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LA SOLITUDINE COME SCELTA

Intendiamo, qui, per solitudine, la situazione di non convivenza con un partner.


Parlandone come “solitudine”, dunque come privazione di compagnia, si dà come
presupposto automatico che la scelta naturale e giusta sia la convivenza, la situazione
di coppia; ma forse anche questa deve essere sottolineata e posta come una scelta,
autonoma, da soppesare, non solo un’adesione. Con un’attenzione particolare rivolta
ai giovani, cerchiamo, poi, di cogliere alcuni elementi della loro situazione attuale in
campo sociale, psicologico ed emotivo.

Stare da soli è anche una scelta?

Ma certo che è anche una scelta il non costruire una coppia, non avviare una qualche
forma di convivenza. Scelta spesso condannata e ascritta socialmente a pigrizia,
egoismo, desiderio di comodità, mancanza di coraggio. Più o meno convincenti,
possono essere molteplici le ragioni avanzate per giustificare una situazione di
solitudine: resto da solo in casa per accudire i miei genitori, per dar loro un obiettivo
di vita ora che sono in pensione, per aiutarli nel bilancio così stretto, per consolarli
della vedovanza, per curarli ora che sono ammalati, per non lasciarli soli anch’io
quando tutti gli altri fratelli hanno lasciato vuota la casa, perché da tempo non ho
lavoro e mi appoggio a loro, forse un giorno avrò una casa mia. Ma, anche, non mi
imbarco in una storia di coppia con il lavoro impegnativo che ho, devo mantenermi
liberi la testa e il tempo, non posso deconcentrarmi, magari, un giorno, quando potrò.
Spostare nel tempo, dilazionare, un progetto che non si vuole ma che non si può
apertamente scartare. Oppure, si dichiara un desiderio, una necessità, un bisogno di
essere orsi, solitari nella propria tana avvolta in un silenzio turbato solo da me: mi
ricordo di una donna che ha divorziato perché la presenza del marito in casa la
distraeva dal libro che stava scrivendo. Può esserci una insofferenza per i rapporti
prolungati, per tutto ciò che dura più di un tanto: si cambia spesso lavoro, abitudini,
città, sempre affacciati alla finestra del mondo ancora sconosciuto senza interesse a
girarsi per osservare la stanza dove siamo. All’opposto, può svilupparsi un desiderio di
abitare la casa come un abito personale, che non si presta ad altri: insopportabile
vedere un altro che tocca e usa le mie cose in modo diverso dal mio, che fa rumori
diversi da quelli cui sono abituato, che si aggira con un passo e un ritmo estranei.
Intollerabile andare a vivere in un’altra casa. Allegramente svalutata come possibile
difficoltà dalle frequentissime convivenze studentesche, la capacità di stipulare un
patto, di cogliere le regole necessarie per sentirsi tutti a proprio agio è, invece, molto
ardua e aggirabile esclusivamente in situazioni, appunto, a termine: ma quante
vacanze si sono trasformate in disastri, quante amicizie son saltate dopo una
convivenza affrontata con leggerezza? È così difficile per tutti noi mettersi realmente
alla pari, esporre i propri desideri senza pietismi né arroganza! L’esercizio della libertà
è un’arte tanto più impervia da quando la gestione, e financo l’idea, della gerarchia dei
ruoli è stata espulsa dal contesto sociale per una distorsione del politically correct!
Ricordate? Manzoni diceva che un signore si fa servire a tavola o serve lui i propri
dipendenti ma non si siede a tavola con loro. L’essere e sapersi realmente tutti di pari
dignità è il presupposto indispensabile per decidere come dividere le spese, i turni di
pulizia, l’assegnazione dei compiti e dei ruoli. La convivenza passa attraverso un patto
condiviso che non tutti vogliono o pensano di sapere rispettare. Senza per questo
essere egoisti, poco coraggiosi, avari di sé, infantili.
La convivenza è, infatti, una scelta forte, importante, non la logica e naturale deriva
di un crescere. E il desiderio di una compagnia affettiva non passa più solo attraverso
la formula della coppia.

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L’esempio degli anziani

È molto interessante osservare come, proprio su questo punto, siano stati gli anziani a
introdurre una proposta ben accettata anche dai più giovani. Sono molte le persone
nella cosiddetta terza età (ma quanto valgono ancora queste distinzioni? Non sanno
un po’ di antiquato, di datato?), sono molte le persone di un’età avanzata che, rimaste
sole perché vedovi o perché il matrimonio si è spezzato, intrattengono una cordiale,
affettuosa relazione con un amico o un’amica che non sono partner come siamo stati
abituati a pensarli. Una relazione di confidenza, per fare assieme dei viaggi, per
andare a una mostra, per una passeggiata o una commissione un po’ importante.
Senza alcuna idea di convivenza né di matrimonio, senza sentire che manca qualcosa
ma, anzi, che si è aggiunto un ambito di grande qualità agli altri consueti ambiti di
relazione costruiti nel tempo: i familiari, i figli, magari i nipoti, gli amici storici, la
cerchia dei parenti. Ma ciascuno a casa sua, libero di gestire a suo modo i rapporti
personali e parentali, con un orecchio cordiale e complice per ascoltare e la leggerezza
dell’amicizia per distrarre e alleviare le pene. Dapprima stralunati, un po’ sospettosi,
forse infastiditi o gelosi, i familiari più stretti finiscono per adattarsi e, gradatamente,
a guardare con simpatia questa inedita relazione che amplia il respiro dell’esistenza e
ne colora d’affetti lo scorrere quotidiano. Un di più saggio, ben governato, che risulta
in fondo un alleggerimento delle preoccupazioni reciproche, una preziosa valvola di
sfogo che fa fiorire un poco meglio la giornata di tutti i componenti.
Si dirà: ma che c’entra, gli anziani non debbono più procreare, la famiglia l’hanno già
formata, stanno usando liberamente del loro tempo di pensionati, svincolati da compiti
sociali… appunto! È qui che si agganciano i ragazzi, è qui che il mondo giovanile si
raccorda, capovolto, al mondo dei più anziani: fare coppia, avere dei figli, mettere in
piedi una famiglia oggi non è più sentito dai ragazzi come un incarico, un legame, un
qualche tipo di contratto con la società che va onorato o di cui, quanto meno, va
denunciato il disinteresse, va chiarita la non assunzione dell’impegno.

Il mondo dei più giovani

Mi sembra si possa constatare ormai con una buona base di convinzione che i nostri
ragazzi, i nostri giovani che restano ragazzi così a lungo, hanno un modo radicalmente
diverso da quello delle generazioni precedenti di costruire lo spazio e il tempo, quella
griglia fondamentale che ci fa guardare al mondo reale e struttura i criteri del proprio
viverci dentro. Lo spazio, conosciuto per distanze fra i diversi punti, si è fatto mobile,
maneggevole e modellabile: quanto è lontano un Oriente di cui posso vedere le
immagini in televisione? Quanto è lontano il nuovo mondo se posso raggiungerlo così
facilmente attraverso il telefono? E fisicamente inviare un fax, guardare l‘altro
attraverso una web cam, raggiungerlo con un aereo, scorrere i suoi filmati su internet,
ascoltare in diretta voci lontanissime immerse nel sole mentre da me è notte fonda?
Lontano non significa più distante fra due punti nello spazio, lontano significa lontano
da me. Avete notato? Quando si risponde al cellulare, ci si domanda non più: come
stai ma: dove sei? Esattamente come nella rete, come nell’oceano, dov’è il tuo sito,
dov’è il tuo punto? Mi raccordo con il goniometro, ti individuo, ti cerco, il mondo
prende le sue misure da te, da dove tu ti collochi in relazione a me che ti cerco.

Il tempo frammentato
E, mentre lo spazio si deforma, tessuto unitario agganciato a quel punto su cui si
incentra il desiderio della relazione, ecco che il tempo si frantuma, da continuo come
l’abbiamo pensato per decenni e secoli, diventa modulare, perle rotonde e compiute
che possono sì formare una collana ma non in termini prevedibili né scontati. I nostri
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figli sono cresciuti abituati alle interruzioni che scandiscono il susseguirsi delle unità.
Tutto il clamore di protesta intorno alle “emozioni che non vanno interrotte” è risultato
estraneo al loro percorso culturale e di pensiero: la televisione ha insegnato che si
funziona per moduli circoscritti di tempo, che si concludono lasciando spazio al modulo
successivo, discorde o in continuazione del precedente, pubblicità, informazione o
sequenza ordinata. Pensiamo ai dvd che usiamo largamente, strutturati per frammenti
componibili contrapposti allo scorrere dei film in vhs, pensiamo agli stessi computer su
cui lavoriamo: un unico spazio sul disco rigido in cui coesistono e coabitano
programmi, documenti, filmati, musiche e progetti. In un condominio composto da
moduli che solo lo sguardo esterno vede come un tutt’uno ma che non richiede regole
di accordo. Non c’è un progetto comune a tutti gli abitanti, un letto, un tetto, una
stanza occupata da ciascuno, per il suo proprio scopo. Il programma di video scrittura
ha le sue regole come le ha, tutte sue e differenti, il programma che ci permette di
costruire un filmato o di ritoccare le foto. (Drammaticamente ricalcato nel mondo
reale nello scandalo degli affitti frammentati cui sono costretti gli immigrati o
comunque la fascia più debole della società: non una casa ma una stanza, un locale,
un letto, talvolta a ore!)

Estranei al proprio corpo

Così, la percezione del tempo e dello spazio riflette anche una particolare relazione
con il corpo: i nostri giovani non abitano il loro corpo, lo portano in giro, lo curano, lo
vestono, lo tatuano, lo drogano, lo affamano, lo massacrano con piercing o con
esercizi sfiancanti in palestra ma non lo abitano, ne sono al di fuori. I figli dei fiori,
trasgressori gioiosi di un tempo passato, ne facevano uso a modo loro,
sperimentando, tentando incontri e scambi con persone e sostanze magari estremi,
pericolosi ma c’erano, possedevano il loro corpo, lo volevano conoscere attraverso
esperienze sconosciute e sconvolgenti per poterne far uso meglio e di più. Contro le
regole date, per forzarle, farne di nuove, riuscire a imporle, essere protagonisti.
Non è questo l’interesse dei più giovani, non li riguarda il problema di stabilire le
regole su cui si muove la società, li riguarda conoscerle per farci i conti ma non si
sentono legati a un vincolo esistenziale e progettuale con il corpo sociale. Neppure, e
perché mai dovrebbero?, per quanto attiene ai rapporti interpersonali, alla coppia, alla
convivenza, alla costruzione di una famiglia, ai tempi e ai modi di mettere al mondo
un figlio. Temi che ricadono nell’ambito individuale, addirittura più che in quello
personale.

Spazi separati del mondo affettivo

E che prendono in considerazione come un server: affrontandone problematiche e


risorse nell’ambito di riferimento, connettendo più ambiti oppure mantenendoli
separati. Potrei volere un figlio ma non per questo devo pensare a un progetto di
coppia: posso ma è un’opzione. Potrei avere una relazione con questa persona che mi
piace e mi interessa, ma non è detto ci si debba porre il problema o l’idea stessa della
convivenza. Potrei desiderare dedicarmi a dei bambini ma non è detto che debbano
essere miei figli: il mio compagno, che vive a casa sua e con cui ci vediamo quando
possiamo e vogliamo, ha dei figli cui posso dedicarmi con intelligenza, disponibilità e
affetto grande. Senza intralciare il passo alla madre, con un pensiero che era da zia
ma che non si fonda sulla relazione parentale: per il tempo in cui durerà questo
legame, mi dedicherò a questi figli, poi sarò oltre e anche loro lo saranno. Magari,
intrecciando un vincolo e un rapporto ancora diversi, sciolto il legame con il loro
padre, autonomo fra di noi ma senza alcuna ricaduta di cui la società debba essere
messa al corrente, il rapporto è fra di noi, non dobbiamo risponderne che a noi stessi.
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Andando ancor più in dettaglio, il rapporto affettivo non è affatto detto che debba
prevedere il coinvolgimento sessuale, anzi, più precisamente, il rapporto sessuale
deve mantenersi chiaramente distinto dal mondo degli affetti. Il sesso coinvolge
l’emozione, che voglio forte, estrema come quando faccio certi tipi di sport, quando
rischio la vita con le pastiglie o guidando ubriaco ad altissima velocità ma le emozioni
non sono connesse a sentimenti. Quello è un mondo altro, le esperienze sono
puntuali, modulari, cominciano e finiscono, appagano ed esaltano il corpo che porto
con me. Ma non mi restano dentro, allacciate agli affetti che si esprimono attraverso
tutt’altro registro. Non contagiato, peraltro, neanche dal lavoro, dallo scorrere della
giornata. La divisione scandalosa fra il dottor Jekyll e mister Hyde, Catherine Deneuve
in “Bella di giorno”, l’impiegatina perbene che lavora nel tempo libero nelle case
d’appuntamenti, un tempo costretti quanto meno a motivare le loro dissonanze con
errori scientifici, noia, denaro, sono oggi semplicemente dei goffi prototipi di individui
articolati in molteplici ambiti di esistenza che trascorrono con disinvoltura da uno
all’altro senza preoccuparsi di connetterli fra di loro ma curando, invece, di avere
sempre più spazio libero nell’hard disk, di aggiungere programmi, e di aggiornarli
continuamente.

Il mondo non si aggiusta

Questa apparente, e in gran parte effettiva, libertà di spaziare, svincolati da accordi,


impegni o legami con il corpo sociale, questo potersi pensare come cittadini del mondo
si fonda, però, o almeno è contemporaneo, a un essere senza patria. Viaggiatori in
tantissime terre differenti ma senza un luogo cui tornare. E, poiché non hanno
stipulato un patto sociale, si trovano del tutto inadatti, incompetenti a correggere,
aggiustare una situazione che non va bene, un qualcosa che si è rotto. Sì che l’errore
di valutazione, lo sbaglio, diventa tragicamente irrimediabile. Non hanno la manualità
per esercitare la politica, intesa come gestione della convivenza sociale, prendono atto
dei suoi lineamenti, si aggregano dove è più variegata l’offerta, i centri commerciali
esattamente come internet, oppure dove è unico e sovrano l’interesse condiviso, il
concerto ad esempio. Gli strumenti che poi serviranno all’attività lavorativa vanno
procurati ma non coinvolgono né il piacere dell’emozione né la presa dell’interesse.
Frequentare l’università il più a lungo possibile, moltiplicare masters, (per chi può
permetterselo), rimandare il momento del lavoro non solo perché è difficile trovarlo
ma perché, semplicemente, non serve a niente altro che a darmi del denaro. C’è chi
lavora sei mesi e fa volontariato per altri sei, chi lavora quel tanto che gli basta per
esigenze che vengono mantenute basse, chi fa gli straordinari per l’oggetto status
symbol. Pochi, pochissimi giovani usano il lavoro come progetto, cercandovi un
appagamento personale. La società di oggi non lo permette, sembra, il gioco è
truccato, le regole falsate e tradite, il lavoro mi ritorna come una esigenza per vivere
ma non ne condivido più la proprietà, fosse pure in condominio con la società!
L’autostima dei giovani è oggi veramente molto bassa, continuamente confrontati con
i giovani di un tempo che non cessano di occupare i posti di potere e di prestigio, che
hanno fatto e disfatto famiglie a loro piacimento, che hanno lavorato e guadagnato,
traendone piacere e denaro, che si stanno comprando l’eterna giovinezza avendo i
mezzi per acquistarla, che si sono mangiati la speranza di un mondo migliore in una
convivenza più giusta e non ne hanno lasciato che gli avanzi, miseri, per nulla
attraenti. Che, in sostanza, non hanno bisogno dei giovani, bastano a se stessi, si
compiacciono fra pari mantenendo altissimo il pedaggio d’ingresso nel club di chi
conta, ha il potere di decidere. La nostra epoca vede i giovani in scacco rispetto alla
generazione adulta, ne temono il confronto, da loro non hanno l’alleanza complice ma
la dura conferma del loro poco valore.

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Un nuovo rinascimento

Come accade da millenni, i nostri giovani sentono il bisogno urgente di totalità, di un


grande amore con caratteri estremi, fedeltà assoluta e simbiosi completa. Più
estremo, più rigoroso ancora della generazione che li ha preceduti. Ma così ogni
relazione diventa troppo impegnativa, il lucchetto chiuso che sigilla per sempre il
rapporto nel tempo carica di un impegno insostenibile. E la bassa autostima, che il
mondo esterno gli rimbalza addosso, conferma l’impraticabilità per oggi del sogno
della totalità: forse domani. Arrivano a 30 anni senza un amore, con la tentazione di
continuare a evitarlo, per darsi ancora delle possibilità. Evitando scelte irreversibili per
farle meglio domani. Come potrebbero pensar di costruirsi una famiglia? Perché mai
dovrebbero connettere assieme, in un rischio mortale, il vigore sessuale, il desiderio di
totalità, l’affettività e la tenerezza, il progetto del futuro in un figlio, la fatica di una
convivenza? Potrebbero, appunto, morirne senza che nessuno si spenda per venirli a
salvare. La nostra epoca vede dei giovani che, invece di sottrarre agli adulti prestigio e
potere, il posto nel mondo, si sottraggono al confronto che li vedrebbe perdenti.
Restano marginali, cercandosi fra loro, evitando il contatto pericoloso con gli adulti,
arrivano a suicidarsi con la tossicodipendenza o con i disturbi alimentari, tengono
aperti tantissimi ambiti per averne sempre qualcuno di riserva perché saranno traditi
e delusi, meglio non investirci troppo, meglio averne di più.
Come uscire da questa tenaglia che dà la morte al futuro? Come ottenere che
l’esperienza della solitudine ritorni a essere un’esigenza personale di appagamento
che arricchisce e migliora i rapporti con gli altri? Come liberare i più giovani da una
solitudine non vissuta ma subita, in perenne attesa del partner completo, perfetto, di
un rapporto compiuto che non soffra l’urto del tempo, che non si deteriori, che non si
distrugga? Fino a che il desiderio diventa polveroso, l’abitudine a viver da soli troppo
consueta da permettere altre immaginazioni. Semplicemente, si è fatto troppo tardi.

Forse, mi sembra, potremmo pensare a un patto di nuova alleanza fra le generazioni,


a cedere ai più giovani la custodia di una speranza tutta nuova, fatta di infiniti,
compiuti momenti dell’esistenza che diano senso a una convivenza sociale nella quale,
nuovamente, reimmergersi, con la quale, nuovamente, fare conti e confronti.
Apprendere da loro a dar valore all’attimo concluso in sé, a gustare la freschezza di
ciò che l’oggi ci offre senza doverlo reinscatolare in una storia prolissa di lunga data, a
saper rischiare con il coraggio di mettere in gioco tutto. Offrire loro la nostra
esperienza nel riprendersi dopo un inciampo, condividere che la persona invulnerabile
è quella che sa guarire delle proprie ferite, spartire una leggerezza nell’affrontare le
tematiche esistenziali permessa solo dalla forte tenuta del rapporto personale.
Forse, allora, impareremo di nuovo, loro e noi, noi e loro, ad aver bisogno
reciprocamente, a coniugare l’eterna spinta verso la relazione d’amore con
l’insopprimibile gusto della solitudine. A sperimentare come il sapersi soli è forse la più
importante competenza per accedere agli altri e il sentirsi soli, abbandonati, ne è
l’ostacolo più grave. A dirsi che costruire una famiglia, un rapporto di coppia, avere
dei figli non è una scelta scontata ma un impegno serio con la vita: difficile, pieno di
imprevisti, spesso denso di dolore, ma che vale la pena. Nella certezza che loro, se
vorranno, sapranno onorare questo impegno meglio di come è capitato a noi. E che se
non sarà questa la loro scelta, che scelgano in ogni caso di vivere, appieno, senza
avarizie, con il respiro più ampio che si può. Noi facciamo il tifo.

Maria Cristina Koch


(testo pubblicato con lievi modifiche su Famigliaoggi)

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