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Il colore
dei fratelli
Quarant’anni di immigrazione
nelle pagine della Difesa del popolo
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Villaggio Grafica srl
Noventa Padovana
con il contributo di
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PREFAZIONE
Diversità è ricchezza
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Al lettore
Questo volumetto non è un vero e proprio studio sull’immi-
grazione, bensì un piccolo excursus sul modo in cui la Difesa
del popolo ha trattato l’immigrazione, dal suo sorgere negli
anni ’80 fino al suo ultimo tumultuoso sviluppo. Per questo,
data anche la brevità imposta, si è cercato di limitare al mas-
simo i riferimenti a leggi, normative e numeri, se non nei casi
in cui erano effettivamente utili a illustrare i fatti.
Del resto, esistono già diversi enti e pubblicazioni che ela-
borano e diffondono dati sull’immigrazione, primi fra tutti le
elaborazioni dell’Istat e il rapporto annuale Caritas-Migran-
tes; in questo scritto si è piuttosto preferito, in linea anche con
la sensibilità che ha sempre caratterizzato il nostro giornale,
di dare ove possibile spazio alle storie personali e alle testimo-
nianze dirette.
Il lavoro si sviluppa lungo l’arco di quasi quattro decenni:
dal 1970 alla fine del 2007; per ogni periodo si è cercato di
mettere in luce i temi che risaltano maggiormente dalla lettu-
ra della Difesa, senza comunque escludere il rimando, all’in-
terno di ciascun capitolo monotematico, a notizie apparte-
nenti a periodi precedenti o successivi, che siano però connes-
se all’argomento di volta in volta trattato. Il titolo è preso dalla
Difesa del 3 settembre 1989.
Spero che anche questo lavoro sia utile un giorno a una
più ampia e inclusiva storia della nostra immigrazione.
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CAPITOLO PRIMO
La preistoria dell’immigrazione
(1970-1990)
F
ino agli anni ’90, più che di immigrati, in Italia bisogne-
rebbe semmai parlare di “stranieri”. Trovare qualcosa
sull’immigrazione nelle edizioni della Difesa del popolo
degli anni ’50 e ’60 è difficile: sono gli anni del boom, l’Italia
conosce un periodo di crescita economica e di stabilità senza
precedenti; eppure anche in questo periodo e nei successivi
il migrante per eccellenza resta l’emigrante. Nel 1971, quando
il benessere è già considerevolmente aumentato, qualcuno ha
ancora paura che con l’istituzione del Mec – il Mercato comu-
ne europeo, che tra le altre cose prevede l’abolizione delle
frontiere per i lavoratori – l’Italia letteralmente si svuoti.
Le prime pagine, soprattutto la prima e la terza, in questo
periodo sono dedicate alle notizie dall’estero; numerose, qua-
si sempre allarmanti, quelle che provengono dall’Europa del-
l’Est: la cortina di ferro, le persecuzioni, le repressioni del-
l’Ungheria nel 1956 e poi della primavera di Praga nel 1968.
Poi ci sono le notizie dalle missioni, soprattutto dall’Africa:
sempre nel 1971 sono ben 1.110 i padovani partiti a portare
aiuto e testimonianza nelle terre di missione; negli anni tra i
missionari padovani ci sono stati martiri, come il dehoniano
Bernardo Longo (1906-1964) e il comboniano Ezechiele Ra-
min (1953-1985), e anche diversi futuri vescovi. Di stranieri
però in Italia proprio non si parla, pare anzi che non ce ne
siano; in fondo, cosa dovrebbero venire a fare?
Beh, studiare per esempio. L’università di Padova è fin dal
medioevo un polo di attrazione per gli studenti di tutta Euro-
pa. In un articolo abbastanza esteso dell’11 gennaio 1970 (p.
7) la Difesa del popolo affronta la situazione degli studenti
stranieri a Padova, già allora più di 700. Il titolo è eloquente:
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che allestisce nel 1972 una personale presso il centro “La cu-
pola” (19 marzo 1972, p. 7). Si tratta di persone verso le quali
è difficile non provare una simpatia istintiva: proprio in quei
giorni la Difesa parla delle vicissitudini della popolazione ce-
coslovacca, oppressa da un regime che, dopo la repressione
della “primavera di Praga” nel 1968, pare essersi addirittura
inasprito.
In quegli anni tutta l’Italia – e quindi anche la Difesa –
parla delle sorelle Kessler; sul banco degli imputati i vestiti
indossati dalle sorelle tedesche, che spesso e volentieri lascia-
no scoperte le famose gambe, e soprattutto il favoloso com-
penso di 34 milioni, percepito per “Canzonissima” (18 gen-
naio 1970). In fondo sono straniere anche loro, ma forse non
è proprio la stessa cosa: nessuno si sognerebbe mai di chia-
marle immigrate.
In generale, prima degli anni ’90, la presenza di cittadini
stranieri sul territorio emerge qua e là, con larghe soluzioni di
continuità, attraverso delle “tracce” che devono essere cercate
e interpretate; un articolo del 26 settembre 1971 (p. 9) infor-
ma ad esempio che nel 1970 sono stati circa 150 gli stranieri
ricoverati negli ospedali padovani. In questo periodo, insom-
ma, la presenza di cittadini stranieri è ancora marginale, so-
prattutto se confrontata con il fenomeno opposto, ovvero con
l’emigrazione italiana verso i paesi più ricchi. I pochi stranieri
presenti, essenzialmente studenti, esuli e giovani laureati, ap-
partengono in realtà alle élites dei paesi di provenienza e ri-
scuotono in linea di principio la simpatia dell’Italia, ancora
abituata a considerarsi paese povero, geneticamente antirazzi-
sta. Eppure avvertiamo già delle situazioni di disagio, soprat-
tutto quando la presenza è più concentrata, anche se relativa-
mente, come nel caso degli studenti dell’università.
Interessante è il linguaggio: come chiamare queste persone
che vengono nel nostro paese? Il termine “negro”, seguendo la
tradizione italiana, è ad esempio ancora usato normalmente,
sprovvisto com’è di alcun significato offensivo: “Per aiutare i
negri del Sudan meridionale”, titola ad esempio la Difesa nel
1970. La fortuna del termine inizierà a declinare soltanto verso
il 1990, sostituito da “terzomondiale”, fino a quando non si im-
porrà un altro vocabolo, stavolta d’origine burocratica, il cui
uso prosegue fino a oggi: “extracomunitario”.
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I primi problemi
I
l 26 gennaio 1975 la Difesa parla per la prima volta di im-
migrazione clandestina (p. 3: “30.000 africani venduti sulla
strada della speranza – si allarga il fenomeno delle immi-
grazioni clandestine”). L’inizio è allarmante: «circa 30.000 ne-
gri lasciano ogni anno l’Africa per venire a lavorare in Euro-
pa. Almeno mille si fermano in Italia, definitivamente “acqui-
stati” per mezzo milione di lire». Il servizio non riguarda Pa-
dova bensì Milano, dove pare essere scoppiata “la mania del-
la cameriera di colore”. Gli elementi che ricorreranno in tanti
servizi di alcuni anni dopo ci sono già tutti: la fame, il sogno
di “trovare l’America in Europa”, i “procacciatori di negri”,
che organizzano i costosi viaggi, e che poi si rifanno tenendo
gli immigrati in condizione di semi-schiavitù. Non si parla an-
cora di prostituzione: i “mercati” di destinazione sono ancora
i lavori di fatica per i maschi, quelli domestici per le donne;
l’articolo cita dei dati che calcolano in circa 500 mila le colf
all’epoca in servizio in Italia, a fronte però di un fabbisogno
almeno doppio: necessità di una società dove sono sempre
più numerose le donne che lavorano fuori casa. «Noi cerchia-
mo di fare la massima attenzione – dice nell’articolo una fon-
te della questura di Milano – ma non sempre è facile capire
se una negra viene in Italia per lavorare clandestinamente, o
per turismo». Secondo il servizio, nel 1972 l’Italia ha espulso
come “indesiderabili” 7.434 stranieri; eppure il nostro è anco-
ra un paese marginale nei grandi movimenti della migrazione
internazionale: nello stesso periodo nella sola Marsiglia ci so-
no già oltre 40.000 immigrati africani, in massima parte desti-
nati al mercato delle braccia del lavoro portuale: «gente da
pagare poco – conclude amaro il cronista –. Nessuno li acco-
glie, li istrada, li aiuta […] Il fenomeno dello schiavismo, che
sembrava scomparso nell’Ottocento, sopravvive ancora».
Sull’edizione del 19 novembre 1978 un altro titolo che de-
sta preoccupazione: “Un milione di stranieri che lavorano in
Italia?” (p. 3). Si tratta di una stima esagerata, visto che il nu-
mero degli stranieri supererà il milione solo vent’anni più tar-
di; resta il fatto che si inizia ad accorgersi del fenomeno: non
a caso, proprio nel 1978, la Chiesa italiana dedica per la pri-
ma volta ai lavoratori stranieri la giornata nazionale delle mi-
grazioni, creata nel 1914 da papa Pio X. Nell’articolo si nota
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I preti neri
U
na categoria particolare di stranieri, che proprio non
possono mancare dalle pagine di un giornale diocesa-
no, è quella dei sacerdoti. L’Italia, centro mondiale del
cattolicesimo, richiama preti da tutto il mondo per gli studi e
la formazione: già all’inizio degli anni ’50 un minuscolo trafi-
letto in prima pagina ci fa edotti del fatto che in quel mo-
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U
n altro di questi preti stranieri in Italia – anche se non
proprio “negro” – farà una “carriera” ancora più avvin-
cente; nel 1978 in poco più di un mese si succedono al
soglio pontificio tre papi. L’ultimo ha un nome che suona
strano alle orecchie italiane, tanto da essere scambiato in un
primo momento per africano. Nel corso del suo ministero Ka-
rol Wojtyla, proveniente da una chiesa grande ma perseguita-
ta, si rivelerà un “immigrato” molto particolare; la Difesa dà
notizia della sua elezione il 22 ottobre 1978, ovviamente in
prima pagina. Il papa “venuto da lontano”, come lui stesso
ammette nel suo primo discorso, riscuote subito la simpatia e
l’ammirazione di tutti gli italiani; al cronista, che in un’intervi-
sta a p. 4 gli chiede a più riprese se un papa straniero non
possa in qualche modo rappresentare un problema per la
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N
egli anni ’80 appaiono in Italia i primi lavoratori immi-
grati: sono soprattutto venditori ambulanti e lavoratori
stagionali, in maggioranza marocchini o nordafricani,
tanto che per molto tempo “marocchino” e “vu’ cumpra” di-
venteranno sinonimi di immigrato. Ancora oggi, dopo che le
migrazioni più recenti dall’Albania e soprattutto dall’Europa
dell’Est l’hanno fatta passare un poco in secondo piano, quel-
la marocchina è comunque la terza comunità straniera in Ita-
lia. Perché vengono? «Siamo diventati un paese ricco – scri-
verà la Difesa 8 maggio 1988, p. 18 – anzi uno dei paesi dove
il benessere è di casa ed è diffuso. Noi, forse, non ce ne sia-
mo accorti, non tutti almeno; ma altri, la gente del Terzo
mondo, sembra proprio di sì». L’articolo si chiude con una ci-
tazione biblica che è anche un ammonimento: «ricordati che
anche tu fosti straniero nel paese d’Egitto».
L’Italia però sembra non avere tempo da perdere per capi-
re quello che sta succedendo: presto si abitua ai nuovi ospiti,
senza quasi accorgersi di loro; non si sa chi né quanti sono,
manca quasi completamente un dibattito pubblico. Una delle
poche occasioni per parlare e riflettere del fenomeno è la ce-
lebrazione annuale della “giornata mondiale delle migrazio-
ni”, cui abbiamo già accennato. Per un paese di emigranti,
quale è stato l’Italia fino a tempi recenti, si tratta innanzitutto
di un’occasione per ricordare familiari, amici e conoscenti –
ancora più di vent’anni dopo, nel 2003, sono circa 5 milioni e
300 mila i nostri connazionali all’estero, quasi un italiano su
dieci. Già nel 1982 però la Difesa del popolo dedica il servizio
sulla giornata agli immigrati, anziché gli emigranti (21 novem-
bre 1982, p. 5).
I tempi sono maturi: l’anno successivo l’immigrazione per
la prima volta si affaccia sulla prima pagina della Difesa (20
novembre 1983): “Ieri erano i veneti a girare il mondo – titola
il giornale – Ora gli stranieri sono tra noi, ma molti li ignora-
no”. Tra le altre cose, il servizio ospita anche un’intervista al
padre scalabriniano Giuseppe Contessa, che per anni ha assi-
stito i nostri connazionali in Svizzera: «è tempo […] che si
aprano gli occhi: gli stessi diritti che gli italiani chiedevano
nel passato ai paesi di emigrazione oggi bisognerebbe cerca-
re di garantirli a quelle correnti migratorie che giungono da
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I “boat people”
A
ll’inizio degli anni ’80 il mondo è ancora diviso in bloc-
chi, anche se l’impero sovietico è un gigante malato, che
si sfalderà nel 1989. In questo periodo una tragedia attira
l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale: in Vietnam
la guerra si è conclusa da appena qualche anno, ma questo
purtroppo non ha significato la fine delle sofferenze per un
popolo stremato. Da subito infatti il governo del nuovo Viet-
nam riunificato inizia una violenta repressione interna, cui se-
guiranno le guerre contro i regimi comunisti “fratelli” della
Cina e della Cambogia di Pol Pot, allo scopo di ottenere il
predominio sulla regione. In pochi anni diverse centinaia di
migliaia di persone vengono deportate nei “campi di rieduca-
zione”, dove più di 150 mila di esse troveranno la morte; per
chi vuole fuggire l’unica alternativa è tentare di scappare con
ogni mezzo: più di un milione persone sfideranno il mare
usando mezzi di fortuna, colmi fino all’inverosimile, dirette in
Malesia, Thailandia, Filippine, Hong Kong e Indonesia: sono i
cosiddetti “boat people”.
Il mondo intero è sconvolto, e a suo modo la tragedia
lambisce anche la piccola Padova: nei campi profughi le per-
sone si ammassano sempre più in condizioni igienico-sanita-
rie fatiscenti; la comunità internazionale interviene attraverso
il segretariato Onu per i rifugiati: anche l’Italia è chiamata a
fare la sua parte, raccogliendo alcune centinaia di profughi. È
questo il principio della nostra storia: all’inizio del 1980 il
giornale diocesano inizia a seguire con diversi articoli, con
cadenza quasi settimanale, le vicissitudini dei vietnamiti che
vengono assegnati al Veneto per essere ospitati. Il punto di
inizio è un servizio che occupa una pagina intera nell’edizio-
ne del 6 gennaio 1980, firmato da Gino Brunello. La Chiesa è
in prima linea nell’accoglienza; il primo articolo (“Una fetta di
Vietnam ricostruita a Padova”) parla dell’incontro, svoltosi
presso l’istituto Santa Rosa, organizzato dalla Caritas per tutti i
profughi vietnamiti ospitati nella zona: «gli abbracci più calo-
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Gli aiuti non sono solo materiali: nella comunità pare es-
serci una effettiva tensione verso l’altro nella sua diversità,
fatta di attenzione, di accoglienza, di sollecitudine; anche l’in-
tegrazione riceve un forte stimolo da parte di una comunità
diocesana che per una volta appare singolarmente coesa: il
24 febbraio la Difesa torna sulla festività del Têt, il capodan-
no vietnamita, festeggiato dai profughi a Tencarola, con una
festa alla quale prendono parte anche 300 italiani. L’incontro
è aperto da un momento di preghiera comune, cattolica e
buddista, alla quale prende parte anche il vescovo Bortignon;
alla fine un giovane cattolico vietnamita legge una struggente
preghiera, che viene pubblicata dal giornale diocesano: «ora
cominciamo una nuova vita con due mani vuote, fra persone
che parlano una lingua sconosciuta e che hanno abitudini di-
verse dalle nostre. Dacci la forza e la fede affinché possiamo
camminare sempre in avanti, e portarti a coloro che ci vivono
intorno».
Quello dell’accoglienza ai “boat people” vietnamiti è forse
un caso limite, però tutt’altro che isolato: ancora nel 1985 la
Caritas diocesana raccoglie ben 215 milioni per la siccità in
Etiopia (23 giugno 1985, p. 1); anche in tempi più recenti,
quando c’è stato da aiutare qualcuno o una popolazione in
difficoltà – che siano i bambini di Chernobyl o le vittime del-
lo tsunami nel Sud-est asiatico – il Veneto e in Padova in par-
ticolare non si sono mai tirate indietro.
Oggi questa gara di solidarietà fa quasi sorridere. Erano si-
curamente altri tempi, e l’immigrazione era ancora inimmagi-
nabile nelle proporzioni che successivamente avrebbe assun-
to; eppure c’è forse qualcosa di strano nel rapportarsi con lo
straniero da parte di questo territorio, così naturalmente ge-
neroso quando si tratta di aiutare “da lontano”, oppure quan-
do il rapporto è ben definito (“tu ospite a casa mia”), ma tal-
volta così geloso delle proprie abitudini, quasi chiuso, quan-
do si tratta di chi in Italia viene a lavorare o a vivere. Leggen-
do le pagine della Difesa del 1980, articolo dopo articolo, si
rimane stupiti per la sollecitudine e l’attenzione nei confronti
dei profughi: questi non vengono solo aiutati, ma accolti co-
me persone.
Certamente oggi le condizioni sono molto diverse: allora si
trattava di appena 300 persone per tutto il Veneto. Viene co-
munque da domandarsi: quale sarebbe oggi la situazione, se
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L’integrazione e il razzismo
O
ltre al fenomeno “immigrazione”, che come abbiamo vi-
sto inizia a essere percepito solo alla fine degli anni ’80,
ci sono le persone, sulle quali la Difesa fin dall’inizio
concentra la propria attenzione. È forse allora bene chiudere
questa carrellata sugli anni ’70 e ’80 con due storie, due storie
di africani: uno che in Italia riesce a trovare una famiglia, un
lavoro, un futuro; e l’altro che invece ha trovato soltanto il ri-
fiuto, il razzismo, la morte.
Cominciamo da Gilbert Nanhoungue e dalla sua famiglia
(20 aprile 1986, p. 14: “Guardare la fame negli occhi”); a pri-
ma vista la sua storia sembra riprendere quella dei primi stu-
denti stranieri a Padova negli anni ’60. Gilbert è originario
dello stato africano del Ciad e si è laureato e specializzato in
medicina a Padova; il suo sogno è però di tornare nella sua
patria, e così prova a fare, seguito dalla moglie padovana Su-
sy. Inizia così una vita a cavallo tra due paesi e due culture: il
Ciad, dove Nanhoungue lavora, aiutato dalla moglie Susy che
lo assiste come infermiera, e l’Italia, dove la famiglia continua
a passare dei lunghi periodi; in questo via vai nascono le tre
figlie della coppia. Fino a quando, dopo l’ennesimo soggior-
no italiano, l’intensificarsi degli scontri della guerra civile non
impedisce alla famiglia di ritornare in Ciad.
I Nanhoungue si stabiliscono allora alla Guizza, in un ap-
partamento al settimo piano: a ricordar loro l’amata Africa ri-
mane solo un grande poster colorato in soggiorno, davanti al
quale le tre bambine si fanno fotografare, tranquille e sorri-
denti. L’Africa è rimasta anche nei loro cuori: «dentro di noi –
spiegano – dopo aver vissuto la siccità e visto la morte per
fame, crediamo, sia rimasto un marchio indelebile. Al super-
mercato, ad esempio, compriamo le cose fondamentali; i ve-
stiti servono per coprirci e quindi ne bastano pochi. In que-
sto modo si può vivere ugualmente bene con poco, senza la-
sciarci sopraffare dal consumismo». Susy ha ripreso a lavora-
re, mentre Gilbert presta servizio come medico volontario
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CAPITOLO SECONDO
G
li anni ’90 segnano una svolta, per lo meno nella perce-
zione dell’immigrazione: nel solo 1990 sulla Difesa del
popolo c’è più di quanto sia stato scritto nei due decen-
ni precedenti; l’immigrazione all’improvviso diventa il proble-
ma del giorno, e il giornale diocesano inizia a occuparsene
con cadenza pressoché settimanale, spesso in servizi di più
pagine.
Cos’è successo? Alla prima vera e propria ondata migrato-
ria, proveniente soprattutto dal Marocco e dagli altri paesi del
Maghreb, agli inizi degli anni ’90 si aggiungono i primi grup-
pi consistenti di migranti provenienti dall’Africa subsahariana:
un’immigrazione, quella di colore, certamente più “visibile”
che, per la prima volta, inizia a destare allarme sociale. Non
si parla ancora di delinquenza; quello che spaventa è soprat-
tutto il dopo: un rapporto della fondazione Corazzin di Vi-
cenza (riportato il 1° aprile 1990, p. 25) ipotizza che si tratti
di un’immigrazione solo “esplorativa”; nei paesi di provenien-
za si starebbe già preparando una seconda ondata, composta
dai familiari dei primi migranti e da chi seguirà il passaparola.
“Non sono di più, sono cambiati”, titola un servizio del 2 set-
tembre 1990 (p. 26): «gli ultimi arrivati hanno in media meno
di trent’anni, arrivano direttamente in Veneto attratti dal “tam
tam” dei connazionali, hanno scolarità più bassa di chi li ha
preceduti […] il 40 per cento non ha precedenti esperienze di
lavoro, né qualifica professionale. Sono soprattutto africani,
maghrebini, senegalesi e provenienti dal Golfo di Guinea. So-
no in prevalenza uomini e musulmani». Il 90 per cento dei
nuovi arrivati è senza fissa dimora, moltissimi senza docu-
menti.
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L
o abbiamo visto fin dal primo capitolo: la difficoltà di
trovare un’abitazione è un problema comune per tutti i
migranti, dai primissimi studenti stranieri presenti a Pa-
dova fino ai nostri giorni; nei primi anni ’90 però, con l’au-
mentare del numero degli stranieri, il problema raggiunge di-
mensioni sempre più gravi e inquietanti. I nuovi arrivati sono
spesso senza mezzi e senza documenti; la popolazione reagi-
sce chiudendosi: molti sono costretti a sistemazioni di fortuna
– case o edifici abbandonati, sotto i ponti oppure semplice-
mente per strada –, molti ancora si ammassano nelle poche
abitazioni disponibili, ma in questo modo contribuiscono a
generare ancora più allarme nei residenti.
Ora, tra le prime a percepire il disagio ci sono le parroc-
chie, vere e proprie “antenne” della Chiesa sul territorio. Che
cosa succede? In una situazione del genere, in un paese so-
stanzialmente impreparato – quando non ostile – sono tanti,
e non solo i cattolici, a rivolgersi alla Chiesa per un aiuto. E
le parrocchie, pur con molte difficoltà e con qualche differen-
za, rispondono. L’inizio di questo nostro viaggio negli anni
’90 è un ampio reportage, pubblicato il 21 gennaio del 1990
(pp. 14-15: “Due comunità dell’Alto Vicentino e l’accoglienza
dei terzomondiali”): le due pagine, firmate da Lorenzo Bru-
nazzo, rappresentano il primo grande servizio sulle condizio-
ni dei lavoratori immigrati, e segnano un punto di svolta nel
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primi segnali del disagio montante arrivano dunque dalla
provincia; di lì a poco l’“emergenza casa” scoppierà però
anche a Padova. I primi ad accorgersene sono gli opera-
tori della Cucine popolari (11 aprile 1990, p. 25), la struttura
di via Tommaseo che dal 1882 assiste i poveri e gli emargina-
ti della città: «quanto potranno resistere, senza avere un tetto?
– si domanda suor Lia Gianesello, elisabettina e responsabile
delle Cucine – o troviamo un tetto per le centinaia di terzo-
mondiali presenti oggi a Padova, o, tra qualche mese c’è il ri-
schio che sia già troppo tardi. [...] il 95 per cento delle perso-
ne che vengono da noi a mangiare passa la notte alla stazio-
ne. Alle 11 di sera la polizia li allontana dalle sale di aspetto:
c’è chi dorme fuori, chi prova a tornare dentro per poi essere
di nuovo allontanato».
Alla fine di settembre del ’90 scatta la prima di una lunga
serie di “emergenze casa”, che ciclicamente si ripeteranno ne-
gli anni a venire soprattutto con l’arrivo dei mesi invernali; in
particolare l’attenzione della città si concentra su quello che
accade presso chiesa di San Gregorio Barbarigo, a Padova nel
quartiere San Carlo, dove sono oltre 100 i nigeriani che di
notte dormono sotto il porticato del centro parrocchiale (30
settembre 1990, p. 13: “Dormono per terra vicino alla chie-
sa”). Prima queste persone dormivano tutte al Configliachi,
un istituto per ciechi che in quel momento è disabitato per
una ristrutturazione; l’11 settembre 1990 però la struttura vie-
ne sgomberata dalla polizia. Gli sfollati non hanno dove an-
dare, e iniziano a passare le notti sotto le pensiline del patro-
nato. La notizia viene ripresa anche dalla stampa locale; la si-
tuazione non è facile, ma anzi lacerante per la stessa comu-
nità cristiana: il parroco, don Nicola Boaretto, mette a dispo-
sizione i servizi igienici e al mattino distribuisce latte e panini
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C
ome si è visto, trattare di immigrazione significa per tutti
gli anni ’90 parlare soprattutto di disagio e di emargina-
zione; la diocesi, attraverso parrocchie, Caritas e il nuo-
vo ufficio per la Pastorale dei migranti, inizia assieme ad al-
cuni istituti religiosi e alle associazioni di volontariato a strut-
turarsi per rispondere alla crescente domanda di assistenza.
In quest’ambito anche la Difesa del popolo gioca un ruolo im-
portante, ospitando sulle sue pagine i notiziari “Caritas noti-
zie” e “Padova Missio”, che danno ampio risalto agli immigra-
ti e alle iniziative a loro favore.
A rappresentare un punto fermo del sistema di accoglien-
za padovano in città ci sono, oltre alla Caritas, soprattutto le
Cucine popolari: oltre al vero e proprio servizio di mensa, es-
se ospitano un centro di ascolto e orientamento ai servizi, un
ambulatorio medico e un servizio igienico-sanitario con doc-
ce, lavanderia e guardaroba: del povero si cerca di soddisfare
anche la fame di pulizia, di riposo, di affetto, di essere consi-
derato “come uomo e non come stomaco”, come dice un ve-
scovo africano (4 aprile 1993, pp. 4-5: “C’è fame di pane ma
anche di affetti”). A gestire la struttura ci sono suore Elisabet-
tine, con l’aiuto di personale laico, di numerosi volontari e di
un’équipe di medici. Negli anni le Cucine, guidate dall’infati-
cabile suor Lia Gianesello, si rivelano, oltre che un insostitui-
bile centro per la prima assistenza, un’antenna per captare le
correnti sotterranee e i moti dell’immigrazione: da qui parte
l’allarme per la prima “emergenza freddo”, quella dell’inverno
’90-91, qui si percepisce la nuova ondata di immigrazione
dall’Est (14 febbraio 1999, p. 16).
Un’altra presenza storica a Padova è quella del Cuamm, il
Collegio universitario aspiranti medici missionari, oggi Medici
per l’Africa, che la Difesa segue fin dai suoi albori. L’organiz-
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corso verrà seguito dalla Difesa del popolo quasi passo per
passo. Scopo della cooperativa è di raccogliere fondi per l’ac-
quisto e l’affitto di case, da subaffittare poi a lavoratori stra-
nieri; a tutt’oggi Nuovo Villaggio costituisce uno dei maggiori
esempi in Veneto di impresa sociale, che sempre più oggi si
dedica anche agli italiani bisognosi. Il percorso iniziato dalla
cooperativa all’inizio degli anni ’90 culminerà nel 2001 con la
nascita della fondazione La Casa onlus, un laboratorio unico
in Italia, che rappresenta il tentativo finale di coinvolgere atti-
vamente nelle attività di social housing anche le istituzioni
(comuni, province e regione Veneto) i soggetti economici
(Banca Etica e Camera di commercio).
La solidarietà però a Padova è stata fatta negli anni anche
e soprattutto da tanti piccoli e grandi gesti personali, tutti im-
portanti anche se destinati a restare sconosciuti ai più: per
rappresentarli la Difesa riprende la storia di Rosa Lorenzo,
che per sette mesi ospita Aghibu, un giovane del Mali che
non riesce a trovare alloggio (28 marzo 1993, p. 23, supple-
mento Padova Missio: “Un africano amico di famiglia”). La si-
gnora Rosa non manca certo di cose da fare: è madre di tre
figli e assiste anche la cognata disabile, vedova del fratello;
eppure, quando si è trattato di aiutare una persona, non è
stata a pesarci su: «tutte le persone sono diverse, e io cerco
Dio nelle persone che soffrono. Io mi butto, non faccio cal-
coli, do sempre senza pretendere sempre, grazie a Qualcuno
che mi ha aiutato». Per il cristiano l’accoglienza non è solo un
dovere, ma anche un’occasione di salvezza e di realizzazione
personale.
L
a storia dell’accoglienza padovana è insomma ricca di
numerosi esempi di “efficiente sollecitudine”; su una co-
sa però si può dire che il mondo del volontariato e del-
l’accoglienza trova un accordo, e cioè sul fatto che l’esistenza
di un terzo settore forte non deve costituire un alibi per il di-
simpegno degli enti pubblici: «le Cucine economiche popolari
non sono la risposta ai problemi dei senza dimora italiani e
stranieri – scriveranno ad esempio i responsabili delle cucine
(14 marzo 2004, p. 3) – sono una risposta, piccola e limitata.
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F
in dalle origini dell’immigrazione in Italia, come abbiamo
visto, le esperienze degli stranieri trovano spazio sulle
pagine della Difesa; negli anni ’90 però gli immigrati ini-
ziano anche a firmare direttamente degli articoli: il primo
esce il 5 aprile 1992 (“È lunga la strada verso l’integrazione”,
p. 25), firmato da Thiam Badara, senegalese, che nel 1996
sarà il primo presidente del Consiglio delle Comunità stranie-
re di Padova. Secondo Badara, l’immigrato, «pur partecipando
col lavoro allo sviluppo economico-sociale della città di Pa-
dova in particolare e dell’Italia in generale», si vede ancora
negati certi diritti fondamentali, primo fra tutti «il diritto ad un
alloggio, cioè alla possibilità di godere di un riposo naturale
dopo lunghe ore di un duro lavoro passate nella fabbrica; si
trova nell’impossibilità di realizzare le sue aspirazioni cultura-
li, educative, vive sempre in eterna solitudine, nella mancan-
za di un adeguata formazione sulla legislazione e nell’assenza
di ogni dialogo con la realtà culturale italiana. Tutto questo
permette di affermare che l’integrazione è ancora lontana e
che la sua realizzazione interpella tutti, dall’immigrato agli
enti religiosi, politici e amministrativi».
Il 28 marzo 1993 (p. 23 del giornale, che corrisponde a p.
7 del supplemento “Padova Missio”) è Zaid Janah, che nel
precedente anno scolastico ha portato la sua esperienza nelle
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Le parrocchie “straniere”
N
egli anni ’90 la presenza sempre più consistente di per-
sone straniere suscita nella Chiesa padovana la neces-
sità di rispondere a nuove esigenze, anche pastorali. Ci
sono innanzitutto gli stranieri cattolici, che iniziano a organiz-
zarsi in comunità a base nazionale: i primi sono i filippini,
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I
l 19 maggio 1991, in un’intervista al sindaco di Padova
Paolo Giaretta, per la prima volta l’immigrazione viene
messa in relazione con la sicurezza: «facciamo un esempio
per tutti: la presenza di centri di accoglienza degli extracomu-
nitari. [...] È facilmente immaginabile che la malavita cerchi di
innervarsi in questa realtà di precario equilibrio. Sono situa-
zioni che richiedono una capacità di gestione anche sotto il
profilo dell’ordine pubblico...». Proprio il tema della sicurezza
sarà negli anni successivi la lente deformante attraverso la
quale sarà percepita l’immigrazione.
Verso la metà degli anni ’90 iniziano a sovrapporsi le noti-
zie riguardanti l’ordine pubblico: aggressioni, spaccio di dro-
ga e scontri fra bande criminali; il termine “Bronx” comincia
a venire usato per indicare alcune zone di Padova, come ad
esempio quella vicina a via Anelli, nei pressi di piazzale Stan-
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CAPITOLO TERZO
I nuovi italiani
(2000-2008)
N
on è semplice trattare di fatti che si sono svolti a poca
distanza temporale da noi; se negli anni ’70 e ’80 l’im-
migrazione resta sostanzialmente sotto traccia, se gli an-
ni ’90 registrano l’esplosione del fenomeno – sia nelle dimen-
sioni che nella percezione da parte dei media e della società
– gli anni successivi al 2000 presentano elementi contraddit-
tori, che probabilmente bisognerà lasciare ancora decantare.
In tutti i primi anni del nuovo millennio l’immigrazione
continua a crescere a un ritmo impetuoso: se nel 1997 gli im-
migrati superano appena il milione, oggi il loro numero po-
trebbe essere addirittura quadruplicato. In appena una quin-
dicina d’anni il nostro paese arriva quasi dal nulla a una si-
tuazione comparabile a quella di altri grandi stati europei; se-
condo il dossier Caritas-Migrantes 2007 oggi l’Italia, con
un’incidenza sulla popolazione totale superiore al 6 per cen-
to, si colloca subito dopo la Germania, a pari merito con la
Spagna, nella classifica degli stati europei con la maggior per-
centuale di residenti stranieri; per quanto riguarda l’incremen-
to annuale, i due paesi mediterranei però non hanno eguali
in Europa, e superano in proporzione persino gli Stati Uniti.
Si tratta di un’immigrazione diversa da quella dei primi an-
ni ’90, con le donne che per la prima volta superano gli uo-
mini e soprattutto con tanti, tanti bambini. Se i primi flussi
migratori provenivano, come abbiamo visto, soprattutto dai
paesi del Nord Africa, poi dall’Africa subsahariana, l’immigra-
zione che va dalla fine degli anni ’90 fino a oggi è in larga
parte europea e cristiana, proveniente soprattutto dai paesi
dell’Est: nel 2007 la comunità più numerosa è quella romena,
con oltre 550 mila persone, seguita da quella albanese e da
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L
a vita degli immigrati è fatta di documenti, quindi di bu-
rocrazia, quindi di code. E di code di immigrati negli an-
ni 2000 se ne vedono in giro parecchie; titola la Difesa
del popolo del 13 gennaio 2002: “Immigrati in coda – Permes-
si di lavoro: anche quest’anno in migliaia a richiederli” (p.
17). «Ma cosa ci facevano centinaia di immigrati (arrivati infi-
ne a oltre il migliaio) in coda davanti all’Ufficio provinciale
del lavoro?», si domanda il cronista. «Erano venuti a tenere il
posto al titolare, che all’apertura dello sportello avrebbe do-
vuto presentare la richiesta di assunzione. Per lo più clande-
stini, non dovrebbero essere qui: ma se venisse accolta la ri-
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La politica locale
I
n generale l’Italia non ha mai investito sull’immigrazione;
soprattutto dopo il 2000 però qualsiasi azione a favore
degli immigrati sembra incontrare resistenza ad ogni livel-
lo, anche di amministrazione regionale. La legge Turco-Napo-
litano destina ad esempio 12,5 miliardi di lire all’immigrazio-
ne, precisamente a strategie su alloggio, accoglienza e forma-
zione? La Lega fa ostruzionismo al piano triennale della regio-
ne, che dovrebbe ripartire materialmente la posta (24 giugno
2001, p. 17: “Immigrati, arrangiatevi”). Eppure si tratta di una
cifra irrisoria, calcolando anche che nei cinque anni prece-
denti gli immigrati hanno prodotto ricchezza in Italia per 320
mila miliardi di lire, contribuendo al prodotto interno lordo
per un quota 4,2-4,3 per cento, superiore rispetto alla loro in-
cidenza sulla popolazione. Alla fine il piano verrà approvato,
ma metà dei finanziamenti saranno destinati agli “emigrati di
ritorno”, cittadini di origine italiana provenienti soprattutto
dall’America Latina. Le associazioni di immigrati e l’opposi-
zione protestano: «chi manderanno allora a lavorare nelle fab-
briche venete?» si chiede polemicamente Edgar Serrano, origi-
ne venezuelana, ricercatore presso l’università di Padova e
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L’
immigrazione tocca gli equilibri di una società, portan-
do su un territorio, assieme alle persone, nuove lin-
gue, culture, religioni; tra queste, una posizione parti-
colare spetta all’Islam, che in pochi anni supera il milione di
aderenti in Italia, e che pare persino iniziare a scalfire la com-
pattezza di una società tradizionalmente cattolica come quella
veneta. Il 12 novembre 2000, la Difesa dedica un approfondi-
mento particolare all’Islam (pp. 1-5 “Islam: integrazione pos-
sibile?”); il casus belli è dato da una dichiarazione del cardi-
nale Giacomo Biffi, arcivescovo di Bologna, che in una nota
pastorale accenna, a proposito della polemica sulla costruzio-
ne di una moschea a Lodi, a un pericolo di “islamizzazione”
dell’Italia. Ne scaturisce una polemica molto mediatizzata; il
problema esiste: all’epoca i musulmani in Italia sono circa
650 mila, provenienti soprattutto dal Nord Africa, dall’Albania
e dall’Asia, ma con una sempre più nutrita presenza di citta-
dini italiani, convertiti o di origine straniera; a loro disposizio-
ne ci sono solo circa 130 “moschee”. Allo stato italiano chie-
dono un’intesa, al pari di quelle stipulate con altre confessio-
ni minoritarie; tra le loro richieste «l’insegnamento del Corano
a scuola o la creazione di scuole musulmane parificate; il di-
ritto, per la donna, a essere fotografata sui documenti anche
con il velo; i permessi di lavoro per il pellegrinaggio alla
Mecca; venerdì festivo; diritto a partecipare alla preghiera di
mezzogiorno e di contrarre matrimoni civili con rito islamico».
Di fronte a queste come ad altre richieste gli italiani spesso si
irrigidiscono: c’è il problema della reciprocità, e poi anche
delle tradizioni culturali locali, che a volte si vedono minac-
ciate da una pretesa invadenza della comunità musulmana.
Eppure l’Islam, proprio come il Cristianesimo, è tutt’altro
che un blocco monolitico: ci sono molte differenze a seconda
della comunità di provenienza, e poi appena il 15 per cento
dei musulmani va in moschea. Qual è il vero problema lo
spiegano i parroci di due tra le parrocchie con la più forte
presenza di musulmani: «il pericolo di perdita di identità reli-
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U
no degli aspetti del problema dei rapporti con l’Islam è
senza dubbio quello della presenza dei luoghi di culto:
“Piccole moschee crescono”, titola in prima pagina la
Difesa del 25 maggio 2003. In quel momento nella diocesi ci
sono quattro luoghi di preghiera musulmani: quello storico di
Pontevigodarzere, nato nel 1997, il centro culturale “Il penti-
mento” a Borgoricco, “La Pace” a Cassola e “Falah” a Bagnoli
di Sopra. Centri culturali appunto e non moschee, perché in
realtà di moschee vere, costruite cioè secondo i dettami isla-
mici, in Italia ce ne sono appena tre: a Catania, Roma e Mila-
no. Le moschee: costruirle o no? Con fondi statali, oppure
permettendo a chiunque di fare la “propria” moschea, magari
lasciando in questo modo il campo alle organizzazioni più
fondamentaliste? Non è un problema da poco: scrive a questo
proposito il sociologo Stefano Allievi, uno dei massimi cono-
scitori dell’Islam europeo: «la moschea è il luogo centrale del-
l’Islam praticato. Pur non essendo spazio sacro nel senso cri-
stiano del termine, intorno a essa si definisce il territorio mar-
cato islamicamente. È anche il segno principale di un proces-
so di progressiva visibilizzazione dell’Islam nello spazio pub-
blico, anche europeo, che è attualmente in corso. Ed è infine
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A
lmeno una cosa negli anni 2000 diviene chiara, e cioè
che l’immigrazione è un fattore di sviluppo essenziale
dell’economia: in Veneto nel 2002 i lavoratori dipendenti
stranieri sono circa 80 mila e la quota di assunzione è salita,
secondo alcune stime, addirittura al 18,6 per cento (16 no-
vembre 2003). Le imprese continuano a essere affamate di
manodopera: iniziano addirittura dei progetti che mirano a
formare gli immigrati direttamente all’estero per poi farli veni-
re a lavorare in Italia (come il “progetto Dej”, 17 novembre
2002, p. 15 o Migralink, 28 gennaio 2007).
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alla fine non è stato fatto nulla: «sono rimasti stagionali, con
grande delusione per loro e per me – conclude Rettore – [...]
Invece di semplificare, tutto viene complicato, il procedimen-
to è assurdamente macchinoso. E lento: ho un ragazzo che è
dovuto andare cinque volte all’ambasciata a Bucarest per ave-
re i documenti. Uno stato moderno e occidentale come il no-
stro dovrebbe prevedere trafile diverse».
Un aspetto interessante, che si sviluppa proprio dopo il
2000, è l’imprenditoria legata agli immigrati; “La carica degli
stranieri artigiani” è ad esempio un titolo della Difesa del 29
settembre 2002 (p. 23): in questo periodo, secondo un’indagi-
ne dell’Unione Artigiani di Padova, ogni 10 nuove imprese
artigiane 4 sono aperte da stranieri. Qualche anno più tardi,
nel giugno 2006, gli imprenditori immigrati in Italia sono già
130.969, più 38 per cento rispetto al 2004, più di uno su dieci
residente in Veneto (9 settembre 2007, p. 5: “L’impresa parla
straniero”). Gli imprenditori immigrati non sono una novità
assoluta, il fenomeno però si evidenzia dopo il 2000; lo svi-
luppo dell’imprenditoria immigrata è senza dubbio un segno
di integrazione, della capacità da parte degli stranieri di as-
sorbire i valori della cultura veneta. In questo ambito sono i
cinesi a dimostrarsi abili, soprattutto nel commercio e nella ri-
storazione; altri gruppi organizzano piccoli negozi, phone-
center e spacci di prodotti tipici.
C’è poi tutto il settore delle costruzioni, dove gli immigrati
sono ormai la maggioranza; alcuni di loro decidono fare il
salto e si mettono in proprio: è il caso di Dragan Miljanovic,
bosniaco, che assieme al fratello gestisce un’impresa edile a
Campodarsego. 14 i dipendenti: quasi tutti bosniaci, per la
maggior parte lavoratori della vecchia impresa che i due fra-
telli possedevano in Bosnia prima della guerra (23 maggio
2004, p. 27). Tra tante storie di emarginazione e di nostalgia,
ecco finalmente la storia di un imprenditore “di successo”,
uno che in Italia ce l’ha fatta: «qui [in Italia] il lavoro è più ve-
loce e meglio organizzato – spiega Miljanovic – e con quello
che guadagno posso avere un benessere maggiore rispetto al-
la Bosnia, posso andare con gli amici a vedere una partita o
al ristorante, sentirmi partecipe di quella voglia di vivere che
caratterizza gli italiani». Dragan ha avuto la sua opportunità, e
per questo è grato all’Italia; provocato a dire che cosa possia-
mo imparare noi italiani dai lavoratori che vengono da paesi
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Le badanti
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ella prima metà del primo decennio degli anni 2000
l’immigrazione cambia; arrivano tante donne, soprattut-
to dai paesi dell’Est, Ucraina e Romania in testa: sono le
badanti. In principio a organizzare questo nuovo esodo sono
agenzie dell’Est che vendono il pacchetto “viaggio in pull-
man-visto d’espatrio-permesso di soggiorno turistico”, alla
modica cifra di quasi 3 milioni di lire. Questo è il ritratto del-
la Difesa: «non giovanissime, tra i 30 e i 50 anni, spesso in
possesso di un diploma di scuola superiore, di una laurea,
[…] [Queste donne] vendono o ipotecano quel poco che han-
no per pagarsi il viaggio per cercare un lavoro in Italia per
mantenere la famiglia e i figli rimasti in patria. Sono i “qua-
dri”, i ceti medio-alti, della Moldavia, della Romania, della
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2005, p. 3). Già nel 2005 infatti il mercato del lavoro mostra
segni di raffreddamento: a fare le badanti ci sono anzi sem-
pre più donne italiane: magari per un piccolo reddito extra,
oppure per fronteggiare una crisi economica che si fa sentire.
Eppure quelli che vengono definiti i “lavori di cura” sono
attività scarsamente riconosciute nel loro valore: ne è una
spia lo stesso termine “badanti”, col quale un tempo veniva-
no designati coloro che si occupavano di animali d’alleva-
mento, come maiali e galline. Un termine alternativo ci sareb-
be: “assistente familiare”, «ma è una battaglia persa – spiega
Castegnaro – quando alla figura verrà riconosciuta una mag-
giore professionalità, sicuramente cambierà da solo. Attual-
mente si riconosce loro solo un compito di basso profilo, il
“badare”, e la si assimila a quella che era una volta la servitù
domestica» (ivi). Spesso i lavori di cura si trovano confinati
nell’ambito del lavoro nero: «[dopo la regolarizzazione] molte
donne sono subito ritornate in un’irregolarità lavorativa –
spiega don Bruno Baratto, curatore del dossier Caritas 2005 –
perché mantenere in regola una figura di questo tipo è esoso
per molte famiglie» (ivi). Lo stato del resto non contribuisce a
rendere le cose più semplici: nel numero del 18 dicembre
2005 vengono enumerati sei diversi adempimenti per assume-
re una badante straniera, tra denunce e comunicazioni a Inps,
Inail, comune, regione e autorità di pubblica sicurezza, oltre
a contributi piuttosto pesanti a carico del datore di lavoro. In
compenso sono disponibili dei finanziamenti statali, ma per
essi bisogna fare tre distinte domande: due alla regione, più
una all’Ulss, anche se a essere corrisposti sono sempre dei
fondi regionali. L’immigrazione insomma è ancora una volta
specchio delle difficoltà della burocrazia in Italia: spesso usa-
ta come forma di dissuasione, piuttosto che per attuare i dirit-
ti dei contribuenti e dei cittadini.
Col decreto flussi del 2006, su un totale di circa 80 mila
“ingressi” – di fatto, come abbiamo visto, si tratta di regolariz-
zazioni mascherate – circa 15 mila sono riservati alle badanti;
solo in Veneto però, a fronte di soli 2 mila posti disponibili,
sono 7 mila le richieste raccolte le Acli (18 dicembre 2005).
Per chi resta fuori non rimane che aspettare un anno, nella
speranza di farcela la prossima volta. Come sempre le proce-
dure si svolgono in un clima di confusione e di precarietà: i
posti disponibili vengono esauriti in pochi minuti; c’è addirit-
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La scuola
I
primi articoli sui bambini stranieri nelle scuole appaiono
sulla Difesa del popolo nella seconda metà degli anni ’90
(il 13 aprile 1997, ma soprattutto il 23 novembre 1997, p.
15: “In classe senza capire l’italiano”). I minori stranieri nelle
scuole sono il segno di un’immigrazione che si struttura e si
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P
agina 7 del 13 novembre 2005: “Cittadinanza, sfida per
le democrazie” di Monica Simeoni. Parigi – o meglio: le
sue periferie, assieme a quelle delle maggiori città fran-
cesi – brucia. Da almeno due settimane la polizia è impegna-
ta in una lotta senza quartiere con delle bande a base etnica
che controllano le banlieues, i sobborghi degradati. A guidare
la rivolta ci sono non tanto gli immigrati, quanto i loro figli e
i nipoti, nati e cresciuti in Francia e con la cittadinanza fran-
cese: si affaccia il problema delle seconde e terze generazio-
ni. I figli degli immigrati crescono nella cultura ospite, ma
spesso le loro possibilità nella società sono drasticamente in-
feriori rispetto ai loro compagni autoctoni, e questo può ge-
nerare rabbia, desiderio di rivalsa. Pochi mesi sono passati
dall’attentato di Londra, organizzato da persone di origine
pakistana, tutte nate però nel Regno Unito e provviste di cit-
tadinanza britannica; le tensioni etniche sembrano infuriare in
tutta Europa: il sogno, l’incubo per alcuni, di una società
multiculturale sembra segnare definitivamente il passo. Di
fronte all’immane problema dell’integrazione delle giovani
generazioni tutti gli approcci sembrano ormai inadeguati: il
comunitarismo inglese, che lascia le comunità straniere sepa-
rate e non comunicanti con il resto della popolazione; l’assi-
milazionismo francese, che invece propugna l’abbandono
dell’identità di origine; infine l’approccio tedesco, che vede
negli stranieri essenzialmente gastarbeiter (lavoratori ospiti),
manodopera, e che – salvo un’ultima riforma – prevede assai
difficilmente la concessione della cittadinanza. Persino negli
Stati Uniti, che fondano la loro stessa identità sul fatto di es-
sere aperti a persone provenienti dalle culture più diverse,
nel nome della libertà e dell’uguaglianza di opportunità per
tutti, il disastro dell’uragano “Katrina” a New Orleans, popola-
ta soprattutto da neri, rivela sacche di emarginazione profon-
da e persistente.
Integrazione a tappe forzate dunque, comunitarismo o se-
parazione? Di fronte a queste opzioni l’Italia preferisce non
scegliere: «il nostro paese non ha avuto chiaro prima cosa po-
teva essere l’emigrazione, e non ha chiaro adesso cosa sia
l’immigrazione – dice in un’intervista Sergio Frigo, giornalista
e saggista, direttore del mensile interculturale Cittadini dap-
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S
viluppatosi tra la fine degli anni ’90 e il 2007, quando
termina lo sgombero, il “caso” via Anelli è diventato col
tempo – a livello nazionale e non solo – sinonimo di
cattiva integrazione, di insicurezza, dei pericoli insomma con-
nessi all’immigrazione. Eppure lo spazio dedicato alla que-
stione dalla Difesa del popolo, è interessante notarlo, è relati-
vamente poco, soprattutto se confrontato con i fiumi d’in-
chiostro versato dalla stampa locale e nazionale.
Certo, via Anelli appare sulle pagine della Difesa fin dal
lontano 6 maggio 1990 (p. 32), a proposito della celebrazio-
ne, nella vicina parrocchia di San Pio X, della nona “giornata
della solidarietà diocesana”; nell’occasione si accenna per la
prima volta al fatto che la zona registra già una forte presen-
za di immigrati, soprattutto nigeriani e nordafricani. Via Anelli
sorge nei pressi di piazzale Stanga, in un territorio vicino alle
grandi arterie viarie, ma che al tempo stesso è chiuso ai lati
da un grosso ipermercato e da un centro direzionale, che
quasi lo isolano dal resto della città: quello che si rivelerà un
luogo ideale per un ghetto. Qui sorge il complesso Serenissi-
ma: sei palazzine costituite per lo più da miniappartamenti,
destinati in origine a studenti e lavoratori; poco a poco – a
causa anche delle speculazioni di alcuni – durante gli anni
’90 gli edifici vengono abbandonati dagli italiani ai nuovi abi-
tanti stranieri, disposti a pagare prezzi folli per dormire in sei,
in otto o addirittura in dieci in appartamenti di pochi metri
quadri. Col tempo la malavita approfitta della situazione di
degrado e di illegalità diffusa e si infiltra nel complesso; la
zona diventa il regno dello spaccio e della prostituzione, la
polizia non riesce a garantire l’ordine pubblico, gli italiani
scappano: nasce il mito del Bronx di Padova.
Nella creazione del “caso” via Anelli un ruolo determinan-
te è giocato dai mezzi di informazione, prima locali e poi an-
che nazionali, che giorno dopo giorno rilanciano ogni noti-
zia, contribuendo ad alimentare un clima di insicurezza. For-
se anche per questo la Difesa, che fin dall’inzio cerca di af-
frontare con equilibrio il tema dell’immigrazione, sceglie di
occuparsi relativamente poco di via Anelli; quando lo fa, non
è mai per rincorrere i quotidiani o le emittenti locali, bensì
per proporre una storia, un approfondimento, un punto di vi-
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Storie di migranti
D
are ancora una volta la parola alle persone, ascoltare le
loro storie, è forse il modo migliore di chiudere questo
piccolo viaggio in quasi quarant’anni di immigrazione a
Padova. In fondo in tutti questi anni la Difesa del popolo, più
che addentrarsi in analisi e assumere posizioni politiche, ha
cercato di fare proprio questo: ascoltare le persone, riportare
le loro esperienze. In questo il settimanale padovano è stato
coerente con la posizione della Chiesa italiana, che non ha
mai affrontato la questione dell’immigrazione da un punto di
vista ideologico, ma ha sempre richiamato l’attenzione sulle
persone immigrate: una posizione non priva di rischi, ma che
spesso anzi ha esposto la Chiesa al fuoco incrociato di chi da
una parte le rimproverava di essere troppo morbida con gli
immigrati, e di chi dall’altra la accusava di essere troppo tie-
pida nel difenderne i diritti “senza se e senza ma”.
Tony viene dal Sudan, ed è arrivato in Italia su un barco-
ne. Scappava dal suo paese a causa della guerra e della per-
secuzione alla quale vengono sottoposti i cristiani (27 luglio
2003, pp. 2-3). La sua storia merita di essere raccontata con le
sue parole: si inizia con lo sbarco a Lampedusa, seguito dalla
permanenza in un centro di raccolta; dopo tre settimane gli
danno «265 euro, qualche indirizzo tra i quali quello della Ca-
ritas di Padova e il consiglio di partire per lasciare posto ai
nuovi arrivi». Alla fine Tony si ritrova in via Anelli: «Per voi
padovani […] può sembrare un problema. Per me è significa-
to solidarietà e una parziale soluzione ai miei problemi. Così
ho avuto un letto, un pasto al giorno offertomi dalle cucine
popolari e un lavoro illegale che voi chiamate “vucumprà”. I
soldi li ho spesi subito quasi tutti per una falsa dichiarazione
di ospitalità necessaria in questura per rinnovare il permesso
di soggiorno». Il racconto di Tony prosegue ricordando anche
molte umiliazioni subite. L’ultima in un comando dei vigili in
un piccolo comune del Bolognese: «mi interrogano in italia-
no. Non capisco niente, rispondo in inglese, cerco di spiega-
re che non ho alternative, non capiscono. Mi requisiscono il
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Postfazione
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Maurizio Trabuio
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Indice
PREFAZIONE pag. 3
AL LETTORE pag. 6
CAPITOLO PRIMO
La preistoria dell’immigrazione (1970-1990)
Gli inizi: studenti ed esuli pag. 7
CAPITOLO SECONDO
Come divenimmo “Lamerica” (1990-2000)
L’immigrazione negli anni ’90 pag. 27
Il disagio e le risposte:
le istituzioni e le associazioni pag. 35
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CAPITOLO TERZO
I nuovi italiani (2000-2007)
L’immigrazione nel 2000 pag. 50
Le badanti pag. 67
La scuola pag. 70
POSTFAZIONE pag. 83
INDICE pag. 86
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