partenza della sua argomentazione, non
accetta per la tesi averroistica sino in fondo. Mentre per Averro l'intelletto
una realt assolutamente separata ' che comunica con la specie umana solo
nell'atto dell'intendere, per D. la human civilitas necessaria all'attuazione della
potenza dell'intelletto solo perch il singolo individuo non basta da solo a
raggiungere quel fine. All'obiezione del Gilson il Nardi ha risposto sottolineando
il valore dell'esplicita citazione dantesca di Averro e notando che, anche per il
filosofo arabo, l'i. possibile, pur essendo una sostanza separata e unica per
tutta la specie, non pu intendere niente se non vi gi una qualche immagine
sensibile dalla quale l'intelletto agente possa astrarre l'idea che poi intesa
dall'i. possibile. Perci questo intelletto, unico ed eterno in s, non potrebbe mai
realizzarsi e passare in atto, ove non fosse sempre unito a una molteplicit di
individui umani. Del resto, interpretando esattamente quanto aveva detto
Averro, Sigieri di Brabante aveva sostenuto che esiste un nesso essenziale tra
l'intelletto e la specie umana, s che esso non potrebbe mai separarsi
totalmente dagl'individui ai quali unito nell'atto dell'intendere (De Anima III 14).
E una dottrina ancora pi vicina a quella di D. indicata dal Nardi nell'opera di
un altro maestro averroista, Giovanni di Jandun, il quale scrive che il desiderio
umano di sapere soddisfatto in ogni momento dalla collaborazione di tutti
gl'individui considerati collettivamente, in modo che la filosofia o scienza sia
compiuta nella maggior parte degli uomini, " ed uno ne possieda una parte ed
uno un'altra ", e quindi il desiderio non resti mai inappagato nella totalit della
specie umana. Proprio su questo fondamento D. sarebbe quindi giunto ad
ammettere, in modo assai vicino a quello tenuto dagli averroisti, che esiste un
fine unico dell umanit in quanto tale, consistente nell'attuazione di tutta la
potenza dell'i. possibile. E di qui avrebbe poi tratto l'affermazione filosofica
centrale della Monarchia: la separazione del fine naturale ' dal fine
soprannaturale '. All'altra obiezione del Gilson (per cui, secondo D., ogni
individuo umano possiederebbe il proprio intelletto agente e il proprio i.
possibile personale, parte della propria anima e immortale come questa, ma
l'intelletto speculativo non potrebbe mai raggiungere da solo il proprio fine, se
non in modo assai imperfetto, mentre l'intelletto pratico lo raggiungerebbe,
senza occorrenz di alcuna rivelazione) il Nardi ha ancora risposto che in tal
modo il desiderio di sapere resterebbe insoddisfatto e l'i. possibile non
giungerebbe mai alla sua compiuta attuazione nella quale consiste la
beatitudine ' umana. Per ha anch'egli riconosciuto che D. ha attenuato tale tesi
quando, a conclusione del terzo libro della Monarchia (XV 17), ha scritto
testualmente: Quae quidem veritas ultimae quaestionis non sic stricte
recipienda est... cum mortalis ista felicita: quodammodo ad inmortalem
felicitatem ordinetur, indicando cos una nuova direzione di pensiero, destinata
a svolgersi nella Commedia, ove i rapporti tra scienza e fede sarebbero stati "
ristabiliti in conformit del concetto scolastico " e la filosofia sarebbe di nuovo
divenuta l'" ancilla theologiae ". Si tratta, come si vede, di problemi che
trascendono l'ambito particolare di questo articolo, investendo tutta la
complessa e delicata quistione dei rapporti tra la Commedia e le altre opere
dantesche, nonch il problema, certo non meno grave, del significato da
attribuire alle stesse dottrine filosofiche e politiche della Monarchia. Ma ci non
toglie che la concezione dell'i. possibile in questo testo e nelle altre opere
costituisca realmente uno dei punti chiave per una retta esegesi della filosofia di
Dante.

Bibl. - B. Nardi, Saggi di filosofia dantesca, Milano 1930, 35-48, 102-105, 259-
269, 295-296; . Gilson, D. et la philosophie, Parigi 1939, 1953, capp. III-IV; B.
Nardi, Nel mondo di D., Roma 1944, 223 ss.; ID., D. e la cultura medioevale.
Nuovi saggi di filosofia dantesca, Bari 1949, 166-216, 260-283; ID., Studi di
filosofia medievale, Roma 1960, passim (particolarmente importante per lo
studio dei rapporti tra D. e Alberto Magno); ID., Dal " Convivio " alla " Commedia
", ibid. 1960 (molto interessante per lo studio dei rapporti tra le varie opere
dantesche, anche in rapporto con gli argomenti trattati in questo articolo). Per
una sintetica e precisa delineazione dei problemi connessi alle discussioni
medievali intorno alla dottrina dell'intelletto, cfr. B. Nardi, Introduzione storica a
s. Tommaso D'Aquino, Trattato sull'unit dell'intelletto contro gli averroisti,
Firenze 1938, 7-89; e, per un'interpretazione strettamente tomistica delle
concezioni dantesche, cfr. in particolare Il " Convivio " ridotto a miglior lezione e
commentato da G. Busnelli e G. Vandelli, Firenze 1934-1937.
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possbile agg. [dal lat. possiblis, der. di posse potere]. 1. a. In senso assoluto e
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intelltto2 s. m. [dal lat. intellectus -us, der. di intelligre intendere, part. pass.
intellectus]. 1. a. In filosofia, la facolt, propria dello spirito, di intendere le idee, di
formare i concetti, di formulare giudiz, intesa generalmente come...

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