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Ma certo che è anche una scelta il non costruire una coppia, non avviare una qualche
forma di convivenza. Scelta spesso condannata e ascritta socialmente a pigrizia,
egoismo, desiderio di comodità, mancanza di coraggio. Più o meno convincenti,
possono essere molteplici le ragioni avanzate per giustificare una situazione di
solitudine: resto da solo in casa per accudire i miei genitori, per dar loro un obiettivo
di vita ora che sono in pensione, per aiutarli nel bilancio così stretto, per consolarli
della vedovanza, per curarli ora che sono ammalati, per non lasciarli soli anch’io
quando tutti gli altri fratelli hanno lasciato vuota la casa, perché da tempo non ho
lavoro e mi appoggio a loro, forse un giorno avrò una casa mia. Ma, anche, non mi
imbarco in una storia di coppia con il lavoro impegnativo che ho, devo mantenermi
liberi la testa e il tempo, non posso deconcentrarmi, magari, un giorno, quando potrò.
Spostare nel tempo, dilazionare, un progetto che non si vuole ma che non si può
apertamente scartare. Oppure, si dichiara un desiderio, una necessità, un bisogno di
essere orsi, solitari nella propria tana avvolta in un silenzio turbato solo da me: mi
ricordo di una donna che ha divorziato perché la presenza del marito in casa la
distraeva dal libro che stava scrivendo. Può esserci una insofferenza per i rapporti
prolungati, per tutto ciò che dura più di un tanto: si cambia spesso lavoro, abitudini,
città, sempre affacciati alla finestra del mondo ancora sconosciuto senza interesse a
girarsi per osservare la stanza dove siamo. All’opposto, può svilupparsi un desiderio di
abitare la casa come un abito personale, che non si presta ad altri: insopportabile
vedere un altro che tocca e usa le mie cose in modo diverso dal mio, che fa rumori
diversi da quelli cui sono abituato, che si aggira con un passo e un ritmo estranei.
Intollerabile andare a vivere in un’altra casa. Allegramente svalutata come possibile
difficoltà dalle frequentissime convivenze studentesche, la capacità di stipulare un
patto, di cogliere le regole necessarie per sentirsi tutti a proprio agio è, invece, molto
ardua e aggirabile esclusivamente in situazioni, appunto, a termine: ma quante
vacanze si sono trasformate in disastri, quante amicizie son saltate dopo una
convivenza affrontata con leggerezza? È così difficile per tutti noi mettersi realmente
alla pari, esporre i propri desideri senza pietismi né arroganza! L’esercizio della libertà
è un’arte tanto più impervia da quando la gestione, e financo l’idea, della gerarchia dei
ruoli è stata espulsa dal contesto sociale per una distorsione del politically correct!
Ricordate? Manzoni diceva che un signore si fa servire a tavola o serve lui i propri
dipendenti ma non si siede a tavola con loro. L’essere e sapersi realmente tutti di pari
dignità è il presupposto indispensabile per decidere come dividere le spese, i turni di
pulizia, l’assegnazione dei compiti e dei ruoli. La convivenza passa attraverso un patto
condiviso che non tutti vogliono o pensano di sapere rispettare. Senza per questo
essere egoisti, poco coraggiosi, avari di sé, infantili.
La convivenza è, infatti, una scelta forte, importante, non la logica e naturale deriva
di un crescere. E il desiderio di una compagnia affettiva non passa più solo attraverso
la formula della coppia.
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L’esempio degli anziani
È molto interessante osservare come, proprio su questo punto, siano stati gli anziani a
introdurre una proposta ben accettata anche dai più giovani. Sono molte le persone
nella cosiddetta terza età (ma quanto valgono ancora queste distinzioni? Non sanno
un po’ di antiquato, di datato?), sono molte le persone di un’età avanzata che, rimaste
sole perché vedovi o perché il matrimonio si è spezzato, intrattengono una cordiale,
affettuosa relazione con un amico o un’amica che non sono partner come siamo stati
abituati a pensarli. Una relazione di confidenza, per fare assieme dei viaggi, per
andare a una mostra, per una passeggiata o una commissione un po’ importante.
Senza alcuna idea di convivenza né di matrimonio, senza sentire che manca qualcosa
ma, anzi, che si è aggiunto un ambito di grande qualità agli altri consueti ambiti di
relazione costruiti nel tempo: i familiari, i figli, magari i nipoti, gli amici storici, la
cerchia dei parenti. Ma ciascuno a casa sua, libero di gestire a suo modo i rapporti
personali e parentali, con un orecchio cordiale e complice per ascoltare e la leggerezza
dell’amicizia per distrarre e alleviare le pene. Dapprima stralunati, un po’ sospettosi,
forse infastiditi o gelosi, i familiari più stretti finiscono per adattarsi e, gradatamente,
a guardare con simpatia questa inedita relazione che amplia il respiro dell’esistenza e
ne colora d’affetti lo scorrere quotidiano. Un di più saggio, ben governato, che risulta
in fondo un alleggerimento delle preoccupazioni reciproche, una preziosa valvola di
sfogo che fa fiorire un poco meglio la giornata di tutti i componenti.
Si dirà: ma che c’entra, gli anziani non debbono più procreare, la famiglia l’hanno già
formata, stanno usando liberamente del loro tempo di pensionati, svincolati da compiti
sociali… appunto! È qui che si agganciano i ragazzi, è qui che il mondo giovanile si
raccorda, capovolto, al mondo dei più anziani: fare coppia, avere dei figli, mettere in
piedi una famiglia oggi non è più sentito dai ragazzi come un incarico, un legame, un
qualche tipo di contratto con la società che va onorato o di cui, quanto meno, va
denunciato il disinteresse, va chiarita la non assunzione dell’impegno.
Mi sembra si possa constatare ormai con una buona base di convinzione che i nostri
ragazzi, i nostri giovani che restano ragazzi così a lungo, hanno un modo radicalmente
diverso da quello delle generazioni precedenti di costruire lo spazio e il tempo, quella
griglia fondamentale che ci fa guardare al mondo reale e struttura i criteri del proprio
viverci dentro. Lo spazio, conosciuto per distanze fra i diversi punti, si è fatto mobile,
maneggevole e modellabile: quanto è lontano un Oriente di cui posso vedere le
immagini in televisione? Quanto è lontano il nuovo mondo se posso raggiungerlo così
facilmente attraverso il telefono? E fisicamente inviare un fax, guardare l‘altro
attraverso una web cam, raggiungerlo con un aereo, scorrere i suoi filmati su internet,
ascoltare in diretta voci lontanissime immerse nel sole mentre da me è notte fonda?
Lontano non significa più distante fra due punti nello spazio, lontano significa lontano
da me. Avete notato? Quando si risponde al cellulare, ci si domanda non più: come
stai ma: dove sei? Esattamente come nella rete, come nell’oceano, dov’è il tuo sito,
dov’è il tuo punto? Mi raccordo con il goniometro, ti individuo, ti cerco, il mondo
prende le sue misure da te, da dove tu ti collochi in relazione a me che ti cerco.
Il tempo frammentato
E, mentre lo spazio si deforma, tessuto unitario agganciato a quel punto su cui si
incentra il desiderio della relazione, ecco che il tempo si frantuma, da continuo come
l’abbiamo pensato per decenni e secoli, diventa modulare, perle rotonde e compiute
che possono sì formare una collana ma non in termini prevedibili né scontati. I nostri
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figli sono cresciuti abituati alle interruzioni che scandiscono il susseguirsi delle unità.
Tutto il clamore di protesta intorno alle “emozioni che non vanno interrotte” è risultato
estraneo al loro percorso culturale e di pensiero: la televisione ha insegnato che si
funziona per moduli circoscritti di tempo, che si concludono lasciando spazio al modulo
successivo, discorde o in continuazione del precedente, pubblicità, informazione o
sequenza ordinata. Pensiamo ai dvd che usiamo largamente, strutturati per frammenti
componibili contrapposti allo scorrere dei film in vhs, pensiamo agli stessi computer su
cui lavoriamo: un unico spazio sul disco rigido in cui coesistono e coabitano
programmi, documenti, filmati, musiche e progetti. In un condominio composto da
moduli che solo lo sguardo esterno vede come un tutt’uno ma che non richiede regole
di accordo. Non c’è un progetto comune a tutti gli abitanti, un letto, un tetto, una
stanza occupata da ciascuno, per il suo proprio scopo. Il programma di video scrittura
ha le sue regole come le ha, tutte sue e differenti, il programma che ci permette di
costruire un filmato o di ritoccare le foto. (Drammaticamente ricalcato nel mondo
reale nello scandalo degli affitti frammentati cui sono costretti gli immigrati o
comunque la fascia più debole della società: non una casa ma una stanza, un locale,
un letto, talvolta a ore!)
Così, la percezione del tempo e dello spazio riflette anche una particolare relazione
con il corpo: i nostri giovani non abitano il loro corpo, lo portano in giro, lo curano, lo
vestono, lo tatuano, lo drogano, lo affamano, lo massacrano con piercing o con
esercizi sfiancanti in palestra ma non lo abitano, ne sono al di fuori. I figli dei fiori,
trasgressori gioiosi di un tempo passato, ne facevano uso a modo loro,
sperimentando, tentando incontri e scambi con persone e sostanze magari estremi,
pericolosi ma c’erano, possedevano il loro corpo, lo volevano conoscere attraverso
esperienze sconosciute e sconvolgenti per poterne far uso meglio e di più. Contro le
regole date, per forzarle, farne di nuove, riuscire a imporle, essere protagonisti.
Non è questo l’interesse dei più giovani, non li riguarda il problema di stabilire le
regole su cui si muove la società, li riguarda conoscerle per farci i conti ma non si
sentono legati a un vincolo esistenziale e progettuale con il corpo sociale. Neppure, e
perché mai dovrebbero?, per quanto attiene ai rapporti interpersonali, alla coppia, alla
convivenza, alla costruzione di una famiglia, ai tempi e ai modi di mettere al mondo
un figlio. Temi che ricadono nell’ambito individuale, addirittura più che in quello
personale.
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Un nuovo rinascimento