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Educatori come promotori interculturali

nella relazione simmetrica delle differenze

Non sempre il nuovo è salutato come risorsa; più spesso è letto ed affrontato come intrusione e
minaccia di equilibri consolidati, che coinvolgono più che la sfera cognitiva quella affettiva degli
individui. Tra altre novità, il tema delle migrazioni e dei migranti si riveste di un’ansia del tutto
particolare, in particolare nel mondo della scuola e dei servizi sociali.
Molti operatori, infatti, si dimostrano preoccupati per il fatto di doversi occupare di un problema
aggiuntivo, accanto ai molti già esistenti: non sanno che fare, che cosa pensare quando, all’interno
della loro professionalità, entrano in contatto con un Altro marcatamente “diverso” rispetto ad
una maggioranza “monocromatica”, almeno all’apparenza.
La ragione sta nel fatto che si accorgono ben presto di come, sotto quanto vi è di più visibile, altre
siano le diversità.

A questo punto gli atteggiamenti si disarticolano: c’è chi si scopre “neo-illuminista”, chi si
appoggia a sue convinzioni solidaristiche e chi ancora, senza lasciarsi intimorire dalla novità, resta
indifferente ed agisce come sempre e secondo i suoi consolidati riti professionali: questi tre
atteggiamenti, dunque, innescano altrettante concezioni del proprio ruolo professionale e/o
istituzionale.
Come sempre accade, però, i processi che devono realizzare una pedagogia dell’integrazione si
giocano in relazione ai più svariati e contradditori modi di pensare e di agire, o di non agire, dei singoli
educatori, insegnanti o operatori di servizi che siano.
È la relazione concreta con la differenza etnica, umana e professionale ad imprimere
l’uno o l’altro corso all’integrazione.

Oltre agli atteggiamenti citati, se ne verificano anche altri, invisibili e taciuti, perché
l’immigrazione è un problema che mette alla prova la qualità delle nostre idee, delle
nostre più profonde emozioni, dei nostri gesti razionali. L’immigrazione è “irruzione
dell’Altro” nel nostro vissuto psicologico e ciò si configura quindi come un test
collettivo, frammentato di luogo in luogo, che ci rinvia l’immagine della nostra capacità
di essere cittadini e educatori.
Ecco quindi il perché di tanti comportamenti che prescindono da ogni intenzionalità pedagogica: di
fronte allo straniero, comportamenti e atteggiamenti si complicano, si aggrovigliano, si rivelano
imprevedibili.
Possiamo anche decidere, razionalmente, di assumere una data forma di agire, ma poi,
di fronte alla natura aliena dell’Altro, possono emergere dentro di noi, almeno tre
evocazioni diverse:
l’evocazione di stereotipi e pregiudizi nei confronti della mentalità, dell’intelligenza, dei modi
affettivi o delle pratiche di vita quotidiana dell’Altro;
l’evocazione di difese di tipo territoriale, dal momento che l’altrui presenza, nei nostri spazi di
vita e di lavoro, costituisce una minaccia per gli equilibri del nostro ecosistema; per i privilegi che
abbiamo acquisito o ereditato come gruppo umano stanziatosi in quel Dato contesto, emigrando
magari noi per primi;
l’evocazione per la possibile perdita delle nostre convinzioni, o “valori” regolatori, che
riteniamo, a ragione o per supposizione, costituiscano le “mappe” sicure della nostra
sopravvivenza.

L’estraneità di tipo etnico di cui ogni straniero è evocatore, assume una forma sui
generis, paragonabile a ciò che suscitano in noi la malattia e la morte. Lo straniero è
inconsciamente evocatore di morte, perdita e cambiamento, ritenuto tanto più ambiguo,
subdolo, pericoloso, in quanto si presenta coi caratteri della similitudine: è il barbarus, che,
anche se reca doni, può rivelarsi portatore di annientamenti subitanei o differiti.
Egli minaccia i nostri luoghi, i nostri linguaggi, i nostri punti di riferimento: le tre aree
cruciali, identitarie, della vita di ciascuno. L’ossessione per “l’estraneitudine” resta un
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temuto deserto interiore e ancestrale, al di fuori di ogni più lucida considerazione sociale,
economica o politica al riguardo.

Tutto ciò premesso, che fare, di fronte alla inevitabilità degli incontri e delle
ibridazioni socio-culturali che già stiamo sperimentando e che
sperimenteremo sempre più?
Perché non provare a cogliere in tali eventi una straordinaria occasione di trasformazione,
un’opportunità di cambiamento inimmaginabile, lasciandoci investire pienamente dalla possibilità di
rivedere paure, stereotipi e difese?
Gli stranieri rappresentano uno dei più grandi inviti all’auto-educazione di sé che la storia,
pedagogica e no, del nostro Paese, abbia di recente conosciuto.
In particolare, inoltre, per chiunque lavori nel campo delle scienze dell’educazione od operi
nel sociale, la loro presenza costituisce una vera e propria “sfida pedagogica”:
realizzare LA PEDAGOGIA INTERCULTURALE.
I campi del sapere, tanto nella teoria che nella pratica didattica, sono, infatti, chiamati alla prova
rispetto alla loro flessibilità ed apertura: misurare cioè la loro attenzione per le fenomenologie
psicologiche, pedagogiche, antropologiche, ecc, che l’ingresso di culture, bisogni, identità
non autoctone reca con sé.
Infine, la società multietnica, essendo una società più complessa in stato-nascente, e cioè in-
formazione, invita tutti a leggere le fenomenologie che la esprimono in base ad un principio
di vita, piuttosto che di morte, anche proprio sul piano biogenetico, in quanto l’immigrazione
compensa la caduta di natalità presente un po’ ovunque in Occidente.

Così educativo s’incammina verso la realizzazione di una pedagogia


l’operatore
dell’interazione, più che dell’integrazione, dal momento che la valorizzazione delle culture
altrui equivale alla messa in campo di una pratica educativa che va oltre l’espressione
di una solidarietà verso chi è più debole.
Suscitando interazioni, cioè il riconoscimento dei diritti del diverso da noi, si educa alla
convivenza ed alla democrazia culturale.
Diventa, infatti, fondamentale non solo porci nell’ottica di cambiare punto di vista, cercando di
entrare in quello dell’Altro, ma ancor di più, nel momento in cui ci accingiamo ad una “lettura dei
bisogni” o a una “lettura dei modi di essere”, tentare di capire quali condizioni educative offrire.
Domande di senso profondo sorgeranno spontanee, quali:
Come mi sto rappresentando l’Altro, e perché gli attribuisco queste caratteristiche, questi
significati?
Quanto di personale ed etnocentrico c’è nelle mie interpretazioni (nelle paure, nei pregiudizi,
nei modi di interagire)?
Quale strategia posso assegnarmi per far capire all’Altro che lo ritengo un mio simile, ma, al
contempo, gli riconosco il diritto di essere dissimile e di manifestarsi come tale?

Il problema educativo dell’accoglienza in chiave pedagogica/relazionale è quindi prima


di tutto un problema “autopedagogico”.
Prima ancora di chiedersi che cosa fare sul piano comunicativo e didattico, occorre domandarsi:
“chi siamo noi educatori, portatori di una data cultura di fronte alle altre?”
specie quando queste altre culture germinano da tradizioni e pratiche molto lontane dalla nostre e, così
profonde, da strutturare stili cognitivi (immagini della mente e concettualizzazioni) così diversi.

Dopo questo primo passo auto-pedagogico, il secondo sarà invece quello di mettere in atto
azioni pedagogiche di tipo pratico: esplorare, facilitare, valorizzare sono prassi che dovranno
trovare sempre più spazio all’interno dei nostri piani di lavoro, delle nostre programmazioni, facendo
perno su tre diverse modalità operative che suggeriamo.

L’educatore/operatore, infatti,
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attua una modalità esplorativa/induttiva quando, operando come ricercatore partecipante,
osserva episodi di vita relazionale all’interno della realtà scolastica/extrascolastica e registra le
comunicazioni più varie, badando non solo a quanto viene detto, ma soprattutto a come viene
detto;
produce una modalità facilitativa con interventi di “pronto intervento” e accoglienza, affinché si
creino le condizioni affettive e i climi migliori perché l’Altro si senta accettato e riconosciuto nella
sua specificità. L’educatore si mostra in tal modo quasi un “contenitore simbolico”, qualcuno a
cui l’Altro possa appoggiarsi, di cui avere piena fiducia e che lo rassicuri anche quando il successo
che gli chiediamo di raggiungere, con i nostri metri di successo, tarda a manifestarsi;
mette in atto una modalità interculturale ogni volta che considera l’Altro un“portatore di saperi”
che gli fornisce spunti per trasformare il luogo del lavoro educativo in un’occasione di scambi e
riflessioni sul mondo, sui mondi, degli Altri.

I principi della pedagogia interculturale nascono dall’incontro di tre soggettività:


Noi, Loro e i loro Figli. È impossibile un pensiero interculturale deprivato di una di
queste componenti, poiché nell’azione pedagogica entrano simultaneamente in campo i
portatori di tre percorsi d’integrazione.
L’educatore autoctono è chiamato ad integrare (in un arricchimento/rimescolamento mentale,
comportamentale, affettivo del sistema) i propri saperi, saper fare ed essere di fronte all’Alterità.
L’immigrato adulto è costretto a fare lo stesso, pur nella sua legittima resistenza al cambiamento
e all’integrazione, molte volte vissuta più come perdita che come approdo.
Il non ancora adulto, nella sua dipendenza dal primo e dal secondo, talvolta, rappresenta la
variabile nuova che sfugge ad entrambi, nella sua volontà di proiezione e di identificazione
autonoma, impegnato com’è a costruirsi una propria morfologia.

Il protagonista dell’integrazione-ibridazione è, infatti, proprio lui/lei, che può


raggiunge con successo il suo obiettivo integrativo quando entrambi gli adulti di
riferimento condividono il fatto che appartenere a due culture tra loro in ibridazione è
più arricchente della partecipazione, o della perseveranza, caparbia e irrazionale, in una
sola.

La pedagogia interculturale ha come propria finalità, quindi, quella di esplorare queste nuove
direzioni dell’identità complessa, in quanto caratteristica peculiare della psicologia dell’uomo
moderno; è in questo contesto che i soggetti in crescita, poco importa se autoctoni o
figli di immigrati, vanno aiutati a crescere. Una mentalità interculturale è un punto di vista e
un modo di essere; l’esperienza di ciascuno oscilla nel corso della vita tra queste due polarità: tra la
propria rassicurante monocultura e l’instabilità strutturale dell’atteggiamento interculturale.

L’incontro tra etnie e culture si rivela quindi un gioco di scambi, di prestiti, di debiti. Si acquista
(fattore integratore) e si vende si scambia (fattore interattivo), all’interno di un ritmo di vita che
appartiene alla dimensione morfogenetica delle cose: è cioè in divenire continuo, mai del tutto
definibile e prevedibile.
Parliamo quindi di pedagogia interculturale secondo questi due significati. È necessario, per
rispettare nell’incontro con altre vite il principio di vita morfogenetico, valorizzare e facilitare l’emergere
di nuove forme vitali. E dunque non soltanto integrazione assimilativa = “riempirsi svuotandosi”,
utilizzando le strutture specializzate dell’educare, bensì interazione = “riempirsi rimescolandosi”
attraverso modalità che enfatizzino la concertazione tra le forme nel loro divenire.

Ogni professionalità educativa che vuole qualificarsi come orientata dai presupposti
della pedagogia interculturale deve rivolgere la sua attenzione a che tali forme ricche e
complesse emergano pienamente.
Il riconoscimento del diritto alla differenza dell’Altro rappresenta dunque l’atteggiamento scientifico
corretto di chi vuol combattere il vecchio provincialismo che risiede tanto nella pratica del “far finta di
niente”, quanto nell’affermazione che il problema non sussiste perché “siamo tutti uguali”.

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I processi di integrazione tra culture diverse, infatti, possono essere letti anche
come un segno di “nuovi stati nascenti “della mente.
Le “formae mentis” hanno una loro storia, una genesi, una crescita, all’interno di pratiche educative
specifiche: locali, familiari, tribali...
Il mondo viene manipolato dalla mente umana (meglio dalle menti) o per usarlo meglio o per
interpretarlo e spiegarlo. Alla base dunque dei nostri costumi, comportamenti, stili di vita, ci sono modi
di pensare che differiscono in rapporto alla ripetitività mediante la quale si consolidano
culturalmente. Tali modi di pensare trovano poi infinite “variazioni, differenze cognitive”.

L’apprendimento interculturale poggia su forme di apprendimento


trancognitive, ovvero sulla maggiore o minore capacità di locomozione da un atto
cognitivo all’altro, da una forma mentis all’altra.
La pedagogia interculturale consiste nell’educare non semplicemente alla conoscenza
delle differenze, riscontrabili in soggetti di origine culturale diversa (ad esempio un
soggetto cresciuto al nido - luogo protetto, speciale, programmato – e un soggetto allevato in un
villaggio di capanne – contesto educazionale diffuso, in rapporto ad una cultura adulta, pratica e
religiosa) ma nell’educare alla transività (o mobilità) cognitiva.

Un’educazione integrata (attenta allo sviluppo simultaneo e non troppo precocemente specializzato
delle formae mentis) aiuta la formazione di una mentalità interculturale e transculturale.
Si fa quindi pedagogia interculturale precoce ogni qualvolta educhiamo la mente a
sperimentare l’incredibile plasticità di cui essa è dotata. Quanto più evitiamo che le
corrispondenze e le differenze cognitive si fossilizzino chiudendosi in se stesse
(ripetendosi autisticamente), tanto più prepareremo il terreno (le menti) al metodo e ai
valori dell’interculturalità:
permeabilità nei confronti dei punti di vista, delle credenze, delle forme di pensiero altrui
sintonizzazione con le origini del pensiero formatosi in altri contesti
interazione strategica: fare in modo che il confronto tra mentalità dia luogo non solo ad un
innalzamento della conoscenza reciproca, ma possa “consociarsi”, per individuare forme superiori
di azione e comprensione del mondo: un mondo interculturale, che tramite la risorsa della
differenza acquista maggiore umanizzazione.

L’intelligenza relazionale è la “matrice” sottostante del pensiero interculturale, non


ci aiuta soltanto ad assumere uno stile cognitivo disponibile e benevolo verso l’Altro
(non è semplice riedizione del pensiero della tolleranza o dell’accoglienza), bensì risponde al
bisogno di educarci e di educare (noi e gli Altri) ad un pensiero che non si irrigidisca
mai, un pensiero in movimento.
Ogni monocultura è condannata, prima o poi, alla stagnazione; al contrario, una cultura
polidimensionale non può che essere dinamica e processuale.

Facciamo un passo indietro: in quest’ottica, dunque, come avvicinarci alla differenza?


Non ignorandola, né tanto meno distruggendola; possiamo invece esserne incuriositi o meglio
ancora parlarle. Il primo caso equivale alla disponibilità ad assimilare alcune specializzazioni
cognitive che ci vengono da altre culture: la musica, il ballo, la lingua, l’arte...
Il secondo caso è il metodo relazionale per definizione: non ci limitiamo ad ascoltare,
vogliamo comunicare, raccontare chi siamo noi e sapere chi sono gli Altri. Vogliamo con loro
entrare nelle ragioni delle loro costruzioni del mondo, per esporre le nostre e, magari, costruirne
di nuove “strada facendo”insieme.

L’oggetto della pedagogia interculturale va ben oltre quindi le situazioni concrete di


incontro diretto con realtà altre: si tratta di costruire, nella scuola come nella società le
premesse psicologiche perché tale tendenza interculturale possa affermarsi, Essa
risulta, infatti, più utile di quella “monoculturale” in quanto più attenta alle ragioni
dell’Altro e meno sorda al cambiamento: in sintesi più vitale dal punto di vista
evolutivo.

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Quando due mondi si incontrano e acquista senso esperenziale la loro relazione, ne
scaturisce un terzo, un quarto, un quinto. Dove, il primo e il secondo sono disposti a
cedere qualche cosa per comprendersi e dove questa concessione reciproca ha sempre
una funzione generatrice.

Da tutto quanto esposto finora dovrebbe risultare ormai chiaro come l’interculturalità come
sfondo educativo e formativo, si configuri come l’unico orizzonte valido per chi
s’impegna a dare risposte efficaci ai bisogni d’integrazione presenti nella società
attuale, risposte atte a capire le “ragioni”e i comportamenti degli altri e ad interagire
con essi.
Tutto questo però si può attuare solo a certe condizioni preliminari.
La prima è che ogni risposta cercata vada nella direzione di assumere l’Altro come una risorsa e
non come un ostacolo, magari aggiuntivo ad altri già esistenti.
La seconda è data dalla necessità di assumere atteggiamenti di ascolto: sia che lo si
interroghi per sapere di più, sia che gli si proponga un impegno, ciò che scopriamo deve essere
discusso con l’Altro, perché l’Altro si senta protagonista. L’interazione con l’Altro deve manifestargli
l’interesse che abbiamo nei suoi confronti: per la sua storia, per il suo punto di vista, per la sua
ricerca di certezze e di attaccamento a qualsiasi risorsa umana, che mostri di avere a cuore la sua
sorte.
L’incontro con le differenze etniche costituisce l’occasione principe per riproporre stili educativi e
voglia di rinnovamento, la sfida concreta per realizzare una reale educazione alla mondialità, ma
risulta evidente a tutti come non sia necessario avere bambini o adulti immigrati a
scuola o in altri contesti educativi, per assumerne i principi: la pedagogia interculturale
si rivolge a tutta la scuola e a tutta la società di accoglienza. Sono in gioco questioni
che oltrepassano la presenza di bambini “colorati” nelle nostre classi o di adulti
stranieri nostri compagni reali sui luoghi di lavoro.
L’educazione, di fronte al pluralismo etnico e culturale, deve occuparsi di far conoscere le altre
culture (contro i programmi etnocentrici) indipendentemente dalla presenza fisica di un arabo, un
cinese, un singalese: dalla scuola materna alla secondaria. La scuola deve diffondere la
consapevolezza che la democrazia culturale rappresenta una delle grandi sfide civili del futuro.
Imparare a conoscersi, e non soltanto a tollerarsi (sostanzialmente ignorandosi) è un impegno che la
scuola deve tradurre in pratica:
sul piano cognitivo = far scoprire che esistono altre forme di pensiero e mentalità, che l’immigrato
viene da un lontano che va conosciuto nei suoi molteplici aspetti che ne hanno costituito la storia;
sul piano dell’educazione sociale e civica: far conoscere, specie nella secondaria, il fenomeno delle
migrazioni internazionali nella sua dimensione ineluttabile e planetaria, nelle sue interconnessioni
economiche, sociali e giuridiche
sul piano della vita relazionale tra pari: valorizzare le culture di provenienza, andando oltre
l’oggettivo svantaggio del migrante

Da parte dei docenti è richiesta una grande capacità di equilibrio tra il riconoscimento dell’Altro
come uguale e, al contempo, come diverso. Il primo aspetto va gestito col metodo della partecipazione
a tutte le opportunità educative scolastiche ed extrascolastiche, il secondo con il metodo della
“enfatizzazione dell’identità d’origine”, ovvero facendo sentire all’immigrato, studente o lavoratore che
sia, che egli è un protagonista e che può insegnare ai suoi compagni qualcosa: parlando la sua lingua,
raccontando del suo Paese, esibendo la propria tradizione religiosa. Soltanto così l’Altro potrà non
rimuovere la propria cultura d’origine, ma anzi mantenere un contatto con essa, perché fonte,
anch’essa, di identificazione e facilitatrice di sviluppo.

La necessità di fare dei più vari ambiti di formazione o di socialità luoghi di interculturalismo
permane, anzi si rafforza di giorno in giorno. Si tratta di rilanciare la funzione dei servizi educativi
sul piano dei compiti di promozione:
- alla solidarietà
- alla curiosità e attenzione per fenomeni nuovi
- alla gestione specializzata di esigenze non omologabili

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Questi tre indirizzi, traducendosi in azioni collegiali, riqualificano tali sedi come momenti di vita
associata e di democrazia, permettendo loro inoltre di allacciare contatti e stabilire intese di lavoro
anche con altre agenzie formative, quali i servizi e gli enti presenti sul territorio. L’attenzione
interculturale di una scuola o di un servizio educativo e/o sociale si misura, infatti, dalla volontà e dalla
capacità che sa mostrare nell’osservare al suo interno e all’esterno, se e come i processi di
integrazione si vanno compiendo.

In tal modo la “pedagogia quotidiana” si sostanzia in azione interculturale (contro ogni


tendenza regressiva: assimilazioni “spinte” dello straniero, così come percorsi educativi segregazionisti)
ogni qualvolta si riesce ad attuare una pedagogia relazionale come valore e pratica educativa.
Tale pedagogia, però, si può attuare solo rivedendo mentalità e stili cognitivi.

Un promotore interculturale – insegnante, animatore, datore di lavoro, amministratore, operatore


sociale/sanitario, chiunque intenda lavorare per l’interazione tra differenti stili culturali e cognitivi – non
deve andare lontano per darsi da fare. Ovunque ci siano spazi formativi più o meno istituzionalizzati, ed
eventualmente creandoli ad hoc, può costituire momenti di attenzione:
per il pensiero degli Altri
per le forme di vita del “lontano”
per le ragioni del presente e del futuro nazionale ed europeo interetnico
per i bisogni degli Altri
per l’educazione, nostra e loro, alla cultura pluriculturale
per azioni comuni: solidarietà, cooperazione, creatività

Perché una cultura pluriculturale è l’obiettivo del futuro.


Promuovere l’interculturalismo significa quindi preparare, accelerare, sollecitare i
processi di cambiamento, affinché i prossimi decenni possano realizzarsi come
laboratorio transetnico.*

28 ottobre 2008 Oriella Stamerra

*Le riflessioni proposte sono una sintesi liberamente tratta da:


Demetrio D./ Favaro G., IMMIGRAZIONE E PEDAGOGIA INTERCULTURALE, Firenze, La Nuova Italia, 1995

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