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Alessandro Dal Lago , La


favolosa guerra dei media
Pubblicato il 25 agosto 2011

|da il manifesto

Alessandro Dal Lago

La favolosa guerra dei media

Il figlio di Gheddafi che viene catturato e


poi ricompare baldanzoso nella notte.
Tripoli che insorge, mentre invece la citt
assalita da combattenti venuti da fuori.
Festeggiamenti a Bengasi fatti passare
per lesultanza dei tripolini. Un regime
dato per finito che dopo tre giorni continua a bombardare il centro
della citt. Inviati in elmetto che mettono in posa i combattenti per
riprenderli. Dirette dalla battaglia in cui si vedono solo tetti e il fumo in
lontananza
Pi che di nebbia della guerra si dovrebbe parlare di una guerra
televisiva che ha ben poco a che fare con quello che succede, ma
rientra in una strategia mediale mirata a confondere le acque sia agli
occhi dellopinione pubblica occidentale, sia a quelli del regime di
Tripoli. Daltronde si sa che al Jazeera la voce dei regimi arabi
moderati, a partire dal Quatar, molto attivo sul campo nellassistenza
(anche militare) ai ribelli libici, e che i conservatori inglesi hanno
strettissimi rapporti con Murdoch, il padrone di Sky. Fatti i conti,

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chiaro che gran parte dei media racconta una guerra immaginaria,
mentre i loro sponsor, Cameron, Sarkozy e Obama incrociano le dita

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Ma la guerra vera tuttaltra cosa da quella raccontata in prima
pagina.
Basta analizzare i servizi pi meditati sulle pagine interne dei grandi
quotidiani internazionali.
Lavanzata dei ribelli stata resa possibile (al 70 per cento, dice il
Corriere della sera) dalla Nato, con tanto di istruttori e forze speciali
in prima linea (francesi, inglesi, americani, quatarioti: la conferma
venuta ieri da fonti dellAlleanza atlantica citate dalla Cnn). Quelli
dellovest hanno ben poco a che fare con i bengasini, guidati da
gente come Jalil e Jibril (e forse Jalloud), che se mai Gheddafi fosse
processato, si troverebbero al suo fianco sul banco degli imputati (ed
ecco spiegata la taglia sul Colonnello). E poi, anche se i gheddafiani
smettessero domani di combattere, nessuno ha unidea di quelle che
succederebbe dopodomani, con un paese diviso in fazioni armate,
inferocito, pullulante darmi, con una quantit di conti da regolare con
i perdenti e tra i vincitori (leliminazione dellex-comandante Younes
insegna).
Come tutto questo sia fatto passare, anche a sinistra, per una mera
lotta di liberazione o un risultato della primavera araba si spiega solo,
anche da noi, con la confusione che regna in unEuropa preoccupata
da uneconomia traballante e guidata da un paio di leader
ossessionati dalla rielezione (Sarkozy) o che hanno le loro gatte da
pelare (Cameron).
Saranno bastati i bombardamenti mirati o umanitari, come
straparlano gli Henry-Levy o i giustizialisti da prima pagina di casa
nostra, a gettare le premesse di una societ civile o democratica in
Libia?
Non c da crederci molto.
Ci rallegriamo quando cade un dittatore, certamente. Qualsiasi cosa
meglio di Gheddafi, forse. Ma, come ha scritto ieri un
commentatore sul Guardian, se i mezzi sono sbagliati, questo alla
fine influisce sul risultato. Inglesi e americani hanno creato
uninstabilit senza fine in Iraq. La Nato si impantanata in
Afghanistan. In attesa che qualche anima bella proponga di
intervenire in Siria, ecco che si suggerisce a mezza bocca la
permanenza di forze Nato in Libia per stabilizzare il paese.
Tutto questo ha a che fare con la rivoluzione?
Ma non solo una questione di parole. Quello che semmai stupisce
che, a parte qualche conservatore desperienza come Sergio
Romano, ben pochi in Italia, e soprattutto a sinistra, si interroghi sulle

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prospettive di questa crisi libica. E cominci a interrogarsi


sullincredibile distonia tra una guerra magnificata dai media e quella

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