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SAGGI0
SUI

PRINCIPI

DEL DIRITTO

FILOSOFIC0

SULLA TEORIA DEL DIRITTO PENALE

SAGGIO
PRINCIP J FONDAMENTALI

IN

PARTICOLARE

SULLA TEORIA DEL DIRITTO PENALE


DI

ALESSANDR0 DE GIORGI
D o T To RE

IN

F IL o s o FIA

IN

AMBE

LE

-G3,3 e

PAD0VA
DALLA TIPOGRAFIA SICCA

I 8 52

LEGGI

AVVERTIMENTO PRELIMINARE
DELL'AUTORE

impegno che abbiamo assunto, sono gi dodici anni,

di dare compimento alla edizione da noi diretta delle

Opere di Romagnosi con uno scritto nostro, diede oc


casione alla presente operetta, la quale, sebbene in molti

luoghi si riferisca alle dottrine del Romagnosi, tuttavolta


pu e deve stare da s.
L'indole di questo Saggio spiegata nella Introdu
zione premessa a quella parte di esso che abbiamo pu
blicata nell'ultimo fascicolo della Raccolta delle Opere
del Romagnosi. Credemmo quindi necessario conservarla
anche in questa separata edizione.
Avvertiamo per che la Memoria sui fondamenti del
Diritto penale, di cui fatto cenno nella Introduzione,
e in generale tutto quello ch'era necessario all'integrit
del lavoro, e fu omesso nel fascicolo che compie l'accen
nata Raccolta per non ripetere cose gi dette, venne in

serito in questa separata edizione, corretto ed accresciuto.

!
Non oportet nos adhaerere omnibus quae audimus et legimus, sed

examinare debemus distinctissime sententias majorum, ut addamus quae


eis defuerunt, et corrigamus quae errata sunt, cum omni tamen modestia
et excusatione.
Rogerus Baco, Opus majus, Pars I. Cap. VII.

INTRODUZIONE
PREMESSA A QUELLA PARTE DEL PRESENTE LAvoro CHE VA UNITA
ALLA COLLEZIONE

DELLE OPERE DI G. D. RoMAGNosi

Allorch abbiamo intrapreso la edizione delle Opere di Romagnosi,


che, in mezzo a gravi difficolt progredita, tocca ora finalmente al

suo termine, promettemmo di chiuderla con uno scritto, nel quale,


riassumendo le dottrine fondamentali, le idee-madri, intorno a cui
si aggira e poggia tutto l'edificio degli svariati lavori usciti dalla

feconda sua mente, si mostrasse qual frutto potrebbe trarsene ai


progredimenti delle scienze morali e politiche.
Allo scopo di questo lavoro sopperiscono in parte, e assai meglio
di quel che avessimo potuto, le Lettere dell'Autore stesso, che non
avevamo tra mani al principio, e che si leggono nel Vol. III. pa
gina 497.

Altre cose, le quali da prima ci eravamo proposti di esporre in


questo Saggio, ci convenne in sguito venir dicendo qu e col
nelle molte note che, a cagione di circostanze sopravenute nel corso
della stampa, erano domandate dal fine al quale nel piano propo
stoci dovevano concorrere tutti i nostri lavori intorno a queste

Opere. Di qu che il presente scritto dovette per necessit riuscire


pi breve, e alquanto diverso dal primitivo concetto.

L'altra cagione, che a ci contribu non poco, si fu l'avere noi


aggiunto al Vol. IV., che contiene le Opere sul Diritto penale, una

nostra Memoria sui fondamenti di questo Diritto, sui difetti della


teoria della difesa indiretta professata da Romagnosi, e sul modo di
correggerli, dietro le tracce segnate da lui medesimo nella Genesi

del Diritto penale. Dalle quali, come abbiamo detto nelle note e mel

VIII

INTRODUZIONE

l'Opuscolo ora accennato, ci parve risultare una teoria fondamen


tale del diritto di punire diversa da quella della difesa indiretta,
ma contenuta in germe nella stessa Opera del Romagnosi. Ad anti

cipare la publicazione di quella parte del nostro lavoro che alle


basi del Diritto penale si riferiva, c'indusse il timore che il com

pimento di una intrapresa circondata da tanti ostacoli, e chiedente


un tempo assai lungo, potesse essere attraversato da eventi sinistri
e da fatti indipendenti dalla nostra volont. L'importanza capitale
che ha per s la teoria del diritto di punire, e l'essere la Genesi
l'Opera principale del nostro Autore, ci consigli a procurare che
fosse, in ogni evento, almeno compiuto quel tanto che a questa dot
trina si riferisce, anche perch degli scritti dell'Autore sul Diritto

penale se ne faceva una separata edizione; come si fece poi di al


cune altre Opere sue.

Il metodo da noi seguito nel lavoro parziale test accennato mo


stra che non avemmo in animo allora, n abbiamo adesso, una nuda

esposizione storica dei principi e delle dottrine professate dall'Au


tore, che prendemmo ad esaminare. L'Indice delle materie serve

opportunamente a quest'uopo. Le Idee fondamentali sopra le basi


del diritto di punire, che stanno nel Vol. IV., e questo Saggio, del
quale dovrebbero formar parte, furono destinati a compiere l'as
sunto propostoci nelle note, le quali, sebbene varie di argomento e
di forme, pure nel loro insieme dnno chiaramente a vedere (e lo

dicemmo gi senza velo), come nello studio di queste Opere ci fos


simo industriati di sceverare, quanto era da noi, le molte dottrine
vere ed utili dalle inesattezze e dagli errori; e quelle correggere, e

di questi rendere accorto il lettore perch li evitasse, facendosi


scudo il pi delle volte delle migliori sentenze del medesimo Autore,
che ponemmo loro a rincontro.

Chiunque, studiando attentamente le Opere del Romagnosi, abbia


fatto ragione allo stato in cui egli trov le scienze morali, e in par
ticolare quelle che pi direttamente risguardano la vita civile; e

all'influenza ch'esercitano sopra gli scrittori le circostanze generali

INTRODUZIONE

Ix

de'tempi in cui vivono, e le speciali che pi da vicino li toccano;


si avvide che tra per questo, tra per l'indole della mente sua pro

fondissima, ed abbracciante tutta la moltiplicit delle relazioni uma


ne, nessuna provincia del sapere giuridico e politico egli lasci in
esplorata; ma ad un tempo non diede un corpo completo di dottri
na, che esaurisse il vastissimo campo della civile filosofia.
Niun lavoro comprensivo un corpo d'intiera dottrina io lascio,
ma solamente vedute fondamentali, la pi parte concernenti la ci

vile filosofia. Cos scrive di s il Romagnosi nelle sovraccennate


Lettere a G. P. Vieusseux (Vol. III. pag. 497).
Volendo pertanto soddisfare ora agl'impegni contratti all'atto di
intraprendere questa edizione, per quel poco ch' necessario, oltre
il gi fatto sotto forma di annotazioni od altrimenti, ci sembra dover
toccare per sommi capi i fondamentali principi delle scienze giuri
dico-politiche, in aggiunta a quel poco che ne abbiamo detto nella
Memoria inserita nel Vol. IV. A ci destinata la Parte I. di questo

Saggio, dovendo la Parte II. servire a svolgere un po' pi distesa


mente le dottrine del Diritto penale in relazione alle loro applicazioni
alla codificazione criminale.

I limiti e le condizioni cui deve servire questo lavoro, e special

mente la Parte I, non consentono che abbracci il vasto campo del


l'ordine morale, considerato in tutte le sue ramificazioni; e nem

meno che assuma le proporzioni di un Trattato completo delle scien


ze che riguardano pi da vicino la vita civile, e le relazioni giuri
diche e politiche degli uomini. S piuttosto ci conviene venir discor
rendo delle principali dottrine risguardanti le leggi naturali del
l'ordine giuridico e politico, considerato siccome un ramo dell'or
dine morale universale, in guisa che i principi fondamentali, risul
tanti dal complesso degli scritti del Romagnosi, prestino l'occasione

al libero sviluppo degli argomenti; che escluda la servile ripetizione


delle altrui sentenze, e serva a dare un'idea il meno che si possa
imperfetta dell' importanza degl'insegnamenti e delle dottrine di

lui; ed insieme a mostrare di qual frutto possa essere lo studio im

INTRODUZIONE

parziale ed attento delle sue Opere, accompagnato da quella ragio


nevole libert di giudizio che rifugge dal farsi schiava delle altrui

opinioni, e profitta financo degli errori, traendone occasione di sta


bilire dottrine diverse da migliori fondamenti dedotte.

Nella quale bisogna di quanto aiuto possa tornare la preparazio


me della mente merc il metodo severo di cui l'Autore nostro ci la

sciava un esempio splendidissimo, nessuno v'ha che no'l vegga. E

queglino stessi che pur sanno discernere e notare i difetti innega


bili che s'incontrano negli scritti voluminosi di lui, sia rispetto ad
alcune sentenze, sia rispetto all'esposizione, sono pur costretti a
riverirlo qual sommo maestro da questo lato. N le forme orato
rie, n molto meno le vaporose declamazioni servono punto al pro
gredire delle scienze; ma s il ben proporre gli argomenti, le ac
curate distinzioni, le solide dimostrazioni, le ordinate deduzioni,
onde la mente del lettore ad un tempo istrutta ed esercitata in

quella, com'egli la dice, ginnastica intellettuale, senza cui vien man


co ogni solido frutto delle scientifiche trattazioni.
Si sono notate nel Romagnosi da suoi critici frasi improprie,

proposizioni inesatte ed erronee, e qualche contradizione. Ma i pregi


del suo metodo, lontano dalla vacuit delle forme, e da quella leg

gerezza cui repugnava la profonda sua mente, nessuno pot seria


mente sconoscerli.

Fino a qual punto sussistano le pecche onde fu accagionato, e


come si possano talora emendare o chiarire certe proposizioni,
eziandio col paragone de luoghi analoghi, fu detto e mostrato a
prova nelle molte note sparse qu e col nella nostra edizione.
A segnare le tracce del breve lavoro che dobbiamo compiere ci
d'uopo qu ricordare un fatto avvertito da tutti quelli che studia
rono le Opere del Romagnosi, e che toccammo di volo altrove: es

sere cio tutti gli scritti suoi diretti da un'idea unica, e rivolti ad
un solo scopo; ci che imprime ad essi un carattere mirabile di
unit in mezzo alla somma variet di argomenti discorsi. E ci for
ma propriamente il distintivo dei grandi ingegni, dominati, come

INTRODUZIONE

XI

ben dice Lerminier, dall'idea dell'unit, per modo che la perse


guono senza posa, e unificano quanto loro si offre allo spirito. Tutto
si dirige alla civile filosofia ed all'incivilimento; e ci era da lui

stesso avvertito specialmente nella Introduzione alla Ragione civile


delle aque e nella Prefazione al Robertson, dove d ragione del per
ch egli asserisca che l'Opera sull'India antica sia il compimento
delle altre due, la Storia d'America e la Storia di Carlo V.

Egli perci che il frutto dello studio posto in queste Opere non
si tragga principalmente dal far proprie le proposizioni o dottrine
particolari dell'Autore, ma piuttosto dall'insieme delle sue vedute,
e dal modo onde procede l'analisi e l'esposizione degli argomenti
che tratta negli svariatissimi suoi lavori.
Le proposizioni e dottrine particolari si possono ammettere o ri

gettare, secondoch sembrino o no esatte, o erronee, o non dimo


strate, o non conformi ai pronunciati della scienza progredita. Ma
le idee-madri, l'intento finale, il metodo s'insinuano nella mente

quasi diremmo senz'avvedersi; e ne fanno prova le Opere recenti,


che sebbene si allontanino da molte opinioni del Romagnosi, sebbene
talvolta lo combattano anche esageratamente; tuttavia, chi ben guar

di, mostrano evidentemente i segni dell'impulso dato da lui alle


menti de' suoi medesimi avversari, e il profitto che questi, pure
combattendolo, ne ritrassero.

E questo centro comune, al quale mettono capo tutti gli scritti


del Romagnosi, e ch'egli diceva essere la filosofia civile, facendogli
guardare la societ umana, i suoi elementi, i suoi fini, le sue rela
zioni come un tutto armonico, lo condusse a mettere la base logica
dell'edificio giuridico-politico negli attributi essenziali dell'umanit

e nei rapporti che ne derivano, deducendo da questo primo fonda


mento tutti i diritti e doveri degli uomini nelle esterne loro relazio
mi individuali, civili e politiche.
E poich le idee di diritto, di dovere e di legge importano quelle

di fini e di mezzi, e quindi d'ordine, il sommo vertice dell'edifizio


si appoggia a Dio, supremo ordinatore; onde quella continua ricor

XII

INTRODUZIONE

danza della Providenza suprema, alle cui sapientissime disposizioni


l'uomo deve conformare la sua condotta eziandio nell'ordine este

riore degli umani rapporti: senza di che si fanno sentire gli effetti
delle tremende sanzioni, custodi e vindici providenziali dell'offesa
giustizia.

Da questa sublime idea, nella quale si riassume il primo fonda


mento di tutti gli scritti del Romagnosi, ne segu ch'egli non am
mettesse il patto sociale come un fatto primitivo originante la socie

t umana; che riprovasse le soverchie astrattezze nel determinare i


diritti nascenti dai rapporti puramente individuali fra gli uomini,
dacch questi non possono stare nel fatto disgiunti dai rapporti so
ciali; che proclamasse l'unit del diritto, e la subordinazione quindi
del positivo al naturale o razionale; che sebbene considerasse la pe
na come una indiretta difesa, non la separasse del tutto dall'idea di
retribuzione o sanzione; che trovasse cos connesso il diritto e la
politica da stabilire la subordinazione di questa a quello, per modo

che utilit non potesse essere se non nella giustizia, n la direzione


delle stesse bisogne economiche possa essere separata dalle viste

della giustizia, escludendo con ci ogni arbitrio nell'amministrazio


ne; che i danni derivanti da un cattivo regime politico ed econo

mico considerasse come sanzione del violato ordine providenziale


della giustizia sociale; che inalzasse la Statistica al grado di scien
za delle condizioni di fatto dell'incivilimento di un dato popolo;
e che infine la Giurisprudenza positiva trattasse con viste larghe
ed elevate.

Tutta la dottrina di Romagnosi, ridotta alla sua ultima e pi sem


plice espressione, ci parve consistere in una profonda induzione, che

dai fatti i pi ovvi e costanti che si osservano nell'umana natura,


sia individuale o sociale, e dalle relazioni naturali, e non gi positive
o arbitratrie, che ne derivano, trae i principi che devono presiedere
al governo dell'umana famiglia nell'ordine della civile convivenza.
Ma se da questo lato si pu collocare il Romagnosi fra gli empi
risti, non si pu disconoscere quanto sia grande la distanza che lo

INTRODUZIONE

XIII

separa da coloro che vogliono fabbricare la scienza del Diritto so


pra il nudo fatto, ossia sopra principi materiali.
In primo luogo non sono i fatti particolari contingenti e separati
ch'egli assume come primo dato delle sue induzioni; ma bens i fat
ti costanti, generali e complessivi, che sono l'espressione o manife
stazione degli attributi e delle facolt inerenti per natura nell'uomo,
e quindi irreformabili dal suo arbitrio.
In secondo luogo questo studio dei fatti non mai scompagnato
dalla ricerca delle cause assegnabili, e quindi dei principi razionali

teorico-pratici. Perci egli va sempre in traccia della scienza nor


male o magistrale, cio dell'ordine di ragione naturale, come mo

dello o tipo al quale vuol essere conformata la condotta giuridica


degli uomini e delle societ, perch il fine sociale non sia frustrato,
e l'uomo ottenga quella pace, equit e sicurezza che formano il fine

providenziale della societ nell'ordine esterno e temporale degli


umani rapporti. Quindi eziandio negli argomenti spettanti al regime
positivo degli Stati vediamo da lui separata la ricerca della condi
zione di fatto dalla ricerca di ci che prescrive l'ordine di ragione;

e per usare le sue frasi, distinte le leggi come sono dalle leggi come
devono essere.

E non piccola lode si meritata il nostro Autore per avere sa


puto evitare gli eccessi ai quali poteva condurlo l'influenza delle
dottrine del secolo in cui pass i primi suoi anni: il sensismo e il
materialismo in Filosofia, e il conseguente utilismo nella Morale e
nel Diritto; e la favola del contratto sociale come titolo costitutivo
della societ civile.

Le tracce delle dottrine sparse nei libri ch'erano pi in voga a'


suoi giorni, voi le trovate ad ogni pi sospinto in quasi tutti i suoi
scritti. Ma se voi lo vedete sensista in quanto prende le mosse dal

fatto della percezione, voi lo trovate pi ancora spiritualista; s'egli


vi parla dell'interesse, non lo considera come termine dell'azione,
ma come movente dell'azione: per cui l'interesse si riduce in so
stanza alla tendenza necessaria alla felicit o al bene in genere; e

x1v

INTRODUZIONE

l'utile o il danno all'effetto o sanzione naturale della legge d'ordine


morale osservata o violata: effetto che segue inevitabile come ulti
mo risultato complessivo, sebbene ad ogni singola azione non sem

pre immediatamente si manifesti, o possa apparentemente mostrarsi


l'opposto. Utilit o danno non gi in senso materiale e relativo ad
ogni singolo individuo o ad ogni atto speciale, ma relativo alla legge
morale e giuridica, all'ordine conservato o turbato, e quindi al fine
della societ e degl'individui che la compongono, conseguito o man
cato. E per anche in lui vi si offre una splendida prova di quella
dote preziosa che distingue gl'ingegni italiani, per la quale le dot
trine esagerate ed assurde non possono fra noi mettere profonde ra
dici, n formare una scuola; di che l'empirismo italiano rimase
lontano dal materialismo, che ne fu la conseguenza specialmente
nella scuola francese del secolo passato.

E non solo il Romagnosi si tenne lontano dal materialismo, ma


eziandio seppe emanciparsi dall'influenza dello stesso empirismo e
sensismo nelle sue estreme e non ammissibili conseguenze; per lo
che egli fu veramente il razionalista o spiritualista delle scienze mo

rali, ad onta di tutta la sua insistenza sulle verit positive o di fat


to, e sulla pratica applicazione. Il che parrebbe un'assurdit, ove
non fosse vero che i metodi rappresentano il genere e le varie loro
applicazioni, le specie; e che partendo da una stessa strada si pu
arrivare ad una meta assai diversa (1).

E ci piace notare anche qu, siccome codesta lode fu data al Ro


magnosi da uno de' suoi pi forti oppugnatori, il Taparelli, che dice
aver egli portato i primi colpi alle dottrine del secolo passato (2).
Dal che si pare, che sebbene l'oscurit e le inesattezze innega

bili, che talvolta s'incontrano nelle Opere del Romagnosi, abbiano


(1) Poli, Supplimenti al Manuale della Storia della Filosofia di G. Tenne
mann. Vol. III. S 427, pag. 782. Milano 1836. Sulla Filosofia di Romagnosi
si veggano i SS 432 e seguenti nello stesso Volume, pag. 790 a 808.
(2) Saggio teoretico di Dritto naturale, appoggiato sul fatto. Tomo II.
pag. 163, Nota LXIII. Napoli 1844.

INTRODUZIONE

XV

prestato occasione ad amare censure contro di lui; pure queglino


stessi che lo avversarono, studiandolo attentamente, hanno veduto
in che stia propriamente la sostanza delle sue dottrine, che sono la
base del grande edificio della civile filosofia.

Che se a noi mancano l'ozio onesto e il forte ingegno necessari


ad inalzarlo compiutamente, scegliendo il meglio de'materiali da lui
preparati, tenteremo almeno di segnarne le membra principali, per
modo che questo breve lavoro contenga la sincera sposizione del

nostro modo di pensare intorno alle pi gravi questioni che la filo


sofia del Diritto chiamata a risolvere; e senza addietrarci servil
mente a tutte le sentenze del Romagnosi, possiamo almeno racco

gliere qualche frutto dallo studio posto nelle Opere di lui e d'altri
posteriori; e mostrare a quali risultati ci abbia condotto la disami
ma imparziale delle sue dottrine. Lavoro forse non privo di qualche
utilit ora che nelle Opere sue, come in ricca miniera, i cultori delle

morali dottrine con premura sempre crescente vanno ricercando le


norme della vera vita civile.

PARTE I.
-e

RICER CIE
IN T 0 R N 0

AI PRINCIPJ

DEL

DIRITTO

FILOSOFICO

ALLE SUE RELAZIONI COLLA MORALE

CAPO I.
Possibilit e necessit di determinare l'idea precisa del diritto.
Dottrine diverse. Canone fondamentale.

V'anno

nella mente dell'uomo certe idee, la cui realt obbjettiva si


costretti ad ammettere irresistibilmente, ma che presentano le pi
gravi difficolt, quando si cerchi di trovarne la genesi intellettuale, fis
sare le note onde risultano, e darne la vera definizione.

Tutti gli scrittori di Giurisprudenza e di Filosofia morale, tutti i


Codici, tutti gli uomini parlano del diritto: provatevi a dire che non vi
nessun diritto per l'uomo, ed avrete contro di voi la voce di tutto il
genere umano dotto ed indotto; e di pi, la voce della vostra coscienza,
che vi avvertir della contradizione fra l'asserto della vostra parola e il
convincimento della vostra mente.

Ma ove si domandi che cosa sia propriamente il diritto, quali i suoi


caratteri, gli elementi dai quali risulta la sua idea; in una parola, la sua
definizione; vengono innanzi tante e tanto varie risposte, che si rende
sommamente difficile il formarsene una nozione chiara e distinta.

A chi si ponga con animo riposato ad investigare a fondo questo grave


subbjetto, si offrono spontanee due ricerche preliminari: egli possi
bile giungere ad una nozione distinta del diritto, la quale si possa ra
gionevolmente sperare che sia per essere ammessa dai pensatori di buo
na fede, che cercano imparzialmente il vero? egli necessario il
mettersi a questa spinosa ricerca?
Per quanto gravi sieno le difficolt di codesta indagine, non ci sem

brano tali da togliere ogni speranza di un buon risultato. La nozione del


diritto v' in tutti: perch la riflessione non potrebbe renderla distinta,
e formularla scientificamente? Tutto sta nel trovare la via per giungere
con sicurezza a questo risultato. questione di metodo per giungere ad

una chiara e precisa definizione, ma non gi di ricerca per iscoprire un


ente ignoto.

E che sia pura questione di metodo lo si vede facilmente, quando si


consideri che il difetto pi comune nei Trattati del Diritto filosofico con
siste nel porre come carattere essenziale costitutivo del diritto una o l'al

SAGGIO

li

tra delle nozioni che hanno qualche attinenza coll'idea del diritto, senza

per esprimerla completamente.

Che poi tale ricerca sia necessaria lo dimostra l'importanza e l'esten


sione pratica delle applicazioni dell'idea e della norma del diritto, che
occorrono continuamente nella vita civile. Ove non si giunga a stabilirla

sicuramente, essa rimane vaga, indeterminata quanto lo l'opinione; e


ciascuno formandosene una nozione propria e soggettiva, ne trae quelle

conseguenze e quelle norme pratiche che pi gli talentano, secondo il


suo modo di vedere, o l'impulso delle sue passioni.

Sia pure che in certi argomenti meno complicati, e nei quali le appli
cazioni dell'idea del giusto sono immediate, siano facili a correggere

gli errori cui potrebbe condurre un falso principio in diritto: non per
ci meno vero che in altre materie pi complicate, e dove le applica
zioni sono pi remote, la mancata nozione precisa del diritto dando luo

go a disparati sistemi, conduca a risultamenti all'intutto opposti e con


tradicenti; fra quali non si potr mai scegliere con sicurezza e senza
spirito di partito, ove non sia prima di tutto stabilita quella nozione
normale suprema del diritto, merc cui sia dato discernere la verit fra
le opposte sentenze intorno alle pi ardue questioni che la scienza giu
ridica dee svolgere e decidere, anche in servizio di altre discipline che
sono con essa strettamente vincolate e connesse.

Oltre di che, gli errori predicati da quelli che, poco sentendo la for
za dei morali precetti, mettono in questione eziandio le pi semplici ap

plicazioni dell'idea del giusto, vogliono essere combattuti. E come si


possono combattere senza porre innanzitutto la genuina idea della giu
stizia e del diritto come base fondamentale della dimostrazione delle ve

rit opposte a questi errori?


Forse non fu mai tanto necessario, come a d nostri, stabilire e difen

dere i principi dell'onesto e del giusto, che sono la base della societ e
dell'ordine civile; ma la dimostrazione non pu essere trionfante senza
una vera e compiuta idea del diritto, che le presti un solido fondamento.

Senza ci, in luogo di conseguire la evidenza atta a persuadere gli one


sti, e premunirli contro le seduzioni di sofismi appariscenti, ogni discor
so si ridurrebbe facilmente allo sfoggio di frasi e di declamazioni inef

ficaci a persuadere, e che talvolta, specialmente in certi argomenti assai


delicati e difficili, mettono le opinioni di un partito in luogo di quelle
giuste vedute della scienza, che fanno toccare con mano gli errori, e
mostrano il torto e le esagerazioni, da qualunque parte si riscontrino.

PARTE I.

Sia pure che talvolta certe opinioni per lo meno esagerate si spaccino
per vere in buona fede e con rette intenzioni: rimarr sempre indubitato
che le buone intenzioni non bastano a stabilire dottrine vere e fruttuose,
ma ci vogliono ancora i buoni e giusti principi e le rette applicazioni.
Disprezzare i principi, specialmente in opera di Giurisprudenza;
spacciarli, come da taluni si a, per inutili astrattezze, che non servono

punto al governo pratico della societ; lo stesso che pretendere di


camminare sicuri in mezzo alle tenebre senza la scorta di un lume;

porre l'arbitrio umano in luogo delle norme dedotte dall'ordine provi


denziale. Certamente la sola teoria nelle dottrine morali non basta;
necessario ridurla in atto, tenendo conto di tutte le umane relazioni, e
non limitandosi ad un'astratta idea del diritto puramente individuale,
che non pu rettamente applicarsi a tutte le naturali necessit e rela
zioni della convivenza civile, perch il vero diritto naturale abbraccia

anche queste, anzi in queste principalmente si verifica e si compie. Ma


perch i soli principi astratti, e non rattemperati dalle esigenze razio
mali della vita civile, non bastano a sancire buone leggi e governar bene,

non ne segue perci che siano inutili. Si ricorre, vero, al Codice delle
leggi positive quando si tratta di determinare i diritti, di tutelarli, e di
punire chi gravemente li offende; ma non sono perci inutili le dottrine,
senza delle quali non si possono fare i buoni Codici, n intenderli, n
applicarli rettamente.

Purtroppo questo pregiudizio, sprezzatore dei principi, fu cagione


che le scienze morali venissero in mille guise manomesse, sconosciute,

vilipese, tanto da chi indegnamente fece mostra di professarle, negando


omaggio alle eterne verit da cui scaturiscono, quanto da chi pratica
mente tent di far prevalere la passione e l'interesse alle norme della
giustizia e alla voce degli onesti e leali, che ne vogliono mantenere in
colume la dignit e la possanza, perch le buone leggi positive siano
meglio rispettate dall'uomo, persuaso, com'egli dev'essere, che non sono

l'effetto dell'arbitrio o della forza altrui, ma veramente una espressione


degl'immutabili principi dell'onesto e del giusto, applicati al regime

della societ civile, pe'l vero vantaggio dell'umanit, la quale non pu


trovar pace, equit e sicurezza fuori della via dell'onesto e del giusto,
conforme alla voce della ragione e alla volont del Creatore.
Ma perch la scienza del diritto riesca vera nelle sue dottrine, e

quindi utile all'uomo nelle sue applicazioni, conviene fondarla sopra

una giusta idea del diritto, attinta alla fonte propria delle razionali dot

SAGGIO

trine giuridiche, che sono gli attributi essenziali dell'uomo, e i rapporti


necessari che ne derivano; in modo per che non ripugni all'unit del
l'ordine morale.

Perci innanzi tutto determineremo le idee di rapporto, di ordine, di


fini e di mezzi, cos in generale come in particolare, rispetto all'ordine
morale; dalle quali ricerche ci verranno in chiaro le idee del dovere e
della legge morale, del dovere e della legge giuridica, e finalmente del
diritto, come esercizio facoltativo della indefinita attivit umana entro i
limiti segnati dalle accennate due leggi.

Questo metodo, fondato sui principi di ragione e sui fatti naturali,


crediamo che sia il solo il quale possa condurre alla precisa nozione
del diritto, e ad un sistema medio fra le discrepanze di molte scuole;
i cui vizi, come abbiamo accennato poco sopra, non tanto consistono nel
l'avere inalzato il loro edificio sopra una base intieramente falsa, quanto
nell'avere posto come principio fondamentale ci che non lo , e scam
biate le attinenze parziali dell'idea del diritto colla immediata sua deri
vazione dagli attributi essenziali dell'uomo, in armonia con gli altri rami
dell'ordine morale (1).
(1) Fra gli scritti di non antica data, che trattano delle dottrine fondamentali

del diritto, ed accennano alla necessit di ricercare un principio del diritto diverso
da quelli che si seguirono finora, dimostrati o incompleti o al tutto falsi, vuol es

serne notato uno che, quasi del tutto ignorato, racchiude per in piccola mole idee

degne di attenzione. questo il libretto che porta per titolo: Alcune vedute fonda
mentali per servire ad un ordinamento delle scienze morali pratiche nelle viste pre

cipuamente del diritto di natura, del dott. Giuseppe Antonio Dalluscheck, veronese,
Padova 1842, tip. Sicca.

L'Autore, il quale tende a conciliare le opposte dottrine ammettendo la possibi


lit di concepire il diritto al modo della scuola di Kant, quando si consideri l'uomo

in una condizione astratta ed ipotetica, ma non quando si guardi alla realt della
condizione sociale, ha sparso nel suo lavoro i germi di molte buone dottrine. L'idea

del diritto vi stabilita senza urtare co principi della morale; vi segnata la distin
zione fra i diritti propriamente detti e la semplice esenzione dall'altrui forza, ossia
inviolabilit, strettamente detta, di certe azioni fra esseri eguali, onde da un lato evi
tare la contradizione di chiamar diritto ci che non lo , e dall'altro non consentire

da uomo ad uomo l'uso della forza rispetto alla semplice moralit. Quindi posto
fuori di dubio che anche nei rapporti fra uomo e uomo per l'operare individuale

sempre uno solo il precetto dell'ordine morale, quantunque manchi nei terzi la po
test di opporsi alla violazione; attribuita all'uomo una doppia attivit o potest,
di azione, cio, e di pretesa; e sono ammessi i doveri giuridici anche positivi di
cooperazione. Tutto il sistema fondato sopra i tre ordini di esistenza, di coesisten
za, di cooperazione, che non si verificano successivamente, ma sussistono insieme,
e si effettuano nell'ordine supremo e pieno della necessaria aggregazione o societ
civile, dalla quale, in forza del naturale suo fine, sorgono diritti e doveri che non

PARTE I.

Poich il far consistere il diritto, a cagione d'esempio, nella forza o


nella utilit, confondere l'essenza morale del diritto col mezzo ond'es
so si attua e si tutela nel suo esercizio, e coll'effetto che dall'esercizio

e dal rispetto del diritto ne consegue. Ma le idee della forza e dell'uti


lit si associano realmente con quella del diritto, purch siano mante
nute nel debito loro posto e relazione, cio di mezzo la prima, e di ef
fetto la seconda.

Che se invece nel diritto non si scorga che una pura libert di agire,
come piaque ad altri, ove questa non si subordini agli altri rami dell'or
dine morale e alle leggi che ne derivano, essa non pu distinguersi dalla
forza esecutrice, e conduce alla contradizione di chiamar libero ci ch'

sottoposto al dovere; restando pur vero che, salva questa subordinazio


ne, il diritto facolt.

Che se in fine, per evitare questi due errori, si faccia una cosa sola
del diritto e del retto morale, si giunge per una via diversa allo stesso
assurdo; si confonde cio la bont morale colla facolt libera di agire:
concetti distinti, sebbene sia vero che non pu darsi diritto in opposi
zione al dovere (1).

avrebbero luogo per la semplice eguaglianza naturale tra uomo e uomo; e quindi
vi detto che il diritto, riferito all'umanit in genere ed in senso assoluto, si
l'attivit umana, per legge di natura incontrastabile, in quanto eseguisce l'ordine
morale; e riferito in ispecie all'individuo, si l'attivit di un uomo, incontrastabile
per legge morale di natura, in quanto agisce conformemente all'ordine sociale razionale.
Che se nel libro, di cui facciamo menzione, non sono posti in luce e sviluppati
come si conviene tutti i rapporti che vogliono essere considerati nell'ordine mo
rale; se v' alcuna cosa da desiderare anche rispetto all'esattezza e chiarezza nella
sposizione; ci non toglie la bont di quei semi che vi si trovano, e che manifestano
una mente giusta ed esercitata in queste ardue meditazioni. Ed tanto maggiore il
merito dell'autore e l'importanza del libro, in quanto che, per quanto ci consta,
questo il primo tentativo che siasi fatto per tracciare una via media, che evitasse i
pericoli delle opposte dottrine estreme nella scienza del Diritto. E la bont dei
germi contenuti nell'operetta del dott. Dalluscheck comprovata eziandio indiret
tamente da ci, che nelle idee principali egli si trova in sostanza d'accordo con

quelli che dopo di lui rivolsero le loro ricerche alla stessa meta, quantunque con
metodi diversi. Dal che si vede che anche senza plagio, anche senza partire da ci
che fu fatto dagli altri, si pu e si deve giungere allo stesso risultato, quando si
legga attentamente e senza prevenzioni ci che sta scritto nel gran libro della na
tura. Ma se gli scritti posteriori alle Vedute fondamentali del dott. Dalluscheck
non possono dirsi da quelle derivati, rimane a lui il merito della priorit, del quale
la storia della scienza deve sempre tener conto, quand'anche debba per giustizia

riconoscere che la priorit non sempre si accompagni colla possibile perfezione.


(1) Intorno alle varie teorie sul diritto fin qu conosciute, ai loro vizi, e alla ne
cessit di ricercare il vero principio fondamentale di questa scienza per operarne

SAGGIO

Posto adunque il canone fondamentale, che l'idea del diritto e le altre


ad essa relative non si possano dedurre che dai rapporti necessari, deri

vanti dagli attributi essenziali dell'uomo, cerchiamo di giungervi per que


st'unica via, senza dimenticare giammai che la scienza del diritto un

ramo di una scienza pi vasta: quella di tutto l'ordine delle cose morali.
la riforma, si vegga l'importante Memoria del Prof. Baldassare Poli Sulla riforma

della Giurisprudenza come scienza del diritto, ch' il primo de' suoi Saggi di scien
za politico-legale. Milano 1841.
Posteriormente vennero in luce due Opere voluminose intorno alla scienza del
diritto, che meritano una speciale attenzione; cio la Filosofia del diritto del Ro
smini, e il Saggio teoretico di dritto naturale appoggiato sul fatto del P. Taparelli,

pi volte stampato a Palermo, a Napoli ed altrove. L'uno e l'altro di questi due il


lustri filosofi tengono conto della moralit nello stabilire l'idea del diritto, ma in
modo e misura molto diversa.

Il Rosmini annovera fra gli elementi del diritto la liceit dell'azione, onde l'at
tivit dell'uomo, in che sta il diritto, viene ad essere limitata dalla legge. Perci
l'idea del diritto, secondo il Rosmini, inchiuderebbe quella limitazione che nel se
guente Capo V. abbiamo cercato di mostrare necessaria a mantenere la subordinazio
ne del diritto alla morale. Tuttavia accordandoci con lui rispetto alla pura idea
fondamentale del diritto, non ci sembra esatto derivarlo dal dovere, dicendolo una

figliazione di questo (Tom. I. pag. 153), perch il diritto essendo una potest del
l'uomo, non pu derivare che dall'attivit sua. Che quest'attivit debba essere li
mitata dalla legge morale non toglie ch'essa sia la propria fonte del diritto. In
generale ci sembra difettoso il sistema specialmente nello sviluppo di alcuni gravi

argomenti di cui deve occuparsi la scienza del diritto, quantunque si trovino sparse
nell'Opera del Rosmini molte idee eccellenti, dalle quali il giureconsulto pu trarre
profitto.

Quanto al Saggio teoretico del P. Taparelli, non si potrebbe tenerlo per un Trat
tato del diritto naturale, perch propriamente un Trattato di filosofia morale,
mentre non soltanto mantenuta la debita subordinazione del diritto alla morale,

ma il diritto, a suo senso, non altro che la stessa rettitudine morale. Che se rispetto
al sistema e al principio fondamentale questo sublime ingegno va posto tra i filosofi
moralisti, anzich fra i giureconsulti filosofi, conviene pur confessare che il Saggio
teoretico tale lavoro, che manifesta una mente altissima, e contiene materiali pre
ziosi, dei quali pu approfittare il giureconsulto nel trattare del diritto, come og
getto e come scienza distinta dalla morale, quando voglia conservare la essenziale
unit di tutto l'ordine morale. Noi confessiamo di avere cavato molto frutto dallo

studio di quest'Opera, sebbene in certi argomenti sentiamo diversamente dal suo


autore, come diversa l'idea che ci siamo formato del diritto. Forse l'elemento

pratico, il fatto, entra un po' troppo nel sistema di lui, non sembrandoci sempre
mantenuta la necessaria distinzione tra i fatti naturali e indipendenti dall'umano

arbitrio, che sono il fondamento delle relazioni onde sorge il diritto, e i fatti pura
mente positivi, che non sono diritti e fonti di diritto se non in quanto si associano
ad un principio di ragione indipendente da essi. Che che ne sia di cio, egli certo
che il soggetto del diritto, comunque il Taparelli ne concepisca l'idea, non un
uomo ipotetico, ma l'uomo reale; l'uomo naturalmente socievole; l'uomo tal quale
nella presente sua condizione.

PARTE I.

CAPO II.
Dei rapporti. Dell'ordine, dei fini e dei mezzi in generale.

Quantunque volte noi applichiamo la mente nostra a considerare l'im

mensit degli esseri che compongono l'universo, tanto materiale che spi
rituale ed intellettuale, ci agevole lo scorgere ch'essi possono ridursi
a due somme classi; cio:

1. Oggetti (sostanze, esseri in istretto senso) co rispettivi loro at


tributi. 2. Rapporti.
Tutto il mondo materiale, e tutto il mondo spirituale o morale, come

meglio ci piaccia chiamarlo, forma la prima classe; tutto il mondo delle


idee forma la seconda.

Dal punto che la mente nostra dall'analisi degli attributi degli oggetti
passa al confronto di un oggetto con l'altro, o, a dir meglio, degli attri
buti di un oggetto con quello di altri oggetti, nascono le idee di rela

zione, fondamento di tutte le cognizioni, che l'uomo pu acquistare col


lume della ragione.

L'intelletto percepisce, analizza, confronta, compone; e di questa


guisa giunge alle nozioni generali. Dalla percezione dato l'oggetto o
gli oggetti individuali; l'analisi cerca le quantit o note proprie di es
si; dal confronto risulta l'identit o la differenza tra un oggetto e l'al
tro: dopo di che la mente passa a riunire insieme gli attributi identici,
e rappresentasi in un tutto gli oggetti, nei quali rinviene questa iden
tit di attributi.

Ecco le prime nozioni della mente, poggiate sopra il rapporto del


l'identit.

Inoltrandosi nell'esame del processo della mente umana dalle nozioni


degli oggetti sensibili fino alle idee trascendenti ogni esperienza, fa
cile lo scorgere come siano tutte fondate sopra rapporti che la mente

scopre con la riflessione. Di qu le classificazioni fondate sopra il rap


porto della identit combinato con quello della differenza, e le divisioni
fondate sul rapporto della opposizione; di qu le idee di causa e di effet
to, di mezzi e di fine derivate dal rapporto di connessione.

La mente adunque non acquista cognizioni coll'uso delle sue facolt,


se non in quanto concepisce un oggetto nel suo modo di essere in con
fronto di altri oggetti.

Questi modi di essere degli oggetti comparativamente considerati si


appellano rapporti. I rapporti, considerati in concreto, sono il fonda

10

SAGGIO

mento di tutte le nozioni ed idee della mente umana; e considerati in

astratto, sono essi stessi altrettante idee esprimenti quei modi d'essere.

Non sono possibili che quattro modi d'essere degli oggetti compara
tivamente considerati, e quindi quattro rapporti fondamentali; cio:

1. Il modo dell'eguaglianza o identit. 2. Il modo della diffe


renza. 3. Il modo della opposizione. - 4. Il modo della connes
sione causale e finale.

La realt delle idee di rapporto sta nella realt degli attributi degli
oggetti dai quali, quando si considerino gli uni in confronto degli altri,
i rapporti risultano. Per in vario modo i rapporti sono il fondamento
di tutte le cognizioni umane.
Essi lo sono talora immediatamente, tal altra pi o meno media
tamente.

Nella prima maniera essi danno origine ai concetti e giudizi; nella


seconda ai principi razionali.
Di fatto i concetti non sono che l'espressione del rapporto d'identit
trovato dall'intelletto fra gli attributi di alcuni oggetti; i giudizi non
sono che l'espressione dei rapporti dell'identit, differenza od opposi
zione fra due concetti.

Come il rapporto dell'identit fra gli oggetti il fondamento dei con


cetti; e il rapporto d'identit, differenza od opposizione fra i concetti
il fondamento dei giudizi: cos l'identit dei giudizi il fondamento
dei principi razionali, essendo il fondamento del principio di contradizio
ne o identit = impossibile est idem simul esse et non esse = dal quale
tutti i principi razionali derivano.
Quindi il principio dell'identit sarebbe la prima idea o principio
razionale dedotto dai rapporti degli oggetti mediante l'identit dei giu
dizi particolari sugli oggetti stessi; e gli altri principi razionali, come
pure tutte le conseguenze ed applicazioni di essi, sarebbero dedotti pi
mediatamente dai rapporti degli oggetti, siccome derivati dal principio
di contradizione, il quale esso stesso mediatamente deriva dai primi rap
porti obbiettivi.

Che tutti gli altri principi di ragione siano dedotti dal principio della
identit, si rende manifesto solo che si osservi ch'essi o sono per s
evidenti ed indimostrabili, ed allora non sono che espressioni equivalenti
al principio di contradizione, come, a cagione d'esempio, gli assiomi
matematici; o sono principi ch'esigono la dimostrazione, ed allora sono

dedotti dal principio d'identit, non potendosi dare dimostrazione senza

PARTE I.

1 |

un primo fondamento indimostrabile ed evidentissimo, il quale non al


tro che il principio d'identit (1).
Premesse queste nozioni, passiamo a determinare quelle di ordine,
di fini e di mezzi in generale.

L'idea di ordine complessa. Essa risulta dall'idea di oggetti iden


tici, diversi od opposti, legati nel rapporto di mezzi ad un fine.

L'idea dell'ordine dedotta quindi dai rapporti, e specialmente da


quello di connessione, poich si fonda su questa propriet comune di
certi esseri: la tendenza ad un fine. Perci l'ordine potrebbesi definire in
generale: un complesso di esseri disposti in guisa da effettuare un dato
fine co mezzi corrispondenti.

Dai rapporti fra gli esseri materiali nasce l'ordine fisico.


Dai rapporti fra gli esseri soprasensibili nasce l'ordine metafisico,
che comprende nella sua massima generalit l'ordine morale.

manifesto che l'idea dell'ordine conduce a quella d'intelligenza in


forza del principio di causalit; per cui l'ordine essendo un effetto, sup
pone una mente ordinatrice, che stabilisce i fini e dispone i mezzi atti a
conseguirli: sia necessariamente, se si tratta dell'ordine materiale o fisi

co; sia col concorso di un'altra intelligenza verificatrice del fine, seguen
dolo come norma delle sue libere azioni, se si tratta dell'ordine morale.

Questa corrispondenza di fini e di mezzi, che costituisce l'essenza


dell'ordine, d origine a diverse specie di ordine, secondo la natura dei
fini e dei mezzi. Non essendo scopo di queste ricerche l'ordine mate
riale, limitiamo le nostre indagini ai fini del mondo morale, onde deter
minare la partizione dell'ordine morale.
Il fine in generale : l'effetto che produce o deve produrre un ente
considerato come causa intelligente, o diretta da una intelligenza; i

(1) Merita d'essere avvertito, che i principi razionali sono un prodotto molto
analogo ai concetti. Negli uni e negli altri c' la forma della generalit portata fino
all'universalit nei principi razionali. La materia nei concetti costituita dalle note

identiche dei particolari percepiti; nei principi costituita dall'identit dei giudizi
particolari. Il concetto una generalit, ad onta che non tutti i particolari vengano
percepiti; il principio razionale universalissimo, ad onta che non sia preceduto da
tutti i possibili giudizi particolari. Da ci si vede che s nell'uno come nell'altro
interviene sempre l'operazione del principio generalizzante, che costituisce l'attri
buto essenziale della mente umana. Cosicch tutte le facolt fondamentali dell'ani

ma si ridurrebbero a due, l'intellettiva e l'appetitiva: la prima operante con la


legge o principio della generalit; l'altra operante sotto la legge o principio del sen
timento piacevole o dispiacevole.

12

SAGGIO

mezzi sono le operazioni di qualsiasi causa o forza, in quanto sono di


rette al dato fine, ossia effetto inteso.
Finch consideriamo i fenomeni del mondo fisico, e ricerchiamo le

cause dalle quali dipendono, noi abbiamo l'idea di effetto e di causa


semplicemente; ma quando con la ragione rimontiamo dalle prossime
cause contingenti alla Causa prima e necessaria, che dispose le cause
prossime in guisa che producessero i dati effetti, allora queste cause ci
si presentano sotto l'aspetto di mezzi ordinati dall'Intelligenza creatri

ce alla produzione di quegli effetti, che allora si considerano come fini,


in quanto sono lo scopo pe'l quale l'Intelligenza ordinatrice prepar le
date cause. dunque chiaro che la definizione sopra esposta dei fini in
genere si conviene esattamente ai fini del mondo materiale, essendo que

sti altrettanti effetti prodotti da cause o forze dirette dall'Intelligenza


creatrice ed ordinatrice dell'universo.

Allorch poi dal mondo fisico passiamo a considerare il mondo mora


le, tanto pi ci si rende evidente la giustezza della definizione addotta.
Il mondo morale non altro che il complesso degli esseri intelligen

ti, ossia degli uomini considerati nella parte spirituale, nell'anima do


tata della ragione; i quali essendo limitati e finiti, e per contingenti,
hanno la causa della loro esistenza nell'Ente infinito e necessario, cio
in Dio.

Tutto ci che l'uomo opera con l'intelligenza un effetto; i mezzi,


dei quali si serve, sono le cause che producono questi effetti. Ma sicco
me questi effetti sono presenti all'intelligenza allorch impiega la sua
attivit per conseguirli, essi diventano lo scopo, cio il fine per cui si
usano i dati mezzi, o siano cause prossime all'effetto o fine inteso. Dun

que anche nell'ordine morale il fine non che l'effetto prodotto o da


prodursi dalla causa intelligente.

Una osservazione ovvia qu ci si presenta, ed : che non possibile


pensare una intelligenza operante senza scopo. Se gli atti umani potes
sero essere operati cecamente, l'uomo non sarebbe intelligente; ma
l'uomo infatti intelligente: dunque non pu ad un tempo stesso non
esserlo; dunque essenziale all'uomo l'operare con intelligenza, cio
l'operare in vista di un perch, di uno scopo.
Ci che diciamo dell'uomo, a pi forte ragione dobbiamo dirlo di Dio,

che essendo infinito cos nell'intelligenza come in tutti gli altri suoi at
tributi, non pu per necessit di natura operare senza scopo.
Per altro dicendo che l'uomo non pu operare se non in vista di un

PARTE I.

13

fine, non ne viene ch'egli debba sempre necessariamente operare in vi


sta di un fine particolare determinato; come non ne viene ch'egli non sia
obbligato a dirigere le sue azioni a certi fini, onde hanno vita, come ve
dremo, le leggi (1).
CAPO III.
Dei fini dell'uomo nell'ordine morale. Il bene. Fine supremo.
Legge morale. Ordine etico.

I fini dell'uomo nell'ordine morale non sono altro (com' chiaro in


forza delle premesse considerazioni) che - gli scopi che l'uomo si pro
pone o deve proporsi, in quanto egli un essere dotato d'intelligenza o
ragionevolezza. I fini dell'uomo, in quanto spetta alle sue fisiche relazioni, o sono in

dipendenti dalla sua volont, ed in quanto a questi egli non ha altro


vantaggio sopra gli animali irragionevoli, che quello di conoscerli senza
poter influire sul loro adempimento (come nelle funzioni della vita fisica),
e perci sono fuori dell'ordine morale; o sono dipendenti dalla sua vo
lont, e allora, in quanto siano connessi con l'intelligenza e ragionevo
lezza, sono compresi nell'ordine morale non per s, ma per la loro re
lazione con la natura ragionevole dell'uomo (tale sarebbe la conser
vazione).
Dunque sempre vero che i fini dell'uomo nell'ordine morale sono
tutti dipendenti dalla sua natura ragionevole.
Cerchiamo pertanto quali siano questi fini dell'uomo nell'ordine
morale.

Il loro fondamento noi non potremo altrove rinveniro, che nella na


tura stessa intelligente e ragionevole dell'uomo, e nelle sue relazioni.
(1) Questo principio incontrastabile, che all'essere intelligente essenziale
l'agire in vista di un fine, fondamento di una prova solenne dela libert dell'uo

mo, il quale per ci stesso ch' in necessit assoluta di operare in vista d'uno sco
po, deve avere la facolt di disporre i mezzi convenienti allo scopo stesso (sia dato
da altri, sia scelto da lui, ci non monta). Infatti, se l'uomo fosse necessitato negli
atti umani, ne verrebbe ch'egli non potrebbe scegliere i mezzi adatti al consegui
mento dei fini. Quindi la intelligenza con la quale preconosce i firi, sarebbe per lui
una facolt oziosa, anzi contradittoria. Dio avrebbe operato senza scopo nell'accor
dargliela, perch non vi sarebbe pi differenza fra le operazioni dell'uomo e quelle
degli altri esseri, co' quali l'uomo sarebbe, quanto al modo di agire, identificato. Ma

assurdo che Dio, essere infinitamente intelligente, operi alcuna cosa senza un fine:
dunque un assurdo che abbia dato all'uomo l'intelligenza senza un perch; dun
que assurdo che l'uomo intelligente non sia libero.

44

SAGGIO

Nella natura dell'uomo, perch i fini che cerchiamo sono appunto quelli
che riguardano l'uomo, in quanto egli intelligente e ragionevole; nelle
sue relazioni, perch la semplice considerazione dei caratteri od attri

buti dell'uomo non basta a condurci all'idea dei fini, la quale trascen
dendo la semplice osservazione od esperienza psicologica, non pu es
sere dedotta che mediante rapporti, al pari di tutte le nozioni ed idee
della mente, come abbiamo veduto.
E qu osservando i caratteri distintivi dell'uomo, e il modo costante

col quale opera, un fatto solenne, ovvio, universale ci si manifesta, ed


la perfettibilit, ossia la tendenza e l'attitudine allo sviluppo progres
sivo di tutte le sue facolt, accompagnata dall'inclinazione al bene: in

clinazione necessaria in guisa, che l'uomo non pu mai desiderare il


male, come male.

Questa inclinazione necessaria al bene (o, come altri dicono, alla


felicit) fa s che l'uomo in tutte le sue azioni non pu determinarsi che
in vista di un bene.

Questa tendenza, ammessa da tutti per la sua evidenza, dessa un


fine per l'uomo. Se noi esaminiamo i rapporti fra l'uomo e Dio, ci
facile vedere che essendo Dio il creatore dell'uomo, e quindi di tutto
ci che costituisce la natura di questo essere; essendo attributi essen

ziali di Dio la infinita sapienza e la infinita bont; egli per la prima non
pu aver dato all'uomo una inclinazione o una facolt qualunque senza
uno scopo; per l'altra lo scopo non pu essere, riguardo all'uomo, che
il bene dell'uomo. L'uomo dunque non pu essere destinato da Dio che
al bene ed alla felicit. Il bene dunque essendo lo scopo per cui l'uomo
creato, un vero fine per lui.

Ma sebbene esista nell'uomo questa tendenza necessaria al bene in


genere, alla felicit, non per l'uomo inclinato necessariamente ad

un bene particolare, ad una determinata felicit. Quindi se per una parte


la tendenza al bene in genere per lui necessit, per l'altra la scelta
del bene in particolare lasciata al suo arbitrio. E questo il campo del
la libert umana, la quale non mai costretta da veruna potenza nella
scelta dei beni particolari.
Cos la tendenza necessaria

alla felicit, cio al

bene, si accorda col

libero arbitrio, e diventa un fine indeterminato negli oggetti particolari,


al quale sono sempre necessariamente rivolte tutte le azioni dell'uomo.
Ma essendo l'uomo dotato d'intelligenza, di ragione e di perfettibi
lit, questa tendenza necessaria al bene, ch' in lui, non pu essere in

PARTE I.

15

contradizione non solo con la libert, ma nemmeno con l'intelligenza,

ragionevolezza e perfettibilit; perch, se ci fosse, ne verrebbe l'as

surdo, che Dio avrebbe fatto un essere dotato di attributi contradittori.


Dunque deve conciliarsi con tutti i caratteri essenziali della natura
llImaIlaa

Da tutto ci segue: 1 che nell'ordine morale i mezzi alla effettua


zione dei fini sono le azioni libere umane; 2. che il bene, come fine
dell'uomo, non il bene in genere, ma il bene conveniente ai caratteri
distintivi dell'uomo; 3. che i mezzi co quali si deve rendere effettivo

questo fine, saranno gli atti umani, in quanto convengono con questi
stessi caratteri; 4. che l'attivit diretta al conseguimento di questo
fine ammette ed esige anzi un progressivo sviluppo ed avanzamento nel
bene che costituisce questo fine.

Ora ci conviene stabilire in che consista il fine supremo pe'l quale


l'uomo fu creato, e che dev'essere quindi la norma e lo scopo delle sue
libere azioni.

L'uomo essendo stato da Dio fornito d'intelligenza e ragione, per


ci in necessit di proporsi sempre alcun fine nelle azioni in cui con
corre la sua volont.

Non potendo esservi contradizione nelle opere di Dio, ne viene che

il fine, pe'l quale cre l'uomo, non possa ripugnare col caratteri dei quali
lo forn; quindi n con la ragione, n con la libert.
Ripugnerebbe alla libert, se l'uomo dovesse concorrere ad effettuare
il fine, stabilito da Dio, cecamente come gli esseri privi d'intelligenza

e libert: dunque il fine, pe'l quale l'uomo creato, dev'essere da lui


conseguito liberamente.

Ripugnerebbe alla ragione, se il fine, pe'l quale creato l'uomo, con


tradicesse alla sua natura ragionevole.

Dunque, in forza del principio di contradizione, il fine, pe'l quale


l'uomo creato, dev'essere conforme alla sua natura di ente ragionevole.
Ma nell'uomo esiste una tendenza necessaria al bene in genere, ed al

progressivo sviluppo di tutte le sue forze.


Questa tendenza, in quanto l'effetto delle facolt stesse, delle quali
l'uomo dotato, diventa il fine pe'l quale gli furono date quelle facolt.
L'uomo dunque fatto per la perfezione e pe'l bene; il bene e la
perfezione sono dunque il fine dell'uomo.
Ma abbiamo dimostrato che il fine, per cui l'uomo creato, deve
convenire col suo carattere di ente ragionevole: dunque, per evitare

SAGGIO

16

ogni contradizione, bisogna ammettere che il fine dell'uomo non sol


tanto la perfezione e il bene in genere, ma bens il bene e la perfezione
propria dell'essere ragionevole.
Ma un bene, una perfezione arbitraria e variabile ripugna all'indole
della ragione umana, la quale cerca sempre ci ch' assoluto e necessa
rio: dunque il fine dell'uomo, quel fine pe'l quale fu da Dio creato,
consiste nella perfezione, o nel bene necessario ed assoluto.

Questo fine, dedotto dalla natura dell'uomo e da suoi rapporti con


Dio creatore dell'uomo, e quindi autore del fine stesso, e che ci presen
ta i caratteri della necessit e dell'assoluto, si estende a tutti gli enti
ragionevoli per l'identit fondamentale della loro natura, e perci non
pu mai cessare d'essere il fine di verun uomo in particolare. Il fine
della perfezione adunque universale e costante, appunto perch as
soluto e necessario; e se, come vedemmo, questo fine dev'essere effet

tuato dall'uomo, tutti gli uomini adunque devono dirigere tutte le loro
azioni a questo fine.

Dunque questo fine supremo, cio tale che tutti gli altri fini parti
colari che l'uomo, essendo intelligente, si propone in qualunque azione,
devono essere a quello subordinati, e non sono che mezzi pe'l suo adem
pimento.

Se l'uomo opera contro al fine supremo, egli contradice alla sua na


tura, e quindi a Dio creatore suo. L'uomo deve dunque seguire sempre
il fine supremo.

Il fine supremo importa dunque una necessit morale per l'uomo di


sempre seguirlo.

Ma la necessit morale di operare dietro una data norma costituisce


una obbligazione, una legge: dunque il fine supremo legge per l'uomo:
la legge morale in senso stretto.

L'uomo dotato di duplice attivit: l'interna e l'esterna.


La prima ha il carattere di vera forza, ed il principio di qualun
que azione.

L'altra attivit secondaria, ossia manifestazione dell'attivit in


terna.

Tanto le azioni dipendenti dalla sola attivit interna (pensieri, affet


ti), quanto quelle che per l'interno impulso si manifestano esterior
mente (atti esterni), possono concorrere alla perfezione umana, e quindi
sono in rapporto col fine supremo, come mezzi a conseguirlo, quando vi
si conformino.

PARTE I.

17

Il fine supremo co'suoi mezzi forma ci che appellasi ordine etico. Dio
l'intelligenza ordinatrice; l'uomo la intelligenza che deve uniformare
le libere sue azioni a quest'ordine.
Per questo fine supremo egli solo, ovvero esistono altri fini per
l'uomo? Vediamolo.

CAPO IV.
Altri fini. Sociabilit. Ordine giuridico. Attivit. -

Ordine del diritto. Nesso dei tre ordini: etico, giuridico e del diritto.

Se noi consideriamo che l'uomo dotato d'intelligenza, e quindi di li


bert, non pu mai operare se non in vista di un fine, e non pu mai es
sere necessitato ad agire in vista di alcun fine particolare, ci si fa ma

nifesto che molti sono i fini ai quali l'uomo pu dirigere le sue azioni;
i quali fini se saranno subordinati al fine supremo, le azioni saranno mo
ralmente buone; se invece contradiranno al fine stesso, le azioni saranno
cattive.

E siccome l'uomo non pu mai agire che in vista di un qualche bene,


cos si potr giustamente stabilire che la differenza tra le azioni morali
e le immorali sta nella diversa natura del bene propostosi dall'agente
come fine: in guisa che se il bene, cui tende la volont, o per s stesso,

o per le circostanze, sar contrario al bene assoluto, l'azione sar cat


tiva; buona invece se questo bene, cui mira la volont, si accorder col
bene necessario, costante, assoluto.

Ma oltre questi fini speciali, arbitrari, possono esistere altri fini in


dipendenti dalla volont umana?
Riflettiamo un momento sulle cose dette nel Capo precedente. Noi ab
biamo dedotto l'esistenza del fine supremo dell'uomo da suoi attributi

della ragionevolezza e perfettibilit, e dal rapporto con Dio suo creato


re, in forza del quale non potendo essere dati a lui questi attributi, os
sia facolt, potenze, mezzi, senza uno scopo, ed uno scopo conveniente

ad essi, ne seguiva essere l'uomo fatto per la perfezione, ossia pe'l bene
assoluto.

Se oltre questi attributi l'uomo dotato ancora di altri, naturale,


per la stessa ragione, che non saranno oziosi; vale a dire, che saranno
a lui dati per quel fine al quale possono condurre.
Per rispondere adunque alla domanda, se esistano altri fini per l'uo
mo oltre il supremo, basta esaminare se l'uomo presenti altri caratteri,
oltre la ragionevolezza e perfettibilit. Quanti saranno questi altri ca
-

SAGGIO

18

ratteri fondamentali, altrettanti saranno i fini che potremo dedurne; e le


relazioni tra questi fini ed ordini che ne derivano, e il fine supremo ed
ordine etico, saranno dipendenti

dalle relazioni di

questi medesimi at

tributi col principale della ragionevolezza.


Analizzando l'uomo, noi, oltre i caratteri, attributi o facolt dell'in
telligenza, ragione e libert, troviamo in quest'essere un'altra nota non

meno importante: la sociabilit.


La sociabilit, ossia la tendenza a vivere tranquillamente in compa
gnia co' propri simili, e a prestarsi reciproci soccorsi, fondata sull'amo
re della felicit e sulla facolt sensitiva, agisce nell'uomo con la forza
necessitante dell'istinto, in guisa che l'uomo portato alla convivenza

indipendentemente da qualunque deliberazione della sua volont. L'effet


to di questa necessaria inclinazione la societ, la quale un fatto co
stante, appunto perch la esistenza di questo fatto non dipende da cause
libere.

La sociabilit come causa, la societ come eetto, diventano mezzo e


fine, quando si considerano in relazione all'Intelligenza che prepar la
causa all'effetto inteso.

Se l'uomo opera contro l'indole della societ, egli contradice imme


diatamente al suo attributo essenziale della sociabilit, e mediatamente

alla ragione, che nella convivenza socievole, e nei doveri che ne conse
guono, riconosce un mezzo al fine supremo, che d norma a tutto l'ope
rare umano. L'uomo deve adunque dirigere le sue azioni in modo, che
non offenda gli altri, anzi loro soccorra.
Questa necessit morale per l'uomo di conformare le sue azioni alla

natura ed al fine della societ, prendendo la parola societ nel suo pi


esteso significato, costituisce una legge: la legge giuridica, o del dovere
giuridico.

Le azioni delle quali qu parliamo (non occorre avvertirlo) sono le


azioni esterne, non potendo le azioni di un uomo avere influenza sugli
altri se non mediante le esterne manifestazioni.

E siccome la giustizia anche esteriore fa parte dei precetti della leg


ge morale, cos la legge giuridica si trova gi inchiusa nella legge
morale.

Oltre gli attributi fin qu esaminati, l'uomo altres dotato di una


indefinita attivit si interna che esterna.
L'esercizio di quest'attivit su vari oggetti, co' quali l'uomo si trova

in relazione, il fine per cui gli data quest'attivit.

PARTE I.

19

Essa per viene limitata dalla legge etica, che comprende quella del
dovere giuridico.

Fuori di queste limitazioni le azioni restano facoltative, in

quanto

cio l'esercizio dell'attivit umana sugli oggetti esistenti il fine del


attivit stessa. Di qu l'ordine del diritto puro.
E le azioni, in quanto sono mezzi all'esercizio dell'attivit pe'i fini

arbitrari che l'uomo si propone, vengono dette facoltative, perch non


si pu stabilire l'esistenza di alcuna necessit morale per l'uomo di uni
formarsi a questo fine, cio di esercitare sempre la sua attivit.
Se esistesse la necessit morale in quest'ordine del diritto, sarebbe

impossibile ed assurda qualsiasi limitazione dell'attivit indefinita, per


ch sarebbe moralmente necessario per l'uomo l'esercitarla sempre inde

finitamente. Ma cos , che la legge giuridica e la legge etica portano


dunque
non assurdo che si possa limitarla; dunque non esiste necessit mo
rale per l'uomo di esercitarla.
Se non esiste questa necessit morale, manca il carattere che costi

limitazioni o restrizioni all'esercizio dell'attivit dell'uomo:

tuisce una legge: dunque l'ordine del diritto puro non legge.
Questo rapido sguardo, che abbiamo dato ai tre ordini etico, giuri
dico, e del diritto, ci porta ad alcune importanti osservazioni, onde rac

cogliere in brevi parole non solo l'essenza di ciascuno, ma i rapporti di


connessione e subordinazione ch'esistono fra di essi.

Il punto dal quale si prendono le mosse la considerazione delle

forze o attivit dell'uomo soggette al suo arbitrio.


Queste forze o attitudini ad agire non possono essere date all'uomo
perch stiano inoperose. Ci sarebbe contradittorio.
Ma nello stesso tempo se fosse indifferente ch'esse si dirigessero ad
una meta piuttostoch ad un'altra, vi sarebbe opposizione con gli attri
buti che distinguono l'uomo dagli altri esseri creati.
La direzione adunque delle forze dell'uomo predeterminata cos,

ch' impossibile all'uomo l'operare contro questa direzione senza con


tradire alla sua natura, senza opporsi ai fini che gli sono imposti.
Questi fini adunque, dipendenti dagli attributi suoi, determinano il
modo in cui l'uomo deve dirigere la propria attivit conforme alla natura

dell'essere suo, e danno origine alle leggi etica e giuridica (del dovere
esterno).

L'attivit dunque dell'uomo viene limitata e, diremo meglio, diretta


da queste leggi.

20

Soddisfatto a

SAGGIO

queste, rimane ancora un vasto campo all'esercizio del

l'attivit stessa, d'onde sorge il diritto.


Ma siccome questo esercizio, in tutte quelle direzioni che non sono
tracciate dal dovere, non presenta il carattere della necessit morale, ma

di facolt; cos il diritto non forma una legge, ma semplicemente un or


dine, perch vi sono fini e mezzi.
manifesto altres che il sistema dei doveri giuridici non si separa
da quello dei doveri etici verso gli altri, finch si cerca soltanto di sta
bilirli; esso diventa un ordine distinto dal punto che si considerano i

doveri di giustizia nella sola manifestazione esterna, e quindi quali


mezzi al fine della sociabilit. Il giusto quindi non che l'onesto stesso,
prescindendo dalla intenzione; la legalit della moralit nei rapporti
co' nostri simili.

Cos pure il sistema dei diritti si lega con quello dei doveri, in quanto
questi limitano l'esteriore attivit; la quale la fonte dei diritti in
quella parte soltanto che il dovere etico e il dovere giuridico non toc
cano; e diventa un ordine distinto dal punto che si considera quest'at

tivit come mezzo pe i moltiplici fini cui pu dirigersi entro i limiti


segnati dalle leggi morale e giuridica.

A questo modo i tre sistemi dei diritti, dei doveri giuridici e della
moralit si connettono insieme, e formano quel tutto che si appella or
dine morale, in opposizione all'ordine fisico necessitante. Essi non sono
divisi, ma distinti, per le reali differenze che presentano i rapporti
delle azioni ai vari fini; onde avviene che talvolta l'azione stessa debba
considerarsi da un lato come dovere, da un altro come diritto. Queste
idee elementari vogliono essere pi diffusamente sviluppate; e a ci sa
ranno rivolti i Capi seguenti.

PARTE I.

21

CAPO V.
Moralit. Giustizia. Diritto. Loro relazioni.
Limite e vera idea del diritto.

L'operare libero e regolato dell'uomo si manifesta sotto tre forme,


che costituiscono i caratteri delle varie sue azioni: la moralit, la giu
stizia, il diritto.

Dalla conformit col fine supremo e colla legge etica sorge la mora
lit. Dalla conformit col fine giuridico e colla legge giuridica nasce la
giustizia. Dall'esercizio ragionevolmente possibile della libera attivit

dell'uomo in relazione a suoi simili sorge il diritto nel suo vero e pro
prio significato.
Ma se questi tre enti morali sono distinti, come le fonti dalle quali
scaturiscono, egli altres indubitabile che le tre forme dell'umano ope
rare per essi indicate, ond'essere conformi alla ragione, non possono
separarsi e dividersi per modo, che manchi fra loro uno stretto vincolo
di subordinazione.

Infatti essendo l'uomo fornito di libert perch dotato di ragione,

essendogli imposto il fine supremo della morale perfezione, al quale gli


altri fini, che pur derivano dalla natura sua, devono essere subordinati;
ne viene che i mezzi co' quali dato all'uomo di conseguir questi fini,
cio le libere sue azioni, debbano andar forniti di caratteri tali che con
servino cotesta subordinazione.

Dunque essenzialmente la giustizia e il diritto, l'una come dovere


giuridico, l'altro come facolt, devono essere subordinati alla moralit.
E ancora il diritto per identica ragione subordinato al giusto.

Ove si neghi questo principio, distrutta l'armonica unit dell'es


sere ragionevole.

Senonch, posta l'idea del fine supremo e della legge morale, quella
del dovere etico sorge naturalmente e facilmente.
E siccome fra i doveri etici sono pur quelli di giustizia verso gli al
tri, astraendo questi e considerandoli puramente nella loro esterna ma
nifestazione in relazione al fine della socievolezza, sorge pure senza di
ficolt l'idea dell'ordine giuridico e del dovere giuridico esterno e coat
tivo, siccome ramo distinto dell'ordine morale universale,

SAGGIO

22

Ma l'idea e le relazioni del diritto, nel senso di facolt o potere


dell'uomo, rimane pur sempre l'argomento il pi difficile, la questione
vitale nella scienza che ha nome da esso.

Il diritto un ramo anch'esso dell'ordine morale, e procede dall'at


tivit indefinita dell'uomo, non gi da una legge. Quindi si appalesa
alla mente come una facolt che pu (in quanto si consideri puramen
te come diritto) esercitarsi o no senza obbligo, e senza offesa di un
dovere.

L'attivit indefinita dell'uomo, d'onde procede il diritto, vuol es


sere considerata sotto due aspetti o relazioni molto bene distinti, quan
tunque connessi e, a dir cos, identificati nel diritto stesso; cio in re
lazione alle leggi tutte dell'ordine morale, e in relazione agli altri
uomini.

Le leggi o norme obbligatorie e sancite, imposte all'uomo onde con


segua i suoi fini, che sono la legge etica e la legge giuridica, limitano
l'esercizio dell'attivit a lui propria, la quale per s indefinita, abbi
sogna di una regola che la diriga conforme agli scopi corrispondenti alla

ragionevolezza e agli altri suoi essenziali attributi.


Perci il diritto, considerato rispetto all'ordine morale e alle leggi
che ne discendono, non pu essere altro che l'esercizio facoltativo del
l'attivit umana dentro i limiti segnati dalle leggi tutte derivanti dal
l'ordine morale; altrimenti bisognerebbe ammettere aver l'uomo il po

tere di fare ci che gli vietato di fare, ch' manifesta contradizione.


Il diritto cos concepito potrebbe appellarsi opportunamente diritto
in senso assoluto.

Considerando poi l'uomo nella naturale convivenza co' suoi simili, il


diritto si presenta come una facolt che l'uomo pu esercitare in con

fronto degli altri: allora sorge l'idea dell'esercizio dell'attivit esterna


dell'uomo rispetto all'altr'uomo in guisa da non offendere reciproca

mente il carattere di persona; e pi chiaro: in guisa da non pretendere


per s l'esercizio di alcun potere che renda impossibile l'esercizio di
un simile potere negli altri.

Diciamo di un potere simile, e non gi eguale, perch l'eguaglianza


dei poteri facilmente potrebbe riferirsi all'estensione obbiettiva, anzi
ch all'intensit del concetto di potere; e quindi potremmo essere con

dotti a negare il libero esercizio dell'attivit dell'uomo rispetto agli


oggetti, quando la loro quantit eccedesse una certa misura a tutti co

mune, contro i pi ovvi ed acconsentiti principi di giustizia. Il ricco

PARTE I.

23

esercitando il potere del dominio su molte cose, rende impossibile che


altri meno agiati di lui esercitino il dominio su l'eccedente quantit
delle cose sue, e quindi limita l'estensione obbiettiva del potere mede
simo negli altri; ma senza ingiustizia, perch non limita l'intensit, os

sia l'indole e il pieno esercizio del dominio altrui sugli oggetti di loro
propriet.

Il diritto inteso a questo modo si pu chiamare diritto in senso re


lativo.

Egli evidente che il diritto in senso relativo, cio nei rapporti fra
gli uomini, non pu mai sorpassare il confine del diritto in senso asso

luto, non altro essendo che l'applicazione dell'idea assoluta del diritto
alle umane relazioni. E siccome questa idea fuor di dubio determinata

dalla realt e dai principi della legge morale, che abbracciando nella
sua universalit anche le norme dell'esterna giustizia verso i nostri si

mili, segna i limiti all'esercizio della nostra attivit anche rispetto ad


essi; cos ne segue non potersi nei rapporti tra uomo e uomo chiamare
diritto qualunque esercizio dell'attivit nostra oltre il termine postovi
dalla legge morale: perch una facolt di fare ci ch' vietato contra

dice assolutamente; n pu mai la conseguenza, l'applicazione di un


principio essere opposta alla natura del principio da cui deriva, o pi
estesa di esso, o tale da distruggerne l'essenza. Quindi l'idea suprema
del diritto sar: la facolt di agire dell'uomo in confronto de' suoi si
mili, entro i limiti segnati dalla legge morale, in tutte le naturali rela
zioni, nelle quali si trova.

A questa maniera di considerare il diritto si oppongono due scuole,


che costituiscono i due opposti estremi fra i cultori della nostra scienza,

i quali ripudiando i principi materiali o contingenti dell'utilit, della


forza, della legge positiva, inetti a dare una base ragionevole alla scien

za del diritto, vogliono fondarsi sovra un principio assoluto, universale,


formale.

Dall'una parte sta la scuola di quei pochi moderni e molti antichi, i


quali non distinguendo il diritto dal giusto e dal bene, lo confondono
colla rettitudine morale. Dall'altra sta la scuola di Kant e le analoghe,

che deducono il diritto dalla personalit dell'uomo considerato in rela


zione a suoi simili, e quindi lo considerano come facolt di fare tutto
ci che non lede l'altrui persona. In conseguenza questa scuola chiama
diritti tutte le azioni anche assolutamente immorali, purch non ledano
l'altrui persona; e viene in sostanza a dire, che sotto un certo aspetto,

24

SAGGIO

cio in relazione al suo simile, l'uomo pu fare ci che la morale in


nessun modo gli permette di fare.

La prima di queste scuole confonde ci che dev'essere distinto. L'al


tra, per lo contrario, divide ci che non opposto; estende oltre ogni
ragionevole confine l'idea del diritto, pretendendo di limitarla, perch
in essa vuole inchiudere il facoltativo e il vietato, che sono termini ri
pugnanti.

Che il diritto, come facolt di agire esteriormente rispetto a nostri


simili, sia distinto dalla rettitudine morale dell'atto, principio di evi

denza cos intuitiva, che quasi rifugge da ogni dimostrazione al pari


degli assiomi.
Quando si parla di diritto non pu essere dubio che si accenni ad
atti puramente esterni. La morale invece non guarda mai il solo atto
esterno, ma deve tener conto eziandio e principalmente della intenzio
ne. Poniamo un esempio. Io assalito ingiustamente da un mio nemico,
non potendo in altro modo salvare la mia vita, lo uccido. Ecco una giu

sta difesa. Ma nell'atto ch'io respingeva con questo mezzo estremo, ma


necessario, il pericolo che mi sovrastava, io nell'animo mi compiaceva

della occasione che mi si era presentata di far vendetta d'un nemico


che mi aveva gi prima offeso, senza ch'io gliene avessi dato alcun pre
testo, e ch'io desiderava gi di uccidere. Ecco un'azione immorale nel
l'identico atto.

L'uccisione dell'aggressore ingiusto, che, guardata nel puro fatto


esterno, era una giusta difesa; considerata secondo la legge morale, di
venta una gravissima colpa: io sono un omicida.

Sappiamo bene che si soggiunge subito, essere molto diverso il tri


bunale cui si dovr dar conto di simili atti. Alla coscienza e a Dio, del

l'intenzione cattiva; ma non al tribunale degli uomini, che vi scorgono


una semplice difesa legittima. Ma con ci, per salvare il senso comune,
si contradice al principio, che il diritto sta nella rettitudine: si ammette
la necessit di distinguere la moralit dell'atto dal suo carattere di di
ritto, il puro fatto esterno dalla sua moralit (1). Si ammette, in una
parola, che rettitudine e diritto siano nozioni distinte.
(1) Avvertiamo, se pure ve n' bisogno, che in queste ricerche intorno alle re
lazioni fra il dovere morale, il dovere giuridico e il diritto, la distinzione fra l'atto
esterno e la moralit intrinseca di esso non esclude, anzi presuppone sempre la in
telligenza e la libert dell'operante. Senza ci non si pu pi parlare di atto umano;
non pi possibile l'esercizio effettivo del diritto e le sue conseguenze; n pu aver

PARTE I.

25

La causa principale della confusione che fu posta fra diritto e retti


tudine ci sembra consistere nella variet dei significati vagamente attri
buiti alla parola diritto; cio d'una facolt o libert di agire dell'uomo,
d'un complesso di leggi qualunque e di una scienza. chiaro che la

nozione di questi tre oggetti dev'essere molto diversa, sebbene vengano


indicati collo stesso vocabolo diritto. Oltre a ci, siccome letteralmente
presa la parola diritto non che una espressione trasportata dall'ordine
fisico al morale, e indica tutto ci ch' retto, diritto, conforme ad una
regola qualunque; cos ne venne che il diritto si confondesse tante volte
colla rettitudine morale. Ma per giungere ad una nozione esatta del di
ritto conviene distinguere accuratamente fra i vari significati, in che si
adopera vagamente questa parola, quello speciale e tecnico, che serve a
distinguere la genuina sua idea da tutte quelle colle quali si trova in
relazione strettissima.

Dacch il determinare i limiti del diritto, le sue manifestazioni par


ticolari ei corrispondenti doveri giuridici, di suprema necessit, onde
avere una base sicura alle leggi cos civili come criminali della societ,
si volle dalla scuola critica segnare un'assoluta divisione fra il diritto
e la morale, e si corse ad errori d'altro genere.

Poich, senza ripetere quello che fu detto da tutti coloro che sotto
posero a serio esame le dottrine di questa estesissima scuola, che cio
essa manca di un principio supremo, dacch il canone fondamentale di
essa, comunque espresso, ha bisogno d'un altro principio, d'un altro
criterio, secondo il quale si possa intenderlo ed applicarlo; egli fuor
d'ogni dubio che il diritto e la morale, essendo rami di uno stesso tut
to, l'ordine morale, non possono essere in opposizione, e quindi esi

gono distinzione, e non ammettono divisione. Perci il voler togliere fra


essi la necessaria subordinazione deve condurre ad un sistema che da

una parte non salva la essenziale unit dell'ordine morale, e dall'altra

luogo la imputabilit e la responsabilit conseguente all'immoralit e all'ingiusti

zia, non potendovi essere n azione morale od immorale, n conseguenze giuridi


che, n lesione giuridica, dove manca l'intelligenza e la libert del soggetto che

agisce. Il diritto, in quanto un'appartenenza dell'uomo derivante dagli essenziali


attributi dell'essere suo, sussiste ed inviolabile anche nell'individuo che non pu
effettivamente esercitarlo; ma dove ha luogo l'agire dell'uomo non possono i suoi

atti considerarsi in relazione all'ordine morale, se non siano un prodotto della sua
intelligenza e libert.

26

SAGGIO

non pu rispondere a tutte le ricerche pratiche della scienza del diritto


in forza e per effetto del solo suo principio fondamentale (1).
Infatti, qualora si prescinda dal considerare il diritto, nelle sue re
lazioni con la morale, al modo che si detto, e che deriva dalla distin

zione che vuol essere posta fra l'uno e l'altra, bisogna conchiudere di
necessit, che molte azioni anche assolutamente immorali nella loro este
riorit, sono diritti perch non offendono l'altrui persona. Tradotta in
altri termini questa sentenza, viene a dire: che sotto un certo aspetto,
cio in relazione al suo simile, l'uomo pu fare ci che per la legge

morale non pu fare, ovvero che pu tralasciare ci che la morale gli


impone di fare.

Per quanto l'acuta mente e le rette intenzioni di alcuni almeno tra


quelli che professano questa dottrina, procurino di prevenirne gli ef
fetti, rimane per sempre vero ch'essa toglie di tratto quella subordi
mazione tra i vari rami dell'ordine morale, senza cui impossibile che
formino un tutto armonico. Allora la scienza costretta ogni tanto a

dire: sappiate che quest'atto, ch'io pongo fra i diritti, non potete pra
ticarlo, perch la morale ve lo divieta; o che sebbene io lo chiami una
vostra facolt, siete per obbligato a praticarlo. Con ci non si distin
gue soltanto, ma si divide l'etica e il diritto, fra quali realmente non
pu esistere opposizione, base necessaria d'ogni logica divisione.

Ma entrando pi addentro nelle ragioni che fecero accarezzare molto


questa dottrina, la prima e forse unica si il timore che, ammettendo
la subordinazione del diritto alla morale, ne seguisse che a certe azioni

puramente immorali, e non lesive degli altri uomini, potesse applicarsi


la coazione per impedirle, siccome quelle che verrebbero con ci di
chiarate destituite dei caratteri del diritto.

Ci sembra per senza dubio, che questa difficolt possa essere rimos
sa merc la retta intelligenza ed applicazione della dottrina media da
noi seguita, evitando le due estreme dell'assoluta identit fra diritto e
rettitudine, e dell'assoluta divisione fra l'uno e l'altra.
(1) Nel seguente Capo X., prendendo in esame la dottrina dell'utilit, avremo
occasione di mostrare che il principio del giusto, proclamato da Kant, da Zeiller, e
dagli altri che lo adottarono senza modificazioni, nella forma sotto la quale lo pre
sentano, allo scopo di stabilire ricisamente l'assoluta divisione della morale dalla
giurisprudenza filosofica, non poi n anche un principio formale, com'essi lo pre
dicano, ma invece un principio materiale, perch in sostanza non diverso dall'uti
lit, come principio metodico.

PARTE I.

27

Abbiamo detto poco sopra, che il diritto, considerato in concreto


nelle relazioni tra uomo e uomo, non che l'applicazione dell'astratta

idea del diritto ai rapporti esteriori umani. Ci vuol dire in altre pa


role, che guardata la sola esteriorit dell'atto, ogni uso della nostra at
tivit che non esca dai confini segnati alla medesima dalle leggi dell'or
dine morale, una facolt in faccia ai nostri simili, alla quale corrispon
de reciprocamente il dovere giuridico di rispettarla; dovere ch' ad un
tempo anche morale, perch la giustizia voluta eziandio dalla morale.
L'obbiezione desunta dal timore che questa dottrina possa condurre
ad ammettere come lecito l'uso della forza per costringere alla moralit,
cangia lo stato della questione; poich mentre si disputa intorno alla vera
idea del diritto, l'obbiezione si aggira intorno all'uso lecito della forza
rispetto ai nostri simili. Procuriamo di mettere in chiaro questo punto.
La esteriorit, ch' il carattere del diritto e del corrispondente do
vere giuridico, importa che l'esercizio del primo e la pratica del se
condo possano essere efficacemente appoggiati dalla forza. La moralit
invece, consistendo propriamente nell'affetto interno, non pu imporsi
colla forza, la quale, quand'anche riuscisse ad impedire l'atto esteriore
immorale, o a far praticare l'atto esteriormente morale, non produrreb

be perci la rettitudine dell'intenzione, la quale rimane sempre atto li


bero della volont dell'operante. Posto ci, egli chiaro che l'uso

lecito della forza essendo un mezzo consentito dalla ragione a sostegno


del diritto, non pu estendersi oltre il fine per cui la ragione lo con
sente. Perci tutte le volte che si usasse la forza per tutt'altro motivo,
che quello di sostenere un nostro diritto, quest'uso sarebbe riprovato
dalla ragione, sarebbe ingiusto, e quindi immorale.
L'uso della forza accordato soltanto a salvezza del nostro diritto,
in quanto riposto in un'attivit che si esercita esteriormente. Ora se
ogni diritto che l'uomo pu esercitare rispetto all'altro uomo sta den
tro i confini segnati all'umana attivit dalla legge morale, la forza con
cessa a sostenerlo in faccia agli altri sta pure dentro i medesimi confini,
e quindi non pu mai toccare alle azioni semplicemente morali od im

morali, le quali sono fuori della sfera dentro cui riposto il diritto.
Dunque nella ricerca intorno all'uso legittimo della forza rispetto ai
nostri simili per far valere il diritto, le azioni semplicemente immorali
sono fuori dell'argomento, perch sono fuori dei rapporti del diritto.
Tutti accordano essere concesso l'uso della forza a sostegno del di
ritto. Che cosa dunque la coazione, se non il diritto stesso, il quale

28

SAGGIO

efficacemente si manifesta all'occasione di un ostacolo che incontri? Se

l'azione altrui non un ostacolo, cessa la ragione per adoperare la

forza. La semplice immoralit, che non tocca punto il nostro diritto,


non recandovi alcun detrimento, non pu quindi giustificare l'uso della
orza: in tal caso l'uso che noi facessimo di questo mezzo recherebbe
al nostro simile un danno ingiusto, perch andremmo oltre il confine del

nostro diritto, offenderemmo la sua persona, la sua libert, un suo le


gittimo potere qualunque, secondo la natura del mezzo coattivo che ve
nisse adoperato. Dunque egli respingendo il nostro attacco, altro non
fa se non ridurci dentro ai limiti del nostro diritto, e liberar s dal

l'offesa indebita che si tentasse recare ai veri diritti suoi. Non il pre
teso diritto all'azione immorale, ma s quello all'integrit della per
sona, od altro, ch'egli difende respingendo il nostro attacco; di guisa
che se il mezzo esterno da noi impiegato ad impedire la immoralit al
trui non recasse offesa ad alcun suo diritto, nessuna ragione vi avrebbe

per giustificare la reazione a guarentire il semplice esercizio di azioni


immorali.

Tutte le azioni che non turbano la nostra attivit dentro i predetti


confini, non possono da noi essere con la forza interdette al nostro si
mile solo perch escono dal limite che la morale segna all'attivit

umana. Non bisogna per questo difetto di coazione chiamare diritto un


cos fatto esercizio immorale dell'altrui attivit; e mentre da prima si
fa consistere il diritto in una potest di fare, pretendere poi che sia
diritto tutto ci che gli altri non possono coattivamente impedirci, ci
sarebbe confondere le due idee di poter fare e di poter esigere con la
forza, reputandole correlative l'una all'altra, mentre la seconda deri

vata e limitata dalla prima. Il poter fare costituisce il nostro diritto; il


poter esigere costituisce l'esercizio del diritto: noi possiamo pretendere
all'uso libero del nostro diritto in faccia agli altri in quanto abbiamo il
diritto, e nel limite del diritto.

Che se pure vogliasi considerare la coazione come un particolare di


ritto, non si potr averne la chiara nozione senza ricorrere all'idea uni

versale del diritto. Ora la morale accorda l'uso regolato della forza a
sostegno di ogni diritto, ma non gi per costringere alla moralit: dun
que l'attivit dell'uomo, quanto a quest'uso delle sue forze fisiche,

limitata dalla morale alla sola tutela del proprio diritto; dunque l'uso
della forza come coazione, rispetto alle azioni puramente immorali, non

diritto, perch esce dal limite posto dalla morale all'attivit dell'uo

PARTE I.

29

mo; dunque l'uomo, usando la forza a questo modo, esce dalla sfera
del suo diritto; dunque colui, contro il quale adoperata, soffre una

limitazione dell'attivit sua per parte dell'altro uomo, non derivante


dall'esercizio dell'altrui diritto. E ci stando, manca la condizione,
sotto la quale conceduto l'uso della forza, e cessa il fine cui tende la
coazione.

chiaro adunque essere essenzialmente diverso il dire che l'uomo


non pu essere con la forza costretto alla moralit, e il dire che ha di

ritto anche all'immoralit, purch non offenda gli altri. La prima pro
posizione vera, perch la forza accordata al diritto, e l'uomo non
ha diritto di costringere con la forza il suo simile ad azioni morali,
quando il suo diritto sia illeso. La seconda falsa, perch ripugna al

l'idea del diritto, da tutti riconosciuto per un potere o facolt, che vi


abbia una facolt di fare ci ch' vietato di fare.

E se, come vedemmo, dall'intendere il diritto nel senso di un potere


dentro i limiti segnati dalla morale non segue che si possa usare la co

azione verso le altrui azioni che non siano diritto, solo perch oppo
ste alla moralit, quando con esse non si offenda il diritto nostro; nes

suna ragionevole obbiezione pu opporsi al principio stabilito, che cio


il diritto consista nella facolt di esercitare esteriormente la nostra at

tivit, in relazione ai nostri simili, entro i limiti segnati all'attivit


stessa dalle leggi tutte dell'ordine morale. Ed con ci determinato il

messo di subordinazione fra il diritto e la morale, e tolta ogni contradi


zione ripugnante all'armonia che dev'essere in tutti i rami dell'ordine
morale.

In somma, perch un'azione sia facoltativa, cio diritto, bisogna che


non sia vietata dalla legge morale; altrimenti ne verrebbe la contradi
zione notata. Perch un'azione possa essere coattivamente imposta biso
gna che interessi gli altrui diritti.

Quando l'azione non esca dalla periferia tracciata dalla morale, di


ritto; quando esca da questo limite, e di pi offenda l'altrui diritto, al
lora soltanto pu soggiacere alla coazione, giacch soltanto a tutelare il

diritto dalla ragione giuridica e morale conceduto quest'uso regolato


della forza fisica.

Per tal modo, ben lungi che il principio da noi stabilito produca il
temuto pericolo, esso anzi rende ragione dei limiti giuridici della co
azione, e li determina nello stesso modo che quelli di ogni altro diritto.

Con ci esso si mostra veramente per un principio supremo, che ha

30

SAGGIO

tutti i caratteri necessari onde poter essere il fondamento della scienza.

La morale non consente l'uso della forza per costringere alla moralit;
dunque quest'uso dell'attivit umana non diritto, perch esce dai li
miti segnati dalla legge morale a quest'attivit.
La necessit di stabilire la scienza del diritto sopra una base che non
sia manchevole, n importi logiche contradizioni, si rende evidente non
solo nell'ordine speculativo, ma eziandio nel pratico. Il diritto non

una pura idea, una semplice teoria; ma deve regolare tutti i rapporti
esteriori umani, cos individuali come sociali, e venire espresso in for
ma positiva nei Codici per uso della civile societ.
Ed appunto nelle conseguenze, nella pratica, che si appalesa la
necessit di abbandonare quella maniera inesatta di concepire il diritto

e ricorrere alla morale, per avere il criterio valevole a distinguere ci


ch' vero diritto, senza per confondere le due scienze, e a segnare il
punto dal quale comincia l'uso legittimo della coazione.
Tutti ammettono l'inviolabilit del diritto, comunque concepito; vale

a dire, pongono il principio: nulla potersi dall'uomo intraprendere,


che sia d'ostacolo all'esercizio libero degli altrui diritti. Ora se chia
minsi diritti anche le azioni immorali, in quanto non ledano l'altrui

persona, bisogna logicamente dedurne che l'uomo non possa intrapren


dere nulla che valga a turbare la pratica delle azioni immorali. Dunque
in forza del principio non solo si esclude l'uso della coazione, ma al

tres l'uso di qualunque mezzo valevole ad impedire l'esercizio della


immoralit. La conseguenza orribile, ma perfettamente logica. Che se
per evitarla si ricorra a distinzioni e limitazioni, come pur sogliono i
propugnatori del sistema che non possiamo ammettere; allora non
pi supremo, universale e vero il principio sul quale fondano la scien
za, dacch si ha bisogno di altri principi, ond'evitarne le erronee con
seguenze: e infine poi si riesce ad ammettere che vi siano alcuni diritti
inviolabili tanto con la forza, quanto in qualunque altro modo; e ve ne

siano altri inviolabili con la forza, ma violabili in qualche altra manie


ra, cio mezzo diritti e mezzo no: dottrina la pi nuova che imaginare
si possa.

Questa osservazione ci conduce spontaneamente ad un'altra affatto


analoga. Si ammette da tutti che l'uomo abbia facolt di ajutare il suo
simile nell'esercizio de' suoi diritti, almeno quando n' richiesto. Dato
quindi che l'uomo avesse il diritto alle azioni immorali non lesive,

come si pretende, tutti gli altri uomini non solo dovrebbero pienamente

PARTE I.

3|

rispettare, come accennammo, l'esercizio di queste azioni immorali, ma


avrebbero facolt di prestare aiuto a commetterle, se ne fossero ri
chiesti.

E siccome l'esercizio del diritto importa essenzialmente il doppio


modo, positivo e negativo, perch il diritto essendo facolt si pu ri
nunciarvi; cos se, per esempio, il suicida pregasse altri di cooperare
alla sua morte, questa cooperazione sarebbe un diritto, sarebbe un atto

giusto. La conservazione un diritto; al diritto si pu rinunciare;


l'esercizio del diritto autorizza l'ajuto prestato quando si richiesti;
e al postutto, volenti et consentienti in re sua non fit injuria.
Ma nessuno spinge le cose a questo punto. Tutti negano all'uomo la
facolt giuridica di aiutare l'altrui immoralit; e certi diritti si dichia

rano da tutti inalienabili, appunto perch potendosi considerare la stes


sa azione e come diritto rispetto a nostri simili, e come dovere rispetto
alla morale, la prevalenza della morale fa s che si neghi all'uomo la
facolt di rinunciarvi. In una parola, si riconoscono come doveri, si fa
prevalere la morale al diritto, e si ammette quindi la subordinazione di

questo a quella (1).


(1) Intorno alla inalienabilit dei fondamentali diritti innati giova riflettere,
ch'essa rimane sempre ferma eziandio nei casi da taluno allegati in contrario, in
cui il sacrificio della propria vita o della propria libert civile, e dei frutti delle
proprie fatiche, viene dalla morale approvato siccome eroica virt. Quanto al sa
crificio della vita per un fine morale prevalente, non vi possono essere gravi diffi

colt, potendo anzi divenire un dovere anche giuridico l'esporre la vita per
adempiere ad obblighi assunti. Quanto al caso di quello che a liberare un altro

dalla schiavit si desse schiavo in suo luogo, nel senso sopradetto, per tratto di
eroica abnegazione, non si pu dire che avvenga una convenzionale rinuncia della
propria personalit o degli attributi che in essa si racchiudono; mentre rimane

sempre la facolt di sottrarsi all'ingiusta violenza altrui, senza che colui il quale la
pratica possa per diritto pretendere la sommissione dello schiavo come conseguen
za di un valido contratto. L'ingiustizia del padrone non pu essere per lui fonte
di un diritto, e di una corrispondente obbligazione giuridica per parte dello schia
vo. Il diritto sussiste sempre anche quando un'ingiusta violenza ne impedisce l'eser
cizio. Il sottomettersi pe'l bene altrui alle conseguenze di questa ingiusta violenza

non toglie di potere ad opportuna occasione riprendere il pieno esercizio del dirit
to, che rimane sempre fermo senza che mai possa competere un diritto di servilit

o d'indennizzazione al padrone sullo schiavo. Dunque il diritto non fu alienato.


E, se ben si guardi, la inalienabilit dei fondamentali diritti costituenti la persona

lit non si fonda sul vantaggio ch'essi procurano all'uomo, ma sulla legge morale
che vieta all'uomo di operare in modo contradicente alla sua natura ragionevole.
Ora alla natura ragionevole contradice che l'uomo divenga puro strumento degli
altrui voleri, privandosi della sua esteriore libert, e quindi del carattere di per

32

SAGGIO

Sicch a confortare gli argomenti diretti, co' quali si stabilisce la


subordinazione del diritto alla morale, vengono eziandio le dottrine
accettate dalla scuola che in massima rigetta quel principio, ammet
tendo che in faccia ai nostri simili si possano avere diritti consistenti

in azioni riprovate dalla morale, purch non offendano gli altri uomini.
Questa scuola ammette che il diritto non sia una pura facolt fisica,
ma una potest morale in lato senso, cio una potest consentita dalla

ragione. Ammette ancora, che sia un diritto per l'uomo ogni uso retto
delle proprie attivit. Ora siccome nessun uomo di buon senno pu du
bitare che le azioni dalla ragione riprovate come immorali non possano
dirsi prodotte da un uso retto delle nostre facolt, se ne dovrebbe de
durre che non possano dirsi diritti, per non fare che la ragione contra

dicesse a s stessa. Quindi se la ragione, anche solo moralmente par


lando, le riprova, siccome uso non retto delle nostre facolt, rimane che

siano prodotti di forza esecutrice, atti di libero arbitrio, ma non diritti.


Tutto quello che si potr dire di queste azioni rispetto a nostri simili
si ridurr ad escludere una vera coazione per impedirle, dacch non

sono di offesa all'altrui persona. Ma qu si tratta allora non pi del


l'indole dell'azione, ma della legittima coazione, ch' tutt'altra cosa.
Che se il retto uso delle nostre facolt, base posta dalla scuola di
che parliamo ai diritti innati, ed a quelli originariamente acquisiti, con
sona: dunque la personalit e i diritti in essa inchiusi non possono essere a proprio
talento alienati dall'uomo, come fossero cose di cui abbia la libera disposizione. Ma
il fondamento sta sempre nella prevalenza della morale; e perci dal momento che
la morale riconosce come atto di dovere o di virt o di eroismo, od anche sempli
cemente lecito il soffrire certi danni, o l'esporre la vita, sotto certe condizioni,
sorge da queste condizioni stesse la facolt o l'obbligo di compiere quegli atti che
altrimenti non sarebbero o facoltativi o doverosi. Ma ci non contradice punto il
carattere fondamentale della inalienabilit, mentre il principio, da cui deriva, ri
posto nella subordinazione del diritto alla morale, la quale non acconsente all'uomo
di distruggere a suo arbitrio ci che costituisce essenzialmente la sua natura. Ed

appunto nella facolt di disporne a proprio arbitrio sta la alienabilit degli altri di
ritti, rispetto ai quali talvolta accade che la morale limiti la facolt di alienarli;

mentre invece, rispetto ai fondamentali, pone sotto certe condizioni la facolt o il


dovere di diminuirli o abbandonarli. Cos quello che avendo dei debiti spreca le
sue sostanze, e si mette per tal modo nell'impotenza di soddisfare ad obblighi di
giustizia, dispone di diritti di loro natura alienabili, ma nel caso concreto non alie

mabili rispetto al prevalente dovere di giustizia. Per l'opposto l'uomo non pu ar


bitrariamente mai privarsi di vita, ma pu esporsi a certo pericolo di perderla in
adempimento d'un maggiore dovere, senza che per ci la vita si possa dire un di
ritto di sua natura alienabile, come la propriet delle cose.

PARTE I.

33

duce ad escludere la possibilit logica di ammettere diritti di queste


due specie consistenti in azioni immorali, non si potrebbe trovare mi
gliore appoggio nelle sue dottrine rispetto ai diritti acquisiti derivati
vamente. Poich la dottrina delle nullit dei contratti, ove la presta

zione sia moralmente impossibile, e la dottrina delle condizioni, un


nuovo omaggio reso al principio della subordinazione del diritto alla
morale; mentre se dalla parte del contraente, obbligatosi per conven
zione alla prestazione immorale, questa immoralit rende insussistente
l'obbligazione giuridica; dalla parte del contraente, che avrebbe acqui
stato il diritto, la immoralit dell'atto convenuto distrugge l'idea di
qualunque diritto per parte sua ad una pretesa che conterrebbe una im

moralit imputabile a tutti due. Ond' sempre pi manifesto che


le medesime dottrine dell'altra scuola conducono ad una conseguenza
affatto opposta alle sue premesse; dacch, stando alle sue speciali sen
tenze nelle accennate materie, non si potrebbe dare diritto n innato
n acquisito ad azioni immorali.
Riassumendo: le questioni principali, che oggid si agitano nella scien
za del diritto, vertono principalmente intorno al punto della coordinazione

o della subordinazione del diritto alla legge etica. Due principi si stanno
a fronte: l'uno esclude affatto dall'idea del diritto ogni elemento etico;
l'altro vuole in qualche modo comprendervelo. Col primo si cade nella
contradizione di chiamare facolt nei rapporti fra gli uomini ci che
non facolt in verun modo; nel secondo alcuni vedono il pericolo di
accordare l'uso della forza anche per costringere alla moralit. Il diffi
cile adunque consiste nel trovare quella via di mezzo che escluda la
contradizione, senza incorrere nella falsa conseguenza tanto temuta. A

noi parve che questa via di mezzo si batta ponendo la morale piuttosto
come limite dell'attivit esterna dell'uomo, che non come carattere in
trinseco dell'azione per qualificarla diritto: imperciocch allora la mo
rale fa il doppio ufficio di segnare il confine all'attivit dell'uomo,

cio al diritto; e insieme quello che va posto all'uso della forza per
farlo valere, e quindi ci che si reputava ostacolo diventa conferma del
principio.

La distinzione che convien fare tra la moralit e la giustizia, tra il


foro interno e il foro esterno, tra ci che e ci che consta, non permette

di confondere il diritto e la giustizia colla moralit; ma la subordina


zione indispensabile a conservare l'unit dell'ordine morale non con
sente nemmeno di dividerne affatto le ramificazioni. Perci se da una
3

SAGGIO

34

parte non si pu seguire il principio di quegli scrittori che fanno una


cosa stessa del diritto e della rettitudine morale, crediamo dall'altra ad
evidenza dimostrato che l'opposto principio della scuola critica non

possa essere preso per base della scienza del diritto, dacch nelle sue
applicazioni non pu lasciare intatte le ragioni della morale e della vita
civile, se non coll'introdurre elementi ad esso estranei, e che logica
mente non ne discendono. Da fondamenti simili potranno dedursi alcune

dottrine speciali, alcune massime staccate, frutto di un retto sentire;


ma non di una scientifica deduzione da principio unico, supremo, fecon

do: senza di che non pu sorgere un sistema ben connesso e saldamente


edificato.

Una scienza deve reggersi da s con tutte le conseguenze del suo prin

cipio; e per dimostrare che il diritto inteso a quel modo non contra
dice alla morale, bisogna che non vi contradica nessuna delle conse

guenze del principio, senz'aver d'uopo d'introdurre altri principi per


evitarle. N vale il dire che il diritto una facolt, e quindi sempre
possibile osservare la legge morale, tralasciando di esercitare l'atto che
vi si opporrebbe: la contradizione c' sempre, quando la morale vieta
ci che il principio ammesso in diritto ci porterrebbe a dichiarare per
messo; poich il diritto sta sempre, anche astrazion fatta dal suo eser
cizio, che cosa diversa dalla sua essenza. Si avrebbe il diritto anche

non esercitandolo; lo si eserciterebbe come facolt quando facolt non ,


ossia non diritto.

Tolta di mezzo questa formale contradizione, l'ordine del diritto,


che non legge mancandovi l'idea di obbligazione, si connette e si sub
ordina all'ordine del giusto e a quello del retto morale, che formano

la legge giuridica e la legge etica, identiche nella fonte prima, distinte


nella estensione e nella qualit delle relazioni da esse governate. Tutta
la trattazione della nostra scienza viene per tal modo appoggiata ad un
principio unico e chiaro, fondato sulla natura dell'uomo, sull'essenza

della ragione umana, e sull'unit dell'ordine morale universale: il quale


principio di unit, che verremo svolgendo e confermando anche in s
guito, mantiene distinte le idee del diritto e del retto; e nell'atto che
subordina il diritto alla morale, segna eziandio i limiti alla coazione
giuridica.

Se la nostra discussione, invece che sui principi capitali della scien


za, si aggirasse intorno alle opere dei molti scrittori che adottarono il
sistema dell'assoluta separazione del diritto dalla morale, ci converrebbe

PARTE I.

35

per giustizia notare fino a qual punto le modificazioni da taluni intro


dotte nella formula esprimente l'idea suprema del diritto, secondo la
scuola critica, giovassero all'intento loro di evitare alcune delle pi
flagranti contradizioni, alle quali questo sistema conduce. Ma se nel
l'esame di un'opera particolare necessario tener conto di tutto quello
che lo scrittore ha fatto, onde separare le conseguenze del sistema, che
anche in lui si riscontrano, da quelle che o non avvert o cerc di evi
tare; questa cautela non pi n giusta, n opportuna, quando non si
tratta di giudicare l'opera di questo o di quell'uomo, ma l'indole del

principio e del sistema generale che determina il carattere d'un'intera


scuola, e che se dimostrato intrinsecamente erroneo, non pu divenir
buono per nessun correttivo che ne lasci intatta la essenza.

Questa regola generale tanto pi giusta nella grave disputa intorno


all'idea e alla scienza del diritto, in quanto che, come abbiamo detto
fin dal principio, essa ci sembra una pura questione di metodo, la quale
potrebbe ridursi al semplice quesito: Se il tale o tale sistema risponda

pienamente a tutte le esigenze pratiche della scienza che deve dare le


norme giuridiche della condotta degli uomini considerati in tutte le loro
relazioni, e specialmente nello stato di convivenza socievole; salva sem

pre l'unit dell'ordine morale.


Certamente il metodo ha una somma importanza nelle scienze morali,
perch un metodo erroneo conduce a stabilire dottrine che non s'accor
dano colla realt dei rapporti umani, collo stato di fatto in cui l'uomo
destinato a vivere, e colla legge morale; ma poich le relazioni fra
uomo e uomo come individuo sono pure una fonte di diritti e di doveri
giuridici, cos ha potuto avvenire che, movendo dal principio della

scuola critica, si formasse un sistema di diritto privato in parte conor


me alle giuridiche conseguenze che dai rapporti puramente individuali
degli uomini si deducono. Diciamo in parte conforme, perch, tolta la
subordinazione del diritto alla morale, il principio della scuola critica
conduce a conseguenze erronee anche rispetto ai diritti derivanti dai sem

plici rapporti privati, e non contiene l'elemento necessario a sommini


strare il fondamento di quelle speciali dottrine, nelle quali si fa preva
lere la morale al diritto, tal quale risulterebbe dal principio ammesso,
come abbiamo veduto. Ma la imperfezione del metodo si manifesta ancor
pi chiaramente quando si tratta di determinare i diritti e doveri giu
ridici nascenti dal rapporto di societ, e le moderazioni alle quali deve
soggiacere l'astratto diritto individuale in forza dello stato naturale di

36

SAGGIO -

convivenza; perch allora dal principio stabilito non si possono pi de


rivare, dacch esso non ne contiene il fondamento. Si quindi costretti
a ricorrere al puro elemento convenzionale, non trovando nel principio
stabilito una base sufficiente per determinare tutti i diritti che derivano

dai vari rapporti naturali dell'uomo.


Quindi il vizio capitale della scuola critica consiste nel considerare
l'uomo nei soli rapporti individuali, erigendo cos un sistema di giuris
prudenza filosofica, supposto l'uomo in una condizione ipotetica: si
stema imperfetto anche come dottrina del solo diritto privato, perch
non mantiene la essenziale unit di tutto l'ordine morale merc la sub

ordinazione del diritto alla moralit; pi imperfetto ancora se lo si

consideri riguardo alla integrit della scienza del diritto in tutte le sue
parti, perch non serve a determinare i diritti ei doveri giuridici che
derivano dallo stato naturale di convivenza socievole, nel quale l'uomo
si trova in realt collocato.

Egli impossibile che presti un solido e compiuto fondamento alla


scienza del diritto filosofico un principio che risguarda uno solo dei rap

porti umani, e che non considera le relazioni fra il diritto e la moralit


quanto necessario a mantenere intatta l'unit dell'ordine morale.
A rendere ancor pi evidente questa dottrina, e a mettere in maggior
luce il sistema di giurisprudenza filosofica seguito in questo scritto, giac
ch non ci persuadeva n l'uno n l'altro dei due che abbiamo fin qu
esaminato, ci si consentano alcune ulteriori considerazioni.
La mente umana essendo limitata, non pu ad un tratto abbracciare

l'insieme di vasti e complicati rapporti; ma le conviene invece studiarli


a parte a parte, e notare le conseguenze e gli effetti che da ciascuno
derivano.

Per siccome nelle scienze giuridiche, che danno norma all'operare


umano esteriore, i rapporti che servono di base ai diritti e doveri giu
ridici derivano dagli attributi essenziali dell'uomo, tal quale esiste nel
fatto, e quindi tutti contemporaneamente esistono a lui; cos la com

pleta scienza del diritto non pu limitarsi a taluna delle relazioni umane,
ma tutte deve comprenderle, affinch le conclusioni della scienza rispon
dano alla realt, e siano veramente pratiche.
Oltre a ci, siccome l'ordine giuridico fa parte dell'ordine morale
universale, cos dev'essere a questo subordinato; vale a dire, che il di

ritto non pu prescindere dalle relazioni tra il giusto e l'onesto, e quin


di dalla prevalenza di questo.

PARTE I.

37

L'indole pratica della scienza del diritto, come delle altre scienze

morali, rende necessario di seguire nel trattarla un metodo tale, che non
faccia perdere di vista neppure un momento n l'uomo qual nel fatto,
n la prevalenza del fine supremo ed assoluto della moralit sopra i fini
particolari.

Quindi , che sebbene il processo analitico nella ricerca dei diritti e


dei doveri giuridici esiga che si prendano in esame a parte a parte i
diversi attributi, relazioni e condizioni naturali dell'uomo, per dedurne
i diritti e doveri giuridici che rispettivamente ne discendono ; tuttavia

il completo sistema della giurisprudenza filosofica non pu avere a base


che un principio unico e supremo, il quale contenga tutti gli elementi

che lo rendano applicabile a tutte le svariate relazioni giuridiche del


l'uomo, senza obbliare la necessaria subordinazione alla morale. Ed
evidente che l'essenza del diritto e del dovere giuridico essendo neces
sariamente sempre la medesima, il principio fondamentale, ch'esprime
appunto i caratteri essenziali del diritto e del dovere giuridico, non
pu variare secondo la diversit dei rapporti dai quali discende questo
o quel diritto o dovere; perch la diversit della fonte, da cui imme
diatamente la ragione coll'analisi li deduce, non cambia la natura del
diritto e del dovere, n pu lo strumento dell'analisi scindere l'unit

dell'essere umano, e la contemporaneit dei rapporti ne' quali si trova.


Nell'idea del diritto, e quindi nel principio fondamentale di tutta la
scienza giuridica, ch' scienza non soltanto speculativa, ma eziandio

pratica, due elementi si devono contenere: uno teoretico, l'altro pratico.


L'elemento teoretico risulta dall'idea assoluta del diritto, considerato
come facolt dell'uomo in relazione alle leggi tutte dell'ordine morale;

l'elemento pratico risulta dagli attributi essenziali dell'uomo, e dai rap


porti che ne derivano, considerati nella loro totalit, e nello stato reale
in cui l'uomo si trova collocato, e nel quale tutti contemporaneamente
si manifestano e si attuano i diritti suoi.

Questa condizione reale di fatto non pu essere lo stato d'isolamento


individuale e di accidentale ravvicinamento, che non il modo di essere,

in cui dal Creatore sia stato posto l'uomo, e a cui fosse da lui destinato
nella vita presente. Dio non ha creato soltanto un uomo; ha creato una
societ conjugale: e dal momento ch'esiste una famiglia, esiste il seme,
onde si sviluppa la societ umana. Lo stato sociale dell'uomo quindi
non solo una relazione, come lo il rapporto da individuo a individuo,
considerato come persona; ma di pi una vera condizione o stato di

38

SAGGIO

fatto, in cui l'uomo si trova, e deve trovarsi sempre tutta l'umanit:


condizione o stato, nel quale soltanto possono essere pienamente svolti
e assicurati i diritti stessi derivanti dalla semplice personalit umana,
che dalla convivenza non distrutta, s bene assicurata; mentre l'uomo
non destinato alla societ perch cessi di essere persona, ma perch
trovi in essa le condizioni di fatto necessarie alla piena effettuazione del

diritto, e l'ajuto al conseguimento de' suoi fini.


L'idea e il principio del diritto, secondo la scuola critica, trascura
affatto l'elemento teoretico, e quindi in tesi generale scinde l'unit del

l'ordine morale, al quale pure il diritto appartiene. Dell'elemento pra


tico poi non considera che il nudo rapporto individuale; d'onde avviene
che le sue dottrine riguardino uno stato ipotetico di puro ravvicinamen
to, senza vero vincolo di societ, e quindi di cooperazione naturalmente

obbligatoria. In altre parole: manca in quell'idea l'elemento teoretico,


che serve a mantenere la connessione del diritto con tutto l'ordine mo

rale; e manca l'integrit dell'elemento pratico, per cui non pu appli


carsi alla condizione reale in cui l'uomo necessariamente si trova, non

potendosi dedurre dal principio generale della scienza n le modera


zioni agli astratti diritti dell'individuo, n quei diritti e doveri giuri

dici che non per convenzione, ma in forza dei naturali rapporti di societ
derivano da questo stato dell'uomo, nel quale soltanto possono essere
efficacemente assicurati e determinati nel modo del loro esercizio tutti

i diritti, da qualunque speciale rapporto immediatamente derivino.


Questi difetti che presenta la dottrina del diritto, fondata sulla pura
idea della personalit, sono conseguenza dell'abuso dell'analisi, che fa
perdere di vista la unit e la realt dell'oggetto specialmente quando
questo molto complesso.

Difetti simili, in senso inverso, ma provenienti dalla stessa causa,


presenta l'altro sistema egualmente esclusivo, che fonda il diritto sulla
pura socievolezza; perch si corre pericolo di dimenticare le relazioni

giuridiche dell'uomo come individuo, che pure sono reali, come rapporto,
non come stato, onde non si possono disgiungere da quelle di societ;
e manca egualmente nell'idea del diritto l'elemento che deve connet
terla con tutto l'ordine morale.

Se in fine si confonde il diritto colla rettitudine morale, nessuna di


stinzione ha luogo fra l'ordine giuridico e l'ordine etico; e non vi pi

una scienza del diritto e del dovere giuridico, ch' pur necessaria, per

ch indispensabile distinguere ci che risguarda le relazioni degli uo

PARTE I.

39

mini nel foro esterno, e ci che tocca alla condotta di ciascun individuo
in ordine al fine supremo.
Non potendo quindi l'idea del diritto fondarsi esclusivamente n
sulla sola personalit, n sulla pura socievolezza, n confondersi col
l'idea della rettitudine morale; e pur dovendo essere generale, applica
bile a tutti i rapporti giuridici naturali dell'uomo, e conforme all'unit
dell'ordine morale, inchiudendo l'elemento della subordinazione alla
moralit, senza confondersi con questa; non pu formularsi che dietro

quel carattere generale del diritto, che si verifica s nelle relazioni pu


ramente individuali, come nelle socievoli. Queste diverse relazioni da
ranno campo a dedurre i particolari diritti che da ciascuna di esse di

scendono; ma tutti dovranno essere informati all'idea suprema ed uni


versale del diritto stesso.

Riposta questa idea suprema del diritto nella facolt di agire dell'uo
mo, in relazione a suoi simili, in tutte le sue relazioni e condizioni, en

tro ai limiti segnati al suo operare dalle leggi dell'ordine morale; si ha


un principio universale che pu applicarsi a tutte le svariate relazioni
dell'uomo, dalle quali la ragione, analizzando, deduce i diritti e do
veri giuridici; e che mantiene la necessaria subordinazione alla morale:
poich il carattere di facolt comune a tutti i diritti, e il limite che

pone la legge morale all'attivit indefinita dell'uomo s'informa all'in


dole essenziale delle svariate relazioni naturali dell'uomo stesso, e quin
di si applica a tutti i diritti, e in tutti mantiene questa subordinazione
necessaria all'unit dell'ordine morale, senza confondere le relazioni este

riori giuridiche coll'intrinseca moralit o immoralit che risguarda la


coscienza.

Nelle relazioni fra uomo e uomo come individuo, che non costituisco

no uno stato e condizione reale dell'uomo, ma un semplice rapporto pro


duttore di alcuni diritti, l'attivit indefinita dell'uomo viene dalla mo
rale doppiamente circoscritta: perch da un lato non consente che si

riconosca come facolt qualunque uso dell'attivit indefinita dell'uomo,


che si manifesti esteriormente ripugnante alla moralit; e dall'altro in

terdice ogni coazione da uomo ad uomo pe'l solo scopo della moralit.
Quando poi dalla considerazione del semplice rapporto individuale si
passa alle relazioni socievoli, che sono anche stato o condizione naturale

dell'uomo in ordine al fine giuridico, ed anche mezzo alla moralit; le


limitazioni che la legge morale impone all'attivit dell'uomo assumono

un carattere pi concreto, determinato e pieno, perch le azioni che

A0

SAGGIO

nei puri rapporti privati non cadevano nella classe dei doveri giuridici,
n erano diritti per l'uomo individuo verso il suo simile, possono di

ventare doveri giuridici o diritti in forza delle relazioni e del fine della
socievolezza, ch' lo stato vero naturale dell'umanit, ed essere sog
gette alla coazione giuridica e alle sanzioni sociali, quando abbiano at
tinenza al fine giuridico della societ, in ordine al quale la morale lascia
pi largo campo alle facolt dell'uomo come cittadino, alla persona mo
rale ch' la societ, e al potere che la dirige al suo scopo giuridico.

Cos per una parte l'attivit privata dell'uomo viene moderata e diretta
dalla societ, e per l'altra si rafferma ed estende merc la tutela e la
cooperazione sociale. Tutto ci verremo svolgendo in sguito, sia rispet
to alla societ civile, sia rispetto alla societ domestica, che avendo an

ch'essa un fine naturale, d origine a diritti e doveri giuridici a lei


propri, ed autorizza l'uso della forza conforme allo scopo suo, senza
contradir mai alla legge morale. (Si vegga specialmente il Capo XV. di
questa Parte I)
Ma in tutte queste relazioni rimane sempre vero, che non si possono
dare diritti consistenti in un esercizio di attivit che si manifesti este

riormente in contradizione colle norme morali; onde rimane sempre salva


la subordinazione della scienza giuridica, in tutte le sue parti, all'or
dine morale dal quale deriva, e di cui un ramo distinto, ma non diviso.
Dalla quale subordinazione del diritto alla morale, posta come as

sioma e canone fondamentale della scienza, ne seguono tre corollario


principi derivati, che servono a chiarire molte questioni, a togliere mol
te difficolt, e a prestare una regola sicura anche alla legislazione nella
societ civile, le cui relazioni costituiscono un elemento essenziale e
sommamente influente nel determinare i diritti e le limitazioni del loro

esercizio a termini di ragione. E questi tre corollari sono:

1. Che tutto quanto assolutamente vietato dalla morale non pu


mai essere diritto, n quindi pienamente inviolabile.

2. Che tutto ci che la morale comanda non pu essere contrario


al diritto altrui.

3. Che tutto ci che la morale permette non pu essere ingiusto.


Cos il diritto, la giustizia e la morale formano un tutto armonico:
l'ordine morale universale, fondato sugli attributi essenziali dell'uomo

e sopra le conseguenti relazioni. E poich l'uomo fu dotato da Dio di


quelle eminenti prerogative che lo distinguono da ogni altro essere della
natura, e il primo rapporto suo la dipendenza del finito dall'Infinito;

PARTE I.

A1

cos il primo anello della catena scientifica si lega a Dio, prima fonte
d'ogni esistenza, d'ogni bont, d'ogni giustizia, d'ogni diritto, facen
dosi con ci aperta la profondit di quella magnifica sentenza del nostro
Vico: Omnem humanitatem a Deo existere, a Deo regi, ad Deum
ipsum redire; et sine Deo in terris nullas leges, nullas respublicas, nul

lam societatem; sed solitudinem, feritatem, et foeditatem, et nefas


esse (1).

CAPO VI.
Delle relazioni fra diritto e dovere in particolare.

Le cose dette mostrano gi quanto stretto sia il vincolo che lega il


diritto col dovere s giuridico che etico.

Ma per determinare un po' pi chiaramente in che consista questa


connessione giova instituire alcune ulteriori ricerche.
Facendo attenzione alla genesi delle idee del diritto e del dovere giu
ridico, facile avvedersi che sebbene siano essenzialmente correlative,

per modo che non si pu concepire concretamente un diritto senza che


vi corrisponda negli altri un dovere giuridico; e viceversa non si pu
pensare un giuridico dovere senza riportarlo ad un altrui diritto: non

per questo si pu dire che il diritto si generi dal dovere, n questo


da quello.
Le idee del dovere s giuridico che morale procedono da una mede
sima fonte, la legge morale, che comprende in s anche i doveri giuri
dici, ossia di esteriore e coattiva giustizia verso gli altri; i quali, se

parati dalle altre specie di doveri, e riferiti al fine particolare e all'or


dine esterno della convivenza, si manifestano derivanti dalla legge giu

ridica, distinto ramo dell'ordine morale generale, sebbene subordinato


a questo.

Perci il dovere giuridico si distingue dal dovere etico non gi nella


fonte prima da cui deriva, ma solo in quanto riguarda la semplice este
riorit dell'atto, e i soli rapporti fra gli uomini, dai quali deriva il ra
gionevole reciproco esercizio della loro attivit esterna. Quindi giusta
mente si dice che il dovere giuridico esterno e coattivo; a differenza
del dovere etico, ch' anche interno e giammai coattivo, in quanto si
consideri come puramente etico.
(1) De uno universi juris principio et fine uno, in conclus.

A 2

SAGGIO

Invece l'idea del diritto procede da quella dell'attivit indefinita

dell'uomo, la quale dentro i confini segnati dalle leggi etica e giuridica


pu esercitarsi facoltativamente, cio senza obbligazione, quando si
consideri il puro diritto.

Non ch'io abbia il tale o tale dovere giuridico, perch al mio si


mile spetta il tale o tale diritto; ma principalmente perch la legge
giuridica, e l'etica eziandio, me lo impone in vista del fine suo, e di
quella libert che lascia all'esercizio della facolt umana in quei dati
modi che costituiscono i diritti. Per lo che il dovere giuridico ha due
relazioni: una col diritto altrui, l'altra colle leggi da cui deriva.
Questa maniera di considerare la relazione fra il diritto e il dovere

giuridico, quanto alla loro genesi, ci pare che si accordi meglio che nes
sun'altra col principio della necessaria subordinazione di essi alla legge
e all'ordine morale, senza dar luogo a confondere il diritto colla retti
tudine, e lo si voglia derivare dal dovere; oppur rendere meno efficace
l'idea del dovere, se lo si tragga solamente dal diritto altrui.

In quest'ultimo caso sopratutto ci pare che manchi una solida base al


dovere giuridico, mentre il dovere conducendo necessariamente alla legge
che lo impone, questa si troverebbe consistere nel diritto altrui, il quale
dal canto suo non pu essere determinato senza ricorrere all'idea della
legge che circoscrive l'esercizio facoltativo dell'umana attivit. Cosicch
la legge giuridica sarebbe l'altrui diritto; e il diritto sarebbe una
facolt dentro i confini segnati dalla legge stessa, che da esso deri
verebbe.

N la reciprocit del diritto e del dovere dell'un uomo verso l'altro


basterebbe a togliere questo circolo vizioso, perch l'assunto della scien
za consiste nel determinare il principio supremo e l'idea generale del
diritto e del dovere; e la reciprocit non altro che la conseguenza
dell'identit essenziale degli attributi in ciascun uomo, per cui il prin

cipio generale, l'idea suprema del diritto e del dovere giuridico, si ap


plica a tutti, e in tutti per conseguenza si trovano contemporaneamente
gli stessi diritti e gli stessi doveri corrispondenti.
Tutto ci sia detto per servire ad una maggior precisione, e come

conseguenza di quella dottrina media che abbiamo detto di voler segui


re. Ch in sostanza nessuno nega l'esistenza della legge giuridica, co
munque la si deduca, se non quelli che si ribellano ad ogni principio

di ragione e di moralit, per abbracciare una teoria che materializza il


diritto, e lo confonde colla forza.

PARTE I.

A3

Nell'esporre poco fa la nostra maniera di vedere intorno alla genesi


indipendente del dovere giuridico e del diritto abbiamo accennato le

due caratteristiche essenziali che distinguono il dovere etico dal giuri


dico: questo solamente esterno, quello anche interno; questo coattivo,
quello no; ed abbiamo adoperato le espressioni di dovere puramente

etico e di diritto puro. Diamo ora ragione di questo modo di esprimer


ci, con che ci si apre la via a discorrere di altre importanti relazioni
del dovere etico col diritto.

Romagnosi in pi luoghi della Genesi del diritto penale fa cenno di

diritti che poggiano sui doveri. Questo argomento, bene studiato, d


luogo a considerazioni importanti.

La perfezione, la conservazione e la felicit sono i tre oggetti cui si


riportano tutti i doveri, i tre fini di tutto l'umano operare: assoluto e
supremo il primo, condizionati gli altri due. Ma questi tre fini, oggetti
e doveri universali della morale, sono eziandio il termine d'ogni diritto.
L'esercizio dell'attivit umana, sia doveroso, sia lecito e facoltativo,

non pu ragionevolmente rivolgersi che alla perfezione, alla conserva


zione, alla felicit.
Cotesta identit nell' obbjetto ultimo, a cui mettono capo i diritti e i
doveri, fa s che necessariamente gli uni e gli altri si trovino continua
mente a contatto; cosicch assai spesso l'identica azione possa essere
considerata e come diritto e come dovere.

Le azioni umane sono o puramente interne, od anche esterne. Delle


prime non pu cadere discorso quando si tratta del diritto: esse vengono

giudicate unicamente in relazione alla legge morale. Ma le azioni, quan


do dalla intenzione passano a manifestarsi esteriormente, possono essere
o di loro natura buone o ree, ovvero acquistare l'uno o l'altro di que
sti caratteri dalle circostanze o dalla intenzione di chi le opera.

La pura intenzione non pu essere dall'uomo penetrata senza che


l'agente la dichiari; e quando pure segua questa dichiarazione, essa po
tr dar luogo ad un giudizio sulla moralit dell'atto, non mai sulla sua

indole giuridica, perch l'intenzione non influisce esteriormente sull'al


tro uomo. Quindi, parlando delle relazioni fra i diritti e i doveri mo

rali, questi propriamente non possono considerarsi nella loro pienezza,


la quale importa bont anche nell'intenzione; ma soltanto considerarsi
dal lato della loro legalit, ossia esteriore conformit colla legge morale.
Le azioni umane esteriori, astrazione fatta dalla intenzione che pu

talvolta mutarne la qualit morale, o, comunque sia, toglierne o dimi

A4

SAGGIO

nuirne il merito morale, possono essere mezzi all'adempimento di do


veri, oppure esercizio di facolt ossia diritto, oppure l'una e l'altra
cosa ad un tempo.

Tutto ci che l'uomo fa esteriormente per adempiere al dovere della


propria perfezione morale, non pu essere riguardato che come adempi
mento del dovere assoluto. Simili azioni non potrebbero cadere sotto le
considerazioni del diritto, perch non toccano i nostri simili. Per conse

guenza sarebbe ingiusto qualunque uso della forza che altri facesse, sia
per imporle violentemente, sia per impedirle. E chi quest'abuso della
forza respingesse da s, non arebbe altro che allontanare il pericolo che
minacciasse la sua sicurezza ed integrit personale.
Ci conforme ai prestabiliti principi, in forza dei quali la pura im
moralit o moralit non potendo essere da uomo a uomo n impedita

n imposta dalla forza, l'uso di questa non sarebbe consentito dalla ra


gione nemmeno per costringere violentemente l'uomo alla moralit. Dal

che per non si pu inerire che le azioni di loro natura assolutamente


immorali, perch opposte al fine supremo, possano dirsi diritti verso i
nostri simili; poich l'uso della forza, nel caso di cui parliamo, ille
gittimo non in vista della natura dell'azione altrui che si vorrebbe im
pedire o produrre, ma in vista della legge morale e giuridica che non
consente di adoperarla. Tanto vero, che se invece della forza altri
mezzi non nocevoli n violenti si adoperassero da un uomo verso un al

tro ad impedire la immoralit o ad eccitare alla moralit, ci non po


trebbe essere con ragione riprovato; mentre invece, se in qualunque

modo si offendesse un diritto altrui anche senza uso di forza propria


mente detta, l'altrui diritto sarebbe sempre offeso.
-

Queste considerazioni si faranno ancor pi chiare per quello che do

vremo dire in sguito rispetto alla societ, ch' lo stato nel quale il di
ritto si svolge pienamente e si appalesa in tutte le sue relazioni, ed in
torno alla coazione giuridica e all'uso della forza in servigio dei nostri

simili (Capo XV). Per ora ci basti dedurre come conseguenza delle
cose dette, che le azioni le quali nella loro indole esterna sono assoluta
mente morali o immorali in ordine al fine supremo immediatamente, non

hanno relazione propria con diritti particolari, ma solo col diritto gene
rico dell'incolumit personale; imperciocch questa entra nella sfera
dei veri diritti, siccome connessa colla conservazione, la quale d ori

gine a doveri e diritti speciali subordinati al dovere assoluto della per


fezione, la quale non si pu ottenere senza la conservazione, sia per

PARTE I.

A5

praticare gli atti che vi sono conformi, sia per emendarsi degli op
posti, e ritornare solla via del dovere e della virt.

Nel che si appalesa una mirabile armonia nell'ordine morale: da un


canto la facolt dell'uomo rattenuta dentro i confini della

legge; dal

l'altro la sua attivit personale protetta dall'altrui coazione, affinch


anche dove il suo esercizio non pu dirsi facoltativo, ma tuttavolta

senza offesa dell'altro uomo, l'integrit personale sia sempre protetta,


n l'uomo sia mai autorizzato ad operare contro l'indole della morale,

arrogandosi un potere che la legge etica non gli consente, e valendosi


della legge stessa come pretesto a giustificare violenze che finirebbero
per impedire la libera esecuzione di essa, la libera pratica del dovere e
della virt, il libero ritorno sulle loro vie, se abbandonate; e l'uomo sia

obbligato a rispettare, nel suo esterno agire verso i suoi simili, quella
libert di arbitrio ch' condizione essenziale della moralit.

Finora abbiamo considerato le azioni esteriori dell'uomo in quanto


di per s appariscano conformi o difformi dal fine supremo immediata
mente. Ma molte azioni l'uomo pu praticare, le quali si connettono col
fine supremo mediatamente, essendo la pratica di doveri condizionati, o
vestono il carattere della moralit o del suo contrario per la intenzione

di chi le pratica, o per le circostanze in che si praticano.


Questa seconda specie di azioni apre un vasto campo alle relazioni
fra il dovere ed il diritto.

In primo luogo da riflettere che molte azioni, quantunque relative


a doveri condizionati rispetto al supremo, possono anche per la loro
sola indole esterna manifestarsi siccome assolutamente immorali, quan
tunque forse non imputabili moralmente per lo stato di mente di chi le

opera; per esempio, il suicidio di un pazzo.


I doveri condizionati o sono tali perch in certi casi pu ommettersi
il loro adempimento in vista di un dovere prevalente, o sono tali per
ch non sussistono che date certe circostanze. Ma quando o non sussi
sta la circostanza che faccia luogo a questa preferenza, o quando sussi

stano quelle che li fanno essere, essi non differiscono dagli assoluti se
non in quanto si considerano siccome mezzo mediato al fine supremo.
Il dovere della conservazione, quando non sia il caso di sacrificare la
vita per l'adempimento del dovere di perfezione, sarebbe un dovere con

dizionato della prima specie. Il dovere della beneficenza positiva, quando

vi sia chi ne abbisogni, ed abbiansi i mezzi per praticarlo, sarebbe della


seconda specie.

A6

SAGGIO

L'esistenza delle circostanze risguarda la moralit dell'atto, la in


tenzione e la coscienza dell'operante; ma non influendo sull'indole este

riore dell'atto, n sugli altri uomini, non pu cambiare la qualit estrin


seca dell'azione rispetto al giudizio degli uomini.

Per conseguenza l'esame delle relazioni fra il diritto e questi doveri


deve di necessit limitarsi alla sola indole esteriore dell'atto. Qualora

quest'atto nella sua indole esterna si appalesi contrario al dovere, esso


viene compreso in quella classe di cui abbiamo sopra ragionato, ed esce
dalle relazioni del diritto propriamente detto.
Qualora invece l'atto esterno non manifesta cos fatta contradizione,

esso nelle relazioni fra gli uomini non si pu ragionevolmente conside


rare che come un diritto.

Infatti non potendo l'uomo farsi giudice delle intenzioni del suo si
mile, egli non vede in quest'azione altro che l'esercizio dell'attivit
umana dentro i limiti segnati dalla legge morale. Quale sia la relazione

dell'atto colla legge, in conseguenza delle circostanze o della intenzione


dell'agente, tutta cosa riserbata alla coscienza di questo. Quindi, a
cagion d'esempio, se un uomo vuol conservare la sua propriet, anche
rifiutando il soccorso esterno richiesto da uno che si dice indigente, gli
altri uomini non possono vedere in quest'atto che il puro e nudo eser
cizio del diritto di propriet.
Quando si dice che i diritti poggiano in gran parte sui doveri, egli
evidente che si deve intendere essere essi un uso dell'attivit dell'uo

mo, che si procura, conserva e adopera i mezzi necessari all'adem


pimento de suoi doveri; non gi in quanto sempre la cosa sia cos ri
spetto all'intenzione e alla moderazione di chi li esercita, ma in quan

to gli altri uomini non possono considerarli se non nella loro indole
esteriore.

Nel diritto si considera l'attivit umana dentro i limiti segnati dalla

legge morale nelle relazioni puramente esteriori fra gli uomini. Quindi
gli stessi atti che nell'intenzione di chi li fa possono o debbono essere
rivolti all'adempimento del dovere, nelle relazioni fra gli uomini non si

possono considerare che nel loro carattere esteriore. Ci a dire, che


posta la semplice legalit dell'atto rispetto ai doveri di giustizia impo

sti dalla legge morale verso i nostri simili, non si pu nei rapporti
umani investigare l'intenzione, la quale rimane tutta subbiettiva ed in
dividuale; ma devesi guardare alla sola indole esteriore dell'atto, la
quale si manifesta inchiusa nei confini tracciati all'umana attivit dalle

PARTE I.

A7

leggi d'ordine morale, dalla giustizia esteriore, e quindi una facolt


in relazione al giudizio che possono e debbono farne gli altri uomini.
Riassumendo in poche parole: le azioni umane o sono esclusivamente
connesse coll'osservanza della legge morale, e allora escono dalla sfera

delle considerazioni del diritto, e non rimane pi, rispetto a questo,


che la inviolabilit personale: diritto generico che sta da s, che deriva

da quello della conservazione, che importa negli altri uomini l'obbligo


di astenersi da ogni vera violenza, senza che per questo l'azione im
morale, che non pu essere colla forza impedita, possa mai dirsi un di

ritto. Se la coazione esclusa, non per inviolabile l'azione in quel


senso pieno e perfetto ch'esige l'idea d'un vero diritto.
Se, per l'opposto, le azioni sono bens connesse col dovere morale,
ma pu in esse distinguersi la legalit loro dalla moralit, bisogna nelle
relazioni fra uomo ed uomo guardare unicamente alla legalit.

E diciamo nelle relazioni fra uomo ed uomo, poich non indiffe


rente la moralit dell'azione, rispetto al diritto, quando si considerino
gli uomini nelle relazioni derivanti dallo stato naturale di convivenza
civile. Poich dall'una parte la societ civile un dovere, dall'altra
una necessit dell'uomo; e quindi d origine a particolari doveri, ad
una estensione maggiore complessiva dell'attivit umana, e a speciali
restrizioni rispetto ai limiti di particolari diritti, e al modo del loro

esercizio. Quando avremo a discorrere di questo stato e di questo nuovo


rapporto, in cui si deve considerare l'uomo, si vedr che l'indole morale
dell'azione, ed il principio che la periferia del diritto, come facolt,
designata dalla legge morale, influiscono grandemente a segnare le nor
me dell'operare umano nei rapporti di societ, ad escludere l'idea di

qualunque arbitrio, e a subordinare tutti i rami delle scienze giuridiche


ad un unico principio e criterio normale che le diriga.
Un'altra relazione del diritto col dovere, della quale pi volte ab
biamo fatto cenno, e che vuol essere considerata separatamente, si
quella della coincidenza del diritto col dovere nel medesimo atto.
La legge morale non solo limita l'attivit indefinita dell'uomo,

la quale, quando non esca dai confini che le sono tracciati, riveste il
carattere del diritto nel senso di una facolt che pu essere o no
esercitata; ma talvolta, sia in modo assoluto, sia condizionatamente, to
glie all'azione il suo carattere di facolt, e la riveste del carattere del

l'obbligazione, prescrivendo un determinato esercizio dell'attivit este


riore umana.

48

SAGGIO

Le premesse dottrine si applicano eziandio a questo caso. Poich se


la semplice mancanza di contradizione fra l'atto esteriore e la morale fa
s che l'azione esteriore debba essere dall'altro uomo considerata come

diritto, tanto pi questo giudizio dovr aver luogo quando quest'azione


esteriore di dovere.

Ove l'atto esteriore di dovere non abbia influenza sull'altro uomo, i

principi generali, che abbiamo stabilito, ci portano ad escludere cotali


azioni dal novero dei veri diritti, aventi un proprio oggetto partico
lare e determinato, rimanendo sempre fermo il generico diritto della
incolumit personale.

Ma quando l'azione ha influenza sull'altro uomo, e nello stesso tempo


imposta dalla morale come dovere, essa non differisce dagli altri di

ritti quanto al giudizio che deve farne l'altro uomo, sebbene nel sog
getto che lo possede non abbia quel carattere di semplice facoltativo
ch' proprio del puro diritto, quando non nello stesso atto congiunto
l'adempimento del dovere.

La connessione mediata o immediata dell'azione col fine supremo far


s che il carattere di facolt sia tolto ad essa dalla legge morale o con
dizionatamente o assolutamente; ma rispetto all'altro uomo, che deve
guardare alla semplice conformit o non contradizione estrinseca fra
l'atto e la legge morale per giudicarlo diritto, la differenza intrinseca
non ha fra uomo ed uomo conseguenze giuridiche.
Quanto ai casi in cui l'esercizio dell'attivit esteriore non si accom

pagna colla rettitudine morale a cagione della intenzione o delle cir


costanze, si gi veduto come nei rapporti fra uomo ed uomo debba
considerarsi la sola esteriore legalit.

Ma il principio medesimo vale anche per le azioni esteriori influenti


sull'altro uomo, di loro natura connesse coll'adempimento del dovere.
Poich il non essere queste azioni facoltative deriva dal precetto morale
che le impone, e quindi importando esse un esercizio esteriore di atti
vit influente sull'altro uomo, non possono classificarsi fra i puri atti
esteriori di dovere che non toccano i nostri simili, e che perci sono
fuori delle considerazioni del diritto; non possono riguardarsi come con
trarie al diritto altrui, perch la morale le impone; e quindi necessaria

mente bisogna dirle diritti rispetto all'altro uomo, che per conseguenza
non potrebbe n impedirne l'esercizio, n imporlo coattivamente, se non

nel caso che al dovere etico andasse congiunto anche il dovere giuri
dico corrispondente ad un suo diritto.

PARTE I.

A9

Per esempio, il diritto della patria potest non altro che il modo
di adempiere i doveri particolari che per legge morale e giuridica in
combono ai genitori. Tutti gli uomini adunque, e il figlio stesso, non

possono vedere nella patria potest che un diritto, in quanto un este


riore esercizio di attivit rispetto ad altro uomo, conforme alle norme

della morale. In quanto per questo dovere anche giuridico rispetto


al figlio, spetter al figlio il corrispondente diritto. Anzi generalmente
tutti i cos detti diritti delle persone, ciascuno nei limiti dentro i quali
la morale prescrive i doveri di cui sono l'esecuzione, sono diritti ri

spetto al giudizio che devono portarne gli altri uomini, ma non hanno
il carattere di semplice facolt nel soggetto cui appartengono; come

non sussistono pe'l vantaggio di chi li possede, ma per quello degli al


tri che hanno o non hanno diritto alla prestazione di quegli uffici, se
condoch il dovere morale vada congiunto o no col dovere di giustizia,
sia in conseguenza dei semplici rapporti individuali, sia per effetto del
rapporto di societ.

Di qu si vede come non si possa ridurre l'esercizio legittimo della


forza, rispetto ai nostri simili, al solo uso della coazione propriamente
detta per far valere i nostri diritti; ma che bisogna distinguere questo
impiego della forza da quello che consiste in una semplice attivit este
riore verso il nostro simile, in adempimento dei morali doveri. Il nesso

di quest'argomento con quello della sanzione delle leggi morale e giu


ridica ci obbliga a serbarne la trattazione per l'ultimo Capo di questa
prima Parte.
CAPO VII.
Molteplici rapporti dell'uomo. Il Diritto e la Societ.
Unit del Diritto.

Che l'uomo si trovi collocato in differenti relazioni e stati, un po


stulato fondamentale e non controverso delle scienze morali.

Queste diverse relazioni e modi d'essere sono un effetto dei differenti


attributi essenziali di cui fornito.

La ragione e la libert lo rendono ente morale; capace quindi di co


noscere il fine supremo che gli dato da conseguire, di proporsene al
tri a quello subordinati, di scegliere i mezzi che vi conducono: in una

parola, di conformare o no le sue azioni alla legge morale e alla volont


di Dio.

50

SAGGIO

La sociabilit, ch' pure uno degli essenziali attributi dell'uomo, fa

sorgere le relazioni co'suoi simili, le quali per una parte sono la base
dei doveri cos morali come giuridici verso i suoi simili, per l'altra dan

no origine ai diritti.
Limitando le nostre ricerche ai semplici rapporti esteriori tra gli uo
mini, troviamo ch'essi riduconsi a tre principali; cio: rapporti fra
uomo ed uomo, considerati come individui dotati dei medesimi attributi;
rapporti fra gli uomini come formanti una particolare famiglia civile;
rapporti generali fra tutti gli uomini, o, come da alcuni si dicono, rap

porti di societ universale o internazionali.


La scienza del diritto deve necessariamente abbracciare tutto l'in

sieme di queste tre relazioni, e quindi occuparsi di tre classi di diritti


e doveri giuridici: l'una nascente dai rapporti puramente individuali;
l'altra dai rapporti di societ civile particolare; la terza dai rapporti
di societ universale.

La prima classe l'oggetto di quella parte della scienza che dicesi co


munemente del diritto privato; la seconda del diritto publico interno; la
terza del diritto publico esterno, detto pure internazionale, o delle genti.

La completa scienza del diritto filosofico non pu prescindere da nes


suno di questi rami; ma la loro distinzione non vuol essere spinta cos da

porre una piena separazione fra i diritti individuali e i sociali, dappoi


ch gli uni non esistono n possono esistere affatto isolati dagli altri;
ma si connettono e si contemperano in quel modo ch' necessario a non

distruggere l'armonia e la stabilit dell'ordine e dello stato di societ


al quale fu predisposto l'uomo, e in cui fu collocato dalla stessa natura.
Imperocch non vuolsi confondere l'origine della societ in s stessa
colla origine dei differenti corpi politici in cui si trova l'umanit ri
partita. Questi sorgono per fatti positivi giusti o ingiusti, secondo l'in
dole loro conforme o no ai principi generali della giustizia e all'ordine
essenziale dell'umana convivenza; invece la societ, considerata nella
sua essenza, una necessit, un istinto, un fatto che non dipende n

pu dipendere dall'arbitrio dell'uomo, e dalla cui indole naturale con


viene prendere la norma per giudicare della giustizia e della bont di
ogni positivo ordinamento.

La dottrina del patto sociale ha portato una gran confusione nella


scienza del diritto non solo publico, ma anche privato, per il necessario
loro vincolo; la quale non ci sembra al tutto cessata, quantunque nes
suno oggimai sosterrebbe seriamente che la societ umana sia surta da

PARTE I.

51

un contratto che da tutti si ripudia, sia che lo si consideri dal lato sto

rico, sia che lo si guardi secondo i principi di ragione.


E qualora si derivi dalla convenzione l'origine delle particolari so
ciet, da essa non si potrebbero cavare dati ed argomenti che per ista
bilire i diritti riguardanti la forma del regime di quello stato in partico
lare, in quanto le forme sono effetto di positive deliberazioni, ed in s
stesse giuste, quando nulla abbiano di contrario alla essenza della so

ciet, ai diritti che sorgono razionalmente dai rapporti di convivenza


fra gli uomini, e ai fatti naturali e indipendenti dall'arbitrio umano,
che manifestano la volont suprema della Providenza, quanto all'ordina
mento fondamentale ed essenziale delle civili societ.

I diritti e doveri giuridici essenzialmente derivanti dal vincolo di

societ, non da fatti arbitrari, ma da questi rapporti naturali di societ


vogliono essere derivati, onde non mettere le disposizioni arbitrarie de

gli uomini in luogo delle regole della ragione giuridica.


L'uomo ad un tempo individuo della specie umana, membro della

societ umana, e cittadino di quella particolare societ cui appartiene; i


diritti che gli spettano, e i doveri giuridici che gl'incombono in cia

scuno di questi tre modi d'essere, in cui lo si pu e lo si deve consi


derare, sussistono contemporaneamente. Se la scienza, per servire alla
limitazione della mente umana, in necessit di considerare queste re
lazioni ad una ad una, non pu prescindere dalla influenza loro reci

proca, sotto pena di fabbricare un castello in aria in luogo di una trat


tazione sistematica, corrispondente alla realt e all'indole non pura
mente teoretica, ma anche pratica delle scienze morali.

La scienza del diritto non pu quindi essere completa, ove prescinda


dall'uno o dall'altro di questi tre fondamentali rapporti. Ma ad un tempo
non potrebbe condurre a conclusioni giuste, e corrispondenti al vero or
dine naturale, ove anche solo mantenesse troppo la separazione fra l'uno

e l'altro, e spingesse le ricerche del privato diritto oltre quel giusto


confine, varcato il quale l'analisi volendo prescindere dall'elemento

della sociabilit, condotta a risultamenti falsi, e non applicabili alla


realt complessiva degli umani rapporti.
Ammessa infatti la societ come lo stato vero naturale dell'uomo,

tutto quello che naturalmente deriva dalla sua essenza entra come fat

tore nel determinare la giusta idea del diritto, nel dare le norme del
pratico suo esercizio, e nello stabilire quindi quei temperamenti reci
proci, senza i quali sarebbe impossibile la societ e il suo fine.

SAGGIO

52

Prescindendo dalle forme accidentali e positive, che non cangiano


l'essenza dei sociali rapporti, il principio e la norma suprema della so
cialit l'aiuto reciproco.

Questo costituisce, come nota il Romagnosi, la legge suprema della so


cialit. E di qu forse avvenne che la teoria del contratto sociale potesse
illudere molti, che confusero l'indole e gli effetti della convivenza so
ciale colla causa prossima di essa.

Poich tutta la vita civile riducendosi al soccorso reciproco, offre


nell'effetto alcun che di rassimigliante alle conseguenze dei contratti,
mentre la causa efficiente della societ non sono n possono essere le ar
bitrarie convenzioni fra gli uomini, ma bens l'indole socievole dell'uo

mo, la necessit assoluta della societ, e il fatto naturale e costante, per


cui l'uomo fu, e sar sempre in societ co' suoi simili.
La societ dev'essere considerata come lo stato naturale dell'uomo,
come fonte di diritti e di doveri giuridici, come mezzo di tutela dei di
ritti anche individuali, come causa di temperamento all'astratto diritto

dell'individuo, come aiuto all'umana perfettibilit, come mezzo alla mo


ralit, e come produttrice di utilit.
Tutto questo si riassume nel triplice fine della societ, ch' la sicu
rezza, il benessere e il perfezionamento. A questo fine dovendo concor
rere le azioni di tutti, n potendo questa comune tendenza verificarsi

senza una direzione comune, dall'idea medesima di societ sorge quella


dell'autorit, come conseguenza dell'indole e del fatto stesso della
societ.

Quest'autorit, che sorge dall'intima natura della societ, si attua


pe'l fatto stesso della sua esistenza, e si manifesta sotto forme diverse,
secondo l'indole loro, anche nelle societ elementari, che formano nel

loro complesso le particolari societ civili. Cos nella famiglia, elemento


primo della societ in tutte le sue significazioni, sorge per l'indole sua

la potest paterna; nel comune, aggregato di famiglie, sorge quella dei


padri di famiglia insieme deliberanti, o da s, o per rappresentanza; e
finalmente nella civile sorge un potere pi completo e pieno, la sovra
nit, e si manifesta intieramente l'influenza del rapporto di societ nella
determinazione dei diritti umani.

Unione, cooperazione, tutela, sicurezza, dipendenza dall'autorit, e


quindi dalla legge, formano perci i caratteri essenziali della civile so
ciet, e la fonte da cui debbonsi dedurre completamente i diritti e do
veri giuridici degli uomini.

PARTE I.

53

Quando si considera l'uomo come socievole, non si possono certo


trascurare i diritti ch'egli ha in forza della sua sola natura individuale,
de' suoi attributi, e delle relazioni che ne derivano immediatamente. Ma

poich l'unione co' suoi simili in un vincolo di convivenza comune e per


uno scopo comune d origine ad altri rapporti e ad altri diritti e doveri,
conviene ammettere come naturali e necessarie tutte quelle moderazioni
nell'esercizio del diritto e tutti quei doveri che sono conseguenze della

necessaria cooperazione di tutti al fine comune, e che l'autorit, mediante


la legge, impone ai membri della comunanza civile.
L'idea della societ e le sue conseguenze non sono elemento necessa
rio a dedurre ogni diritto dell'uomo, ma sono elemento essenziale a sta
bilire un completo ed armonico sistema dei diritti e dei doveri giuridi
ci. Perci fra gli attributi del dovere giuridico, genericamente conside
rato, non volemmo annoverare quel carattere, per cui si disse da alcuni
essere il dovere giuridico originariamente negativo; mentre dal rapporto
di societ sorgono doveri strettamente giuridici, e pur tuttavia positivi,

i quali non potrebbero essere dimenticati senza rendere imperfetta la


nozione generale del giuridico dovere.

Questi principi, svolti ampiamente dal Romagnosi, e recati a molte


importantissime conseguenze, servono specialmente a fissar bene il car
dine fondamentale del giusto regime civile, riassunto in questo teorema:
che niente v'ha nell'ordine sociale che sia riserbato all'arbitrio, ma

ogni disposizione positiva dev'essere subordinata e conformata ai prin


cipi di ragione naturale.
Dall'ordinamento fondamentale, fino ai pi minuti particolari della

publica amministrazione, non v'ha nulla che possa senza disordine sot
trarsi a questa regola.

Quindi respinta la falsa dottrina, che il diritto civile possa o debba


aggiungere nulla alle norme del razionale diritto, poich tutte le deter
minazioni e moderazioni portate all'astratto diritto individuale debbono

avere la loro base nel fondamentale principio della socialit. E siccome il


soccorso reciproco e la reciproca moderazione nell'esercizio dei diritti
motivata e limitata dalle naturali necessit della convivenza, tutto quel
lo che non dipende da queste necessit naturali, ma deriva unicamente
dall'arbitrio, dagli errori, dalla pura forza, non pu essere mai fonte n
di diritti, n di giuste moderazioni all'esercizio dei diritti.

Poich se la societ per una parte esige cotesta moderazione, e fa


sorgere come nuovi diritti, cos nuove obbligazioni, non cessa per questo

54

SAGGIO

dall'essere un mezzo necessario e naturale di protezione della padro


nanza originaria dell'individuo.
E qu sta appunto il grande errore fondamentale delle teorie socia
liste, sotto qualunque forma si manifestino, e di qualunque gergo ricopra

no le loro appariscenti dottrine; dappoich per esse si snatura l'indole


essenziale della societ, la quale si vorrebbe ridurre ad una comunanza

di vantaggi e di opera; e, per dirlo colla frase del Romagnosi, ad una


societ di azienda comune, che assorbisse l'individuo spogliato di ogni
personale potest e propriet in quell'ente astratto che si dice lo Stato.
Ma guardando le relazioni morali come sono in realt, non si pu non
essere meravigliati per una parte dell'imbecillit dell'uomo, che si sfor
za di lottare contro l'ordine providenziale, non imparando mai nulla a

suo pro dai funesti risultati de' suoi traviamenti; e per l'altra della
mirabile unit che presiede a tutto l'ordine morale in mezzo ad una

grande variet di forze e di mezzi.


Perocch se la convivenza sociale e i fini di essa domandano norme,
direzioni e provedimenti vari, adattati alle diverse esigenze della vita
civile e ai vari periodi dell'incivilimento, stanno per sempre fermi i
principi del privato naturale diritto, della sua protezione come fine della
societ, e del reciproco concorso e soccorso in ordine al fine naturale

necessario della societ medesima; per cui tutto quello ch'esca da questi
naturali confini un atto di arbitrio, non giustificato dalla ragione; che
in luogo di cooperare ai fini dell'ordine sociale, ne scuote le fondamen
ta, e produce mali e rovine.
Al contrario gli effetti delle buone leggi civili, conformate al modello

di ragione naturale, si videro e si veggono in tutti i tempi. Per esse


l'astratto diritto di propriet individuale moderato, secondo le esi

genze del vivere civile, colle servit legali, colla spropriazione forzata
in causa di publica necessit e previo compenso, cogli stabilimenti ipote
cari e degli atti autentici; e in mille altri argomenti, ne'quali se tal
volta le leggi positive offrono lacune e difetti, appunto dove non siasi

applicato esattamente il regolo delle necessit reali e giuridiche, desunte

dall'indole e dagli uffici della convivenza civile.


N solamente ci che spetta alle leggi civili propriamente dette, ma
tutto quanto risguarda il regime della societ riducesi per questa guisa
ad armonica unit, e all'unico principio del diritto si subordina e si
conforma, come avremo occasione di accennare parlando dell'ordine eco
nomico (Capi VIII. e IX).

PARTE I.

55

In queste brevi considerazioni si riassume per poco tutta la dottrina


fondamentale del Romagnosi; dacch, ben meditate le sue Opere, si vede
che l'intento suo fu sempre quello di stabilire la naturale necessit dello

stato sociale, e di subordinare tutte le norme e leggi positive al princi


pio razionale del diritto, considerato nella sua pienezza, che abbraccia
tutti i rapporti umani.
Dalla quale unit del diritto ci sembra derivare una nuova conferma
di quanto abbiamo detto nei Capi antecedenti intorno alle relazioni del

diritto colla morale, e di quella formula che ci parve esprimere la ge


nuina idea del diritto, che dicemmo consistere nell'esercizio dell'atti

vit indefinita dell'uomo dentro i limiti segnati dalle leggi tutte del
l'ordine morale.

Infatti molte azioni, che nei rapporti individuali non possono consi
derarsi come oggetto di diritto e di dovere giuridico, vestono tutt'altro
carattere, ove si considerino nei rapporti di societ. Molti atti che non
hanno diretta influenza sull'altrui persona individualmente considerata,
l'hanno sul fine e sull'operare della societ; e nelle relazioni sociali non

solo l'agire individuale si costretti a considerare, ma eziandio l'ope


rare collettivo.

Infatti il fine della societ e la sua indole rende giusto il vietare o


l'imporre o il fare certi atti che nessun individuo potrebbe, come uomo

privato, pretendere da suoi simili, o ad essi coattivamente impedire.


Molti di questi atti, di loro natura, e prescindendo dalla disposizione

dell'animo che pu moralmente viziare anche le azioni pi sante, sono


moralmente leciti: eppure la societ li vieta, e giustamente con moderate
sanzioni li reprime; perch, guardando al generale e non all'individuo,

li riconosce pericolosi alla sicurezza, che ha diritto e dovere di tutelare:


come, a cagion d'esempio, il divieto di portare armi micidiali e prodi
torie. Altri, che sono puri doveri morali, essa riveste di sanzione ester

ma, e li impone come doveri giuridici, in conseguenza della legge fonda


mentale della socialit, ch' il soccorso reciproco; per esempio, l'aiuto
in caso di calamit, secondo potere e bisogno.
Egualmente certe azioni puramente immorali, quando si manifestino
esteriormente e siano di cattivo esempio agli altri, sono dalla societ pu
nite come azioni criminose, perch offendono la condizione prima della

sicurezza publica, ch' la moralit, quantunque per s la moralit non


ammetta esteriore coazione, n si possa confondere la sanzione della
legge morale colla sanzione della legge giuridica.

56

SAGGIO

Simili atti dell'autorit sociale e della legge mancherebbero di una


ragionevole giustificazione, e sarebbero puri atti di arbitrio, ove si am
moralit,
purch non offensive dell'altrui individuo. Oppure converrebbe dire che
la societ, oltre al dar origine a nuovi diritti che non possono sorgere
dai rapporti individuali; come, per esempio, al diritto di punire; spo
mettesse consistere il diritto anche in azioni contrarie alla

gliasse eziandio l'uomo di alcuni suoi individuali diritti.


Una volta aperta la via all'arbitrio o alla distruzione di qualche di
ritto, la scienza non ha mezzo logico per chiudere l'adito a tutti gli ar
bitri e a tutte le spogliazioni che potrebbero essere coonestate dall'idea
delle necessit sociali. Per l'opposto colla dottrina che esclude dal no
vero dei diritti tutte quelle forme dell'operare umano che contravver

rebbero alla legge morale, tolta ogni difficolt e pericolo nel determi
nare quelle azioni che, sebbene non soggette alla coazione fra uomo ed
uomo, ossia nei rapporti privati, pure in forza del principio sociale pos
sono essere coattivamente imposte o vietate dalla societ. Poich o si
guarda la societ come tutrice dei diritti dell'individuo, e, in forza di
quell'idea del diritto, nessuno di questi la societ autorizzata a di
struggere; o si guarda la societ come fonte di nuovi diritti e di nuove

obbligazioni giuridiche, e allora le sue prescrizioni o divieti si manife


stano nel campo delle azioni individuali, che non sono diritti, dentro i
limiti del suo fine e della sua indole.

Con ci il diritto privato ed il publico interno stanno in armonia fra

di loro; dall'uno e dall'altro escluso ogni arbitrio, e la scienza salva


dalle contradizioni che altrimenti riescono inevitabili.

Per qual motivo si dice inviolabile la propriet privata dalla societ,

al punto che nel caso di publica necessit non si ammette la spropriazio


ne che previo compenso? Perch la propriet un diritto individuale.
Ma se una qualche azione assolutamente immorale si voglia dire un di
ritto, perch la societ potrebbe vietarla, e spogliare l'uomo di questo

diritto? Si dir perch appunto il fine della societ lo esige. Ma allora


domandiamo: con quale criterio si distinguer il caso in cui lo spoglio
del diritto individuale per parte della societ legittimo, e il caso in
cui non lo ? Poich se nell'un caso e nell'altro c' diritto nell'indi

viduo, ci dev'essere una ragione, per cui una volta sia inviolabile e un'al
tra no; mentre sta il principio generale, che la societ appunto de
stinata ad assicurare i diritti dell'uomo. La societ spoglierebbe l'uomo
di certi diritti, per assicurargliene certi altri; e ci senza che si potesse

PARTE I.

57

assegnare una ragione, la quale fosse compresa nel principio fondamen


tale della scienza del diritto e nell'idea generica di esso.

Invece coll'esposta dottrina, nell'ordine giuridico tutti i rapporti si


connettono, e tutti i principi

si subordinano ad un

principio unico, al

l'idea normale del diritto; la quale idea e principio supremo nella sua
essenziale unit contiene la virt di piegarsi alle innumerabili variet

dei particolari rapporti dell'uomo in tutti gli stati e condizioni in cui


si trova contemporaneamente. Nei rapporti puramente individuali svolge
tutti i diritti che all'uomo appartengono in forza di questa sola rela
zione, fino a quel punto in cui sorgendo l'idea della socialit, si apre il
campo alle ricerche della moderazione necessaria a quegli astratti di

ritti, della loro assicurazione e della loro ampliazione, in forza del prin
cipio naturale e della legge fondamentale della socialit.

Ma in tutti questi rapporti si fa sempre scorgere chiaramente il ca


rattere essenziale del diritto come facolt nei limiti delle leggi tutte
dell'ordine morale, e quindi si conferma sempre pi la subordinazione
di esso alla morale. Anche su questo punto l'idea fondamentale si trova

nelle dottrine del Romagnosi, sebbene talvolta non abbastanza chiara


mente esposta e sviluppata.
Infatti egli d in alcuni luoghi delle sue Opere un'idea cos lata della
moralit, che per essa designa la facolt di conformare le proprie azioni

ad una norma preconosciuta; ma entrando pi addentro a considerare


l'indole, l'oggetto, lo scopo generale de' suoi lavori, e gli altri principi
che intorno alle pi gravi dottrine spettanti alla vita civile egli stabili
sce, si vede che il diritto, nel modo ond'egli lo concepisce, non si limi
ta alla grettezza dei soli rapporti puramente individuali, n il dovere
giuridico si limita ai soli atti negativi; ma il diritto abbraccia tutto l'ope
rare umano, in relazione a suoi simili, diretto e temperato dall'idea e
dal fine della convivenza civile; e il dovere giuridico correlativo non
comprende solo l'ommissione di ci che si oppone al puro ed astratto
diritto individuale, ma abbraccia gli offici positivi di soccorso e di mo

derazione, conseguenti all'idea della naturale e giuridica necessit della


vita civile.

Una grande unit predomina in tutto il sistema del nostro autore. Per
essa il diritto, preso nel doppio senso di facolt e di legge giuridica, si
deriva dal complesso degli attributi essenziali dell'uomo e dai rapporti
esteriori co'suoi simili, tutti raccolti e tutelati nel vivere civile, ch' lo

stato naturale dell'umanit; onde tutto quello che, posto il fatto natu

SAGGIO

58

rale e non arbitrario della societ civile, una conseguenza necessaria


di essa, entra nell'idea di dovere e di diritto naturale e necessario. Per

essa l'ordinamento fondamentale della societ, le sue partizioni, i pro


gressivi sviluppi delle sue forme, le determinazioni positive dei Codici,
l'ordinamento economico della propriet, tutto in somma subordinato

cos al principio razionale del diritto, che in nulla possa essere giusta
mente preso per guida l'arbitrio; ma il lume delle verit razionali, le
esigenze dell'ordine naturale, e quindi il progressivo incivilimento del
l'umanit, siano l'unica norma di giustizia: rimossa la quale, ne seguono
i mali e i danni che sono la naturale sanzione del violato ordine provi
denziale.

CAPO VIII
La Societ e lo Stato. Osservazioni sulla distinzione del diritto di societ

in generico e speciale. Condizioni pe'l retto ordinamento della societ.

A porre in maggior luce le cose dette precedentemente, giova riflet


tere all'importante distinzione tra la societ e lo Stato. Queste due no

zioni spesso si confondono insieme, mentre necessario distinguerle con


aCCuratezza.

La societ un fatto indipendente dall'umano arbitrio; la condi


zione in cui l'uomo naturalmente si trova collocato. Lo Stato invece

una istituzione che deriva da fatti positivi; un complesso di persone e

di funzioni concrete, applicato al regime di una data porzione dell'uma


ma societ.

Nell'idea di societ si racchiude un fine razionale ed una norma as

soluta della condotta esteriore dell'uomo verso i suoi simili, co quali

per necessit di natura deve convivere, onde coll'operare armonico con


seguire il fine comune. Nell'idea di Stato si ha invece quella di un
mezzo ad effettuare il fine della societ fra quegli uomini che sono sot

toposti a quel dato reggimento, merc la concorde direzione dell'ope


rare di tutti al fine stesso.

Quindi lo Stato idea subordinata a quella di societ, come il mezzo


subordinato al fine. Perci la norma generale della condotta esteriore
dell'uomo verso i suoi simili, desunta nel suo complesso dal rapporto

naturale di societ, somministra, universale com', i criteri per giudi


care delle condizioni di giustizia assoluta e di bont relativa dello Stato.
Posto il fatto naturale della societ; posta la distinzione pur naturale
di essa in grandi famiglie, sebbene sia unica nell'essenza e nell'origine

PARTE I.

50

prima dell'umanit; ne seguono tutte le conseguenze derivanti dai na


turali rapporti sociali, e quindi tutte le norme di ragione sociale, al cui
regolo si misurano l'essenza, la forma, l'origine e le funzioni dello
Stato, per giudicare delle condizioni essenziali di diritto e di opportu
nit che si devono in esso verificare.

Chi bramasse una conferma storica di questa distinzione fra lo Stato


e la societ, la troverebbe nelle vicende dell'umanit dalla creazione

fino a nostri giorni; giacch in mezzo a tutte le vicissitudini degl'im


perj, a tutte le crisi generali o parziali cui and soggetta la vita civile,
sempre si manifesta la essenziale fermezza della societ, ch' opera della
natura; mentre non troviamo Stati che durassero oltre qualche secolo
senza variazioni, molti vissero anni assai brevi, rarissimi toccarono una

notevole longevit; ed anche questi manifestano mutamenti rilevantis


simi nella loro interna struttura e nella loro estensione in varie epoche
della loro esistenza.
Ma questa idea della societ, considerata come condizione di diritto

e di fatto necessario par l'umanit, non si pu applicarla a tutte quelle


svariate forme di rapporti che inducono il diritto e il dovere della co
mune cooperazione di pi individui ad un qualche fine comune.
La parola societ si adopera ad indicare tre specie diverse di relazio
ni, le quali sono fra loro essenzialmente distinte o in tutti i loro elementi,
o almeno in alcuni: cio le relazioni che sussistono fra pi persone che
si obbligano di concorrere insieme ad un dato fine da esse liberamente
stabilito; le relazioni fra persone che si obbligano a concorrere ad un

fine posto naturalmente a quella unione; finalmente le relazioni fra per


sone che devono cooperare ad un fine comune, perch naturalmente po
ste nella condizione o stato di societ. Di qu tre specie di societ: vo
lontarie, miste di volontario e di necessario, e interamente necessarie.
Ove si volesse abbracciarle tutte tre in un solo concetto, e determi
nare una comune norma generale dei diritti e doveri che ne sorgono,
ossia un diritto sociale in genere, mancherebbe quella precisione, senza

la quale l'analisi scientifica non ottiene il suo scopo e non si conforma


alle realt naturali.

Infatti v'hanno societ, le quali nulla in s contengono di necessario,


ma si formano per libero volere dei contraenti l'obbligazione reciproca
di cooperare ad un fine comune. Tali societ hanno la loro base in un
contratto liberamente conchiuso, e non differiscono nell'indole loro es
senziale da tutti gli altri rapporti spettanti al diritto privato. Coteste

60

SAGGIO

convenzioni non acquistano il nome di societ se non in quanto l'oggetto


loro consiste nell'obbligazione che i contraenti assumono di unire le

loro forze al conseguimento di un dato scopo. Ma sono essenzialmente


distinte dalla societ come condizione naturale di diritto fra gli uomini,
pe'l diverso titolo sul quale si fondano, per la diversa indole dello sco

po, per la diversa estensione loro. Nelle une il titolo il fatto positivo
del contratto; nell'altra il fatto naturale, derivante dagli attributi es
senziali dell'uomo, e dall'opera della natura, che spinge l'uomo alla so

ciet, e in essa lo pone fin dal suo nascere. Nelle une lo scopo parti
colare, mutabile, scelto dalla libera volont umana; nell'altra univer
sale, necessario ed immutabile, perch derivante dalla natura umana e

dall'ordine di ragione naturale. Finalmente nelle une il vincolo sussiste


fra quei pochi che stipulano la convenzione; nell'altra sussiste fra tutti
gli uomini, e riveste forme e vincoli pi determinati, ma sempre natu
rali, nelle diverse aggregazioni in cui si trova ripartita l'umanit, senza
libero concorso della volont dell'individuo.

Un'altra specie di rapporto umano per analoga ragione riceve il nome


di societ, ed la famiglia, dove il matrimonio, che n' il fondamento,

offre il doppio carattere di societ volontaria e contrattuale quanto al


titolo prossimo del vincolo fra le due determinate persone di sesso di
verso; ma quanto al fine indipendente dall'arbitrio umano: e posto il
fatto volontario della unione conjugale, il suo fine determinato dall'or
dine naturale.

Questa forma di societ, mista di volontario e di necessario, segna, a

dir cos, il passaggio dai puri rapporti privati o individuali alla condi
zione sociale naturale, ossia civile; ed l'elemento primo di questa, e

la via per la quale l'individuo entra col fatto stesso della sua nascita
nella famiglia domestica e civile ad un tempo.

Le societ affatto volontarie non possono quindi essere regolate dalle


norme del diritto sociale propriamente detto, perch esse non sono che

puri contratti, e quindi i rapporti di diritto che da esse derivano sono


privati. Le societ miste sono rette in parte dalle norme del diritto in
torno ai contratti, in parte da quelle che discendono dalla loro indole
speciale e dal fine determinato dalla natura (1).
(1) In queste ricerche consideriamo le semplici relazioni di diritto naturale,
prescindendo da quella importanza e grandezza che riceve il matrimonio nell'or
dine religioso cristiano, in cui elevato alla dignit di sacramento.

PARTE I.

La societ civile, secondo l'idea gi datane, la sola che influisca


come elemento necessario ed universale nella determinazione dei diritti,
e nel modo del loro esercizio, quanto lo consentono o lo esigono la sua

indole e il suo fine subordinato al fine supremo della morale. Essa l'og
getto proprio della scienza del diritto sociale o publico, come parte in
tegrante e principale della scienza del diritto naturale. Osservando gli
argomenti discorsi da vari scrittori, che pongono come due rami distinti
del diritto privato, il diritto sociale in genere e il diritto sociale in

ispecie, facile l'avvedersi che il primo si riduce ad una semplice appli


cazione della teoria dei contratti, la quale, per quantunque sia esposta
in forme generali, non pu abbracciare le dottrine fondamentali spettanti
alla societ civile, e quindi al diritto publico, perch l'indole e i rap
porti di diritto, nascenti dalle societ volontarie, non hanno che fare col
l'indole e co rapporti della societ necessaria civile, la quale non deriva
punto da convenzioni.

Il diritto sociale in ispecie, diverso dal sociale civile, non poi altro
che il diritto della famiglia. Ma anche rispetto a questo corre la stessa
osservazione; poich la societ di famiglia, la quale in sostanza la
conjugale e parentale, non contiene il solo elemento volontario del con
tratto, ma eziandio un elemento necessario, derivante dal fine e dall'in
dole sua naturale.

Non quindi possibile un generico diritto sociale che determini i


rapporti giuridici comuni a tutte le societ, perch l'indole di ciascuna
essendo essenzialmente diversa, d origine a rapporti di diritto conformi
alla particolare natura di ognuna.
Se si guardi l'origine: nella societ civile essa naturale e necessa
ria; nelle societ particolari libera e convenzionale: nella societ mi
sta riveste la duplice indole del necessario e del volontario; e perfino
determinata la qualit personale ed il numero dei contraenti.

Se si guardi al fine: nella prima necessario, perch posto dalla na


tura; cos pure nella mista. Nelle volontarie invece posto dalla libera
scelta dei contraenti.

Se alla sua estinzione: la societ civile non ammette modi di estin

zione, ma semplici trasformazioni del suo regime; essa dura nell'essenza


immutata quanto l'umanit. Le volontarie ammettono i modi di estinzio

ne simili a quelli dei diritti ed obblighi nascenti dai contratti; la mista,


che sia gi perfetta, ammette un solo modo: la morte dell'uno dei con

traenti. Ci verr sviluppato nel seguente Capo XIII. La famiglia.

62

SAGGIO

Queste sono differenze cos sostanziali, che escludono la possibilit di


determinazioni comuni a tutte, da cui possa sorgere un diritto delle so

ciet in genere, come parte del diritto privato.


Ed anche rispetto allo Stato non pu sussistere una scienza del diritto
sociale in genere, come ramo del diritto privato. Poich se lo Stato si
considera nella sua origine positiva e convenzionale, i rapporti di dirit
to, cui d luogo, si regolano dietro le norme generali delle convenzioni.
Se invece lo si considera nella natura speciale dell'oggetto e nell'indole
specifica di questa convenzione, sorgono le determinazioni particolari
dei rapporti publici, conseguenti al fatto positivo della sua esistenza;
sorgono quindi le sue relazioni colla societ, in quanto esso mezzo alla
effettuazione del fine di essa. Ma tutto ci non appartiene pi al diritto
privato, s bene al diritto publico. L'elemento positivo di fatto conven
zionale si associa per tal guisa al fine naturale prestabilito; e lo Stato

partecipa della natura mista di convenzione positiva volontaria, e di


fine predeterminato, necessario e naturale.

Se possibile, anzi necessaria, una scienza del diritto sociale in ge


nere, ella non pu essere che il diritto publico della societ e dello Sta
to, nel quale siano determinate le relazioni, i diritti e i doveri risguar
danti la societ e lo Stato. Le particolari relazioni che possono derivare
dalle forme speciali positive, stabilite dal volere degli uomini, sarebbero

materia al diritto publico speciale dei singoli Stati, cio positivo. Il pri
mo universale e normale, e quindi somministra il criterio per giudi
care della bont e giustizia degli ordini positivi, secondoch si conven

gono o no co principi e co fini universali e razionali.


Ed a ragione conviene in una sola veduta raccogliere le dottrine che
derivano dall'indole e dai rapporti naturali della societ e dello Stato,

poich le condizioni indispensabili all'effettuazione pratica del fine della


societ, ed alla pi esatta conformit dell'opera coll'ordine di ragione,
hanno i pi stretti vincoli colle condizioni normali dello Stato in rela
zione alla causa di sua esistenza e all'effetto cui deve tendere.

Tali condizioni sono di tre specie, corrispondenti ai tre sommi e ge


nerici scopi della societ; cio condizioni di stabilit, condizioni di or
dine, condizioni di progressivo miglioramento.

Poich dove fluttuante si il regime della societ non pu esservi la


tranquillit e sicurezza necessarie a conseguire il fine della tutela del
diritto, e lo sviluppo ed incremento della vita civile. Ove non siano da
tutti indistintamente rispettate ed eseguite le giuste leggi, impossibile

PARTE I.

63

la direzione concorde delle azioni di tutti al fine comune: invece del

l'ordine c' la confusione. Ove, per ultimo, non sia continuamente

pro

veduto alle nuove esigenze che il naturale progredimento e sviluppo delle


attivit sociali fa sorgere, non pu esservi prosperit e contentezza.

Che se la sicurezza del diritto, la effettuazione della giustizia, la co


mune cooperazione e la prosperit; in una parola, la convivenza tran
quilla e il perfezionamento individuale e sociale dell'uomo, cui dee ten
dere la societ, che forma il suo fine immediato, e che diviene poi mezzo
al fine morale, e a questo si subordina, non possono conseguirsi senza
queste condizioni; egli poi altrettanto vero che le condizioni medesime
non possono verificarsi che mediante l'ordinamento dello Stato confor
me all'indole essenziale della societ e ai fatti naturali, che sono la base

della esistenza di essa, de' suoi attributi, e dei rapporti di diritto che
ne derivano.

I limiti di questo scritto e l'intento suo non ci consentono di svilup


pare questa dottrina con quell'ampiezza che la sua importanza merite
rebbe. A ci farebbe d'uopo un compiuto Trattato di diritto publico (1).

(1) Avendo noi in questo Capo esposte le ragioni, per le quali non ci sembra
che si possano determinare i rapporti di diritto comuni a tutte le specie di societ,
e quindi esclusa dalla scienza del diritto filosofico quella parte che s'intitola del di
ritto sociale in genere, veniamo a trovarci su questo punto di parere diverso da que
gli scrittori che del diritto sociale universale e particolare fanno un ramo distinto
dal diritto publico, e lo collocano fra le materie del privato diritto. Il piano del no

stro lavoro non ci permette di analizzare le Opere altrui; anzi ci siamo imposta la
legge di esaminare unicamente i sistemi e le dottrine, prescindendo dagli scrittori

in particolare. A questa legge assai di raro abbiamo fatto eccezione. Ma non potrem
mo dispensarci dal farne una rispetto al Corso elementare del diritto naturale o ra

zionale dell'egregio Prof. G. P. Tolomei (Padova 1849), nel quale la partizione del
diritto privato in diritto individuale e diritto sociale (universale e particolare) fu,
pi che da verun altro scrittore da noi conosciuto, diffusamente e chiaramente espo
sta e sviluppata.

L'egregio autore anche in questo argomento non ha preterito quelle idee lumi
nose che stanno bene da per tutto, ma specialmente in un libro destinato ad essere
un manuale dell'istruzione; in base delle quali riesce possibile riferire le diverse
dottrine, raccolte nel Trattato del diritto sociale in genere, a quella specie di socie

t alla quale ciascuna di esse appartiene, e specialmente alla societ civile, il fine
della quale in forme tanto diverse indicato dai publicisti, fu da lui con molta pre
cisione riposto nella sicurezza dei diritti, e nel sociale concorso alla piena loro e
fettuazione (SS 631.632).

N questo il solo argomento, nel quale il Prof. Tolomei abbia mostrato e giu
stezza di vedute e sincero amore alla scienza che insegna, la quale essendo un ter
reno irto d'ogni genere di difficolt, non meraviglia che ammetta diversit di

(34

SAGGIO

CAPO IX.
Dei diritti nascenti dai rapporti sociali in particolare,
paragonati co diritti individuali.

Dal principio fondamentale, e in sostanza da tutti ammesso, che la


idea e le norme generali del diritto vogliono essere dedotte dagli attri
buti essenziali dell'uomo, e dai rapporti necessari e costanti che ne de
rivano, si pu facilmente essere condotti a due dottrine estreme ed oppo
ste, qualora non lo s'intenda ed applichi rettamente. Ci che si ravvisa

in molti scrittori e in molti Codici mette fuori di dubio questo pericolo,


e ne fa vedere agevolmente la causa.
Qualora infatti si fermi soverchiamente l'attenzione sugli attributi e
sui rapporti individuali tra gli uomini, si corre rischio di dimenticare

quelli di societ; e fondando tutte le ricerche sopra una imaginata condi

zione extrasociale, la scienza non potr mai dare risultati corrispondenti


alla realt, ma solo conformi allo stato ipotetico da cui si prendono le
mosse, diverso dallo stato reale e naturale dell'uomo.

Che se venga conceduta tutta l'attenzione ai rapporti di societ civi


le, si corre l'opposto pericolo: di foggiare, cio, una teoria del diritto,
nella quale dimenticando il naturale patrimonio giuridico dell'individuo,
si riconosce la fonte d'ogni diritto nella societ, e s'imagina una specie
di assorbimento dell'individuo in quest'ente astratto e collettivo, che d

e toglie a suo beneplacito i diritti, e si giunge con Rousseau a dire che


anche la vita un dono condizionato dello Stato.

Ma ove il principio fondamentale sovraccennato si svolga e si appli


chi giustamente, non pu essere dimenticato e preterito nessuno degli
attributi essenziali dell'uomo, e del rapporti che ne derivano; ma tutti
vengono considerati nella loro indole e nei loro effetti.

Con questo metodo, che solo corrisponde agli attributi reali dell'uo
mo e al vero stato naturale di esso, se per una parte considerando questi
opinioni, non che sopra argomenti particolari, eviandio sul principio supremo, e
sull'indole quindi del sistema che si segue. Ma questa divergenza di opinioni se la

scia libera facolt di discutere, non consente per d'essere ingiusti verso gli ope
rosi cultori della scienza. Riconoscere ci che v'ha di buono nelle Opere altrui,

quand'anche non si convenga nel sistema, debito d'ogni onesto scrittore; debito
tanto pi grave, quanto maggiore la libert che si voglia avere nelle discussioni
sulle pure dottrine: campo aperto, ma nel quale speriamo di non dimenticar mai
che la lotta dev'essere ad armi cortesi.

PARTE I.

65

attributi e questi rapporti essenziali dell'uomo individuo, si deducono


quei diritti che come individuo gli appartengono; non si dimenticano
per n la tutela, n le modificazioni nel modo del loro esercizio, che
sono indotte dal rapporto di societ. E per l'altra parte, nel determinare
i diritti che nascono dai rapporti sociali, non si dimenticano quelli della
prima specie, che non possono essere distrutti, ma vengono anzi raffer
mati e protetti nello stato sociale.
Romagnosi distingue i diritti, sotto questo punto di vista, in nativi e

dativi. I primi non vogliono confondersi con quella specie di diritti che
diconsi da altri scrittori diritti innati, poich molti diritti nativi sono
acquisiti; per esempio, la propriet. I diritti nativi propriamente sono
quelli che nascono dai semplici rapporti individuali o privati; dativi
invece sono quei diritti che sorgono dai rapporti sociali, e si considerano
come dati all'uomo dalla societ. Con ci per altro non s'intenda che la

legge positiva li crei, ma soltanto che, nascendo essi non dai puri rap
porti fra individuo e individuo, ma da quelli collettivi e naturali di so
ciet, i Codici li determinano positivamente, come positivamente deter
minano eziandio i modi dell'esercizio dei diritti nativi, che devono essere
riconosciuti e tutelati dalla societ. Cosicch anche i diritti dativi sono

naturali al pari dei nativi, diversi soltanto nell'indole dei rapporti da


cui immediatamente si deducono (1).

Onde rendere pi chiare queste nozioni, sulle quali si fonda l'unit

del diritto, e quindi la identit fra il naturale complessivamente preso, e


il civile positivo come dev'essere, giova stabilire esattamente la classifi
cazione dei diritti secondo l'indole loro, e le relazioni onde procedono.
Considerato l'uomo come individuo dotato de' suoi essenziali attribu

ti, sottoposto alla legge morale generale, ed esistente a contatto con al


tri uomini a lui eguali quanto alla sostanza di questi attributi, e con gli
esseri tutti della natura inferiori a lui, sorge l'idea dei diritti che deri
vano da questi soli attributi e rapporti.

Ma poich alcuni di tali diritti hanno l'unico loro fondamento nella

semplice esistenza dell'uomo tal quale , ed altri per esistere concreta


mente abbisognano di un fatto positivo, dell'esercizio cio delle innate
(1) Questa idea dei diritti dativi, cio conferiti al cittadino dalla legge stessa
fondamentale della socialit, chiarissimamente esposta da Romagnosi nella Ra
gione civile delle aque, S 410, ed applicata a decidere negativamente la questione:
se il proprietario, in societ, possa abusare del proprio dominio usque ad aemt
lationem.
5

66

SAGGIO

attivit dell'uomo; viene spontanea la divisione dei diritti privati o na

tivi, come meglio piaccia chiamarli, in diritti congeniti, assoluti od in


nati; e in diritti acquisiti, ossia dipendenti nella loro concreta esistenza
da una condizione positiva di fatto.

Rispetto a questa prima classe di diritti, il rapporto di societ non

presta il fondamento a stabilirli; ma lo stato di convivenza civile influi


sce essenzialmente a tutelarli, ad ampliarne l'efficacia e gli effetti, ed a
contemperarne l'esercizio in modo da produrre la concorde cooperazione
di tutti al fine della civile societ.

N perci da dire che eguale sia l'influenza appartenente alla so


ciet sopra l'esercizio di tutti i diritti nativi indistintamente; poich

altri sono cos immedesimati nell'individuo, cos lontani dall'involgere


nessuna vista d'ordine publico, che rispetto ad essi la societ non pu
considerarsi che come un aiuto, una tutela, e nulla pi. Invece altri di

questi diritti entrano bens nell'ambito della padronanza privata, in forza


della loro derivazione dai puri rapporti individuali; ma nel modo del
loro esercizio involgono considerazioni di ordine publico, cio d'influenza

sul fine comune della societ, e sulla vita, sviluppamento e progresso di


essa. E di qu avviene che la societ, e per essa il potere che la dirige,
non abbia il solo dovere di tutelarli, ma eziandio il diritto e insieme il
dovere sociale di regolarli e moderare il loro esercizio in ordine al fine
della societ, e nei limiti della vera necessit naturale conseguente da
questo fine.

Di qu avviene che questi diritti nativi, il cui esercizio soggetto


alle sociali moderazioni, si debbano considerare come parte integrante
della padronanza originaria dell'uomo quanto alla loro fonte, che sono
gli attributi essenziali della sua natura, e i rapporti immediati indivi
duali che ne derivano; senza per spingere l'astrazione di questi rap

porti cos innanzi da dimenticare l'influenza del rapporto pure naturale


di societ non su l'essenza e il fondamento, ma sul modo e sui limiti

dell'esercizio di cotesti diritti di ragione privata.


Sorge da ci la dottrina delle servit legali, cio introdotte per mi
mistero della legge; la limitazione del diritto di privata coazione, quan
tunque giusta e moderata, alla sola difesa nei casi di estrema ed urgente
necessit, che non lascia luogo ad implorare l'aiuto della publica auto
,

rit a tutela dell'innocente; la determinazione delle forme autentiche,


di certe prove necessarie civilmente a far constare di certi diritti; le di

scipline e i divieti relativi a certi commerci; ed una quantit di dispo

PARTE I.

67

sizioni che, sebbene non tutte appartengano ai rapporti puramente giu


ridici, ma si riferiscano talvolta all'ordine amministrativo, devono per
essere tutte animate e dirette dal principio fondamentale di ragione: che
il modo dell'esercizio del diritto soggiace alla moderazione dell'auto

rit sociale quando e quanto il fine della societ e l'indole sua lo ri


chiedono.

Ma la societ, come rapporto e stato naturale dell'uomo, non solo in

duce queste moderazioni, s ancora d origine a nuovi naturali diritti,


appunto perch un rapporto degli uomini distinto da quello puramente
individuale.

Il rapporto di societ propriamente duplice: cio rapporto fra gl'in


dividui considerati come membri della societ; e rapporto collettivo di
societ, cio di ciascun individuo con tutto il corpo morale.
Duplice del pari e dev'essere la natura dei diritti che dall'essenza
della societ vengono derivati: cio diritti nascenti dalla convivenza so
ciale, e spettanti ad ogni individuo come cittadino; e diritti nascenti
dalla convivenza sociale, e non appartenenti all'individuo, ma solo al

corpo morale, ed esercitati perci dal supremo potere ch' nella societ,
astrazione fatta da ogni positivo ordinamento delle sue forme gover
native.

Aggiungiamo quest'ultima clausola per avvertire che la diversit di


forme positive potr indurre una differenza soggettiva, cio risguardante
la persona che esercita i diritti collettivi; non mai potr indurre una
differenza oggettiva, cio una essenziale diversit nei diritti derivanti

dallo stato di societ, e spettanti a ciascun individuo come cittadino, ov


vero alla societ tutta collettivamente considerata. Tale diversit ogget
tiva non pu sussistere, essendo immutabile dall'arbitrio umano la es
senza e le conseguenze che necessariamente derivano dallo stato natu
rale di civile convivenza.

I diritti che sorgono dal rapporto di societ, e che spettano solidaria


mente alla societ, sono quelli che comunemente si dicono maestatici, e

si esercitano dal supremo potere civile. Principalissimo di questi il di


ritto di punire.

Cotesti diritti sono essenzialmente anche doveri, in quanto l'indole


della societ impone necessariamente l'obbligo, a chi posto a reggere

una porzione qualunque dell'umana societ, di fare tutto ci che secondo


ragione necessario a conservarla, tutelarla e dirigerla al naturale suo
fine, che senza l'opera dell'autorit suprema non pu essere conseguito,

SAGGIO

68

Ed appunto da questa coincidenza del diritto col dovere sorge l'idea


di autorit, che importa direzione delle altrui azioni ad un fine. L'auto
rit sotto un aspetto diritto, ma non puramente facoltativo nel soggetto
che la possede, n diretta al suo bene particolare, perch accompagnata
dall'obbligazione derivante dal fine per cui sussiste a vantaggio di chi
soggetto a quella direzione. Sotto un altro aspetto poi obbligazione,

senza che per produca il costante dovere di esercitarla sempre, ma solo


in quanto il suo fine richieda che si manifesti. Il diritto e il dovere vi
cendevolmente si limitano nell'idea di autorit, e corrispondono al do
vere e diritto dei soggetti, alla cui direzione l'autorit destinata. E

questa reciproca limitazione la conseguenza del fine giuridico proprio


dei particolari rapporti di societ, onde si manifestano le diverse specie
di autorit.

I diritti nascenti pure dalle relazioni sociali, ma spettanti propria


mente ai membri dell'umana famiglia considerati come cittadini, in parte
si confondono colle moderazioni della padronanza privata, imposte dalla
condizione sociale e determinate dal potere sociale legislativo. In parte
per sono diritti veramente nuovi, di cui mal saprebbesi concepire l'ori
gine e l'esistenza considerando i soli rapporti privati. Cos, per esempio,
il diritto di eredit, l'acquisto per usucapione (1), e in generale tutti
quei diritti che sorgono dalla giuridica necessit sociale di provedere
alla sicurezza dei possessi, alla diffusione legittima dei mezzi di sussi

stenza, alla conservazione e protezione della famiglia, ec., sono veri di


ritti dell'uomo individuo considerato come cittadino, e sorgono dai rap
porti di societ.

Una fonte amplissima di cos fatti diritti si riscontra nella legge fon
damentale naturale della socialit, ch' l'aiuto reciproco, per la quale
molti atti che l'uomo potrebbe attendere dal suo simile, nei rapporti pri
vati, come adempimento di doveri morali, acquistano nella societ, in for
za di questo principio giuridico, ch' la sua legge fondamentale, quella
prerogativa di veri diritti che non avrebbero nei soli rapporti privati.

Poich la positiva beneficenza, essendo moralmente un dovere condi


zionato, nei rapporti privati non potrebbe da nessuno essere imposta
come dovere giuridico. E quand'anche si volesse talvolta considerarla
(1) I principi razionali risguardanti la prescrizione e l'usucapione sono esposti
nel seguente Capo XII. Quelli sull'ordinamento delle successioni ereditarie nel
Capo AIV.

PARTE I.

69

come un dovere assoluto, la violazione di esso sarebbe un atto senza di


ritto, ma non sottoposto all'altrui coazione, siccome quello che nelle
private relazioni non offende l'altro uomo, ma solo omette di concorrere
positivamente al suo vantaggio.

Moderazione, tutela, aiuto reciproco sono quindi le tre cagioni che


producono tutti i diritti derivanti dal rapporto di societ, la cui indole

e fine racchiude sostanzialmente quelle tre forme. La societ impossi


bile senza moderare, secondo le sue naturali esigenze, l'esercizio dei di

ritti privati; la societ inutile, se non tutela il diritto; la societ una


contradizione, un assurdo, se non importi l'aiuto reciproco.
Quattro sono pertanto le classi dei diritti considerati rispetto alla

loro genesi dai rapporti umani e dalla connessione di questi rapporti.


La prima consta dei diritti nativi, strettamente di ragion naturale
privata.
La seconda dei diritti di ragione privata, influenti quanto al modo
del loro esercizio sulla societ, e per soggetti alle moderazioni conse
guenti dallo stato naturale di societ.
La terza racchiude i diritti di ragione naturale sociale, ossia di ra

gione publica, spettanti all'uomo come cittadino.


Finalmente la quarta comprende i diritti di ragione publica spettanti
solidariamente al corpo morale della societ e al potere ch' in essa.
Le disposizioni colle quali l'autorit sociale, mediante le leggi, reca
in atto le esigenze della vita civile e dell'ordine di ragione naturale
della convivenza, vestono forme diverse, secondo l'indole dei loro og
getti particolari.
Talora sono veri diritti, o riconosciuti propriamente nel cittadino, o

spettanti al solo potere governativo, che esclusivamente li esercita col


mezzo de' suoi organi. Pi di sovente per il diritto si palesa indiretta
mente come correlativo al dovere che viene imposto ai cittadini.

Nei diritti che le relazioni sociali propriamente attribuiscono all'uomo


come cittadino, e quindi da esso vengono esercitati, entrano quei diritti
razionali che, derivando dall'indole e dal fine della societ civile, spet
tano a ciascuno; come sarebbe quello di far testamento. Vi entrano quelli
che derivano dai rapporti di societ particolare domestica, ch' il fon
damento della civile, e che segnano il passaggio dei puri diritti privati ai

sociali civili. Di ci parleremo in sguito (1). Vi entrano finalmente quei


(1) Si veggano i seguenti Capi XIII. La famiglia, e XIV. L'eredit.

70

SAGGIO

diritti che in un certo senso sono privati, ma nella societ soltanto tro
vano le condizioni di fatto che rendono possibile l'acquistarli; come sa

rebbe quello di rescissione del contratto oneroso per lesione enorme. La


ragione privata ci somministra il principio, che l'errore essenziale vi
zia il contratto; ma nei rapporti fra gli uomini come individui la loro
volont sola determina il valore e la stima che fanno della cosa dedotta

in contratto. Invece nella societ il prezzo della pi parte delle cose


determinato, entro certi limiti, dall'utilit loro, e dalla stima comune
che fanno gli uomini di questa utilit.

Questo fatto, derivante dalla convivenza, rende possibile l'applica


zione di quel principio, essendovi errore essenziale sulla natura del
contratto, quando si voleva conchiuderlo a titolo oneroso, ed invece sa

rebbe in parte gratuito. I limiti da porsi a cos fatti diritti ricadono


nelle regole generali comuni a tutti gli altri, e dedotte dal fine generale
della societ, che esige la tranquillit dei possessi e la diminuzione delle
occasioni di liti, e che non pu regolare i singoli casi, ma deve dare

disposizioni generali, conformi a ci che per ordinario ha luogo nel


l'andamento degli affari.

La forma di dovere imposto ha luogo, per esempio, in tutte le dispo


sizioni che risguardano il reciproco aiuto, secondo potere e bisogno, che
rapporti privati non sarebbe un dovere propriamente giuridico, e di
viene tale invece in forza della legge fondamentale della convivenza. Di
ci si ha uno splendido esempio nel dovere imposto dalle leggi civili di
assumere la tutela, dal quale nessuno arbitrariamente pu esimersi; e
nei benefici accordati dalla legge ai debitori divenuti impotenti a pagare
nei

per sopravenute sventure. Poich quando provata la causa innocente


dell'impotenza, sebbene nei puri rapporti privati l'azione del creditore,
esercitata anche in tutto il suo rigore, esteriormente considerata sia
un diritto corrispondente al dovere giuridico del debitore; tuttavia la
legge naturale della socievolezza lo modera nel suo esercizio, non

per un favore speciale ad un determinato debitore, ma per tutti quelli


che si troveranno in simili circostanze, tostoch siano debitamente pro

vate, e si possa quindi giudicare dell'applicabilit della legge al caso


speciale.

In particolare poi l'esercizio dei diritti nascenti dal rapporto di societ,


spettanti collettivamente ad essa, e quindi esercitati dal supremo impero,
non pu in sostanza avere altra forma, che quella di un dovere correlati
vo per autorit sociale imposto ai membri componenti la civile famiglia.

PARTE I.

7I

Ma qualunque sia la forma nella quale si appalesano i diritti nascenti


dal rapporto di societ, sta per sempre il principio fondamentale, che
tanto nel caso in cui vengano attribuiti all'individuo come membro della
societ, quanto nel caso in cui spettino al solo potere sociale, non mai

la legge puramente positiva che li faccia sorgere, e li attribuisca a que


sto o quel soggetto; ma un principio di ragione giuridica che d ad essi
l'esistenza, la quale viene poi espressa e regolata positivamente dalle

leggi civili al modo stesso dei diritti nascenti dai privati rapporti.
Le relazioni di societ civile, mentre sono fonte di nuovi diritti, e
di moderazioni all'esercizio di quelli che sorgono dai privati rapporti,
escludono l'idea dell'arbitrario; e se estendono o restringono in un certo
senso la privata padronanza astratta, non violano mai, n tolgono il vero
diritto. Poich le moderazioni imposte all'esercizio del diritto non devo
no dipendere dal capriccio di nessuno, ma dalle necessit naturali della
convivenza; e i divieti e le limitazioni all'astrattta libert privata fra
uomo ed uomo non la restringono che rispetto a quelle azioni od omis
sioni le quali sono destituite di diritto, cio non sono facoltative rispetto
alla morale, sebbene nei rapporti privati non potessero soggiacere all'al
trui coazione per impedirle o pretenderle, dacch non offenderebbero un
esterno dovere giuridico verso l'altro uomo come individuo.
Perci il campo nel quale si esercita l'autorit sociale per restringere
legittimamente l'astratta e indefinita libert privata, costituito da

quelle azioni, le quali sebbene non soggette alla coazione individuale,


non sono per veri diritti in senso assoluto, perch escono dai limiti se

gnati all'attivit umana dalla legge morale. Cosicch la societ non po


trebbe n imporre le azioni che la morale divieta, n vietare quelle che
la morale comanda. Ond' chiaro quanta importanza abbia la considera
zione della moralit degli atti per determinare secondo ragione la giusta
influenza che l'ordine sociale pu avere nel regolare l'esercizio del
l'astratta libert giuridica dell'individuo rispetto a suoi simili.

Non per che la ingerenza legittima della societ si estenda a tutte


le azioni della specie test accennata, poich il fondamento di questo
esercizio dell'autorit sociale, rispetto ad esse, non la sola mancanza
in esse dell'idea del diritto in senso assoluto, ma s ancora la loro in

fluenza sull'ordine sociale. Tutte le azioni, le quali in qualche modo non


influiscano sull'ordine sociale, si sottraggono per ci stesso alle sanzioni
sociali; mentre le sole necessit naturali, indotte dai rapporti di societ,
possono produrre diritti e doveri che non derivino dai rapporti privati.

72

SAGGIO

Con ci si fa manifesto che nella societ le azioni morali o immorali,

che possono influire sulla convivenza civile, passano, per dir cos, nella
classe dei diritti, dei doveri, o delle violazioni di diritto, mano mano che
la societ va sviluppandosi e progredendo; poich sebbene la sostanza

dei rapporti sociali rimanga la stessa, pure la cognizione esplicita dei


pi complicati e sottili tra questi rapporti va progressivamente svolgen
dosi, secondo il crescere delle cognizioni e dell'incivilimento.
Il diritto sostanzialmente rimane lo stesso, ma le sue applicazioni

particolari e concrete acquistano nuove forme e nuove ampliazioni, se


condoch si svolgono maggiormente i rapporti della convivenza.

Questo fatto, che si appalesa nelle legislazioni positive dalle epoche


pi remote in poi, siano propriamente scritte o consuetudinarie, e che si
spiega agevolmente al pari di ogni altro progresso nelle cose morali,
senza offesa dei principi di ragione immutabili e costanti come la natura
umana, ha potuto ingenerare l'erroneo giudizio, che il diritto non sia
alcun che di immutabile e di costante, ma dipenda dal volere dei legis
latori, e sia creato dai Codici. Quella pieghevolezza e moltiplicit di for
me, la quale non altro che una variet di applicazioni d'un principio
unico a circostanze varie nascenti dalla stessa fonte, la realt dei rapporti
umani, e le necessit non fittizie, ma naturali, della convivenza, fu scam
biata con una diversit sostanziale. E di qu avvenne che realmente si

aprisse talvolta l'adito agli arbitri, perch si aveva sconosciuto il prin


cipio al quale devono subordinarsi tutte le forme che pu concretamente
assumere il diritto nelle relazioni sociali, nelle quali completamente,

quanto all'opera umana pu essere concesso, deve attuarsi e manifestarsi.


Che se la falsa idea della societ civile, della sua origine, della sua
natura, della sua legge fondamentale e del suo proprio fine, unita alla
dimenticanza della essenziale unit del diritto, assoluto, costante, immu
tabile, e nello stesso tempo multiforme nelle applicazioni, e adattato a

tutte le variet dei rapporti s privati che publici, ha potuto dare ap


poggio a sistemi erronei, che accesero il fuoco di basse e violenti pas
sioni ostili a tutto ci che forma la base e il palladio della vita civile;

si fa per ci stesso sempre pi manifesta la necessit, che accennammo


nel Capo I., d'insistere a tutto potere sopra quelle dottrine fondamentali
che, derivando dalla vera natura dell'uomo e della societ, e subordi
nando l'ordine giuridico al morale, determinano la vera indole del di
ritto, e la influenza della societ nel tutelarlo, moderarne l'esercizio,

ed estenderne la potenza e gli effetti,

PARTE I.

73

GAPO X.
Dell'utilit in relazione alla morale, alla giustizia, al diritto.

La pugna dell'utile coll'onesto tanto antica, quanto le passioni uma


ne. Le verit morali si trovarono sempre in lotta co materiali interessi;

e spesso avvenne che il materialismo, introdotto nella filosofia teoretica,


conducesse alle dottrine dell'utilit in morale, ovveramente che il per
vertimento delle dottrine morali spingesse agli assurdi del materialismo.
Non v'ha epoca nella storia della filosofia, in cui non si manifestasse
pi o meno accanita la lotta fra il giusto e l'onesto da un lato, e l'utile
dall'altro. Tutto questo troppo noto e ripetuto, perch sia necessario
fermarvisi sopra.
-

Non si pu per altro negare che l'idea dell'utilit abbia trovato luogo
anche nella mente di sommi ed onesti pensatori, e che spesso in cos
fatto argomento si riscontri pi presto confusione di idee, che non veri
ed evidenti errori. Poich nel fatto, ben considerato l'argomento, l'idea

dell'utilit, nel largo senso della parola, non estranea alle discipline
morali. Tutto sta nel determinare esattamente le note sue caratteristiche,
e le sue relazioni col giusto e coll'onesto.
Cotesto difetto di chiarezza in tale materia abbiamo gi avvertito nelle
Opere del Romagnosi; e a schiarimento dei luoghi da noi annotati, e
degli altri analoghi, abbiamo sopratutto mostrato come sia necessario
distinguere l'interesse o l'utile nel senso di movente dell'azione, dal
l'interesse od utile nel senso di termine dell'azione.

L'importanza dell'argomento, cos assoluta, come anche relativamente


alle dottrine del Romagnosi, ci consiglia a fermarvi alquanto l'attenzio
ne, ed esaminare l'utilit in tutti i sensi che si danno a questa parola,
e in tutte le relazioni nelle quali l'utilit pu essere considerata, onde

vedere un po' chiaro in questa materia.


Se mal non ci apponiamo, parci che la questione dell'utilit, relati
vamente alle scienze morali, abbia condotto gli scrittori a tre sentenze,
due estreme ed una media, nelle quali si raccolgono tutte le opinioni in
proposito.

La prima quella dell'epicureismo antico e moderno: sola est utilitas


fusti prope mater et aequi. La seconda, perfettamente opposta, riprova

assolutamente l'utilit, e la caccia fuori dalle discipline morali. La scuola

Ti i

SAGGIO

critica pronunci l'ostracismo di quest'idea, asserendo che dove uti


lit non pu essere vera virt.
La terza finalmente tiene la via di mezzo, talvolta accostandosi pi
all'una che all'altra delle due opposte, secondo la particolare maniera

di vedere degli scrittori, e l'influenza delle tendenze predominanti in


vari tempi e luoghi.
La difficolt che presenta quest'argomento anche per quelli che ripu
diano l'idea materiale ed animalesca dell'utilit nel senso dell'epicu

reismo antico e moderno, move dal vario modo in cui si adopera il prin
cipio dell'utile; e dal significato diverso che si pu attribuire alla pa
rola utilit; e quindi dal difetto di precisione nel determinare le atti
menze dell'utile col giusto e coll'onesto; e quindi le sue relazioni col

diritto, colla giustizia e colla moralit; e il posto che in conseguenza


spetta all'utile nel vasto edificio delle scienze morali.
L'utilit infatti, adoperata come principio, pu prendersi nel signifi
cato di bene attuale, sensibile, materiale; e pu prendersi nel senso pi
vero e pi vasto di soddisfazione a qualunque tendenza dell'uomo, com
prese le tendenze intellettuali e morali.
Pu eziandio intendersi l'utilit rispetto alla volont (nel qual senso
chiamasi pure interesse); o come un movente, uno stimolo, un eccita
mento all'azione, o come fine o termine dell'azione.
Pu considerarsi l'utilit o come fine dell'uomo che agisce, o come

intento dell'Autor della legge data a regolare la volont dell'uomo.


Ed anche ravvisandola come fine dell'uomo che agisce, pu distin

guersi l'utilit propria dell'operante dall'utilit altrui, che coll'opera


sua intende produrre.

E in fine pu adoperarsi l'utilit come semplice strumento del me


todo nella ricerca delle norme dell'ordine morale.

A determinare le relazioni dell'utile coll'onesto e col giusto conviene


considerarlo da ciascuno di questi lati; altrimenti non si riesce che a
determinare tutt'al pi le relazioni tra il giusto e l'onesto, ed una or
ma od aspetto speciale dell'utile, escludendo gli altri.
L'utilit in s non altro che la soddisfazione di un qualche bisogno,

di una qualche tendenza naturale all'uomo. Utile il cibo a conservare


la vita; utile la scoperta di una verit a soddisfare la brama di sapere;
utile la moralit a conseguire il fine supremo dell'uomo, come ente ra
gionevole; a procurare la stima degli onesti, la pace dell'animo, i pre

mi della vita presente ed avvenire. Le tre forme o specie dell'utilit fisi

PARTE I.

75

ca, intellettuale e morale corrispondono appunto alle tre specie di biso


gni dell'uomo: fisici, intellettuali e morali. Tendenza al piacere fisico, e

ripugnanza al dolore; tendenza al vero; tendenza al bene; e ripugnanza


ai loro opposti.

assioma fondamentale, che la volont tende necessariamente al bene


in genere; che in questa tendenza non si esercita la libert, ma la liber
t si manifesta nell'elezione del bene in particolare. Ora siccome l'utile
e il bene sono lo stesso, ne segue che la tendenza all'utilit in genere
sia necessaria nell'uomo.

Ma questo bene, cui l'uomo tende necessariamente, essendo indeter


minato, non pu da solo costituire la regola del suo retto operare. E
qu appunto sorge la distinzione del bene assoluto e del condizionato. Il

primo, appunto perch assoluto, s'identifica colla ragionevolezza; si de


riva da Dio, qual prima fonte d'ogni bont; si svolge nella legge mora
le; diventa regola della condotta dell'uomo, come ente ragionevole. Ma
la forma, l'espressione ultima di questa regola morale delle azioni l'uti
lit, ossia il bene corrispondente alla natura ragionevole dell'uomo, e al

rapporto di subordinazione del finito all'Infinito: utilit, la quale ri


posta nella soddisfazione dei bisogni e delle tendenze morali dell'essere
ragionevole, impresse in lui dal Creatore, che gl'imponeva un fine con
forme ai sublimi attributi di cui lo dot; e gli dava con questi medesimi

attributi il modo di conoscere questo fine, e di dedurne le regole della


condotta che doveva tenere per conseguirlo.

Ma se il bene assoluto s'identifica coll'idea del fine supremo e della


legge morale, e quindi la moralit torna lo stesso che l'utilit morale,
consistente nella soddisfazione dei bisogni morali dell'uomo, in quanto
ente ragionevole tendente al fine supremo; non si pu dire lo stesso n
dell'utile conseguente all'osservanza della moralit nella vita presente,
n molto meno dell'utile intellettuale e del fisico.

Poich i bisogni intellettuali, e i bisogni e desideri del bene fisico,


dalla cui soddisfazione risulta l'utilit intellettuale e la materiale, per
quanto i primi siano pi nobili e prevalenti sopra i secondi, comuni al
l'uomo e ai bruti; sono per entrambi subordinati al principio morale,
perch i fini secondari non possono andar di pari passo, n soverchiare
il fine supremo. Ed anche l'utilit che deriva dalla rettitudine dell'ope
rare essenzialmente diversa dal bene assoluto, in che consiste la nor
ma e il fondamento della moralit.

Le questioni sul principio dell'utilit non si possono risolvere che

76

SAGGIO

determinando le relazioni tra il bene morale o assoluto, e il bene o l'uti


le condizionato, di qualunque specie esso sia.

Nelle singole azioni che l'uomo compie coll'uso del suo libero arbitrio,
il fine supremo, o del bene assoluto, non pu essere mai preterito, quan
do esse rivestano il carattere della moralit. Ma questo fine pu essere
l'unico o il prossimo fine dell'atto, e pu essere il fine remoto, dirigen
dosi l'azione ad un fine prossimo diverso, salva sempre l'intenzione ul

tima e la subordinazione al fine supremo. Cos, a cagion d'esempio, l'uo


mo che usa dei mezzi necessari alla propria conservazione, e sceglie e
adopera quelli che trova pi opportuni, ha per fine prossimo il conser
varsi; la moralit in questi atti dipende dalla intenzione di usare s fatti

mezzi di conservazione per adempiere a questo dovere condizionato, on


de sussistere per conseguire il fine supremo.
Tutte le volte che la soddisfazione di una tendenza fisica o intellet

tuale dell'uomo non contradice al bene assoluto, e quindi il fine parti


colare che l'uomo si propone, e gli atti che vi dirige, non ripugnino al

fine supremo, l'utilit che deriva da quella soddisfazione non in oppo


sizione al bene morale, e pu esservi subordinata e diretta ad esso.
L'utilit adunque, considerata come particolare e relativa a fini secon
dari rispetto al supremo fine morale, non pu n confondersi colla mo

ralit, n su questa prevalere, n essere la norma di essa; ma pu sub


ordinarsi alla moralit, e a questa concorrere.
Ma l'uomo essendo libero perch intelligente, non pu operare se non

per un fine, e dietro motivi, in vista dei quali determina s stesso ad


agire piuttosto in un modo che in un altro. E siccome la tendenza necessa
ria al bene in genere forma la base del suo libero agire colla scelta del

bene in particolare, egli evidente che l'utilit, ossia un bene, deve


necessariamente essere il movente e il fine di qualunque atto umano. La

moralit adunque dell'atto dipende dall'indole del bene, in vista del


quale la volont si determina; non gi dal fatto del determinarsi sempre

in vista di un qualche bene, perch nella tendenza al bene in genere non


c' libert, ma necessit.

Ora qu sorge la domanda, se l'uomo operi sempre in vista di un pro


prio vantaggio, e quindi se l'interesse proprio sia il movente di tutte le
azioni. Alcuni rispondono affermativamente; ad altri una tale dottrina

giustamente pare assurda, distruttiva della moralit, e contraria al fatto,


per l'onore dell'umanit innegabile, delle azioni disinteressate e di pura

beneficenza, con proprio sacrificio, che pur vengono praticate.

PARTE I.

77

Se dicendo che l'uomo opera sempre per proprio interesse, s'intenda


che il fine di ogni sua azione sia sempre e debba essere un suo vantaggio
o piacere attuale e sensibile, n la ragione n il fatto possono indurre ad
ammettere una simile proposizione.
Ma se vogliasi intendere che l'uomo in ogni sua azione eccitato da

un motivo di bene da lui scelto e voluto, e al cui conseguimento dirige


l'azione come a suo fine, non si fa che esprimere le condizioni essenziali

all'operare libero dell'uomo, ossia la maniera costante con cui opera la


volont negli atti liberi. E siccome ad ogni atto umano necessario un

motivo di bene, in vista del quale la volont si determini, siccome questo


bene conosciuto dall'uomo, ed quindi nell'uomo; cos si pu e si de
ve ben dire, in questo senso, che il bene o interesse proprio il movente
di tutte le azioni.

Ma questo interesse non proprio dell'uomo se non in quanto mo


tivo alla volont per determinarsi all'atto. Quando si consideri invece il

fine che coll'atto s'intende conseguire, esso pure sempre un bene, una

utilit, in quanto s'identifica col motivo di agire; ma non sempre un utile


proprio dell'uomo che agisce, mentre il termine dell'azione pu essere
nell'agente, o fuori di lui.

L'uomo generoso, che espone la sua vita per l'altrui salvezza, mosso
dal motivo di soccorrere il suo simile: questo in lui; l'interesse pro
prio che lo eccita all'atto. Ma il termine dell'atto il bene e la salvezza
di quello, per la cui salute espone la vita propria. L'interesse, come mo

tivo, proprio dell'operante; l'utile, come fine, fuori di lui, relativo


al soggetto su cui cade l'azione.

L'utilit adunque in generale, considerata in relazione alla volont


liberamente operante, non solo non pu essere esclusa, ma anzi forma la
condizione indispensabile di ogni atto umano, in quanto la si consideri

come motivo delle azioni. L'utilit poi, considerata come fine dell'azio
ne, vuolsi subordinare alla moralit, poich la moralit degli atti deriva
appunto dal fine dell'opera; o insito nell'opera stessa, se si tratta delle
azioni di loro natura morali o immorali; o inteso dall'operante, se si
tratta di quelle azioni che dal fine acquistano il carattere della mo
ralit; o delle semplici intenzioni, che appunto per la immoralit del

fine possono viziare anche gli atti buoni. La prevalenza del fine supre
mo rende necessaria la subordinazione ad esso dei fini secondari; ma
non pu distruggere l'indole della volont umana, e le condizioni del
suo libero operare.

78

SAGGIO

Ma l'utilit vuol essere considerata ancora in una relazione pi gene


rale colle leggi morali, le quali nell'intento del supremo Legislatore non
possono avere altro in mira, rispetto all'uomo, che il bene dell'uomo.
O si considerino gli effetti che dalla loro osservanza derivar devono al
l'uomo individuo e alla societ da Dio ordinata; o si considerino i premi
promessi a chi conforma la volont propria alla volont dell'Autore supre
mo di tutte le cose; impossibile sconoscere che tutte le regole, che Dio

ha dato per dirigere l'uomo nelle sue libere azioni, sono poste perch
l'uomo, coll'osservanza dei precetti fattigli da Dio manifesti sia col lume

della ragione naturale, sia colla positiva rivelazione, conseguisse il suo


bene presente e futuro. Questo intento del supremo Legislatore, tutto
conforme all'infinita sapienza e bont di lui, conduce a stabilire che l'ef
etto necessario e costante delle leggi morali il bene dell'uomo, bene
vero, e conforme ai sublimi attributi di cui lo forniva il suo Autore.
Ed questa l'idea, dietro la quale taluno, e fra questi, se non er

riamo, il Romagnosi, s'avvis di determinare le obbligazioni e i cor


rispondenti diritti dell'uomo per via di induzione. Ricercando ci che
giova o nuoce costantemente e generalmente all'uomo, posto che le re
gole della sua condotta dovessero guidarlo ad ottenere il suo bene e ad
evitare il suo male, si tent di risalire dalla natura degli atti giovevoli e
nocivi a determinare come di diritto o di dovere i primi, esclusi i se

condi. Questo metodo, pieno di difficolt e di pericoli, non poteva dare


buoni risultati; e quantunque il canone fondamentale, e tante volte da
Romagnosi ripetuto, della conformazione dell'opera all'ordine providen
ziale, sia un'idea giusta, era impossibile che giungesse per questa via a
dare concretamente, in tanta diversit di oggetti, una idea precisa e ben
determinata della legge giuridica e morale.
La legge giuridica, siccome ramo dell'ordine morale, non pu sepa
rarsi del tutto dalla legge etica, con cui connessa e a cui subordinata,
perch il fine giuridico subordinato al supremo fine morale.

Ora il bene che forma l'intento supremo, e la essenza dell'ordine e


della legge morale, non il solo bene esteriore e presente. Il suo fine

non si compie perfettamente nella vita presente. Dunque la deduzione


della legge giuridica risalendo dall'osservazione degli effetti, quanto si
vogliano universali e costanti, ma solamente attuali e limitati alla vita
presente, che derivano costantemente da certe azioni, deve di necessit

far perdere di vista la connessione fra l'ordine giuridico e l'ordine etico,


che sono rami di quel tutto che si appella ordine morale.

PARTE I.

79

Inoltre, se pure la costanza e universalit dell'effetto utile di date


azioni potr condurre all'induzione, ch'esse siano da farsi, e da omettersi

le contrarie, questa conseguenza, per quanto fosse concorde co pronun


ciati dalla dottrina morale e giuridica relativamente alle medesime azioni,
non sar che un giudizio particolare rispetto a quelle azioni, ma non po
tr mai prestare la base e il criterio valevole a stabilire un principio
universale ed assoluto applicabile a tutte le azioni, che serva di regola
alla condotta giuridica e morale dell'uomo. Quindi il sistema sar sem
pre imperfetto e manchevole.

Se nel giudizio sulla moralit o giustizia di certe azioni, dove l'appli


cazione dei principi della morale non ovvia ed immediata, si trovano

tante difficolt e tante incertezze, sebbene i principi fondamentali siano


universali e dedotti dalla ragione; quanto maggiore non la difficolt
quando si tratti di giudicare se una data maniera di agire sia o no pro
duttiva costantemente di utilit, essendo l'utile di sua natura contingente,
mutabile, e spesso soggettivo !

Il metodo induttivo nelle scienze fisiche l'unico ragionevole e pos


sibile, perch le leggi dell'ordine fisico non si possono conoscere che me
diante l'osservazione dei fenomeni costanti. Ma l'induzione nelle scienze

fisiche non conduce a scoprire l'intima natura della legge o causa che
produce quei tali fenomeni. La causa rimane incognita, la espressione
legge fisica; indica soltanto la costanza di que tali fenomeni.

Invece nell'ordine morale non si tratta di leggi o cause produttrici di


fenomeni, ma di norme autorevoli direttive delle azioni libere. Convien

dunque conoscere propriamente in che stia questa norma, e perch si


debba seguirla.

Col metodo induttivo, ossia col principio dell'utilit universale, intesa


nel miglior senso possibile, non si potr mai n dare un completo siste
ma di giurisprudenza o di morale, n molto meno farne una vera norma
obbligatoria.
-

Dal principio dell'utilit universale si dedurr che il furto, l'omicidio,


le violenze sono azioni contrarie al benessere dell'umanit. Si dir, per
esempio, che nella lotta fra una nazione che vuole ottenere libert di
commerci, e un'altra che pretende di non essere avvelenata da certe
merci che le si vogliono vendere, la utilit della conservazione della vita

prevalente su quella dell'aumento della ricchezza; ma dal principio del


l'utilit non si potr certamente dedurre che la prima sia obbligata a
rispettare questa prevalenza. Il risultato dell'applicazione del prin

80

SAGGIO

cipio dell'utilit non e non pu essere altro che un puro calcolo, e


non una obbligazione.
Poich essendo universalmente utile, sia la conservazione della vita,

che la libert dei commerci, la nazione che tende a questa gi appog


giata al principio dell'utilit universale, e ci vuole una ragione suffi
ciente per dire ch'essa deve rinunciare al conseguimento di questa uti
lit universale.

Poich l'astratta idea di universalmente utile, se deve servire di re

gola all'agire dell'uomo, deve avere un soggetto concreto, nel quale at


tuarsi. Se dunque l'atto per s universalmente utile, e ch'io voglio pra
ticare, si trova incompatibile con un atto universalmente utile che vuole

praticare un altro, ci vuole un principio, dietro il quale si determini che


il soggetto, in cui debbasi attuare di fatto la universale utilit, sia piut
tosto l'uno che l'altro.

Questo principio, se non si voglia riporre nella intrinseca giustizia e


moralit dell'azione, non potrebbe consistere che nella maggiore impor
tanza degli oggetti, ovvero nella forza prevalente.
Ma l'importanza degli oggetti, anche nel caso in cui sia diversa, non
potr servire ad altro, che a stabilire esservi da una parte una utilit
prevalente; ma non che l'altra parte, a favore della quale milita egual
mente il principio dell'utile universale insito nella sua pretesa, debba
rispettare la pretesa dell'avversario. Qual ragione ci sarebbe perch l'uno

dovesse privarsi dei vantaggi a lui derivanti dal sostenere una pretesa
sempre ed universalmente utile, perch il grado di utilit minore di

quello che deriva all'altra parte dalla pretesa ch'ella sostiene?


Il vizio capitale della dottrina dell'utile, sia pure nel significato men

tristo, sta propriamente nella mancanza del principio dell'obbligazione,


Da questo vizio derivano tutti gli altri. Escluso il principio dell'obbli
gazione, non essendovi modo di stabilire una morale necessit di omet

tere certi atti universalmente utili, per rispetto ad un'altra universale


utilit che si trova nell'atto altrui, non rimarrebbe che l'uso della forza
per decidere fra i contendenti. Per cui in fine il principio dell'utile fa

scomparire le idee di ragione e di torto, confonde l'ordine morale co'


fatti materiali, e converte in regola dell'agire dell'uomo ragionevole le
cieche ed istintive abitudini ed inclinazioni delle bestie.

E siccome, posta come principio supremo dell'onesto e del giusto


l'utilit universale, questo principio dovrebbe applicarsi di necessit an

che alle azioni dell'individuo; cos, per determinare quelle azioni che sono

PARTE I.

81

da fare e quelle che sono da omettere, bisognerebbe stabilire per cia


scuna se sia o no conforme all'utile universale; vale a dire, se praticata
da tutti sarebbe utile per tutti. Ma se tante volte l'effetto immediato
dell'azione buona non un vantaggio di chi la compie, l'uomo potrebbe

dire che dunque non c' in quell'azione il carattere dell'universale uti


lit. Quindi sarebbe da fare quando si reputa universalmente utile, e da

omettere quando non vi si vede questa utilit. Ed ecco come il principio


dell'utilit universale riconduce inevitabilmente a quello della utilit
individuale, che ha spaventato gli stessi utilitari men ributtanti, senza

guarirli del tutto del loro errore.


La frode e l'inganno possono essere adoperati a far danno; ma po
trebbero servire quali mezzi a produrre un effetto da giudicarsi, per
s, universalmente utile. Se la universale utilit la regola delle azioni,
il mezzo, ch' pure un'azione, dovr giudicarsi secondo la regola stessa.
Ora siccome la frode e l'inganno non sono di loro natura sempre dannosi,
ma lo divengono a cagione dello scopo che con essi s'intende conse
guire; cos, dietro il principio dell'utilit, non si potrebbero riprovare
quando non mirassero ad uno scopo dannoso. Ed ecco che il principio
dell'utilit universale conduce eziandio all'altro assurdo, che il fine giu
stifica i mezzi.

Nel principio dell'utilit universale, considerato come un'applica


zione del metodo induttivo alle scienze morali, forse taluno potrebbe
scorgervi inchiuso anche il principio dell'obbligazione, poich si mira
con esso a determinare le norme dell'agire umano, deducendole dagli
effetti universali e costanti che derivano dal vario modo di operare del

l'uomo, posto che l'infinita sapienza e bont del suo Autore non possa
avergli segnato altre regole, che quelle le quali valgano a fargli conse
guire il suo bene. La volont dell'Autore supremo sarebbe la fonte del
l'obbligazione per l'utilitario, come pe'l moralista.

A ci agevole rispondere, che quando pure fosse vero tutto questo,


la imperfezione del metodo induttivo, per la difficolt, anzi l'impossibi
lit di applicarlo alla immensa variet delle azioni umane, basterebbe
da s sola a riprovarlo nelle scienze morali.

Di pi, quanto vero che l'ordine e la legge morale non pu avere


nell'intento del supremo Creatore, in riguardo all'uomo, altro scopo che
il bene dell'uomo; altrettanto vero che questo bene non pu ripugna

re agli attributi essenziali, per cui l'uomo si distingue dagli altri esseri,
che non hanno un fine morale. Il bene dunque, che forma lo scopo

finale

SAGGIO

82

dell'ordine morale, deve essere un bene corrispondente alla ragionevolezza


umana, un bene assoluto e necessario. E siccome questo bene, come fine e
compimento dell'ordine morale, non si consegue completamente nella vita
presente, perch tutte le possibili utilit della vita presente non riempio

no mai interamente le brame insaziabili del cuore umano, n sempre i van


taggi tengono dietro costantemente a ciascuna azione onesta e virtuosa;

cos la ragione umana si spinge nel futuro, riconosce nella immortalit


dell'anima e nelle sanzioni della vita avvenire il compimento necessario
dell'ordine morale, che non pu aver luogo mai interamente finch l'uomo
si trova limitato da tempo e da spazio, e in condizione da poter tuttavia

cooperare o no colle libere sue azioni al fine morale, e rendersi merite


vole di quella immanchevole felicit che, anche dopo la caduta dell'uomo,
Dio gli ha preparato nella sua misericordia come premio della obbe
dienza di lui ai sapienti e benefici suoi voleri.
Dunque non cadendo sotto l'osservazione sensibile che le sole utilit

presenti, e queste non costituendo n tutto n principalmente quel bene


ch' l'intento ultimo della legge morale rispetto all'uomo, manca la
base della induzione che sopra gli effetti delle azioni vorrebbesi fondare
per dedurne le norme.

Oltre di che, la universale utilit presente essendo un fatto esteriore,


deve derivare da atti esteriori, ma giammai non pu dipendere da sem
plici atti interni. Quindi la regola della moralit, dedotta dall'utile uni
versale, distruggerebbe la moralit intrinseca, lasciando solo le esteriori

apparenze, e cos tutta la moralit si ridurrebbe ad una vana forma, ad


una vera ipocrisia.

Che se il fine e l'intento della morale, regolatrice di tutte le azioni


dell'uomo anche come individuo, un fine ed un intento che dee riguar
dare ciascun uomo; l'utilit generale presente, che deriva dalle sue azio
ni, quando non sia accompagnata dalla sua utilit privata, condurrebbe
alla contradizione di riconoscere per una parte buona l'azione perch

conforme a questo preteso principio della moralit, riposto nell'univer


sale utilit; mentre da un altro lato l'azione medesima si dovrebbe dire

cattiva, perch opposta all'intento ultimo dell'Autore della legge, che


essendosi riposto nel solo utile presente, non sarebbe conseguito proprio

da quell'uomo che si uniformato nel suo agire alla norma che gli se
gnata per conseguire la presente utilit di tutti.
E sebbene (dappoich la semplice giustizia tra uomo ed uomo risguar

da fatti e maniere di agire esteriormente) sembri a prima giunta potersi

PARTE I.

83

derivare la legge giuridica dalla induzione tratta dall'universale e co


stante utilit di certi atti, considerata come intento dell'Autore della
legge che la fa obbligatoria, pure il metodo riesce assurdo anche per
l'ordine giuridico.

Infatti la legge giuridica non al tutto separata dalla legge morale,


ma vi ha le pi intime relazioni. L'ordine morale universale, cui deve
essere subordinata la condotta dell'uomo nelle sue relazioni con s, co
gli altri, con Dio, uno solo; il suo principio, le sue norme non pos
sono essere divise cos l'una dall'altra da distruggere questa unit. Il
principio fondamentale che si assumesse, quando fosse in contradizione
coll'indole della morale, non potrebbe convenire all'ordine giuridico,
ramo di quell'unico sistema a cui la morale e la giustizia indivisamente
appartengono.

Quegli assurdi che derivano dal principio dell'utilit, isolatamente


preso, non sarebbero tolti quando vi si associasse quest'idea dell'auto
rit derivante dalla fonte della legge giuridica, anzi si aggraverebbero
di pi. Posto infatti che gli effetti utili esteriori e presenti, derivanti
dalle azioni, potessero condurre a stabilire come norma della pura giu
stizia fra gli uomini questa utilit universale siccome fine del supremo
Legislatore, la legge giuridica non sarebbe pi una legge d'ordine mo
rale, ma puramente di ordine materiale, perch l'utilit presente, este
riore, sensibile, un fatto materiale. Ma la morale, le cui norme, come
vedemmo, non possono derivarsi dalla osservazione degli effetti utili
esterni e presenti, risguardando tutto l'agire dell'uomo, comprende an
che gli obblighi di giustizia esteriore verso i nostri simili, che per una
astrazione della mente vengono a formare l'oggetto della legge giuridi

ca, considerata come derivazione dei semplici rapporti esteriori dell'uomo


socievole, distinta ma non separata dalla morale: dunque avremmo una

legge ad un tempo di ordine fisico e di ordine morale; connessa e in


sieme divisa dalla morale; che come derivazione dallo stesso assoluto

principio, da cui deriva la morale, si pu applicare a tutti i casi, e


come dedotta dall'osservazione degli effetti utili, non potrebbe servire
per quei casi nuovi che spesso avvengono dove non essendosi potuto de
terminare l'effetto costante di quella tale azione, non si pu dire se sia

giusta o ingiusta, nel senso degli utilitari. Contradizioni manifeste, che


derivano dall'ammettere per l'ordine giuridico un principio di natura
opposto a quello che dee valere per la morale, inducendo quindi una
vera separazione fra il giusto e la moralit. Ed qui da notare che la

84

SAGGIO

scuola del diritto, la quale introdusse questa separazione, ricade inevi

tabilmente nella dottrina dell'utile, perch stabilisce la norma della giu


stizia nella possibilit di una eguale condotta in tutti, senza che sia resa

impossibile la convivenza. Il criterio quindi della giustizia l'effetto


che dall'azione deriva rispetto alla tranquilla convivenza (1), implicita
mente posta come principio di universale utilit, intesa dall'Ordinatore
supremo; per cui il principio della scuola separatista un principio ma
teriale, anzich un principio formale, com'essa pretende.
Rimane da vedere se il principio dell'utilit, nel senso esposto, ossia
come metodo d'induzione, possa valere per determinare in che stia il
diritto, nel suo proprio significato di facolt o potere di agire dell'uomo

relativamente a suoi simili. Considerata la dottrina dell'utile da questo


lato, non riesce meno assurda che rispetto all'onesto e al giusto come
dovere giuridico.
Il carattere essenziale del diritto, quando nell'identico atto non vi
sia congiunto il dovere, consiste nell'essere facoltativo; un potere che

l'uomo pu esercitare, ma che non obbligato ad esercitare.


Questo potere, consentito all'uomo dalla ragione, entrando nel siste
ma dell'ordine morale, certamente non pu tendere di per s al danno
dell'uomo.

Ma se questo vantaggio proprio del diritto considerato generalmen


te, e nell'intento per cui sussiste nell'ordine morale, non cos rispetto

agli atti particolari che l'uomo esercita per diritto; mentre mancando
essenzialmente al diritto puro il carattere dell'obbligazione spettante
all'idea del dovere, il diritto pu essere esercitato o no, diretto al pro
prio vantaggio, od anche usato in proprio danno, senza che per questo
cessi dall'essere diritto l'azione con cui lo si esercita. Ora se il criterio

per decidere fra l'azione ch' diritto, e quella che non lo , consistesse
nell'utilit universale dell'azione, bisognerebbe, per essere logici, con

(1) Si vegga Zeiller, Diritto privato, S 4., che si esprime pressoch con queste
medesime parole. Del resto, con questa osservazione siamo ben lontani dal voler
mettere Kant, Zeiller, e i mille altri scrittori di questa scuola, nella classe degli uti
litari. Altro che il loro principio si riduca a quello dell'utile come principio me
todico, altro ch'essi esplicitamente professassero la dottrina dell'utilit. Meno

poi ci si potrebbe dire degli altri scrittori, che pure adottando il principio della
separazione, lo formularono diversamente, chiamando diritto tutto ci che non o

fende l'altrui persona, ossia la connaturale padronanza sugli atti propri, e combat
terono anzi la dottrina dell'utile.

PARTE I.

85

chiudere che tutte le volte che l'azione mia, quando fosse praticata da
tutti, sarebbe a tutti dannosa, cesserebbe dall'essere diritto. Quindi il
principio dell'utilit condurrebbe necessariamente alla distruzione del
diritto come facolt, perch non vi sarebbe diritto nel tralasciare l'azio
ne utile.

Per esempio, l'acquistare la propriet senza ingiuria di alcuno,


atto universalmente utile; ma se tutti ommettessero di acquistare oggetti

in loro propriet, ci sarebbe universalmente dannoso. Dunque io indi


viduo, dovendo giudicare diritto ci ch' universalmente utile, non
avrei diritto di omettere l'acquisto di oggetti che fossi alla portata di
occupare, perch questa omissione, praticata da tutti, sarebbe dannosa
universalmente.

Quindi l'utile universale, che anche associato ad un principio di ob


bligazione, dedotto dall'intento benefico del Creatore, impotente a
tracciare le norme del dovere morale e del dovere giuridico, sarebbe poi
anche distruttivo dell'essenza del diritto.

E in un altro senso ancora sarebbe distrutto il diritto. Imperocch col


principio dell'utilit dovendosi far prevalere sempre il maggior utile sul
minore, oltre che la diversa maniera di calcolare la prevalenza dell'uti
lit, nel qual computo ha necessariamente tanta parte il modo di sentire,

la variet degli oggetti e le mutabili circostanze, condurrebbe ad infinite


incertezze; anche quando questo calcolo desse un risultamento indubi

tato, si correrebbe all'assurdo di mettere la forza materiale in luogo del


diritto. Infatti posto, a cagion d'esempio, che la conservazione della
propriet sia universalmente utile, il proteggerla un diritto. Ma l'uti
lit della propriet non consiste materialmente negli oggetti, s bene
nell'uso di essi al soddisfacimento dei bisogni dell'uomo; quindi tanto

pi utile la propriet, quanto pi serve a soddisfare una maggior massa


di bisogni. Perci la propriet molto diffusa pi utile della propriet
sovrabbondante in alcuni, scarsa in altri. Se col principio dell'utilit si

dovesse decidere del diritto, il principio dovrebbe valere tanto pe'i di


ritti individuali, come pe i sociali. Dunque l'uomo individuo, che scar
seggia di mezzi a soddisfare i suoi bisogni, avrebbe diritto che chi ne ha

di soverchio gliene cedesse tanta parte da eguagliare le partite. L'uti


lit universale della distribuzione delle ricchezze essendo maggiore di

quella della semplice conservazione della propriet che si ha, perch


pi prossima alla ragione giustificante la propriet, farebbe prevalere il
diritto dello spoglio a quello della conservazione della propriet. E se

86

SAGGIO

tale diritto di spoglio dell'altrui soverchio spettasse all'individuo, pi


ancora spetterebbe all'autorit sociale; perch dovendo essa promovere
l'utilit comune, non sarebbe frenata ne'mezzi da alcun rispetto dovuto
al diritto della conservazione della propriet, che nel conflitto dovrebbe

sempre cedere alla distribuzione, come atto di maggiore utilit. Il le


gittimo proprietario, sollecitato a lasciarsi direttamente spogliare, o do
vrebbe lasciar fare; ed ecco distrutto il diritto di propriet: o, appog
giandosi all'universale utilit della conservazione della propriet ragio
nevolmente acquistata, potrebbe resistere; e allora al diritto sarebbe

sostituita la lotta delle forze, dove la maggior forza, e non la ragione,


prevale.

Un pensatore coscienzioso non pu quindi ammettere come principio


fondamentale nell'ordine morale, e in nessuna scienza che a questo ap
partenga, l'utilit in verun senso, a meno che non s'intenda per essa
l'utilit morale, ossia il bene assoluto; nel qual caso non c' che im
propriet di linguaggio, pe'l pericolo di confondere il principio morale

con quello degli utilitari di tutte le forme. Ci per altro non vuol dire
che l'idea dell'utile sia affatto esclusa dalle morali dottrine. Oltre al

vario significato della parola, e alle attinenze diverse che vedemmo de


rivarne colle idee morali; l'utile, come felicit, l'effetto necessario
che deriva dalla conformit delle azioni umane colle norme dell'ordine

morale. La felicit somma l'effetto della moralit costantemente prati


cata, del fine morale conseguito. La felicit temporale dell'individuo e

della societ, quanto pu trovarsi nella vita presente, l'effetto della


giustizia e del diritto saggiamente esercitato.

Perci riprovando gli eccessi da una parte, non ne viene che si debba
gettarsi all'estremo opposto, al quale corse la scuola critica di Kant,
negando a dirittura che l'utile possa punto associarsi coll'onest, rite
nendo impossibile trovarsi virt dove vi sia utilit. Questa maniera di
pensare non tanto una conseguenza, quanto una espressione, in altri
termini, del principio fondamentale della morale, secondo questa scuola
riposto nell'imperativo categorico: fare il dovere perch dovere. Il

quale principio se a prima giunta seduce, perch vestito di forme mobili


ed elevate, non risponde per n all'indole della legge morale, n alla
natura umana. Poich sebbene ripugni una onest praticata nella vista
di semplici interessi materiali, dovendo il fine morale essere conforme
all'indole della mente umana, che cerca sempre l'ultima ragione, il
necessario, l'assoluto; assurdo eziandio cancellare dal novero degli

87

PARTE I.

atti virtuosi quelli co' quali l'uomo mentre si conforma alla legge mo
rale, tende anche a conseguire una felicit non ripugnante alla natura
ragionevole, od anche la felicit somma, promessa in premio della virt
in una vita avvenire.

D'altra parte il pretendere che l'uomo non possa mai desiderare e


procurarsi il suo utile, senza cessare d'essere virtuoso, contradire alle
tendenze necessarie della natura umana, che possono benissimo subor

dinarsi alle regole morali, senza venire per questo distrutte. Il rigori
smo morale di questa scuola, che domanda in nome della virt un dis
interesse assoluto, pone non solo come regola, ma come unico movente
dell'uomo un'idea astratta e teorica; mentre l'uomo, circondato com'
da tanti desideri e bisogni, non pu interamente sottrarsi alla loro in
fluenza; e pe'l trionfo della ragionevolezza e della moralit basta bene

che nel conflitto fra la moralit e il piacere quella abbia sempre la


preferenza, quando incompatibile con questo. Ci non esclude la

maggior perfezione, alla quale alcuni possono giungere; ma che sareb

be assurdo voler convertire in una regola generale e di rigoroso dovere


per tutti.
L'eccesso da una parte non giustifica l'eccesso dall'altra. Perch il
-

fine dell'uomo, come ente ragionevole, non consiste nel piacere, n pu


quindi l'utilit essere la regola della sua condotta, non ne segue che la
virt debba sempre consistere in patimenti e privazioni. Si esagerano da
alcuni i sacrifici che costa l'essere onesti, e il vivere secondo i precetti
della morale. Sarebbe meglio l'insistere sui vantaggi che la pratica sin
cera e costante della virt produce alla societ umana e all'individuo.
Poich se da un lato verissimo che l'osservanza delle

regole di giusti

zia e di moralit deve avere per primo movente la dignit dell'essere

ragionevole, il rispetto della legge morale, e l'obbedienza alla volont


di Dio; pure verissimo che le stesse azioni indifferenti e i piaceri non
turpi possono essere colla rettitudine del fine nobilitati e renduti virtuo

si, e che stanno preparati beni stupendi all'uomo retto nella pace del
l'animo e nelle retribuzioni presenti e future.

Sebbene il senso di molti luoghi, ne'quali il Romagnosi discorre del


l'utilit e delle sue relazioni col giusto, non apparisca ben chiaro; tut
tavolta, avendo egli posto come norma suprema del diritto l'ordine di
ragione derivante dai rapporti necessari, escluso sempre l'arbitrio, e sub
ordinata alla comune equit la soddisfazione dei bisogni indotti dalle
necessit di fatto della convivenza; avendo egli proclamata la necessit

SAGGIO

88

dell'alleanza del diritto e della morale s publica che privata (1), rico

nobbe per ci stesso il metodo induttivo siccome impotente a dare la

completa dottrina del diritto e del dovere giuridico; e dall'idea dei rap
porti di fatto naturale fu costretto a salire pi alto, cio ai rapporti asso
luti e razionali, derivanti dagli attributi che costituiscono l'essenza del
l'uomo; e a fondare sopra questi quella norma suprema, alla quale devono
essere subordinate le conseguenze per via d'induzione derivate dalla
considerazione della costante utilit, presa come intento dell'Autore del

l'ordine giuridico e morale.


Ma la innegabile oscurit e confusione che s'incontra sovente nelle
sentenze del Romagnosi in questa materia, una prova parlante dei di

fetti inseparabili da un metodo che non conviene alle dottrine morali, e


che per non essere al tutto assurdo, ha infine bisogno di ricorrere, per
correggersi, ai principi dedotti dalla vera fonte delle filosofiche dottrine
giuridiche e morali. Anche in questo argomento, come in tanti altri, non
bisogna fermarsi alle proposizioni particolari del Romagnosi, ma con
frontarle insieme, e ricorrere alle dottrine generali, per formarsi una

idea giusta del suo sistema. Nel quale se pure entra un elemento utili
tario, esso per si distingue essenzialmente dagli altri sistemi cos pro
priamente denominati, perch il principio dell'utile non vi si trova nudo
ed esclusivo, ma associato e subordinato al principio razionale. Quello

che manca una maggiore chiarezza e un completo sviluppo delle dottri


ne. Ma nei libri bisogna cercare quello che c', ed approfittarne. Se vi
si trovano soli germi econdi, conviene renderli fruttuosi; e se l'esempio
suo mostra che, ad onta di un ingegno altissimo quant'altro mai, il

principio dell'utile, anche associato ai principi razionali, quando sia


troppo adoperato, non conduce a dottrine chiare, distinte e costante
mente ben connesse; si dee vedere in questo fatto una prova di pi,
che nella trattazione delle dottrine morali il solo metodo conveniente

sta nel prendere le mosse dagli attributi essenziali dell'uomo, e dai rap
porti necessari che ne derivano: dalla qual fonte soltanto pu dedursi un

principio razionale che serva di guida, di criterio e di fondamento in


tutte le ricerche spettanti alle morali dottrine.
(1) Vedi, per esempio, Tomo III. pag. 603, paragrafo 270; Tomo IV. pag. 486,
paragrafi 152-153.

PARTE I.

89

CAPO XI.
Altre considerazioni sull'utile. Ordine economico,
e sua connessione coll'ordine giuridico.

La legge fondamentale della socialit, che consiste nell'aiuto reciproco,


importa necessariamente la tutela del diritto, la sanzione del dovere giu
ridico, e i provedimenti rivolti a promovere il benessere comune.
Il primo scopo della societ quindi la giustizia, ma dopo questo,
subordinato a questo e con questo strettamente connesso, sta pure l'al
tro fine del benessere, ossia della utilit.
L'utilit, che costituisce il fine politico della societ, subordinato al

fine giuridico di essa, forma l'oggetto di un dovere incombente alla socie


t verso i suoi membri, che dev'essere adempiuto in quelle forme e den
tro quei limiti che l'indole sua richiede, e dagli organi stessi cui spetta
esercitare i diritti o poteri regolatori della societ: poich l'ottenere il

proprio benessere, salva la giustizia, essendo un diritto dell'uomo, che


come tutti gli altri dev'essere tutelato e protetto dalla societ; cos v'ha
anche in questo una corrispondenza di diritti e di doveri reciproci fra la
societ e i suoi membri.

E qu conviene avvertire che il benessere dell'uomo nell'ordine della


civile convivenza pu essere considerato con maggiore o minore esten
sione.

Poich il diritto consistendo nell'esercizio dell'attivit umana entro i

limiti delle leggi giuridiche e morali, e nelle relazioni puramente este


riori degli uomini, non pu di sua natura essere ordinato ad altro fine,
che al benessere dell'uomo.

L'uomo essendo libero, pu abusare del suo diritto, e convertirlo in

istromento di suo danno o materiale o morale; ma ci non distrugge la


natura e il fine dell'ordine giuridico. Chi spreca la sua propriet e si

riduce alla miseria, esercita il diritto di propriet in suo danno; ma ci


non toglie che di per s il diritto di propriet sia diretto alla conserva
zione dell'uomo e alla soddisfazione de suoi bisogni,
Quando i commentatori, riassumendo le disposizioni del Diritto ro
mano, definirono la propriet jus utendi, fruendi et abutendi, dissero
cosa giusta, se si guardi l'estensione di fatto del diritto stesso, e la in

violabilit della libert personale quando non offende gli altri uomini;
ma non potrebbe quella definizione tradursi a significare l'intrinseca na

90

SAGGIO ,

tura del diritto considerato nel fine cui nell'ordine providenziale di


retto. Ed ci tanto evidente, che al jus abutendi aggiunsero la clausola

quatenus juris ratio patitur; nella quale si comprendono i freni che nella
societ possono giustamente imporsi all'abuso del diritto in vista delle
norme giuridiche derivanti dalla convivenza sociale (1).
Posto adunque che il diritto sia una facolt di sua natura diretta al
l'utilit dell'uomo, ne segue che il dovere giuridico correlativo in ogni
altro uomo che gliene impone il rispetto, e il dovere sociale della tutela
del diritto stesso e della sanzione del dovere giuridico, siano ad un tem

po mezzi per assicurare l'utilit dell'uomo, che dal diritto deriva.


Ma poich l'idea prevalente in ci quella della giustizia individuale
e della tutela sociale del diritto, e la utilit non entra che come intento

naturale dell'ordine giuridico; cos le dottrine risguardanti quest'ordine


non si potrebbero convenientemente inchiudere nelle ricerche intorno al
l'ingerenza della societ nel produrre il benessere o l'utilit conside
rata come fine particolare, e subordinato al fine generale giuridico.
Egli per indubitato, che non potendo essere utilit se non sia in
nanzi tutto rispettata la giustizia, e dovendo la societ rispettare e non
sovvertire l'ordine naturale morale, vi una grande connessione fra l'or

dine giuridico e l'ordine economico.


Di pi: la societ, oltre al fine suo proprio ed immediato, ancora
un mezzo al perfezionamento intellettuale e morale dell'uomo; e quindi

l'operar sociale dev'essere sempre e in tutto subordinato al supremo fine


morale, che d regola e norma a tutti gli atti, dove opera il libero arbi
trio dell'uomo.

Egli quindi impossibile rettamente parlare dell'utilit, nel senso di


benessere esteriore dell'uomo in societ, ove non si ammetta precedente
mente il dovere di subordinare al supremo fine morale e al fine giuridico
gli ordinamenti diretti a promoverla.
Dopo stabilito questo canone fondamentale, che cio il fine del benes
sere nella societ, come nell'individuo, subordinato alla giustizia e

alla moralit, conviene discendere ad esaminare fino a qual punto si


(1) Questa osservazione vale per quelli che intendono lo abuti nel senso di male

uti. Altri per intendono abusus, nel senso di uso definitivo, in opposizione al sem
plice usus, che indica un impiego tale della cosa da potersi ripetere. Servirsi del
proprio bue per arare i campi sarebbe usus; ucciderlo per cibarsene, abusus. per
certo che vi pu essere un abuso nel primo significato, e su questo propriamente si
esercitano i freni accennati.

PARTE I.

91

estenda il diritto e l'obbligo della societ rispetto al promovimento del


comune benessere entro questi limiti.

Dirigere la propria attivit individuale a conseguire la soddisfazione


di qualunque bisogno o desiderio co'mezzi opportuni, quando sia salva
la giustizia e la subordinazione alla morale, un diritto di ogni uomo,
astrazione fatta dal vincolo di societ.

Il principio fondamentale ossia la legge suprema della socialit, che


consiste nel reciproco soccorso, fa sorgere il dovere della reciproca co

operazione nei membri componenti la societ civile; e nella societ tut


ta, come persona morale, quello di aiutarli ad effettuare pienamente
l'esercizio dei loro diritti, e di promovere il loro benessere: essendo ci
consentaneo all'indole, ai rapporti esteriori e al fine proprio ed imme
diato della societ, che da essa dev'essere conseguito, subordinatamente
agli altri fini prevalenti nell'ordine morale universale.
Considerato quindi il diritto che ha ogni uomo, come membro della
societ, di conseguire eziandio la propria maggiore utilit, come il com

pimento e la piena effettuazione dei diritti umani; considerata la legge


fondamentale della societ, che impone il soccorso al pieno esercizio di

ogni diritto; ne segue che il dovere sociale di promovere l'utilit dei


componenti la civile famiglia si estender tanto quanto si estende il di
ritto del cittadino al soccorso sociale.

Ora il cittadino verso la societ, di cui membro, ha diritto di essere


tutelato nell'esercizio delle sue facolt, ed aiutato al conseguimento dei

giusti fini che si propone, in quanto l'opera sua individuale non basti.
Dunque la societ deve tutelare l'esercizio della umana attivit, e pre
stare aiuto alla piena effettuazione d'ogni diritto in tutto quello a cui
non sia sufficiente l'opera degli individui.

E siccome il conseguimento dell'utilit, subordinatamente al giusto e


all'onesto, un diritto dell'uomo; cos alla piena effettuazione di questo
diritto la societ deve concorrere, conforme all'indole e al fine suo. Ma

ove l'attivit privata pu essere sufficiente a questo scopo, nulla man


cando alla piena effettuazione del diritto al benessere, non vi sarebbe un

titolo di ragione, sul quale la societ potesse appoggiare la sua ingeren


za, oltre lo stretto confine della semplice moderazione e tutela comune
agli altri diritti. Anzi l'opera sua venendo ad inceppare la libera attivit
privata, nel caso che da sola bastasse, si convertirebbe in un ostacolo e
perci in una offesa al diritto, anzich essere un soccorso per la piena
sua effettuazione.

92

SAGGIO

La societ civile non una societ di azienda comune, in cui l'indivi


duo sia puramente passivo, od aspetti la sua parte di vantaggio dall'ope
ra di chi posto ad amministrarla. Essa una unione d'uomini formata
dalla natura, dove ciascuno deve trovare un supplemento alla privata
insufficienza, non gi una sostituzione all'attivit propria.

La dimenticanza di questo canone fondamentale, che deriva dalla na


tura stessa della civile societ, ha prodotto errori molto funesti, e con
dusse fino alle dottrine del socialismo e del comunismo, che sono una
conseguenza estremamente logica dell'idea falsa che taluni si formaro

no in teoria o in pratica della societ civile.


Ma nel fatto posta la societ civile com' naturalmente costituita e
regolata dalla sua legge fondamentale del reciproco concorso e soccorso
pe'l conseguimento della sicurezza del diritto e del maggiore possibile
benessere, salva la subordinazione accennata, i suoi uffici sono essen
zialmente questi:

1. Moderare l'esercizio dei privati diritti, cio regolare il modo del


la loro attuazione in forza della legge fondamentale della societ.
2. Far sorgere nuovi diritti e nuovi doveri giuridici, dedotti dai
rapporti sociali, distinti dai puri rapporti individuali tra gli uomini.

3. Rimovere gli ostacoli che l'opera individuale incontra nell'eser


cizio di quei diritti che formano il giuridico patrimonio privato, e che
da sola non pu superare.
4. Prestare i soccorsi di cui l'opera individuale abbisogna per otte

nere il benessere possibilmente diffuso sul maggior numero, in quanto


l'opera dell'individuo isolato, o associato ad altri individui per libera
convenzione, non potrebbe senza tali soccorsi conseguire l'intento.

Queste quattro funzioni della societ, altre si riferiscono propria


mente all'ordine della giustizia, altre spettano all'ordine dell'utilit, o,
come s'appella comunemente, all'ordine politico.
Talvolta per avviene che con un solo atto o in un solo oggetto si
compiano parecchie di tali funzioni.

Cos, a cagion d'esempio, nelle servit legali, e nei casi di espropria


zione forzata per opere di publica necessit, previo compenso, si scor
gono insieme la moderazione quanto al modo dell'esercizio della privata
padronanza, la manifestazione di diritti nascenti dal rapporto di convi
venza sociale, la rimozione di ostacoli che si fraporrebbero al pi facile
esercizio della padronanza privata, e un soccorso che non potrebbe otte
nersi altrimenti.

PARTE I.

93

L'indole e la legge fondamentale della societ determina la sfera delle


sue attribuzioni e de' suoi doveri s nei rapporti del giusto, che in quelli
dell'utile; e serve quindi a dettare le norme, onde promuovere il comu
ne benesere nelle svariate relazioni della convivenza civile, entro i limiti

segnati all'operare sociale dai principi di ragione dedotti dall'indole


stessa della civile convivenza.

E qu si presenta subito alla mente la distinzione fra le esigenze co


stanti ed immutabili della vita civile, e quelle che possono derivare da
fatti e circostanze contingenti e mutabili.

Nella prima specie prevale il principio giuridico; nella seconda il


principio economico, ossia dell'utile: non cos per che nella prima spe
cie manchi l'effetto utile, e nella seconda non debba avere influenza il
principio di giustizia.
Egli evidente, come notammo di sopra, che i provedimenti o fun

zioni sociali risguardanti le moderazioni indotte dalla convivenza rispet


to all'esercizio dei diritti individuali, e i nuovi diritti e giuridici doveri
che derivano dal rapporto di societ, producono effetti sommamente be
nefici, che senza la societ non si potrebbero conseguire. Ma questi e
etti non sono da confondersi coll'indole del diritto e del dovere na

scente dai rapporti di societ; come l'effetto utile del diritto indivi

duale, conseguenza dell'ordine di ragione, non da confondersi col


principio tutto razionale ed assoluto del diritto.
Per l'opposto le funzioni economiche dello Stato presentano nei loro
oggetti, nei fatti che le reclamano, e nel modo onde si recano in atto,
molta variet. E siccome l'intento prossimo propriamente l'utilit,
cos per doppia ragione l'idea di questa prevale nell'ordine economico.
Ma sarebbe un grave e funesto errore il credere che nessun principio
di giustizia governasse questa bisogna; ch anzi il principio del giusto

vi si associa per pi ragioni e da pi lati.


Primieramente i provedimenti economici, considerati come funzione
della societ, sono un dovere in quanto derivano dai rapporti e dai fini
della societ, e sono diretti al bene de' suoi membri.

In secondo luogo l'ordine economico e i mezzi al promovimento del


benessere non essendo n conformi a ragione, n veramente utili, ove
non sia rispettata la giustizia, l'idea di questa interviene come limita
trice e regolatrice delle economiche funzioni.

In terzo luogo, s'egli vero per una parte che sono contingenti e
mutabili i principi particolari economici, in quanto derivano da fatti

SAGGIO

94

positivi e mutabili, non per che tutto nell'ordine economico sia con
tingente; poich anzi i principi supremi, in quanto si appoggiano sopra
le necessit costanti e naturali dell'uomo e della societ, sono immuta
bili come l'essenza stessa dell'uomo e della societ, e variano solo nelle

forme particolari indotte dalla variet dei casi che avvengono, senza mu
tare giammai nella sostanza.
Cos, a cagion d'esempio, il promovere le industrie e i commerci atto
conforme all'indole e ai bisogni dell'uomo e della societ; come atto

costantemente opposto all'indole dell'uomo e della societ l'inceppa


re l'attivit individuale e la libert delle contrattazioni oltre quel con

fine che una ragionevole moderazione dell'astratta padronanza privata


COnsente.

Quindi che gli ordinamenti economici, ben lungi dall'essere abban


donati ad un puro empirismo, trovano una regola che li dirige e li raf
frena nella stessa indole e fine della societ cui devono servire. Dalla

qual regola ove si diparta, non solo manca l'effetto utile che si voleva
ottenere, ma di pi ha luogo una vera ingiustizia, perch non adem
piuto al dovere sociale, che impone di provedere al benessere della ci

vile famiglia, e di non restringere l'attivit privata se non fino a quel


punto che le relazioni e le naturali necessit sociali richiedono.
Questa connessione dell'ordine giuridico coll'ordine economico, nel

quale deve sempre predominare l'idea della giustizia, sottomette il re


gime degli Stati ad un supremo principio immutabile, ch' il giusto;
colloca l'utilit al suo vero posto, le attribuisce il suo giusto valore, e

l'assicura efficacemente in doppio modo; cio: 1. non consentendo che


sia mai violata la giustizia, la quale, oltr'essere principio di ragione
assoluto, eziandio la vera produttrice della solida utilit; e 2. non

aprendo il varco mai all'arbitrio nemmeno nelle cose economiche, perch


l'arbitrio essendo fondato sull'opinione o sull'interesse individuale, non
pu avere solidit, n produrre un utile conforme alla ragione, che vuol
sempre principi e norme sicure, e non mutabili e passaggere opinioni.

PARTE I.

95

CAPO XII.
La propriet e la libera concorrenza. - Nuova conferma della connessione
tra l'ordine giuridico e l'economico. Prescrizione e usucapione.

La parola propriet si adopera talvolta ad indicare tutto il patrimo


mio giuridico dell'uomo. In questo senso il Romagnosi la usava allorch
mirando alle cinque specie di oggetti e di relazioni a cui si pu ridurre
il giuridico patrimonio dell'uomo, li indicava colle cinque forme di pro

priet; cio la personale, la reale, la morale, la domestica, la civile.


Ma un senso pi ristretto viene comunemente attribuito alla proprie
t, indicandosi per essa il dominio spettante all'uomo sulle cose.

Gli attributi fondamentali dell'uomo, che lo fanno essere persona, e


quindi soggetto capace di diritti, a confronto delle cose per loro natura
destinate a servire agli usi e ai fini dell'uomo, rendono di evidenza in
tuitiva, e un vero assioma, il principio universalmente consentito, che
all'uomo naturalmente spetta il potere, e in un certo senso il dovere di
usare le cose in proprio servigio.
Ma i dispareri su questo punto cominciano quando si tratta di deter

minare giuridicamente l'origine, il titolo, il modo, i limiti della pro


priet permanente sulle cose; di quel diritto, cio, di disporre ad arbi
tri e ad esclusione degli altri di certe cose, che se nella societ dev'es
sere regolato quanto al modo del suo esercizio, nasce per dai puri rap

porti individuali o privati degli uomini, e quindi non potrebb'essere


tolto od offeso senza contradire al fine, e sovvertire l'ordine fondamen
tale della convivenza civile, destinata alla protezione di tutti i diritti.
Le cose esterne in genere, naturalmente destinate agli usi dell'uomo,
divengono in particolare propriet di quell'uomo che col fatto proprio
le vincola a s coll'occupazione se libere, o colla convenzione se occu
pate dall'altro uomo.

L'altra forma pure ordinaria di acquisto della propriet col mezzo


della successione dei viventi nei beni appartenuti a defunti, non pu es
sere qu presa in considerazione, poich nel diritto di eredit, che sup
pone una successione di generazioni, entra necessariamente l'idea della
societ non solo come regolatrice del modo di esercitare il diritto di
propriet sotto questa forma, ma come elemento e condizione all'idea,
all'esistenza, all'esercizio del diritto di eredit, che vuol essere conside

rato distintamente nelle sue forme e nella sua origine ed appartenenza,


come vedremo nel seguente Capo XIV.

96

SAGGIO

Esaminata la propriet ne suoi modi d'acquisto, fondati sopra i sem


plici rapporti privati degli uomini, indubitato che la massima parte

delle cose trovandosi gi in propriet dell'uno o dell'altro degli uomini,


il modo pi comune col quale si acquistano si il contratto.
Quindi la propriet deve considerarsi sotto un doppio aspetto giuri
dico ed economico, avvegnach tutte le funzioni economiche si riducano
alla trasmissione reciproca della propriet fra gli uomini mediante il li
bero loro consenso.

Dopo la tutela della personale sicurezza egli sulla propriet e sul


commercio degli oggetti di essa che si esercitano le pi estese ed im

portanti funzioni della societ, direttamente connesse col suo fine imme
diato. Queste funzioni sono dirette al triplice scopo: di assicurare la
propriet, di moderarne l'uso per ottenere il maggiore comune legittimo
vantaggio, e di promovere e tutelare il commercio e la trasmissione delle
cose di qualunque forma sieno e da qualunque fonte provengano.

Cotesto argomento cos vasto e multiforme, che un lungo lavoro


appena basterebbe a svolgerlo in tutta la sua ampiezza. E sebbene molti
e gravi scrittori abbiano rivolto i loro studi alla ricerca delle leggi na
turali dell'ordinamento giuridico ed economico della propriet, ci pare
nonpertanto sussistere tuttavia molte e non lievi difficolt, che per non
essere ancora convenientemente risolte, producono sommi danni e terri

bili sofferenze, delle quali sono tanto pi gravi gl'indizi nei diversi
paesi, secondoch il sistema esistente in essi pi o meno lontano dal

l'equit, e secondoch i vizi di alcuna parte del sistema economico


giuridico sono o no in qualche modo corretti dalla bont delle altre.

Qualora si consideri la propriet puramente come un diritto, semplici


ed evidenti sono i principi sui quali si fonda, e gli attacchi di qualche
mente traviata non possono reggere a fronte delle dottrine che, oltre al
l'essere dimostrate, sono eziandio l'espressione di un sentimento conna
turale all'umanit tutta quanta.

Ma poich la societ, nella quale l'uomo vive come in suo stato na


turale, appunto dalla Providenza ordinatrice delle umane cose desti
nata a regolare l'esercizio dei diritti anche puramente privati, in modo
che tutti possano trovare nella societ la sicurezza, la tutela, l'aiuto re
ciproco, che formano la legge suprema naturale della convivenza civile,
i principi del diritto privato intorno alla propriet, senza perdere o mu
tare nulla sostanzialmente della loro indole, vengono a contatto con al
tri principi, con altri bisogni, con altri fini inerenti alla vita civile, onde

PARTE I.

97

hanno origine molte e complicate relazioni a forme nuove del diritto di


propriet.

Allorch la propriet si considera nelle relazioni tra gli uomini come


individui, tutto si riduce all' idea del mio e del tuo, del rispetto eguale
per tutti, e della difesa a tutti egualmente conceduta, qualunque sia la

specie e il cumulo degli oggetti della loro propriet, qualunque siano i


fini privati, pe quali li adoperino. Ma quando la propriet si esamina
in relazione al fine della societ, e quindi si ricercano quali condizioni
e quai limiti si debbano porre all'astratto ed individuale diritto di pro
priet, non gi quanto alla essenza, ma quanto ai modi del suo esercizio,
in relazione al fine comune della societ civile, si apre davanti all'osser
vatore un campo assai vasto, e difficile da percorrere.

Se le dottrine del privato diritto, quantunque nei principi cardinali


ovvie ed elementari, danno tuttavia in certi argomenti occasione a dubj

e controversie quanto alle applicazioni remote dei principi stessi; tanto


pi difficili a stabilirsi e ad applicarsi sono quelle della filosofia civile,
frutto d'una matura civilt e di profonde speculazioni, perch dipen
denti da rapporti molto pi complicati.

Ed perci che nel fatto vediamo sostenuti in teoria, od anche messi


in atto ne vari tempi e luoghi, i sistemi pi discordanti, ove si tratti di

regolare l'uso del diritto di propriet, dal feudalismo che vede dapper
tutto propriet; e per assicurarla al possessore ne sottrae una grandis
sima parte al commercio umano, fino al vero comunismo, che chiama la

propriet di qualunque specie un furto.


Qualora si vgliano rintracciare i principi sui quali debbasi fondare
l'ordinamento economico della propriet in relazione allo scopo della
societ e degl'individui che la compongono, impossibile prescindere
dai principi del diritto. Separate le vedute economiche da quelle della
rigorosa giustizia, si cade necessariamente nell'assurdo, e si preparano
disordini e sovversioni senza limite, poich la strada dell'errore con
duce al precipizio.

I vizi capitali, che deturpano molte teorie su questo punto, stanno


propriamente agli estremi. Da un lato la pretesa che la societ e la legge
creino ed introducano la propriet; dall'altro la pretesa che la societ
possa distruggerla. Fra questi due estremista la teoria dell'intervento
della societ per regolarne l'uso e la distribuzione; teoria vera in s

stessa, ma da taluni esagerata o erroneamente applicata: si chiede allo


Stato ci che non pu, o ci che non deve fare.
7

98

SAGGIO

Sarebbe soverchia ogni discussione sulla ipotesi della propriet in


trodotta dalla sola legge civile. Ormai, dopo tanto che fu scritto su que
st'argomento, non pu rimaner dubio, per chi non voglia rinunciare al
buon senso, che la propriet un principio, un sentimento, una neces
sit naturale, giuridica e morale.

Ma posto come verit incontrovertibile che la propriet un diritto


dell'uomo individuo, che sorge dalle sue facolt naturali, e dalle rela

zioni tra lui e le cose a suoi usi destinate; posto che l'esercizio di que
sto diritto vuol essere regolato e tutelato nella societ mediante le leg
gi, in ordine allo scopo della societ medesima; tre domande si offrono

spontaneamente, cio: 1. A qual fine deve tendere l'ingerenza legisla


tiva nell'ordinamento della propriet? 2. Da quali principi sar

guidata? 3. Contro quali limiti dovr rimanersi?


Se nella risposta a questi quesiti si guardi solo al diritto di propriet
individuale, bisogna conchiudere che le leggi della societ devono pro
porsi la tutela della propriet legittimamente acquistata, e null'altro.
Ogni provedimento risguardante il modo dell'esercizio di questo diritto
uscirebbe dalla sfera, entro la quale l'azione sua dovrebbe contenersi,

guardate le cose da questo lato. Quindi il fine dell'ingerenza dell'auto


rit sociale nell'ordinamento della propriet sarebbe il fine della pura e
semplice sicurezza del diritto, tal quale l'uomo lo ha dal suo carattere in
dividuale di persona; il principio direttivo sarebbe l'idea e l'estensione

di questo individuale diritto; e il limite sarebbe posto dall'idea mede


sima, per s stessa indefinita, sebbene limitata sia l'effettiva estensione
che in pratica pu ricevere quanto agli oggetti.
Se invece, considerando gli oggetti della propriet, che sono i beni
di loro natura destinati a soddisfare i bisogni dell'uomo, e quindi pro
duttori d'utilit, si prendano le mosse dal fine politico della societ con
siderata siccome un aiuto al conseguimento della maggiore utilit di cia
scuno e di tutti, facilmente si condotti a stabilire come fine dell'inge

renza sociale sulla propriet l'utile comune; a porre cio l'idea e le


esigenze dell'utilit come principio normale. E poich mutabile e contin
gente si l'utilit, manca una regola sicura, onde tracciare il limite,
oltre il quale la societ non debba metter mano nella propriet. Questo
limite non sarebbe che quello dell'effettiva possibilit: un limite pura
mente di fatto, non mai di ragione.
Ma il fine supremo dell'ordine sociale non n soltanto giuridico,

n soltanto politico: l'uno e l'altro ad un tempo, salvo che il fine con

PARTE I.

99

tingente dell'utilit dev'essere subordinato al fine necessario ed immu


tabile della giustizia.

Nell'ordinamento della propriet privata il rispetto della giustizia si


ottiene col tutelare i possessi; l'utilit comune col regolare il modo di
esercitare il diritto di propriet; per guisa che, senza distruggerne l'es
senza, venga contenuto quest'uso entro quei confini che sono segnati
dall'indole e dagli offici essenziali della societ. Per tal modo tutti mo
derando l'astratta estensione di esso per quanto esige il fine comune

della societ, trovano nell'eguale reciprocanza altrui largo compenso a

quell'apparente sacrificio, senza del quale sarebbe impossibile la convi


venza degli uomini in civili famiglie riuniti per aiutarsi a vicenda.
Il fine sociale, gi precedentemente spiegato, si riassume tutto nella
formula aiuto reciproco, ch' la legge fondamentale della societ. E sic

come questa legge risulta dai rapporti naturali dell'uomo considerato


nella sua natura essenzialmente socievole, e non ha quindi nulla d'arbi
trario, cos essa di rigoroso diritto e dovere giuridico. Perci le con

seguenze che ne derivano, le applicazioni che necessariamente se ne de


vono fare agli atti degli uomini conviventi in societ, costituiscono
Vere norme giuridiche positive nella forma, razionali nel fondamento.
Ma per ci stesso che il fondamento di tali norme positive sta nell'in
dole e negli offici essenziali della societ, e del potere legislativo che in
essa dev'essere, la moderazione che si pu imporre all'uso del diritto

di propriet non pu di un solo punto oltrepassare il confine delle vere e


naturali esigenze della convivenza sociale. Tutto quello che non
richiesto dalle vere naturali necessit della convivenza arbitrio, vio

lazione del diritto, perch non ha alcun fondamento nella legge naturale
della socialit, e quindi offende il diritto di propriet.
Egli dunque strettissimo il vincolo che lega la politica economia
colla giurisprudenza, poich gli ordinamenti economici devono essere ri

volti a produrre la maggiore utilit nei limiti della giustizia, e a met


tere in atto la legge suprema naturale della societ, per quanto riguar

da l'uso del diritto di propriet in tutte le sue manifestazioni, che pos


sono influire sul benessere sociale.

Ajutare non vuol dire distruggere, e per il principio che immediata


mente deve presiedere all'ordinamento della propriet non dev'essere tale
che possa intaccarne punto l'essenza. L'essenza della propriet offesa
ogni volta che l'equit la pi scrupolosa non presegga all'ordinamento
di essa. Quindi ogni privilegio non giustificato dall'indole della societ,

100

SAGGIO

o non recante seco un comune vantaggio che lo compensi, offende il prin


cipio dell'equit. Ora il favorire la propriet di uno o d'alcuni a danno
degli altri; l'autorizzare uno od alcuni a vendere a loro capriccio i loro
prodotti, ed impedire agli altri il comperarli dove e da chi trovano il
loro conto; il produrre un'artificiale carestia per costringere millioni
di uomini ad arricchirne con danno loro qualche centinajo; non sono

certo cose giuste. Dunque il sistema del monopolio, sotto qualunque for
ma e nome e con qualunque pretesto s'introduca e mantenga, certamen
te cosa iniqua. Dunque il principio fondamentale nell'ordinamento econo
mico della propriet dovr essere l'opposto del monopolio, cio la libera
concorrenza. Il principio cos generale, che non v'ha differenza pos
sibile tra la propriet immobile e la mobile, tra i fondi, le industrie e i
commerci. Sotto qualunque forma si appalesi la propriet, il principio

dev'essere sempre questo: libert di usarne finch non si ecceda nell'uso


a danno altrui; libert di disporne; libert delle contrattazioni. Ma que

sto principio vuol essere applicato con saggezza; poich sarebbe un as


surdo il togliere la libert dell'uso e disposizione delle cose per iscopi
giusti e morali, col pretesto di favorire la libert delle contrattazioni.
Suolsi dire che il potere sociale deve cogli ordinamenti economici

provedere alla maggiore possibile diffusione delle cose utili sopra tutti
i membri della societ. Da ci taluno vorrebbe attribuire allo Stato la

facolt d'impadronirsi di quei beni immobili che, per lo scopo cui sono
destinati, o perch posseduti da persone morali continuamente rinovan
tisi, non possono ripartirsi ed entrare ordinariamente in commercio.

Che si debba cercare nella societ di diffondere il benessere quanto


pi si pu, indubitato; ma che lo spoglio violento di alcuni proprietari
per arrichirne altri sia un buon mezzo per questo fine, non sapremmo
come si possa in sul serio sostenerlo: sofismi se ne misero in campo
molti su questo punto; ragioni vere nessuna. cosa veramente cu

riosa a vedere come in certi Stati, sotto pretesto di provedere al bene


comune, si adottassero le misure le pi contradittorie. Si tratta d'indu
stria e di commercio: si sacrificano tutti a profitto di alcuni grandi in

traprenditori. Si tratta di propriet appartenenti a corpi morali: si spo


gliano per metterle in commercio, per diffonderle tra quelli che col si
stema protettore spogliansi alla lor volta del frutti dei loro sudori.
Ma poich nemmeno in fatto di economia si pu errare impunemente,

un tremendo fenomeno si manifestato l dove appunto in mezzo ad al


cuni buoni provedimenti si framischiarono di cotali assurdit. Il comu

PARTE I.

4 01

mismo, la cui importanza, sebbene esagerata, non cessa per questo di


essere una realt, alligna appunto nei paesi dove sussistono tuttavia i

vizi prodotti dall'ignoranza, dalle erronee dottrine o dall'egoismo nel


sistema economico; e dove il potere governativo, specialmente nelle epo
che di politici sconvolgimenti, ha dato pi ampiamente l'esempio dello
spoglio delle private propriet sotto certi speciosi pretesti.

N ci pu recar meraviglia a chi abbia un poco studiato la natura


umana. Quando si detto che la propriet del tale o tal altro corpo mo
rale appartiene allo Stato; ch'esso quindi pu impadronirsene, onde li
berarla da quegl'inceppamenti che la rendevano inalienabile, vincolan
dola ad uno scopo determinato, e quindi provedere con ci alla mag
giore possibile diffusione dei possessi; qual mezzo logico rimane, onde
respingere le pretese del proletario affamato in conseguenza dei grandi
errori commessi e mantenuti nell'ordinamento della propriet, il quale
domanda nuove spogliazioni, e l'abolizione della famiglia e dell'eredit,
per togliere quest'ostacolo alla diffusione delle cose utili? Quando si

sostengono le pretese dei monopolisti, che chiedono l'anticipata prote


zione della propriet per arricchire con danno della massa dei loro con

cittadini, e si adottata praticamente la formula: le vol c'est le propri


t; che cosa si pu rispondere ragionevolmente al proletario che dice:
la proprit c'est le vol? Quando con certe strane teorie di diritto pu

blico, e con atti di cui specialmente la Francia in sulla fine del secolo
passato diede esempi funesti, si manomettono i pvivati diritti, esage
rando l'idea dello Stato; come si possono combattere, senza contra

dirsi, le pretese del proletario, che vuole il sovvertimento di tutto l'or


dine civile per convertire la societ in una compagnia di comproprie
tari, e che pretende anch'egli dallo Stato il suo pane quotidiano e un
po'di luogo al banchetto comune? La logica degli affamati tremenda.

Ma la causa di questi gravissimi errori sta propriamente nei fatti e nelle


dottrine che somministrarono la maggiore al sillogismo dei comunisti,
ponendo un precedente, dal quale discendono spontanee le conseguenze
alle quali arrivarono.

S'egli vero da un lato che la societ deve promovere l'utilit comu


ne, e la diffusione delle cose necessarie agli usi della vita quanto pi

sia possibile, salva per la giustizia; dall'altro lato vero egualmente


che la sola pratica costante della giustizia mezzo propriamente efficace
al conseguimento del comune benessere. Coniati i provedimenti econo
mici al suggello della giustizia, si escludono da un canto i vincoli as

102

SAGGIO

surdi che inceppano la libera attivit individuale, e spogliano i molti a

profitto dei pochi; e si assicura dall'altro a ciascuno il godimento di


quei beni che colla libera sua industria si procacciato.
Che se pure qualche sacrificio d'una parte di questi prodotti il cit
tadino deve fare ai bisogni della convivenza sociale, questo sacrificio

essendo misurato entro i confini della vera e provata necessit, equa


mente ripartito e bene impiegato, ritorna a mille doppi vantaggioso alla
civile famiglia.

Dalle cose discorse risulta che l'ingerenza legislativa opera giusta


mente in doppio modo nel provedere alle cose economiche: cio col ri
muovere gli ostacoli, col togliere i vincoli che inceppano la propriet
violentemente, o ne diminuiscono la massa dei prodotti a danno comune;

e col proteggere e rispettare la propriet stessa, sotto qualunque forma


si presenti e a chiunque appartenga, senza imporre altre condizioni ed
aggravj, che quelli indispensabili all'esistenza della societ.
Il primo modo si manifesta, a cagion d'esempio, nell'abolizione di
tutti quei vincoli della propriet che non sono giustificati dai principi
della giustizia e dalle vere necessit morali e giuridiche della conviven
za; nel lasciare a tutti libera la facolt di possedere, senza ridurre i
possessi immobili un privilegio dei primogeniti, come in Inghilterra;
nelle servit legali, che impediscono l'abuso della propriet in modo
da rendere infruttiferi o men produttivi altri fondi. Il secondo si appa
lesa nelle leggi civili che la guarentiscono, e nell'astenersi da qualun
que atto che racchiuda un vero spoglio dell'altrui propriet. Le impo
ste e la spropriazione forzata, in caso di vera necessit publica, non
vanno punto contro i principi stabiliti; giacch quanto alle imposte,
esse, come tutti sanno, devono essere commisurate ai bisogni reali della
cosa publica, ripartite equamente, e rettamente amministrate ed impiegate

a vantaggio della societ. Quanto poi alla spropriazione forzata, oltrech


non pu essere giustificata se non nel caso di vera necessit publica, e
quindi d'un sacrificio al bene e al fine della societ, la condizione del pre
vio compenso salva il rispetto dovuto alla propriet, e toglie l'odiosit

e l'ingiustizia dello spoglio a carico di un solo per vantaggio di tutti.


Non v'ha questione speciale che non si debba risolvere secondo gli

accennati principi; ve ne sono per di quelle, cui non torna s agevole


l'applicarli. Conviene per in ogni caso badare alla vera causa, d'onde
provengono le difficolt. La qual causa parci vederla non gi nei prin
cipi stessi, che derivando dall'indole, dagli offici e dal fine della societ,

PARTE I.

4 03

e del potere moderatore che in essa dev'essere, una volta trovati e


determinati, facilmente si applicano; ma ci sembra fuor di dubio ripo
sta nella pratica difficolt di sceverare le pretese dell'egoismo talvolta
mascherato, i bisogni fittizi e dipendenti da falli anteriori, dalle vere

esigenze, dai veri bisogni, anzi necessit della convivenza sociale, che
autorizzano a far intervenire in questa o in quella relazione l'opera
delle leggi positive per regolare l'esercizio del diritto di propriet in
vista della moderazione imposta dalla legge suprema della socialit.

Oltre di che, non essendo le azioni dell'uomo governate dalla sola


legge della giustizia esteriore, ma eziandio e molto pi dalla legge mo
rale, che obbliga agli atti positivi di soccorso; le leggi positive ordina
trici della propriet vengono alle volte in contatto colla morale, e pro
ducono conflitti e discussioni dove non sempre agevole tracciare il con
fine, oltre il quale l'autorit sociale non debba ingerirsi nella coscienza
privata. Poich egli ben vero che certi atti, i quali nelle relazioni del

l'uomo individuo sono doveri puramente morali, divengono nella societ


atti di rigoroso diritto e dovere giuridico, in forza della natura della
societ, la quale si fonda sull'aiuto reciproco pe'l concorso comune nel
comun fine; ma vero del pari che non si devono confondere il fine

morale e il fine proprio della societ, ch' essenzialmente esterno e giu


ridico. Fatta la societ regolatrice anche delle coscienze; ridotti coattivi
tutti indistintamente gli atti morali; svanirebbe, non ch'altro, l'idea
della moralit, che esclude la esterna coazione. La societ civile deve ri

spettare la morale, e nel limite de' suoi mezzi e delle sue attribuzioni
ajutare e cooperare al fine morale, senza mai contrariarlo; ma non pu
erigersi in regolatrice delle coscienze.
Questi brevi cenni sopra un argomento che vuol essere continuamente

studiato per riparare agli errori passati e tuttavia sussistenti, e per re


sistere ai pericoli che minacciano in certi paesi la propriet, valgano a

persuadere che le vere cause del male che travaglia le moderne societ,
rispetto all'ordine economico, stanno nell'assurda idea della protezione
ossia del monopolio sotto una forma o sotto un'altra. Per conseguenza
il rimedio non pu rinvenirsi che nel sistema opposto, cio nella libera
concorrenza. E molti Stati furono dalla forza delle cose trascinati a ri

conoscere e adottare quest'unico rimedio contro i danni prodotti dai


vecchi sistemi economici, sostituendo un po' alla volta il sistema della
libera concorrenza a quello della protezione ossia del monopolio. Che
cosa sono infatti le leghe doganali, con tanto impegno promosse, se non

104

SAGGIO

un gran passo verso la libera concorrenza, che si vuole attuare sopra


territori sempre pi vasti, non potendosi tutto ad un tratto sostituire al
sistema protettore senza produrre gravissimi inconvenienti? Gli effetti
di questo ritorno sulla buona strada non potranno essere che salutari, e
la esperienza lo ha gi dimostrato coll'aumento simultaneo della pro
sperit privata e della rendita publica nei paesi che si unirono in lega
doganale. E cos dev'essere, perch

la libert economica racchiude in s

un principio di rigorosa giustizia, e un principio di solida e costante uti


lit. Un principio di rigorosa giustizia, perch esprime il rispetto e la
tutela di ogni cittadino, famiglia o corpo morale per l'acquisto, posses
so, uso e disposizione delle cose secondo i principi della ragione giuri
dica; perch limita il potere sociale, relativamente agli affari economici,
al solo ufficio di moderare l'attivit dell'individuo, e coordinarla al fine
necessario e non arbitrario della societ, aiutando e non vincolando il
retto esercizio di essa. Un principio di utilit vera e costante, perch

conforme alla giustizia, perch conforme all'indole ed al fine anche


politico della societ civile.
Nella macchina dello Stato il Governo deve fare l'officio del pendolo
moderatore: le ruote e le molle consistono nell'attivit privata, e negli
impulsi che vengono dai bisogni e dalle tendenze dell'uomo. Quando
ogni parte di questa macchina al suo posto, e fa regolarmente l'officio
suo, allora soltanto si hanno i buoni risultati.

Nel cercare i principi razionali che devono presiedere all'ordinamento


giuridico-economico della propriet, il pensiero corre necessariamente

al grave argomento della prescrizione annoverata in tutte le leggi posi


tive fra i modi d'acquisto e di perdita della propriet, ma non da tutti
riconosciuta come fondata nel diritto naturale.

La vaga ed inesatta idea dello stato di natura produsse anche in que


sto argomento molta confusione. Poich, quand'anche sia vero che dai
puri rapporti giuridici naturali degli uomini come individui (impropria

mente detti stato di natura) non derivi la prescrizione, non per questo
si pu conchiudere ch'essa non sia di diritto naturale, ossia filosofico;
mentre non i soli rapporti individuali, ma ancora e principalmente i

rapporti sociali, sono la fonte dei diritti e doveri giuridici degli uomini
che la ragione deduce, e quindi l'intero diritto filosofico non si limita
ad una soltanto, ma tutte deve abbracciare le naturali relazioni degli

uomini. Ammettere o no che la prescrizione sia di diritto razionale, vale


quanto asserire o negare che sia giusta; poich tutte quelle instituzioni

PARTE I.

105

civili positive che non avessero appoggio nei principi di ragione, non

potrebbero acquistare valore giuridico dalla sola volont del potere so


ciale: la giustizia non si fabbrica a piacere dell'uomo, secondo il capric
cio o le viste del tornaconto.

Che la prescrizione e l'usucapione abbiano il loro fondamento nei


principi del diritto naturale, dottrina oggimai professata da molti scrit
tori. In generale non sostengono la sentenza opposta se non quelli che

hanno arbitrariamente limitata la nozione del diritto naturale ai puri


rapporti individuali o privati, fingendo un cos detto stato di naturale
indipendenza ossia d'isolamento, nel quale gli uomini si ravvicinano ac
cidentalmente, senza per convivere socievolmente, imaginando la so
ciet formatasi per una convenzione tra gli uomini.
Molto fu detto intorno a questo argomento; tuttavia non ci sembra
vano il fermarci a considerarlo in relazione al principio del diritto che
abbiamo posto, parendoci necessarie alcune distinzioni che non sono di

lieve momento per l'applicazione alle leggi positive in apparenza con


cordi, ma in sostanza molto discordanti su qualche forma e caso parti
colare di prescrizione, che involge considerazioni speciali di giustizia e
di moralit, che lo escludono dai generali principi sulle altre specie e

casi di prescrizione, perch in esso non si verificano le condizioni ra


zionali che la giustificano negli altri.

I principi giuridici che reggono la prescrizione e l'usucapione, secon


do i quali si deve giudicare della giustizia o meno di essa sotto ciascuna
delle forme possibili, non possono venire in chiaro senza connetterli
colla dottrina generale della propriet, dacch nella prescrizione e usu
capione si tratta appunto di perdita o di acquisto di propriet, e si
tratta di vedere se la ragione giuridica approvi questo modo, e in quali

casi e sotto quali condizioni lo riconosca giusto.


L'idea suprema del diritto, gi esposta nel Capo V., si applica a
cilmente al diritto di propriet; ed anche in questo particolare oggetto
si manifesta l'influenza di quel doppio elemento teoretico e pratico, che
sta racchiuso nell'idea piena e completa del diritto.

Infatti a stabilire il principio fondamentale giustificante la propriet,


e a determinare le norme giuridiche regolatrici dell'acquisto, dell'uso,

della perdita e della trasmissione della propriet, d'uopo considerare


l'indole e la destinazione naturale delle cose, raffrontata cogli attributi

e co fini naturali dell'uomo, considerato nei rapporti individuali e in


quelli di convivenza socievole, che sono distinti ma inseparabili, e tutti

4 06

SAGGIO

strettamente razionali, e fonti di diritti e di doveri giuridici. Da nessuno

di questi elementi isolatamente preso, ma da tutti insieme dee sorgere


la completa dottrina della propriet.
Gli attributi essenziali dell'uomo lo fanno il solo essere capace di di
ritti, perch il solo che nel mondo visibile sia dotato d'intelligenza e di
libert; il solo che abbia un fine supremo ed altri subordinati da conse

guire colle sue azioni libere. In opposizione a questi caratteri, che co


stituiscono la personalit dell'uomo, stanno le cose, le quali mentre si
manifestano evidentemente destinate dalla Providenza a servire agli usi
e ai bisogni dell'uomo, non oppongono per loro natura nessun ostacolo
giuridico o morale alla sua attivit, non essendo che puri oggetti mate
riali e passivi, estranei all'ordine morale, del quale non fanno parte che
gli esseri dotati di libera attivit.

La legge morale non pone limiti all'esercizio dell'attivit indefinita


dell'uomo rispetto alle cose, come doveri verso di esse; ci sarebbe
assurdo. Ma limita l'attivit dell'uomo riguardo alle cose in quanto esi
ge il retto uso di esse in ordine al fine supremo; ci che spetta alla
moralit dell'individuo; e in quanto vuole rispettate le relazioni giuri

diche tra gli uomini, e quindi i diritti ei doveri giuridici che hanno per
oggetto le cose.
Quindi che la ragione morale e giuridica da una parte imponendo
all'uomo di uniformarsi nel suo operare ai fini stabiliti dalla Providenza
creatrice, lo autorizza dall'altra ad adoperare i mezzi che la stessa Pro
videnza gli ha preparati per conseguirli, e perci gli lascia facolt di

usare le cose materiali e di appropriarsele entro quei limiti che non


contradicano alla naturale destinazione di esse e al fine supremo morale,

perch i mezzi non devono contradire ai fini, al conseguimento de'quali


sono preparati e ordinati.

Sopra queste basi stanno il fondamento, le condizioni e i limiti del


l'acquisto, dell'uso, della perdita e della trasmissione della propriet.
La ragione giuridica e morale riconosce ed autorizza la propriet, in
quanto serva di mezzo ai fini dell'uomo; e non potendo trovare nell'in

dole e destinazione delle cose alcun limite che la restringa, perch le


cose non sono esseri aventi alcun fine morale, ma puri strumenti pas
sivi; determina per il limite della propriet in relazione all'uomo come
individuo e come socievole, in quanto non pu la ragione giustificarla
so

ove divenga, anzich mezzo, un ostacolo ai fini, in vista dei quali la ra


gione stessa la approva.

PARTE I.

4 07

In conseguenza di ci l'appropriazione originaria delle cose libere


cessa d'essere un diritto, se diviene causa efficiente di distruzione

per

l'altro uomo, cui s'impedisse l'acquisto di qualunque oggetto. Egual


mente la propriet, in qualsivoglia modo legittimo acquistata, cessa ri
spetto all'oggetto superfluo assolutamente indispensabile all'altrui con
servazione in caso di estrema incolpabile necessit; in particolare poi
l'uso delle cose cessa d'essere diritto quando si opponga al principio
fondamentale della socievolezza, ch'esige la moderazione nell'esercizio
dei diritti e i reciproci temperamenti, senza dei quali la societ non

potrebbe sussistere e conseguire il suo fine.


Ma se l'uso delle cose vuol essere ragionevolmente nella societ re

golato in ordine al fine di essa, a pi forte ragione dev'essere represso


il non-uso, dacch al fine della societ non coopera punto la propriet
non usata.

E in vero i prodotti delle cose derivanti dall'uso di esse non servono


solo nella societ a chi n' il padrone, ma eziandio agli altri uomini,
mediante il commercio che le pone in circolazione. Quindi , che mentre
l'uso regolato delle cose dev'essere dalla societ tutelato, non lo dev'es
sere il non-uso, che si oppone alla naturale destinazione delle cose e al
fine della societ.

Che se il costringere al perenne uso delle cose, o il reprimere qual


unque specie di non-uso offenderebbe direttamente il diritto di privata
propriet, che vuol sempre essere mantenuto inviolato, ci non toglie
che la societ possa e debba avversare quella specie di non-uso che sa
rebbe fonte di conseguenze direttamente ripugnanti ai fini della societ.
Rispetto della propriet, e repressione del non-uso di essa, sono i
due principi che, reciprocamente temperandosi, prestano il fondamento

alle dottrine giuridiche intorno alla prescrizione. Nel quale argomento i


difetti di alcune legislazioni consistono nell'aver fatto prevalere sover
chiamente il secondo elemento a scapito del primo.
Si definisce comunemente la prescrizione e l'usucapione per un modo

di perdita e di acquisto del diritto, sotto date circostanze, buona fede,


giusto titolo, modo non vizioso, e possesso continuato pel tempo dalla
legge stabilito. Nel fatto per i Codici, generalmente parlando, non sono
sempre coerenti a questa definizione.
Dall'indole e dallo scopo naturale della societ umana deriva certa

mente la necessit giuridica di togliere l'incertezza dei possessi, e l'oc


casione di litigi per diritti da lungo tempo non usati, e quindi in gene

4 08

SAGGIO

rale anche difficili a provarsi. Ma le condizioni della buona fede, ec.,


che si richiedono dalle leggi civili, perch si possa in molti casi, se
non in tutti, valersi della prescrizione, fanno chiaramente vedere che il
buon senso dei legislatori si accorse essere necessario qualche altro prin

cipio, oltre quello delle semplici necessit di diritto e di fatto, indotte


dalle relazioni sociali, onde giustificare dinanzi alla ragione questo cos
detto modo di acquisto o di perdita della propriet.
A determinare le norme pratiche che la ragione giuridica stabilisce

intorno alla prescrizione, dietro i due principi fondamentali test edot


ti; rispetto della propriet e repressione del non-uso; necessario con
siderare la prescrizione nell'intima sua natura, anzich nell'effetto re
moto, ch' l'acquisto o la perdita d'un diritto.

La prescrizione, in tutte le sue forme possibili, non che - il rifiuto


della tutela sociale all'esercizio del diritto, in causa del non-uso di

questo, sotto certe condizioni. - Tal l'idea giusta della prescrizione;


idea conforme anche alle disposizioni di tutti i Codici, nessuno de'quali
ha fatto della prescrizione un vero modo di acquisto o di perdita di di

ritti: ma dimenticando la definizione che ne danno appunto in questo


senso, non ammettono che il riconoscimento del diritto altrui, ad onta
della prescrizione, si qualifichi mai per una prestazione d'indebito, n

che il giudice debba applicare la prescrizione d'ufficio. Se la prescrizio


ne fosse veramente un modo d'acquisto o di perdita del diritto, nel vero

significato delle parole, una volta che si fosse verificata, il dare o fare
ci che in forza di essa non pi dovuto, sarebbe indubiamente la pre
stazione di un indebito.

Posto quindi che la prescrizione un rifiuto della tutela sociale al


l'esercizio del diritto, tutte le ricerche intorno ai principi razionali che
la reggono devono riassumersi in questa domanda: sotto quali condi
zioni e dentro quai limiti possa e debba la legge positiva negare questa
tutela.

La risposta sar facile, quando si abbia determinato il punto, fino al


quale si pu condurre questo rifiuto senza scrollare la base del diritto
di privata propriet. Poich lo scopo naturale della societ esigendo con
temporaneamente la tutela dei privati diritti, e la moderazione e i li
miti del loro esercizio, in quanto il fine naturale della convivenza civile

lo esige; la tutela del privato diritto allora soltanto potr essere giusta
mente negata, quando con ci non si faccia nulla di pi di quanto con
sentono ed esigono le razionali necessit della convivenza.

PARTE I.

109

L'indole e il fine della societ non consentono che l'opera delle leggi

contradica ai principi assoluti della giustizia e della moralit. Dunque il


rifiuto della tutela sociale cesserebbe d'essere un atto giusto dal momen

to che si applicasse a tali diritti o in tali circostanze da eccedere le mo


derazioni indotte nell'astratto diritto privato dalle giuridiche necessit
della convivenza. Dunque la repressione del non-uso del diritto, ch'

un mezzo dalla ragione giuridica ammesso in ordine al fine della societ,


non potr aver luogo, se non in quanto siano salve queste condizioni di

giustizia assoluta.
Tutto ci dipende dai principi generali di diritto, che si sono gi
stabiliti precedentemente. Ma se si voglia anche in altro modo ricono
scere la necessit di regolare la prescrizione dietro queste vedute, basta

riflettere che il rifiuto della tutela sociale all'esercizio del diritto porta
di conseguenza necessaria l'assicurazione di un qualche altro diritto in

chi avrebbe invece l'obbligo corrispondente al non tutelato diritto, o


almeno la liberazione da quest'obbligo.
E sarebbe assurdo il pretendere che la ragione dovesse riconoscere

per giusta questa tutela dell'acquistato diritto, o della liberazione dal


l'obbligo, qualora si venisse con ci a dare appoggio ad una pretesa ri
pugnante ai principi di assoluta giustizia, e quindi della moralit. Per
quanto infatti il fine della societ esiga moderazione e limiti all'astratto
diritto individuale, non pu mai produrre n un vero spoglio arbitrario
del diritto di nessuno, n togliere la subordinazione necessaria del di

ritto alla moralit; e nel conflitto tra il dovere della societ di repri
mere il non-uso, e il dovere di non prestare aiuto a formali ingiustizie,
la scelta non pu essere dubia.

Egli perci che tutti gli scrittori e i Codici si accordarono nel rico
noscere necessaria all'usucapione principalmente la buona fede, quantun

que non sempre ci sia stata coerenza nell'applicare questo principio a tut
te le specie di prescrizione, e a tutto il tempo necessario a prescrivere.
La buona fede riassume tutte le condizioni necessarie a rendere giu

sta la prescrizione: poich il giusto titolo non che il fondamento della


buona fede stessa; e il modo vizioso per dolo, violenza, o precario, im
porta di sua natura la mala fede; come la importa eziandio la continua
zione nel possesso dopo cessata la buona fede, in cui da principio si
trovasse il possessore. Perci la buona fede del possesso, continuata per

tutto il tempo della prescrizione, condizione essenziale a qualunque


specie di prescrizione.

4 |0

SAGGIO

Queste specie della prescrizione generalmente si riducono a due: la


estintiva e la acquisitiva, detta propriamente usucapione. Ci sembra per
altro che ciascuna di queste esiga una suddistinzione, poich tanto l'una
che l'altra hanno forme diverse, secondo la natura dell'oggetto loro.

Infatti la prescrizione estintiva pu riferirsi o ad un obbligo nega


tivo, o ad un obbligo positivo. Quando, per esempio, colla prescrizione

si libera un fondo da una servit, la prescrizione estingue nel serviente


l'obbligo di tollerare o di non fare, in cui consiste la servit, onde si

usucapisce la libert del fondo. Quando invece si adoperasse la prescri


zione ad estinguere il credito di una prestazione qualunque, allora ope
rerebbe come estintiva di un obbligo positivo, e l'altra parte usucapi
rebbe l'esenzione dal dover fare o pagare ci che le incombe.
Similmente l'acquisitiva pu essere tale in senso stretto (usucapio

constitutiva), e pu essere semplicemente traslativa. Quando coll'uso


pacifico si usucapisce una servit, si acquista un diritto che prima sotto
questa forma non esisteva. Quando invece si usucapisce la propriet di
un oggetto mobile od immobile, si sottentra nel diritto che ad altri pri
ma spettava sullo stesso oggetto.
Il requisito della buona fede discende da principi cos generali ed
assoluti, che di necessit conviene richiederlo in qualunque di queste

quattro specie di prescrizione, perch possa dirsi razionalmente giusti


ficata tutte le volte ch'essa importi una qualche specie di possesso dal
lato di chi usucapisce o una cosa o la liberazione da un obbligo, come

spiegheremo pi innanzi. Ma poich nelle relazioni sociali non si pu


far valere ci ch' realmente, ma soltanto ci che consta dalle prove,

ne viene che abbia luogo nel foro esterno la prescrizione in qualche


caso, nel quale, guardata la realt intrinseca del fatto concreto, non po
trebbe moralmente approvarsi. Ci per altro non contradice punto ai
principi stabiliti, mentre se la societ non pu sempre far valere l'in
trinseca moralit, e deve qualche cosa abbandonare alla privata coscien

za, non ne viene per questo che possa o debba appoggiare la mala fede e
l'usurpazione quando constino, cio quando siano da fatti esterni provate.
Ora la prova della mala fede (che certamente non si presume mai,
stando sempre fermo il principio, nessun uomo potersi supporre ingiu
sto senza prove) pu risultare o da circostanze estrinseche al fatto prin
cipale, o dalla natura stessa di questo fatto. Le leggi civili hanno fino
ad un certo punto esclusa la prescrizione dietro la prova della mala fede
per circostanze estrinseche al fatto, e quindi esigettero la buona fede

PARTE I.

M1 1

nella usucapione acquisitiva o traslativa; ma nella prescrizione estintiva

non ammisero la prova intrinseca della mala fede, che pure evidente
mente deriva dal principio, che nessuno pu ignorare i fatti propri; ed
anche nell'acquisitiva con un tempo pi lungo non esigettero tutte la
buona fede.

E qui sta il difetto di quelle legislazioni che s fattamente regolarono


cotesta bisogna. Ammettendo la usucapione longissimi temporis anche
senza buona fede, ed accordando l'estinzione dell'obbligo convenzionale
anche al debitore diretto in forza della prescrizione, si viene a contra
dire ai principi e ai fondamenti stessi che negli altri casi giustificano la
prescrizione.

Poich negli altri casi non opera il solo tempo, ma vi si aggiungono


quegli elementi che, in forza delle giuridiche relazioni sociali, giustifi
cano la prescrizione. Invece nella prescrizione pi lunga e in quella del
debito, mancando tutte le altre condizioni, l'unica ragione efficiente sa

rebbe il decorrere del tempo, il quale di per s non pu avere forza di


costituire un titolo legittimo di acquisto, ed una forza tale da distrug
gere le conseguenze d'un fatto di possesso radicalmente ingiusto.
E che realmente in queste due specie di prescrizione manchino le ra

gioni che la giustificano, e rimanga il puro fatto del lungo tempo, per
s solo inefficace, facile vederlo. Poich nella cos detta prescrizione
di lunghissimo tempo, che da taluni fu detta giustamente praescriptio
praedonis, mancando l'essenziale requisito della buona fede, la si riduce
alla tutela non del tranquillo possesso, ma del furto e dell'usurpazione.
Siamo adunque fuori dei termini della prescrizione, perch n la tran

quillit dei possessi, n la cessazione delle liti, n la repressione del


non-uso del diritto, sono motivi da s soli giustificanti la traslazione del
dominio per usucapione, ove non intervenga un fatto di sua natura acqui

sitivo, qual il possesso e l'uso accompagnato da buona fede, il quale


salva il rispetto dovuto alla propriet, e non fa luogo che ad una sem
plice limitazione del diritto di propriet; limitazione resa giusta dai
rapporti naturali di societ e dalla destinazione delle cose, quando l'ab
bandono o la acquiscenza da una parte ha reso possibile l'esercizio del

l'altrui giuridica attivit sulle cose, senza lesione del diritto stesso, at
tesa la buona fede. Che se nella prescrizione longissimi temporis i fon
damenti delle altre specie di prescrizione riescono insufficienti a giusti
ficarla pe'l vizio radicale della mancanza della buona fede; nella pre
scrizione estintiva del debito, senza buona fede, non solo i fondamenti

1 12

SAGGIO

della giusta prescrizione riescono inapplicabili per questo difetto, che


fa mancare la condizione che ne compie la forza e il valore; ma gli

stessi elementi, dei quali si compone la base giuridica della prescrizione,


almeno in parte non sussistono n anche in apparenza.
Infatti nella prescrizione del debito non si tratta d'un diritto reale,
il cui oggetto sia materia d'un possesso da rendere in tal modo tran
quillo, come esige, sotto le esposte condizioni, il fine della societ e la
destinazione naturale delle cose; che l'incertezza dei possessi renderebbe

meno produttive, con ingiusto danno della societ, cagionato dalla ne


gligenza dell'indolente padrone. Perci non solo manca il requisito della
buona fede, ma persino la circostanza di fatto d'un possesso da rendere
sicuro contro un'azione vindicatoria in re, che nel caso in discorso non

pu aver luogo, perch si verifica la sola azione personale. L'esercizio


di quest'azione non porta seco n anche il pericolo di liti scabrose e tur
batrici della tranquillit del possessore, se per tale pur vogliasi consi

derare l'obbligato: poich, se non esiste la prova, non si pu far valere


il diritto, e conviene abbandonarsi alla coscienza privata; e se esiste la

prova, il fatto del credito tanto semplice, che non possono, general
mente parlando, aver luogo controversie imbarazzanti.
e Tutte queste considerazioni, associate al principio fondamentale del

rispetto della propriet, che nei casi ora analizzati non punto tempe
rato dall'altro di ragione giuridica sociale, che impone la repressione
del non-uso, rendono evidente che il perno, intorno al quale si aggira

tutta la dottrina della prescrizione, la buona fede. Senza questa, ogni


acquisizione in forza dell'uso intrinsecamente ingiusta, e quindi op
posta all'indole e al fine della societ. E siccome ogni prescrizione an
che estintiva porta di necessit una corrispondente usucapione o di li

bert da un peso reale, o di liberazione da un obbligo personale; cos


nemmeno la prescrizione estintiva pu ammettersi senza la buona fede
dell'obbligato, perch darebbe luogo ad una ingiusta ed immorale usu
capione.

Qu per dobbiamo notare, come promettemmo, che il requisito della


buona fede necessario ad ogni specie di prescrizione, in quanto vi
corrisponda una usucapione tale, che importi in qualche modo un pos

sesso. Quindi la prescrizione traslativa o acquisitiva importando il pos


sesso dell'oggetto reale, o l'uso del diritto sulla cosa altrui, questo pos

sesso pu essere accompagnato o dalla buona o dalla mala fede, e quindi


soltanto nel primo caso pu aver luogo la prescrizione.

PARTE I.

4 13

Ma nella prescrizione estintiva conviene distinguere. L'obbligazione


personale positiva importa che il debitore debba dare qualche cosa di

cui altri creditore. Quindi allorch il debitore, giovandosi della pre


scrizione, si libera dall'obbligo, egli usucapisce la liberazione da que
sto, e quindi conserva la propriet di ci che dovrebbe dare ad estin
zione del debito. Ha quindi luogo in qualche modo un possesso; e quin
di anche in questo caso necessaria la buona fede, perch abbia luogo
la prescrizione.

Similmente nella prescrizione estintiva dell'obbligo negativo la buona


fede si rende necessaria allorch il diritto ad altri competente sulla cosa
mia, e ch'io debba tollerare, si risolve in sostanza in una divisione di

propriet; per esempio, nell'usufrutto. Poich se io mi approprio i frutti


della cosa che ad altri appartengono, senza buona fede, sono nella con
dizione d'un vero possessore di mala fede.

Che se invece si tratti di prescrizione d'un obbligo negativo stretta


mente tale, pu darsi il caso in cui non debba essere parola n di buona
n di mala fede, perch non vi n possesso n appropriazione di frutti
che ad altri spettassero sulla cosa nostra, come compartecipazione della
propriet. Allorch ad uno corre l'obbligo di tollerare che altri faccia
alcun uso della propria cosa, se il dominante tralascia quest'uso piena
mente per tutto il tempo dalle leggi stabilito, il diritto suo rimane pre
scritto. Ma il serviente, quand'anche sappia che a quello spettava tale
diritto, non pu dirsi possessore di mala fede, perch non lui che do
vesse fare o dare qualche cosa all'altro, n con esso dividere i vantaggi

della cosa che in vece siasi appropriati. La servit diritto distinto


dalla propriet; il possesso di essa pu riscontrarsi nel dominante, in
quanto consiste nell'uso: ma non si pu imaginare nel padrone servien
te. Come l'usucapione della servit in buona fede propriamente costi
tutiva del diritto stesso che si acquista in forza del tacito consenso od

acquiescenza del proprietario; cos la pura prescrizione di essa la estin


gue, quand'anche al serviente sia nota, allorch si tratti di tale servit,

la cui prescrizione non importi dall'altro canto un acquisto di qualche


cosa che si sa ad altri appartenere per diritto, quale compartecipazione

nei diritti della propriet, come nell'addotto esempio dell'usufrutto. Il


principio di ragione sociale, che limita l'esercizio dei diritti, opera in
simili circostanze da s solo, perch la scienza od inscienza di chi era

obbligato ad una pura tolleranza non pu confondersi colla buona o mala


ede del possessore; e il tacito consenso del dominante, il quale si ma
8

11/,

SAGGIO

nifesta col non-uso, fa usucapire al serviente non gi la servit, ma la


libert del fondo.

Ritornando ora alla prescrizione lunghissima e a quella del debito,


quelli che la reputano giustificabile in questi casi anche senza buona
ede, trovano incompatibile colla tranquilla convivenza socievole il la
sciar luogo, senz'alcun limite, all'esercizio del diritto anche dopo lun

ghissimo tempo; ma ci sembra che la questione posta in questo senso


muti di aspetto. Molte disposizioni delle leggi civili non accordano
l'azione in giudizio che date certe prove, o entro un dato tempo; ov
vero anche rifiutano l'appoggio della societ per certi diritti che pur ri
conoscono, come, per esempio, quando non autorizzano l'azione in giu

dizio per ripetere la scommessa, ove non sia gi intervenuta la tra


dizione. Ma questa non vera prescrizione; come non vera usucapione
il mantenere il possesso di fatto anche se non compiuto il tempo della
prescrizione, quando manca bens la prova della propriet, ma non consta
di un prevalente diritto contro il possessore di fatto. Analoga a que
sto caso la cos detta prescrizione immemorabile, che ha luogo quando

essendo perduta la traccia d'ogni possesso anteriore, l'attuale possesso


di fatto costituisce da s solo giusto titolo di propriet. Per tra la con

servazione del possesso fino alla produzione di un titolo prevalente, e


la prescrizione immemorabile, corre questo divario: che nel primo caso
il titolo prevalente pu esistere ed essere noto al possessore, che perci
sarebbe in mala fede, quantunque non provata nel foro esterno; mentre
nel secondo la ignoranza di uno stato anteriore della cosa, diverso dal
l'attuale, costituisce il possessore essenzialmente in buona fede, perch

questa inerente nel fatto stesso. Anzi la prescrizione immemorabile,


piuttostoch una vera usucapione, sarebbe un fatto giuridico da parifi
carsi alla originaria occupazione.

Abbiamo accennato poco fa, ed dottrina evidente e da nessuno con


tradetta, che nella societ non si pu far valere sempre la intrinseca

moralit; come non si pu far valere la verit intrinseca, ma solo quella


che consta dalle prove. Questo dell'indole della societ umana e dei
rapporti esteriori giuridici. Molto dev'essere di necessit lasciato alla
coscienza privata; basta che le leggi umane non contradicano al princi

pio della subordinazione del diritto alla morale, appoggiando la ingiu


stizia. Quando la mala fede non evidente, necessit e giustizia presu
mere la buona fede, salva la prova in contrario.

Quindi ad evitare le continue molestie, e le liti moltiplicate o difficili

PARTE I.

4 15

a decidersi, la legge giustamente impone o di erigere un determinato


documento in prova di quel tale diritto, regolando cos il modo del suo
esercizio; o di esercitarlo entro un dato tempo, sotto pena di non tro
vare pi appoggio dalla publica autorit: ma nell'uno e nell'altro caso
non ha luogo che una semplice presunzione. Nel primo caso il legisla
tore presume che i contraenti non abbiano agito seriamente, mancando
a quelle formalit che la legge loro prescrive, onde assicurarsi della ve

rit della loro convenzione. Nel secondo caso si appoggia alla presun
zione o dell'adempimento dell'obbligo o della condonazione del credito,
stante il silenzio per quel dato tempo. Ma tutto questo non pi che
una limitazione all'esercizio del diritto, fondata sugli stessi principi

che autorizzano tutte le altre in forza dei rapporti naturali di societ;


limitazione, il cui effetto in tal caso si restringe ad abbandonare una quan
tit di piccoli affari, dopo un certo tempo, alla coscienza privata.
Le legislazioni positive nell'ammettere la prescrizione estintiva del
debito in forza del solo tempo, e senza il requisito della buona fede,

sembrano partire da questo principio: di presumere, cio, l'avvenuto pa


gamento o la precedente condonazione. Ma altra cosa abbandonare
certi affari determinati e di poca entit alla coscienza privata, onde non
aggravare la societ e il potere giudiziario di una massa enorme di pic
cole controversie; ed altra cosa colpire definitivamente colla prescri
zione ogni diritto, che pu esservi soggetto, per la sola ragione del corso

del tempo, dando tanta forza alla semplice presunzione di pagamento o


condonazione da escludere persino ogni altra prova che la corrobori, e
da introdurre un modo di liberazione anche per chi necessariamente
in mala fede.

Imperocch non bisogna dimenticare giammai, che la limitazione po


sta dalle leggi civili all'esercizio di certi diritti in giudizio, o il divieto
di esercitarne alcuni in nessun tempo; come, per esempio, quello di ri
petere la scommessa; partono da considerazioni di ordine publico che
non modificano le relazioni intrinseche tra l'avente diritto e l'obbliga

to, e rimettono l'adempimento del dovere alla coscienza privata. Ma


quando si parla di prescrizione, sebbene il suo fondamento si trovi nella
repressione del non-uso, resa necessaria dai rapporti giuridici di convi
venza civile, tuttavolta il rifiuto della tutela sociale sotto questa forma
tocca direttamente il titolo giuridico dell'acquisto o perdita o trasmis

sione dei diritti reali o personali sulle cose: quindi tutte le volte che
la repressione del non-uso eccederebbe il confine che le impone il pre

4 16

SAGGIO

valente principio del rispetto alla propriet, e si convertirebbe in un


appoggio della mala fede e della ingiustizia, non pu pi essere giusti
ficata dinanzi alla ragione.

Che se in tali casi pur necessario nella societ di limitare l'eserci


zio dei diritti ad un certo tempo, presumendo la soddisfazione gi se
guita dell'obbligo relativo, indispensabile che la legge, per salvare il
rispetto e la tutela dovuta alla propriet, e manifestare chiaramente
che si tratta in questi casi di abbandonarsi alla coscienza privata, e non
gi di costituire un titolo di giusta propriet o liberazione, pari a quello

che sorge dalle altre specie di prescrizione accompagnata dalla buona


fede, o ammetta la prova in contrario, o almeno esiga una prova supple
toria che rafforzi la nuda presunzione.

La prova in contrario implicitamente ammessa dai Codici sotto for


ma di un interrompimento della prescrizione anche per semplice rico

noscimento privato della propria obbligazione. E poich impossibile


provare direttamente il fatto negativo della mancanza di pagamento, ci
sembra molto ragionevole la disposizione di alcuni Codici, che autoriz
zano il creditore a deferire il giuramento al debitore, che oppone la pre
scrizione, intorno al fatto dell'avvenuto adempimento dell'obbligo, che
rimane cos estinto civilmente non in forza della nuda prescrizione, ma
bens di un atto tale, ch' proprio a movere la coscienza dell'uomo an

che mediocremente religioso. In questa guisa l'estinzione dell'obbligo


non entra pi nella classe delle forme della prescrizione propriamente
detta, ma ricade invece in quella delle limitazioni all'esercizio dei diritti

in giudizio oltre un certo tempo; e se viene con ci abbandonato alla co


scienza privata il soddisfacimento del proprio obbligo, almeno si presta
occasione a rendere, coll'atto pi solenne che si possa fare in giudizio,

pi forte ed efficace il grido della coscienza.


Conchiudiamo adunque: la prescrizione acquisitiva o estintiva del
l'obbligo negativo o positivo non pu ammettersi senza la buona fede.

Quindi resta esclusa la praescriptio longissimi temporis, e quella del de


bito, senza buona fede; potendo aver luogo, riguardo al debito, soltanto
la limitazione accennata, sull'appoggio della presunta estinzione dell'ob

bligo, che per necessario sia raffermata da qualche prova o argomento


che la corrobori. Con ci si conciliano il rispetto dovuto alla propriet
per principio di rigorosa giustizia e moralit, la tutela del diritto e le
limitazioni all'esercizio di esso indotte dai rapporti naturali di societ.

Poich da un lato pu darsi qualche raro caso di buona fede anche nel

PARTE I.

4 17

debitore, e quindi d'una prescrizione estintiva del debito positivo, il


quale pu esistere per titoli invincibilmente ignorati dall' obbligato; ma
assai pi comunemente si presenta il caso della semplice presunzione, in
ducente la limitazione all'esercizio del proprio diritto in giudizio, oltre
un certo tempo, e l'abbandono della cosa alla privata coscienza, ben di
verso dalla vera prescrizione, quando l'obbligo o personalmente assun
to, o almeno pu essere conosciuto dal debitore.
Ma le legislazioni positive, che non si attennero a queste essenziali

distinzioni, le quali possono conciliare benissimo le esigenze della vita


civile col rispetto della propriet privata, estesero la prescrizione anche
a casi nei quali co principi di ragione non si pu giustificarla. E questi
casi sono, come dicemmo, la prescrizione acquisitiva senza buona fede

con un tempo pi lungo, e la estintiva dell'obbligo positivo nel debito


re, egualmente senza la buona fede. Perci la prescrizione, com' re
golata da molte legislazioni positive, deve dirsi in parte appoggiata ai
principi di diritto naturale, ossia ai principi della ragione giuridica, e

in parte no; ma la parte che non giustificata dalla ragione non pu


essere approvata, e deve riconoscersi come un difetto dei Codici: difetto

facile a correggersi, poich non tocca l'intero sistema della prescrizio


ne, ma speciali disposizioni. E il difetto di queste consiste appunto nel
non essere ad ogni caso e specie applicati i principi di massima stabi

liti negli stessi Codici, e conformi alle dottrine razionali. Poich il siste
ma della prescrizione nei Codici, lasciata la definizione non esatta, si
aggira tutto sopra due principi fondamentali: 1. ch'essa un semplice
rifiuto della tutela sociale, onde non v' mai luogo all'azione d'indebi
to; 2. che dev'essere assistita dalla buona fede, giusto titolo, modo non
viziato, e

possesso continuato.

Applicando costantemente questi principi e razionali e positivi ad un


tempo, ne dee venire la correzione delle poche disposizioni ad essi con
trarie, onde il rifiuto della tutela sociale non si verifichi quando impor

terebbe un appoggio alla mala fede e all'usurpazione.


Ad evitare che ci si verifichi nelle legislazioni, conviene distinguere
la prescrizione dal semplice limite del tempo, entro il quale concesso
di far valere un certo diritto in giudizio. La prima una disposizione
generale, risguardante tutti i diritti che possono essere prescritti o usu
capiti; importa un effetto pari ad ogni altro modo di traslazione di pro
priet o di liberazione dall'obbligo, e si fonda sopra i rapporti giuridici

sociali, che fanno sorgere il diritto nell'individuo di valersene, senza

4 18

SAGGIO

imporgliene per l'obbligazione, perch il diritto facolt. E questi


rapporti rendendo essenzialmente giusta la prescrizione sotto le condi
zioni esposte, essa non contradice alla morale, che riconosce la propriet
e i diritti relativi in forza di quegli stessi principi che servono a stabi
lirli e determinarli giuridicamente. Per l'opposto i semplici limiti, che

in forza del presunto soddisfacimento o condonazione s'impongono al


l'azione in giudizio, risguardano casi speciali, diritti particolari deter
minati, e non possono portare l'effetto di liberare moralmente dall'ob
bligo di soddisfare il debito quello che sa non sussistere nel fatto la li
berazione presunta dalla legge.
Nel primo caso i rapporti giuridici razionali, derivanti dalle relazioni
sociali e dalla naturale destinazione delle cose, producono un vero di
ritto, un vero titolo di acquisto, che pu esercitarsi o no a piacere,
senza contradire alla legge morale. Nel secondo caso invece non ha luogo
che la impossibilit in cui si trova la societ di dar valore estrinseco
sempre e in tutto ai doveri morali, e quindi c' pura mancanza di co

azione esteriore sociale, che non toglie il dovere morale (1).


(1) I Codici moderni regolano la prescrizione e l'usucapione con norme tratte
in gran parte dal Diritto romano. Questa materia per fu nelle diverse epoche di
Roma assai variamente regolata, e nel Corpo del Diritto civile si trovano le traccie

di questi diversi sistemi e pensamenti. In origine, come tutti sanno, la prescrizione


propriamente detta non era conosciuta. Le leggi delle dodici Tavole introdussero la
usucapione, la quale era uno dei modi d'acquisto del dominio quiritario, esclusiva
mente proprio dei cittadini romani.
Ma la usucapione introdotta, ne rerum dominia diutius in incerto essent, era ben

lungi dal servire all'uopo, non applicandosi n a tutte le cose corporali, perch tutte
non erano suscettibili di dominio quiritario; n ad alcuna delle incorporali, che non
essendo suscettibili di un vero possesso, nello stretto senso della parola, non erano
usucapibili.
A riempiere questo vuoto, lasciato dalla primitiva legislazione, s'introdussero
in sguito due rimedj; cio il non usus e la praescriptio longi temporis.
Il non usus valeva ad estinguere quelle servit che non ammettevano, secondo

le leggi, nel serviente la possibilit di usucapire la libert del fondo col concorso di
un atto suo proprio: ci che, per esempio, avveniva nella servit tigni immittendi,
quando il serviente avesse otturato il foro del trave rimosso dal dominante; atto
ch'era fondamento all'usucapione della libert del fondo.
Il non usus aveva dunque una certa relazione colla usucapio; ma poich non va

leva che per casi speciali, cos s'introdusse, per tutti quei fondi e diritti reali che
non potevano essere usucapiti, l'altro spediente della ecceptio longi temporis; ecce

zione che il possessore, molestato dall'antico padrone, poteva desumere dal suo
possesso. Siccome poi le eccezioni venivano inscritte dal Pretore, innanzi al quale si
proponevano, cos si adoperarono promiscuamente le voci exceptio e praescriptio per

PARTE I.

1 19

indicarle, aggiungendo l'appellativo che ne accennava la specie o fonte d'onde si


desumevano. Questa, perch dedotta dal possesso continuato per lungo tempo, si
disse appunto exceptio o praescriptio longi temporis.
La prescrizione adunque, secondo l'antico Diritto romano, era cos lontana dal

l'idea che ne danno i nostri Codici, che non solo non si usava mai questa voce isola
tamente e senza l'aggiunta del lungo tempo, che indica la qualit dell'eccezione;
ma ben lungi dall'essere essa un'idea correlativa alla usucapione, era invece un
surrogato di questa pe' casi in cui non poteva aver luogo e limitatamente ai diritti

reali; non potendosi adoperare l'exceptio longi temporis contro le azioni in personam
o le miste, le quali rimanevano perpetue, n potevano mai andar perente in forza
del semplice non-uso del creditore personale. Quindi tanto la usucapio, che la ecce

ptio longi temporis, derivavano dall'uso e dal possesso diuturno, accompagnato dal
giusto titolo e dalla buona fede, almeno nel principio; e non partivano punto dal
l'idea di reprimere la negligenza dell'antico padrone, che lungamente non aveva
usato del suo diritto. Solamente l'identit degli effetti, che producevano i rimedi
introdotti a tener luogo della primitiva usucapione, hanno fatto annoverare la usu
capione fra i modi d'acquisto comuni alle cose mancipi e alle non-mancipi, non

essendosi pi considerata la usucapione che come un acquisto di dominio in causa


del possesso (Ulp. fr. Tit. XIX. S8).
Ma questa negligenza del creditore comparisce posteriormente ad appoggiare
una quarta forma di estinguere le obbligazioni, cio la praescriptio longissimi tem
poris. Cujaccio ed altri la ritengono introdotta da Teodosio il Grande con una Co
stituzione del 424, il cui testo non ci pervenne.
Sotto questa eccezione cadono le azioni personali, le miste (in rem et personam,
come la petitio hereditatis, ec.), ed anche le reali, cui non avesse giovato la usuca
pione, il non usus e la praescriptio longi temporis, per mancanza di possesso o qua
si -possesso nella prima, e di legittimit e buona fede nelle altre due.
Finalmente Giustiniano, abolito il nudo dominio quiritario, e tolta ogni distin
zione tra le cose mancipi e le non-mancipi (Cod. Lib. VII. Tit. XXV. XXXI.) tras
form la usucapione estendendola a tutte le cose cos mancipi come non -mancipi, e

provedendo meglio alla tutela del proprietario collo stabilire termini pi lunghi di
quelli ammessi anticamente per la usucapione propriamente detta, che si convert
per tal modo in prescrizione longi temporis, perdendo questa l'antica sua natura di
semplice eccezione, e divenendo in sostanza usucapione longi temporis.

Rimase per nel Diritto Giustinianeo la prescrizione longissimi temporis cogli


effetti antichi, salvo ch'era necessario anche per questa che il possesso avesse co

minciato in buona fede allorch la cosa dopo il tempo della prescrizione fosse per
caso ritornata all'antico padrone, e il possessore intermedio volesse ripeterla in
forza della prescrizione (Leg. 8. Cod. Lib. VII. Tit. XXXIX.). Fuori di questo caso
non fu eccepita da questa prescrizione n l'actio inium regundorum, che Teodosio
ne aveva esclusa; n l'azione ipotecaria contro il debitore, pure da Teodosio ecce
pita, ma da Giustino assoggettata essa pure alla prescrizione di quarant'anni (Leg. 7.
Cod. eod. tit.).

Queste fasi diverse della prescrizione e della usucapione a poco a poco le ravvi

cinarono cos, che la prescrizione, perdendo il suo carattere originario di semplice


eccezione, prest al possessore una vera azione pari a quella che da prima nasceva
dalla sola usucapione propriamente detta.

Le disposizioni del Diritto romano su questo punto, come su tanti altri, non si
lasciano facilmente ridurre a brevi parole, e molto meno ad un sistema chiaro e

120

SAGGIO

netto, e pienamente conforme ai principi di ragione. Quello che c'importa notare si


, che ad onta dei due vizi capitali, consistenti nel non richiedere la buona fede per
tutto il tempo del possesso e nell'ammettere casi di prescrizione anche senza buona
fede, si dava per in quella meravigliosa legislazione una grande importanza a que
sto requisito, come lo attesta la Legge 8. del Codice sopra citata, in forza della
quale la praescriptio longissimi temporis somministrava una semplice eccezione, e
non un'azione, quando mancava la buona fede; e lo prova ancor pi il Libro II.
Tit. VI. delle Istituzioni, che rafferma e spiega la legge delle dodici Tavole, la legge
Attilia, la Giulia e la Plauzia, per le quali non possono essere mai usucapite le cose
furtive e le violentemente possedute nemmeno dal terzo possessore che in buona
fede le avesse acquistate. Cosicch si pu dire che alla lunghissima prescrizione non
ostava la mala fede semplice, ma vi ostava la mala fede derivante da un fatto cri
minoso, fin anche nel terzo possessore che non fosse partecipe n del fatto, n della
mala fede ch'esso induceva.

A correggere quei due vizi capitali della prescrizione romana venne il Diritto
canonico, il quale si uniform in generale alla legislazione civile su questo punto,
ma esigette la buona fede in ogni specie di prescrizione, perch fosse operativa; e

la esigette non solo nel principio, ma per tutto il tempo del possesso necessario a
prescrivere.

Si disputato se il requisito della buona fede, voluto dal Diritto canonico, si


estendesse anche alla prescrizione del debito personale e alle servit strettamente
tali. Alcuni interpretarono le parole del Concilio Lateranense IV.: oportet ut qui prae
scribit, in nulla temporis parte rei habeat conscientiam alienae, come una correzione
portata al diritto imperiale soltanto rispetto a quei casi di prescrizione, nei quali si
a

verifica la perdita del diritto colla negligenza del creditore e col possesso contempo
raneo del debitore; e quindi sostennero che, rispetto alle azioni personali ed altri
diritti che si prescrivono, secondo il Diritto romano, per la pura negligenza del
creditore, non fosse innovato da quella disposizione il diritto civile. Altri invece
scorsero in quelle parole un principio generale, che per identit di ragione dovesse
applicarsi a tutti i casi di prescrizione, trovando assurdo che per alcuni casi fosse
richiesta la buona fede e per altri no, mentre la ragione di giustizia e di moralit
intrinseca, sulla quale si appoggia la correzione canonica, milita egualmente per
tutti. Le parole d'Innocenzo III. sono molto esplicite: Quoniam omne quod non est
ea ide, peccatum est, synodali judicio definimus, ut NULLA valeat absque bona fide
praescriptio, tam canonica, quam civilis; cum sit generaliter omni constitutioni atque
consuetudini derogandum, quae absque mortali non potest observari peccato. Unde
oportet, ut qui praescribit, in nulla temporis parte rei habeat conscientiam alienae.
Ma posto pure che questa disposizione si riferisse unicamente a quella specie di

diritti, nei quali interviene un possesso o quasi possesso dell'obbligato, come pre
tendono i sostenitori della prima opinione, non ne verrebbe perci che la buona fede
non fosse richiesta per la prescrizione delle azioni personali ch'essi vogliono esclu
derme, e che indirettamente fosse stata confermata la legge civile proprio in quei
casi, ne'quali non solo la ripugnanza delle sue disposizioni co principi di giustizia e
di moralit egualmente manifesta, ma di pi non sussiste la ragione di tutelare i

possessi, ed impedire le liti difficili e complicate, che in generale non possono avve
nire nelle azioni personali.

Infatti nella prescrizione interviene sempre un possesso, perch in essa si veri


fica sempre una qualche specie di acquisizione. L'antico adagio: tantum praescribi
tur quantum possidetur, esprime appunto questa idea.

PARTE I.

121

L'oggetto immediato del possesso pu essere una cosa altrui, o la semplice li


bert della cosa nostra da un peso che la aggravava. Se il possesso di una cosa al
trui; che la cosa sia determinata in ispecie e soggetta ad azione reale; che lo sia in

ispecie, ma abbia luogo la sola azione personale; o che lo sia anche in genere, come
nel debito; sempre una cosa che ad altri spetta, e che si deve o restituire o dare.
E in tutti questi casi, perch la prescrizione si verifichi, indispensabile la buona
fede, come abbiamo gi dimostrato in questo Capitolo, e come evidentemente ordi
nato dalla legge canonica test allegata.
- ,
si s
..
i

Se invece il possesso della pura libert, siccome non si tratta di obbligo posi
tivo, ma di semplice tolleranza, il sapere l'esistenza dell'altrui diritto non pu co
stituire mala fede, perch il proprietario del fondo serviente o soggetto ad ipoteca
non in possesso di un ente reale ch'egli sia comunque obbligato a dare; non in
somma un possessore rei alienae. Se quindi col fatto del non-uso il dominante taci
tamente acconsente a liberare il fondo, il proprietario usucapisce la libert; come
il dominante pu usucapire la servit per l'acquiescenza del proprietario.
In ogni caso adunque di vera prescrizione ha luogo una qualche specie di pos
sesso, e quindi applicabile la disposizione canonica, ch'esige la buona fede. La qual
buona fede, quanto alla prescrizione delle servit che non importino compartecipa
zione agli utili della cosa, implicita al fatto del possesso di libert o di uso, di
pendentemente dal tacito consenso di chi la perde non usandola, o di chi lascia che
altri l'acquisti col lungo uso.
. . .2
Volemmo accennare questa controversia antica fra i giureconsulti soltanto per
mostrare come la disposizione del pontefice Innocenzo III. sia perfettamente con
corde co'principi di ragione sviluppati in questo Capo; giacch non vi pu essere il

pi piccolo dubio, che nel Diritto canonico si richieda sempre come requisito indi
spensabile alla prescrizione di qualunque specie la buona fede continuata per tutto
il tempo necessario a prescrivere.
e
Quanto ai Codici civili dei tempi a noi pi vicini, essi non sono tutti concordi
intorno ai requisiti essenziali della prescrizione cos detta acquisitiva, ma discor
dano molto pi intorno alle norme risguardanti la estintiva, specialmente delle azio
ni personali. Quanto alla prima, alcuni per la prescrizione ordinaria esigono la buona

fede per tutto il tempo del possesso, come il Codice di Parma, art. 2366; il Codice
del Cantone Ticino, art. 1209; il nuovo Codice estense, promulgato dal regnante
duca Francesco V. il 25 Ottobre 1851, e posto in attivit il 1. Febbraio del cor
rente anno 1852, art. 2310; il Codice delle due Sicilie, art. 2175, che per ammette

la prova della sopravenuta mala fede solo per documento scritto; il Codice bava
rese, Lib. II. Cap. IV. S 7; e il Codice prussiano, S 579. Altri, seguendo il Diritto
romano, s'accontentano che la buona fede esista nel principio del possesso: come il
Codice francese, art. 2269; il Codice della Luigiana, art. 3509; e il Codice olandese,

art. 2003. La prescrizione acquisitiva straordinaria, ossia con un tempo pi lungo,


secondo certi Codici, si verifica anche senza buona fede: cos nel Codice francese,

art. 2262; nel Codice della Luigiana, art. 3465; nel Codice sardo, art. 2397; nel
Codice delle due Sicilie, art. 2168; nel Codice estense, art. 2301; nel Codice di
Parma, art. 2375: e nel Codice del Cantone Ticino, art. 1218. Quest'ultimo darebbe
luogo a qualche osservazione sulle espressioni che adopera: ancorch non consti se

con giusto titolo e buona fede; ci che parrebbe alludere all'obbligo di provare la
buona fede nella prescrizione ordinaria: mentre in questa esige bens la buona fede,
ma la presume, addossando la prova della mala fede a chi la allega (art. 1210). Il
Codice olandese nell'art. 2004 ripete l'art. 2262 del Codice francese, ma dall'arti

122

SAGGIO

colo 2000 risulterebbe invece che il possesso trentennario giovasse senza titolo, ma
non senza buona fede: disposizione che parrebbe concorde con quella del Codice

prussiano, S 625, che prolunga a trent'anni il tempo della prescrizione quando


manca il titolo, senza far cenno della buona fede, che in massima richiesta dal
S 579 di esso.
Pi chiaro il Codice civile austriaco esige espressamente la buona fede non solo

per la prescrizione ordinaria, ma anche per quella di tempo pi lungo; solo dichiara
non obbligato a produrre il suo titolo chi possede da trenta o quarant'anni (S 1477).
La prescrizione estintiva pu aver luogo senza buona fede (S1493). Che la buona
ede debba essere continuata per tutto il tempo necessario a usucapire non detto

epressamente; ma lo si deduce dalle espressioni generali del S 1463 e di altri, dove


sempre si fa parola della buona fede del possesso, e non del solo principio del pos
SeSS0,

Della prescrizione immemorabile atto cenno nel Codice bavarese, che ha pure
eretto in norma espressa l'adagio: tantum praescriptum, quantum possessum (Lib. II.

Cap. IV. SS 5.9).


Il principio stabilito da vari Codici, che in fatto di cose mobili il possesso vale
titolo, condusse a disposizioni che non si potrebbero giustificare, e che applicano la

prescrizione anche alle cose rubate, talvolta fin anco senza la buona fede nel terzo
possessore; com' il caso del Codice della Luigiana, art. 3475. Il Codice francese
(art. 2279) e quello delle due Sicilie (art. 2185) ammettono la massima, e non si
spiegano troppo chiaro, se l'applicazione alle cose furtive risguardi il solo terzo
possessore. Il Codice sardo (art. 2411) si conforma in sostanza al francese; ma la
massima meglio espressa, dicendosi che nelle cose mobili il possesso vale titolo in

favore dei terzi; onde il ladro non prescrive mai. Il Codice di Parma stabilisce
espressamente che nessun tempo vale a indurre prescrizione a favore del ladro
(art. 2371); cos pure il Codice del Cantone Ticino, art. 1214, e il Codice esten
se, art. 2315.

Il Codice prussiano nel S 584 dispone, imitando il Diritto romano, che il pos
sessore (terzo), anche in buona fede, di cose rubate non pu prescrivere n il pos
sesso, n la propriet; ma poi nel S 648 stabilisce che si acquistano le cose rubate
con un possesso pacifico di quarant'anni. Ci pare difficile mettere d'accordo queste
due disposizioni.
In generale nei Codici si scorge che nella prescrizione acquisitiva si prende a
fondamento il possesso; nella estintiva il non-uso o la negligenza dell'avente diritto,
e talvolta l'uno e l'altro elemento, esigendosi la negligenza da una parte, e un atto
di possesso dall'altra. La buona fede e il titolo vi si associano in modi varj; e in

ci stanno propriamente le discordanze dei vari Codici su questo punto.


Quello che maggiormente interessa di notare relativamente ai principi di ragio

ne intorno alla prescrizione estintiva delle azioni personali si , che molti Codici la
limitano ad una semplice presunzione, che ha bisogno di qualche amminicolo ag
giuntovi per operare la liberazione dall'obbligo.
Il Codice francese (art. 2275), il Codice sardo (art. 2404), il Codice estense
(art. 2320. 2321), il Codice delle due Sicilie (art. 2181) e il Codice olandese (arti

colo 2010) autorizzano il creditore per certi titoli specificati a deferire il giura
mento al debitore che gli oppone la prescrizione, sulla circostanza di fatto che il

debito sia stato pagato; e alla vedova, agli eredi di esso o ai tutori di questi, sulla
circostanza che non sappiano sussistere il debito. Il Codice sardo (articoli 2405.
2406. 2407), e l'estense (art. 2322.2323) danno un simile provedimento riguardo

PARTE I.

1 23

alla restituzione di documenti relativi ad una causa per parte di avvocati, ec., spi
rati che siano cinque anni dopo terminato il processo. Il Codice del Cantone di Vaud
(art. 1676) si accorda anch'esso coll'art. 2275 del Codice francese; ma di pi nel
l'art. 1671 stabilisce in generale, che quando il debitore oppone la prescrizione de
cennale, il creditore pu deferirgli il giuramento sul fatto del pagamento del debito.
Il debitore decade dalla sua opposizione, se non pu prestare giuramento di aver pa
gato il debito. Questo giuramento pu essere deferito al solo debitore che si
obbligato, e non ad un terzo. Il Codice del Cantone Ticino (art. 1223) d facolt

di deferire il giuramento, sul punto di accertare se la cosa siasi realmente pagata,


a quegli cui fosse opposta una prescrizione.
Il Codice prussiano, pi esplicito di tutti, nel S 568 stabilisce che l'effetto della
prescrizione di non-uso una presunzione, che durante il corso della prescrizione
l'obbligo sia stato estinto. Essa pu essere distrutta dalla piena prova, che quello
-

il quale vuole acquistare la prescrizione cerca di sottrarsi ad una obbligazione di


cui egli stesso conosce la esistenza. E conforme alla massima, che nessuno pu igno
rare i fatti propri, che il Foro francese esprimeva coll'adagio: on ne peut pas pre
scrire contre son titre, e che fu ammessa nell'art. 2240 del Codice francese rispetto
alla causa e al principio del possesso, e rigettata nel seguente art. 2241 riguardo
alla liberazione dall'obbligo. Distinzione ripetuta in quei Codici che copiarono
questi, come tanti altri articoli del Codice francese; ma che non ha fondamento nei

principi di ragione, pe'l difetto di buona fede.


Da tutto ci apparisce che in molti Codici, rispetto a certi casi di prescrizione,
prevalse con maggiore o minore estensione l'idea, ch'essa costituisca un semplice
limite posto all'esercizio di certe azioni, attesa la presunzione che siano state soddis
fatte, salva la prova in contrario, o almeno una prova suppletoria che la raffermi.
Che alla prescrizione non si debba avere riguardo d'ufficio, ma solo in quanto

le parti interessate la alleghino, principio di tutte le legislazioni. In alcuni Codici


risulta dal complesso delle loro disposizioni; in altri si trova dichiarato espressa
mente. Da ci deriverebbe che la prescrizione, sebbene fondata nelle relazioni socia
li, non si trova per nei Codici riguardata come oggetto involgente viste d'ordine

publico; e ci conforme ai principi di ragione, che nel diritto di acquisto della


propriet, qualunque ne sia il modo legittimo, riconoscono una pura facolt.
Tuttavolta l'anticipata rinuncia alla prescrizione, o il pattuire un tempo pi
lungo del legale, furono in qualche Codice riguardati come opposti ai principi d'or
dine publico, e vietati. Per esempio, nel Codice austriaco (S 1502), nel Codice
francese (art. 2220), nel Codice delle due Sicilie (art. 2126), nel Codice di Parma
(art. 2333), nel Codice del Cantone Ticino (art. 1188), nel Codice sardo (art. 2355),
e nel Codice estense (art. 2262). Il Codice prussiano segu invece interamente la
massima, che la prescrizione non potendo essere valutata d'ufficio, non involge og

getti d'ordine publico, e dichiar nel S565, che si pu rinunciarvi anticipatamente


per una cosa o affare determinato. Per questa rinuncia, trattandosi d'immobili,
dev'essere inscritta nei libri publici, altrimenti nulla.

Le disposizioni delle leggi positive, che per sommi capi e nei punti pi rilevanti
abbiamo raccolte in questa nota, raffrontate colle dottrine sulla prescrizione e usu
capione per via di ragionamento dedotte dai principi del diritto filosofico, anno chia

ramente vedere che se non si pu scorgere in nessuna legislazione, eccetto il Diritto


canonico, un accordo pieno e costante colle norme giuridiche razionali, tuttavolta
nessuno dei principi teorici stabiliti in questo Capo mancano di applicazione pra

tica almeno in qualche Codice. Questo confronto, che pu essere ripetuto in tanti

4 24

SAGGIO

altri argomenti, sui quali la scienza ragiona e la legge dispone, mostra quanto im
portanti siano le dottrine razionali per fare buone leggi, e quanto sussidio presti lo
studio delle leggi allo sviluppo delle dottrine, associando ai lumi della teoria i det
tati dell'esperienza, ed offrendo occasione a quell'esame imparziale e fruttuoso (ben
diverso dalle critiche appassionate e dall'affettato disprezzo) la cui utilit da nessu

no contestata. Il senso pratico dei legislatori li condusse a stabilire certe disposi


zioni che una mente superficiale giudica inspirate da pure convenienze di fatto, e
sono l'espressione di principi quasi intuitivamente veduti prima che le deduzioni
teoriche venissero a rendere omaggio alla sapienza di chi le dettava, e a mostrare

che se questi principi non si trovano in tutto e sempre seguiti, ci dipende dal non
essere ancora state quelle intuizioni ricondotte alle fonti razionali dalle quali de
vonsi dedurre, e rendute cos chiare e feconde; ed inoltre che da sole, specialmente
in certe materie, non bastano; ovvero che per giunta erano in certe legislazioni vi

ziate da estrinseche influenze. Di questo duplice fatto il Diritto romano (per tacere
delle legislazioni moderne) un esempio cos noto e cos solenne da non ammettere

replica. A lato delle norme regolatrici il preteso diritto della schiavit si trovano
le pi sapienti disposizioni che mente umana escogitasse giammai sopra molte ma
terie del privato diritto; tanto sapienti, che nessun legislatore ha potuto dispensarsi
dall'attingere a quella fonte. Che se le moderne legislazioni non presentano le enor
mit che s'incontrano nel romano Diritto a cagione delle mutate condizioni sociali,

e sopratutto dell'influenza del Cristianesimo; ci vuol dire precisamente che in


quelle materie sono riuscite migliori, perch subirono l'inluenza di principi da
qualsivoglia fonte derivati. E siccome non sempre si uniormarono per intero ai
principi, cos avvenne che talvolta riuscissero pi o meno difettosi. Questo fatto
medesimo quindi una prova parlante della necessit delle buone teorie per avere
una norma sicura e facile in tutte le materie del diritto, e per evitare le incertezze
ei difetti cui conduce il seguire i soli dettami di un confuso buon senso, della cieca
pratica e dell'esempio altrui.
Se il buon senso, la pratica e l'esperienza molto giovano in certi argomenti, essi

soli sempre non bastano, e non bastano mai intieramente. Il Rossi (Droit pnal, Pr
face) molto saggiamente scriveva: Les thories inspirent naturellement beaucoup de
defiance; mais on a beau faire, elles se glissent partout: plus ou moins compltes, el
les dominent toujours les actions des hommes, qu'ils le sachent ou qu'ils l'ignorent. On
m'chappe point l'empire des principes gnraux; le monde leur appartient, et c'est
la gloire de l'homme de leur obir. Comme l'a dit un esprit profond....... Mpriser
la thorie, c'est avoir la prtention eccessivement orgueilleuse d'agir sans savoir ce

qu'on fait, et de parler sans savoir ce qu'on dit. E il nostro Cremani nell'introdu
zione al Libro III. del suo Diritto criminale, parlando appunto della teoria e della
pratica, usciva in questa sentenza: Equidem puto eum non errare, qui cognitionem
etiam sine usu multum valere, usum vero sine cognitione pene nullum esse air
navertt.

PARTE I.

125

La famiglia.
-

,
-

La societ domestica si fonda col matrimonio, ed abbraccia tutte le

relazioni e gli effetti che derivano dal fine naturale dell'unione conju
gale. Essa quell'elemento primo, onde si compone la pi vasta societ
civile; la fonte da cui scaturiscono le nuove generazioni a perpetuare
la convivenza socievole, per quanto duri l'umanit; il modello dello

stato civile, e racchiude il principio dell'autorit nei rapporti umani.


La societ sarebbe in brev ora distrutta senza la famiglia, i cui vin

coli naturali sono uno del pi forti cementi che la conservano, e d'onde
escono i germi delle future generazioni.
Come ogni instituzione che non l'opera dell'uomo, la famiglia
indistruttibile; ma il suo ordinamento pu essere pi o meno perfetto,
e quindi pi o meno perfetta la societ civile.
Questa maggiore o minor perfezione dell'ordinamento della famiglia
nella societ dipende dalla maggiore o minore conformit delle idee teo

riche e delle leggi che la governano, coll'indole essenziale della famiglia


e co'rapporti giuridico-morali di essa; indole e rapporti, i quali sus
sistendo da s, ed essendo la base necessaria della societ civile, anno

s che l'ingerenza della societ nel regolare il modo dell'esercizio dei


diritti derivanti dalla societ domestica sia necessariamente assai pi li
mitata che non in verun altro rapporto.
La connessione tra diritti e doveri nella famiglia si manifesta cos in

tima e perenne; il fine di questa particolare societ cos determinato


dalla ragione giuridica e morale; la sua influenza sopra il benessere e

il fine della societ civile cos grande; che l'opera della societ civile,
rispetto alla famiglia, ridotta a dover puramente riconoscere e tutelare
il fatto e le conseguenze del rapporto domestico, sotto pena di contro
perare al suo fine medesimo, se voglia in qualunque modo mettere le
mani in cotesto santuario inviolabile.

- .

..

Se la storia si studiasse nel modo che si dovrebbe, e se ne traessero


gli ammaestramenti di cui feconda, si vedrebbe che in tutti i tempi e

presso tutte le nazioni del mondo la grandezza, la moralit e il benes


sere della societ civile fu sempre in ragione diretta del rispetto che si
ebbe pe'i naturali rapporti della famiglia, e dell'importanza che negli
ordinamenti cos civili come politici ha avuto la famiglia. Esagerarne le

12

SAGGIO

attribuzioni, come p. e. nelle antiche leggi romane sulla patria potest,


non tanto fatale, quanto il menomarne d'un punto solo il rispetto. La

morale publica e privata, senza cui l'individuo abbrutisce e la societ


civile corre alla rovina, impossibile dove non sia rispettata e protetta

dall'uomo e dalla legge la santit della famiglia.


La societ civile ha un fine proprio e un operare collettivo distinto
dai fini e dall'opera particolare di ciascun individuo. Ma essendo la so
ciet dalla Providenza ordinata al bene dell'uomo, il fine di essa co
mune a tutti gli umani.

Quindi se per una parte l'operare dell'individuo deve subordinarsi


al fine della societ, dall'altra l'operar sociale in tanto sar retto, in

quanto servir al fine comune di tutti e di ciascuno. E questo fine potr


essere conseguito solo quando vi concorra l'opera concorde e contempe
rata di ciascuno e di tutti insieme.

Inoltre il fine della societ costante e durevole, come lo il fatto e


la naturale necessit della convivenza socievole. Dunque la concordia

dell'opera individuale e sociale dev'essere pure costante.


Ma perch le direzioni necessarie a produrre tale concordia nel
l'opera possano ordinarsi al fine della societ d'uopo che siano tutte
conformi all'intima natura della societ stessa, non potendo conse

guirsi il fine della societ operando in contradizione coll'indole sua es


senziale.

Ora, dell'essenza della societ l'essere perpetua, e composta di ele


menti che contengano il germe della sua perennit. Poich nel solo in
dividuo non contenendosi il germe della riproduzione di esseri simili a
s, la perpetuit della societ non pu derivare che da una fonte diversa
dal semplice individuo, cio da una societ particolare, nella quale si
riproducano, si conservino e si educhino alla moralit e alla socievolezza
nuovi individui; poich la societ non si compone di esseri umani sem
plicemente riprodotti, ma di uomini conservati ed educati alla moralit
e alla convivenza civile. Questa fonte costituisce gli elementi, dai quali
risulta la societ civile; ed la societ domestica,

Che se la societ naturalmente civile degli uomini consiste nell'aggre


gazione delle famiglie, che ne sono gli elementi e il seme della sua per

petuit; ne viene, per le cose dette, che l'operare dell'individuo in so


ciet, della societ tutta come persona morale, e della suprema autorit
che ne dirige le diverse porzioni, che formano gli Stati, non potr essere
conforme alla ragione giuridica e morale, n quindi al fine sociale, ove

PARTE I.

427

non si uniformi alle naturali relazioni e conseguenti esigenze della do


mestica societ.

famiglia: l'unione conju


gale, e quindi le relazioni giuridico-morali tra i conjugi; e i figli, e
quindi le relazioni tra i genitori e la prole. Esaminiamole partitamente.
Abbiamo accennato (vedi sopra, pag. 60-61) che la famiglia, consi
derata come unione coniugale, una societ mista; cio in parte volon
Due fatti e due relazioni si riscontrano nella

taria, in parte necessaria, cio indipendente dall'arbitrio umano.

La propagazione della specie forma parte evidentemente dell'ordine


naturale dell'umanit; ma nell'individuo il dar opera alla propagazione
non pu essere che un atto libero. Rispetto alla morale, l'unione conju
gale non un dovere per ciascun individuo, potendo anzi divenire un
ostacolo ad altri atti di maggiore elevatezza nell'ordine morale. Quanto

poi alle relazioni giuridiche, certamente un diritto che, al pari degli


altri, star entro i limiti posti dalla legge morale, e dovr essere tute
lato e rispettato dalla societ tanto pi rigorosamente, quanto maggiore

l'importanza della societ domestica relativamente all'indole e al fine


della societ civile, che delle famiglie componesi, e per esse si perpetua
nelle successive generazioni.

La riproduzione essendo, per necessit di fatto naturale, legata alla


unione di due persone che cooperino al fine comune, importa un vincolo
di societ. Ma poich il formare questa societ, e molto pi l'unirsi con

quella determinata persona piuttosto che con un'altra, per l'uomo una
facolt, la societ conjugale volontaria e non obbligatoria quanto alla
sua formazione.

Ma posto il fatto volontario dell'unione di un dato uomo e di una


tal donna allo scopo della propagazione, il fine della societ coniugale
cos formata determinato per guisa, che la volont dei contraenti non
potrebbe in nessun modo contradirvi.
Infatti se il cooperare alla riproduzione diritto per l'uomo, lo

solo entro i limiti dalla morale segnati alla sua attivit in tale oggetto.
Ora la morale non consente all'uomo di operare mai in modo contradi

cente alla sua natura ragionevole, e quindi ai fini derivanti dall'ordine


di ragione. Dunque il fatto volontario dell'unione dei sessi non potr
essere un diritto, se non in quanto si uniformi al fine naturale della so
ciet conjugale.

Quindi ne viene che la dottrina dei contratti pu fino ad un certo


punto applicarsi al matrimonio quanto alla sua formazione, ossia finch

4 28

SAGGIO

si tratti della sua conchiusione e validit; ma non pu avere applica


zioni alla societ conjugale quando si tratta di determinare il fine e le

conseguenze che da questo fine derivano, perch il fine prestabilito


dall'ordine naturale, e rende necessaria nell'indole sua la societ conju

gale, una volta che volontariamente siasi formata; anzi dal fine stesso
derivano certe condizioni alla validit del contratto, come la capacit
fisica.

Perci l'idea del contratto diviene secondaria rispetto al fine del ma

trimonio in questo senso, che la natura del contratto non costituisce la


norma suprema e principale della societ conjugale, che influisca nella
determinazione delle sue conseguenze morali e giuridiche; ma il fine
naturale influisce per l'opposto a determinare la natura e le condizioni
del contratto, con cui si d concreta esistenza alla unione coniugale.

Cosicch le norme regolatrici della societ coniugale derivano essenzial


mente dal naturale suo fine.

Da ci avviene che il matrimonio, considerato nel puro ordine giuri


dico, dia luogo a tante difficolt e a tante questioni inestricabili; per
ch, considerandolo come contratto, diviene accessorio il fine di esso,

ch' in realt il principale. Ma qualora si tenga fermo il principio, che


l'ordine giuridico subordinato al morale, i rapporti puramente este
riori e di diritto, ai quali d luogo l'unione conjugale, vengono rego
lati dal fine che principalmente appartiene all'ordine morale.
Diciamo principalmente, perch il fine naturale del matrimonio, oltre

l'elemento morale, comprende anche un elemento giuridico; o meglio,


il fine del matrimonio giuridico e morale insieme. Poich la riprodu

zione dell'uomo come ente ragionevole, che importa la conservazione e

la educazione di lui, se da un lato riguarda l'ordine morale, dall'altro


riguarda anche l'ordine giuridico, ch' parte dell'ordine morale, perch
l'uomo si trova insieme e nell'uno e nell'altro; e questo nuovo essere
umano, che viene riprodotto, dev'essere poi educato nella famiglia alla
moralit e alla socialit, a vivere cio conforme alle disposizioni del

Creatore in tutte le sue relazioni per conseguire il suo fine.


Dall'indole principalmente morale del fine del matrimonio, e dal prin
cipio della subordinazione dell'ordine giuridico al morale, ne viene che
il matrimonio costituisca un rapporto ed una societ essenzialmente mo

rale, e che perci i rapporti di diritto fra i conjugi, il contratto con cui
si forma, e le leggi civili che lo regolano, debbano ricevere norma dal
l'indole morale che costituisce la nota prevalente del matrimonio, il suo

PARTE I.

129

essenziale carattere, al quale tutto quanto spetta alle sue giuridiche re


lazioni dev'essere subordinato.

La procreazione, ch' lo scopo immediato del matrimonio, un fatto


che appartiene all'ordine materiale. Ma l'uomo, che deve in tutto uni
formarsi all'ordine di ragione, non pu, senza contradire alle norme

morali che lo dirigono, separare questo scopo materiale dagli altri fini
morali, che in forza dell'ordine naturale sono inerenti al matrimonio.

Quindi allo scopo materiale della riproduzione si unisce l'obbligo del


l'educazione della prole e il mutuo soccorso dei coniugi. Il quale mutuo
soccorso necessaria conseguenza di qualunque specie di societ, che
importa il concorso delle azioni di pi iudividui ad un fine comune, ed
induce una obbligazione tanto pi grave, estesa e durevole nella societ

conjugale, in quanto che, oltre la legge generale della socievolezza, v'in


terviene il patto seguito fra i coniugi all'atto dell'unione coniugale, e
l'indole propria di questa unione.

s as -

, ria

Perci il fine del matrimonio, considerato nel puro ordine di ragione,


consta di tre elementi: l'uno materiale, gli altri due essenzialmente mo
rali. E siccome questo fine determina l'indole specifica della societ

conjugale, cos le leggi naturali del matrimonio deriveranno da questi


elementi, ed escluderanno tutto ci che ripugna all'uno o all'altro di essi.
Le leggi che si potrebbero chiamare fondamentali della societ con

jugale si riducono a due: la unit, che esclude la poligamia simultanea;


e la perpetuit, che esclude lo scioglimento del vincolo fuorch per la
morte di uno de'conjugi.

Che la societ conjugale debba essere societ di due soli individui


cosa troppo ovvia, n seriamente controversa; dacch la poliginecia si

multanea, se non si oppone propriamente al fine immediato della societ


conjugale, si oppone per alla pienezza dell'affetto reciproco, e diffi
culta la cooperazione rallentando i vincoli che devono stringere i coniugi
perpetuamente, come esige quel legame d'intima amicizia, ch' conse
guenza dell'indole e degli scopi dell'unione maritale. Peggio poi la po
liandria, che, oltre questi inconvenienti, affatto opposta allo scopo
immediato del matrimonio.

Ma la legge naturale della perpetuit soggetto della questione pi


grave e pi dibattuta intorno al matrimonio, e non v'ha forse argomen
to, sul quale sia stato scritto tanto, quanto sul divorzio. Ci saremmo
anzi volentieri astenuti dal toccare questo

argomento, se

non avessimo

con ci dovuto perdere una buona occasione di mostrare come i principi


9

130

SAGGIO

stabiliti si applichino agevolmente anche ai diritti e doveri nascenti dal


la societ conjugale. Quindi, senza entrare in una diffusa trattazione
dell'argomento, che eccederebbe le proporzioni di questo libro (1), ne
diremo quel tanto che all'intento nostro si appartiene.
Lo sbaglio fondamentale in questa controversia consiste nel conside
rare il matrimonio come semplice contratto, invece di considerarlo come
societ naturale, la cui essenza e leggi sono determinate dal suo fine,
derivante dall'ordine di ragione.

Il matrimonio nella sua formazione un vero contratto, poich dipen


de dalla libera volont dell'uomo l'abbracciare lo stato conjugale, e

l'unirsi piuttosto con quella persona che con un'altra. Ma se per essere
un contratto il matrimonio appartiene all'ordine giuridico esterno, il
fine suo non , come vedemmo, n puramente materiale, n puramente

giuridico; ma inchiude elementi essenzialmente morali, e quindi da que


sto lato appartiene all'ordine morale, nello stretto senso della parola.

Quindi che l'ordine giuridico dovendo essere subordinato alla mo


ralit, i diritti e doveri giuridici derivanti dal matrimonio non possono

mai ripugnare alla natura morale del matrimonio. A quella maniera che
cotesta subordinazione fa nulli i contratti dove la prestazione convenuta

ripugna alle norme assolute della morale, allo stesso modo nel contratto
di matrimonio porta ad escludere tutto ci che lo farebbe un rapporto e
un fatto diverso da quello che e che dev'essere, in forza del suo fine,
nell'ordine morale.

Quest'indole del matrimonio giuridica e morale ad un tempo fa s che


si appalesi una contradizione tutte le volte che si volesse stabilire al
cuna norma del matrimonio nel puro ordine giuridico, la quale non si

accordasse colle leggi che lo governano nell'ordine morale. Il rapporto


esteriore giuridico cos inseparabile dal rapporto morale nel matrimo
mio, che tolta l'armonica unit delle norme regolatrici di esso, diventa

contradittoria l'idea stessa del matrimonio, mancando il criterio per di


stinguere i fatti materialmente analoghi ad esso, che stanno nel puro
(1) Del matrimonio in generale, e in particolare del divorzio, considerato anche
razionalmente, trattarono di recente con vedute sapienti e profonde, e con molta
estensione, il P. Taparelli G., Saggio teoretico di Dritto naturale, Sez. II., Disserta
zione V. Capo III. Art. II. Vol. V., edizione di Napoli 1844-1845; il Rev.mo P. An

gelo Bigoni M. C. in una lunga Nota o piuttosto Dissertazione aggiunta alla sua Cro
mologia generale per servire allo studio della storia santa, pag. 353 e seg., stampata

anche separatamente (Padova 1852); e la Civilt Cattolica, 1852, Vol. IX. e X.

PARTE I.

131

ordine fisico comune co' bruti, da questa societ dell'uomo, che deve,
come tutti gli atti umani, essere governata dalla ragione in relazione al
fine morale.

Queste considerazioni, le quali sono la pura applicazione del princi


pio generale del diritto, che abbiamo nei Capi precedenti sviluppato,
conducono ad una conseguenza immediata e molto importante circa i li

miti del potere civile nel regolare il matrimonio. Poich dovendosi nella

societ tutelare i diritti, e moderarne l'esercizio in ordine al fine giu


ridico di essa, e salva sempre la subordinazione all'ordine morale, le

leggi civili nel regolare il matrimonio, in quanto appartiene all'ordine


giuridico, dovranno servire alle viste dell'ordine morale, prevalente sem
pre, ma sopratutto nel matrimonio, il quale essendo un atto unico ed
indivisibile, non pu separarsi in esso il lato puramente esteriore e

giuridico dal rapporto morale.


Ripugna quindi alla natura del matrimonio che l'ordinamento suo

nello stato di societ sia, come si dice, puramente civile: poich colle
leggi civili si possono e si debbono regolare gli atti civili, gli atti giu

ridici esteriori; ma il matrimonio atto essenzialmente morale, e quin


di atto religioso, perch dalla religione sono governati gli atti morali.
Quindi il lato civile che c' nel matrimonio essendo inseparabile dal
lato morale e religioso, la legge civile deve di necessit uniformarsi al
l'indole morale del matrimonio e alle sue norme, dedotte dall'ordine

religioso. Operando contro questa norma le leggi civili producono due


tristissimi effetti. In primo luogo, volendo regolare il matrimonio sotto
il punto di vista puramente giuridico, lo snaturano, perch ne falsano
l'idea essenzialmente morale; in secondo luogo, offendendo il sentimento

religioso, indeboliscono la prima base della moralit privata e publica, e


il pi forte cemento dell'ordine sociale, ch' la religione. La societ
deve regolare l'esercizio dei diritti, e quindi dettar norme agli atti che
si conchiudono per libero volere dei cittadini; ma non pu determinarne
l'indole essenziale, n cangiarne la natura, che deriva dall'ordine di ra

gione naturale, o da altra fonte, che dev'essere norma non solo al pri
vato che compie l'atto, ma alla stessa legge civile che lo regola, nulla po
tendo abbandonarsi al puro arbitrio, ma ogni determinazione positiva
dovendo essere appoggiata a principi giuridici subordinatamente alla mo
rale. Che se l'umana imperfezione, e le difficolt che s'incontrano nel
regime pratico della societ, obbligano le leggi positive a tollerare qual
che disordine morale che non possono intieramente togliere, non saranno

4 32

SAGGIO

per questo da ammettersi tali disposizioni civili sul matrimonio, che im


portassero un'approvazione, un eccitamento o un ajuto ad atti che ripu

gnano alla sua natura.


Questo canone fondamentale si applica in modo particolare al divorzio

propriamente detto, ossia allo scioglimento del vincolo, il quale, al pari


delle leggi che lo sanciscono, contradice all'indole essenziale del matri
monio, tanto se si considerino i rapporti privati e domestici, quanto se si

guardino i publici e sociali.


Il complesso dei fini inerenti allo stato matrimoniale sono effetto non
gi della libera volont dei contraenti, ma conseguenza dell'ordine giu
ridico e morale, della natura umana, de' suoi attributi e de suoi fini ge
nerali; e quindi non possibile imaginare per alcun modo che cessino

del tutto in un modo opposto all'ordine morale. Poich era bens in ar


bitrio dei contraenti di non porre colla loro volont il fatto positivo che
determina fra quali persone particolari debba aver luogo quella serie di
diritti e di doveri che sono necessaria conseguenza del matrimonio; ma

una volta col contratto stabilite le persone, questi diritti e questi doveri
fra di loro sussistono, non per l'arbitrio dei contraenti che abbiano cos
voluto, ma in forza dell'ordine naturale, che come fine generale di quel
la specie di umana societ universalmente li stabilisce.

Negli altri contratti il fine scelto e voluto dai contraenti, e quindi la

loro concorde volont pu togliere il fine, sciogliendo il contratto, come lo


pose conchiudendolo. Ma nel matrimonio il contratto determina le perso
ne che eleggono di sottoporsi alle conseguenze del fine naturale del ma
trimonio; e quando questo fine ha cominciato ad attuarsi, siccome la loro

volont non pone il fine, ma il fatto esecutivo di esso, non pi ragio


nevolmente possibile che la loro volont distrugga ci che non ha pro
dotto. Quindi ben lungi che la ragione naturale possa considerare dis
solubile il matrimonio, come gli altri contratti, essa anzi conduce colla

teoria medesima de'contratti a stabilire che il matrimonio non pu scio


gliersi nemmeno per volont concorde dei contraenti.

Si possono imaginare circostanze tali, in cui di reciproco consenso,


o per altra causa (!), cessino gli uffici conjugali, onde far luogo ad uno

scopo di maggiore perfezione. Si pu anche intendere lo scioglimento


del vincolo in certi tempi per determinata causa, o anche di presente
(1) L'adulterio, che d diritto alla parte innocente di professare anche senza il
consenso dell'altra,

PARTE I.

133

in certe circostanze ammesso per legge positiva divina (1), perch la


perfezione, come fine supremo, sta sopra tutti gli altri, e l'ordine na
turale necessariamente sottoposto a quelle eccezioni e modificazioni
che alla libera volont del Creatore, positivamente manifestata, piaccia
di farvi o temporariamente o per sempre. Ma non si pu pensare, senza
contradizione, che sia mai consentito alla volont dei contraenti, o di
uno fra essi, od all'autorit civile, l'operare di suo arbitrio diversamen

te da ci ch'esige l'ordine naturale ed i rapporti sociali, i quali, quan


tunque siano fatti per s di posizione contingente, pure essendo posti
da un potere superiore all'uomo, sono, rispetto all'uomo, necessari e
normali, regolatori cio della sua condotta come ente ragionevole.
Tanto meno poi si potrebbe ammettere questo potere dell'uomo ri

spetto al vincolo coniugale, se si consideri che il matrimonio involge og


getti e relazioni molteplici della pi alta importanza individuale, sociale,
morale e religiosa. Al matrimonio legata la riproduzione, conservazio

ne ed educazione dell'uomo, che senza la famiglia non si pu mai ot


tenere compiutamente, poich manca il legame e l'influenza di quelle
affezioni che sono la base principale della educazione conveniente al
l'essere ragionevole e sociale,

Quanto alla moralit e alla religione, ci vuole poco sforzo di mente


a comprendere come l'indissolubilit del vincolo conjugale, che il Cri
stianesimo stabilisce, sia condizione efficacissima alla moralit, affinch
l'uomo nell'atto pi importante della vita esteriore non si ponesse a li
vello de'bruti, n si rendesse impotente a soddisfare le tante obbliga

zioni morali, religiose e sociali che da esso derivano, s rispetto a con


jugi fra loro, s rispetto ai figli quando se ne abbiano.
Che se necessariamente l'ordine esteriore e giuridico, sia privato, do

mestico e sociale, subordinato all'ordine morale, perch il fine morale


supremo e a tutti gli altri sovrasta; se la conservazione ed educazione
(1) Tutto questo si riduce per a ben pochi casi, e sono: il ripudio ch'era
concesso agli Ebrei, se pure possa dirsi un vero scioglimento del vincolo, dacch lo
sposare la ripudiata adulterio (Math. XIX.9.); lo scioglimento del vincolo del ma
trimonio cristiano rato e non consumato per la solenne professione religiosa, o la

dispensa pontificia per gravissima causa; e quello del matrimonio degl'Infedeli al


lorch uno de'conjugi passi al Cristianesimo, n possa convivere pacificamente e

senza ingiuria del Creatore col coniuge rimasto Infedele. Noi parliamo dell'in
dissolubilit naturale del matrimonio, e non entriamo in quegli speciali argomenti

che spettano al Diritto canonico, le cui disposizioni, fondate sulla rivelazione divi
ma, non fanno che raffermare ancor pi la indissolubilit del matrimonio.

134

SAGGIO

dell'uomo riprodotto cosa eminentemente d'ordine morale e d'ordine

publico; se in fine la moralit il cemento pi forte della societ ci


vile; chiaramente spiegato il perch la sicurezza e il benessere stesso
materiale della societ non si possa ottenere che dalla stabilit della fa

miglia, fortemente protetta e tutelata dalla societ.


L'esperienza deve avere gi mostrato a quelle nazioni che sancirono
il divorzio quali ne siano stati i funesti effetti. E la ragione dal suo
canto dimostra come questi effetti fossero la conseguenza della scossa
che si dava con ci all'ordine sociale, offendendo il fine naturale del
matrimonio, ed infirmando quei legami che tengono unita la umana so

ciet. La quale offesa sussiste sempre anche qualora per fatto acciden
tale mancassero i figli, mentre non si tratta qu semplicemente dei vio
lati diritti del figli, ma del violato ordine naturale supremo, che stabili
sce il fine della societ domestica con quella stessa universalit con cui

pone il fine della societ civile, e che fa della famiglia la base della so
ciet. Sia pure che qualche matrimonio riesca infecondo od infelice;
non per questo cessano tutti i fini del matrimonio, n la sua natura

cangiata. Mancher il rapporto fra genitori e figli: ma resteranno i rap


porti di dovere e di diritto fra i conjugi; resteranno sempre le rela
zioni morali, religiose e sociali del matrimonio.

Se i fatti accidentali non possono far eccezione alle leggi positive,


le quali devono disporre pe i casi comuni, e guardare all'indole gene
rale dei fatti che regolano; molto meno gli effetti fisici accidentali o
le passioni dell'uomo potrebbero fare eccezione alle norme supreme
dell'ordine naturale per isciogliere un vincolo che abbia le condizioni
necessarie alla sua validit.

Gli argomenti che dimostrano indissolubile il matrimonio, anche

guardato nel puro ordine di ragione naturale, ricevono molta forza dal
principio, che la societ civile, stato e rapporto giuridico naturale ne

cessario dell'uomo, il risultamento delle famiglie aggregate. La fami


glia quindi la base e il fondamento della societ civile: ogni offesa
alla sua stabilit un attacco contro la societ. Supponete dissolubili
tutti i matrimonj infecondi, tutti i matrimonj infelici, e dite, di grazia,
in buona fede, se pi possibile una societ civile ordinata conforme
esige la ragione, perch aiuti l'uomo al conseguimento di tutti i suoi fini.
Nel caso poi ch'esistano figli, si aggiunge a tutto questo un nuovo
peso, poich i doveri dei genitori verso la prole, e i reciproci doveri
di questa verso di loro, non consentono che si rompa l'unit maritale,

PARTE I.

135

rendendo per tal guisa impossibile o sommamente difficile il loro adem


pimento.

E di vero, il fine naturale della societ domestica non potendo contra


dire al fine supremo dell'uomo, non si limita, quanto ai figli, alla semplice
materiale riproduzione della specie, come nei bruti; ma dovendo sub

ordinarsi alla ragionevolezza, non un fine naturale e ragionevole, se


non in quanto esige necessariamente che la famiglia sia la fonte dalla
quale derivino nuovi enti ragionevoli a formare nuove generazioni di
enti ragionevoli. Il fine della societ conjugale la rende una societ in
dissolubile appunto perch esso non limitato alla sola riproduzione,
come atto materiale, ma vuole la riproduzione e la conservazione del
l'uomo come ente ragionevole.
-

La nascita dei figli quindi un nuovo fatto naturale, che d luogo a


nuovi sviluppi e a nuove applicazioni dei rapporti di famiglia, che di
vengono per tal modo fonti di nuovi diritti e di nuove obbligazioni mo
rali e giuridiche nel tempo stesso.
I diritti delle persone, che sono per tutti gli scrittori il punto pi
difficile, e quello intorno al quale sono state dette cose di una incredi

bile ridicolezza (1), derivano in modo chiaro e facile da questa semplice


idea, che la loro fonte non il preteso consenso di chi n' l'oggetto,
ma le naturali e necessarie relazioni della societ domestica, derivanti
dal naturale suo fine.

(1) Un saggio ne abbiamo nell'Opera intitolata La philosophie du droit, ou ex


plication des rapports sociaua, di un certo signore Dimitry de Glinka, se non er

riamo, svedese, tradotta e stampata a Parigi nel 1842 in un piccolo volume. L'au

tore pretende stabilire l'origine e il fondamento del diritto delle persone, impro
priamente da lui o dal traduttore chiamato droit personel, nel seguente modo: Le
pre de famille, en livrant aux siens les objets et les alimens ncessaires leur exi
stance, peut vouloir en conserver la proprit. En se transformant par le travail de la
nature, ces alimens deviennent partie intgrante du corps de l'enfant; et comme le
pre de famille m'en a pas cd la proprit ce dernier, ils continueront lui appar
tenir sous cette nouvelle forme. Le droit, en subissant cette transformation, prende
le nom de droit personel, signifiant la proprit que l'individu possde au corps
mme d'un autre individu humain (pag. 101).

Il diritto delle persone, il cui scopo l'adempimento di doveri e l'aiuto della


persona stessa che n' l'oggetto, si converte per tal modo in una propriet del
corpo dell'uomo, fondata sopra una possibile ma assurda volont del padre di
famiglia. E quasi non bastasse l'aver mutato la patria potest, rivolta essenzial
mente al bene dei figli, in una propriet materiale, identica con quella che l'uomo

acquista sull'animale cresciuto col suo fieno e colla sua biada, egli estende la sua
idea alla propriet del padre sul feto e sugli alimenti che lo formarono, e sulla mo

436

SAGGIO

Da questo fine e da questi naturali rapporti di societ domestica,


morali e giuridici insieme, nasce nei genitori il dovere morale e giuri
dico di conservare ed educare la prole in modo da porla in grado di
vivere e nell'ordine morale e nell'ordine giuridico, come ente ragione
nevole; nasce nei figli il dovere morale e giuridico di seguire le norme
e di accettare i sussidi della educazione, e di ricambiare coll'affetto e
coll'assistenza le cure ch'ebbero per essi gli autori dei loro giorni.
Questi doveri, in quanto importano atti anche esteriori, e sono giu
ridici, corrispondono certamente a reciproci diritti; i quali perci es
senzialmente rivestono il carattere di atti esterni inviolabili dagli altri

uomini, ma inseparabili dall'idea di mezzi diretti all'effettuazione dei


propri doveri.
Quindi la societ civile, tutrice necessaria di tutti i diritti, mode
-

rer l'esercizio della patria potest, se essa ecceda i confini dello scopo
suo naturale; ed aiuter l'impotenza dei figli, ove non siano verso di
essi adempiuti gli obblighi paterni, o la morte li abbia privati dei ge
nitori quand'erano ancora bisognosi di educazione.

Ma il fondamento dei diritti delle persone sar sempre il rapporto


di societ domestica, il suo fine necessario, e i doveri che ne sono la
conseguenza: doveri derivanti dalla legge giuridica e morale; diritti
che hanno il loro appoggio nei doveri, e non sono altro che l'effettua
zione di questi: doveri e diritti che o non cessano mai, o non cessano

che per farne subentrare altri corrispondenti. Cos gli uffici reciproci,
ai quali hanno diritto vicendevolmente i coniugi; cos il dovere di ali
mentare e provedere i figli, che d ad essi una partecipazione nell'uso

dei beni paterni; sono diritti e doveri che non cessano mai. L'educa
zione compiuta fa cessarne il dovere nei genitori; ma subentra il do
vere dei figli dell'ajuto verso i genitori.

La famiglia perci uno stato e rapporto di societ naturale, ch'


fonte di particolari diritti e doveri conseguenti alla sua indole e al suo
glie, che nello stato sociale primitivo veniva comprata; e conchiude dicendo, che
mostrer essere fuori dell'idea del diritto il motivo che permetterebbe all'indivi

duo di liberarsi dal diritto personale estraneo, e che l'idea, la quale limita il diritto
personale, quella della libert, ec. Imagini il lettore quanto convincenti siano

le considerazioni con le quali l'autore pretende di presentare sotto un aspetto ra


gionevole quest'idea che dice nuova, e molto giustamente, perch un'idea pi stra
namente nuova non si potrebbe imaginarla; tanto nuova da disgradarne persino la
poco olezzante legge del circulus, imaginata da Pietro Leroux.

PARTE I.

437

fine; come la societ civile, altro rapporto e stato naturale dell'uomo,


fonte di altri diritti e doveri.

Il fine del matrimonio, che ne forma la base, la rende societ neces

saria; come la libera scelta delle persone che vogliono congiungersi la


rende volontaria. Ma posto perfettamente il fatto volontario, l'idea del

fine necessario domina tutte le relazioni e gli effetti che ne conseguono.


Come ogni societ, essa riveste il carattere dell'unit collettiva, e
diviene una persona morale, dove necessariamente dee sorgere l'autorit
che la diriga, la quale per l'indole sua stessa determinata non solo
nelle attribuzioni, ma eziandio nel soggetto, che ne sono i genitori; e

ciascuno di loro principalmente in quelli oggetti, ne quali hanno mag


giore attitudine ad adempierne i doveri e ad esercitarne i diritti, che

congiuntamente costituiscono l'idea di autorit, destinata non al vantag


gio di chi la esercita, ma a quello di chi n' l'oggetto.
Questa morale unit della famiglia si estende a tutto lo svolgimento e
l'ampliazione che naturalmente pu ricevere colle successive generazioni;
onde la consanguineit, ch' la conseguenza della derivazione di pi in
dividui da uno stipite comune; e la stessa affinit, per la quale un con
juge viene a vincolarsi colla famiglia alla quale appartiene l'altro. La
comune derivazione essendo un fatto indistruttibile, mostra come il ma
trimonio non solo sia indissolubile durante la vita, ma estenda i suoi e

fetti anche dopo la morte dei conjugi.


Quindi , che la societ domestica pienamente non si scioglie per la
morte di uno o di entrambi i coniugi, che pur fa cessare il vincolo del
matrimonio; ma quella societ che si cominciata a formare col matri
monio continua sotto certi rapporti a sussistere anche in sguito. Ed
questo il principio che spiega la continuit della societ civile mediante
la catena delle generazioni che nella famiglia si succedono, e si tengono,

a dir cos, legate l'una all'altra nella domestica societ. Onde apparisce
quanta sapienza si racchiuda nelle leggi che limitano il diritto di con
trarre matrimonio, annullandolo fra congiunti in certi gradi; poich, ol
tre le ragioni di privata e di publica moralit, vi si aggiunge un motivo

d'ordine publico e di diritto sociale, venendo per tal modo corroborati


ed estesi quei vincoli che cementano la societ civile, moltiplicando le
intime relazioni tra le famiglie.
Queste idee, che sono una derivazione dell'indole e del fine della fa
-

miglia posto dalla natura, riconosciuto dalla ragione, e produttore di ef


fetti indipendenti dall'arbitrio umano, mostrano quanto vaste ed impor

1 38

SAGGIO

tanti debbano essere le relazioni giuridiche e morali sorgenti dalla so


ciet domestica, e le loro applicazioni per determinare i diritti e i do

veri che ne devono di necessit conseguire; perch ogni rapporto neces


sario dell'umanit ha il primo fondamento negli attributi essenziali del
l'uomo ragionevole e socievole, ed quindi fonte di diritti e di doveri.

Di queste applicazioni daremo un saggio nel Capo seguente.

GAPO XIV.
La eredit.

Alle ricerche pi importanti intorno alla propriet appartiene la que


stione circa la natura e la fonte del diritto di eredit; uno dei modi di

trasmissione di essa, variamente regolato nelle diverse legislazioni civili,


ma ammesso da tutte.

I sistemi diversi adottati dai vari scrittori di diritto filosofico produs


sero una notabile variet nel modo di proporre e di risolvere cos fatta
questione.

Considerato il diritto naturale come un complesso di norme regolatrici


la condotta esteriore dell'uomo verso i suoi simili, dedotte da uno stato

ipotetico d'isolamento, ne venne che alla domanda se esista naturalmente


il diritto di eredit fosse data da molti una risposta negativa. Poich fra
uomo ed uomo individuo non trovandosi altro modo legittimo di trasmet

tere la propriet, del contratto in fuori, il succedere nei beni di un de


funto non poteva fondarsi sopra una manifestazione contemporanea e con
corde di due volont, dacch uno dei contraenti era, al momento del
l'acquisto, nell'assoluta incapacit di manifestare l'attuale suo volere, e

non aveva pi la propriet di ci che ad altri verrebbe trasmesso.


Quindi volendo dare un fondamento a questo diritto, che in fatto si
trovava riconosciuto dalle leggi civili, non si pot rinvenirlo che nei
Codici. Di qu un gravissimo errore anche in questo, come in altri ar
gomenti, che cio le leggi positive facciano sorgere diritti che non hanno

fondamento nel diritto filosofico, ossia nei rapporti naturali dell'umanit,


e quindi siano in parte arbitrarie.
Ma le stesse ragioni, colle quali si stabiliva la convenienza di ammettere

nella societ questo modo di trasmissione della propriet, condussero al


tri a meditare un po' meglio su questo grave argomento; e l'idea giusta
del diritto filosofico, che comprende tutti i rapporti naturali dell'uma
nit, conducendo ad ammettere come fondato nei principi di esso tutto

PARTE I.

139

quanto deriva eziandio dai rapporti necessari di societ civile, fece rico
noscere nel diritto di eredit un fondamento naturale.

Il diritto di eredit quindi uno di quei diritti che si appellano da


tivi, nel senso gi spiegato (vedi sopra, pag. 65); cio che hanno il loro

fondamento non gi nei semplici rapporti individuali degli uomini, ma


derivano dai rapporti di societ.
E qu conviene con somma diligenza fissare i caratteri di questo di
ritto, per evitare quella confusione che s'incontra nei Codici di vari
tempi e nazioni, e negli scrittori che ne parlarono, non escluso il Roma

gnosi, nelle cui Opere ci parve sempre molto difettosa la trattazione di


questo argomento, e poco o nulla coerente co' suoi medesimi principi,
tante volte ripetuti.
Se non che lo scritto postumo, nel quale trattata la questione, ed

altri luoghi delle sue Opere (1), vogliono essere chiariti cogli scritti po
steriori (2), nei quali con pi accuratezza determinata la distinzione
fra i diritti nativi e dativi, come abbiamo gi detto.

Romagnosi nelle Lezioni sul diritto civile ci presenta la facolt di


stabilire l'ordine delle successioni ne beni dei defunti come un diritto

eminente della societ in solidum, che lo trasmette al privato, autoriz


zando le disposizioni testamentarie colla legge civile, la quale per tal
modo diventa un vero mandato fatto dalla publica autorit, le clausole

del quale sono obbligatorie in tutta la pi ampia loro estensione (3). Per
ci, stando a quanto ne dice il Romagnosi in quelle Lezioni, la testa
mentificazione sarebbe un diritto dativo, nel senso di una trasmissione
della facolt spettante alla societ di disporre delle cose abbandonate dai

defunti, che terrebbe luogo della disposizione diretta che ne fa la societ


colle successioni intestate, per lo miglior bene delle nuove generazioni,
mediante l'ordine stabilito nella legge civile per le successioni di qual
unque specie.

Esaminando la dottrina ivi esposta da Romagnosi su questo punto,


non ci sembra che sia conforme alla nozione dei diritti dativi, quale ri

sulta dagli altri luoghi delle posteriori e pi elaborate sue Opere; e

molto meno poi ai principi generali della scienza del diritto, all'unit
(1) Lezioni sul diritto civile, scritte nell'anno 1808, Opere, Vol. VII. pag. 82,
S 211 e seg.; e pag. 122, S 376 e seg.; e Giurisprudenza teoretica, Opere, Vol. III.
pag. 1361, S 1992.

(2) Vedi Ragione civile delle aque, Opere, Vol. V. pag. 1368, S410-411.
(3) Si vegga il Vol. VII. pag. 85, S219.

4 40

di esso, alla subordinazione


da lui stesso predicata.

SAGGIO

necessaria del positivo al razionale, tanto

Il metodo che volemmo seguire in questo lavoro, e che ci pare il pi


fruttuoso, esclude le discussioni e le critiche troppo minute. Tuttavia,
prima di mostrare l'applicazione delle dottrine generali del diritto sopra
stabilite alla materia delle successioni, giova notare che l'argomenta

zione di Romagnosi in quelle Lezioni non punto concludente. Tutto il


suo discorso si aggira su questo cardine: che alla nuova generazione
spetta il dominio sulle cose che servono alla sussistenza; che quindi la
volont della societ vivente, manifestata coll'organo del potere publico,

quella che d vigore alle successioni, e non gi il dominio che spettava


al defunto durante la sua vita; il qual dominio cessa al momento della
morte insieme col bisogno di usare le cose, sul quale il dominio stesso
fondavasi (1).

Qualunque opinione si adotti intorno all'indole e al fondamento giu


ridico della successione ereditaria, certamente non pu esser dubio che

la propriet o dominio delle cose, e il loro uso, spetti a chi vive: la


questione , su che si fondi e a chi appartenga la determinazione delle
speciali persone cui spetti raccogliere esclusivamente le sostanze abban

donate dal defunto. Negata da tutti la possibilit e ragionevolezza di una


comunione positiva di tutti i beni in societ, il godimento di essi appar

tiene egualmente alla generazione vivente, in qualunque modo e da qual


unque persona siano designati gl'individui che debbano succedere nei

beni de'quali muore il padrone. Perci non vi sarebbe nella premessa


un fondamento sufficiente per dimostrare che questa determinazione spet
tasse esclusivamente alla societ, mentre lo scopo sarebbe egualmente
ottenuto colla determinazione fatta per parte del proprietario, nel quale,

indipendentemente dal mandato sociale, se ne riconoscesse il diritto sol


tanto disciplinato nel suo esercizio al modo stesso degli altri privati di

ritti. Anzi in forza della premessa cos nudamente esposta, che la gene
razione sopraveniente ha un innato diritto ai mezzi di sussistenza, e
quindi al possesso dei beni che servono alla conservazione, ne seguirebbe
che la societ vivente non avrebbe punto il diritto di regolare la tras
missione dei beni, ma tutto dovrebbe essere riserbato alla generazione
successiva, la quale sola giudice competente di ci che le convenga,
sola ha diritto sui beni tutti che esistono.

(1) Si vegga il Vol. VII. pag. 172, S 379-380.

PARTE I.

1 41

Ma siccome la generazione susseguente si trova mescolata con quella


che la precede, come troppo fuggevolmente not anche il Romagnosi (1),
non si saprebbe perch essa dovesse attendere che tutta l'anteriore ge
nerazione sparisse prima di metter mano ai possessi di quella. E infatti
egli sostiene che potrebbe, in caso di assoluta necessit, por mano ai
possessi della generazione antecedente con cui si trova mescolata (2),
quasich si potesse realmente separare una generazione dall'altra, come

due distinte morali persone; quasich il figlio che nasce non dovesse es
sere alimentato dal padre; o, in mancanza di altri sussidi, non trovasse

nella legge fondamentale della societ, che comanda il soccorso, un pro


vedimento che sostituisse in qualche modo le cure degl'ignorati o de
unti autori de giorni suoi.
Nel fatto per, siccome a conseguire il fine comune della societ ci
vile bastano, rispetto al diritto di privata propriet degli uomini viven
ti, le eque moderazioni indotte dai rapporti razionali e necessari della
convivenza; anzi queste sole possono essere legittime, perch la proprie
t deriva dai rapporti privati, e la societ non pu togliere alcun diritto
che sorga dai rapporti individuali, ma soltanto regolarlo quanto al modo

del suo esercizio; cos a parit di ragione devono essere sufficienti e


giustificate, anche rispetto al passaggio dei beni da una in altra genera
zione, soltanto quelle eque direzioni che vengono richieste dalle razio

nali esigenze della vita civile, perch non dall'arbitrio di nessuno, ma


dai naturali rapporti dell'uomo come cittadino sorgono i diritti ch'egli
ha in tale qualit, e sorgono appunto entro quei limiti e sotto quelle di
rezioni e moderazioni che sono richieste dall'indole stessa del rapporto
di convivenza, dal quale vengono generati.

E questa era l'idea che in confuso ne aveva il Romagnosi stesso, che


riduce quel cos detto dominio della societ civile ad un semplice domi

mio direttivo e di protezione pe'l bene stesso dei privati e per la comune
tranquillit (3). Ma, posto ci, non pi esatto il dire che la genera
zione vivente col mezzo della persona che amministra i publici poteri
disponga essa stessa o conferisca al testatore privato l'incarico di dis
porre delle sostanze che alla sua morte abbandona; e molto meno si po
trebbe approvare la citazione e l'encomio delle parole di Chabot nel suo
Rapporto al Tribunato: che la trasmissione dei beni per successione non
derivante dal diritto naturale, ma dal civile. Poich il diritto civile,
(1) Vol. VII. pag. 88, S229. (2) Ivi. (3) Vol. VII, pag. 123, S 383.

1 42

SAGGIO

quale dev'essere, formulando positivamente le conseguenze giuridiche


derivanti dal rapporto di societ, ha il suo fondamento nello stesso di

ritto naturale, che abbraccia necessariamente tutti i rapporti naturali


dell'uomo, ed il principale tra questi, cio quello di societ civile, come
bene c'insegna il Romagnosi medesimo.
Una delle cause di cotesta confusione d'idee fu il Diritto romano,
che si volle in certo modo elevare a teoria. La Legge 3. Dig. Li
bro XXVIII. Titolo I), dove sta scritto: Testamenti factio non privati,
sed publici juris est, commentata da Gottofredo cos: id est jus testa

menti facienditribuitur cuique jure publico et legibus, non privatorum


voluntate, fece introdurre quel gergo che contradice ai principi, e falsa
la natura delle successioni.

Se non che l'idea romana era correlativa all'idea della propriet e


della sua appartenenza. Nei primi tempi la propriet non essendo rico
nosciuta che nel padre di famiglia, la legge, coerente a s stessa, al solo

padre di famiglia accordava la testamenti factio. Ma in sguito gl'impe


ratori Augusto, Nerva, Trajano, Adriano, e pi di tutti Giustiniano,
avendo esteso il riconoscimento della propriet anche nel figlio di fami
glia, la legge accord la testamenti factio anche a questo in proporzione
della estensione che diede al riconoscimento della propriet anche nel
figlio di famiglia.

L'idea che la fazione del testamento fosse oggetto di diritto publico,


e questo successivo allargamento della facolt di farne uno (ben diversa
dalla facolt di averne uno) mostra che nel sistema del jus romano per
essere legalmente capace di far testamento era propriamente necessario
che la legge attribuisse espressamente questo diritto, altrimenti pe'l solo

fatto del silenzio della legge doveva ritenersi la incapacit di far te


stamento.

Ma per intendere giustamente il sistema del Diritto romano rispetto


alla facolt di far testamento, e le differenze colle legislazioni moderne,
non bisogna fermarsi unicamente a questa speciale concessione di far te
stamento, in confronto di quella generale capacit di testare, che le leggi
civili delle societ in cui viviamo riconoscono in tutti quelli che hanno
la generale capacit di possedere e disporre in qualunque altro modo dei
loro beni; ma bisogna invece fermar l'attenzione sopra il diverso ordina
mento che il Diritto romano dava alla propriet, facendo sempre prepon
derare l'idea dell'unit della famiglia, dell'unit del patrimonio di essa,
e della disposizione di esso appartenente al solo capo della famiglia.

PARTE I.

4I3

Il Diritto romano nell'ultima sua forma allarg la fazione del testa

mento; ma non dipartendosi mai dalla base di questa facolt, perch ac


cord la testamenti factio anche al figlio di famiglia soltanto pe'l peculio
castrense e quasi castrense, sui quali il padre non aveva alcun diritto n

di propriet, n di usufrutto, n di amministrazione.


Quanto al peculio profettizio, riguardo al quale il padre di famiglia
continuava ad acquistare la piena propriet secondo le antiche regole,
egli solo aveva la testamenti factio, e il figlio di famiglia non l'aveva.
Rispetto poi al peculio avventizio, siccome il padre di famiglia ne aveva
l'usufrutto e l'amministrazione, ed il figlio la propriet nuda; cos nem

meno per questo la legge accordava al figlio di famiglia la testamenti


factio. Soltanto alla morte del padre si consolidava nel figlio, che dive
niva sui juris il dominio utile colla propriet nuda, e quindi i beni che
formavano questo peculio non entravano nella massa ereditaria da divi
dersi in comune tra i figli.
Cosicch in sostanza nel Diritto romano la capacit di far testamento
era, come nei Codici moderni, conseguenza del diritto di propriet; ma

presentava l'aspetto di una particolare concessione della legge, in quanto


veniva assai ristrettamente riconosciuto il diritto di propriet in chi

non era peranco sui juris: per lo che il figlio di famiglia non era abi
litato a testare che pe i due peculi castrense e quasi castrense, su cui

non aveva alcun diritto il padre di famiglia, al quale unicamente ap


parteneva la propriet di tutto il patrimonio della famiglia, nel quale
entrava non solo il peculio profettizio, ma anche l'usufrutto del peculio
avventizio, e quindi a lui solo era, diremo cos, pienamente conceduta
la testamenti factio. E tanto vero che la testamenti factio seguiva il
diritto di propriet, che il forestiere, il quale non era ammesso alla pro

priet, non poteva far testamento.


Ma per vedere un po' chiaro in questo argomento dell'eredit con
viene risalire pi alto; e lasciate da parte le vedute dei legislatori e le
opinioni dei giureconsulti, esaminarlo da vari lati, perch dall'aver con
fuse insieme le varie forme di successione ne vennero, per nostro avviso,

le dispute in teoria, le assurde pretese dei nemici della propriet, e le


disposizioni soverchiamente restrittive e diffidenti che s'incontrano in
certi Codici intorno a questa materia, come p. e. nel Codice Napoleone.

La prima ricerca, quella sulla quale presso molti scrittori si aggira


tutta la discussione intorno al diritto di successione ereditaria, : se esso
sia o no fondato sul cos detto diritto naturale.

4 ,4

SAGGIO

Quelli che sotto questo nome intendono il complesso dei diritti che
competerebbero all'uomo, supposta una condizione di semplice ravvici
namento degl'individui senza vincolo di societ, e quindi partendo dal
l'idea di uno stato imaginario d'isolamento, vogliono dedurre il diritto
naturale da questa ipotesi, ben evidente che non possono trovarvi la
base del diritto di eredit. Dall'idea di quel cos detto stato di natura

possono ricavarsi alcuni diritti puramente individuali dell'uomo; ma


quando si comincia un poco a voler guardare anche alle relazioni di que
st'uomo nello stato vero naturale di societ, allora l'ipotesi assurda con
duce alle assurde conseguenze.
Ma inteso il diritto naturale, o meglio filosofico, come la scienza dei
-

diritti e doveri giuridici degli uomini considerati in tutte le loro natu


rali relazioni, non pu essere pi messo in dubio che i principi di ra
gione giuridica naturale debbano potersi applicare anche alla trasmis

sione dei beni, che servono agli usi della vita, dalla generazione che
passa a quella che sopraviene, dacch i principi universali del diritto
sono applicabili a tutte le necessarie relazioni degli uomini e delle cose.

Ma appunto perch l'argomento inchiude necessariamente l'idea di


una successione di persone, non pi possibile riferirlo all'individuo
isolato; necessit pensare ad una relazione di convivenza, nella quale

gl'individui che arrivano subentrano cogli stessi rapporti e diritti che


avevano tra loro gl'individui passati; poich la generazione successiva
non sorge che in seno della famiglia, la quale quella unit collettiva
che forma il germe e l'elemento della societ civile.
Con questa semplice considerazione alla domanda che fanno i giuristi
si risponde agevolmente, che la successione ereditaria fondata sul di
ritto naturale, inteso nel giusto senso di diritto filosofico; e di pi, che
non vi si possono applicare i nudi principi del diritto individuale o
privato.

Tutti i diritti che non sorgono dai semplici rapporti individuali degli
uomini, ma sorgono da quelli di convivenza civile, debbonsi ripartire in
due classi, come abbiamo gi mostrato (pag. 67); cio diritti che sorgono
dai rapporti sociali, e sono appartenenti alla societ tutta in modo che
da essa sola collettivamente possono essere esercitati; e diritti che sor
gono dai rapporti sociali a favore di ciascun individuo, in cui la societ
li riconosce e ne tutela l'esercizio al pari dei diritti privati.

Posto quindi che l'idea di perennit, inclusa in quella di successione,


non possa condurre ad ammettere il diritto di eredit come derivazione

PARTE I.

1 45

dai semplici rapporti privati degli uomini, si domanda se le cose abban


donate da chi muore debbano ritornare nella comunione negativa, ed
essere quindi del primo occupante; ovvero se dai rapporti di societ

civile possa nascere un diritto esclusivo a favore di taluno d'impadro


nirsene, e su qual titolo possa essere fondato.
fuori di controversia per tutti gli scrittori ragionevoli, che il ri
torno de'beni dei defunti nella comunione negativa ripugna all'indole e
al fine della societ; che sarebbe uno stato di lotta continua, anzich
uno stato di ordinata, tranquilla e progressiva convivenza, ove non os

sero regolate le successive trasmissioni della propriet di generazione in


generazione.

Rimane dunque soltanto la possibilit di ricercare nell'intima natura


della societ civile il fondamento di questo, come di tutti gli altri diritti
che da essa derivano, e le norme di ragione per disciplinarlo al pari di
tutti gli altri nella legge civile, la quale non pu creare diritti, ma solo
formularli e regolarne l'esercizio in ordine al fine razionale della societ.

Dovendo quindi aver luogo un diritto esclusivo di raccogliere le so


stanze abbandonate dal defunto, non possibile che sia determinato il

soggetto al quale questo diritto appartenga, se non col concorso della


volont manifestata da taluno.

Ora questa volont pu essere manifestata da nessun individuo, e al


lora la legge sola pu supplire con generali disposizioni; o pu essere
manifestata prima della morte da chi abbandona i beni che possedeva vi

vente; o in fine da questo e dalla persona stessa designata, che antici


patamente accetti la successione da verificarsi dopo la morte del pro
mittente.

Questi tre titoli, i soli che si possano pensare, i soli che le legisla
zioni civili sieno costrette ad ammettere, sono fondati nei rapporti giu
ridici tra gli uomini considerati come membri della societ, oppure sono

un semplice provedimento economico, suggerito dalla prudenza e giusti


ficato dal fine naturale della societ per evitare i mali che deriverebbero

dal ritorno delle private propriet nella comunione negativa in ogni caso
di morte?

Ecco, se non erriamo, il vero modo di proporre la questione.


Nell'una e nell'altra ipotesi il diritto di eredit sarebbe sempre on
dato nei rapporti di convivenza civile: ma nella prima questi rapporti
sarebbero la base di un diritto nascente dalle relazioni sociali, esercita
bile da ciascun individuo; nella seconda invece sarebbero la base di un
10

4 /6

SAGGIO

diritto collettivo della societ. Nella prima, cio, l'erede succederebbe,


e il testatore disporrebbe iure proprio; nella seconda per una delega
zione della societ che lo fa suo mandatario.

La scelta fra le due sentenze, e la soluzione quindi della questione,


dipende da una preliminare ricerca. Conceduto per un momento che la
societ e la legge sia quella che d al cittadino l'incarico di disporre
per causa di morte de' suoi beni, o d a taluno di preferenza il diritto di
raccogliere la sostanza di un defunto, potrebbe a suo arbitrio non con
ferire quest'incarico e non attribuire questo diritto?
Se si risponda che potrebbe non affidare questo mandato e non cone
rire questo diritto, ne segue l'una o l'altra di queste due conseguenze:

cio o che i beni possano alla morte del possessore ritornare nella co
munione negativa, ed essere del primo occupante; ovvero che la societ,

come persona morale, possa impadronirsi di tutti i beni, e farne un pa


trimonio publico. Nel primo caso l'ordine sociale immediatamente di
strutte, e diviene invece un campo di lotte perpetue per stare a caccia

delle propriet che ogni uomo abbandona morendo. Nel secondo la so


ciet civile diventerebbe una comunione di propriet e di beni, nella
quale l'autorit publica dovrebbe in poco tempo essere condotta alla ne
cessit o di fare una ripartizione tra i viventi, che di tanto in tanto si
rinoverebbe; ovvero di amministrare tutti i beni esistenti sul suo terri

torio, e dare a tutti il pane giornaliero, poich i mezzi di sussistenza

sarebbero tutti nelle mani della publica amministrazione. Nell'una e


nell'altra ipotesi distrutta l'attivit privata insieme colla privata pro
priet, tolto lo stimolo che promuove tutto l'andamento degli affari eco
nomici, e che dal movimento dei privati interessi fa sorgere la vita eco
nomica della societ, l'aumento della produzione, e la diffusione del ben

essere e dei mezzi di sussistenza merc le libere contrattazioni; l'iner


zia dell'individuo e in breve la mancanza delle sussistenze produrreb
bero lo sfacello della societ, la distruzione d'ogni idea di ordine e di
vita civile.

Il fine della societ e l'indole sua legano quindi troppo strettamente

la conservazione e il benessere della societ alla propriet privata, per


ch sia possibile imaginare la societ senza la conservazione e la tutela

di questa. Ma abolita l'eredit, necessariamente distrutta la propriet;


dunque propriet, eredit e fine dello stato civile sono cos connessi,
che senza eredit non pu essere propriet privata, e senza questa non
pu conseguirsi il fine civile.

PARTE I.

147

N queste considerazioni troppo evidenti conducono solamente ad


ammettere la necessit di determinare certe persone che debbano racco
gliere le sostanze di chi esce di questa vita, perch non si verifichi l'una

o l'altra delle conseguenze sovraindicate, che distruggerebbero tutto


l'ordine sociale. Poich quand'anche solo fosse tolta al cittadino la fa

colt di disporre de' suoi beni per atto di ultima volont, si produrrebbe
un tale arenamento nel corso delle cose economiche, ed una tale paralisi
della privata attivit, che se non al tutto distrutta la vita civile, certo

sarebbe grandemente turbato l'ordine sociale, e non punto proveduto al


conseguimento del fine della societ.

Si deve aggiungere eziandio, che rispetto all'argomento delle dispo


sizioni di ultima volont non bisogna dimenticare le ragioni della mora
le, che non solo vogliono essere rispettate, ma positivamente promosse

ed ajutate per rigoroso dovere giuridico, derivante dall'indole stessa


della societ.

- Ma rimanendosi pure alle pi semplici considerazioni giuridiche, se


l'indole, il fine e i rapporti naturali della societ le impongono il dovere
di rigorosa giustizia sociale di riconoscere il diritto di disporre per atto
di ultima volont, e di stabilire, in difetto di questo, un sistema di suc

cessioni intestate; forza conchiudere che l'autorit publica e la legge


essendo costrette dai rapporti di societ civile a riconoscere nell'indivi
duo cittadino il diritto di dare o di raccogliere l'eredit; questo diritto,
sebbene fondato nelle relazioni di convivenza civile, non uno di quei
diritti che appartengono collettivamente alla societ, ma di quelli che

appartengono all'uomo come cittadino. Non quindi l'autorit socia


le e la legge che lo deleghino ed attribuiscano al cittadino, poich dai

rapporti di societ sono costrette a farlo, e quindi in ultimo il citta


dino lo riceve in forza dei rapporti naturali di societ, come si det
to, e non gi in forza di una delegazione della societ, che in solidum lo
possegga.

Il testamento e il patto successorio, che non differiscono in sostanza

fra loro, razionalmente considerati, sono perci di diritto del cittadino,


fondato sui rapporti naturali di convivenza.
Ma quello stesso principio di ragione, che impone alla societ di re

golare il modo dell'esercizio degli altri privati diritti in relazione al suo


fine, e subordinatamente alla morale, conduce pur anco a riconoscere la

giuridica necessit di regolare eziandio la testamentificazione in vista


di questo fine con tanto pi di ragione, in quanto che l'ordine delle suc

1 48

SAGGIO

cessioni ha influenza sul futuro, e si appoggia ad una volont che non

pu essere pi n mutata n spiegata da chi la manifest.


Se non che l'argomento che d luogo a pi gravi considerazioni
quello delle successioni intestate, poich qu non avendo luogo manife
stazione di ultima volont, tutto si opera col ministero della legge. Ove
leggermente si considerasse l'argomento, sembrerebbero soddisfatte le
ragioni dedotte dall'indole e dal fine della societ, qualunque fossero le
persone chiamate dalla legge, e tutt'al pi il legislatore procurerebbe
di far concorrere le private affezioni col publico interesse (1). Ma nel
fatto la cosa procede tutt'altrimenti; poich se nei titoli di successione,
che importano una manifestazione di ultima volont, il fondamento si
trova nei rapporti generali della societ considerata come un tutto, nella
successione intestata la legge deve servire ai rapporti pi speciali, che

derivano dagli elementi stessi di cui la societ civile si compone.


A ben comprendere questa idea giovi richiamare un tratto l'attenzio
ne sopra la perpetuit della societ civile, che deve necessariamente du
rare quanto l'umanit.
L'uomo passa, e la societ rimane e si rinovella col succedersi delle

generazioni. Ma le generazioni non sottentrano l'una all'altra in massa


e tutto d'un tratto: la generazione nuova vien su a poco a poco, indi
viduo ad individuo, educata uomo per uomo, e distinta in tante piccole
societ elementari come la generazione precedente, che nel loro insieme

formano la societ civile, rapporto e stato perpetuo dell'umanit.


la famiglia che prepara il nuovo individuo e la nuova famiglia alla
nuova generazione, che lo conserva e lo educa approffittando dei sussidi
che le offre la grande famiglia civile in cui vive, e nella quale si con

serva l'ampio deposito delle cognizioni accumulate coll'opera dei secoli.


Per la famiglia la societ si perpetua, ed la famiglia nella quale sta
il germe sempre rinovato dell'umana societ.

Se l'umanit si rinovasse in massa, si potrebbe comprendere come in


massa potessero trasmettersi tutti i beni materiali da una generazione in

un'altra, che tra i suoi membri li ripartisse; ci che per altro darebbe
luogo a quel sovvertimento generale dell'ordine civile, che abbiamo so
pra notato. Ma se invece il fatto naturale si , che in ogni famiglia si
conserva e cresce il germe e l'elemento delle generazioni e delle societ

civili future, pur forza conchiudere che nella famiglia debba verifi
(1) Romagnosi, Opere, Vol. VII. pag. 85, S218.

PARTE I.

4 ,9

carsi la trasmissione delle propriet che serviranno alla sussistenza della


generazione futura.

La famiglia, considerata nella sua unit, presenta uno svolgimento


successivo di relazioni diverse, come gi notammo nel Capo antecedente.
Il primo suo fondamento il matrimonio, il primo ed immediato suo ef
fetto sono i figli; l'altro la consanguineit, legame naturale fra i di

scendenti dallo stipite comune; ultimo l'affinit, nesso delle famiglie che
s'innestano e si connettono l'una all'altra co'nuovi matrimonj. Il tempo
fa sparire un po' alla volta le tracce degli antenati, ed il vincolo della
famiglia si va indebolendo mano mano che le generazioni si succedono,

e che nuove famiglie si vanno formando. Ma finch la generazione nuova,


che sorge nella famiglia, convive cogl'individui della precedente genera
zione, i beni della famiglia servono alla sussistenza di quelli che vi ap
partengono, senza che la nuova generazione debba attendere lo scompa

rire degli autori de' suoi giorni prima di aver parte nell'uso dei beni.
Il dovere dei genitori di alimentare, di educare e di provedere in ge
nere ai bisogni dei figli correlativo al diritto di questi, che la societ

tutela e mantiene anche e specialmente nell'et in cui non potrebbero


chiedere ai padri loro questa partecipazione nei domestici beni. Pi che
la legge, i sentimenti naturali assicurano l'adempimento degli obblighi
della paternit.

Quando poi la morte rapisce alla famiglia il padre e la madre, la so


ciet domestica non per questo distrutta, ma continuano a sussistere
quei vincoli e quelle relazioni naturali che ne sono l'effetto; e sussistono
con tanta maggiore intensit, quanto pi prossimamente derivano dai
genitori defunti, che sono la causa e la fonte dalla quale scaturiscono.
Il principio dell'unit della famiglia, e della destinazione dei beni
alla sua sussistenza, combinato colla necessaria trasmissione dei beni
dalla generazione che passa a quella che sopraviene, la fonte di tutte
le norme giuridiche razionali rispetto alla successione che i Codici ap
pellano legittima.
L'unione conjugale sciolta per la morte di uno de'coniugi non di
strugge per il fatto, che il superstite membro della famiglia del de
funto, ed insieme al defunto la causa prossima della nuova generazione
che dal matrimonio fosse derivata. Come membro della famiglia, egli ha

dunque il diritto di parteciparne ai vantaggi, come deve sopportarne i


pesi; e perci ha diritto ad essere proveduto co'beni del defunto, che
sono beni della famiglia, la quale il coniuge superstite col matrimonio

150'

SAGGIO

concorse a formare. E questo diritto non pu essere modificato se non

da quello prevalente dei figli che formano la generazione immediata


mente successiva, e ai quali anch'egli tenuto a provedere, come autore
del loro giorni, co'beni che gli appartengono.
Ma di questi beni sono principalmente chiamati ad impossessarsi in

forza della doppia relazione naturale di discendenza da quei progenitori,


e di appartenenza a quella famiglia, i figli che ne provennero; e perci
necessit giuridica che nei figli passino, prima che in ogni altro, i beni
dei genitori, perch i figli sono la generazione immediata che succede a
quella che per essi pass nella persona di uno o di tuttidue gli autori
de loro giorni. Quindi , che la trasmissione dei beni del genitori nei
figli loro una conseguenza necessaria della perpetuit della societ ci
vile, e della continuata trasmissione dei beni da una generazione nella

susseguente. Se i Codici non chiamassero i figli eredi necessari, la ra


gione sola li dichiarerebbe tali.
Che se manchino i figli, non per questo distrutto ogni rapporto do

mestico, mentre tutti non sono padri, ma tutti sono figli, tutti apparten
gono ad una famiglia. Quindi se manca la immediata trasmissione dei
beni da una in altra generazione, non manca per n il diritto dei vi
venti sui beni della famiglia cui appartengono, n la trasmissione indi
retta nei discendenti della stessa famiglia.

Ma poich la causa di questo diritto sempre la derivazione da co


muni progenitori, cos esso sar tanto pi efficace, quanto pi prossimo
sar il vincolo che lega i superstiti ai genitori da cui derivano; dovr

cio sempre prevalere la famiglia immediata, cui appartengono, a quella


che varie famiglie legano ad una precedente; dappoich le famiglie pi
vicine sono pi prossime alle generazioni successive, alle quali in ulti
mo devono pervenire i beni in ciascuna famiglia.
Ora il defunto senza figli si trova sempre necessariamente nel mas

simo vincolo co genitori che gli sopravivono, e col fratelli che per av
ventura esistessero. La trasmissione de'beni suoi nei genitori e ne ra
telli di per s il mezzo pi adatto per ottenere il doppio scopo di
farli servire alla sussistenza dei membri, anzi della causa della famiglia

a cui apparteneva immediatamente il defunto, e di trasmetterli alla ge


nerazione successiva nella persona di quelli che insieme al defunto di

scendessero dai comuni genitori immediati. Il quale duplice fondamento


cos prossimo alla trasmissione necessaria dei beni ne discendenti, che
presenta il carattere della necessit mediata, cio del modo il pi na

PARTE I.

151

turale di far passare i beni nella generazione successiva, nel caso di


morte di un uomo senza figli, con sopravivenza dei genitori o d'uno di
essi, e di fratelli dai genitori medesimi procreati. Sono dunque razio
nalmente anche i genitori, insieme ai fratelli, eredi necessari in man
canza di discendenti del defunto.

Dunque la successione necessaria dei discendenti, e in mancanza di

questi la successione pur necessaria degli ascendenti e dei fratelli, e


quella stessa del coniuge, non si fondano sopra una disposizione puramen
te positiva, e quindi arbitraria o di pura convenienza della legge e del
publico potere; ma l'indole e i rapporti naturali della societ domestica
e della societ civile, perpetuantesi colle successive generazioni, ne costi
tuiscono il giuridico fondamento, che la legge dee riconoscere, tutelare

e disciplinare senza contradirvi giammai. Difetto di molte legislazioni


si di non applicare questi principi ai fratelli, che esistendo i genitori
non sono chiamati alla successione nemmeno semplicemente legittima.
E lo stesso duplice fondamento dell'unit della famiglia e della tras
missione dei beni dalla generazione che passa a quelle che sopraven
gono, razionalmente governa la successione legittima degli altri consan
guinei con intensit proporzionata alla connessione pi o meno prossima
colla causa della consanguineit, i comuni genitori. Poich la mancanza
di discendenti e la morte precedentemente avvenuta dei genitori non
tolgono l'idea essenziale della famiglia dalla quale il defunto, del cui
beni si tratta, ebbe la esistenza; mentre il vincolo che lo lega ai con
sanguinei , come notammo, appunto la conseguenza della comune ori
gine da un comune progenitore. Cosicch la legge civile, la quale chiami
i discendenti dello stipite comune a raccogliere le sostanze abbandonate

dal consanguineo morto senza discendenti, n ascendenti, altro non fa


che servire alle naturali esigenze della societ domestica e della civile,
tutelando la trasmissione dei beni ne discendenti di quella famiglia alla

quale appartenne il defunto, seguendo l'ordine naturale della prossi


mit al pi vicino stipite comune; onde, se non possibile direttamente,

avvenga almeno mediatamente il passaggio dei beni da una generazione


nelle successive, mano mano che queste vanno sorgendo in seno di cia
scuna famiglia.

Solo nel caso in cui l'origine troppo remota abbia resa impossibile
l'applicazione di questi principi, o per lo meno colla successiva divi
sione della famiglia primitiva siansi affievoliti i vincoli di questa per
modo che o in luogo del trapasso immediato o mediato dei beni nella

4 52

SAGGIO

generazione successiva avrebbe luogo pi presto una trasmissione di


beni in ordine inverso, ovvero si dovrebbero chiamare a succedere per
sone cos lontane d'origine da doversi parificare agli estranei; in tal
caso le razionali esigenze della vita civile e i conseguenti diritti della
posterit, che dalla societ, come persona morale permanente, viene

rappresentata, vogliono che la legge, escludendo questi remotissimi con


giunti, stabilisca il diritto della societ di occupare i beni rimasti va
canti per mancanza di disposizione d'ultima volont, o di chiamati alla
successione legittima. Con questo mezzo sono impediti i disordini che
comprometterebbero la tranquillit publica, ove si lasciasse ad ognuno
la facolt di occupare i beni per tal modo rimasti vacanti, e che ven

gono invece aggregati al publico patrimonio, d'onde la societ trae i


mezzi per sovvenire alle publiche necessit, sia in generale, sia destinan
doli ad uno scopo particolare di publica beneficenza.

La ragione sola non basta a segnare il limite, oltre il quale non pu


essere spinta la successione legittima. Per l'indole della societ civile
e il fine delle successioni rendendolo necessario, esso ricade nel novero

di tutti quegli altri oggetti, sui quali le positive determinazioni del


l'autorit sociale sono giustificate dal principio generale su cui si fon
dano, e dalla necessit di provedere alla tranquilla ed ordinata convi
venza, togliendo le occasioni di controversie repugnanti allo scopo della
societ civile.

Il corso ordinario della natura nel cancellare comunemente le tracce

della derivazione dagli stessi progenitori, e farne perdere la memoria,


pu guidare la legge nel fissar questo limite; come l'ordinaria epoca
della piena maturit di mente serve a determinare la maggiore et.
La doppia forma della successione, cio testamentaria e legittima,

ha il suo fondamento nei naturali rapporti e fini della societ dome


stica e della civile. Ma la societ civile, avente un fine pi generale
della societ domestica, se da un canto non pu n distruggere l'essenza
della famiglia, ch' il suo elemento, n togliere i diritti di ogni uomo
come cittadino, rispetto alla disposizione dei propri beni per causa di
morte; deve dall'altro conciliare i diritti della famiglia con quelli del
l'individuo testatore. I principi generali che stabiliscono il diritto e il
dovere del publico potere sociale di moderare l'esercizio di ogni diritto,

e di regolarlo quando e fino a quel punto che le necessit razionali della


convivenza lo richiedono, si devono quindi applicare anche all'eredit
di tutte le forme.

PARTE I.

1 53

Perci, salvo il diritto della famiglia, e salvo quello del testatore,


appoggiato al fine pi generale della societ civile, in confronto della
domestica, dovranno aver luogo quei reciproci temperamenti che le
necessarie relazioni tra la societ domestica e la civile rendono in

dispensabili.

- , i

Quindi tutte le volte che si verifichi il fatto dell'esistenza di discen

denti del defunto non si potr attribuire tanto valore alla disposizione
testamentaria, ch'egli avesse lasciata, da contradire al principio della
trasmissione de'beni alle generazioni successive. La legge adunque do
vr rispettare nell'uomo la disposizione testamentaria fino a tanto ch'egli
abbia rispettato questa legge naturale della perpetua societ civile e
della domestica insieme, che attribuisce alle generazioni successive la
propriet dei beni di quella societ elementare d'onde derivarono.
La facolt di far testamento deve dunque coesistere colla successione

dei discendenti. Per coesistere bisogna che il testamento non possa sot

trarre ai discendenti che una porzione delle sostanze paterne. Una por
zione di queste deve quindi necessariamente essere intangibilmente ser
bata ai discendenti: ci che le leggi chiamano porzione legittima, d'onde
l'idea degli eredi necessari, nel senso delle legislazioni moderne.

Anche qu, come nel caso accennato poco fa, i puri principi di ra
gione non varranno a determinare questa quota in generale, come non
servono a determinare l'istante in cui ogni individuo diviene capace
del pieno esercizio de' suoi diritti e di assumere obbligazioni; ma i
principi di ragione dimostreranno che a togliere ogni controversia in

torno alla quantit che in relazione alla maggiore o minore massa dei
beni paterni pu essere lasciata a libera disposizione del testatore, la

legge la fissi determinatamente per la stessa ragione per la quale ne.


cessario stabilire un limite comune della maggiore et.

vaa

Ci sembra per altro che sarebbe assai conforme ai principi di ragio


ne quella legge che non la stabilisse in una quota proporzionale asso
luta, ma con una gradazione tale, che tanto minore quantit lasciasse
alla libera disposizione del padre, quanto maggiore fosse il numero dei

suoi figli (1); e ancor pi limitata quando di essa il padre volesse dis
(1) Sebbene i principi razionali rimangano fermi, ad onta delle disposizioni po
sitive dei Codici che non vi si conformassero, e indipendentemente dalle applica
zioni che se ne fossero fatte, tuttavolta sommamente interessante il mostrare come

la dottrina qu esposta fosse praticamente seguita, almeno in parte, in molte legisla


zioni civili di tempi e popoli diversi.

1 54

SAGGIO

porre a favore di persone diverse dai figli. Egli ben vero che i prin
cipi generali non possono patire eccezioni dipendenti da circostanze
affatto accidentali, e che non sono inchiuse nel rapporto razionale da
cui derivano quei principi; e che quindi la circostanza accidentale, che
i figli abbiano o no beni propri altronde acquistati, non deve influire
Il Diritto romano stabiliva la legittima dei figli in tre once, ossia la quarta parte
della sostanza. Giustiniano colla Novella XVIII. la port a quattr'once, ossia al ter
zo, nel caso che i legittimari fossero sino a quattro; e a sei once, cio alla met,
quando fossero quattro o pi.
Il Codice francese lascia disponibile al padre la met de' suoi beni, se alla sua
morte non lascia che un solo figlio legittimo; un terzo, se ne lascia due; un solo

quarto, se ne lascia tre o pi. Quindi la legittima dei discendenti , secondo i casi,
la met, due terzi o tre quarti della sostanza del disponente. La legittima degli
ascendenti in mancanza di figli un quarto della sostanza per ciascun ramo pater
no e materno, senza reversibilit dell'un ramo all'altro, essendo disposto che il
testatore abbia la libera disposizione di tre quarti della sostanza, se lasci ascendenti
di una sola linea (art. 913. 915).
Il Codice della Luigiana mantiene in massima la differenza, ma non la misura

del francese, perch fissa la porzione legittima a un terzo dei beni del disponente se
lascia un solo figlio legittimo; alla met, se ne lascia due; e a due terzi se ne lascia

tre o pi. Pe'l padre e la madre la legittima sempre la met, sia che ne sopraviva
uno solo o tutti due al figlio morto senza discendenti (art. 1480. 1481. 1482).

Il Codice olandese (art. 961) si accorda coll'art. 913 del Codice francese: quan
to agli ascendenti fissa la legittima alla met della porzione ereditaria cui la legge
li chiama (art. 962), e ch' diversa, secondo il numero dei fratelli del morto chia
mati alla successione intestata insieme co genitori, in mancanza di discendenti
(articoli 901-902).

Il Codice del Ducato di Parma (art. 641) fissa la legittima ad un terzo dei beni
quando il disponente lasci un figlio legittimo e naturale o legittimato; alla met se
ne lascia due o tre; e a due terzi quando ne lascia un numero maggiore. Per gli
ascendenti la legittima sempre la met della sostanza, sia che sopravivano entram
bi i genitori, sia che ne sopraviva uno e qualche ascendente dell'altro, ovvero ascen
denti di tutti due che fossero premorti. Qualora per sia superstite uno solo dei ge
nitori, ovvero ascendenti di una sola linea, la legittima un quarto (art. 644.645.
646.647.648).
-

Il Codice sardo fissa la disponibile a due terzi, e quindi la legittima ad un terzo


dei beni del disponente, se lascia alla sua morte uno o due figli legittimi o legitti
mati; e alla met, se ne lascia un maggior numero (art. 719). Per gli ascendenti la

legittima un terzo dei beni del defunto senza figli, reversibile interamente all'uno
dei due rami che si trovasse pi prossimo (art. 723-724).

Il Codice bavarese la determina per tutti gli eredi necessari, discendenti, o in


difetto di questi ascendenti, ad un terzo della successione; e alla met, se sono cin
que o pi (Lib. III. Cap. III. SS 14-15).

Il Codice prussiano la stabilisce pe'i discendenti ad un terzo di ci che avreb


bero conseguito ab intestato, se i figli sono uno o due; alla met, se sono tre o quat
tro; e a due terzi, se sono in maggior numero. Per gli ascendenti sempre la met

di ci che avrebbero conseguito ab intestato (Tit. II. Parte II. SS 392.502). Asse

PARTE I.

1 55

nella misura della legittima, che deve fondarsi sopra i fatti comuni: ma,
vero altres che il principio generale del necessario contemperamento
delle due forme di successione, testamentaria e legittima, dev'essere
conforme al fine generale della societ domestica e della successione ne
gna poi anche al coniuge una porzione legittima, ch' la met di ci che avrebbe
conseguito ab intestato (Tit. I. Parte II. S 631).
Sotto un altro aspetto vuol essere considerato il Codice svedese del 1734 (Ti
tolo Delle successioni, Cap. XVII.), improntato di un carattere suo proprio, che lo

distingue da tutti quelli degli altri paesi d'Europa, che hanno pi o meno sentito
l'influenza del Diritto romano. Questo Codice, quanto ai beni rurali patrimoniali,
ossia ereditati, spinge la cosa fino al punto da interdirne la libera disposizione per
testamento; e nel caso di vendita che li abbia fatti gi passare in propriet di un
terzo, vuole che siano sostituiti con altrettanti beni acquistati dal defunto che li
avesse venduti, e in difetto con un equivalente in denaro, o mobili o beni urbani,
che tenga luogo di eredit patrimoniale per l'erede cui spettano; alla morte del
quale il denaro, i mobili e i fondi urbani riprendono la loro qualit originaria, e non
divengono quindi beni patrimoniali. Oltre a ci, gli eredi hanno il diritto di retratto
lineare, ossia di ricuperare i beni patrimoniali venduti dal loro autore, o da esso

ricuperati e lasciati a taluno come legato, pagando il solo prezzo di costo e i miglio
ramenti necessary.

Ma, per una contradizione difficile a spiegarsi, i beni acquistati, sempre par
lando dei rurali, e i mobili sono lasciati a libera disposizione, per modo che potreb
bero essere esauriti interamente coll'atto di ultima volont. Nessuna legittima pe' i
figli; solo nel caso che non esistano beni patrimoniali, e vi siano figli minori, il giu
dice deve prelevare sui legati quel tanto che sia necessario alla loro educazione e
sostentamento.

E tanto meno si pu comprendere questo obblio delle ragioni dei figli sopra
una specie di beni, mentre si d tanta forza alla conservazione dei beni patrimoniali
nella famiglia; in quanto che, rispetto ai beni di citt, pe'i quali non ha luogo al
cuna distinzione, questo Codice stabilisce la legittima dei figli a cinque sesti della
sostanza paterna; e, di pi, non lascia a libera disposizione del testatore che la met

de' suoi beni, se in mancanza di figli abbia altri eredi abitanti il paese. La differenza
fra le due specie di beni, quanto alla successione, si appoggia in sostanza sulla no
bilt connessa co possessi rustici, e quindi tiene ad un principio politico. Altre dis

posizioni introducono differenza fra le quote dei fratelli, secondoch sono maschi
o femine (Delle successioni, Cap. II. S 1); differenza un tempo comunissima, ora
molto rara nei Codici, che si trova per anche nel recentissimo Estense (art. 911
e seguenti).

Questo esempio, ed altri che se ne potrebbero addurre, e segnatamente quello


gi noto dell'Inghilterra, dove gl'immobili passano tutti al solo primogenito, ci av
vertono della influenza ch'ebbero ed hanno troppo spesso le forme di reggimento, e
le idee politiche sopra le leggi giuridiche, che ne dovrebbero essere affatto indipen
denti. Poich le forme di governo, e le classificazioni dei cittadini che possono esserne

la conseguenza, sono effetto di fatti positivi, soggette a variare secondo i tempi e i


luoghi, e pur giuste egualmente quando in s e nei fatti che loro diedero vita nulla
abbiano di contrario alla ragione giuridica. Ma i principi di giustizia sono essenzial
mente costanti ed universali, perch hanno il loro fondamento negli attributi del

156

SAGGIO

cessaria dei discendenti, per provedere alla sussistenza delle generazioni


successive co'beni delle famiglie nelle quali rispettivamente vanno sor
gendo, e alle quali di pieno diritto devonsi trasmettere.
A stringer vie meglio i vincoli della famiglia, che sono immensamente
influenti sul fine della societ, e a raffermare quei doveri giuridici e
morali che incombono ai figli verso i genitori e i prossimi consanguinei,

sono rivolte le leggi che limitano la facolt di disporre per testamento,


assicurando una quota legittima anche ai genitori sui beni del figlio
morto senza discendenti, e che dovrebbero assicurarla anche ai fratelli.

Questa limitazione per non giustificata da quei soli fondamenti re


moti, ma vi si uniscono eziandio altre ragioni: cio la destinazione dei
beni alla sussistenza della famiglia, e quindi di chi m' la causa d'onde
deriva; e l'essere il pi prossimo dei modi mediati, con cui pu seguire
la trasmissione dei beni alla successiva generazione, quello che si veri
fica coll'organo delle persone che insieme al defunto discendono da co
muni genitori, venendo affrettato in tal guisa il momento del passaggio
dei beni alle sopravenienti generazioni.

E sotto questo punto di vista, che si fonda sui principi generali su


periormente dimostrati, la legittima dei genitori non solo dev'essere
pi ristretta, perch non si fonda direttamente sul fine delle domestiche

successioni, come la legittima dei figli; ma non dovrebbe nemmeno de


terminarsi in modo assoluto nel caso della esistenza di altri figli, con
l'uomo, e nei rapporti che se ne deducono considerandolo come individuo, e come
membro della societ domestica e civile. E siccome le variet delle forme di gover
no non cambiano n la natura umana, n la essenza dei rapporti famigliari e civili;

cos le leggi giuridiche non devono essere soggette a sostanziali differenze. un


fatto, che in molte legislazioni ha troppo influito la forma politica a scapito della
giustizia; ma sono un fatto eziandio i tristi effetti che ne seguirono, tanto pi gravi,
quanto meno alcuni errori legislativi furono da altre providenze corretti. L'Inghil
terra, nella quale a fianco di una insultante opulenza sussiste uno spaventoso prole

tariato, e che unico fra i paesi inciviliti del mondo presenta intere popolazioni che
muoiono di fame, un esempio solenne degli effetti che producono gl'ingiusti vin
coli della propriet, gli ostacoli posti all'equa distribuzione delle ricchezze special
mente col mezzo di un buon sistema di successioni ereditarie, e il porre la forma po
litica sulle bilance della giustizia, rompendone l'equilibrio. Per l'opposto la condi
zione migliore, e non soggetta alle crisi e ai pericoli minaccianti l'esistenza d'intere
popolazioni, che presentano altri popoli dove le leggi si sono meglio conformate ai
principi di ragione, fanno aperti gli effetti salutari che dalla rispettata giustizia de
rivano anche nell'ordine economico. Egli principalmente dietro queste vedute che

lo studio della legislazione comparata, fatto come conviene, riesce sommamente


lStruttivo.

PARTE I.

457

che verrebbe tanto pi limitata, quanto maggiore fosse il numero dei fra
telli ossia condiscendenti dai comuni genitori, che insieme co genitori
stessi sopravissuti dovrebbero essere chiamati alla successione necessa

ria in mancanza di discendenti, come abbiamo sopra notato (1). Rispet


(1) Si converrebbe in qualche modo con questa dottrina la disposizione del Di
ritto romano, che accorda la querela d'inoiciosit anche ai fratelli e sorelle, se nel
testamento istituita erede persona turpe; e ancor meglio la Novella CXVIII., che
chiama alla successione intestata insieme co genitori anche i fratelli bilaterali, seb

bene non assicuri ad essi una porzione legittima. Alcuni Codici moderni hanno pure
adottato questo sistema, di chiamare cio i fratelli alla successione legittima in con
corso dei genitori superstiti, e non soltanto in loro mancanza, come si fece in altre
legislazioni. Questa vocazione simultanea dei fratelli co' genitori, salvo le speciali
differenze nel modo e nella misura, si trova nel Codice francese, art. 748; nel Co

dice olandese, art. 901-902; nel Codice sardo, art. 936; nel Codice parmense, ar
ticolo 844; nel Codice delle due Sicilie, art. 671; nel Codice estense, artic. 921;
nel Codice bavarese (successione degli ascendenti, S9); e nel Codice del Cantone
di Vaud, art. 533. Tutti questi Codici, meno l'olandese, il bavarese, e quello di
Vaud, ammettono alla successione intestata il padre, madre ed ascendenti esclusiva

mente, quanto alle cose da essi donate al discendente premorto, ed esistenti in


natura, talvolta per sotto certe condizioni (Codice francese, art. 747; sardo, arti
colo 937; di Parma, art. 845; estense, art. 922; e delle due Sicilie, art. 670).

per cos diverso il modo di vedere delle legislazioni positive su questo pun
to, che mentre alcuni Codici non chiamano i fratelli in concorso dei genitori, ma

per subito dopo di essi, e come loro rappresentanti, escludendo gli altri ascenden
ti; come p. e. il Codice austriaco, S 735; e il prussiano, S 489: questo per limita
tamente ai fratelli germani, perch i fratelli uterini o consanguinei condividono

cogli ascendenti, mancando i genitori (S 493); altri Codici per lo contrario insie
me co' fratelli chiamano alla successione generalmente anche gli ascendenti, o al

meno il pi prossimo, e financo danno la preferenza agli ascendenti sui fratelli.


Cos il Codice di Parma (art. 844) chiama bens, come si detto, i fratelli in con
corso dei genitori; ma chiama pure gli ascendenti insieme col fratelli. Il Codice
delle due Sicilie (art. 671), mancando tuttidue i genitori, chiama co' fratelli l'ascen

dente pi prossimo. E il Codice del Cantone Ticino spinge la cosa al punto, che nel
l'art. 452 chiama alla successione intestata non soltanto i genitori, ma gli ascenden
ti; e nei successivi articoli 453. 454 chiama ad una parte dell'eredit i fratelli nel

solo caso ch'esistano ascendenti della sola linea paterna, o della sola materna:
cosicch i fratelli nulla conseguono della sostanza abbandonata dal fratello defunto
senza discendenti, se non nel caso che siano estinte una o entrambe le linee ascen
denti. Strana disposizione, che non si potrebbe certamente giustificare.
Il Codice di Svezia attribuisce, come si veduto, per certi beni e sotto certe

condizioni una legittima agli eredi indistintamente, in mancanza di discendenti;


ma non chiama alla successione intestata i fratelli se non dopo i genitori, e come

rappresentanti di uno o di entrambi, secondoch siano fratelli unilaterali o bilate


rali. Per, quanto ai beni di campagna, la porzione del fratello due terzi, e della
sorella un terzo della successione. Il principio della rappresentanza seguito assai
estesamente nel Codice svedese, al quale in ci si assimiglia il Codice austriaco,
per con alcune differenze che qu non occorre accennare.

4 58

SAGGIO

tivamente poi la quota disponibile dovrebbe essere pi limitata nel caso


che il testatore volesse disporne a favore di estranei, di quello che se

volesse lasciarla di preferenza a taluno dei genitori o fratelli superstiti.


Per quello che diciamo de'fratelli in questo caso non si potrebbe
estendere ai consanguinei pi remoti; e le stesse ragioni che poco sopra
abbiamo addotte per mostrare la necessit di escludere anche dalla suc
cessione legittima i consanguinei troppo remoti valgono eziandio a sta

bilire il principio, che la facolt di disporre di tutti i propri beni per


testamento, fondata sul rapporto generale e sul fine della societ civile,
non dev'essere ristretta coll'attribuire il carattere di eredi necessari a

quelle persone che non si trovano in questo contatto immediato co ge


nitori comuni, sebbene abbastanza vicine per dover essere chiamate alla

successione legittima. E tanto pi ci si vede chiaramente dover avve


nire, dappoich non solo le nuove famiglie, che si vanno formando, a
poco a poco cancellano le tracce dell'unit della famiglia da cui i loro
individui rispettivamente derivarono, e rende quindi meno efficace il
vincolo domestico a restringere la libera testamentificazione, fondata sul

costante rapporto e fine della societ civile; ma di pi un po' alla volta


cessa eziandio il fine naturale della successione domestica, mentre le
nuove famiglie e generazioni si procurano i mezzi di sussistenza colla
propria attivit, e li trovano nella massa sempre crescente dei beni che
vengono mediante il lavoro prodotti, e mediante il commercio delle cose

e delle opere distribuiti in servigio e soddisfazione dei bisogni degli


uomini. Quanto ai doveri che possono in tal maniera derivare dalla mo
rale, conviene rimettersi alla privata coscienza.
Noteremo di passaggio anche una massima del diritto consuetudinario della

Francia in materia di successioni intestate, la quale si esprimeva coll'adagio: pa


terna paternis, materna maternis; o in altri termini, che i beni acquistati per suc

cessione non risalgono: vale a dire, che il padre e gli ascendenti paterni non suc
cedono nei beni dai loro discendenti acquistati per eredit materna, e che dicevansi
beni propri materni; e reciprocamente la madre e gli ascendenti materni non suc

cedono nei beni pervenuti ai loro discendenti per eredit del padre, e che si chia
mavano beni propri paterni. Questa massima dell'antica giurisprudenza, abolita
dall'art. 732 del Codice francese, che dichiara non aversi riguardo nelle succes

sioni n alla natura, n all'origine dei beni, applicandosi al caso che il discendente
defunto non abbia eredi collaterali, potrebbe sembrare conforme al principio della
trasmissione dei beni ne' consanguinei d'una stessa famiglia, mentre il sistema op
posto li fa passare in un'altra. Cos appunto la pensa il Domat (Leggi civili, Parte II.
Delle successioni, Prefazione IV). Ma una volta verificatasi la successione, il discen
dente gi divenuto proprietario: morto lui, si tratta della successione ne' beni

suoi, qualunque sia il modo legittimo con cui li acquist.

PARTE I.

159

Pertanto la dottrina razionale delle successioni tutta appoggiata sul


principio della unit della famiglia, e della necessaria trasmissione dei

beni nelle generazioni successive coll'organo della famiglia: questo il


fondamento che deve rimaner sempre fermo, perch l'indole e il fine

della societ domestica tutto razionale, ed essa la prima base della


societ civile; per cui la successione dei beni nella famiglia si fonda sul
pi elementare dei rapporti sociali, e tocca il confine dei diritti indivi

duali, come appunto la famiglia lo stato intermedio tra il

puro rap

porto individuale e il rapporto di societ civile.


Questo diritto di successione domestica viene moderato nel suo eser

cizio coll'altro della testamentificazione, fondato sui rapporti generali


di societ civile; ma non pu essere sovvertito, perch il rapporto di

societ civile fa sorgere bens dal suo seno diritti che da altri rapporti
non deriverebbero, ma non pu distruggere diritti sorgenti da altri rap
porti naturali, i quali anzi deve proteggere, moderandone soltanto l'eser
cizio in quanto richiesto dal suo fine.

Ed cos vero che la societ domestica la prima base dell'ordine


sociale, che le leggi civili si videro condotte ad ammettere un modo

artificiale di formare la famiglia, autorizzando l'adozione. Questo rap


porto legale, ammesso dalle legislazioni positive, che presta talvolta oc
casione ad atti di beneficenza; che favorisce i sentimenti amichevoli tra
le famiglie; che procura un conforto nella mancanza di figli propri, e

che per s non importa alcuna offesa alla giustizia e alla moralit; non
offre alcun motivo di riprovarlo: tanto pi che non una obbligazione
imposta a nessuno, ma il riconoscimento e la tutela di un atto libero,
buono in s stesso, e cooperante al fine della societ.
Ma la forza dei principi stabiliti tale e tanta, che nemmeno questo
atto, che fonda una famiglia legale, pu fare eccezione alle loro naturali
conseguenze.

L'adozione infatti, considerata quanto alla trasmissione dei beni, si


riduce in sostanza ad un implicito patto successorio, dando all'adottato

un diritto alla successione senza bisogno di altro patto speciale o dispo


sizione di ultima volont.

Ma come il patto successorio non pu ledere i diritti della legittima


spettante ai discendenti o agli ascendenti, cos nemmeno pu lederli

l'adozione, che cesserebbe di essere un fatto giusto dal momento che of


fendesse i diritti dei terzi. Quindi l'adozione dev'essere nelle leggi po
sitive ordinata in modo che non diminuisca i diritti di successione della

SAGGIO

4 60

famiglia naturale dell'adottante pi di quello ch' consentito dal giusto


contemperamento delle due forme di successione testamentaria e legitti
ma, di cui sopra fu detto.
i 1,
i e -i

Perci i diritti di successione spettanti al coniuge, ai genitori e ai


-

fratelli dell'adottante, non potrebbero essere tolti n menomati dall'ado


zione al di l della quota disponibile determinata entro i limiti e se

condo i principi esposti; n all'adottante e a suoi potrebb'essere attri


buito il diritto di successione intestata o di porzione legittima sui beni

dell'adottato premorto senza discendenti, in pregiudizio della famiglia


naturale a cui l'adottato appartiene per fatto indistruttibile,
A convincersi che cos dev'essere, secondo i principi di ragione,
giova riflettere che se l'adottante gi morto, tutto ci che l'adottato
avesse conseguito della sostanza del padre adottivo, entro il limite che

il rispetto dei diritti de terzi consente, gi divenuto sua propriet;


n il vincolo dell'adozione, dipendente da un semplice rapporto perso
male fra l'adottante e l'adottato, potrebb'essere pi efficace dei legami
naturali di famiglia, per attribuire ai parenti dell'adottante un diritto

prevalente, in confronto dei consanguinei dell'adottato, sui beni da que


sto, comunque siasi, legittimamente acquistati (1). Se invece il figlio
adottivo muore prima senza discendenti, nemmeno l'adottante che so
pravive potrebbe far prevalere il rapporto convenzionale che sussisteva
tra lui e l'adottato sopra il vincolo naturale che lega il figlio alla fami

glia nella quale ebbe la esistenza. Quindi l'adottante non potrebb'essere


chiamato a succedere nei beni dell'adottato, che dovrebbero invece pas
sare a chi di ragione nella famiglia sua naturale. Soltanto quello che
l'adottato avesse vivente conseguito dall'adottante, e non fosse stato da
lui consumato, potrebb'essere ripreso dall'adottante; poich estinguen

desi l'adozione per la morte di chi n'era l'oggetto, non irragionevole


che ne cessino anche gli effetti, dei quali non sussisterebbe pi la causa.

Rimane ad esaminare il caso, che dopo l'adozione all'adottante na


scessero figli legittimi.

Le leggi civili non autorizzano l'adozione che per le persone arri


vate ad una et alquanto avanzata, e superiore a quella dell'adottato:
ci conforme alla natura e allo scopo dell'adozione. Ma nel fatto il
(1)

Gl'impedimenti al matrimonio, che nascono dall'adozione, si fondano sopra

gravissime ragioni di privata e publica moralit, che sono cosa tutta diversa dai
rapporti di diritto risguardanti i beni delle rispettive famiglie.

PARTE I.

461

limite dell'et non pu essere cos sicuramente determinato da escludere


la possibilit di avere figli naturali e legittimi. Ove questi sopravengano,

egli chiarissimo che la famiglia naturale dovendo prevalere sopra il

semplice fatto convenzionale dell'adozione, non potrebbero essere punto


menomati i diritti dei figli legittimi. La trasmissione dei beni nell'adot

tato dovrebbe quindi sussistere in quel modo e in quella misura in cui,


secondo il diverso numero dei figli legittimi, potrebbe sussistere l'effetto
di una disposizione testamentaria.

Questo caso per dovrebb'essere molto raro, ove l'adozione si rego


lasse non tanto sull'esempio di anteriori legislazioni positive, quanto

sulle norme della ragione, dedotte dall'indole giuridica e morale della


famiglia, e da suoi rapporti colla societ.
La conservazione della societ l'opera della famiglia; l'importanza

della quale non deriva soltanto dal fatto materiale della riproduzione,
che pu avvenire anche fuori di essa, ma riposta nella necessit giu
ridica e morale, che l'atto pi importante della vita esteriore non acco

muni l'uomo al bruto, e l'individuo riprodotto sia anche educato alla


moralit e alla convivenza socievole: cosa che non potrebbe in generale
ottenersi senza la famiglia. Ma se il solo fatto materiale della riprodu
zione non il fondamento dei rapporti giuridico-morali della societ

conjugale e domestica, e della sua importanza nella societ; non per


da dimenticare che la riproduzione delle generazioni condizione ne
cessaria perch sussista la societ, la quale si distruggerebbe tosto che
non nascessero nuovi individui a tener luogo di quelli che passano di
questa vita.

- -

Da queste premesse, gi sviluppate nel precedente Capo, viene spoil


tanea la conseguenza: che la famiglia artificiale formata coll'adozione
non essendo riproduttrice di nuove persone, ha un'importanza, rispetto
al fine della societ, molto inferiore a quella della famiglia naturale,

sebbene possa concorrere alla conservazione ed educazione del figlio


adottivo al pari della famiglia naturale.
Quindi perch l'adozione riesea ordinata conforme all'indole e a
e

fine della societ civile, deve ammettersi sotto le condizioni necessarie


a serbare la subordinazione intrinseca della famiglia artificiale alla na
turale; ad impedire le discordie, i disordini e i danni dei terzi; a to

gliere ogni ripugnanza col principi che la giustificano e collo scopo suo;
e ad ovviare il pericolo che riesca fomento all'immoralit.

Queste condizioni possono facilmente ridursi ai seguenti capi:


11

M 62

.SAGGIOI

M. Che non siano attribuiti all'adozione effetti lesivi dei diritti

della famiglia naturale e del suoi individui gi esistenti, o che nascessero

poi dal matrimonio prima contratto dall'adottante, o da quello che in


seguito egli potesse contrarre. In forza di questo canone la porzione le
gittima dei figli, determinata secondo le norme superiormente dimostrate,
dovrebbe rimanere intatta, e l'adozione dovrebbe avere l'effetto di li
mitare soltanto la disponibile del padre, per serbarne una quota a titolo
di legittima dell'adottivo.
- 2. Che non sia consentita la facolt di adottare a chi abbia figli

legittimi propri, e a chi sia in et e condizioni da poterne avere; e ci


pe'l doppio motivo: di non recar danno alla famiglia naturale; e di non

aprire l'adito alla confusione e alle discordie domestiche, le quali ripu


gnano all'ordine delle famiglie.
-

3. Che non sia consentita a chi si trovi nell'incapacit legale di


contrarre valido matrimonio e d'aver figli legittimi, in conseguenza di
un volontario vincolo morale liberamente impostosi, ci importando una
contradizione; e molto pi rispetto ai figli adulterini e incestuosi, ed
anche ai naturali che potessero essere legittimati per susseguente ma

-trimonio: perch altrimenti la speranza della futura adozione dei figli


illegittimi potrebb'essere incentivo all'immoralit, e difficultare il rime
dio del susseguente matrimonio.
4. Che si esiga inoltre nell'adottante un'et pi provetta dall'adot
tato, perch il figlio adottivo divenendo per patto erede necessario, non
sarebbe, senza questa condizione, rispettato il principio razionale della

trasmissione dei beni alla generazione successiva, ch' il fondamento

delle successioni legittime, e specialmente delle necessarie (1).


(1) Molta variet presentano i Codici civili nel sistema che rispettivamente se
guirono intorno all'adozione, quantunque si accordino nelle massime fondamentali

risguardanti la successione degli adottivi.

Le disposizioni delle leggi positive su questo punto vogliono essere esaminate,


in relazione ai principi di ragione risguardanti le successioni, sotto due punti di vi
sta: cio dal lato delle condizioni, e specialmente dei limiti di et, che si richie

dono alla validit dell'adozione; e, dal lato dell'influenza dell'adozione sui diritti
della famiglia naturale.

Nel Diritto romano non solo antico, ma anche Giustinianeo, l'adozione distinta,
com' notissimo, in adozione propriamente detta e arrogazione, ed ben lungi dal
: l'essere ordinata in modo pienamente conforme ai principi di ragione; anzi fra le
tante disposizioni del Jus romano su questo punto se ne trovano di quelle che non

si possono affatto giustificare: conseguenze dell'idea romana della patria potest, e


della sua eccessiva estensione rispetto alle persone, alla durata e ai beni. L'avere

PARTE I.

103

i Tutto ci conferma sempre pi la verit e la somma importanza di


quel grande principio, che non si deve stancarsi mai di ripetere, perch
sovr'esso riposa la verificazione della giustizia, il rispetto della legge e

dell'autorit che la emana, la pace, la prosperit e il progresso nel


gi figli propri, nati da giuste nozze, non un impedimento assoluto e costante al
l'adozione di un figlio (Dig. Lib. I. Tit. VII. 17.); e non lo nemmeno a quella di

un nipote, mentre questa pu avvenire anche senza il consenso del figlio: salvo che
in questo caso l'adottato come nipote non ricadrebbe sotto la potest del figlio del
l'adottante dopo la morte di questo; ci che invece avverrebbe se il figlio avesse
consentito all'adozione (ibid. 10. 11). All'adottivo erano bens riserbati i diritti

.verso la famiglia naturale, e la sua dignit non poteva essere diminuita, s bene ac
cresciuta dall'adozione (Instit. Lib. I. Tit. XI. 2. Cod. Lib. VIII. Tit. XLVIII. 10.

Dig. Lib. I. Tit. VII. 35); ma nell'arrogazione tutti i beni attuali, o in sguito
acquistati dal padre di famiglia arrogato, passano per tacito diritto all' arrogante

(Dig. Lib. I Tit. VII. 15), salve le restrizioni nel caso che l'arrogato sia impubere;
le quali per peccavano di un eccesso opposto, mentre la quarta Antonina, assicu

rata agli impuberi arrogati, rendeva in certi casi la loro condizione migliore di quel
la dei figli legittimi, assicurando ad essi una porzione maggiore della legittima di
questi. Su di che pu vedersi il Voet a questo titolo, che trova bella e buona tale

disposizione; che per, sia detto con sua buona pace, non fa che aggiungere un as
surdo di pi a quello di acconsentire l'adozione a chi ha gi figli propri. Che l'adot
tante avesse diciotto anni pi del figlio adottivo (ibid. 40), e che l'adozione del figlio
di famiglia dovesse essere confermata dall'autorit del magistrato (ibid. 2.), sono
condizioni richieste nel Diritto romano, come nelle recenti legislazioni. Speciale ad
esso si l'autorit del Principe chiamata ad intervenire per l'arrogazione dell'adot
tivo sui juris (ibid.).
Ma lasciando il Diritto romano, i Codici moderni non tutti ammettono l'ado

zione, o non la ammettono colla medesima estensione. Il Codice della Luigiana, per
esempio, la abol interamente (art. 232). Il Codice francese la consente soltanto ri
spetto all'individuo, al quale si abbiano prestati soccorsi e cure non interrotte du
rante la sua minore et, e per sei anni almeno; ovvero che abbia salvata la vita del
l'adottante in un combattimento, o traendolo dalle fiamme o dall'aqua. In quest'ul

timo caso basta che l'adottante sia maggiore, pi vecchio dell'adottato, senza figli
o discendenti legittimi. Nell'altro caso occorre che l'adottante, uomo o donna, abbia
oltrepassato i cinquant'anni; che all'epoca dell'adozione non abbia figli n discen
denti legittimi, e che abbia almeno quindici anni pi dell'adottato. In nessun caso

l'adozione pu aver luogo prima della maggiore et dell'adottato; sempre vi oc


corre il consenso del padre e della madre, o del superstite, quando non abbia com
piuto il vigesimoquinto anno, e il consenso del coniuge dell'adottante, se lo abbia
(art. 343 a 346). Da quest'ultima clausola unicamente eccepita l'adozione fatta dal
tutore col suo testamento, che sembrerebbe operativa anche se l'adottato fosse tut
tavia minore (art. 366).

Queste disposizioni tanto restrittive non piaguero, e giustamente, ad altri le


gislatori, che nel regolare l'adozione stabilirono limiti e condizioni almeno in parte
pi conformi ai principi di ragione.
-

Non aver figli n discendenti legittimi condizione generalmente richiesta per


l'adottante dai Codici. Il bavarese non consente l'adozione alle donne; e il Codice

4 64

SAGGIO

bene: necessarie condizioni perch la societ civile sia realmente un


ajuto e un mezzo alla moralit degli uomini, vale a dire il principio
dell'unit del diritto, e della subordinazione delle leggi positive ai prin
cipi razionali del giusto e dell'onesto.
del Cantone Ticino la consente cos all'uomo come alla donna che non abbiano figli
o discendenti legittimi; ma non all'uomo, la cui moglie non abbia oltrepassato l'et
di anni cinquanta (art. 93. S 2). Disposizione che s'incontra pure nel Codice estense,
art. 175.

La possibilit di contrarre matrimonio espressamente richiesta per l'adot


tante dal Codice bavarese (Parte I. Capo V. SS 10. 11). Implicitamente dal Codice
sardo, che non abilita ad adottare gli ecclesiastici (art. 188); dal Codice austriaco,

che non vi autorizza quelli che hanno fatto voti solenni di celibato, per cui rimane
dubio se comprenda anche i membri del clero secolare (S 179); e dal Codice prus
siano, che egualmente ne esclude chi si obblig al celibato (S 671).
Quanto all'et dell'adottante, i Codici austriaco (S 180), delle due Sicilie (arti
colo 266), del regno di Sardegna (art. 188), e prussiano (S668) la fissano ai cinquan
t'anni passati. Invece il bavarese (SS citati), quello di Parma (art. 139) l'estense (ar
ticolo 174) e quello del Cantone Ticino (art. 93) ai sessanta. Per anche il Codice

parmense la stabilisce a 50 per le donne (art. 151). Il limite dei sessanta anni pel

padre adottivo da preferirsi, perch rende pi difficile la sopravenienza di figli le


gittimi dopo l'adozione. L'et, secondo il Codice bavarese, ammette dispensa; con
questo per, che l'adottante debba sempre avere almeno diciotto anni (ivi); e il

prussiano stabilisce che possa accordarla il Sovrano all'adottante che per la sua
fisica costituzione sia impotente alla procreazione.
La differenza di et fra l'adottante e l'adottato varia secondo le legislazioni.
Quindici anni sono richiesti nel Codice delle due Sicilie (art. 266), come nel fran
cese. Invece il Codice austriaco (S180), il sardo (art. 188), l'estense (art. 174), il
parmense (art. 139), quello del Cantone Ticino (art. 97) ne vogliono diciotto. Il
Codice prussiano prescrive che l'adottato sia pi giovane dell'adottante (S677).
Meritano attenzione alcune particolari disposizioni di qualche Codice. Quello
delle due Sicilie agevola l'adozione, rispetto all'et, nei due casi che, secondo il Co
dice francese, sono i soli in cui l'adozione possa aver luogo, dichiarando non essere
necessaria l'et di cinquant'anni in chi voglia adottare la persona, alla quale, du
rante la minor et, prest cure e soccorsi non interrotti per sei anni almeno (artico
lo 268); e consentendo che sia adottato, anche se non abbia 15 anni meno dell'adot
tante, quegli che salv la vita dell'adottante (art. 269). Il Codice sardo stabilisce
(art. 191) che i figli naturali non possono essere adottati n dal padre, n dalla ma

dre: disposizione coerente a quelle riguardanti la legittimazione ammessa in due


modi: per susseguente matrimonio e per rescritto del Re, salvo alcune giuste e mo
rali eccezioni (art. 171 a 173), e che tende evidentemente a favorire i matrimoni
dei genitori naturali, e a precludere l'adito ad adozioni che sarebbero un insulto
alla publica moralit, quando il matrimonio non possa seguire; poich avrebbero

faccia d'incoraggiamento alla turpitudine, colla speranza di future adozioni. Una


simile disposizione s'incontra pure nel Codice degli Stati di Parma ec. (art. 142), che
toglie al padre la facolt di adottare il figlio naturale, adulterino o incestuoso; per
cui non parrebbe ci interdetto alla madre. Il Codice estense (art. 178) dispone che
il figlio naturale, adulterino o incestuoso non pu essere adottato dai genitori.

PARTE I.

165

Questo supremo principio normale legislativo lo vediamo dominare


eziandio nelle successioni ereditarie, come in ogni altro oggetto che
debba essere nella societ regolato con leggi positive, poich nemmeno
in esse nulla dev'essere abbandonato all'arbitrio dell'uomo; ma l'idea
Il consenso dei genitori legittimi e l'intervento della magistratura sono condi
zioni comuni, evidentemente giustificate dal naturale dovere e diritto della patria
potest; dalla protezione e tutela dei diritti, dovuta dalla societ a chi non pu
provedere a s stesso con piena cognizione della natura e delle conseguenze de' suoi
atti; e dalla importanza dell'adozione.
La magistratura competente per conoscere della regolarit dell'azione gene
ralmente l'Autorit giudiziaria; e ci pe'l principio fondamentale incontrovertibile,
che lo stato delle persone e la propriet stanno sotto la protezione dell'Autorit giu
-

diziaria, alla quale per la natura sua affidata la gelosa custodia dei diritti delle
persone e dei diritti sulle cose, e l'applicazione delle sanzioni penali ai delitti che
violano la sicurezza privata e publica.
Fanno eccezione in questa materia la Legge 22 Dicembre 1809 del Granducato
di Baden ed il Codice civile austriaco, che affidano alle Autorit amministrative la

conferma dell'adozione; anzi il Codice austriaco dichiara di competenza del Gover


no tale conferma anche quando risguarda un minore, e vi quindi intervenuto l'as
senso del Giudice pupillare. Ma questa anomalia venne molto saviamente tolta dal
Codice austriaco coll'Ordinanza Ministeriale 29 Giugno 1850, N. 257 del Bollettino
generale delle Leggi dell'Impero, posta in attivit anche nel Lombardo-Veneto col
1. Genajo 1852 coll'altra Ordinanza 26 Dicembre 1851, N. 263 del Bollettino ge
nerale, in forza della quale qu pure l'Autorit giudiziaria la sola competente per
le adozioni. Non ci noto se la Legge badese sia stata mutata.
Ma quello che pi importa di considerare, rispetto al diritto d'eredit di cui ci

occupiamo, l'altro lato della ricerca, come dicemmo, risguardante le conseguenze


dell'adozione toccanti i diritti della famiglia naturale.
)
Il Codice austriaco stabilisce espressamente che il rapporto fra l'adottante e

l'adottato puramente personale fra loro, dichiarando che non influisce sugli altri
membri della famiglia dell'adottante, e nemmeno sul conjuge che non avesse consen

tito all'adozione; e che l'adottato non perde i diritti della famiglia propria (S 183.
755). La prima di queste disposizioni, che escluderebbe financo l'impedimento al
matrimonio per cognazione legale, impedimento appoggiato a gravi ragioni, non si
accorda n col Diritto ecclesiastico, n con altri Codici. Ma quanto alla successione

nei beni, quelle due massime in sostanza sono conformi ai principi di ragione.
Diciamo in sostanza, perch agli adottivi essendo attribuiti dal S755 gli stessi
diritti che competono ai figli legittimi rispetto alla successione intestata sul patri
monio liberamente trasmissibile, cio non vincolato ad una forma speciale di suc

cessione, come sarebbe un fedecommesso, potrebbe accadere che i figli legittimi so


pravenuti si trovassero pregiudicati. Nel caso, per esempio, che l'adottante avesse

avuto due figli legittimi, e lasciasse per testamento ad estranei la porzione dispo
nibile, i due figli dovrebbero dividere in tre, anzich in due, la complessiva quota
legittima.

I Codici francese, delle due Sicilie, sardo, estense, bavarese e prussiano sono

concordi nell'attribuire all'adottivo gli stessi diritti dei figli legittimi sui beni del
l'adottante soltanto, escludendolo dalla successione nei beni dei parenti di questo. Il

166

SAGGIO

e le norme generali della ragione giuridica segnano la via e i limiti alla


societ per regolare il modo di trasmissione delle sostanze cos per te stamento come per successione intestata, giusta le esigenze del fine na
turale della societ civile, considerata cos nel suo tutto, come ne suoi
elementi, che sono le famiglie.
Di che le idee normali tante volte ripetute: unit del diritto, subor

dinazione del positivo al razionale, e quindi esclusione dell'arbitrio dal


regime della societ, sempre pi si manifestano quali principi veri e
certi anche per le loro applicazioni a tutti i fatti e a tutti i bisogni della
convivenza civile, che reclamano positivi ordinamenti. Per lo che la ve

rit di questi canoni fondamentali e semplicissimi si appalesa fecondis


sima di applicazioni, come esige la natura dei veri principi supremi,
universali e razionali, che non devono aver bisogno di schivare nessuna
delle naturali conseguenze che da essi logicamente derivano.
Anche in questo argomento delle successioni, come in tutto, rimane

alla legge positiva il solo ufficio di stabilire le determinazioni di et, di


quantit, ec., e le forme per l'accertamento dei fatti, e l'ordinato eser

cizio dei diritti che in conseguenza s'acquistano. Determinazioni e for


me che sono richieste dalla necessit di chiudere l'adito a continue con

troversie e litigi, di adempiere alla prima delle funzioni sociali, l'am

ministrazione della giustizia, e di servire agl'immutabili principi della


figlio adottivo conserva i diritti di successione rispetto alla sua famiglia naturale.
La successione nei beni dell'adottato premorto senza discendenti attribuita a suoi
parenti naturali. Ed anche in ci concordano col Codice austriaco, che esclude dalla
successione legittima sui beni dell'adottato premorto il padre e madre adottivi, e
serba reciprocamente all'adottato ogni diritto di successione sui beni de' suoi con
sanguinei (SS 755-756).
Soltanto rispetto alle cose donate dall'adottante, ed esistenti in natura, i Codici
francese, delle due Sicilie, sardo, estense, e quello del Ducato di Parma, attribui
scono al padre e alla madre adottivi, e taluno agli ascendenti, tal altro all'adottante
e suoi discendenti, il diritto di riprenderle dalla sostanza lasciata dall'adottato
morto senza discendenti, estendendo la disposizione anche alle cose provenute dal
l'eredit dell'adottante nell'adottato morto senza discendenza legittima. Ma se
l'adottato fosse morto lasciando discendenti, e questi morissero senza discendenza,

il diritto di ricuperare le dette cose talora limitato al solo adottante che sopravi
vesse, esclusi i suoi discendenti. In sostanza queste disposizioni sono simili a quelle

che abbiamo riferito nella precedente nota a pag. 157, riguardanti la preferenza ac
cordata ai genitori o ascendenti naturali e legittimi sopra tali cose, nel caso di con
correnza di fratelli nella successione intestata.

Ci basti a mostrare fino a qual punto le leggi civili positive si accordino co'
principi di ragione, e quanto poco ci vorrebbe perch l'accordo fosse pieno ed intero.

PARTE I.

16 I

logica critica sull'accertamento e sulle prove dei fatti; onde il detto,

logica.
Ma nemmeno ci pu dirsi abbandonato all' arbitrio; perch in so

che Giustiniano non comanda alla

stanza tutto questo si riduce alla necessit di servire all'indole della

mente umana e al principio generale, che l'esercizio dei diritti soggiace


a tutte quelle moderazioni e direzioni che sono richieste dall'indole e
dal fine razionale della convivenza civile.
-

CAPO XV.

Della coazione e della sanzione.


-

Nel Capo V. di questa Parte I. abbiamo dovuto tener parola della co


azione qual mezzo dalla ragione consentito, entro giusti confini, a man

tenere inviolato il diritto; e abbiamo accennato potersi legittimamente


manifestare sotto altre forme l'uso della forza. Quest'argomento vuol
essere svolto un po' largamente eziandio per le sue relazioni col diritto

penale, ch' la materia pi grave e difficile di tutte le scienze giuridiche.


e La coazione nel pi lato senso indica impiego di forza materiale o
morale per costringere necessariamente, o per indurre, influendo sull'in
telletto e sulla volont, un altro a fare ci che vogliamo. Pi propria
mente per si adopera ad indicare l'uso della forza materiale.

Abbiamo gi detto nel Capo sopracitato, come la coazione giuridica


non propriamente uno speciale diritto, ma l'esercizio effettivo di
ogni altro diritto che si manifesta efficacemente all'atto di un ostacolo

che incontri. Il principio supremo del diritto, da noi concepito come una
facolt entro i limiti tracciati dalle leggi morali, regola eziandio l'uso
della coazione, sia che la si consideri in questo senso che ci sembra il

pi giusto, sia che la si voglia avere in conto di uno speciale diritto re


lativo a tutti gli altri.

Ma intorno a ci egli facile cadere in due equivoci. L'uno risguarda


le forme, i gradi e lo scopo in cui pu adoperarsi la forza rispetto al no
stro simile, anche fuori delle relazioni del diritto; l'altro risguarda la
sanzione, che spesso si confonde colla coazione.
-

La coazione, siccome esercizio del diritto, sempre, dentro i limiti di


ragione, un uso lecito di forza. Ma non cos si pu dire che nessun uso

della forza, rispetto al nostro simile, non sia mai lecito, se non allora
che sia rivolto a tutelare od esercitare un nostro diritto.
-

468

SAGGIO

La orza pu adoperarsi rispetto ad un uomo o per fargli del male, o


anche per fargli del bene.

Come non sempre in facolt nostra di adoperarla a far male, cos

non pu dirsi che sia tolta sempre la facolt di usarla a fare il bene del
nostro simile.

Se a tutela della mia vita ingiustamente minacciata io, non potendo


salvarmi in altro modo, ferisco od anche uccido l'ingiusto aggressore, io

adopero la forza a fargli del male; ma quest'uso della forza l'eserci


zio del mio diritto di conservazione. Le ricerche della scienza del di

ritto su questo punto tendono propriamente a determinare, secondo i

principi della ragione giuridica, e salva la subordinazione alla morale,


quando e fino a qual punto sia facoltativo l'uso della forza, anche pi o
meno nociva.

Ma quando la forza nostra adoperata in bene del nostro simile


evidente che la differenza del termine, cui tende l'uso della forza, rende

impossibile l'applicare a questo caso gli stessi principi che valgono


pe'l primo.
Dato un uomo che abbia l'uso attuale della propria ragione, il voler
colla forza costringerlo in qualunque caso al suo bene o al suo meglio,
certamente non potrebb'essere giustificato da nessun principio escogita
bile di ragione giuridica o morale.

Ma nel caso di un uomo che non sia capace di provedere a s stesso,


o si trovi in istato di alterazione tale delle proprie facolt intellettive,
che si esponga a danni e pericoli irreparabili, l'uso della forza nostra
per tutelarlo, o per impedire il suo male, non potrebbe assolutamente e
in tesi generale riprovarsi.

Il padre o il tutore, per la educazione, la custodia e la sorveglianza


del figlio o pupillo, talvolta in necessit di adoperare il costringimento
nei limiti e nelle forme richieste dallo scopo della patria potest e della
tutela. Quest'uso della forza in sostanza non che il mezzo di adem

piere ai doveri particolari che gl'incombono, e soltanto rispetto ai terzi


potrebbe assumere il carattere d'un diritto. uno di quei molti diritti
che in sostanza hanno il loro appoggio sui doveri, e che nell'atto mede
simo presentano il doppio carattere di dovere e di diritto, secondo le re

lazioni nelle quali si considerano.


Ma comunque si voglia risguardare la cosa, troppo chiaro che non
pu confondersi quest'uso legittimo d'un certo grado di forza colla co

azione propriamente detta; e quindi sta il principio, che anche fuori

PARTE I.

109

della vera coazione giuridica pu talvolta essere legittimo l'uso della


forza, entro certi confini, in bene altrui.

si

ls Is

Similmente nel caso di chi per un'alterazione qualunque totale o par


ziale di mente, od anche semplicemente in uno stato di passione violen
ta, tenti di togliersi la vita, l'usare la forza opportuna ad impedire la
esecuzione di quest'atto, le cui conseguenze sono irreparabili, non po
trebbe certamente essere riprovato.

--

li

Che se gli atti praticati a salvezza della vita altrui portassero seco
un qualche guasto alla propriet del salvato, ci non potrebbe certamen

te produrre una responsabilit di indennizzazione.

il

0nde sostenerci bisognerebbe scindere l'atto complessivo in due


atti distinti: la forza propria adoperata a salvare, e l'effetto nocivo alla

propriet altrui che ne consegu. Ma se l'intenzione e il fatto dell'ope


rante non fu rivolto che all'altrui salvezza, una tale separazione ripu
gnerebbe, perch n la morale potrebbe vedere un'azione riprovevole,

n la giustizia una lesione di diritto dove non c' che un effetto conse
guente ad un atto moralmente buono e sommamente vantaggioso a chi
per esso fu salvato da un estremo irreparabile danno.
i
Nemmeno in simili fatti pu confondersi quest'uso della forza, il cui
risultato complessivo un vantaggio recato al nostro simile, colla co
azione. E, se ben si guardi, la differenza sta in ci: che la coazione
tende al vantaggio nostro, tutelando il nostro diritto anche con danno

materiale di chi lo sconosce o lo attacca; e per essere legittima occorre


che sia adoperata nei limiti di ragione a tutela di una qualche nostra
giuridica potest. Negli altri casi l'uso della forza non tende che al van
taggio altrui, ed legittimo tutte le volte che la morale non divieti que
st'uso della forza: poich allora l'atto tendendo al bene altrui, e non
uscendo dai limiti segnati dalla morale all'uso delle nostre attivit verso
i nostri simili, buono rispetto alla morale; e rispetto al diritto, una
facolt che nessuno potrebbe legittimamente impedirci di esercitare.
Ci sembra che per tal guisa si tolga ogni apparente contradizione che
potrebbero presentare certe questioni risolte secondo altri principj; e
sopratutto poi considerate nelle relazioni sociali, in cui l'ajuto reciproco

dall'indole stessa della societ imposto come dovere giuridico, dato il


bisogno da una parte, e la possibilit di prestarlo dall'altra.
Gli equivoci in questo proposito sono nati o possono nascere dalla
idea meno esatta del diritto, che da una parte si estese fino a compren
dervi tutta l'attivit umana, manifestata in modo che non offenda l'al
-

470

SAGGIO

trui persona, senza tener conto del confine che a quest'attivit viene se
gnato dalla legge morale; e dall'altra si restrinse, non tenendo conto
abbastanza di quei doveri che la morale c'impone, e che importano ne
cessariamente un qualche uso di attivit esteriore verso i nostri simili.

Quindi avvenne che si considerasse l'uso della forza soltanto qual mezzo
consentito dalla ragione giuridica per tutela del nostro diritto, e lo si
ampliasse talvolta s fattamente da consentirlo senza nessuna restrizione
e fino alla morte dell'aggressore, qualunque fosse il diritto compromes
so, anche di lieve importanza; e per l'opposto si escludesse dalle ricer
che della scienza giuridica quell'impiego moderato della nostra forza ef

fettiva, che pu o dev'essere diretto non a sostegno dei diritti nostri,


ma all'adempimento dei doveri che la morale c'impone verso i nostri
simili, e perci non pu esserci contrastato da nessuno, perch un

esercizio dell'attivit nostra dentro i confini tracciati dalla legge mora


le, anzi conseguenza di doveri ch'essa c'impone, a differenza di quel
ferreo preteso diritto di coazione estrema, che la morale non ci consente
dove non si tratta di gravi lesioni.
Questo difetto di esattezza e d'integrit nel principio fondamentale e
nello sviluppo della scienza del diritto si rende evidentissimo nelle que

stioni tanto dibattute intorno a ci che possa giuridicamente intrapren


dersi per impedire il suicidio.
Poich anche quelli cui parve troppo assurdo l'ammettere che il sui
cidio debba dirsi un diritto in faccia agli altri uomini, mentre la morale
-

cos altamente lo riprova, stretti nelle pastoie di quella idea del diritto,
non poterono stabilire nettamente se tuttavia possa l'uomo usare la forza
onde impedire il suicidio non solo del pazzo, ma eziandio dell'uomo che
non attualmente privo dell'uso della ragione.

Posto infatti che l'uso della forza non sia concesso dalla ragione se
non per far valere il nostro diritto contro chi lo offende, e ino al punto
in cui la forza sia mezzo idoneo e necessario alla nostra incolumit, non

si poteva trovare nel suicidio altrui una violazione di alcun nostro di


ritto per autorizzare un qualche impiego di forza ad impedirlo.
Che se pure, mettendo da parte le conseguenze ovvie di quell'idea
fondamentale del diritto, si riconoscesse nell'uomo una giuridica pote

st d'impedire l'altrui suicidio, tenendo ferma quell'idea della coazione,


si finirebbe ad un assurdo. Poich la norma direttiva della coazione, se

condo quella scuola, desumendosi dalla idoneit e necessit dei mezzi a


mantenerlo incolume, sarebbe autorizzata l'offesa materiale della sua

PARTE I,

17 li

propriet e della sua persona fino a questo punto; e quindi se il suicida


colla violenza ci si opponesse fino a mettere in pericolo imminente la
nostra vita, qualora non desistessimo dall' impedirgli il suicidio; in que
sto caso o bisognerebbe dire che, cessando l'idoneit del mezzo, doves

simo rinunziare all'uso della forza per impedire il suicidio, o veramente


che potessimo spingere la forza fino all'uccisione dell'ingiusto aggres
sore. Nell'un caso e nell'altro il diritto nostro perirebbe o perch non
ci sarebbe accordata la sua difesa, o perch colla difesa stessa ne toglie
remmo da per noi l'oggetto.
,
Che se invece si parta dall'idea del diritto come esercizio dell'atti
vit umana dentro i limiti segnati dalla morale, e si distingua la vera
coazione dal semplice uso della forza, nei limiti dalla morale conceduti,
a vantaggio altrui, la questione dev'essere posta diversamente, e viene
risolta senza uscire dai fondamentali principi, e conservando l'armonia
-

in tutti i rami dell'ordine morale.


a
Infatti conviene allora domandare se la morale consente all'uomo di

usare la forza, onde impedire la consumazione del suicidio, e fino a qual


punto lo consenta. Quest'uso di forza entro tali confini sar un diritto,

perch non esce dal limite segnato all'attivit nostra dalla morale, che
anzi ne fa un dovere, data la possibilit di praticare quest'atto di bene
ficenza. Ma qu non si tratta pi di una coazione propriamente detta,

perch il termine di questo diritto, o vogliam dire il suo oggetto, non


in noi, ma si trova propriamente nella persona, al cui bene rivolto
quest'impiego della forza, dalla morale consentito e voluto.

Che se la morale non ammette l'uso della forza per costringere alle
azioni conformi, o per impedire quelle contrarie a suoi precetti; e di
pi riprova l'uso eccessivo della coazione, e vuole quindi una certa pro
porzione anche colla natura del diritto posto in pericolo, oltre la idoneit
e necessit dei mezzi diretti alla sua incolumit; un illimitato uso della

forza al semplice scopo del bene altrui, e d'impedire la immoralit, sarebbe

in opposizione co principi della morale e del diritto, e specialmente nei


rapporti puramente individuali fra uomo ed uomo dev'essere anzi di sua

natura molto ristretto, senza che per questo si possa negare che dove
abbia luogo l'impedimento della immoralit con mezzi consentiti dalla

morale non potr mai aver luogo una lesione di diritto ed una respon
sabilit giuridica.

Ma nel caso tutto speciale del suicidio la forza adoperata ad impe


dirlo nei limiti conceduti dalla morale non soltanto un mezzo diretto

4 72

SAGGIO

ad impedire l'azione immorale, ma eziandio un mezzo per conservare il


primo fra tutti i diritti, la condizione di tutti gli altri, la vita e la per
sonalit. Cosicch in questo caso speciale l'estensione del dovere di con
correre al bene altrui pi ampia che in nessun altro. Perci la distru

zione di certi oggetti di propriet del suicida, ed una sorveglianza re


strittiva della sua libert, non potrebbero in questo caso importare una
vera lesione di diritto, essendo tutto ci diretto non ad offesa de suoi
diritti, ma necessariamente adoperato a preservarne la base dentro i li
miti dalla morale consentiti.

Egli perci evidente che i cos detti diritti innati, rispetto alla
persona altrui, non sono in sostanza altro che l'esercizio dell'attivit
nostra, rispetto alla persona altrui, in adempimento del nostri doveri. Il
principio sempre, l'essere racchiusa quest'attivit nostra dentro i con
fini segnati dalla morale, che ce la consentir con maggiore ampiezza in
casi speciali, come nel suicidio, e rispetto agl'incapaci, dementi, ec. Di
versit nel grado secondo le circostanze, non gi nell'indole sostanziale,
e nel principio che la legittima.
Al quale esercizio di attivit esteriore, ch' l'adempimento di un do

vere rispetto a quello che soccorriamo o benefichiamo, potrebbe aggiun


gersi la qualit di diritto sostenuto dalla coazione rispetto ai terzi che
volessero impedirci quest'uso dell'attivit nostra, il quale non eccedendo
i confini segnativi dalla morale, ed essendo anzi l'esecuzione di un dove
re, nessuno potrebbe ragionevolmente pretendere che ce ne astenessimo.

Qualora per, com' necessario, si tenga conto dei rapporti naturali


di societ, che tanto influiscono nel determinare precisamente il diritto,
questa distinzione fra la vera coazione e il semplice uso di forza in bene
altrui viene meglio chiarita. Poich il soccorso reciproco essendo impo

sto come obbligo giuridico dalla legge fondamentale della socialit, sa


rebbe una contradizione ridicola il pretendere che il dovere e il reci

proco diritto sociale del soccorso non dovesse verificarsi nei casi di pe
ricolo e di danno imminente, quando l'aiuto importasse un qualche im
piego di forza, sia pure contro azioni non lesive, sempre nei limiti sta
biliti dalla morale.

Che se pongasi mente all'uso della forza per parte della societ, e
quindi del potere supremo ch' posto a verificare in essa le condizioni
della sua conservazione e dell'adempimento del suo fine; la forza, tanto
nei modi quanto negli scopi in cui e per cui pu essere adoperata, d
luogo ad altre considerazioni.

PARTE I.

4 73

Lasciato pure da parte che nella societ, e in virt del suo principio
giuridico, certe azioni di loro natura morali o immorali possono soggia

cere alle norme giuridiche relativamente alla convivenza sociale, mentre


non lo potrebbero nei rapporti privati; l'uso della forza pu assumere
forme in parte diverse da quelle che possono verificarsi tra individui
considerati puramente come uomini, ovvero anche come cittadini.

Questa diversit di forme talvolta consiste in una maggior efficacia


che acquista l'uso della forza esercitata dal potere sociale rispetto ai
cittadini o per costringerli all'adempimento di obblighi naturali privati
o sociali, o per recare ad essi soccorso; tal altra una forma essen

zialmente diversa da ogni altro privato diritto.


L'indole della societ porta, come si detto, modificazioni al modo
di esercitare i diritti, dipendentemente dall'indole sua naturale. Quanto
a

s,

- se

al diritto naturale di coazione privata, sia per difendere il diritto mi


nacciato, sia per conseguire la reintegrazione del diritto violato o la sod

disfazione delle giuste pretese, troppo noto che, salvo i casi di estrema
necessit, il diritto di privata difesa, e in generale di farsi giustizia da
s stesso, non pu essere lasciato al cittadino; al quale per in ricambio
la condizione sociale assicura, com' della sua essenza, una pi ampia
ed efficace guarentigia merc gli organi del potere supremo, posti a ren
dere giustizia, a tutelare i diritti, a costringere i renitenti, a procurare
le giuste soddisfazioni e le dovute indennit; in generale a far rispettare
il diritto, e a costringere all'adempimento di ogni giuridico dovere s

naturale privato, che dipendente dallo stato di convivenza civile.

Quanto all'uso della forza non a coazione, ma in bene altrui, la so


ciet non solo lascia intatta l'autorit privata e l'obbligo, nei limiti po
sti dalla morale, a questa specie di soccorso; ma lo converte in un vero

obbligo giuridico sociale. Il qual obbligo talora dev'essere dal cittadino


adempiuto al solo avvenire del caso di prestare l'ajuto secondo potere
e bisogno; tal altra importa una delegazione per parte dell'autorit so
ciale, che incarica certe persone di prestare i soccorsi della convivenza
in nome e per autorit delegata dal potere supremo.
Nello stato sociale l'impiego della forza propriamente verso la per
e

sona altrui, allo scopo d'impedire il suo danno, si appoggia eziandio ad


un fondamento di presunto concorso della sua volont. Poich l'uomo
vivendo in societ, e dovendo necessariamente trovarsi in questo stato,
ch' il vero suo stato naturale, non pu non consentire (se pure di con

senso fosse uopo) a tutto ci ch' una conseguenza dello stato stesso; e

:17%

SAGGIO"

l'uomo di mente sana non rifiuta di acconsentire ad un suo vero vantag


gio. Onde sorge un fondamento di ragione, appoggiato al modo costante
di operare degli uomini, dal quale derivano le massime stabilite dai giu
reconsulti intorno al consenso presunto, e che hanno la loro base nella
natura umana, e nei rapporti logici o giuridici. Le quali basi giuridiche

della presunzione del consenso si risolvono nella equit e nella utilit;


onde i canoni notissimi: Quisque praesumitur consentire in id quod uti
litatem affert. Nemo praesumitur cum alterius damno fieri velle lo
cupletior. Qui vult quod antecedit, non debet nolle quod consequitur.
Che se la forza adoperata siccome vera coazione, oppure qual mezzo

ad impedire il danno altrui, o a produrre l'altrui bene, sempre nei li


miti concessi dalla ragione giuridica e morale, viene nello stato di so

ciet perfezionata nell'efficacia, ampliata nelle applicazioni, ed atteg


giata nelle sue forme, ne' suoi modi, nel suo impiego, secondo l'indole

e il fine della convivenza, una forma tutta speciale riceve dal rapporto
di societ; forma che, sebbene analoga alle altre, deve per considerarsi
al tutto distintamente. Questa forma quella di sanzione, spesso con
fusa colla coazione, come sopra si accennato.
-

L'idea di sanzione inseparabile dall'idea di legge. Chi ammette


potersi concepire la legge anche senza sanzione, pone una contradizione;

poich mentre riconosce l'autorit della legge, l'obbligazione che da


essa deriva, e il fine al quale la legge dirige la volont, sostiene nello
stesso tempo che nessuna diversa conseguenza derivi dall'adempierla o
dal violarla. Con s fatta maniera di pensare non si distingue la legge
dal consiglio, il quale pur esso ha una qualche sanzione, non penale per
la sua trasgressione, ma rimuneratoria per la sua osservanza.
Ma se la idea di sanzione inerente all'idea della legge, ne viene che
snon si possa parlare di una sanzione del diritto se non che in un senso
figurato, perch il diritto non offre la idea di obbligazione, ma quella
di facolt.

r Al diritto non pu riferirsi che la coazione; soltanto al dovere e alla


legge si riferisce la sanzione. Egli vero che mediante la coazione, con
cui si protegge l'esercizio del diritto, si viene a raffermare il correla
tivo dovere, come reciprocamente il diritto viene tutelato mediante la

sanzione che colpisce la violazione del dovere; ma se la coazione e la


sanzione non possono tendere a mete divergenti, per diverso il modo,
la misura e le circostanze nelle quali hanno luogo, ed pi ancora di
versa l'indole essenziale di questi due atti.
-

PARTE I.

175

L'opinione da alcuni professata, che la coazione costituisca anche la


sanzione della legge giuridica, ha il suo appoggio nel modo onde consi
derano il diritto naturale. Poich qualora si limiti la nozione del diritto

naturale ai soli rapporti privati ed individuali tra uomo ed uomo, e la so


ciet si risguardi come risultamento di un fatto positivo, ne viene che dai
rapporti privati non solo si derivino alcuni diritti, che ricevono poi
maggiore consistenza, sicurezza e determinazione quando vi si associno le
considerazioni derivanti dal rapporto di societ; ma che tutto il diritto

e tutta la legge giuridica si vogliano derivare da una supposta condi


zione extrasociale. Ora, siccome l'idea di legge non pu separarsi da
quella della sanzione annessavi; cos, dato che la legge giuridica si re
stringa ai soli rapporti individuali, la sua sanzione non pu riscontrarsi
altro che nella coazione, dappoich nei rapporti individuali non si pu

ragionevolmente trovare altro uso legittimo della forza, che la sola co


azione adoperata a far valere il diritto.
i
Facilmente quindi si condotti a prendere in un senso proprio la

espressione di sanzione del diritto, mentre in fatto il diritto in senso


proprio non essendo legge, ma facolt, non pu avere sanzione, ma solo
efficacia di mezzi esterni al suo esercizio.

La necessit di togliere questo equivoco, e di mostrare come debbasi

accuratamente distinguere la coazione dalla sanzione, si manifesta spe


cialmente rispetto ai principi del diritto penale, in cui sta propriamente
la sanzione giuridica.

Posto che la sanzione giuridica sia la stessa coazione adoperata a


sostenere ed effettuare l'esercizio del diritto, anche il magistero penale

si riduce all'idea della coazione, e specialmente alla difesa, una delle


sue forme.

Ma le due idee, sebbene abbiano una certa affinit e concorrano en


trambe alla tutela del diritto, sono per fra loro distinte.
Innanzi tutto, sebbene la intensit e la forma della coazione ricevano

norma dalla gravit e dall'indole della lesione; pure, considerato l'ef


fetto che pu seguire dall'uso di essa verso l'ingiusto offensore nelle
desioni pi gravi, certo che le conseguenze della difesa in questi casi

sono pi tosto proporzionate alla efficacia dei mezzi adoperati ad offen


dere, di quello che all'importanza del diritto offeso, al danno che si vo
lesse recare ingiustamente, e alla malvagit dell'agente. Cosicch la
maggiore di tutte le lesioni, l'omicidio, pu essere con giustizia respinta
soltanto con mezzi innocui, quando bastino alla nostra sicurezza. Per

SAGGIO

476

l'opposto nell'applicare la sanzione conviene pormente all'atto ingiu


sto che fu commesso, pi che ai mezzi adoperati a compierlo, qualunque
sistema si adotti per base della misura delle pene, sia il danno, il dolo,
la spinta criminosa, o l'intrinseca gravit dell'azione relativamente al
grado d'importanza assoluta del diritto violato.
Di pi, la difesa contro un danno ingiusto si adopera, ne'suoi ragio
nevoli confini, tanto contro un agente morale, quanto contro qualsivoglia
altra causa che ci minacci, ed anche contro l'uomo che operi fuori di
senno. Invece la sanzione vuole necessariamente la responsabilit del

l'agente, senza la quale non pu aver luogo imputazione.


Compiuta la lesione, tanto meno pu parlarsi di coazione non solo a
difesa, ma anche ad indennit, quanto pi grave e perfezionata si la
lesione stessa. Se la sanzione consistesse nella coazione, ne verrebbe l'as
surdo, che la lesione intrapresa avrebbe talvolta la sua sanzione; e non
l'avrebbe la lesione compiuta in modo da togliere perfino la possibilit
dell'indennizzazione, come nell'omicidio: ci che evidentemente ripugna.
Anche nel caso in cui la coazione riesca ad impedire la consumazione
dell'atto lesivo e a conseguire l'indennit, non si pu spingere oltre que
sto limite. La sanzione invece dev'essere applicata, oltre la indennit.
Queste brevi considerazioni basterebbero da s sole a mostrare che se
la sanzione della legge giuridica consistesse nella coazione, la sanzione
non sarebbe n certa, n proporzionata, n efficace; l'incorrerla dipen
derebbe quasi sempre dalla maggiore o minore avvedutezza e malizia
dell'offensore, il quale potrebbe sottrarsene spingendo la lesione agli
estremi.

Dunque confondendo la sanzione colla coazione, non si distinguono

due idee che, rispondendo ad atti essenzialmente distinti, non possono


essere identiche; e si pensa di scorgere nell'ordine morale una legge,
qual la giuridica, che metta l'effettiva applicazione delle sue sanzioni
nelle mani di chi la trasgredisce, di chi pu preparare i mezzi a sot

trarsene ed evitarla del tutto, commettendo i delitti pi gravi.


Nel ricercare la natura e l'origine del diritto di punire non bisogna
porre la questione, se esso sia una forma della coazione, della difesa; ma
invece conviene cercare se, oltre la coazione per la difesa, la sicurezza e

l'indennit, la ragione giuridica dimostri esistere un altro mezzo, le


gittimo in s stesso, di reprimere le lesioni del diritto gi commesse,

cio a dire una sanzione propria della legge giuridica, la cui applica
zione produca il salutare effetto di allontanare il delitto mediante il ti

PARTE I.

4 77.

more della pena. In questo modo non si corre pi il pericolo di conon


dere l'essenza del magistero penale coll'effetto che dall' applicazione

delle pene ne consegue. Il quale effetto coincide con quello della coazio
ne, perch tutto si dirige a tutelare i diritti e ad assicurare l'osservanza
della legge giuridica; ma sono differenti affatto i mezzi, si per la loro
essenza, s per la fonte da cui si deducono, s per la misura e le condi

zioni del loro impiego. N riesce difficile l'avvedersi di queste sostan


ziali differenze tra la coazione e la sanzione nella societ, nella quale le
forme che assume l'uso legittimo della forza atteggiandosi all'indole e
agli uffici naturali della convivenza, sono chiarissimamente distinte. Poi
ch dove la pura coazione si applica, l'uso della forza sociale si mani

festa come sussidio all'esercizio delle azioni civili, o come difesa dagli
attentati attuali contro il diritto. Dove invece la societ domanda la re

pressione dei delitti, cio in generale di ogni offesa recata alla sicurezza

privata e all'ordine della convivenza, si manifesta l'azione penale di


stinta affatto e separata dalla stessa azione civile d'indennit, che pu
sorgere dal delitto.

Ed ben evidente che nella sola societ si possono scorgere e deter


minare con chiarezza i principi direttivi dell'uso della forza nelle sue

diverse forme pe'i fini giuridici, poich il diritto nella sua pienezza ed
in tutti i rapporti non pu verificarsi che nello stato sociale, ch' il vero

stato naturale dell'uomo, e la legge giuridica non pu compiutamente


aver effetto se non in questa condizione.

Poich l'idea del dovere giuridico, e della legge che lo impone, in


chiude l'elemento della socialit, e su questo si appoggia.
N perci vengono menomati o distrutti i diritti ei doveri che sor
gono dai puri rapporti individuali, mentre la differenza fra questi, ei
diritti derivanti dai rapporti sociali, differenza appunto dei rapporti
-

d'onde immediatamente si deducono; ma rimane sempre uno solo lo stato


o la condizione naturale in cui realmente si trova l'uomo, e in cui si ver
rificano completamente e si esercitano efficacemente ed ordinatamente
tutti i suoi diritti, da qualsivoglia speciale rapporto discendano.

Cosicch le indagini sopra qualsivoglia argomento risguardante il di


ritto e la legge giuridica mettono sempre capo in quel sommo principio

della sostanziale unit del diritto e quindi della legge giuridica, e nella
societ in cui il diritto completamente si manifesta, e la legge giuridica
trova le condizioni essenziali alla sua verificazione.

Delle quali condizioni principalissima quella della possibilit di at


12

178

SAGGIO

tuare la sua propria sanzione soltanto nello stato di societ. Perci la


societ ci si presenta come stato naturale dell'uomo, assicuratrice dei
diritti, ampliatrice e moderatrice della padronanza privata, ed avente in
s il modo e le condizioni da assicurare l'adempimento della legge giu
ridica non solo ordinando e raffermando l'uso della coazione, ma ezian

dio applicando la pena alle violazioni nei modi e nelle misure che la
stessa legge giuridica stabilisce.
Queste considerazioni preparano la via a discorrere dei fondamenti

del Diritto penale, dell'indole delle azioni punibili, delle loro specie
relativamente alla legge giuridica, delle condizioni per la loro imputabi
lit, e della misura delle pene; ricerche di cui avremo ad occuparci
nella Parte II. del nostro lavoro.

- -e0-3-bo-o--

PARTE II.
--

TEORIA DEL DIRITTO PENALE


FONDATA

SULLA SANZIONE GIURIDICA COME PRINCIPIO COSTITUTIVO DI ESSO

Res eo diligentius tractanda est nobis, quod origo ejus et natura minus
intellecta multis errationibus causam dedit.

GnoTius. De jure belli et pacis, Lib. II. Cap. XX. I. n. 1.

DISCORSO PRELIMINARE
SOPRA

I SISTEMI INTORNO AL DIRITTO PENALE


E

LA RAGIONE DI QUESTA SECONDA PARTE

Fra le verit universalmente sentite dagli uomini di tutti i

tempi e di

tutti i luoghi, principalissima quella del nesso fra la colpa e la pena.


Chi ha fatto il male deve averne il castigo. Questo principio lo ve
diamo palese nelle credenze religiose di una retribuzione anche oltre la
tomba, nella tendenza alla vendetta delle offese ricevute, nelle guerre
tra i popoli; in somma, nelle idee e nei fatti in cui, sebbene il vero sia

stato presso molti popoli mescolato col falso, e spesso l'applicazione


non retta, pure movono sempre dal principio, che la colpa domanda
castigo.

Tra i fatti pi solenni e generali che l'umanit ci presenti su questo


punto sono le pene che ogni dove troviamo inflitte ai delinquenti, qual
unque sia il grado della cultura, la forma del Governo, l'indole degli
abitanti o del paese; in breve, i tempi, i luoghi e le circostanze che
anno variare le condizioni sociali.

Sembrerebbe pertanto che non si dovesse trovare disparit d'opinioni


nella dottrina del penale diritto, dacch l'esercizio di questo supremo
potere sociale ha in suo favore i voti di tutta l'umanit per modo, che

il colpevole stesso nell'atto che s'incammina all'ergastolo o al patibolo


sente nell'animo suo di aver meritato una pena.
Per altro la cosa non cos; anzi fra i molti rami in cui si divide il
grande albero della Giurisprudenza, nessuno ve n'ha che presenti tanta
diversit di dottrine e di sistemi, quanto la scienza del diritto penale.

Varie sono le cause di questi moltiplici pensamenti. E da prima, una


scienza qualunque, d'indole non semplicemente speculativa, ma pratica,

4 82

SAGGIO

sempre legata ad un principio confusamente sentito dalla coscienza:


ma non ne segue per ci che la scienza medesima debba tutta poggiare
sopra il sentimento. La scienza esige unit di dottrina, deduzione da
un fondamento razionale: essa appartiene alla ragione, e sentire non

ragionare. Il sentimento per s vago, indeterminato, variabile, sog


getto alle illusioni, se non altro, nell'applicazione che se ne fa alla pra
tica: la scienza dev'essere determinata, assoluta, quasi direbbesi imper

sonale; e quando scienza pratica, deve dare norme sicure, che ser
vano di regola alle azioni umane, cui la scienza dirige, o come legge
impone o divieta.
Il sentimento universale del legame tra la colpa e la pena quindi
affatto insufficiente a costituire da solo il principio e la base della scienza

del diritto penale: poich un modo di sentire comune pu servire d'in


dizio per sospettare esservi una scienza od un ordine di cognizioni che
vi si connettono; ma nulla pi.
Ora eccoci nella necessit di ricercare un principio supremo, sul
quale inalzare la scienza del diritto di punire, e dal quale dedurre le

norme per l'esercizio della potest punitrice. Questo principio dev'es


sere assoluto e necessario; dev'essere quindi un rapporto, perch nel

l'ordine razionale tutto si fonda sopra i rapporti, perch i soli rapporti


possono somministrare idee assolute. Ma i rapporti sono moltiplici, e
per tutti ad un tempo non si possono cogliere: quindi la necessit di

analisi accurate, le difficolt conseguenti, e la fonte principale, d'onde


scaturisce la variet delle opinioni e dei sistemi anche intorno all'indo

le, al fondamento, allo scopo ed all'uso del magistero penale, come in


tante altre materie delle scienze morali. A questa difficolt intrinse

ca, derivante dalla natura della scienza pratica, se ne aggiungono altre


secondarie, le quali dipendono dal diverso grado di sviluppo della so
ciet, dai principi filosofici dominanti in varie epoche, dalle false idee
religiose, dalle passioni ancora, le quali tutte rendono sempre maggiore
la confusione che si rinviene nelle diverse dottrine che troviamo pro
fessate su questo punto importantissimo nelle scienze morali e giuridiche.
Lo studio delle diverse teorie che furono messe innanzi su questo
argomento pu tornare d'immenso vantaggio. Non gi che noi crediamo

possibile un accordo pienissimo fra i giureconsulti sopra una materia


cos grave e difficile: la storia di tutte le scienze prova l'impossibilit
di questo unanime consentimento, per s stesso desiderabile assai; ma
forse un po'alla volta si potrebbe almeno convenire in certi punti car

PARTE II.

183

dinali della scienza, che servirebbero al miglioramento delle legislazioni


penali. Se il vulgo de'legulei non pu arrivare all'altezza di queste
ricerche, v'hanno per menti atte ad intendersi, e a cooperare ad uno
scopo tanto nobile, e degno dei lumi e delle tendenze de'nostri tempi e
delle nostre societ.

vero che le legislazioni penali non tennero dietro mai di pari passo
ai progredimenti della teoria; ma vero altres che ne subirono sempre

pi o meno, presto o tardi, l'influenza: e se in qualche Stato ci si pre


sentano assai lontane da quella misura di perfezione che a buon diritto
si potrebbe esigere in vista del grado d'incivilimento raggiunto, que

sta una ragione di pi per ispingere innanzi la scienza, onde possa di


venire sempre migliore la legge.
-

Questa dissonanza troppo frequente e lenta a correggersi fra il grado


di cultura dei popoli e le loro legislazioni penali un fatto gravissimo
ed incontrastabile (1). Non entriamo a ricercarne le cause: notiamo solo

che questa osservazione si riferisce alle leggi penali statuenti, non a


quelle di procedura, le quali essendo piuttosto un'applicazione dei prin
cipi della logica, che non di quelli della scienza del diritto penale, pos
sono essere buone o cattive, indipendentemente dalla qualit delle leggi
penali statuenti.

Prima che le dottrine sul diritto penale acquistassero sufficiente svi


luppo, e se ne formasse un ordinato sistema, era troppo naturale che
indeterminata ne andasse la nozione, la genesi, lo scopo e le norme per
l'esercizio dell'autorit punitrice. I sentimenti naturali del cuore uma

no, gli usi e le leggi delle nazioni dovevano essere il cerchio, entro il qua
le si aggirassero le meditazioni di quei pochi che a tale sublime argo
mento applicavano l'intelletto. Questo procedimento comune a tutte le
scienze pratiche, negli oggetti delle quali si sempre prima operato, e
poi pensato al come si dovesse operare.

L'avversione naturale dell'uomo per tutto ci che gli cagione di


un male, lo porta a resistere e a respingere da s ogni attentato lesivo
de' suoi diritti; ed ove la offesa sia gi compiuta, a risentirsene e a cer

care d'esserne indennizzato. Nella prima epoca dell'incivilimento delle


societ, quando ancora le menti non sono abbastanza sviluppate ed

istrutte delle norme della giustizia, n il cuore educato a trattenere i


movimenti delle passioni, non a meravigliare che all'occasione di una
(1) Esempi notissimi e decisivi sono la Francia, e sopratutto l'Inghilterra.

184

SAGGIO

offesa risvegliandosi nell'animo il desiderio di reagire contro dell'offen


sore, si trascorresse facilmente a confondere la giusta difesa con la ven
detta, e invece di usare d'una legittima coazione per essere rifatto del
danno sofferto, l'offeso si lasciasse andare ad uno sfogo condannato dalla

ragione giunta alla pienezza del suo sviluppo, contrario all'ordine so


ciale, e sopratutto alla volont di Dio.
Far male ad uno perch egli ha fatto del male, castigare per vendi
care s stesso od altri; ecco il principio adottato praticamente presso
tutte le nazioni, nella loro infanzia, circa le pene. Il desiderio della ven
detta, unito all'idea non ancora disviluppata della connessione necessa

ria tra la colpa e la pena, diede vita a quel sistema di rappresaglie che
si trova stabilito fra tutti i popoli nei primi stadi del loro incivilimento.
L'esercizio dell'autorit di punire non poteva quindi essere in questa

epoca esclusivamente ridotto nelle mani del supremo potere; l'indivi


duo offeso o i parenti suoi facevansi giustizia da s. Tutto quello che si

poteva

esigere mentre dominavano queste idee, si era che la vendetta


non oltrepassasse un certo limite determinato dalla gravit del male so
ferto dall'offeso. Ecco l' origine della tanto celebre legge del talione, la

quale metteva regola all'uso di questa specie di difesa diretta, di ven


detta, di rappresaglia, ed era l'espressione la pi semplice del princi
pio: justum est ut qui malum fecit, malum ferat; e quindi presentava

ai giudici una regola che segnava il limite della pena per ciascun de
litto: limite dedotto dalla gravit del danno recato ingiustamente dal
colpevole.

Ma la legge del talione suppone gi del giudici instituiti per inflig


gere le pene; importa un secondo passo fatto assai presto dalla societ

nella via dell'incivilimento; anzi osiamo dire che le pene non si trova
no inflitte ordinariamente dall'individuo offeso se non nelle societ de

cadute, mentre le prime memorie dell'umanit ci mostrano sempre l'eser


cizio dell'autorit punitrice annesso ad una qualche specie di superio

rit, fosse pure patriarcale o sacerdotale.


Queste idee, questi usi, queste leggi primitive furono le basi sulle
quali vennero foggiati parecchi sistemi intorno all'indole, allo scopo e
all'esercizio del diritto di punire.
-

La pena del talione (talis esto) deve considerarsi e come norma data

ai giudici per regolare la misura della punizione, e come freno imposto


alla vendetta privata, troppo facile a trascorrere oltre i limiti dell'o
fesa, e quindi a recare un male maggiore di quello che si ricevuto.

PARTE II.

185

Considerata come norma del giudice, essa, se si eccettui il caso del

l'omicidio, indica piuttosto la proporzione fra il delitto e la pena, che

non una perfetta identit del castigo col danno recato; considerata poi
come limite alla vendetta privata, serv di base al sistema della composi
zione, che troviamo comune a tutte le genti rozze, sostituito alla ven

detta privata come prima ed umile conquista della legalit sulla forza

brutale, onde viene fissato un prezzo legale da pagarsi per l'omicidio ed


ogni altro delitto, secondo la sua gravit e la condizione sociale della
persona uccisa od offesa.
- In questo, come in tante altre cose, il vecchio e il nuovo mondo si
assimigliano perfettamente, perch l'umanit da per tutto la stessa.

Fra i popoli dell'Oceano indiano e fra i selvaggi dell'America si trovano


le tracce del componimento pecuniario per soddisfazione dei delitti;
come tra i Franchi, i Germani, gl'Irlandesi, i Musulmani, ec. (1). "
Ma la societ progredisce; gli elementi che la barbarie teneva disor
dinati e scomposti un poco alla volta si riuniscono, si ordinano; ed il
potere supremo acquista fermezza e solidit. Nel delitto s'incomincia a

vedere qualche cosa pi che una semplice offesa del privato. La societ
e chi la regge apprende a conoscere i suoi doveri e la sua autorit. Il

preteso diritto di farsi giustizia da s viene tolto, la giustizia criminale


si esercita con certe forme da persone cui la sovranit ne delega il mi
nistero. Le leggi si modellano su questi principi, e dopo le leggi ven

gono le teorie. Tutto questo non l'opera d'un istante. Quanti secoli e
quanti traviamenti prima di giungere a qualche cosa di ragionevole, o
almeno di tollerabile!

La scienza del diritto penale abbraccia quattro gravissime ricer


che (2):

Qual l'essenza del diritto di punire?


Qual il fondamento che lo rende giusto?
Qual il suo scopo?

Quali sono le regole pe'l suo esercizio?


I vizi delle diverse teorie intorno al diritto penale derivano o dal
l'avere preterito alcuno di questi quattro capi egualmente importanti,
e strettamente l'uno coll'altro connessi; o dal non avere abbracciato e

sviluppato tutte le idee che ciascuno di essi comprende.


(1) Vedi la Nota I. a pag. 197.
(2) Vedi il Capo V. di questa Parte II.

486

SAGGIO

VENDETTA. Il sistema nel quale il diritto di punire si mostra

come una vendetta, qual pi si voglia o individuale o sociale, tende a


determinarne l'essenza; ma ne d un'idea falsa, e che non racchiude

nessun principio atto a dimostrarne la giustizia intrinseca, lo scopo e le


regole del suo esercizio, perch la vendetta sfogo di passione, non
esercizio di un diritto o di un'autorit conforme alle regole della ra

gione giuridica e morale.


TALIone. La dottrina del talione, nel significato pi mite che gli
viene attribuito comunemente, stabilisce un principio giustissimo per

servire di guida a chi deve fare le leggi penali, in quanto pone per base
delle medesime la proporzione esatta fra il delitto e la pena; ma consi
derata come sistema scientifico, non soddisfa alle quattro ricerche fonda
mentali test ricordate.

Essa infatti non d l'idea dell'essenza del diritto di punire, non som

ministra un principio per dimostrare con la ragione l'origine di questo


diritto, non ne indica lo scopo; ma soltanto, come dicevamo, esprime
l'idea che deve regolarne l'esercizio.
CoMPosizioNE. Il sistema della composizione, in quanto si distin

gua dal vero talione, considerato come norma a cui i giudici debbano
conformare la pena, inchiude una idea vulgare, propria soltanto di gen
ti inculte; ed essendo affatto positivo ed arbitrario, non serve nemmeno
a dare una norma generale sufficiente per la misura della pena.
EsEMPIo. Il male che reca il delitto s all'offeso che alla societ

rende necessario il prevenirlo. Questa idea produsse il sistema dell'esem


pio, che domin universalmente sino verso la fine dello scorso secolo. Si

aggravino dunque le pene, s'incrudelisca contro il reo: quanto mag


giori saranno i patimenti che gli si faranno soffrire, tanto pi ne rimar
ranno spaventati quelli che sarebbero disposti a commettere i delitti.
Tali sono le conseguenze ovvie di questo sistema, praticato pe'l corso di
molti secoli: conseguenze che purtroppo non sono esagerate dall'ima
ginazione.
Ma la natura sempre pronta a dare una solenne mentita a quelli

che in suo nome si fanno giuoco dell'umanit, e a colpire di tremende


sanzioni ogni atto che infranga le sue leggi intangibili. La esagerazione
delle pene moltiplica i delitti, e sopra tutto apre il varco ai pi atroci
misfatti. (Vedi Capo ultimo)
Non quindi da cercare in questo sistema l'idea precisa del diritto

penale, n la norma giusta per l'applicazione delle pene; meno poi il

PARTE II.

487

fondamento che ne rende legittimo l'uso. Vi si scorge appena il fine di


prevenire nuovi delitti.
Ed giusto e necessario che si prevengano; ma la questione non cade
gi sullo scopo, s bene sull'indole, sulla giustizia e sulla misura del
mezzo che si adopera onde prevenire. Chi negherebbe ad un padre il di
-

ritto, il dovere anzi di procurare il sostentamento e il benessere de'

suoi figli? Ne verr perci ch'egli possa giustamente gettarsi alla stra
da per assalire e derubare chi passa, onde formare alla sua famiglia un
sufficiente patrimonio? E pure, logicamente parlando, si pretende qual
che cosa di simile da chi ripone tutta la giustizia delle pene nella ne

cessit dell'esempio. Prendere un delinquente, cacciarlo in un carcere,


o appenderlo ad un patibolo, perch chi lo vede non commetta un si
mile delitto: ecco tutto.

L'assurdit del principio, l'odioso arbitrio, al quale apre un campo


larghissimo, hanno fatto ricercare in altri principi quelle norme di giu
stizia penale, che nel sistema dell'esempio, ossia della prevenzione, in
vano si desiderano.

DIFESA DIRETTA. Se il delitto esercita nella societ un'azione di

struggitrice costante, se la societ ha diritto di esistere, se ogni indivi


duo che la compone ha pure il diritto d'essere tranquillo e sicuro;

giocoforza ammettere nella societ il diritto, anzi il dovere, di punire


chi si fa violatore degli altrui diritti per difendere quelli che ne sono le
vittime: ecco il sistema della difesa diretta.
Per necessaria conseguenza di questo principio ne venne, che si ri
guardasse la punizione come una guerra della societ contro il delin
quente. E siccome il delitto manifesta in chi lo commise una tendenza a
violare l'ordine della comune giustizia, cos il porlo fuori della possibi
lit di offendere fu riguardato come un atto di difesa esercitato contro
il delinquente medesimo.
Qu non si dimentica interamente n l'indole, n il fondamento di
giustizia, n lo scopo del diritto penale. Ma l'idea dell'indole sua falsa.
La difesa importa una offesa attuale, o certamente futura. Il delitto

un'offesa; ma quando si punisce una offesa passata: e se si punisce


per le possibili offese future del delinquente, mancano tutte le condizio
ni che autorizzano la difesa, entro i limiti della ragione giuridica e mo
rale, contro le lesioni future certe ed imminenti dei nostri diritti.

La giustizia della punizione derivando da quella della difesa, manca


tostoch manchi nella pena l'idea di una vera e giusta difesa,

488

SAGGIO

Lo scopo sta nel prevenire i futuri delitti dello stesso delinquente;


ma se non esiste certa minaccia di futuri delitti per parte del delinquen

te, non esiste pi lo scopo, come non esiste mai una misura per deter
minare il grado della pena. Anche un piccolo delitto mostrerebbe la ten
denza a commetterne; e la sicurezza contro nuovi attacchi del reo non

si potrebbe avere che nella sua morte, o nel carcere a vita.


Per altro, con tutti i gravi difetti ond' macchiata, questa dottrina

segna un gran passo nella scienza del Jus criminale, giacch fece sen
tire la necessit di fondare il diritto di punire sopra una base atta a

dimostrarne la giustizia, legandolo alle teorie del diritto naturale.


CoNTRATTo. E sopratutto da quelle del diritto publico, al quale

il diritto penale appartiene, tent derivarlo nel passato secolo una scuo
la che sembra essersi proposto di accumulare gli assurdi, far guerra al
senso comune, ed avvilire la umana dignit, predicando la teoria o me

glio il sogno del contratto sociale.


Posta come base della societ una convenzione tra gli uomini da pri
ma viventi nello stato cos detto di natura, da questo preteso fatto giu
ridico si volle derivare ogni diritto dello stato sociale, e quindi anche
il diritto di punire.

Secondo questo sistema, il diritto di punire risulta dalle cessioni fatte


dagl'individui nel sociale contratto: un delitto verifica il casus foederis
preveduto nel patto di aggregazione; il delinquente si priva da s del
diritto d'essere rispettato, perch sotto questa condizione egli fu sino
allora protetto dal potere sociale. Lungo lavoro sarebbe l'esporre tutte le
gradazioni di questa dottrina, tutte le difficolt che i suoi stessi propu
gnatori incontrarono, tutte le contradizioni in cui caddero. Di pi:

l'opera sarebbe gettata, perch il principio, onde si prendono le mosse,


una ipotesi che ripugna alla natura dell'uomo, e ai fatti storici co
stanti di tutti i tempi.

Ammettere la esistenza di un fatto giuridico che importi contradi


zione con la natura umana e con la storia, tale assurdit che fa ver

gogna il solo ricordarla. Eppure gli attacchi i pi seri contro le pratiche


dominanti in quell'epoca circa la punizione dei colpevoli, e l'impulso
alla riforma delle leggi criminali fu dato dai sostenitori di una tale

teoria. Se per altre fonti non si avesse notizia della gravit del male,
cui si cominciava a cercare un rimedio, basterebbe a farlo conoscere ol

tre ogni dire gravissimo questo solo, che un ammasso di assurdit pot
essere per quei tempi una reazione benefica.

PARTE II.

i 89

Allo stesso sistema del contratto sociale appartiene la teoria che sta

bilisce per massima, andar privo l'uomo del diritto d'essere trattato co
me un essere ragionevole dal momento che offende i diritti altrui, per
ch il diritto suppone la reciprocit. Nessuna differenza quindi tra i
vari delitti; tutti egualmente importano l'espulsione dalla societ. Non
colpa del sistema, ma della tenerezza di cuore di chi lo professa, se
tutti i delitti non vengono egualmente puniti con la morte; e se invece

la pena si considera come un contratto, nel quale per questo prezzo il


delinquente ritorna in seno della societ. Con la pena di morte per le
violazioni gravissime il reo espia il commesso delitto.

Per questi sistemi fecero sorgere due questioni, l'una gravissima


tanto, quanto l'altra vana.
Se il diritto di punire deriva da cessioni avvenute nel contratto so
ciale, queste consistono nel deposito fatto in mano della societ d'un di
ritto di punire che aveva l'uomo individuo nello stato di natura?; o

consistono nella rinunzia che fa l'uomo del diritto d'essere rispettato


nel caso che si faccia reo di un delitto? In altre parole: il diritto di
punire esisteva o no nello stato di natura?

L'altra questione veramente grave si agita sulla giustizia e sull'op


portunit della pena di morte.

Se lo stato d'indipendenza, d'isolamento, o, come dicono, di natura,


avesse mai in qualche luogo esistito o fosse per esistere, o almeno si
potesse pensare esistente, la prima questione avrebbe un'importanza;
ma dal momento ch'essa deriva da una ipotesi inammissibile, non me
rita che alcuno se ne occupi. E infatti, per consentimento di tutti i savj
scrittori e pensatori, sarebbe passata fra i pi, se non vi fosse stato chi

tentasse di tenerla in vita. Di che non da fare le meraviglie, perch


nelle scienze morali si trov da un pezzo l'arte di tornare a nuova vita
anche i cadaveri.

Ma la questione sulla pena di morte di ben altro momento, e ne par


leremo dopo stabiliti i principi che regolano la proporzione tra le pene
e i delitti, dipendendo da questi principi la soluzione di essa.
CoRREzioNE. A lato della teoria del contratto sociale si elev un

altro sistema di penale diritto, appellato della riparazione o correzione.


Due mali fa il delinquente: egli nuoce all'offeso, e quindi gli deve

un risarcimento proporzionato al danno che gli rec; egli nuoce alla


societ scemando col suo malo esempio il rispetto alle leggi, e quindi
deve un risarcimento alla societ,

100

SAGGIO

Questo risarcimento si ottiene con la pena: mentre il colpevole la


sconta, la legge riprende la sua forza sull'animo dei popoli. Perci la
pena una correzione privata e publica: privata, del reo; publica, di
quelli che dal suo esempio potrebbero essere al delitto eccitati.
Ecco uno scopo giusto della pena. Ma quale sia il principio con cui
si dimostri essere la pena intrinsecamente giusta, considerata siccome

mezzo; quale sia la misura della medesima per ogni delitto; non si pu
determinare in questo sistema.
Recentemente un insigne scrittore, che abbiamo altrove avuto occa

sione di ricordare, il ch. P. Taparelli, ha dato nuova forma a questa dot


trina in modo degno dell'alta sua mente. E se nel Saggio teoretico, ch'
un Trattato di morale, e non propriamente di diritto, come accennerebbe

il suo titolo, apparisse pi chiaro l'elemento giuridico, crediamo che,


seguendo una via non troppo diversa da quella ch'egli tenne, si potrebbe
giungere alla giusta idea del diritto di punire, e si potrebbero quindi
cessare i difetti che presenta la sua teoria.
INFRENAMENTo Psicologico. N meglio si possono determinare

i due essenziali principi della penalit, giustizia intrinseca e proporzio


ne, nel sistema dell'infrenamento psicologico, che ha in mira di allonta
nare dal delitto mediante il timore di un male che si presenta alla mente,

ed agisce come motivo sulla volont per trattenerla dal misfatto. In que
sta dottrina si considera la pena minacciata nel suo modo di agire sulle
determinazioni della volont; nell'effetto che pu derivarne, quando
l'uomo eccitato dal motivo si determini liberamente a non commettere

il delitto: ma non si dimostra perch sia giusto l'uso di questa minac


cia, n fino a qual punto si possa estendere il male minacciato.

RIMUNERAzIoNE. In luogo di risolvere i grandi problemi della


scienza, vi sorvolarono i seguaci del sistema della rimunerazione. Nes
suna ingiustizia deve sopportare la societ nel suo seno: dunque si ca

stighi quello che ha violato le sue leggi. Il delinquente non potrebbe la


gnarsi d'essere trattato al modo stesso ch'egli tratt gli altri. Questa
teoria ha il pregio di far sentire la necessit d'una proporzione fra la

pena e il delitto, e di stabilire come base, onde dedurla, il grado d'in


giustizia dell'azione commessa. Ma lascia dall'uno de'lati l'essenza, la

giustizia, lo scopo delle pene. Castigare per castigare, punire per puni
re, non un postulato che soddisfi la ragione. Se il delinquente ha com
messo un'azione per s ingiusta, ci non prova che un'azione analoga
praticata contro di lui cessi per questo solo motivo d'essere ingiusta.

PARTE II.

191

UTILIT. L'utilit che deriva dalle pene nella societ incontra


stabile; ma l'utilit l'effetto della giustizia, e non pu esserne la nor
ma. Quelli che hanno confuso l'effetto con la causa; che hanno sostenuto

essere giusto ci ch' utile; che hanno posto, in una parola, l'ombra in
luogo del corpo; hanno voluto provare la giustizia delle pene con la
loro utilit. Se bastasse l'avvertire gli assurdi e le contradizioni di un

sistema qualunque per abbatterlo, quello dell'utilit in diritto, come


nella morale, da un pezzo non esisterebbe pi che nella storia. Ma la

corrotta natura dell'uomo tale, che quanto tende a favorire le passio


mi trova sempre fautori. Dall'antichit pi remota fino a nostri giorni
il giusto e l'onesto ebbero sempre a lottare contro dell'utile; dell'utile

che va sempre compagno del giusto, ch' un carattere del diritto, ma


non pu esserne il fondamento, il principio.

E tanto meno pu essere il fondamento del diritto di punire, perch


in questo sistema essendo giusto ci ch' utile, anche il delinquente pu
sostenere che il suo delitto non delitto, giacch egli lo commise perch
gli torn utile. Dunque la pena non sarebbe che l'esercizio di una forza
prevalente, in guisa che se il colpevole fosse il pi forte, non si potreb
be dire che la sua azione fosse ingiusta, e quindi punibile.

DIFESA INDIRETTA. Allo scopo delle pene si riferisce principal


mente la teoria della difesa indiretta, sviluppata ampiamente da Roma
gnosi nella Genesi del diritto penale; della quale teoria non occorre qu

ragionare, dappoich ci converr parlarne di proposito nel Capo VIII.


di questa Parte II.
RETRIBUzioNE MoRALE. Sembr a taluno di poter soddisfare alle
quattro ricerche della scienza del Jus criminale ricorrendo alla coscienza
dell'umanit, ed applicando alla teoria delle pene le dottrine platoniche

e quelle della scuola filosofica scozzese. Sostenne pertanto essere le pene


una retribuzione del male per il male, giustificata dalla coscienza del
l'umanit, che ammette la connessione necessaria tra la colpa e la pena,

avente per iscopo non soltanto la difesa della societ, ma la conserva


zione dell'ordine morale, e per misura la pravit assoluta dell'azione.
Tale dottrina si riduce in fine ad una petizione di principio, pone un
fatto indeterminato come base fondamentale di una scienza tutta razio

male, sostituisce alla nozione giusta del delitto e della pena l'idea della
colpa relativamente alla morale, e conduce per necessaria conseguenza
alle deduzioni le pi contrarie all'indole tutta esterna e puramente so
ciale del sistema punitivo.

192

SAGGIO

Di fatto, come si accennava da prima, conforme al senso comune


dell'umanit l'idea, che la colpa merita pena; ma il sentimento per

s vago, indeterminato, e domanda, per costituire la base di una dottri


ma veramente scientifica, d'essere rafforzato da un principio razionale,
assoluto, indipendente dal fatto di coscienza. Il dire che le pene sono

giuste perch tutti ammettono che la colpa merita pena, non dare alla
scienza una solida base, perch il fatto da per s solo non un princi
pio, e molto pi perch un tal fatto non abbastanza distinto da altri
fatti anche ingiusti. Se la pena fosse giusta soltanto per questo, che si
desidera da tutti che il delitto sia punito, si potrebbe per eguale motivo

pretendere che sia giusta la vendetta privata, perch l'offesa eccita l'av
versione contro la causa che la produsse: ci che nessuno sosterr.

Dunque la teoria che fa consistere il diritto di punire in una retribu


zione morale s'appoggia sovra un principio che ha bisogno di un altro

principio, che non vale se non in forza di un altro principio.


La nozione del delitto e della pena falsa, perch questa voce della
coscienza non distingue esattamente quanto alla pena l'azione puramente
immorale dall'azione ingiusta che dev'essere sottoposta a pena: essa
porterebbe quindi alla conseguenza, che tutte le azioni contrarie ad una

legge naturale qualunque, sia morale, sia giuridica, dovessero essere


egualmente nella societ punite.

La pi grande indeterminazione e l'arbitrio, s nelle azioni da pu


nire, come nella misura delle pene, sarebbero le naturali conseguenze di
un cos fatto sistema.

SisTEMA PENITENZIARIo. Analogo al precedente, sebbene esclusi


vamente diretto a regolare l'uso delle pene in ordine ad uno scopo che
si pretende l'unico, o almeno il principale delle medesime, si il siste
ma del perfezionamento morale, ossia il cos detto sistema penitenziario,

del quale da alcuni anni si mena un grande rumore, e che ha il suo lato
buono, non sempre per scevro da esagerazioni.
Il lato buono consiste nell'ordinamento dei luoghi di pena in guisa
-

da provedere al miglioramento morale de'rei. E questo, a dir vero, non

c'era bisogno di andare ad impararlo dai Quacheri di America, perch


il sistema penitenziario nacque in Europa, e proprio in Italia, a Roma,
dove lo s'introdusse nelle carceri di S. Michele fin dal 1703, mettendo

in atto quell'aurea sentenza, che esprime la vera idea del sistema peni
tenziario saggiamente inteso: Parum est coercere improbos poena, misi
probos efficias disciplina,

PARTE II.

93

Ma convertire il sistema penitenziario, che risguarda la disciplina e


il regime delle carceri, in una teoria di diritto penale, confondere cose

disparatissime. Poich se il miglioramento morale del colpevole deve en


trare nell'economia penale, il limitare a questo solo l'indole e il fine

delle pene travisarne la natura e lo scopo, distruggere almeno in


gran parte l'efficacia della pena per la difesa della societ.
Questo sistema, come teoria del diritto penale, fu careggiato da quelli
che avversano in un senso assoluto e in tutti i casi la pena di morte;
della qual disputa parleremo a suo luogo. Per essi una pena che non

serve direttamente al miglioramento morale del reo non si deve inflig


gere, anche quando non ve ne sia un'altra da sostituire proporzionata
alla giuridica gravit del delitto; e questa crediamo dottrina, a non dir
peggio, esagerata. ancora dottrina incompleta, perch si limita a con

siderare il solo scopo della pena, ed anche questo parzialmente, lascian


giusta, e della
misura per applicarla ai fatti criminosi specialmente pi gravi; e sopra
do dall'un de'lati la ricerca del fondamento che la rende

tutto quella dell'intima natura della pena in relazione alla legge giuridica.
N mancano le esagerazioni del sistema penitenziario anche limitato

all'ordinamento delle carceri. Certamente egli officio nobilissimo e do


veroso l'usare umanit eziandio co i colpevoli, l'impedire che le carceri
divengano scuola di maggior corruzione, e far s che il delinquente trovi

nella pena un mezzo di pentirsi e di ritornare sul sentiero della virt.


La morale e la dignit umana, che non si cancellano mai nemmeno nel
delinquente, esigono rispetto, e chiamano a s l'attenzione dei legisla
tori. Ma purtroppo l'uomo tante volte spinge le cose agli estremi, ed
esce da quella mezzana via, nella quale si trova la verit! ; pur troppo
tante volte siamo illusi dall'apparenza del bene! Al sentire certi filan

tropi esageratori, al vedere tante somme e tante fatiche impiegate, e


tante difficolt superate per procurare abitazione conveniente, vitto salu
tare ed abbondante, educazione morale, letteraria ed artistica ai delin
quenti, si direbbe che si tengono come la pi preziosa parte della societ.

Frattanto intiere generazioni crescono nelle officine senza idee reli


giose, senza educazione, senza sviluppo fisico. Sembra che in certi paesi
i governanti e i filantropi pongano il delitto come condizione per ap
prestare i sussidi, i quali dovrebbero essere dati innanzi tutto agl'ine

nocenti, e adoperati a prevenire le tentazioni a delinquere (1).


-

(1) Vedi la Nota II. a pag. 201.

494

SAGGIO i

In altri luoghi a lato delle carceri penitenziarie sussiste la schiavit,


cui non valsero ancora ad abolire tutti gli sforzi dell'intiera Europa e
di molta parte d'America.
Non intendiamo gi di biasimare le tendenze morali del nostri tempi
intorno al regime delle carceri, n di negare la dovuta lode ai tentativi

che si vanno facendo per migliorare la condizione delle classi povere:


diciamo bens, che si deve lasciare ogni cosa al suo posto; che la pena
non deve cambiar di natura; n si deve pensare seriamente ed efficace

mente a migliorare l'uomo soltanto quando divenuto colpevole, accon


tentandosi di qualche provedimento al tutto insufficiente per togliere al
l'inedia, all'ignoranza, alla immoralit tanta parte delle popolazioni,
lasciando sussistere le cause principali producenti le tentazioni al delitto.

Sopra tutto non si devono trascurare i buoni principi della scienza per una
esagerata filantropia. Non basta pensare al miglioramento delle carceri;
bisogna pensare a migliorare le leggi criminali, e a mettere accanto ad
esse tutte quelle instituzioni accessorie che servano a prevenire i delitti.

A questo si diede opera in tutti quei paesi ne'quali si amano pi tosto


gli effetti reali, che non i sogni delle ferventi imaginazioni. Gli Asili
per l'infanzia, le Commissioni di beneficenza, gl'Instituti di educazione
specialmente per le classi povere, le leggi che pongono regola al lavoro
dei ragazzi nelle officine, le Casse di risparmio, le Case di ricovero, e
sopra tutto quelle d'industria, le Societ di patronato pe'i liberati dal
carcere, quelle di soccorso agli operaj, ec., servono a prevenire i de

litti meglio che non tutte le sottili combinazioni dei sistemi peniten
ziari, e producono grandissimi benefici. Certamente v'hanno difetti e
bisogni grandi, cui si dee provedere; ma quello che si fatto un buon
pegno di quello che si ha da sperare nell'avvenire.
-

Quanto al miglioramento delle legislazioni, una buona teoria intorno

al diritto di punire indispensabile, perch senza buone teorie impos


sibile aver buone leggi; e, anche dopo le buone leggi, le buone teorie
sono necessarie per applicarle come si conviene. Quel vim ac potestatem
tenere, nel quale la romana sapienza faceva consistere la cognizione

delle leggi, impossibile, ove manchino i lumi della scienza.


Da questa breve esposizione dei sistemi intorno al diritto penale ap
parisce che nello stato in cui si trova attualmente questo ramo impor
tantissimo delle scienze giuridiche non c' nessuna teoria che si fondi

sovra un principio puramente giuridico, il quale solo pu legittimare


pienamente dinanzi alla ragione l'uso del magistero penale. Se la legge

PARTE II.

195

del giusto non riconosce conforme alle sue norme l'uso delle pene, esso
manca di fondamento: la sua teoria pogger, se si vuole, sovra principi
politici, utilitari, legali-positivi, o di sentimento non giustificato da ra
gioni sode e convincenti; ma non sar una teoria che possa dimostrare
giuste le pene. Una teoria che a ci valga non pu essere stabilita sopra

verun altro fondamento, che quello non sia della conformit fra le pene
e la legge giuridica naturale; conformit non asserita, non presunta, non
sentita soltanto, ma bens dimostrata.

Nei primi Capi di questa seconda Parte abbiamo tentato appunto di


dare tale dimostrazione, deducendo il diritto di punire direttamente

dalla legge giuridica razionale. La nostra teoria, che considera le pene


come sanzione giuridica, ed , come vedremo, sostanzialmente diversa

da quelle che appariscono ad essa pi affini, ci parve rispondere a tutte


le ricerche della scienza del diritto penale, le quali, come toccammo di
sopra e svilupperemo a suo luogo, si riducono a quattro, che risguarda
nola essenza, l'origine, lo scopo e la misura delle pene.
Ma le scienze morali, che hanno per iscopo di regolare l'uso libero
dell'umana attivit, non potendo stare contente ad astratte speculazioni,
vogliono che i loro principi siano ampiamente disviluppati, e servano di
norme direttrici all'operare umano, in qualunque rapporto o condizione
si consideri l'uomo.

Il procedimento delle ricerche nelle discipline morali, in vista del


loro scopo supremo, consta essenzialmente di tre gradi. Il primo abbrac
cia i principi teoretici fondamentali; nel secondo si analizzano a parte a
parte i rapporti speciali, e la natura degli atti, alla cui direzione tende

appunto la data scienza; il terzo infine applica i principi astratti e ge


nerali ad ogni atto speciale, la cui natura si conosciuta nelle prece
denti indagini analitiche.
-

-- -

Chi non voglia seguire questo metodo non pu sperare di giungere a


nulla di certo e dimostrato ed utile

per la pratica nelle

scienze morali.

Le pure teorie nelle scienze pratiche sono inutili, se non servono al


l'opera; e viceversa non si potr giustamente operare senza la guida
delle buone norme direttrici, senza la cognizione della natura degli atti
che voglionsi regolare, o sui quali vuolsi influire.
La scienza della legislazione domanda appunto buoni principi teore

tici, diligente analisi degli atti e dei fatti, rette e giuste applicazioni
particolari. E tanto pi le domanda l dove pi grave ed importante si
l'argomento sul quale deve stabilire norme direttrici le azioni dei pri

196

SAGGIO i

vati e delle publiche autorit in ci che spetta all'effettiva osservanza,


della giustizia, all'assicurazione dei diritti, alla tranquilla convivenza
degli uomini in societ.

Questa suprema importanza appartiene senza dubio alla giurispru


denza criminale per l'indole delle azioni sulle quali deve esercitare la

sua attivit questa parte della legislazione, per l'effetto che si propon
gono di conseguire le leggi criminali, pe'i mezzi che di loro natura de
vono adoperare, e per le gravi questioni che si agitano tuttavia fin anco

intorno ai principi fondamentali sui quali poggia la giustizia delle pe.


ne, la regola per determinarne le gradazioni, ei modi e le forme con cui
debbasi applicarle.
Queste considerazioni ci fecero sentire la necessit di sviluppare le

dottrine puramente teoriche, che avevamo stabilito, e che ci sembravano


sorrette da validi argomenti, onde renderne agevole l'applicazione alle

positive legislazioni.
Perci abbiamo preso ad analizzare la diversa indole giuridica delle

azioni punibili, a stabilire il criterio che serve a distinguere le lesioni


che devono essere assoggettate a pena, da quelle per le quali si deve
far luogo alla sola azione civile, ec.; a ravvicinare, in una parola, le
teorie generali alle viste pratiche, che fanno servire le teorie di spie
gazione e di commento alle leggi fatte, quando sono buone, e di norma
immediata per quelle da farsi in qualunque tempo e luogo.
La classificazione delle lesioni punibili, derivante dall'analisi delle
gradazioni e specie diverse, doveva muovere necessariamente dal

loro

la indagine delle specie dei diritti e dei doveri nascenti da qualsivoglia


rapporto esistente fra gli uomini, lasciata da parte ogni astrazione, la
quale se prudentemente adoperata pu giovare ad una pi facile intel
ligenza dei diritti e dei doveri giuridici degli uomini, sarebbe assurdo
farsene puntello e base nelle ricerche pratiche, le quali tendono a deter

minare l'indole, le specie, le classi di tutti i diritti e doveri, quali in


realt sussistono in forza dei rapporti reali e necessari che li generano,
considerati nel loro insieme e concretamente.

Seguendo sempre i principi stabiliti nella Parte I. di questo Saggio,


abbiamo considerato le disposizioni e le sanzioni delle leggi positive
quali devono essere, non gi come suggerite in parte da vedute di poli
tica convenienza, ma come necessaria derivazione ed applicazione dei
principi del diritto dedotti dalla ragione; per cui i doveri imposti, i di

ritti attribuiti, la sanzione adoperata dalle leggi positive debbano essere

197

PARTE II.

doveri, diritti e sanzione, determinati i primi, voluta questa dalle leggi


naturali, tanto se si guardino i rapporti privati che i publici; poich le
conseguenze della societ, l'utilit stessa che subordinatamente alla giu
stizia deve promovere il potere supremo, derivando da un rapporto es
senziale e necessario dell'umanit, quale si lo stato sociale indipen
dente da qualunque atto arbitrario e facoltativo, costituiscono una fonte
di veri diritti ed obbligazioni giuridiche naturali. Ond' che i doveri

imposti dalle leggi positive devono sempre essere immediatamente o


mediatamente, o almeno nella loro remota origine, fondati sopra la giu
stizia e l'obbligazione naturale considerata nella sua vera e compiuta,
idea, che comprende tutte le relazioni nascenti dai caratteri dell'uomo,
ch' ad un tempo ente ragionevole, libero e socievole. Senza ci le leg
gi civili sarebbero l'opera del capriccio, che imporrebbe vincoli arbi
trari; non gi l'espressione della ragione naturale fatta chiaramente ma
nifesta, e nelle sue particolari applicazioni determinata pe'l ministero
del potere legislativo.
-

Se l'ardua meta, alla quale abbiamo mirato, troppo superiore alle


nostre forze, speriamo almeno di non avere sconosciuto i buoni principi,
e di non aver fatto opera inutile e vana.

498

SAGGIO

ea

, -

* * -

NOTA I.
sopRA IL COMPONIMENTO PECUNIARIO PE I

DELITTI.

sa

E un fatto dei

pi curiosi che s'incontrino nella storia della legislazione,


e che dipinge al vivo l'indole dei costumi e il grado di coltura dei popoli
rozzi che le dettarono, quel cumulo di leggi, le quali stabiliscono il prezzo
che dev'essere pagato in soddisfazione dei delitti a danno delle persone.
Ecco un saggio delle composizioni pecuniarie, prezzo del sangue e delle
ofese personali, mantenute ed accresciute nella misura anche quando nel
progresso del tempo scomparve il diritto della privata vendetta, da cui si re
dimeva il delinquente pagando la multa legale. I Capitolari di Carlo Magno
infliggono l'esiglio o la prigione a chi si rifiuti di pagare la composizione:
fosse rispetto alle consuetudini, o piuttosto bisogno di conservarle per non
privare il Fisco di una gran parte delle sue entrate.

Vidrigild dei Franchi Salici e Ripuari.


I. CLAssr.
Uccisione di un Vescovo
D'un Antrustione . . .

. . .
. . .

.
.

.
.

.
.

. soldi 900.
.
600.

Per complicit od uccisione in una foresta . . 1800.


D'un Prete, d'un grafione o sagbarone . . .
Di un Diacono . . . . .
Di un Suddiacono . . . .
Di un Romano conviva del Re
II. CLAssr.
Per un Franco libero . . .
Se in una foresta o bruciato.
Per un Romano libero . . .

600.

.
.
.

.
.
.

.
.
.

.
.
.

.
.
.

.
.
.

500.
400.
300.

.
.
.

.
.
.

.
.
.

.
.
.

.
.
.

.
.
.

200.
600.
100.

Per complicit . . . . . . . . . . .
Per uno straniero Borgognone, Frisone, Tede-

300.

sco, Bavaro. .
Donna incinta
III. CLAssE.

. .

. .

160.

700.

Per un Romano colono . . . . . (Leg. Sal.)

45. (Leg. Rip.) 36.

Schiavi. . . . . . . . . . . . . .

36.

Ferite.

Mano o piede tagliato . . . . . (Leg. Rip.)


storpiato. . . . . . . . .
Occhio cavato

ferito.

, .
. .

. . . . . . . . .
. . . . . . . .

Orecchio tagliato o ferito

100. (Leg. Sal.) 62. 1/2


50.

100.

50.

. . . . . . 100, o 50.

62. 1/2
45.

PARTE II.

199

Ingiurie.

Capelli tagliati ad un fanciullo . . . . . soldi

. .

Franco malmenato da un Romano

- . . .

36.

15.

Trattar uno da vile. . . . . . . . . .

15.

da lepre . . . . . . . . .
da volpe . . . . . . . . .

6.

Romano da un Franco .

2)
2)

62. 1/2

3.

Valore dei soldi dedotto dal prezzo delle cose


secondo la Legge Ripuaria.
Prezzo di un bue sano e con le corna.

d'una vacca, simile

. .

soldi

2.

. .

1.

di un cavallo sano e veggente . . . .


di un giumento, simile . . . . . .
di una spada col fodero . . . . . .
senza fodero .
di una buona corazza. . .
di un elmo col cimiero . .

.
.
.

M)

Buone gambiere

.
.
.

.
.
.

.
.
.

. . . . . . . .

Scudo con la lancia

Sparviere non domato . . . . . .


2)
allevato a prender gru. . . .
di muda

bo

6.
3.
7.
3.
12.
6
6.
2.

3
6.
12.

Veregild dei Longobardi distinti secondo le classi


sociali degli offesi.
Libero.

Delitti.

Omicidio

soldi

Un colpo alla testa . . . . .


Due . . . .
Occhio levato .

.
.

.
.

.
.

.
.

.
.

.
.

Aldione.

Schiavo.

60.

50. 25. 20. 16.


secondo l'utilit.

900.
6.

12.
450.

Naso tagliato . . . . . . . 450.


Labro tagl. s che i denti compajano 20.
Dente molare rotto . . . . .
Uno dei denti che si vedono ridendo

8.
16.

2.
4.
30.

25. 12, 1, 2. 10. 8

8.

4.

6.
2.

4.

1.
2.

Piede o mano tagliata . . . . met dell'omicidio . . . .


Pollice tagliato . . .

150.
(C. Gaillardin, Cahiers d'Histoire Universelle.)

8.

4.

E tanto basti per avere un'idea delle applicazioni di questo sistema, che
differisce nei vari popoli barbari soltanto nella misura della somma. Fra i
Borgognoni, ch'ebbero le leggi pi miti, la composizione del nobile di sol
di 50; quella di un uomo mezzano soldi 100; quella di una persona minore 75:
ed , se non prendiamo abbaglio, l'inverso di altre leggi, essendo, a quanto
pare, misurata dal grado del delinquente invece che da quello dell'oeso.
La legge dei Visigoti ha pochi Widrigild; ma bastano alcuni per dimostrare

come il sistema fosse tanto o quanto adottato anche da essi. Alemanni, Angli,

SAGGIO

900

Turingi, Frisoni, Nortumbriani, Irlandesi, tutti, nella sostanza, ad un modo.


Variano i nomi co' quali s'indica, il componimento legale pe'l delitto (Eric
degl'Irlandesi, Wiehrgeld delle nazioni germaniche, e gli altri sopra), che per
derivano tutti o quasi tutti dalla stessa radice. Qualche volta presso alla com

posizione troviamo i castighi corporali e l'infamia; come nella legge dei Bor
gognoni la morte per l' uccisione di un ingenuo, l'infamia per la donna dis
onesta: ma il fondo sempre lo stesso.

N sono da meno i Musulmani, permettendo il Corano che per l'omicidio


volontario si venga a composizione, liberando un Musulmano e pagando una
ammenda, purch il parente pi prossimo dell'ucciso desista dall'azione.

Egualmente per l'omicidio involontario; oppure un digiuno di due mesi, se


l'uccisore non pu pagare il prezzo. La Sonna fissa l'ammenda pe'l sangue
a 100 cameli da distribuirsi fra i parenti del morto, secondo le leggi dell'ere
dit. Questa composizione si riduce alla sola liberazione di uno schiavo, quan
do l'ucciso involontariamente, sebbene Musulmano, sia di una nazione o d'un

partito nemico, o non confederato co'parenti dell'uccisore. L'ammenda pa


gata alla parte offesa per le ingiurie personali era pure il modo ordinario di
applicare la legge del talione,

stabilita bens nel Corano, ma intesa pi tosto

nel senso di proporzione tra il danno e la pena, che non nel letterale.

ai i

4,

ta:

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-

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PARTE II.

201

NOTA II.
sULLA con DIzIoNE comeARATIVA DEGLI OPERAJ, DEI PovERI sovveNUTI
E DEI DELINQUENTI.

Nair Inghilterra, alla quale principalmente

potrebbe riferirsi questo cenno,


non mancano certamente scuole elementari per l'istruzione dei ragazzi po
veri. Anche molti proprietari di fabbriche hanno instituito nell'interno delle

loro officine scuole pe i ragazzi che vi sono impiegati, ed introdussero altri


providi miglioramenti a vantaggio dei poveri operaj (Simon, Tom. II. pag. 18).
Con tutto questo indubitato che le classi laboriose non solo in Inghilterra,
ma in altri paesi ancora, sono ben lontane dall'avere ottenuto tutti i vantaggi

e sussidi che loro sono dovuti, e che i sedicenti filantropi tentano di procu
rare alla peggior feccia dei delinquenti.
Lasciata da parte la deplorabile condizione dell'Irlanda, per non ripetere
cose note a tutti, lo stato degli operai nell'Inghilterra quanto al benessere
materiale in confronto dei poveri sovvenuti dalla forzata carit legale, e pi
ancora dei delinquenti, risulta dal seguente prospetto, che dice pi di qualun
que eloquente discorso.

Scala comparativa del nutrimento che possono procurarsi o che viene


somministrato alle diverse classi degli operai e detenuti in Inghilter
ra, risultante da documenti officiali.
I. Giornaliero indipendente che lavora la terra.
Pane per giorno once 17 . . . . . . per settimana once 119.
Lardo
. . . . .
Perdita nel cuocere

.
.

.
.

.
.

.
.

once 4.
. 1. .

. 3.
Totale once 122.

II. Soldato.

Pane per giorno once 16. . . . . . . per settimana once 112.


Carne

12 per settim. once 84.

20

Perdita nel cuocere .

. .

28.

. . .

56.

Totale once 168.


III. Povero valido.
-

Pane per settimana . . . . . . . . . . . . . once 98.


Carne . . . . . . .
Perdita nel cuocere . .

Formaggio

Pudding

.
.

. . once 31.
. . . 10.

21.

. . . . . . . . . . . . . . . . 16.

. . .

. . . . . . . . . . . . . . 16.
Totale once 151.
14

202

SAGGIO

Oltre queste 151 oncia di nutrimento solido, termine medio, i ricoverati

in qualche deposito di mendicit ricevono ancora per settimana:


Legumi . . . . . . . . . . once 48.
Zuppa . . . . . . . . . . litri 3.40.
Zuppa di latte . . . . . . . . idem.
Birra circa

8.

IV. Delinquente in istato di accusa. (Conta di Lancastro)


Pane per settimana . . . . . . . . . . . . once 112.
Carne
yo
Perdita nel cuocere . .
Polenta d'avena . . . .

Riso

Piselli .

Formaggio

once 24.

.
.

.
.

.
.

.
.

8.
. . .

.
.

.
.

.
.

.
.

16.
40.

. . . . . . . . . . . . . . .

5.

4.

. . .

. . . . . . . . . .

Totale once 181.

(Prigione di Winchester)

Pane per settimana - . . . . . . . . . . . . . once 192.


Carne
b)
Perdita nel cuocere

once 16.

5.

11.
Totale once 203.

V. Delinquente condannato.
Pane
per settimana . . . . . once
. . 56.
. . . . . . once 140.
Carme

yo

Perdita nel cuocere .


Orzo di Scozia
. . .
Polenta d'avena . . .

. . . .
18.
. . . . . . .
. . . . . . .

.
.
.

.
.
.

.
.
.

.
.
.

.
.
-

38.
28.
21.

Formaggio - . . . . . . . . . . . . . . . .

12.

Totale once 239.

VI. Delinquente deportato.


Pane per settimana . . . . . . . . . . . . . . once 218.
Carne

once 168.

bo

Perdita nel cuocere

.
-

.
-

56.

.
1

--

112.
Totale once 330.

Quindi l'operajo laborioso ha meno del povero, il povero meno del pre
venuto, il prevenuto meno del condannato, il condannato meno del deportato;
e discendendo cos fino all'ultimo grado della scala, voi vedete alla fine che il
delinquente deportato riceve alimenti presso a poco tre volte pi abbondanti
dell'onesto operajo! Qual effetto non debbono produrre sul nostro ordina

mento sociale tali leggi, che migliorano la sorte dell'uomo in ragione della
sua degradazione; le leggi che gli dicono: sii ambizioso di divenir povero; aspira
dl

farti condannare !

"

(Da un Articolo sui


effetti della legislazione sul pauperismo di
Eduardo Litton Bulwer, estratto dall'England and the English, e riferito
da Simon nelle sue Osservazioni sulla condizione politica dell'Inghilterra.

Bruxelles 1837 e 1846. Tom. II. pag. 248.)


Da ci si rileva quanto sia vero che tutte le instituzioni di beneficenza,
;

siano pure moltiplici e grandiose, non bastano, quando non siano ben rego

late, e congiunte ad un giusto ordinamento economico della propriet, e so


pratutto animate dai motivi puri e santi che inspira la verit cattolica.
-

CAPO I.
-

Ad ogni legge necessaria una sanzione.

Un principio importantissimo, e fecondo delle maggiori conseguenze,


si quello che abbiamo stabilito nell'ultimo Capo della Parte I., e sul
quale dobbiamo ora ritornare: la necessit cio che ogni legge sia mu
nita di sanzione, in guisa che non si dia vera legge senza sanzione, cio
senza un bene promesso all'osservanza, un male minacciato alla tras
gressione della legge.
La legge ha relazioni con la ragione, e ne ha colla volont: colla ra
gione, in quanto dev'essere dalla ragione conosciuta la norma in che con

siste la legge e la sua forza obbligatoria; colla volont, in quanto deve


uniformarvi i suoi atti liberi. La forza di obbligare costituisce l'autorit
della legge, e deriva dai rapporti fra il soggetto obbligato e il soggetto
obbligante, fra quello cui data la legge e quello che la d. Per questo
carattere di autorit la legge ha tutta la sua forza ed in s stessa per
fetta, ma non lo in relazione alla natura dell'uomo obbligato.
Non basta infatti che la legge sia conosciuta come autorevole dalla

ragione; bisogna altres che la volont si conformi nelle azioni alla leg
ge stessa. Ora la volont abbisogna di un eccitamento per operare; e
questo eccitamento non pu essere che un bene da conseguire, o un male

da evitare con l'azione alla quale si determina (vedi Parte I. Capo III):
dunque se la volont deve praticare le azioni conformi alla legge, ed evi
tare le contrarie, bisogna che vi siano dei beni e dei mali annessi alla os
servanza e alla violazione della legge, cio la sanzione. Questa sanzione
costituisce l'efficacia della legge, cio la forza di eccitare la volont.

N si pu dire che l'adempimento della legge, dovendo avere per


motivo impellente l'ossequio alla legge stessa, il quale si riferisce alla
sua autorit, non abbisogni d'un altro eccitamento estrinseco, qual la
sanzione:

1. Perch la legge essendo di sua natura universale, cio obbligan


do tutti quelli pe i quali emanata, e parlando delle leggi dell'ordine
morale, tutti gli uomini, e ciascuno in particolare; conviene che abbia
una forza proporzionata a questa universalit. Ora pochi essendo quelli

204

SAGGIO

che possono sollevarsi alla meditazione dell'autorit della legge, se in


questa sola consistesse la sua forza eccitante la volont, ne verrebbe che
per il maggior numero sarebbe assai debole questo motivo, se non fosse
accompagnato da un altro facilmente ed universalmente sentito; e questa
universalit e facilit si trova appunto nella sanzione, ossia nel bene pro
messo all'osservanza, nel male minacciato alla trasgressione della legge,
in quanto che il piacere e il dolore da tutti gli uomini, per la costitu
zione della loro natura, sono parimente sentiti e distinti.
2. Perch non s'intende mica di dire che il motivo eccitante la vo

lont sia la sola sanzione; ma che questo motivo viene in aiuto dell'al
tro derivante dall'autorit, in guisa che la legge dev'essere osservata in

vista di questa sua autorit, la quale, principalmente diretta alla ragio


ne, riceve dalla sanzione maggior forza: la forza proporzionata ad ecci
tare la volont all'adempimento della legge stessa.
La legge perfetta adunque deve avere tanto la forza di obbligare la

ragione, quanto la forza di eccitare la volont. Autorit ed efficacia,


ecco i due caratteri essenziali, senza di cui mancherebbe alla legge la
forza proporzionata al conseguimento dell'effetto inteso, ch' appunto
la direzione delle azioni libere umane.

E ci cos vero, che non v'ha esempio di una legge senza sanzione

n nell'ordine naturale, n nel sopranaturale. Anzi gli stessi consigli,


che mancano del carattere di autorit proprio della legge, hanno quello
della efficacia, in quanto va annesso un bene anche all'osservanza del
consiglio, non un male alla non-osservanza, quando non se ne sia assun

ta l'obbligazione, perch appunto manca al consiglio la forza obbligatoria.

CAPO II.
Della sanzione della legge del dovere giuridico in particolare.
-

La buona filosofia, e sopratutto gl'insegnamenti della religione, stabi


liscono la dottrina e il dogma fondamentale, che la sanzione della legge

morale perfetta, e si verifica pienamente soltanto nella vita futura, Po-,


sto ci, e ritenuto che nell'ordine del diritto non si possa parlare di
sanzione, dacch esso non costituisce, come vedemmo, una legge (vedi so
pra, pag. 19); rimane a cercare se la sanzione della legge del dovere

giuridico si confonda con quella della morale, ovvero ne sia diversa, e in


qual senso, e fino a qual punto lo sia,

PARTE II.

205

Per arrivare alla soluzione di questo quesito, importante per s me


desimo non solo, ma per le grandi conseguenze che derivano dalla

dottrina che ci pare di potere stabilire in proposito, quando regga alla


prova di un'accurata ed imparziale disamina, vengono opportune le se
guenti considerazioni.

Ogni legge morale, come vedemmo, suppone un ordine, anzi non

che l'ordine stesso, in quanto lo si considera emanato da un potere ob


bligante gli esseri ragionevoli alla libera effettuazione di esso.
La sanzione rende perfetta la legge, e perci l'ordine, mediante l'ef
ficacia che aggiunge all'autorit della legge stessa.
.
.
t. I

Ora la sanzione non pu produrre questa perfezione della legge, ove


non sia analoga alla legge stessa, ove non si verifichi durante la sussi

stenza di quell'ordine al quale si riferisce la legge, che da essa dev'es


sere perfezionata.

Infatti la legge del dovere etico, che risguarda la coscienza, ed per


ci interna, obbliga l'uomo non solo quanto a suoi atti esteriori, ma s
ancora ai pensieri, alla intenzione; e non solo obbliga l'uomo verso l'al
tro uomo, ma anche verso s stesso e verso Dio. Qualora la sanzione di
questa legge fosse puramente esterna, e si verificasse soltanto nella vita
presente, egli chiaro che sarebbe tolta la efficacia della sanzione stes
sa, cio sarebbe un fantasma, una chimera, non una vera sanzione.

E in vero, o vogliamo che chi infligge questa supposta sanzione sia


un uomo, o sia Dio.
Se fosse un uomo, i pensieri, la intenzione, che non per s stessa
conoscibile dall'altro uomo, sfuggirebbero dalla sanzione, mentre pure
per la natura della legge etica vi sono sottoposti.

Se poi vogliamo che sia Dio, allora il fatto che ci mostra non sempre
applicarsi la sanzione nella vita presente, perch non si consegue sempre

quaggi, almeno pienamente, il castigo dal malvagio e il premio dal giu


sto, ci porterebbe ad assurde e blasfematorie conseguenze, opposte agli
attributi dell'Ente infinito e perfettissimo.
Dunque la sanzione della legge etica e dev'essere necessariamente
-

perfetta solo nella vita futura; quindi sanzione tutta interna, invisibile

all'uomo viatore, in una parola analoga alla legge etica; e di pi veri


ficantesi in un'altra vita, nella quale sussiste sempre l'ordine morale, in
quanto stanno fermi i rapporti di dipendenza dell'ente finito dall'infinito.
Questa condizione merita d'essere bene avvertita. Se si figuri la pie
ma cessazione dell'ordine, al quale si riferisce una legge morale, as

200

SAGGIO

surdo figurare che sussista l'adempimento della sua sanzione, poich la


sanzione perfeziona la legge, quindi l'ordine, al quale la legge si rife
risce; ed assurdo figurare alcun che concorrente al perfezionamento
di ci che pi non sussiste.

- ,

, e

Se ora passiamo ad applicare questi ragionamenti alla legge del do


vere giuridico, noi troviamo alcune notabilissime differenze.

In primo luogo, se l'ordine etico, in forza delle relazioni individuali


fra l'uomo e Dio, continua a sussistere al di l della tomba, l'ordine

giuridico per l'opposto cessa affatto con la vita, poich'esso non sussiste
che in forza della convivenza socievole.

In secondo luogo, se l'ordine etico abbraccia anche gli atti interni,

il giuridico per lo contrario si limita alle relazioni esteriori.


Da ci segue, che la legge giuridica deve avere una sanzione sua pro
pria, distinta da quella della legge etica; altrimenti verrebbe confuso
l'ordine giuridico con l'ordine etico.
Se la sanzione della legge giuridica fosse quella della legge etica,
essa mancherebbe di analogia, perch l'ordine giuridico puramente
esterno e visibile, e quindi esterna e visibile dev'essere la sua sanzione;
mentre quella della legge etica interna ed invisibile.
-

Di pi, poich questa sanzione non si compie pienamente che nella


vita futura, la legge giuridica non avrebbe una sanzione reale, perch si
verificherebbe quando non sussiste pi alcuno dei rapporti, sui quali fon
davasi l'ordine giuridico.

La legge giuridica adunque, se mancasse di una sanzione sua propria


esterna e visibile, come gli atti sui quali ha forza la legge, non sarebbe
una legge di sua natura perfetta.
Non intendiamo dire con ci che gli atti comandati o vietati dalla
legge giuridica siano del tutto sottratti all'influenza della sanzione in

visibile; ma solo, che non soggiacciono a questa sanzione in quanto sono


imposti o proibiti dalla legge giuridica, s bene in quanto cadono an
che sotto l'animadversione della legge etica, oltrech della giuridica.

Ci significa, che gli atti stessi siccome possono avere relazione a due
leggi distinte, sebbene connesse, possono avere due sanzioni distinte,
ma non opposte.

Resta per sempre fermo che, data la innegabile differenza delle leggi,
bisogna concedere la differenza delle sanzioni; altrimenti quella legge
che non avesse la sua sanzione mancherebbe del requisito indispensabile
alla sua perfezione, non sarebbe pi vera legge,
-

PARTE II.

207

Cos se la sanzione di una data legge non fosse analoga alla legge
stessa, e si verificasse dopo cessato l'ordine sul quale la legge si fonda,
sarebbe una sanzione inutile, poich non apparterrebbe pi a quella leg
ge, ma ad un'altra. In somma, la sanzione futura non si riferisce alle

azioni regolate dalla legge giuridica in quanto specialmente a questa


legge si rapportano, ma bens in quanto cadono anche sotto la legge
etica; ma come non si pu negare la differenza tra la legge etica e la
giuridica, cos non si pu negare l'esistenza di una sanzione special
mente propria della legge giuridica, come non si pu negare l'esistenza
della sanzione propria della legge etica.
-

ta

CAPO III.
-

, i

Riflessioni sui caratteri della sanzione della legge giuridica


-

- -

in confronto di quella della legge etica.


Conferma delle cose discorse nel Capo precedente.
-

r-,

-- -- -

--

a e

Il comune concetto della sanzione in genere quello di un bene an


nesso all'osservanza, di un male annesso alla trasgressione della legge.
Questo concetto esatto, in quanto indica l'essenziale carattere della
sanzione: per vi sono altre note secondarie, ma pure importanti, co
muni alle sanzioni delle diverse leggi; come pure alcune differenze tra
le sanzioni, dipendenti dall'essenza stessa delle diverse specie di leggi,
e degli ordini dei quali sono l'espressione.
t - l
.

Abbiamo gi detto (Capo precedente) come le necessarie relazioni che


passano fra la legge e la sanzione, che la rende perfetta, inducono in

questa il carattere di analogia con la legge stessa, in guisa che una legge
regolatrice principalmente dell'interno non pu avere una sanzione sol
tanto esterna, e viceversa. Questa analogia della sanzione con la legge for
ma un carattere essenziale e comune alla sanzione di qualsivoglia legge.

Dal punto che si ammette come reale e necessaria l'applicazione dei

beni e dei mali a chi osserva o viola la legge, senza di che la sanzione
non avrebbe effetto, siamo portati all'idea di un Essere che dia a cia
scuno ci che con le sue azioni si meritato; vale a dire di un superio

re, tale essendo appunto Quegli il quale ha il potere di retribuire il


male e il bene secondo il merito. Ecco un'altra nota comune ad ogni

sanzione: la potest, la superiorit che la infligga. Non crediamo di do


ver insistere su questo punto, giacch nel modo stesso che all'idea di
legge essenziale quella di ordine, e all'idea di ordine quella di una

208

SAGGIO

mente ordinatrice, pure essenziale all'idea di legge l'idea di sanzione,


e a questa l'idea di una potest che la renda effettiva.
Tutto ci comune a qualsivoglia sanzione. Ma l'indole diversa di

esse, dipendente dalla diversa natura delle leggi cui si rapportano, in


duce alcune notabili differenze nella qualit e nella somma dei beni e
dei mali che costituiscono la sanzione medesima, nelle loro relazioni e

proporzioni, come anche nei diversi superiori cui appartiene retribuire


i mali e i beni, e nella maggiore o minore perfezione della retribuzione
medesima.

i Queste differenze non sono gi imaginarie o arbitrarie, ma reali ed

essenziali, quanto sono reali ed essenziali i rapporti, gli ordini, le


leggi.

Abbiamo gi veduto nel Capo precedente come la piena e massima


sanzione della legge etica debba essere interna e futura. Ora non po
tendo l'uomo scandagliare il cuore altrui, vedere i motivi delle azioni,

pesarne l'intrinseca bont o malvagit; e dopo questo, limitato nei


mezzi tutti di retribuzione e nella durata della sua vita; in somma, es
sere finito e condizionato; gli impossibile rendere effettiva la sanzione

perfetta della legge morale. Dio solo, ente infinito e necessario, ha il


potere di retribuire con proporzione giustissima il bene e il male fatto
dall'uomo durante la vita, che da lui solo perfettissimamente co
nosciuto.

Tutto ci discende dalla essenza della legge morale, nella cui sanzio
ze, perch immediatamente applicata da Dio, troviamo perfezione nella
qualit interna ed invisibile dei beni e dei mali che formano questa san

zione, nella loro quantit adequata alla quantit dei meriti e dei deme
riti, ossia nei loro rapporti e proporzioni con questi.

Passando ora ad esaminare la legge del dovere giuridico, se richia


miamo le differenze che sono fra questa e la legge etica, gi accennate
nel Capo antecedente, troveremo che la sua sanzione dovendo essere
esterna, non pu essere applicata che da una intelligenza che operi vi
sibilmente; altrimenti sarebbe interna. Ora essendo l'uomo il solo essere
intelligente visibile, all'uomo solo spetta l'infliggere la sanzione della

legge del dovere giuridico; all'uomo, in quanto rivesta il carattere di


superiore rispetto ad altri uomini. Ma qu si mostrano appunto le diffe

renze nascenti dall'indole tutta esterna della legge del dovere giuridico
e della sua sanzione; dalle limitazioni d'intelligenza e di potenza del su
periore che deve applicare la sanzione medesima; dalle limitazioni dei

PARTE II.

209

beni e dei mali esteriori, che ne formano, a cos dire, il materiale; e in

fine dalla limitazione stessa dell'uomo soggetto, al quale la sanzione si


deve applicare.

. .

o on, i

Mentre nella legge etica il superiore, che infligge la sanzione, im


mediatamente Dio, nella legge del dovere giuridico l'uomo.

go

. Mentre nella sanzione dell'etica i beni e i mali sono tanto estesi

quanto pu farli la infinita potenza di Dio, nella sanzione della legge


giuridica non possono essere che beni e mali presenti e limitati, che l'uo
mo non pu creare.

la

lorofia

Mentre in fine nella vita avvenire l'anima continua ad esistere, la


vita presente trova un termine nella morte.
a 1 :
l is n a 9
Da queste differenze risulta, che mentre la sanzione dell' etica per

ogni rapporto perfetta tanto ne suoi mezzi che nelle sue applicazioni,
imperfetta deve riuscire la sanzione della legge giuridica in questo dop
pio aspetto, restando soltanto perfette le due sanzioni in s stesse, in
quanto v' una giusta armonia tra esse e le rispettive leggi alle quali
sono apposte.

i 1 -

1 - s

Conchiudiamo questo Capo facendo osservare, come dalle cose in esso

discorse si tragga una nuova prova di quanto si detto nel precedente


intorno all'analogia della sanzione con la legge. Difatti, se l'idea di

sanzione inchiude l'altra idea di un superiore che l'applichi; se di


fatto che la sanzione propria della legge giuridica, la quale dev'essere

verificata nel tempo della vita presente, non viene immediatamente ap


plicata da Dio; non resta che il superiore umano, il quale possa inflig
gerla. Ora l'uomo non pu agire che con mezzi esterni; ed anche quando
adopera i mezzi morali (approvazione, riprovazione, ec) non pu in
fluire sugli altri che per mezzo della esterna manifestazione: dunque la

sanzione della legge giuridica dev'essere necessariamente esterna, ed


impossibile, assurdo, che tale non sia.
-

-i

CAPO IV.

idea delle pene e del diritto di punire. Altre considerazioni sulla sanzione

giuridica specialmente penale. A chi spetti applicarla.


-

La sanzione si applica in doppio modo: come premio e come pena,


secondoch si retribuisce l'osservanza o la trasgressione della legge.

Quello per che relativamente alla sanzione giuridica importa maggior


mente di stabilire e di giustificare si l'applicazione sua come pena.

210

SAGGIO

L'altra ricerca, oltrech meno importante, spetta piuttosto ai limiti en

tro i quali pu essere applicata la sanzione giuridica nelle umane rela


zioni, dei quali limiti parleremo in seguito (Capo XIII).
Quindi rivolgendo le nostre ricerche specialmente sulle pene, dalle
considerazioni fatte sin qu siamo condotti ad una conseguenza imme
diata, semplicissima, e di una importanza capitale per la soluzione delle
questioni gravissime che si fanno rispetto al diritto di punire. Questa
conseguenza si , che LE PENE INFLITTE NELLA socieT A chi commetts
I DELITTI NON SONO ALTRO CHE LA SANZIONE DELLA LEGGE

DEL DOVERE

giuridico; e il diritto penale non altro che la potest di applicare


la sanzione alle violazioni della legge medesima.

Che le pene siano sanzione della legge, tutti i criminalisti lo conob


bero; e come non vederlo? Ma siccome la pena, per quantunque rivolta
anche alla correzione e al miglioramento del reo, per in s stessa
un male che si fa provare ad un uomo, cos si dovuto andare in trac
cia di un principio che giustificasse dinanzi alla ragione e alla coscien

za questo male che l'uomo fa soffrire all'altro uomo. Di qui le diverse


teorie, in nessuna delle quali, che noi sapiamo, si cercato questo prin
cipio immediatamente nella legge stessa, alla quale le pene servono di
sanzione; cio nella legge giuridica naturale, la quale sola, indipendente
com' da ogni umano arbitrio, pu produrre la legittimit di una san

zione penale; giacch ogni altra legge positiva umana, come non pu
essere giusta se non trova il suo fondamento diretto o indiretto nella

legge naturale, cos non pu essere giustamente munita di sanzione per


male se non in quanto la sanzione stessa sia una conseguenza necessaria
della legge giuridica naturale, anzi elemento costitutivo la perfezione
della legge stessa, assoluto e necessario quanto la legge medesima.

Perci l'autorit punitrice rende effettiva la sanzione della legge giu


ridica mediante la minaccia e l'irrogazione delle pene.

La legge giuridica si attua completamente nello stato di societ, e il


rapporto di societ produce necessariamente quello di superiorit e di
soggezione. La legge giuridica, come qualunque legge, ha necessaria

mente una sanzione sua propria, analoga all'indole sua, vale a dire ester
ma e visibile come la legge stessa. Ma la sanzione giuridica non pu es

sere applicata che da quella persona fisica o morale, la quale abbia l'au
torit di provedere all'osservanza della legge giuridica nella societ; il
potere sovrano, solo potere supremo e visibile nell'ordine naturale,
anche il solo che si trovi in queste condizioni: dunque la sanzione della

PARTE II.

21 )

legge giuridica non pu essere applicata che dalla sovranit. Di qu si


vede altres che l'irrogazione delle pene pu aver luogo solo nella so

ciet per due motivi: l'uno, perch la legge del dovere giuridico sup
pone la convivenza sociale, e solamente in questo stato si verifica e si
applica in tutta la sua pienezza; l'altro, perch la sanzione di essa legge

importa di necessit un potere sovrano, il quale non si trova n pu tro


varsi che nella societ. Quindi nello stato d'isolamento e d'indipendenza,
quand'anche non fosse uno stato fantastico, non si potrebbe mai trovar
traccia di pene propriamente dette, e di autorit per infliggerle.
E qu dobbiamo notare, in relazione a ci che fu detto nella Parte I.

(pag. 68) intorno all'idea dell'autorit, che il diritto di punire meglio


direbbesi potest di punire. Infatti il diritto non presenta altro caratte
re, che quello di facolt di fare o non fare, senza essere astretto da ve
runa necessit fisica, n obbligato da alcuna legge morale. Ora tutto ci

che si riferisce ad una legge non pu dirsi facoltativo, in quel senso


pieno ed assoluto in cui lo il diritto. La sanzione servendo a rendere

compiuta l'efficacia della legge, ed essendo, quanto alla legge giuridica,


inflitta dalla persona rivestita del sommo potere, il diritto d'infliggere
le pene si unisce in essa all'obbligo di esercitare tale autorit derivante
dalle relazioni sociali. Perci non si pu sostenere che sia in sua piena
facolta l'infliggere o no la sanzione; e quindi pi esatto il dire che la

sovranit ha l'autorit invece che il diritto d'infliggere le pene. Egual


mente in luogo di dire ch'essa ha il diritto di far grazia, meglio direb
besi che ne ha l'autorit, perch in senso proprio il diritto di far grazia
non si potrebbe ammettere che nella ipotesi di una libera facolt di pu
nire o no, la quale or ora vedemmo che non pu sussistere. L'autorit

di far grazia una conseguenza di molte relazioni speciali che risultano


dall'indole esterna e finita dell'uomo che infligge o al quale sono in

flitte le pene; dall'indipendenza di chi ne ha il potere; dai principi mo


rali; e dal non essere un dovere assoluto quello d'infliggere in ciascun

caso la pena minacciata, potendo talvolta succedere che vi sia collisione


fra due doveri della sovranit, quello d'infliggere le pene, e qualche al
tro che nel caso concreto si leghi pi strettamente col fine della socie

t; il qual fine regola onde decidere delle collisioni dei doveri giu
ridici derivanti dai rapporti sociali, allo stesso modo che il fine supremo
regola per decidere nei casi di collisione fra i doveri morali.
Ogni volta dunque che noi adopereremo l'espressione diritto in rela
zione alle pene, s'intenda che lo facciamo per adattarci al comun modo

212

SAGGIO

di parlare; ma senza prendere la parola diritto nello stretto rigore scien


tifico, nel quale suona: facolt libera di fare o non fare che che sia.
i 2

ee

t-s .

CAPO V.

Capitali ricerche sul diritto penale Sua definizione.

--

Quattro ricerche si fanno intorno al diritto penale, alle quali diver


samente si risponde, secondo le varie dottrine professate dagli scrittori
di questa scienza; cio:

a 1. Che cosa sia il diritto penale considerato in s stesso?


2. D'onde deriva la giustizia della pena?
3." Qual il suo scopo?
4. Da che si desume la misura per applicare le pene?
Essenza, derivazione, scopo e misura della penalit; ecco le quattro
capitali questioni che ne abbracciano l'intiera scienza.

Secondo il principio sopra stabilito, essere le pene non altro che


la sanzione della legge del dovere giuridico, e quindi il loro uso non
altro che l'applicazione di questa sanzione, fatta nella societ dal po
tere sovrano; si scorge che il diritto penale in s stesso veramente
una retribuzione, giacch ogni sanzione una retribuzione.

La legittimit del potere di punire, e quindi la giustizia delle pene,


non si pu dimostrare altrimenti che deducendola dalla legge stessa giu

ridica, alla quale le pene servono di sanzione, cio mettendo in eviden


za la connessione, anzi l'identit del principio della retribuzione colla

legge giuridica, e i limiti entro i quali la retribuzione in genere in


chiusa nella legge giuridica.
Se esiste, come non pu dubitarsi, la legge naturale del giusto; se
questa legge regola i rapporti esteriori fra gli uomini; se essa si veri
fica pienamente, quant' possibile, nella societ; bisogna conchiudere
che nella societ esista una sanzione della legge giuridica, dappoich
ogni legge deve avere una sanzione analoga all'indole sua, e tale che si

verifichi durante l'esistenza di quell'ordine e di quei rapporti sui quali


la legge si fonda. Ora l'ordine e i rapporti sui quali poggia la legge
giuridica sono esterni, e si compiono durante la vita presente: dunque
ci dev'essere una sanzione giuridica esterna ed attuale; altrimenti la
legge giuridica sarebbe e non sarebbe legge nel tempo stesso: ci che
ripugna. Dunque nella societ deve esistere il diritto d'infliggere le
pene, cio di applicare la sanzione della legge giuridica; dunque giuste

213

PARTE II.

le pene, perch la sanzione inchiusa nella legge. L'uso delle pene non
deriva quindi nella societ da una semplice necessit politica, ma da una
vera necessit giuridica.

Che se l'ordine giuridico parte dell'ordine morale; se la legge rego


latrice dei rapporti esteriori e la retribuzione in essa compresa appar
tengono all'ordine morale; il potere punitivo non pu essere opposto
ai principi della moralit. Ma la legge morale e la legge giuridica,
e le rispettive loro sanzioni essendo, come vedemmo, distinte; la retri

buzione giuridica non da confondere colla retribuzione morale. La re


tribuzione giuridica non pu essere che esterna e limitata. Essa non

potr quindi applicarsi che alle sole azioni esteriori, in quanto offen
dono la legge del dovere giuridico. Perci anche allora che vengono col
pite certe azioni, le quali nei puri rapporti privati sarebbero solamente

immorali, ci ha luogo solo in quanto le relazioni indotte dallo stato


naturale di societ lo richieda; mentre le azioni umane, in quanto vio
lano la legge etica, soggiacciono alla sanzione morale, indipendentemente
dalla sanzione giuridica, sia che si possa o no applicare anche questa,
l
a o 11 r.
e
io
sia che in fatto vi si applichi o no.
La terza ricerca versa intorno allo scopo delle pene. Egli evidente

che tale scopo deve derivare dal principio che le rende giuste, e che per
ci consiste nel rendere efficace la legge del dovere giuridico, nel trat
tenere dal violarla, e quindi, ingerendo nell'animo dei malvagi il timore
della sanzione, difendere dai delitti la societ ei suoi membri; procu
rarne la conservazione e la sicurezza, e indirettamente migliorare anche
con questo mezzo gli uomini.

- -

Lo stesso principio serve ancora a regolare l'uso delle pene, ossia la


giusta misura della loro applicazione. Poich le pene essendo la sanzione
della legge giuridica, dovranno essere tanto pi gravi, quanto mag
giore sar la lesione commessa. L'idea di retribuzione importa necessa

riamente la proporzione. L'intrinseca natura dell'azione commessa, relati


vamente alla maggiore importanza del diritto leso e del dovere violato,
considerata in s e nelle circostanze, determiner il grado di questa lesio

ne, e quindi della pena corrispondente. Ma di ci parleremo pi diffusa


mente nel seguente Capo XVII.

Da tutto quello che abbiamo fin qui discorso si vede che il diritto
penale deve definirsi: una retribuzione del male, fatta con misura nella
societ dal potere sovrano all'uomo imputabile di azioni che violano la
i, i 2 ,

legge giuridica.
-

21 i

SAGGIO

Dicesi innanzi tutto, che il diritto penale una retribuzione, per in


dicare il genere prossimo dell'oggetto definito; giacch, come si veduto

nel Capo precedente, il diritto di punire essendo sanzione della legge


giuridica, per ci stesso retribuzione.

In secondo luogo si aggiunge del male, per indicare che si parla sol
tanto della sanzione annessa alla violazione della legge, e non di quella
annessa all'osservanza della medesima.

In terzo luogo si accenna che questa retribuzione fatta con misu


ra, perch non tutte le violazioni della legge possono meritare lo stesso

grado di retribuzione, ma pi o meno, secondo il grado della loro in


giustizia.

Si dice poi, che la retribuzione penale fatta nella societ dal po


tere sovrano, perch la societ lo stato e il rapporto su cui si fonda
la legge del dovere giuridico, la quale suppone la convivenza degli
uomini; lo stato nel quale solo possibile la piena eettuazione della

legge giuridica, e nel quale solo esiste una superiorit naturalmente de


stinata a tutelare l'osservanza della legge medesima, e rivestita del po
tere d'infliggere la sanzione penale ai violatori di essa: per questo si
aggiunsero quelle parole dal potere sovrano, che indicano la persona cui

spetta l'effettuare la retribuzione penale mediante la legge, e i giudici


incaricati di applicarla ai casi particolari.

e,

Soggiungesi poi all'uomo imputabile, perch la sanzione suppone


sempre la capacit di conoscere la legge, e la libera facolt di eseguirla.
Quando l'uomo non sia in istato di conoscere, o non possa conformarsi
alla legge per una causa irresistibile, cessa la imputabilit, e quindi rie
sce assurda l'applicazione della sanzione.
-

Le ultime parole della definizione indicano le differenze fra la san


zione giuridica e l'etica; giacch la prima non pu colpire, come si
detto, altro che le azioni esterne, con le quali si viola la stessa legge
giuridica.
CAPO VI.
Differenza tra il punire, ed altri atti pi o meno analoghi a questo.

Il superiore che punisce fa soffrire un male al delinquente. Molti atti


diretti a far soffrire un male agli uomini, sono pi o meno rassomi
glianti alla punizione; e questo ha condotto gli scrittori di cose crimi

mali a confondere la punizione con alcuno di tali atti, o almeno a non


distinguere quanto era necessario.

PARTE II.

2l5

Gli atti analoghi alla punizione sono la retribuzione morale, la dife


sa, la coazione, la guerra, la vendetta, e, almeno quanto alla sofferenza
che arreca, eziandio la violenza.

Le differenze fra la retribuzione morale e la giuridica risultano dalle


cose dette. Rimane ora da vedere in che consistano gli altri atti, onde
distinguerli dal diritto di punire.

at

Io sono aggredito da un assassino, il quale minaccia di uccidermi.


Per sottrarmi a questo male, da cui sono ingiustamente minacciato, uso

della forza fisica, e di un'arma della quale per avventura mi trovo pro
veduto; n potendo altrimenti conservare la mia vita, uccido l'aggres
sore: questo mio atto si chiama difesa.

Taluno mi vende un oggetto di sua propriet, ne riceve il prezzo,


poi si rifiuta di consegnarmi la cosa da me acquistata: io adopero la
forza contro di lui per prendermi la cosa mia, o ricorro, vivendo in so
ciet, al potere incaricato della tutela dei diritti: questo atto si chiama

coazione. Se l'uso della forza a difesa ovvero per ottenere l'adempi


mento di una obbligazione, invece che tra individui, avviene tra due Sta
ti, allora ha il nome pi speciale di guerra.
V' chi adopera la forza per recare un male ad un uomo nella per
sona o negli oggetti suoi senza esserne offeso, senz'alcun diritto da eser
citare in suo confronto, ovvero oltre a ci ch' necessario alla difesa o
alla coazione; oppure una nazione senza motivo giusto opera in questa
guisa verso di un'altra nazione: tali atti si chiamano violenza.

L'offeso in qualsiasi modo da un suo simile, senza potersi sottrarre


al male che gli si fa soffrire, cessata l'aggressione, coglie un momento
opportuno per recare un male all'offensore, onde sfogare la rabbia con
cepita contro di lui, e solamente in vista del male che gli fece soffrire:
quest'atto si chiama vendetta.
2
Viene commessa un'azione, la quale viola un dovere giuridico; pro

vato che un tal uomo moralmente imputabile l'autore di quest'azione:


l'autorit incaricata dal sovrano potere fa soffrire al delinquente un
male proporzionato al delitto nella misura dalla legge stabilita, e dietro
un regolare giudizio: questo si appella PUNIRE.
In conseguenza di ci volendo stabilire i caratteri specifici che distin
guono il punire dagli altri atti che hanno con esso qualche simiglianza,
si vede che questi caratteri si riducono in sostanza a cinque; cio:

1. Che un uomo abbia commessa un'azione la quale violi un dovere


giuridico.

216

SAGGIO

2. Che sia provato averla egli e non altri commessa.


3. Che quest'uomo sia moralmente imputabile.
4 Che il male che gli si fa soffrire sia proporzionato al suo delitto.
5. Che questo male gli venga inflitto da una persona a lui superiore

in autorit.

Tutte queste note sono cos essenziali al punire, che toltane una sola,
non se ne ha pi l'esatta mozione, e perci resta vie meglio provata la
giustezza dell'addotta definizione, la quale indica appunto tutte le note
essenziali dell'oggetto definito, e le differenze ultime, per le quali di
stinto da tutti gli altri oggetti a lui rassimiglianti.

CAPO VII.
Differenza fra la esposta dottrina della sanzione giuridica
ed altre teorie sul diritto penale.

A rendere vie pi chiara la teoria del diritto penale, stabilita sulla


base della sanzione giuridica, giova qu notare le differenze principali,

onde si distingue da alcune altre ad essa pi affini.


Il principio che abbiamo posto come fondamento al diritto penale,
cio la sanzione giuridica, un principio essenzialmente giusto, perch
inchiuso nell'idea della legge giuridica; ma non si potrebbe confondere
con quella vaga idea di giustizia, che si riscontra in altri particolari
sistemi o teorie, che sarebbero:

1. La teoria del ricambio, secondo la quale, in forza della legge del


l'eguaglianza, ognuno dee soffrire tanto male, quanto ne apport col
suo delitto, e possibilmente un male della stessa natura di quello re
cato dal suo delitto.

2. La teoria della giustizia assoluta, secondo cui la pena scopo a


s stessa, e viene richiesta da un imperativo categorico, come necessaria
mente conseguente al delitto.

3. La teoria della compensazione morale, cio del male morale ca


gionato dal delitto, fatta mediante la pena, che perci si concepisce di
retta a ristabilire il divino ordine mondiale turbato dal delitto.

4. La teoria della compensazione giuridica, ossia del male giuridico


fatto dal delitto.

5. La teoria della espiazione, secondo la quale il delinquente me

diante la pena fa penitenza della sua ingiustizia,

PARTE II.

2 17

Tutte queste dottrine sono diverse dalla sovra esposta, che stabilisce
la pena non essere altro che la sanzione della legge giuridica. Di fatto

o si risolvono in una petizione di principio, non essendo provato perch


al delitto debba succedere la pena; o introducono l'idea della compen
sazione e della espiazione, che sono affatto diverse dalla retribuzione.
Invece nella dottrina della sanzione giuridica la giustizia della pena
derivata dalla esistenza stessa della legge, e dalla provata essenziale ne
cessit di una sanzione penale esterna annessa alla medesima assoleni.

In altri sistemi si riguardano le pene solo come mezzi a raggiungere


un determinato scopo, secondo i vari caratteri della pena. A questi si
stemi appartengono:

1. La teoria della necessit politica, secondo la quale la pena sa


rebbe una conseguenza della giustizia, in quanto nei limiti della giusti

zia stessa il pi forte mezzo onde guarentire l'efficacia della legge


nello Stato.

in al

2. Il sistema della prevenzione generale, che riguarda la minaccia


delle pene come diretta contro tutti i componenti la societ.
A
, i 3. Quello della prevenzione speciale, cio della minaccia delle
pene come diretta contro i singoli delinquenti, i b
eib a obio

4. Quello dello spavento, risultante dall'effettiva applicazione delle


pene.

si e si sono

e 5 Quello della coazione psicologica (1), che supplisce al difetto


della coazione fisica. I

siloup no:

6. Quello della difesa.


o titolare
Tutti questi sistemi, che non ci sembrano differire essenzialmente tra
loro, sono per diversissimi da quello della sanzione giuridica, perch
tutti difettano nel punto capitale, non giustificando l'uso della pena,

ch' un mezzo, indipendentemente dallo scopo. Alcuni anche sentono


pi o meno il vizio del principio dell'utilit, del quale contengono il
germe, ed in generale riescono ad una petizione di principio, fondan
dosi sopra una base della quale non provata la connessione necessaria

colla legge naturale giuridica,


-

- 1

i
a

r
i
ta; - 1, nei

. (1) Vedi intorno a ci Lehrbuch des gemeinen in Deutschland giltigen peinli


chem Rechts von Dr. Anselm Ritter von Feuerbach, etc. Mit vielen Anmerkungen

und Zusatzparagraphen und mit einer vergleichenden Darstellung der Fortbildung


des Stra echts durch die neuen Gesetzgebungen herausgegeben von Dr. C. I A Mit
termaier etc. Dreizehnte Originalausgabe. Giessen 1840.

. .

. .. .
15

SAGGIO

218

CAPO VIII.
Osservazioni sulla teoria della difesa indiretta.

Nelle annotazioni alla Genesi del diritto penale di Romagnosi abbia


mo spesso avuto occasione di esporre il nostro modo di vedere intorno
alla dottrina, secondo la quale il diritto di punire sarebbe un diritto di
difesa indiretta; ed ora siamo condotti a richiamare alcune osservazioni

che si trovano qu e l sparse in quei brevissimi cenni, onde sottoporre


ad esame pi accurato questa teoria, la quale conta forse un numero di
seguaci maggiore che nessun'altra.
-

E innanzi tutto dobbiamo insistere ancora sopra due punti capitali,


che sono, come a dire, i cardini sui quali si aggirano quelle note.

Il primo si , che noi ammettiamo con l'Autore essere il penale ma


gistero una difesa indiretta, ben inteso per che la difesa non costituisca

n l'essenza, n il fondamento del diritto penale, ma soltanto l'effetto


che dalla pena viene prodotto.

L'altro punto egualmente importante si , che l'Autore medesimo si


avvide che a stabilire i fondamenti del penale diritto e le regole del suo
esercizio non basta solo mirare alla difesa dai delitti futuri, ma bisogna
altres tener conto delle relazioni col passato, cio col commesso delitto,
come esige il carattere essenziale della pena, ch' una vera retribuzio

ne, secondoch fu sopra spiegato. Questo noi abbiamo gi notato ai luo


ghi opportuni dell'Opera sua, cio come il Romagnosi intravedesse nella
retribuzione l'essenziale carattere della pena. Tale idea si trova certa

mente, ma non la dominante nella Genesi del diritto penale, e perci


non essendo stata abbastanza sviluppata dal Romagnosi, non fu quanto
conveniva avvertita da quelli che analizzarono il suo lavoro.

In conseguenza di ci il principio della difesa indiretta verrebbe cor


retto e modificato seguendo le tracce segnate dal medesimo suo pi forte
propugnatore, il quale fu condotto dalla forza del vero a spargere qu
e col nell'Opera sua tali sentenze che, ben ponderate, servono di base
ad una dottrina affatto diversa dalla sua; dottrina che pone il principio

della difesa indiretta come semplice effetto della pena, in luogo di rite
nerlo come la sua base principale. Prendiamo ora ad esaminare bre
Vemente

questa teoria della difesa indiretta.

La societ esiste, ed insieme un fatto indipendente dall'umano ar

bitrio, ed uno stato di rigoroso dovere e diritto indotto dalle relazioni ne


\

PARTE II.

219

cessarie e naturali dell'ordine morale. Posto ci, la sua conservazione

un dovere e un diritto insieme della societ stessa e del potere che la


governa; come diritto e dovere rispettivamente la tutela degl'indivi
dui e delle minori societ che la compongono. I delitti che si commet
tono si oppongono al conseguimento del fine immediato della societ,
compromettendone la conservazione o il benessere, o togliendo quella
tranquillit e sicurezza alla quale ogni uomo ha diritto.
Ma il delitto l'effetto dell'intemperanza umana che agisce contro le
norme della giustizia; e siccome questa intemperanza sussiste sempre,
cos sempre si deve temere che si commettano delitti. L'impunit dei
delitti commessi renderebbe baldanzosi i malvagi a commetterne di nuo

vi, perch mancherebbe un freno immediato ed esterno proporzionato


alla forza delle passioni che li sollecitano ai delitti. Dunque se la societ
ha diritto anzi dovere di esistere e di conseguire i suoi fini, deve avere

anche il diritto di difendere s stessa e i suoi membri dal delitto, come


ogni individuo ha diritto di rimovere da s ogni attuale o certamente
futura lesione. Questa difesa della societ dagli attacchi derivanti dall'in

temperanza umana non si ottiene che rimovendo l'impunit; l'impunit


non si toglie che colle pene: dunque la societ ha diritto d'infliggerle,
qual mezzo necessario alla sua difesa, alla sua conservazione, alla sua
sicurezza.

Ecco in sostanza la teoria della difesa indiretta. Non contro il de

linquente soltanto che la societ si difende; ma contro i delitti futuri in


generale, qualunque ne possa essere l'autore. Il ragionamento giusto,
quando la conseguenza si limiti a stabilire il solo scopo delle pene; ma
riesce imperfetto allorch da quelle premesse si voglia inerire in che
stia l'essenza del diritto penale, e il fondamento che lo giustifica di
nanzi alla ragione, e quando se ne voglia trarre la norma per la pratica
applicazione agli atti criminosi.
Che la societ abbia diritto di esistere, e di rimovere da s ogni at

tacco attuale o certamente futuro; che le pene siano necessarie alla si


curezza della societ; ch'esse siano un potente mezzo per difenderla
dalla minaccia di futuri delitti, ed un mezzo molto efficace: tutto que

sto verissimo. Ma la difesa lo scopo che si propone la societ nel


punire; l'effetto che dalle pene consegue: effetto di sua natura giusto;
mezzo, se si vuole, necessario. Ma la giustizia dell'effetto o del fine e la
necessit di fatto del mezzo bastano a render giusto anche il mezzo in s

stesso? No certamente; e molto meno nel caso nostro, perch non sus

220

SAGGIO

siste la simiglianza tra la difesa e la pena, e non si possono quindi ap

plicare alla pena i principi che giustificano la difesa come mezzo a man
tenere inviolato il diritto.

Il nodo della questione sta tutto qu: nel provare cio la giustizia
intrinseca delle pene come mezzi, indipendentemente dallo scopo al quale
si fanno servire. Romagnosi stesso ha indicato questo nodo apertamente

(Genesi del diritto penale, Introduzione), ma non lo ha sciolto; sola


mente accennando in vari luoghi all'essenza del magistero penale, consi
stente nella retribuzione, ha segnato una traccia che, seguita e svolta

opportunamente, pu condurre a supplire quanto manca alla dottrina


della indiretta difesa,

Quando si ricerca se la legittimit del fine renda legittimi i mezzi,

conviene distinguere. Se il mezzo di sua natura indifferente, diventer


buono se diretto a un buon fine, e viceversa. Se il mezzo in s stesso si

manifesta come un atto cattivo assolutamente; nessun fine, per buono che
fosse, potrebbe giustificarlo. Se infine il mezzo apparisce in s stesso
cattivo, ma possa mutare carattere secondo le circostanze; per giudicare
che il fine buono, cui diretto, lo giustifichi, converr provare che il fine
induce le circostanze, onde cessa di essere illecito quel mezzo.
Queste distinzioni sono la conseguenza della diversa natura dei fini,
Poich se si tratta del fine supremo, cio del fine morale, esso solo basta
a giustificare i mezzi diretti a conseguirlo, essendo esso stesso la norma

suprema della condotta dell'uomo in tutte le sue libere azioni, n po


tendo avvenir mai che un'azione conforme alle regole morali contradica
ad un fine prevalente, n quindi ad una legge prevalente, non essendovi

altra legge al disopra di quella della perfezione morale. Ma quando i


mezzi sono diretti ad un fine secondario, potendo accadere che fra i mol
teplici mezzi che si possono adoperare per giungervi se ne trovino al
cuni che offendano un fine prevalente; forza esaminarli in relazione
a questi fini di ordine pi elevato, onde decidere quali siano da prefe

rirsi, come non opposti ad alcun ordine che sovrasti allo scopo imme
diato cui si dirigono.

Queste dottrine generali si applicano eziandio all'argomento nostro.


N la loro forza punto scemata dall'essere le pene un mezzo necessario
alla sicurezza della societ. In prima, perch questa necessit di puro
fatto, e quindi bisogna dimostrare che si connetta con un principio di rigo

rosa giustizia, per cui diventi una necessit giuridica. In secondo luogo,
perch la sicurezza della societ non riposa tutta esclusivamente sulle

PARTE II.

221

pene, ma tanti altri mezzi innocui vi concorrono; e quindi cotesta necessi


t non poi tale da rendere le pene l'unico mezzo al conseguimento del fine.
Ma l'argomento che cessa ogni questione si appoggia sulle essenziali
differenze fra il diritto di difesa e il diritto di punire, i quali non han
no altro di comune che il puro effetto.
Per sostenere che il diritto di punire non altro che il diritto di di
-

fesa modificato dalle circostanze sociali, ossia un diritto generico di di


fesa, una difesa indiretta, il Romagnosi ha dovuto, come dice egli stesso,
unificare l'individualit con la socialit (1); unificazione che non pu

sussistere pienamente, per le essenziali differenze che vi sono fra la per


sona individuale e la collettiva, e fra le pene e la difesa.

--

--

Nella difesa c' una offesa attuale, o attualmente minacciata: nella


pena l'offesa gi compiuta.
Nella difesa quello che la esercita l'offeso medesimo: nella pena
-

una persona diversa.


Nella difesa abbiamo una regola per misurarla nell'offesa attuale e
nei mezzi adoperati a recarla, che sono fatti presenti e determinati: nella
-

pena, quando sia identificata con la difesa, manca una regola costante e
determinata, perch il futuro non potrebbe somministrarla.

Nella difesa il principio che la rende giusta il diritto stesso, non


essendo essa altro che il diritto medesimo posto in atto: nella pena, la

cui applicazione separata di tempo, e fatta da una persona diversa dal


l'offeso, non c' identit col diritto o co'diritti ch'essa vale a difende

re; e per vestendo il carattere di mezzo, la sua giustizia dev'essere

provata per un fondamento diverso dal fine stesso.


Senza di che si cade in un volgare paralogismo, perch il giustificare
la pena con la sola sua necessit per la difesa dello stato sociale,
quanto dire che l'ordine naturale in societ, da cui voluta la conser
vazione e il benessere dell'uomo, consente la distruzione e il danno del

l'uomo per ottenere il fine della sua conservazione e prosperit,


Finalmente l'essenza della difesa sta nel diritto stesso, del quale essa

l'esercizio attuale: l'essenza della pena sta, e non pu altrove tro


varsi, che nella retribuzione
Che cosa dunque resta? Resta quello che dicevamo poco fa, che il di
ritto di punire non difesa per la sua essenza, non legittimato dai
(1) Nell'Articolo sull'Opera di A. de Simoni fra gli Opuscoli sul diritto penale,
Vol. IV. pag. 449, S 62 in nota.

922

SAGGIO

principi soli della difesa, ma soltanto il suo scopo si pu e deve dire


essere la difesa.

Nella dottrina che ci siamo studiati d'esporre, la quale stabilisce la


pena non essere altro che la sanzione della legge giuridica naturale po
sta ad effetto nella societ, si esauriscono pienamente tutte le ricerche

intorno al penale diritto, riguardanti la sua essenza, la sua derivazione,


il suo scopo, il suo uso; essendo le pene:
Per la loro essenza una retribuzione.

Per la loro derivazione, giustificate dalla legge stessa giuridica, la

quale deve necessariamente avere una sanzione a s analoga.


Pe'l loro scopo, una grande tutela esteriore della osservanza del
dovere giuridico nella societ, e quindi dell'esercizio del diritto, e per
ci una indiretta difesa.

Pe'l loro uso, commisurate alla gravit ed importanza del dovere giu
ridico violato, relativamente al fine dell'ordine dell'esteriore giustizia.
La quale ultima ricerca, com' la pi importante pe'l pratico eserci
zio del potere punitivo, cos anche quella che d luogo alle maggiori
controversie, e quasi la pietra d'inciampo di tutti i sistemi intorno a
questa materia.

Segnatamente nella dottrina della difesa non sono che i rapporti del
futuro, cio il pericolo che ne viene alla societ, il quale dia norma alla

pena; norma per s indeterminata, relativa al timore che si pu avere


di futuri delitti, e che apre l'adito all'arbitrio. Guardando al solo scopo
della sicurezza sociale, molti delitti ed anche tutti (il passo dai molti
ai tutti assai breve!) dovrebbero o potrebbero essere puniti colla morte,
o almeno col carcere in vita, qualora il colpevole coll'abitudine del
delinquere, o anche col primo delitto abbia mostrato una pericolosa ten
denza. Se la societ ha diritto di difendersi contro i futuri delitti anche

quando gli autori di essi sono incogniti e meramente possibili; perch

non lo avrebbe quando l'autore probabile lo conosce e lo ha in mano?


Invece la dottrina della retribuzione giuridica mentre da un lato di

mostra la giustizia intrinseca delle pene, deducendole direttamente dalla


legge giuridica, di cui sono sanzione, offre dall'altro alla giustizia so
ciale una norma sicura per commisurarle al delitto, traendo questa nor
ma dal fatto passato, ch' di sua natura determinato, e la cui entit

giuridica pu essere senza eccessiva difficolt calcolata in relazione alla


gravit giuridica della lesione commessa. Quindi il criterio per l'appli
cazione delle pene in questa teoria preciso ed assoluto.

PARTE II.

223

Per l'opposto, la teoria della difesa indiretta non pu stabilire una


regola, onde misurare le pene, senonch ricorrendo alla spinta criminosa;
idea molto vaga, e che riduce il magistero penale ad un calcolo, i cui dati,
desunti dalla forza dell'impulso criminoso, sono indeterminati ed incerti,
perch a modificare l'effetto della spinta criminosa e della controspinta
penale intervengono le variet individuali e la libert dell'arbitrio.

La qualit della passione che predomina in una data specie di delitti,


e la varia loro intensit nella specie stessa, dedotta dal maggior numero
e forza dei freni che il delinquente ha infranti per commettere l'azione
punibile, possono dare molto lume per la scelta e gradazione delle
pene da infliggere ai vari delitti della stessa specie. Ma per misurare

la pena ad un delitto di una specie in confronto d'un delitto di specie


diversa la spinta criminosa, anche prescindendo da tutte le altre consi
derazioni, non serve a nulla.
-

La spinta criminosa, che si riduce in sostanza alla qualit e alla in


tensit della passione che sedusse l'uomo al delitto, norma a scegliere
piuttosto una specie che un'altra di pena; perch una pena che riu
scisse indifferente alla passione predominante in quella specie di delitti,
non sarebbe sanzione proporzionata al delitto, non sarebbe vera pena.
Scelta questa, l'intensit della spinta criminosa guider il legislatore a
misurarla in proporzione dei freni violati, ossia secondo il grado del de
litto in quella specie.

Cos, a cagion d'esempio, ai delitti commessi per cupidigia di lucro


la multa sar pena corrispondente alla passione criminosa, nel caso in
cui le altre pene riuscissero indifferenti o poco sentite; come, per esem
pio, nell'usura. Ma punire l'avaro usurajo, per esempio, coll'infamia, che
effetto in generale potrebbe avere? Populus me sibilat, at ego nummos
contemplor in arca!

- -

Quanto poi alla misura della pena, i maggiori freni rotti dal delin
quente daranno regola per aggravare il grado di pena, determinata che

ne sia la specie particolare, ove occorra. Cos, a cagion d'esempio, nel


l'incesto, se sar commesso tra ascendenti e dipendenti, la pena dovr
essere pi grave in confronto del caso che avvenga fra collaterali, perch
nel primo caso la ripugnanza naturale essendo maggiore che nel secondo,

la spinta criminosa pi forte in quello che non in questo, a misura


del freno pi efficace che venne infranto dal delinquente. Ma sarebbe
impossibile dal solo dato della spinta criminosa desumere la proporzione
della pena fra un delitto ed un altro di specie diversa, senza tener conto

224

SAGGIO

della gravit del delitto in relazione alla legge giuridica e al diritto


leso: sicch in fine si condotti a conchiudere che la norma universale
e sicura per graduare le pene non si pu trarla che dall'essenza del di
ritto penale, e dal principio su cui si fonda la sua legittimit. E ci basti
per quello che appartiene all'argomento di questo Capo, dovendo noi
trattare in seguito della misura delle pene in relazione alla stabilita

teoria del diritto penale, fondato sull'idea della retribuzione giuridica.


-

---

CAPO IX.
-

Carattere di retribuzione riconosciuto nelle pene dagli scrittori.


-

Le cose dette mostrano ad evidenza che una dottrina intorno al pe

nale diritto, la quale soddisfi a tutte le ricerche importanti che si fanno

in quest'argomento, e sopratutto dia una norma ben determinata e facile


pe'l giusto esercizio del penale magistero, non si pu stabilire senza in
chiudervi l'idea della retribuzione.

Questa idea tratto tratto si mostra nella Genesi del diritto penale,
come abbiamo avvertito; ma quello che merita altres d'essere osservato
si , che non il solo Romagnosi, ma ancora altri scrittori antichi e mo
derni, e osiamo dire il maggior numero, accennano alla retribuzione pi
o meno chiaramente, quantunque poi la specie di retribuzione, in che
consiste la pena, non sia, ovvero sia erroneamente da essi determinata;

onde riesce impossibile che si provi la verit del principio nel suo giu
sto senso, e che se ne deducano le sue conseguenze legittime.
E per addurre qualche esempio che serva a giustificare quest'asser
zione, se noi prendiamo ad esaminare tra gli antichi Platone, troviamo

che stabilisce, lo scopo delle pene consistere nel porre un freno con
l'esempio tanto al delinquente, che agli altri. Infatti nel Dialogo XI. De
legibus cos si esprime: Poenis maligni vecantur non quia peccaverunt,

nam quod factum est infectum esse non potest; sed ut posthac et pec
catores ipsi, et qui puniri iniquitates viderunt injustitiam oderint, aut

saltem minus in simili vitio peccent (1). Le quali parole sembrerebbero


a prima giunta escludere l'idea di retribuzione del passato; ma prose
guendo innanzi si fa palese che Platone non solo intravide la necessit

di ricorrere all'idea di retribuzione per segnare il carattere essenziale


(1) Platone, Opere, pagina 604, colonna 2. Versione di Marsilio Ficino. Lione
1548, in folio.

PERTE II.

225

delle pene, e per dare un fondamento alla loro giustizia; ma di pi


spinse questa idea fino a preparare la strada alle dottrine penitenziarie
anche dei nostri giorni. Infatti egli in seguito al passo su riferito accen
nava alla misura delle pene secondo i delitti cos dicendo: Oportet ut
ad haec leges respiciant, et boni sagittarii similes ad hoc signum ten
dant, punitionis magnitudinem in singulis, et quod dignum est conside
rantes. Massima che inchiude implicitamente l'idea di una retribuzione;

lo che si pare ancor pi manifesto dallo stabilire che fa in sguito le


varie pene ai diversi delitti. Espressamente altrove fa entrare l'idea di
giustizia nel penale magistero: Qui recte punit, juste punit; qui pu
nitur dum injustitiae dat poenas, justa patitur; - qui recte puniunt,

justitia quadam freti puniunt (1).


I
a
E qu non sapremmo affatto convenire con Romagnosi, il quale attri
buisce a Platone opinioni in tutto opposte a quelle dei Penitenziari, os
sia alla dottrina della espiazione (). Infatti Platone non solo faceva en
-

trare, come accennammo, nella pena l'idea di giustizia in un senso che

conduce a quelle di retribuzione e di espiazione, ma nel Dialogo test


citato parla diffusamente della pena come rimedio alla pravit dell'ani
mo del colpevole. Qui luit poenas a pravitate animae liberatur (3). Egli
introduce Socrate a discorrere in questa maniera notevolissima: Non in
hoc consistere videtur felicitas, ut liberemur a malis, sed ut ab ipso ini
tio simus incolumes...... Gaeterum si duo male vel corpore vel animo
affecti sint, uter horum miserior: num qui curatus liberatur a malo,

an qui minime? Qui non curatur. Nonne in judicio puniri a


maximo quodam malo, idest a pravitate, liberatio erat?... Quippe cum
poena justa moderetur, justioresque efficiattanquam medicina quaedam
improbitatis.... Felicissimus ergo qui non habet animi vitium, quando

quidem id maximum apparuitesse malum.... Deinde autem qui a malo


ejusmodi liberatur.... Hic vero est qui correptus perterritusque poenas
dederit.... Pessime ergo vivit qui injustus est, nec ab injustitia solvitur...
Nonne hic est qui maximis perpetratis injuriis, maximaque usus vio
lentia, effecerit ut neque corripiatur, neque puniatur, neque persolvat
poenas?... Ferme enim eiusmodi homines perinde faciunt, ac si quis
(1) Gorgias. Op. pag. 241, col. 2., edizione sopra citata.
(2) Veggasi l'Articolo di Romagnosi sull'Opera di A. De Simoni Dei delitti con

siderati nel solo affetto ed attentati. Fra gli Opuscoli sul diritto penale, Opere, Vo
lume IV. S62, pag. 449.
(3) Gorgias. Op. pag. 241, col. 2.

226

SAGGI0

morbo correptus gravissimo, det operam ne vitiorum, quae in corpore


sunt, sub medico poenas reportet, neque curetur: puerorum more, ustio
nem atque sectionem, tanquam rem molestam, formidans.... Quoniam

videlicet quanti sit sanitas corporisque virtus ignorat. Videntur autem


per ea quae modo concessimus tale quiddam facere illi qui judicium
fugiunt: ad dolorem quidem ejus aspicere, ad utilitatem vero caeci esse,
aique ignorare quanto miserius sit animo esse non sano, sed fracto,' in
justo, impio, quam aegrum corpus circumferre ; itaque dant operam ne
judicium subeant, neve maximo solvantur malo. Eaque de causa pecu
mias cumulant, comparant amicos, eloquentiae student. At enim si vera
inter nos sumus confessi, sentis quae eae hac disputatione tandem se
quantur?.... Nonne constitit maximum esse malum injustitiam atque
injuriam?... Praeterea mali hujus solutionem esse poenas luere?... Eas
vero effugere mali perseverantiam?.. Igitur inter mala magnitudine
secundum obtinet locum inferre injuriam. Efficere autem me injuriarum
subeatur poena, omnium natura maximum est primumque malorum (1).

Ed sopra tutto osservabile la conseguenza, che ne trae poco dopo,


sulla inutilit della retorica per difendere e scusare l'ingiustizia nostra
o degli altri; e per lo contrario sull' utilit di essa per accusare: primo
quidem nos ipsos, deinde domesticos, familiaresque, et alios: si quis
eorum qui nobis chari sunt, injurias perpetraverit, ne lateant eorum

crimina, sed producantur, unde poenas illi persolvant, sanique evadant.


Praeterea ad compellendum seipsum et alios ne torpeant, neve expave
scant, sed forti animo et quasi conniventibus oculis judici tanquam me
dico secandos urendosque se tradant, bonum ipsum honestumque se
quentes dolore contempto. Itaque si verberibus digna commiserint, ver
berandos se se tradant ; si vinculis, vinciendos ; si multa, multandos ; si

exilio, expellendos ; si nece, necandos. Qua quidem in re unusquisque


sui ipsius sit suorumque accusator, atque ad hoc oratoria facultate uta
tur, ut patefactis injuriis a maimo injustitiae malo solvatur (2). E in

altro luogo del medesimo Dialogo: Convenit autem omnem qui ab alio
recte punitur, vel ipsum fieri meliorem utilitatemque percipere, vel cae
teris exempla dare, ut alii, poenas ejus conspicientes meliores ob timo

rem efficiantur. Poi segue a dire: Qui vero apud deos et homines
ita dant poenas, ut utilitatem inde aliquam referant, hi sunt qui peccata
sanabilia commiserunt, quibus dolor cruciatusque prodest et apud homi
(1) Gorgias, Op. pag. 242. col. 1. (2) Ibidem, pag. 242, col. 2.

PARTE II.

227

nes, et apud inferos. Non enim aliter quis potest ab injustitia liberari.
Qui autem extrema injustitia detinentur, ac propter ejusmodi delicta
sunt insanabiles, ex his exempla sumuntur, ipsique nullam amplius uti

litatem inde reportant, utpote qui sanari non possint, etc. (1). Nei quali
luoghi tutti troppo evidentemente inclusa cos l'idea di retribuzione,
come le dottrine penitenziarie.
Venendo a tempi a noi pi vicini, incontriamo il nostro celebre Pa

ruta, il quale nel Trattato Della perfezione della vita politica riferisce
le pene alla giustizia commutativa, e quindi ammette l'idea della retri
buzione pura e semplice, ed anche una specie di talione. Egli introduce

M. Barbaro a parlare di questa guisa: La giustizia, virt particolare,


ha la mira all'ugualit, la quale talora semplicemente si considera,
per rispetto alle cose stesse; talora vi si riguarda appresso la persona,
ed altri vari accidenti. Nel primo modo ella vien detta giustizia com
mutativa; nel secondo distributiva. La prima suole esercitarsi nelle
cose che occorrono tra due persone, l'una delle quali abbia male usato

alcuna cosa dell'altra o per violenza o per fraude; e in questa si ri


cerca una certa uguale ricompensazione, la quale nasce quando chi

fece l'ingiuria ne patisce castigo a quella conveniente: chi ha ferito


ovvero ucciso alcuno, sia egli similmente o d'un membro privo, o del

la vita; chi ha pigliato la roba altrui, sia tenuto di restituire il dop


pio, ed insieme con altro castigo nella persona soddisfaccia all'offesa
fatta alla legge ().
-

nota la definizione che d Grozio della pena: Malum passionis,


quod infligitur ob malum actionis; legittimata, com'egli dice, dalla
stessa natura: Inter ea quae natura ipsa dictat licita esse et non iniqua,
est et hoc, ut qui male fecit malum ferat (3). Nella quale sentenza il
principio della retribuzione assai chiaro, per non aver bisogno di al
Cun COmmentO.

Fermiamoci ora un momento ad ascoltare Gian Jacopo Rousseau. Egli,


dietro il suo sistema, avrebbe dovuto ammettere che il diritto della so
vranit di punire, specialmente con la morte, dovesse dipendere dalle

cessioni fatte dagli uomini nel contratto sociale. Ma gli era d'impaccio

un dubio: come l'uomo, il quale non ha diritto di disporre della propria


vita, possa trasmettere ad altri questo diritto che non ha. Il buon senso
(1) Gorgias. Op. pag. 256, col. 2. (2) Lib. II. pag. 253, edizione di Venezia
del 1599. (3) De jure belli et pacis, Lib. II. Cap. XX. num. I. 1.2.

SAGGIO

228

condurrebbe naturalmente a scorgere la falsit della teoria stabilita; ma

Rousseau trova un modo pi spedito di liberarsene. Egli salta a pi pari


la difficolt, e pretendendo di esporre meglio la questione, cangia affat
to il punto su cui si aggira. Ogni uomo, egli dice (1), ha diritto di ar
rischiare la sua vita per conservarla. Uno che si getta dalla finestra per
isfuggire all'incendio, chi lo ha mai accusato di suicidio? Chi ha mai
imputato questo delitto al naufrago, quantunque chi si pone in viaggio

sul mare non ignori i pericoli delle tempeste? Ebbene, il fine del con
tratto sociale la conservazione dei contraenti: chi vuole il fine vuole i

mezzi; questi mezzi sono inseparabili da qualche rischio, e anche da

qualche perdita. Chi vuol conservare la sua vita a spese degli altri, de

ve pure darla per gli altri, quando fa bisogno. Il cittadino non pi


giudice del pericolo al quale la legge vuole ch'egli si esponga; e quan
do il Principe gli ha detto: vantaggioso allo Stato che tu muoia; egli
deve morire, perch a questa condizione egli visse fino a quel punto in
sicurezza; perch la sua vita non pi soltanto un beneficio della na
tura, ma un dono condizionale dello Stato.... Anche la vita un dono
dello Stato!

Qu non c'entra per niente la pena: pure ci basta a Rousseau per


istabilire la sua teoria: La peine de mort inflige aux criminels peut
tre envisage -peu-prs sous le mme point de vue (si noti la scien
tifica espressione: -peu-prs): c'est pour n'tre pas la victime d'un
assassin que l'on consent mourirsi on le devient. Dans ce trait, loin
de disposer de sa propre vie on ne songe qu' la garantir, et il n'est
pas presumer qu'aucun de contractans prmdite alors de se faire

pendre (2).
No'l si crederebbe; ma pure subito dopo, nella stessa pagina, egli di
strugge tutte queste magnifiche dottrine, e il delinquente diviene un ri
belle, un traditore della patria, che le fa la guerra, e cessa d'esserne
membro violando le sue leggi. Poche linee prima egli era un cittadino,
per cui si verificava il casus foederis d'essere impiccato: adesso non
pi cittadino; l'assalitore, contro cui lo Stato si difende, dacch bi
sogna che l'uno o l'altro perisca, essendo la sua conservazione incom
patibile con quella della societ. Il diritto di punire diventa dunque un
diritto di difesa diretta: ecco la sostanza di tutta la dottrina di Rous

(1) Du contr. soc. Liv. II. Chap. V. (2) Ibidem,

PARTE II.

229

seau, se pure da un enorme ammasso di contradizioni e di sofismi si pu


estrarre una teoria.

Ma quello che vogliamo far osservare, e che difficilmente si compren


derebbe, se non fossero troppo note le contradizioni in cui fa cadere la
fallacia di un sistema sofistico, si che nel Capo XII. di questo stesso

Libro II. egli attribuisce alle leggi penali il carattere di sanzione: Les
loir criminelles dans le fond sont moins une espce particulire de loia,
que la sanction de toutes les autres. E notevole che questa idea di san
zione sia entrata anche nella mente di Rousseau: tanto essa ovvia e
necessaria per avere l'idea di pena.

La dottrina delle pene nel sistema dell'utilismo una inconcepibile


assurdit: pure anche in tale teoria l'idea di retribuzione vi , se non
altro, intrusa, essendo impossibile assolutamente che se ne prescinda
del tutto.

Nel Trattato Despeines et des rcompenses Bentham definisce il pu

nire in generale a questa maniera: Punir, dans le sens le plus gnral,


c'est infliger un mal un individu, avec une intention directe par rap
port ce mal, raison de quelque acte qui parait avoir t fait ou omis
(Livre I. Chap. I). Della pena legale poi egli d questa definizione:
D'aprs le principe de l'utilit, les peines lgales sont de maux infligs,
selon des formes juridiques, des individus convaincus de quelque acte
nuisible, dfendu par la loi, et dans le but de prvenir des semblables

actes (ibidem). Secondo lui non v'ha niente a dire sull'origine del di
ritto di punire: essa la medesima che quella di tutti gli altri diritti del
Governo. Egli soggiunge: On ne saurait concevoir un seul droit, ni du
gouvernement, ni des individus, qui pit exister sans le droit de punir:
il est la sanction de tous les autres (ibidem).
Per Bentham adunque le pene sono sanzione, sanzione de diritti dei

Governi e degl'individui. Tuttavolta egli, seguendo sempre la sua favo


rita idea dell'utile, e combattendo i sostenitori del principio, che le pe.
ne sono legittime in virt di un consenso anteriore per parte degl'indi
vidui, dice poco dopo: Ce que justifie la peine c'est son utilit majeure,
ou, pour mieua dir, sa ncessit. Les dlinquants sont des ennemis pu
blics: ou est le besoin que des ennemis consentent tre dsarms et

contenus? (ibidem). Egli ammette che dans l'tat sauvage, ou l'tat de


nature, le pouvoir de punir est exerc par chaque individu, selon son

dgr de ressentiment ou de force personelle (ibidem); e che ogni passo


della civilizzazione sia contrasegnato da qualche restrizione posta al

230

SAGGIO

l'esercizio di questo potere; come viceversa ogni passo retrogrado verso


l'anarchia contrasegnato da qualche sforzo della moltitudine pour s'en
ressaisir.

Quanto allo scopo delle pene, il Bentham vuole che consista:


1 Nel prevenire la ripetizione di simili delitti tanto per parte del
reo (prvention particulire), quanto per parte degli altri (prvention
gnrale.

2. Nel riparare, per quanto possibile, il male del delitto passato,


accordando una indennizzazione o soddisfazione all'offeso, ossia un equi
valente in bene pe'l male sofferto.

Lo scopo principale delle pene e la loro ragione giustificativa , se


condo lui, la prevenzione generale, cio quella che si applica a tutti i
membri della comunione sociale (Livre I. Chap. III).

Al Capo V. dello stesso Libro, ove parla della misura delle pene, il
Bentham pone in fronte questi versi d'Orazio (Lib. I. Sat. III.):
-

Adsit

Regula, peccatis quae poenas irroget aequas;

Ne scutica dignum, horribili sectere flagello;

e noi non sapremmo certamente dire il perch, essendo troppo chiaro


che in questa sentenza del Venosino inchiusa la vera idea di giustizia,
quale viene confessata dal comune buon senso, ed per in opposizione

evidentissima col sistema che fonda la pena sopra un calcolo d'interesse.


Notata la necessit di una opportuna norma per misurare le pene,
egli pensa provedervi con varie regole che d, a conoscere l'indole
delle quali basti questa = che il male della pena sorpassi il vantaggio
del delitto; - e, in mancanza d'altro, pone il vantaggio del delitto nel

male che il delinquente ha fatto all'offeso.


Egli poi dichiara assolutamente falsa l'obbiezione tratta dal fatto del
la insussistenza d'uno spirito di calcolo nelle passioni; e porta l'esem
pio della Francia, dove chi pratico dei tribunali osserva che dopo la
promulgazione del Codice penale, facile a consultarsi, esso un oggetto

di studio pe i malfattori di professione, e ch'essi sanno dove abbiano


ad arrestarsi per evitare i lavori forzati o la morte. Ma posto ancora che
ci avvenga nei malfattori di professione, fortunatamente per la societ
ben pochi delinquenti sono malfattori di professione che studiino il Codice.
poi veramente singolare la difesa che fa della pena di morte nel

Trattato medesimo (Livre II. Chap. XIV. n 1), dicendo che per giu

PARTE II.

231

stificarla l'argument le plus solide est celui qui rsulte de ces deux con

sidrations runies: d'une part, c'est la peine la plus grande en appa


rence, la plus frappante, la plus exemplaire pour la socit en gnra
le; d'une autre part, c'est une peine rellement moins rigoureuse,

qu'elle ne parait l'tre pour la classe abjecte, qui fournit les grands
sclrats; elle ne fait que donner une prompte issue une existence
inquite, malheureuse, dshonore, denue de toute vritable valeur.
Heu! heu! quam male est extra legem viventibus!
-

Il principio dell'utilit abbastanza chiaro. Bentham si dimentic di


addurre il motivo che legittima il diritto nella potest sovrana di punire
con la morte; tutto si riduce a questo: che la morte fa finir presto una
vita che non ha un vero valore, quasi che la vita potesse essere qualche
volta senza valore:... e ci sempre d'aprs le principe de l'utilit. Mette
poi innanzi alcune considerazioni contro la pena di morte, e propende
quasi a negare che debba applicarsi, o almeno restringe l'uso di essa a

pochi casi (Livre II. Chap. XIV. n. 2); nella quale ultima opinione
ogni uomo assennato ed onesto sar d'accordo con lui, tutt'altro per
che pe'l principio dell'utilit. Era ben difficile che Bentham si emanci
passe dalle grette vedute dell'utilismo, egli che sdegnava la metafisica
propriamente detta, e che non aveva mai studiati profondamente i fe
nomeni dell'intelletto e del cuore umano. Tutti quelli che battono o bat
teranno la strada da lui e dagli altri veri utilitari segnata, riusciranno

sempre a parlar molto, a raccogliere e ad esibire molti fatti; ma saranno


costantemente spogli di principi, e in contradizione non solo con la ra

gione, ma fin anco col comune buon senso: peggio poi queglino cui manca
la potenza di mente, che non si pu certo negare al Bentham.
Abbiamo voluto estenderci alcun poco nella esposizione di questo si

stema, perch risultasse il contrasto fra esso e l'idea di retribuzione, la


quale suppone merito e demerito, e quindi le idee di moralit e di giu
stizia: idee incompatibili col principio dell'utilit nel senso di Bentham;
e quindi dall'avere anch'egli, ad onta di ci, accennata la retribuzione,
tanto pi fosse provato che la idea di retribuzione o sanzione entra in

quella di pena cos necessariamente, che, voglia o non voglia, bisogna


riconoscervela.

Quegli che pi d'ogni altro ha sviluppato recentemente la dottrina


della retribuzione il Rossi. Le differenze tra la dottrina della retribu

zione giuridica e la dottrina della retribuzione in genere e della retribu

zione morale, che viene dal Rossi sostenuta, furono gi notate nel pre

SAGGIO
cedente Capo V.; n qu occorre fermarsi ad esaminare il valore di quel
232

la teoria, sia perch viene giudicata sulle basi gi tracciate incidente


mente, esponendo la nostra; sia perch qu abbiamo in mira principal
mente di accennare come s'accordino nel riconoscere l'idea di retri
buzione implicita nell'idea di pena gli scrittori che ammettono dottrine
pi o meno diverse, od anche repugnanti da quella che ci pare la vera;
e non gi quelli che pi vi si accostano.

E per fuori di dubio che la teoria della retribuzione od espiazione,

nel senso propugnato anche dal Rossi, non che il ritorno alle idee di
Platone, da Grozio e da altri seguite, esposte in una forma pi scienti

fica con le frasi della scuola filosofica scozzese.


Anche alla teoria di Feuerbach, del quale si fatto cenno di sopra,
non straniera del tutto l'idea di retribuzione, perch a suo senso la
pena una coazione psicologica, la quale, mediante la minaccia legale

che determina come necessaria la connessione fra il delitto e la pena


che n' la conseguenza, e mediante la effettiva applicazione di essa,
viene a stabilire il convincimento comune del legame necessario tra l'o
fesa e il male che la punisce (1).

- Nella quale dottrina la pena essendo in sostanza la sanzione delle leg

gi sociali, e riguardandosi

come una conseguenza del male commesso,


viene per ci stesso ad inchiudere il concetto di retribuzione.
o Finalmente il ch. Mittermaier, editore ed illustratore del Feuerbach,

il quale a ragione non conviene con la dottrina ammessa da questo, e


vuole stabilire la vera teoria del diritto penale sul diritto dello Stato di
usare tutti i mezzi che servono ad ottenere lo scopo suo, per sotto la

condizione della necessit di questi mezzi; tocca anch'egli l'idea di re


tribuzione, ad onta che paja escluderla; poich sebbene principalmente
faccia dipendere la giustizia della pena non dalla sua proporzione colla
gravit del delitto, ma bens dalla necessit di essa secondo le diverse

relazioni e bisogni di ciascuno Stato; tuttavolta dice giustificato l'uso


della pena dalla sua necessit e dalla sua giustizia, risultante dal pale
sarsi la pena come un male meritato in proporzione alla gravezza della

colpa (2).
e, (1) Feuerbach, Lehrbuch etc. S 14, pag. 38, edizione superiormente citata.
(2) Feuerbach, Lehrbuch etc. S20 b. (dell'editore Mittermaier), pag. 42. Sebbe
me noi non siamo intieramente d'accordo con le dottrine del Mittermaier pi che con
quelle del Feuerbach e degli altri criminalisti intorno ai fondamenti del diritto pe

male, tuttavolta ci sembra che le erudite e dotte annotazioni che nella pi volte ci

PARTE II.

233

Cotesta maniera di pensare dei due criminalisti alemanni si conforma


nella sostanza alla teoria del nostro Cremani, fondata sulle idee del me

rito, della coazione morale, e della sanzione delle leggi sociali (1).
Da questo breve saggio delle varie dottrine che s'incontrano negli
scrittori di jus criminale si rileva che in tutte le scuole, cos in quella
dell'utilit come in quella del senso morale, si trova accennata l'idea di

retribuzione, sebbene in diverso grado e sotto diversi aspetti, giusta


l'indole varia delle teorie che si adottano. Perci quest'idea si pre
senta ora come retribuzione morale, ora come retribuzione puramente

legale-positiva, ora come retribuzione vendicativa; ma rimane sempre


fermo che prescinderne del tutto impossibile, perch nell'idea di pena
essenzialmente v' inclusa quella di retribuzione.

Tutti i Codici penali del mondo non contengono n possono contenere


altro che disposizioni retributive: ci si sa bene, e si sa quanto sia dif
ficile cosa il formare un buon Codice penale; e si sa pure che lo scoglio
pi duro consiste nello stabilire le giuste proporzioni tra le pene e i
delitti, perch, bisogna confessarlo, manca una norma scientifica, chiara,
universalmente e con facilit applicabile ad ogni caso e a tutte le circo

stanze. Ai difetti di tutte le norme che furono sin qui proposte ha dovu
to sempre supplire il buon senso pi o meno delicato dei compilatori di
quella parte della legislazione criminale, che dinota le azioni crimino
se, e statuisce le relative pene, essenzialmente diversa dall'altra parte
di legislazione penale che d norma alla procedura. Questa non altro

che una regola per l'esercizio del potere dei giudici, e l'applicazione dei
principi della logica critica alla verificazione dei fatti delittuosi e dei
loro autori; applicazione che dev'essere associata a quelle cautele che im

pediscano l'abuso dell'autorit per parte di chi deve applicare la legge,


tala edizione del Feuerbach il sig. Mittermaier aggiunse, meritino la maggiore at
tenzione per le importanti osservazioni e notizie che contengono.
(1) Aloysii Cremanii, De Jure criminali, Vol.I. pag. 111-115. Ticini 1791
1793. Ricordiamo di preferenza quest'Opera del celebre Professore di Pavia, in
confronto di molte altre, che resero la seconda met dello scorso secolo tanto e

conda di scritti sull'argomento, perch ci sembra non solo la principale, se si ec


cettui la Genesi del diritto penale di Romagnosi, ad essa contemporanea; ma ezian
dio perch riassume tutto quanto fu scritto dagli altri intorno al diritto penale

fino a quell'epoca; perch racchiude molte belle e importanti dottrine, ampia


mente e dottamente sviluppate, e perch spira, diremmo quasi ad ogni pagina, senno
profondo, e i nobili sentimenti che avevano inspirato al suo autore le riforme allora
recenti di Leopoldo Granduca di Toscana, poi Imperatore, al quale intitolava il
Volume I., come gli altri due lo sono al successore di lui Francesco II.
16

234

SAGGIO

e rendano solenni, esemplari, pronti, imparziali ed illuminati i criminali


giudizi.
Questa differenza tra i principi, onde viene regolata la codificazione
criminale nelle sue due parti, spiega come possa avvenire che mentre il

sistema di procedura stabilito in uno Stato va fornito di pregi essenziali,


il suo Codice penale statuente sia al sommo difettoso; e viceversa il
Codice penale statuente sia abbastanza buono dove non lo altrettanto
il sistema di procedura.
Sin qu noi abbiamo considerato il diritto di punire nella sua essenza,
ne' suoi fondamenti, nello scopo suo; abbiamo accennato in generale
d'onde si tragga la norma per misurare al delitto la pena corrisponden
te; e dimostrato come l'idea di sanzione, inchiusa nell'idea di pena,

riferita alla legge giuridica naturale, divenga il principio giustificante


il potere punitivo, e soddisfi a tutte le ricerche della scienza del diritto
criminale.

Ora ci d'uopo svolgere pi diffusamente le idee che abbiamo, a dir


cos, incontrate nel nostro cammino, onde classificare le azioni colle quali
si violano i doveri giuridici; stabilire quali tra queste debbano assogget

tarsi a pene nella societ; distinguere le specie degli atti punibili in


relazione alla maniera con cui violata la legge giuridica; determinare

le condizioni subbiettive della imputabilit in ciascuna specie; e fissare


la norma che regola la proporzione tra le azioni lesive punibili e le pe.
ne, dietro i principi stabiliti.

PARTE II.

-235

CAPO X.
Delle azioni punibili in generale.

La comune dei giureconsulti si forma del delitto e delle azioni punibili


in genere una mozione affatto positiva; e le stesse espressioni che ado
perano

i Codici sembrano a prima giunta autorizzare l'idea, che

per co

stituire il delitto in genere si richiegga un'azione qualificata come pu


nibile dalla legge che la proibisce.

Ma questo modo di vedere produce talvolta una confusione di idee,


e quindi un errore tanto pi funesto, quanto pi grave l'argomento al
quale si riferisce.
Altro dire che un'azione sia delitto perch il Codice la dichiara

tale, ed altro dire che l'azione punibile perch il Codice ne prescri


ve la punizione.

Il Codice deve determinare le azioni che vuol punire, e il giudice non

deve punire altre azioni, da quelle in fuori che sono dalla legge assog
gettate a pena. Questo verissimo; ma non ne segue perci che l'azione

colpita dalla legge sia delitto soltanto perch la legge ne ordina la pu


IllZ10Ile,

Non in arbitrio del legislatore il determinare quali azioni siano pu


nibili, come non in arbitrio del magistrato il punire quelle che non
sono colpite dalla legge.

Bisogna dunque distinguere nell'azione punibile la sua natura intrin


seca, alla quale deve mirare il legislatore, e ch' indipendente da qual
sivoglia norma positiva; e la determinazione degli estremi che distin

guono un titolo criminoso da un altro, e delle rispettive pene, che de


vono risultare dal Codice, e servono di norma al giudice chiamato ad
applicare la legge.
E siccome il legislatore non pu cambiare l'indole delle azioni, n i
rapporti naturali, ne viene per necessaria conseguenza, che la cogni
zione di quelle norme immutabili, che gli devono servire di guida nella
formazione dei Codici, indispensabile anche al giureconsulto e al magi
strato, perch possa intendere il vero senso delle disposizioni della leg
ge, e quindi applicarla secondo la mente del legislatore, il quale non
pu essere che l'organo della ragione, l'espositore di quanto la ragione
prescrive. Forte argomento per dimostrare la suprema necessit della

236

SAGGIO

istruzione nella scienza del Diritto criminale anche per quelli che de
vono attenersi alle norme positive della legge, perch chiamati non a
formarla, ma ad applicarla.
-

La societ civile, che in quanto spetta alla sua costituzione essen

ziale non dipende da verun fatto dell'uomo, ma opera della sola na


tura, che vi colloca l'uomo fin dal suo nascere, facendolo uscire alla luce
in seno della famiglia, ch' l'elemento della societ; la societ civile,

ch' lo stato naturale dell'umanit, destinata a procurare l'adempi


mento della legge giuridica, la sicurezza e la prosperit dell'uomo, e a
cooperare al suo perfezionamento sotto ogni rapporto.
L'osservanza della giustizia e gli altri fini della societ esigono l'im

piego di tutti quei mezzi giusti che valgano all'intento impostole dalla
natura. Qualunque azione, con la quale sia offeso un diritto e violato un

dovere in qualsivoglia modo derivante dalla legge giuridica, sia nei rap
porti individuali come nei sociali, un'azione di sua natura punibile,
sotto le condizioni e dentro i limiti che vedremo in seguito, in conse

guenza della sanzione necessariamente annessa alla legge naturale del


giusto. Ora le pene non essendo altro che questa medesima sanzione ap
plicata nella societ, e perci giuste, ne segue che fra i mezzi, di cui la

societ pu disporre pe'l conseguimento de' suoi fini, hanno pure la loro
parte le pene; e che ogni azione, in qualunque modo leda il diritto, di

sua natura legittimamente sottoposta a pena. Ma quali saranno le regole


che debbano dirigere la societ e chi la governa nell'adoperare le pene

per conseguire i suoi fini? Sotto quali condizioni si dovranno infliggere


secondo la variet delle azioni? In che consisteranno le pene? Consiste
ranno esse in una sola specie di mali, o ve ne avr di specie diverse,

secondo l'indole delle lesioni cui si applicano? Queste ed altre tali ri


cerche si possono e debbono fare intorno al magistero penale; e la ri

sposta che vi si d allora sar esatta, quando si tenga conto di tutti i


principi della scienza, di tutte le relazioni e variet delle azioni umane

che possono essere soggette ad una responsabilit penale, dei canoni


che in ciascun caso determinano l'indole della pena e la misura di essa,

e delle ragioni che ne provano la giustizia, e segnano le condizioni sotto


le quali si deve applicarla.

PARTE II.

237

CAPO XI.

Diritti, doveri, violazioni: loro specie relativamente alla legge giuridica.

A tre si riducono gli oggetti sui quali e pe quali operando la socie


t e i suoi membri, si conseguono dal corpo tutto e da ogni individuo
i fini naturali e immediati della civile aggregazione. Questi tre oggetti
sono: giustizia, sicurezza, utilit, ossia benessere.
Ad effettuare l'osservanza della giustizia concorre l'opera della so
-

ciet tutta, e quindi di chi la rappresenta e governa, mediante le leggi


e i giudizi.

Alla sicurezza provede ancora direttamente il potere sociale mediante


la vigilanza e i regolamenti che mirano ad allontanare i timori e i peri
coli di danni imminenti o futuri.

All'utilit serve in parte l'azione di ciascun individuo, in parte i


provedimenti della publica autorit in quelle bisogne cui non basta l'ope
ra degl'individui. In queste considerazioni generali si comprende pure
l'aiuto reciproco che in certi casi viene positivamente ingiunto dalla
publica autorit, e che pu essere ed molte volte spontaneamente pre
stato dai cittadini, che spinti o da un sentimento di benevolenza, dal
dovere morale, o dal bisogno di ottenere il ricambio, concorrono l'un
l'altro ai particolari e giusti loro fini.
Tutti i cittadini devono necessariamente essere obbligati all'osser

vanza delle prescrizioni emanate dall'autorit suprema sopra questi tre


oggetti, ed anche alla prestazione non espressamente comandata degli
ajuti, secondo potere e bisogno. E questa una conseguenza immediata

del principio incontrastabile che la legge suprema della socialit, il rap


porto fondamentale che ne determina le giuridiche attinenze, appunto

il concorso di ognuno al conseguimento dei fini comuni, come abbiamo


gi veduto nella Parte I.

L'obbligazione che hanno tutti i membri del corpo sociale di adem


piere alla legge naturale del giusto, e di operare in modo conforme al
fine della societ, la quale fa parte ed anzi il compendio, la somma di
ci che dicesi ordine naturale giuridico, inchiude tre classi di doveri,
corrispondenti ai tre oggetti generali sopraccennati: giustizia, sicurezza,
benessere; alle quali tre classi di doveri corrispondono tre specie di

violazioni, che ricevono da quelle il loro carattere speciale.

238

SAGGIO

I doveri di giustizia vengono tutti imposti dalla legge giuridica na


turale; essi vengono dedotti dalla considerazione degli attributi essen

ziali dell'uomo, e degli svariati rapporti, sia privati, sia publici. Il po


tere sociale, col mezzo delle leggi che spettano alla giustizia, non fa che
esporre in modo accessibile all'universalit dei cittadini le prescrizioni
dell'ordine giuridico derivate dai rapporti individuali o sociali, ed ag
giungervi quelle moderazioni e determinazioni che il rapporto di societ
pur naturale esige che s'introducano nei diritti privati.
Perci i doveri imposti dalle leggi giuridiche della societ, e i di
ritti corrispondenti, sono doveri e diritti naturali nella loro individua

lit. Ogni dovere ed ogni diritto imposto od attribuito dalle leggi giu
ridiche positive quali devono essere, dovere e diritto imposto ed at

tribuito dalla legge giuridica naturale nelle relazioni private o nelle


publiche.

Quindi le violazioni di questi doveri sono violazioni immediate del


la legge naturale al pari che della positiva, e quindi soggette alla san
zione della legge naturale, ch' effettuata nello stato di societ; cio
sono punibili per la loro intrinseca natura (1).

Dopo la giustizia viene la sicurezza. Non bisogna confondere la sicu


rezza con la inviolabilit del diritto. L'inviolabilit del diritto la cau

sa o l'effetto, come si voglia, del dovere di rispettarlo. Il diritto ri


mane inviolabile anche mancando la sicurezza. Questa il risultato dei

mezzi che la societ pone in opera onde prevenire le violazioni del di


ritto. Quando i mezzi sono sufficienti, la sicurezza ottenuta. Suo ef
fetto si la tranquillit dell'uomo, il quale nulla teme a suo danno. Vi
pu essere tranquillit e non sicurezza, e viceversa, perch si pu
ignorare un pericolo esistente, ovvero temerne uno che non sussiste.

Ai doveri di giustizia corrisponde sempre un diritto altrui, determi


nato nell'oggetto; ai doveri di sicurezza non corrisponde che il diritto

generico di non essere esposto per qualsiasi causa a pericolo di danno.


Quindi gli atti positivi o negativi, che il potere sociale impone allo
scopo della sicurezza, non sono gi doveri nella loro individualit, cio
per la loro intrinseca natura, come quelli di giustizia, ma per la influen
za che in forza delle circostanze questi atti positivi o negativi esercita
no sull'integrit dei diritti.
(1) Qu si parla sempre delle violazioni e della loro punibilit in generale nel
senso e sotto le condizioni che saranno dichiarate in sguito.

PARTE II.

239

Perci le violazioni dei doveri di sicurezza sono violazioni puramente


mediate della legge giuridica.

Da ci si scorge che le leggi sociali intorno alla sicurezza non sono


punto arbitrarie, ma implicite nella legge del giusto; e quindi le loro
violazioni sono implicitamente sottoposte alla sanzione giuridica. La sola
differenza sta in ci, che le violazioni delle leggi di giustizia sono, co

me dicevamo, sottoposte alla sanzione per la loro intrinseca ed indivi


duale natura; e le violazioni delle leggi di sicurezza lo sono soltanto per
la loro connessione con le prime.

Di qui le differenze necessarie nel grado e nelle condizioni della pu


nibilit di queste due specie di violazioni.
Per quanto spetta al benessere, conviene avvertire che le ordinazioni
della suprema autorit intorno a quest'oggetto, considerate in relazione
a quelli che debbono eseguirle, altre sono rivolte unicamente alle publi
che autorit, ed ingiungono ad esse i doveri e gli atti concernenti la
produzione della legittima utilit negli amministrati; altre si riferiscono
-

a tutti i cittadini. Entrambe queste specie si risolvono infine in una

prestazione di aiuto, sia dato immediatamente dalla publica autorit o


da suoi delegati, sia ingiunto ai sudditi in generale.
-

Molte di queste prescrizioni sembrano a prima giunta tendere alla si


curezza, e quindi i relativi doveri comprendersi in quelli che alla si
curezza si riferiscono.

Si osservi peraltro che le leggi relative alla sicurezza, quantunque


impongano talvolta certi atti positivi, hanno sempre uno scopo negati
vo, cio l'allontanamento dei pericoli, l'impedimento dei danni. Gli atti

positivi, comandati nelle viste della sicurezza, tendono soltanto a far s


che non avvenga il male possibile. Per lo contrario le leggi relative al
benessere e al soccorso hanno uno scopo essenzialmente positivo, quando

anche impongano talvolta atti negativi. D'ordinario per gli atti impo
sti sono positivi; e gli uni e gli altri tendono sempre a produrre un van
taggio, o a togliere un male gi avvenuto o sovrastante.
Quindi conforme all'ordine logico il distinguere le prescrizioni ri

guardanti la sicurezza da quelle che tendono al benessere positivo, seb


bene abbiano alcun che di comune; e rispetto a queste ultime neces

sario fermare l'attenzione in particolare alle specie degli atti positivi


imposti nello scopo del soccorso reciproco, che sono i pi rilevanti.
Cotali atti o doveri positivi di soccorso possono ridursi a quattro classi.
Nella prima si comprendono i soccorsi che il potere sociale nei casi

SAGGIO

i)

di calamit o di pericoli imminenti, sia dei privati, sia della societ, o


d'una parte di essa, impone di prestare a quelli che lo possono senza

grave danno.
Nella seconda hanno luogo i soccorsi, sia reali, sia personali, ch'
comandato di prestare a chi lo pu, anche col proprio danno, nei casi
di publica necessit, e previo compenso.
Nella terza vengono racchiusi quei soccorsi che sono comandati a quel
li i quali con un fatto loro positivo hanno assunto l'obbligo di prestarli.
Nella quarta finalmente sono collocate tutte quelle prestazioni che
vengono con equa

misura imposte a tutti indistinntamente i cittadini,

consistano esse in prestazioni ordinarie o eventuali, in servigi personali,


o in contributi reali.

Tutte queste quattro specie di doveri sono derivate dalla legge su


prema della socialit, ch'

appunto il soccorso reciproco, e quindi le vio

lazioni dei medesimi sono soggette alla sanzione giuridica; ma siccome


v'hanno grandissime differenze tra l'indole e il grado delle violazioni

spettanti a queste quattro classi, cos diversi devono essere il grado e


le condizioni della punibilit di esse.

La prima specie di doveri si riduce alle prestazioni dirette ad allon


tanare i danni o i pericoli (soccorsi in caso d'incendio, raccogliere il
bambino abbandonato, ec.). Chi rifiuta in tali casi di prestare il soccor

so, potendo, viola la legge suprema della socialit; manca dal canto suo
alla soddisfazione di ci che deve in correspettivo dell'ajuto che rice
verebbe in casi simili.

Tali omissioni sono dunque violazioni mediate della legge giuridica,


e quindi analoghe alle violazioni dei doveri di sicurezza. Perci la san
zione regolata con le medesime norme.
I doveri collocati nella seconda classe non possono mai essere violati
in modo punibile, se non rispetto ai servigi personali. Le cose, quando

la publica necessit lo esige, vengono tolte, previo compenso, al pro


prietario. Questo diritto eminente della sovranit non pu venir leso
dal rifiuto di nessun privato: dunque non v' luogo a parlare di pu
nibilit.

Le prestazioni personali poi in questi casi richieste, se vengono ri


fiutate, ha luogo una violazione dell'indole stessa delle precedenti, non
essendovi tra le une e le altre che la differenza del correspettivo, dato

in queste come rifusione del danno che recano a chi le presta (per esem
pio, in caso di opera prestata da braccianti).

PARTE II.

24 i

La terza classe dei doveri d'ajuto dipendendo da un contratto, sono


doveri di pura giustizia; e quindi le violazioni dei medesimi cadono
sotto le sanzioni comuni ai doveri di giustizia.
io ore

Rimane la quarta classe di doveri spettanti al soccorso reciproco, i


quali essendo imposti a tutti i cittadini, o sempre o in certi casi spe
ciali, comprendono le prestazioni positive personali o reali, che servono
a costituire la somma delle forze e dei mezzi pecuniarj con cui dal po
tere supremo si provede a tutte le esigenze della cosa publica.

Gli atti co' quali i cittadini soddisfanno a tali obbligazioni non si


possono dire doveri nella loro specifica individualit, n per la necessa
ria relazione co'diritti in genere; essi non sono doveri che in forza della
loro connessione col principio della sociabilit.
i:
il
Non sono doveri nella loro specifica individualit, perch non corri

spondono a particolari diritti determinati nell'oggetto, e perch nulla


v'ha di costante e di necessario nell'indole e nella misura assoluta delle

prestazioni ch'esige in questo rapporto la societ; nemmeno lo sono per


la relazione co'diritti in genere, mentre la integrit del diritto non vie
ne da essi direttamente assicurata. Dunque rispetto a queste prestazioni
vale il principio, che gli atti imposti non sono doveri nella loro indivi
dualit, tutta e sempre puramente positiva; ma sono doveri solamente

nella loro generalit, cio nel fondamento da cui discende il diritto ge


nerico della societ d'imporli. Gli atti ad essi contrari non possono
adunque essere violazioni n immediate n mediate della legge giuridi
ca, ma soltanto violazioni indirette e remote.

Questo carattere, tutto particolare di simili violazioni, l'elemento


principale che si deve mettere a calcolo per determinare giustamente
l'indole loro, le condizioni della loro punibilit, e il grado minimo di
pena che possono meritare. Riassumiamo.
Vi sono doveri determinati e nel fondamento e nella individualit lo
ro in modo assoluto, perch rispondono a diritti individualmente deter
minati nell'oggetto; e le violazioni corrispondenti sono violazioni im
mediate della legge giuridica.
-

Vi sono doveri, cui non corrispondono diritti specificamente determi


nati, ma che si riferiscono all'integrit di altri diritti; e per sono tali

pel fondamento e per la connessione co primi in modo relativo, e le


violazioni corrispondenti sono violazioni mediate della legge giuridica.
Vi sono infine doveri, cui non corrispondono diritti specificamente
determinati, che non si riferiscono nemmeno alla sicurezza degli altri

242

SAGGIO

diritti, ma che soltanto corrispondono ad un diritto generico, che n'


il fondamento; e le violazioni rispettive sono violazioni semplicemente
remote della legge giuridica.

La natura intrinsecamente diversa degli atti co'quali si pu oen


dere in queste tre forme la legge della giustizia naturale, induce alcune
essenziali differenze nella misura, nel modo e nelle condizioni della
loro punibilit. E siccome il legislatore non pu cambiare i caratteri

delle azioni, n i rapporti giuridici, ne viene la conseguenza, che le


sanzioni annesse alle leggi positive dovranno essere nell'indole, nella
misura sempre decrescente e nelle condizioni della loro applicazione
foggiate secondo la diversit essenziale delle azioni medesime.
La classificazione delle lesioni, che abbiamo stabilita, parte dalla con
siderazione delle varie classi di doveri e di diritti derivate dalla diversa

relazione con la legge giuridica. d' uopo considerarle adesso sotto


altri aspetti.
CAPO XII.
Delle lesioni di diritto relativamente a chi le commette,
e della loro punibilit in particolare.

Le lesioni del diritto, considerate dal canto di chi le commette, sono


di due specie:
1. Lesioni in lato senso, o puramente materiali.
2. Lesioni propriamente dette in senso giuridico.

Sotto il nome di lesioni in lato senso si comprendono in primo


luogo tutte quelle azioni od ommissioni che danno luogo alle contro
versie puramente civili. Dei due contendenti l'uno o l'altro ha ragio
ne, e talvolta in parte uno, in parte l'altro. Ma siccome il fatto stesso
di chi ha il torto mostra non esservi in lui l'intenzione di violare il di

ritto, giacch si presta a far decidere la controversia dai giudici compe


tenti; cos manca in questa specie di lesioni l'estremo, ossia il carattere
necessario per averne l'idea in senso giuridico.

Per vi sono lesioni di diritto, le quali danno luogo ad una respon


sabilit puramente civile, quantunque non sia n dubio, n controverso

il diritto, come nel caso di chi omette o rifiuta di pagare un debito li


quido e scaduto. In questi casi, quando speciali circostanze non provino
il contrario, ha luogo il principio, che la lesione in senso giuridico non
si presume mai, perch nessuno pu giudicarsi ingiusto senza prove. Il
rifiuto o l'ommissione devono supporsi derivati da impotenza, e non da

PARTE II.

243

un fine diretto a violare il dovere: dunque anche qu si ha, giuridica


mente parlando, una semplice lesione materiale, la quale viene piena
mente riparata coll'aiuto della publica autorit, quando pure il rifiuto
in realt dipendesse da una secreta maliziosa intenzione di non adem
piere al proprio obbligo.
Una terza categoria di lesioni puramente e strettamente materiali
formata da quelle azioni od ommissioni, nelle quali l'agente opera come
causa soltanto istrumentale, o non ha il retto uso dell'intelligenza e li
bert, o versa in un tale errore che non gli lascia scorgere nell'atto

una violazione della legge. In queste azioni abbiamo fatti esterni per

s dannosi, ma non commessi con intelligenza e libert; e quindi manca


uno degli elementi indispensabili per avere l'idea della lesione in senso
giuridico.
La seconda specie di lesioni, che dicemmo strettamente tali in senso
giuridico, comprende tutti quegli atti esterni ingiusti commessi con in
telligenza e libert, co quali non si rifiuta semplicemente di far ragione
all'altrui diritto, ma veramente si offende la legge giuridica in modo
positivo o negativo, trasgredendo i divieti o i precetti che da essa deri
vano nelle relazioni private o nelle publiche.

Ci fuori di controversia presso i giureconsulti, ed anzi pro


priamente non si applica che a queste il nome di lesioni; ed in questo

senso appunto fu nei precedenti Capi tale vocabolo adoperato. Tutte le


quali lesioni commesse in modo imputabile importando un'offesa alla
legge, sia immediata, sia mediata, sia remota, vanno soggette alla san
zione giuridica, cio sono punibili.

L'intelligenza, di cui parliamo, importa la cognizione della legge, e


della natura dell'atto che la offende; la libert condizione comune a
tutti gli atti umani.

Per sebbene le azioni con le quali, nel senso ora detto, si lede il
diritto altrui, siano tutte di loro natura punibili, astrattamente parlan
do; nullaostante non vengono sempre dai Codici assoggettate a respon

sabilit penale, ma alcune in certi casi danno luogo ad una responsabilit


puramente civile, analogamente alle lesioni che poco fa abbiamo collo
cate nella seconda categoria delle lesioni in lato senso; o se pure si as

soggettano alla responsabilit penale, lo si fa solamente dietro istanza


della parte offesa. Tutto ci per altro non avviene perch manchino i
caratteri essenziali che costituiscono la lesione giuridica punibile, o per
ch manchi assolutamente nella publica autorit il diritto d'applicare

2 li i

SAGGIO

d'ufficio la pena; ma in forza di altre relazioni che verremo analiz


zando in seguito.

La giurisprudenza positiva deve cercare nei Codici il criterio per


distinguere le lesioni soggette a pena da quelle che fanno sorgere sol

tanto un diritto civile d'indennit, e le lesioni punibili d'ufficio da quel


le che lo sono ad istanza dell'offeso. Ma nell'ordine razionale bisogna
indagare quali siano i motivi che devono indurre il legislatore a mettere

una cos fatta differenza tra le lesioni giuridiche, onde per una parte
illuminare la pratica ne'casi dubi, e per l'altra escludere l'idea troppo
comune, che nelle leggi positive possa esservi alcun che di arbitrario;

ci che diminuisce il rispetto dovuto alle giuste leggi.


Questi motivi cercheremo di determinarli nel seguente Capo, per ista
bilire il criterio che serva di guida alle leggi da farsi; e di principio
normale, dietro cui intendere ed applicare le leggi gi fatte.
CAPO XIII.
-

- - -

- a -

Idea concreta della sanzione giuridica. Limiti dell'uso di essa. Conse


,
guente criterio per istabilire a quali lesioni si debba applicarla. Eserci
-

zio dell'azione penale d'ufficio, o sopra istanza della parte.

La sanzione, nel significato il pi esteso, comprende tutti i beni e


tutti i mali che possono derivare da un'azione.

I beni e i mali altri sono conseguenza naturale dell'atto: come la pa


ce dell'animo che reca la virt, e il rimorso delle azioni malvage; la
sanit proveniente dall'esser sobri, e le malattie dall'intemperanza, ec.
Cotali effetti delle azioni costituiscono certamente un freno al mal fare,

ed un eccitamento al bene; ma non possono produrre da s soli quel ca

rattere di efficacia che dev'essere proprio della legge, merc cui la vo

lont mossa a determinarsi piuttosto al bene, che al male. Special


mente poi gli effetti esteriori degli atti buoni o rei non sono sempre

n certi, n proporzionati al merito o al demerito; e molte volte l'evi


tare le conseguenze di una cattiva azione dipende dall'accortezza e dalla
forza di chi la commette,

I beni e i mali, che costituiscono la vera sanzione di una legge,


vono essere certi, ossia costantemente annessi all'osservanza o alla tr

gressione di quella: inoltre devono essere proporzionati al bene pratic


o alla gravit delle violazioni commesse, estrinseci all'atto, e indip
denti dall'influenza dell'operante.

PARTE II.

245

In particolare la sanzione giuridica, cio quella ch' propria della


legge del dovere giuridico, deve constare d'un complesso di beni e di
mali esterni, presenti, visibili, come richiede l'indole della legge cui ap

partiene, i quali vengano equamente retribuiti alle azioni giuste od in


giuste dal superiore umano, ossia dal publico potere sociale, cui spetta
applicare la sanzione giuridica.

- - - -r

E qu a fissar bene l'idea concreta della sanzione giuridica, e a tracciare


le norme dell'uso di essa nella societ umana, necessario determinare

i limiti, entro i quali deve necessariamente rimanersi in forza dei prin


cipi stessi che la giustificano, e del fine cui diretta.
2 e
-

Questi limiti sono di tre specie. Altri risguardano la sua forma, in re


lazione al diritto penale; altri la qualit delle azioni che vi possono
essere soggette; altri la quantit o vogliam dire proporzione fra l'atto
e la retribuzione.

- -- -

--

Quanto alla forma, essa duplice: premio pe'l bene, pena pe'l male.
Ma l'indole particolare della sanzione giuridica in confronto di quella
della legge etica, di cui abbiamo gi parlato nel Capo III. di questa
Parte II., fa di leggieri conoscere che nella sanzione giuridica avendo
influenza l'elemento umano con tutte le sue limitazioni ed imperfezioni,
deve essere molto ristretta la sfera dei beni co' quali l'uomo pu retri
buire l'osservanza della legge giuridica, e ancor pi l'uso che ne pu

fare; mentre pi vasta in s e nel suo uso si mostra quella dei mali con
cui si possono retribuirne le trasgressioni. I beni, onde la societ pu
rimeritare l'osservata giustizia, sono in generale piuttosto gli effetti na
turali della rispettata giustizia, che non beni estrinseci adoperati a modo
di vera sanzione rimuneratrice, la quale pu solo applicarsi alle azioni
non soltanto giuste, ma eziandio recanti un servigio pi o meno segna
lato alla societ tutta, o ad alcuno de' suoi membri. I mezzi di questa san

zione rimuneratoria, cui l'umano potere sia in grado di adoperare, si


riducono alle distinzioni onorevoli o lucrose, e nulla pi.
Non che manchi affatto nello stato sociale la possibilit della san

zione rimuneratoria, e quindi l'uso del premi; ma questa forma della


sanzione di necessit pi ristretta in forza dell'indole del dovere giu
ridico, dei mezzi esterni che formano la sua sanzione, delle relazioni
sociali, della realt delle cose, della limitazione dell'uomo.

D'altra parte la dottrina delle ricompense, se ha un'importanza sot


to altri aspetti, non ne ha nessuna nella teoria della sanzione come on

damento del diritto penale. Poich il premio essendo vantaggioso a chi

246

SAGGIO

lo riceve, non c' bisogno di cercare una ragione giuridica speciale che

autorizzi quest'atto. Mentre per l'opposto la pena essendo di sua na


tura nociva, d'uopo ricercare perch si possa con giustizia, ed anche
si debba recare un nocumento ai diritti del delinquente; sotto quali con

dizioni quest'atto sia giusto, e in quale proporzione debba stare la pe


ma col demerito giuridico.
Quindi , che rispetto alla forma della sanzione giuridica la scienza
del diritto deve limitarsi al punire, lasciando da parte il rimeritare;

non gi perch il rimeritare non sia atto voluto dai principi di giustizia,
ma perch non occorre una speciale dottrina giuridica che ne fissi le
basi, ne stabilisca le condizioni, ne determini le proporzioni; dove un
po'di eccesso non fa che bene al premiato.

Circoscritta cos l'idea della sanzione giuridica alla sola retribuzione


penale, conviene fissarne i limiti tanto rispetto alla qualit delle azioni

cui sia da applicare, quanto rispetto alla misura di essa per ciascuna di
tali azioni punibili. Anche questo doppio limite dipende dall'indole
esteriore della legge giuridica, della sua propria sanzione, e degli atti
che vi soggiacciono; dal fine della sanzione stessa nell'ordine giuridico;

dalla natura dei mezzi che il superiore umano pu adoperare, e dalla


ristretta potenza dell'uomo.
Serbando le ricerche intorno al limite di quantit pe'l Capo ultimo,

nel quale parleremo della misura delle pene, qui ci conviene trattar del
limite di qualit, ossia delle lesioni giuridiche che possono essere assog
gettate a pena, e di altri argomenti connessi con questo.

Fu gi detto quali siano i requisiti necessari per costituire una vera


lesione del diritto, e come tutte di loro natura possano, astrattamente

parlando, essere punibili, cio sottoposte alla sanzione giuridica. Ora


d'uopo vedere se il potere supremo, cui spetta applicare la sanzione
giuridica, debba poi effettivamente irrogare una pena a qualunque lesione
del diritto, o debba invece per alcune far luogo ad una semplice azione
civile; e se deve in certi casi escludere la responsabilit penale, e am
mettere la sola civile; quale sia il criterio col quale distinguere le le

sioni che importano l'una o l'altra responsabilit. Inoltre da esami


mare, se per le azioni che pure importano una responsabilit penale,
debba il publico potere procedere sempre d'ufficio, o debba per ce

fatti attendere l'impulso da privata istanza; e quale sia il criterio onde


discernerli. In ci si risolve la ricerca dei limiti della sanzione estern,

rispetto alla qualit delle lesioni giuridiche che si possono punire

PARTE II.

247

Questi limiti, dei quali ora ci proponiamo di ragionare, devono senza


dubio essere la conseguenza di principi che derivino dai canoni fonda

mentali della scienza, se vero, come non pu dubitarsi, che le appli


cazioni, essenziali ad una scienza non solamente speculativa, ma opera

tiva, devono avere per base la teoria della scienza stessa.


La parte teorica fondamentale della scienza del diritto criminale, in
cui si considera questo potere nella massima generalit per determinare
la sua indole, indicare la fonte onde emana la sua legittimit, segnarne
lo scopo, fissare i canoni per misurare il grado di pena proporzionato ai
delitti, fu gi da noi sviluppata, quanto alle tre prime ricerche; mentre
la quarta vuol essere ancora un poco differita.

Le dottrine stabilite specialmente intorno all'indole del supremo po


tere, cui spetta l'esercizio dell'autorit punitrice, e intorno allo scopo
delle pene, servono a determinare il limite di cui andiamo in traccia,
ossia quella linea che separa le lesioni di azione penale da quelle di
azione civile; e fra le prime, quelle che danno luogo all'azione penale
d'ufficio, da quelle per le quali deve procedersi solo ad istanza di parte.
Ma, anche indipendentemente dalle esposte dottrine, e qualunque
sistema si voglia adottare intorno alle quattro ricerche or ora accennate,
che racchiudono tutta la teoria del diritto penale, non pu mettersi in
dubio l'evidenza dei principi che servono a tracciare i detti limiti; cio:

1. Che il diritto di punire, per qualsivoglia fondamento lo si di


mostri giusto, di sola appartenenza del potere sociale, che deve eser
citarlo solo in quanto sia possibile e necessario.
-

2. Che l'uso di esso uno dei mezzi co quali il potere governati


vo presta i sussidi che non istanno in mano dei privati per effettuare
l'osservanza della naturale giustizia.
Intorno alla prima tesi v'ha taluno che ancora non sembra avere de
posta l'idea, che il diritto di punire si possa trovare anche tra gli uo
mini viventi fuori della societ civile. Ma dappoich l'ipotesi di uno
stato extrasociale assurda in teoria, storicamente falsa, e ormai caduta

in quello scredito che meritava, non occorre occuparsene.


Quanto alla seconda, pare che, dopo quanto fu detto e dimostrato su
questo punto, non possa essere pi contradetto il principio, che l'azio
ne del supremo potere in societ , nel rigore del vocabolo, un sussidio
all'impotenza individuale, in qualunque ordine di fatti e di relazioni si
manifesti, e quindi ancora nell'esercizio del potere punitivo.

- Dunque se la potest di punire sta nelle mani della sovranit per

SAGGIO i

248

l'effettuazione completa (quando in realt possibile) della giustizia,


non pu nella pratica essere esercitata che partendo da quel punto in

cui l'opera individuale non sufficiente ad ottenere dagli altri l'effetti.


va osservanza della legge medesima.

Questa dottrina ci sembrer tanto pi evidente ed importante, se ri


fletteremo ai limiti insormontabili dell'umana potenza.
Pretendere che il governo civile proveda a tutto, ed applichi una san
zione penale ad ogni anche minima lesione che tocchi il solo individuo,
e per evitare o riparare la quale bastino i mezzi ordinari della civile
giustizia, sarebbe lo stesso che volere l'impossibile.
Di pi: se si ammette il principio, che le pene sono la sanzione della

legge giuridica; se vuolsi considerare altro non essere la sanzione che


il mezzo indispensabile di rendere efficace la legge: ne verr spontanea
-

la conseguenza, che dove la legge resa abbastanza efficace per l'ap


poggio dato civilmente all'esercizio dei privati diritti, manca il fonda
mento che giustifichi l'uso della pena, e quindi il diritto d'infliggerla.
Conveniamo che nel determinare tassativamente i casi in cui non si
debba punire si devono incontrare difficolt; ma sar sempre vero che
il canone, sul quale dovr fondarsi la distinzione tra le lesioni che devo

io essere punite, e quelle per le quali debba farsi luogo alla semplice
azione civile della parte lesa, sar questo: - Non si deve punire in
tutti quei casi, ne quali la sanzione penale non mezzo ordinariamente
necessario ed opportuno a rendere efficace la legge giuridica = cio ad
-,
i
allontanare o riparare certe lesioni.

A maggiore conferma di questo principio si pu aggiungere un'altra


osservazione che versa sulla natura delle lesioni, o, a dir meglio, degli
oggetti delle lesioni portanti azione semplicemente civile. Questi oggetti
non sono quelli immediatamente connessi colla persona, ma bens costi
tuiti dalle cose esterne. Ora su queste possono cadere le contrattazioni
e le transazioni fra gli uomini, sia prima della lesione, sia dopo. Perci
non sarebbe ragionevole il sottoporle tutte alla sanzione penale, toglien

cdo cos o coartando in qualche modo la libera facolt delle contrattazio


ni. Chi soffre la lesione non vuole cedere il suo diritto? Ebbene, il pl

re sociale fa riparare il danno, e rimettere le cose nello stato di prim


Se volessimo cercare nelle disposizioni dei Codici qualche esempi
per mostrare che il canone poco fa stabilito fu preso a guida anche dai

poss
turbato
trovarne nonri,solo
potremmo
legislatori,
at che
in certi
bendianco
ec.;neimacasi
di amministrato
alcune infedelt
di
a

PARTE II.

249

per s sono veri furti. - I legislatori non vollero sottomettere a san


zione penale (almeno assolutamente) quei furti, a reprimere i quali po
tevano d'ordinario bastare altri mezzi senza l'uso di quella.

Nel Progetto del Codice penale pe'l Regno d'Italia stabilito (1),
che a qualunque sottrazione di roba o denaro commessa dal figlio legit
timo naturale o adottivo, o da altri discendenti legittimi, a danno del

padre legittimo, naturale o adottivo, o di altro ascendente legittimo, o


da alcuno di questi a danno d'alcuno di quelli, dal marito a danno

della moglie, o dalla moglie a danno del marito, d luogo alla sola
azione civile.

Una disposizione simile trovasi nell'articolo 380 del Codice penale


francese.

E nel nostro Codice penale, Parte II. S 463, detto: I furti e le


infedelt tra coniugi, genitori, figli o fratelli e sorelle, finch vivono
in comunione di famiglia, possono essere puniti nel modo indicato dal

$ 460 allora soltanto che il capo della famiglia lo richiede. m Dispo


sizione conforme a quella del Codice penale del 1803, Parte II. SS 210.
213., nella quale non si attribuisce soltanto il diritto di pretendere il
risarcimento del danno, ma si fa luogo ancora ad una pena, per sopra

istanza del capo di famiglia, quand'anche il furto non fosse commesso


direttamente a suo danno, come si rileva dalla forma ond' esposto que
sto paragrafo.

Egli per evidente che tali disposizioni, qualunque siano i motivi


della diversit che presentano, partono in sostanza dalle medesime con
siderazioni, perch anche il semplice esercizio dell'azione civile fra

membri della stessa famiglia per un simile titolo, un freno assai grave,
dacch porta un turbamento non lieve alle ordinarie relazioni domesti

che, n sarebbe opportuno aggravarne gl'inconvenienti colla sanzione


penale. Molto pi poi coll'applicarla d'ufficio, togliendo cos al padre di
famiglia la facilit di riparare al mal fatto con modi che non turbino
maggiormente le domestiche relazioni.

a La distinzione tra le lesioni per le quali si deve procedere d'ufficio,


e quelle in cui i magistrati devono aspettare l'impulso dall'istanza della
parte, ha per base gli stessi principi, sui quali si fonda il criterio per
(1) Articolo 546, nel Vol. IV. delle Opere di Giandomenico Romagnosi, e nella

separata edizione delle Opere sul diritto penale, pag. 1173, nel quale volume abbia
mo riprodotto questo Progetto, comprendendovi anche le aggiunte posteriori alla
sesta redazione.

- -

17

950

. SAGGIO

distinguere le lesioni punibili da quelle che danno luogo alla semplice


azione civile.

1 i

Posto il principio della giustizia intrinseca delle pene come sanzione


della legge giuridica, il loro uso pratico circoscritto, come vedemmo,
dalla loro necessit per l'effettuazione della giustizia; e dev'essere con
siderato come uno dei mezzi co'quali la societ viene in soccorso del
l'impotenza privata, per far rispettare la giustizia.
L'azione penale, qualunque sia il modo in cui si esercita, o d'officio
o sopra istanza, essenzialmente publica, perch alla societ, e quindi
alla sovranit sola, spetta il diritto di punire, essendo questo un diritto

che sorge dai rapporti di convivenza socievole, esercitabile dal solo su


premo potere.

Ma se vero, come non pu dubitarsi, che l'uso di questo diritto sia


sun sussidio, e non un ostacolo, al conseguimento dei fini della societ,

me dovremo inerire che nei casi in cui dall'esercizio assoluto di questo


potere seguirebbe un maggior male, o sarebbe impedito un maggior
bene, cesser la necessit di usarlo, e quindi mancher la condizione di

fatto, nei limiti della quale pu conseguirsene lo scopo, e possono perci


farsi valere dalla ristretta umana potenza i principi generali che lo di.
mostrano giusto.
a
sa
a

Ora nelle lesioni che colpiscono semplicemente il privato dovr bensi


la societ prestare l'appoggio della sanzione penale, ma aspettare dal
l'individuo stesso l'impulso per adoperarla ogni volta che l'inquisi
zione, invita parte, porterebbe un urto alla morale, alla decenza, e al
i l'interesse stesso che si vuol proteggere (1); come, per esempio, nel
caso d'ingiurie verbali, di certe offese che il decoro impone di non ren
dere publiche, ec. In simili casi dev'essere lasciato alla parte interessata
di scegliere quel partito che pi le aggrada, e procedere contro il col
pevole soltanto quando essa il richieda.

Per ridurre a brevi termini questa dottrina si pu stabilire questo


canone analogo al precedente: - Si deve procedere soltanto ad istanza
di parte in tutti quei casi in cui l'agire ex officio potrebbe impedire un
maggior bene, o produrre un maggior male. ,
- L'analogia fra i criteri che servono a determinare le lesioni d'azione
-

(1) Romagnosi, Scritti inediti sul diritto penale (Volume citato nella nota pre

cedente), pag. 861, S 357. Merita d'essere letto tutto l'Articolo, nel quale sta il pas
so qu riferito, pag. 857 a 861.

PARTE II.

251

civile, e quelle che, sebbene vadano soggette alla sanzione penale, non
domandano che si proceda d'officio, consiste in ci, che nelle une e nelle

altre si parte dalla considerazione della necessit della pena, dell'indole


del magistero penale, di sua natura sussidiario, e dei limiti insormonta
bili della potenza umana, che deve farne uso: cui si pu aggiungere
l'economia delle prove, in certi casi difficilissime; le ragioni della pri
vata e publica moralit; e l'importanza d'impedire quanto pi possi
bile il rallentamento delle affezioni, sulle quali riposa l'ordine delle fa

miglie, ec (1).

r -

si

sa,

V'hanno per altres differenze notevoli fra le lesioni d'azione per


nale ad istanza, e quelle d'azione semplicemente civile.

a gite

In primo luogo, l'applicazione della sanzione penale, sebbene sopra


istanza di parte, che nelle lesioni d'azione civile si esclude affatto. Se

condariamente, che le lesioni d'azione civile versano esclusivamente sugli


oggetti della propriet reale; invece quelle di azione penale, ma ad istan
za, versano anche sopra oggetti riguardanti la propriet personale,
Tutte queste considerazioni non cadono sopra l'essenza del diritto di

punire, sopra i fondamenti che lo dimostrano giusto, sopra lo scopo suo,


e sopra i canoni generali regolatori dell'uso di esso quanto alla misura
della pena: ma risguardano propriamente i limiti, dentro i quali vuol
essere esercitato; e i modi, in cui vuol essere esercitato.

- ,

E siccome si tratta di una potest, la quale non un diritto, nel ri

gore della parola, che lasci la libera facolt di usarne o no (); di una
potest che in fine riesce a recare un male di fatto a chi ne soffre pe'
suoi delitti l'influsso: cos ne viene che l'esercitare questo diritto nella
sua astratta e teorica generalit, uscendo dai limiti ed eccedendo i modi

che vengono fissati e determinati dalle relazioni pi particolari e con


crete, delle quali si deve tener conto nella parte pratica della scienza,

sarebbe un eccesso di potere. Allora le pene, quantunque applicate ad


azioni astrattamente e per s punibili, sarebbero atti arbitrari, perch
non domandati dalla necessit, perch non regolati dalla prudenza; e

quindi non potrebbero conseguire il vero e compiuto scopo della pena


lit, ch' riposto nel far s che s'osservi la giustizia, e si ottengano
vie meglio i giusti fini della societ tutta e degl'individui che la com
pongono.

(1) Considerazioni importanti su questo argomento si leggono nelle Instituzio


mi di civile filosofia di Romagnosi, scritto postumo. Opere, vi III. pag. 1643 e seg.,
SS 2704 a 2747, e S2782.

-. -

(2) Si vegga il Capo IV. di questa Parte II.

SAGGIO

252
sia

vio

il

- a

Il

il

IVI
CAPO XIV.

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-rai i
sono
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s.. .

. .

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es. -

- -

- -

--

Condizioni
soggettive per...l'imputabilit
delle
lesionie punibili
o
1
.
.
i 3
Indole positiva delle lesioni
remote.
- e, a
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- -

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- -

-a

si
-

Nel Capo XI. abbiamo veduto che le lesioni di diritto, qualunque sia
l'oggetto sul quale cadono, possono ridursi a certe classi determinate dai
rapporti loro con la legge giuridica, ossia dal modo onde la legge per
esse violata; e che sotto questo punto di vista sono di tre specie: imme

diate, mediate e remote. In seguito poi abbiamo esaminato l'indole


delle lesioni, per determinare in generale quando sieno da assogget

tarsi a pena o d'ufficio, o sopra istanza della parte.


e Le idee ei principi fin qu sviluppati ci portano ad esaminare adesso
-

le condizioni soggettive della imputabilit delle lesioni in generale, e di


ciascuna specie in particolare.

- Queste condizioni necessarie perch possa aver luogo l'imputabilit


criminale dei fatti esterni costituenti una lesione giuridica, altre sono

generali, altre speciali. Ed sommamente importante il determinare

esattamente non solo le condizioni generali, dalle quali dipende la im


putabilit di qualunque lesione; ma eziandio quelle particolari e diverse
secondo la specie della lesione, dappoich esiste una stretta relazione
tra le varie specie di lesioni punibili, e le condizioni subbiettive par

ticolari che stabiliscono l'indole e il grado della rispettiva giuridica


imputabilit.

Per la imputazione delle lesioni giuridiche di qualunque specie ne

cessario senza dubio che quegli il quale le commette operi con intelli
genza e libert. L'uomo che, atteso lo stato mentale in cui si trova per
un difetto costante, o nel punto che commette l'azione per s lesiva, non

pu far retto uso delle sue facolt, non pi agente morale, e quindi
l'azione non pu dirsi fatta da lui nel senso di atto umano, sebbene possa

essergli imputata nella causa, quando volontaria, dell'alienazione di


mente. Del pari se in istato di mente sana egli opera spinto da una forza
irresistibile, che lo fa agire contro la sua volont, egli strumento
non causa della lesione.

Posto adunque che la lesione sia commessa da un agente morale, essa


pu esserlo in tre modi:

1. Colla cognizione dell'oggetto o del diritto che si vuole oen


dere, somministrata tanto dalla ragione naturale, quanto dalla legge l

PARTE II.

253

sitiva; colla cognizione insieme dell'effetto nocivo che dall'atto che si


fa viene prodotto, e colla deliberata volont di commetterlo.

2. Colla mancanza delle cautele suggerite dalla prudenza ed im


poste dalla legge, onde non derivi danno ad altri per una nostra azione
od omissione; o col rifiuto di prestare, secondo potere e bisogno, i soc
corsi in circostanze calamitose voluti dalla morale, ed imposti come
doveri anche giuridici tanto dalla legge naturale fondamentale della so
cialit, quanto dalle leggi positive, ma senza che sia commesso un atto
per s direttamente lesivo.
e na - e
i 3. Col contravenire ai precetti o divieti riguardanti il benessere e
in generale il comune aiuto reciproco fuori delle circostanze suddette;
e in ispecial modo poi coll'evitare di sostenere quei pesi che vengono
imposti con equa misura a tutti i cittadini dal potere supremo, onde
procurare allo Stato i mezzi indispensabili all'esercizio delle sue fun
zioni: i quali pesi comuni non si possono determinare nella loro indi

vidualit col mezzo della ragione, ma sono in genere giustificati dalla


legge suprema della socialit.
e ai
,
Il primo modo costituisce quella condizione subbjettiva che si chia
ma dolo, ovvero prava intenzione; e si verifica in quelle lesioni che di
cemmo immediate, e che, per usare un vocabolo assai comunemente ri
cevuto, chiameremo crimini.
Il secondo costituisce quella condizione subbjettiva che si appella
colpa; e si verifica nelle lesioni mediate, che nelle varie legislazioni
-

criminali ricevono diversi nomi, ma che indicano sempre una separa


zione dai veri crimini.

Nel terzo finalmente non si pu trovare una condizione subbjettiva

speciale, attesa la natura interamente positiva di quei precetti o di


vieti, la cui violazione costituisce una lesione remota. Tali sono le azio

ni od omissioni dirette a defraudare lo Stato del pagamento delle im


poste, ovvero a preparare pi o meno efficacemente le occasioni e i
mezzi onde sottrarsi alla prestazione comandata; dappoich le leggi di

questa specie sono d'indole meramente positiva nelle loro singole dis
posizioni, bench fondate giuridicamente nel diritto generico dello Stato
all'esazione dei tributi; e perci sono pure positive le contraven
zioni alle medesime, e presentano il minimo grado di punibilit in con
fronto delle altre due, salva per altro la maggiore o minore gravit re

lativa, non potendo costituire se non una lesione remota della legge
giuridica, pi o meno grave, ma non mai da confondersi colle altre spe

254

SAGGIO

cie di lesioni immediate o mediate della legge giuridica. La loro puni


zione giusta, non gi perch l'atto imposto o vietato corrisponda per
s stesso ad un diritto determinato nella sua individualit, ma perch
si riferisce al diritto generico della societ di esigere il concorso di
tutti i cittadini a sostenere i pesi comuni.

La pena che s'infligge dentro i limiti di ragione a tali contraven


zioni, oltre i caratteri di giustizia astratta, presenta anche tutti gli
estremi, i quali, come si detto, sono necessari per poter assoggettare

a pena le lesioni di diritto. V' l'opportunit e la necessit di appli


care la pena in s giusta, per rendere efficace la legge in tutti quei
casi ne' quali la legge non sarebbe efficace senza le sanzione penale.
Quando diciamo che le lesioni remote sono positive, come le leggi di

cui sono la violazione, intendiamo che queste leggi siano di loro natura
transitorie e variabili secondo i bisogni dei tempi; che nulla di asso

luto e di costante ci sia in esse, salvo questi due generali principi;


cio: 1. il diritto dello Stato ad esigere con misura giusta, cio pro
porzionata ai bisogni, le imposte equamente ripartite fra i cittadini
per impiegarle utilmente; 2. la conformit delle leggi finanziarie alle
circostanze dei tempi e dei luoghi, e alle leggi naturali dell'andamento
delle sociali contrattazioni.

Qu appunto si appalesa il valore della distinzione stabilita nel Ca


po XI. fra le leggi che hanno per oggetto azioni o diritti determinati
dalla ragione nella loro individualit, e che quindi impongono doveri
individualmente derivanti dalla ragione; e le leggi che hanno per og
getto doveri imposti dalla ragione soltanto in genere, e quindi fondati
sovra un principio remoto di giustizia.
Gli atti che cadono sotto la sanzione delle leggi della prima specie
sono vetiti, quia mali; gli atti che cadono sotto quelle della seconda

specie sono mali, quia vetili


E da notare la differenza che passa fra l'elemento positivo delle leggi
-

emanate dal potere supremo, che hanno un fondamento immediato o me

diato di giustizia, e quelle che si appoggiano sopra un fondamento remoto.


La parte positiva delle prime, nei rapporti di diritto civile, risguarda
il modo, i limiti o le condizioni dell'esercizio dei diritti; modo, limiti
e condizioni che sono richiesti dalla ragione giuridica sociale, come ab

biamo mostrato nella Parte I. (1). Quanto poi alle azioni od omissioni
(1) Cos, per esempio, il diritto che ha ogni uomo in societ di stare in giudi
zio, sia come parte, sia come testimonio, onde far valere le proprie giuste pretese

255

PARTE II.

che soggiacciono alle sanzioni penali, l'elemento positivo delle leggi di


questa prima specie, che le riguardano, o consiste nella semplice promul-,
gazione, in forme chiare ed intelligibili a tutti, delle azioni di loro na-,
tura criminose in forza dei principi di ragione, se si tratta delle lesioni,
immediate; ovvero nella determinazione di quelle azioni od omissioni

che possono di loro natura, o date certe circostanze, divenire mediata


mente lesive, ma che per debbono di per s giudicarsi tali

anche die

tro un principio razionale giuridico mediato. Quindi , che tanto nelle


une come nelle altre il fondo, diremo cos, di ogni singolo atto regolato

o sancito dalla legge sempre determinato in qualche modo dalla ragio


ne. Invece nelle leggi d'indole penale, che hanno un fondamento di giu
stizia soltanto remoto, la parte o l'elemento positivo riguarda l'essenza,
stessa dell'atto, che nella sua individualit non potrebbe essere dalla
pura ragione giudicato ingiusto e punibile.
I
n ,
Nelle une e nelle altre c' un principio generale di ragione, dal quale,

deriva la giustizia o l'ingiustizia degli atti. Ma nelle prime la ragione


pu fare l'applicazione immediata di questo principio almeno alla na

tura intrinseca dei singoli atti, senza bisogno della dichiarazione posi
tiva del legislatore; nelle seconde invece quest'applicazione del prin
cipio generale all'atto speciale impossibile senza la determinazione
positiva del legislatore.

- Ecco il senso preciso, nel quale intendiamo la positivit delle leggi


che poggiano sovra un principio di giustizia solamente remoto.
I
A chiarire vie meglio questa dottrina giova osservare, che i diritti
reciproci degli uomini, i quali vengono riconosciuti e regolati dai Co
dici civili, derivano dai principi razionali intorno a qualsiasi specie di
propriet, dedotti dai rapporti naturali degli uomini considerati o come

o le altrui, viene assoggettato dalle leggi a certe condizioni e forme per la regola
rit dell'amministrazione della giustizia; e talvolta viene anche tolto a certe per
sone, sia per causa

di delitto che renderebbe sospetta la loro testimonianza, sia per


incapacit di provedere alle cose proprie. Cos il diritto e dovere della tutela de
gl'incapaci per et, o altra causa, non dalla legge acconsentito a chi non abbia le

condizioni necessarie, e quindi dalle leggi volute allo scopo della medesima. E per
fino la patria potest, ch' diritto e dovere derivante dai puri rapporti domestici,
e il diritto di amministrare le proprie sostanze, ch' di semplice ragione privata,
vengono sospesi riguardo a coloro che si mostrano incapaci di provedere al bene
dei figli, per cui sussiste la patria potest, o che coll'abuso del diritto di propriet,

o colla loro inettitudine ad esercitarlo, espongono la famiglia a futura inopia. Ma


tutte queste disposizioni positive, onde l'esercizio di certi diritti viene ristretto o
disciplinato, hanno un evidente fondamento immediato o mediato di giustizia.

256.

SAGGIO ,

individui, o come cittadini. La legge positiva non crea l'atto legittimo

o illegittimo soltanto regola il modo, i limiti e le condizioni dell'eser


cizio dei diritti derivati dai diversi rapporti umani, quando p. e intro
duce le servit legali; determina l'epoca della maggiore et; fissa i ter

mini della prescrizione; stabilisce l'ordine delle successioni ereditarie,


il sistema probatorio, l'ordine dei giudizi
e
se

Le leggi criminali che puniscono le azioni qualificate delitti o crimi


ni, che noi diciamo lesioni immediate, mostrano ancor pi la loro iden

tit colle applicazioni dei principi razionali di giustizia ai singoli atti


lesivi, ai quali minacciano taluna di quelle privazioni che di loro natura
sono pene. Tutto quello che v'ha in esse di positivo si riduce alla di
chiarazione dei caratteri o, come diciamo, degli estremi che si esigono
perch un atto cada in quella tale specie di azioni criminose, e debba es
sere dal giudice punito; alla qualit e misura delle pene e all'ordine
dei giudizi. Ma non ist in potere del legislatore il creare l'atto ingiu
sto. Non il Codice che faccia diventare azione criminosa e punibile il
furto, la rapina, l'omicidio, ec.

Le azioni

pericolose alla sicurezza, e simili, di cui si parl nel

Capo XI., violando regole di prudenza suggerite dalla ragione, non sono
nemmeno esse create dalla legge positiva. La parte che questa vi ha

al tutto simile a quella che ci presenta nelle leggi sui crimini.


Ma le leggi che hanno un fondamento remoto di giustizia per lo con
trario creano l'atto ingiusto che puniscono. Cos, per esempio, le leggi
li Finanza lo creano colla proibizione d'introdurre certe merci; col

l'aggravare di un dazio pi tosto una merce che un'altra, pi tosto in


una misura che in un' altra; colle misure di sorveglianza, di cautela, di

legittimazione che prescrivono, ec. ec.


N per questo sono ingiuste, atteso il diritto dello Stato di esigere

gli equi tributi; ma se hanno un fondamento di giustizia remoto, sono


per intieramente positivi i singoli atti da esse imposti o vietati.

Il carattere, in modo tutto speciale positivo, delle leggi che hanno un


fondamento di giustizia soltanto remoto, derivando dalla natura degli atti

che ne formano l'oggetto, i quali, individualmente considerati, non si


possono dalla sola ragione qualificare per giusti od ingiusti in forza di
una relazione immediata o mediata colla legge giuridica, si trasfonde ne

cessariamente nelle azioni, onde i doveri per esse imposti vengono tras
grediti. Perci le lesioni divengono anch'esse lesioni puramente posi

tive; poich se gli atti imposti o vietati da cos fatte leggi non possono

PARTE II.

257

dirsi di loro natura doverosi od ingiusti, gli atti contrari non saranno
ingiusti per s nemmeno essi, giacch quando la ragione non prescrive
una regola da seguire nell'operare, le azioni rimangono facoltative, ri
spetto alla legge naturale.

l I

e al porto

- Da quanto si disse manifesto che la natura della lesione viene ne


cessariamente desunta da quella del diritto individualmente determinato,
che ne resta oeso. Quando il diritto determinato dalla ragione, nella
sua individualit o nella sua relazione con l'integrit di altri diritti,
allora la lesione di esso immediatamente o mediatamente giuridica ra

zionale; quando invece la ragione non pu far altro che stabilire un


principio generico, allora il diritto nella sua individualit oggettiva non
pu essere determinato che positivamente, e quindi positiva la lesione
di esso, perch sussiste solo in forza di un positivo precetto o divieto."
:

- -

ni,

CAPO XV.

ora
-

Delle varie disposizioni dell'animo, colle quali si possono trasgredire le leggi,

e in particolare della prava intenzione, condizione soggettiva propria

e
-

sole lesioni immediate.


Il

Ita', i

lesioni
immediate e mediate corrispondono due diverse condizioni subbiettive,
Abbiamo detto nel precedente Capo, che alle due specie di

onde vengono commesse: cio il dolo o prava intenzione nelle prime;


la colpa nelle seconde. Abbiamo detto ancora, che nelle lesioni remote
non si pu rinvenire una condizione soggettiva speciale, atteso la loro

indole positiva. Da ci siamo condotti ad analizzare partitamente il dolo


e la colpa, al doppio scopo di stabilirne la vera idea e le differenze, e
di mettere in chiaro quei vari stati dell'animo di chi trasgredisce la leg
ge, che possono essere comuni anche alle lesioni remote, senza potersi

confondere n col dolo, n colla colpa.

Che cosa vuol dire pravit d'intenzione? Perch la si ricerca nei de


litti o crimini propriamente detti come condizione soggettiva indispen
sabile, onde sia punibile l'atto dannoso?

Si molto disputato sulla prava intenzione, come sopra tanti altri


argomenti; ci sembra per che, lasciate da parte le interminabili e spes
so futili questioni, sia meglio studiarsi di far sorgere un'idea chiara

della prava intenzione, analizzando accuratamente l'intima natura del


l'oggetto che vogliamo determinare.

258

SAGGIO

a E d'uopo innanzi tutto distinguere la pravit d'intenzione dagli altri


stati o disposizioni dell'animo di quello che viola una legge, che po
trebbero essere confusi colla prava intenzione.

1,

Supposta la moralit dell'agente, cio l'intelligenza e la libert, in


quattro modi, subbiettivamente parlando, si possono trasgredire le leg
gi; cio:
Per ignoranza del precetto o divieto.

1 -

Per negligenza o colpa.


Per proposito di violare la legge.
. Per dolo o prava intenzione.
. L'ignoranza di qualsivoglia legge non pu scusarne la violazione,
n esimere il trasgressore dalla pena: una legge debitamente promulgata
obliga tutti quelli che sono tenuti ad obbedire all'autorit di chi ha il
potere di emanarla. Ci non ha bisogno di schiarimento o dimostrazione,
,

ed ammesso da tutti.

Ma conviene riflettere, che se non pu ammettersi mai come scusa

l'ignoranza della legge, essa poi talvolta pu esistere in fatto, tal altra
non lo pu.
Non pu esservi ignoranza tutte le volte che l'atto imposto o proi
-

- -

bito dalla legge gi di sua natura individualmente comandato o vietato

dalle norme di ragione. Dunque nei delitti o crimini propriamente detti,


ossia nelle lesioni immediate, non pu mai darsi ignoranza di diritto (1),
mentre invece pu avervi ignoranza di certe prescrizioni particolari che
vengono imposte dal legislatore; come sono, a cagione d'esempio, certe
cautele spettanti alla sicurezza, ec., sebbene suggerite dalla prudenza,
e quindi tali che di loro natura si riportano mediatamente al dovere
di evitare tutto ci che possa essere occasione di timore, di pericolo, di
danno ai nostri simili.

i La negligenza o colpa, della quale parleremo nel Capo seguente, ha


luogo tutte le volte che l'offesa della legge consiste in atti che di per
s non sono lesioni immediate d'un diritto altrui determinato nell'og

getto; e per si verifica nelle trasgressioni mediate della legge giuridica.

(1) Questa dottrina era pure professata dal Codice penale austriaco del 1803,
nel quale si legge (Parte I.S3): L'addurre l'ignoranza della presente legge sui
delitti non vale alla discolpa, non potendo non essere da chiunque conosciuta la loro
ingiustizia. Queste ultime parole furono omesse nel nuovo Codice penale del
27 Maggio 1852, Parte I. S 3.

PARTE II.

250

La negligenza pu essere o no accompagnata dall'ignoranza della


legge. Se a questa si unisce, v'ha in certo modo una colpa doppia; cio
la negligenza delle cautele suggerite dalla prudenza per non recare ad

altri nocumento, e la negligenza nell'istruirsi di ci che a quest'uopo


la legge prescrive.

Una legge gi conosciuta da chi la trasgredisce pu essere violata con


o senza deliberato proposito di fare il contrario di ci che impone. L'in
tenzione diretta a violare la legge pu accompagnare anche le violazio
ni mediate del dovere giuridico. Cos l'artiere che deve adoperare una
sostanza venefica pu mancare all'obbligo di custodirla diligentemente
per semplice trascuranza, od anche per disprezzo della legge che gl'in
giunge le necessarie cautele.

Non v'ha dubio che la negligenza o colpa sia una condizione subbiet
tiva diversa dalla prava intenzione. In ci ancora tutti si accordano.
Ma potrebbesi invece confondere la prava intenzione con l'intenzione
diretta a violare la legge? L'osservazione or ora fatta, che il proposito:
di violare la legge pu stare anche colla semplice colpa, mostra chiara
mente che questo solo proposito non costituisce la prava intenzione; al
trimenti si dovrebbe dire che vi ha una prava intenzione anche nelle

lesioni mediate della legge giuridica: ci che ripugna all'indole gi so


pra sviluppata degli atti di questa specie, e alle pi comuni dottrine dei
criminalisti e del buon senso.

Ma se la sola intenzione diretta a violare la legge non basta a costi


tuire la prava intenzione, ossia l'intenzione criminosa, per certo che
uno degli elementi costitutivi di questa sempre il proposito di violare

la legge; anzi questo n' l'attributo principale in guisa, che talvolta e


dagli scrittori e dai Codici si adoperata la frase prava intenzione per
indicare appunto l'intenzione diretta a violare la legge.

E per convincersi che il proposito di violare la legge sempre in


chiuso nella prava intenzione, basta riflettere a quanto abbiamo detto
intorno all'indole delle azioni strettamente appellate delitti o crimini,
perch tali sono razionalmente.
-- - - - i
Chi commette un delitto ofende il diritto altrui individualmente de

terminato, e non soltanto un diritto generico.


La cognizione del diritto e dell'atto lesivo data dalla ragione. Nes

suno pu ignorare che l'omicidio, il furto, la truffa, e simili atti, sono


criminosi di loro natura, prescindendo da qualunque legge positiva che
determini il modo e la misura con che saranno puniti. Dunque poste sem

260

SAGGIO

pre, come dicemmo, le condizioni generali di moralit, cio d'intelli


genza e libert, non pu esservi nemmeno in fatto ignoranza della legge
e del dovere. E posto che si abbia l'intenzione di ledere l'altrui diritto,

di offendere, di far danno, non pu non aversi insieme il proposito di


violare la legge naturale e positiva ad un tempo, che impone di rispet
tare quel diritto, di non oendere, di non far danno. Dunque il propo
sito di violare la legge sempre, almeno implicitamente, contenuto nel
l'intenzione diretta di commettere l'atto criminoso.

Dunque nella disposizione dell'animo, che si appella prava intenzio


ne, noi troviamo:

La moralit dell'agente, ossia l'intelligenza e la libert, come condi


zione generale per h esista un atto umano nel senso filosofico-giuridico,
e quindi imputab e.

La deliberazio di commettere un'azione che colla pura ragione si


conosce per s nn tralmente, individualmente e immediatamente ingiu
sta, e quindi di r are il danno che si dee prevedere derivante dall'azio
ne stessa.

Il proposito es namente eettuato di violare la legge.


Si potrebbe quindi definire la prava intenzione di questa guisa una libera determinazione, con atti esterni manifestata, di commettere
un dato crimine. -

Aggiungiamo la clausola: con atti esterni manifestata, perch sebbene


la pravit d'intenzione risieda tutta nell'animo, e sia quindi essenzial
mente atto interno, pure dovendosi nei rapporti giuridici considerare

soltanto l'effetto esteriore delle interne deliberazioni, non si pu dire


ch'esista giuridicamente prava intenzione, quando non esista un fatto
per s ingiustamente dannoso. Il solo fatto dannoso non basta a dimo
strare l'esistenza del malvagio proponimento; ma il solo malvagio pro

ponimento non pu costituire la condizione d'imputabilit, se manchi il


fatto esterno da imputare (1).
(1) Poco differisce la definizione che abbiamo data della prava intenzione da
quella che si legge nell'Opera del Cons. Albertini sul diritto penale vigente nel
Regno Lombardo-Veneto, all'articolo che qu trascriviamo:
ti Il malvagio proponimento, cos qualificato dal Codice civile (S 1294), appellasi
dal testo latino del Codice malum propositum, e dall'italiano prava intenzione.
a Nel Jus comune fu talvolta denominato conscientia sceleris (Lib. II. Cod. qui

test. facere, etc.), e talvolta voluntas nocendi (L. frater I. Cod. ad Leg. Corn. De
sicar.), ovvero dolo malo (Ulp. L. I. S 3.); e nell'attuale Regolamento giudiziario
trovasi caratterizzato proposito di far danno ad un altro insciente (Reg. S 205),

261

PARTE II.

. Da tutto quanto si detto intorno alla prava intenzione dobbiamo

dedurre come corollario appropriato al fine principale delle nostre ri


cerche, essere questa una subbiettiva condizione inerente in modo tutto

speciale ad una certa classe di azioni punibili, e propriamente ai delitti;


sotto il qual nome intendiamo le lesioni immediate della legge giuridica,
ossia quelle per le quali si offende, come fu detto, un diritto individual
mente determinato.

-,

r al

E ci sembra tanto pi giustificato questo modo di considerare la prava


intenzione, e l'idea che ce ne siamo formata, dal vedere che nella va
riet delle frasi, colle quali pi esattamente la si esprime, c' sempre
aggiunto un epiteto che determina l'attributo specifico dell'intenzione
o proposito; dicendosi intenzione prava, criminosa, maliziosa; propo
sito malvagio, o di far danno; coscienza del delitto, ec. Non si sapreb

be spiegare il perch si abbia trovato necessario di usare parole che ac


cennino un carattere particolare della intenzione o proposito, se a questo
solo si limitasse tutta l'essenza della prava intenzione, e non si fosse
scorto anche l'altro elemento caratteristico della intenzione prava, ma

scente dall'indole giuridica degli atti lesivi nei quali pu riscontrarsi,


e per cui appunto si dice prava, criminosa, od altro.
i
Questa nota specifica non sar stata abbastanza aviluppata e distinta
mente avvertita; ma dal momento che si adoperano maniere di dire, le

quali la esprimono, bisogna ben ritenere indubiamente essere stato ve


duto almeno in confuso l'attributo caratteristico della intenzione che la

fa divenire prava, da quelli che pi accuratamente l'ebbero analizzata;

essendo impossibile che una parola si adoperi per esprimere un concetto


senz'avere il concetto almeno confusamente.

in

Posto ci, non potrebbe il legislatore in verun modo esigere la pra


vit d'intenzione come condizione indispensabile della imputabilit del
l'atto, che non sia un vero delitto nel senso sopradetto; come non
e

che distinguesi dal dolo giuridico, cio dal proposito di danneggiare alcuno, non
gi insciente, ma sotto fittizie rappresentazioni di beni e di mali (Helfeld, Giurisp.
Vol. I. Lib. II. Tit. XVI. S293). Il cessato Codice criminale dell'Austria gli diede
il nome di maliziosa intenzione con libera volont (Codice penale di Giuseppe II.
S2.); ed il Codice penale di Francia, ultimo vigente in Italia, quello d'intenzione
criminale. Infine Filangieri lo ha definito volont di violare la legge (Scienza della

Legislazione, Lib. IV. Capo XXXVII.); e se a noi fosse lecito d'esporre il nostro
sentimento, non esiteremmo a chiamarlo una libera, calcolata ed attiva risoluzio

ne di agire criminosamente (Lib. I. Art. IV. pag. 26).

1 a

262

SAGGIO

potrebbe qualificare per delitto ossia lesione immediata un atto che im


porta di sua natura la sola colpa.
Infatti v'ha un rapporto necessario, indipendente da ogni arbitrio
fra la natura giuridica dell'atto lesivo e le disposizioni dell'animo di
chi lo commette, per cui l'indole giuridica dell'azione implica di per s
una data condizione subbiettiva, e questa di ricambio importa una certa
specie di lesione, e non altra.
Un delitto cessa d'essere tale quando l'atto non sia commesso con
prava intenzione; e non pu esservi prava intenzione, se non vi abbia

un vero delitto. Nelle trasgressioni di qualsivoglia specie, che non siano


delitti, potr avervi solo il proposito di violare la legge; il quale pro

posito sempre inchiuso, come dicemmo, nella prava intenzione, ma


non ne costituisce tutta l'essenza.

A rendere sempre pi chiare queste idee, che molto importano an

che alla retta intelligenza ed applicazione delle leggi positive, giova


osservare che lo stato dell'animo costituente la prava intenzione di
sua natura cos unico, semplice, indivisibile, che non pu ammettere

gradi o modificazioni. Non dev'essere difficile il comprendere la verit

di questa proposizione, dopo tutto quello che abbiamo premesso. La


prava intenzione non pu aver luogo che nei delitti propriamente detti,
ossia lesioni immediate. Togliete la pravit d'intenzione, e non avrete

pi delitto; avrete invece una trasgressione, avrete la colpa. Nel dolo


non possiamo figurare il pi ed il meno: o c' tutto, o non c' affatto.

Vi potranno essere gradi nel danno, nella importanza del diritto leso e
del dovere violato, nella natura dei motivi che spinsero al delitto, nella

maggiore o minor forza delle abitudini criminose; ma la prava inten


zione non si modifica, non si fraziona. La mente non pu in essa ima
ginare gradazioni.

. Se facessero bisogno autorit per provare una dottrina cos evidente


come questa, avremmo in pronto la teoria insegnata da Romagnosi su
tale argomento. Egli definisce il dolo: La coscienza di contravvenire

liberamente a ci che la legge vieta o comanda. Sapere di violare


una legge nel mentre che sono libero di non violarla, ecco in che con

siste il dolo (1). Sembrerebbe a prima giunta che l'illustre Autore


abbia confuso il dolo, ossia prava intenzione, col semplice proposito di
violare la legge.
(1) Genesi del diritto penale, S 1334.

PARTE II.

203

Ma bene addentro esaminato quanto egli scrive subito dopo, e fatta

ragione al principio generale, ch' uno dei canoni fondamentali delle


sue dottrine giuridiche, nulla esservi di arbitrario nelle leggi positive,
e tutto connettersi col diritto naturale, poggiante sovra i rapporti reali

e necessari dell'uomo considerato nelle sue diverse condizioni, si ha di


che persuadersi aver egli considerato il dolo come condizione subljet
tiva dei veri delitti, quantunque la definizione, isolatamente presa, lasci
luogo a qualche ragionevole censura. Anche il capo-mastro che omette
di porre i segnali onde avvertire chi passa per la publica strada di te

nersi lontano dal sito ove si fabbrica, rammentando la legge che li pre
scrive, ha la coscienza di contravvenire ad un precetto della legge, e vi
contravviene liberamente. Eppure non c' dolo.

Ma se si toglie questo difetto della definizione, cui riparato dai suc


cessivi ragionamenti, la sua dottrina conforme nella sostanza a quella
che difendemmo. Il dolo o la prava intenzione consiste nel riconosci
mento dell'assoluta ingiustizia dell'atto liberamente praticato. Ora nel

conoscere l'ingiustizia non vi pu essere diversit di specie e di gradi:


dunque non pu esservi nel dolo, che appunto consiste in quella cogni

zione. Questa tesi senza ambiguit sostenuta pure dal Romagnosi.


Qual (egli dice) la conseguenza della semplicit assoluta del con

cetto d'ingiustizia conosciuta? Essere logicamente assurdo il figu


rare nel dolo specie e gradi diversi. - Questa conseguenza urta di
fronte il volgo dei giureconsulti, che distinguono il dolo ea proposito
dal dolo ea impetu, il pieno dal meno pieno, ec.
: Ma considerando le cose bene addentro, ognuno s'accorge che quan
do credono di fare una distinzione, fanno realmente uno scambio; e

quando credono di parlare del dolo da loro medesimi definito, real


s mente parlano della passione criminosa.
- Certamente nella violazione della legge interviene ora la malvagit,
-

--

ora un semplice eccesso di potere, ora l'impulso altrui, e cos discor


o rendo. Egli vero del pari che nella malvagit, nell'eccesso e negl'im
pulsi altrui si verificano gradi diversi; ma egli sempre vero che,
operando avvertitamente, sia con malvagit, sia con eccesso, sia per

o impulso altrui, s'infrange la giustizia di modo, che non si pu dire


che l'uno pi che l'altro abbia meno violata la legge, o che l'uno me
no dell'altro sia ingiusto.
Pi ancora: altro il dire che le leggi per guarentire dagli atten
tati oppongano pi forti ostacoli alla malvagit, che all'eccesso o alla
-

264

SAGGIO

deferenza illecita; ed altro il dire ch'esista pi o meno dolo allorch


si pecca per l'uno o per l'altro motivo.
a r
i
r.
0 conviene confondere l'essenza logica delle cose, o conviene con
cedere che la malvagit, l'eccesso di potere, e la deferenza illecita
non entrano a costituire l'InnoLe PaoPRIA del dolo, quantunque sieno
accompagnate dal medesimo, e concorrano con lui a caratterizzare la

parte morale del delitto (1).


Concentrandosi soltanto alle funzioni del legislatore, ognuno di
stingue a primo tratto la funzione del divieto dalla funzione della san
zione penale. La prima riguarda propriamente il QUANDo si debba o
possa punire; la seconda il come si debba o possa punire.

La prima, come ognun vede, non ammette n gradazione, n va


riet, anzi logicamente assurdo il figurare queste gradazioni e que

ste variet. La seconda ammette queste variazioni e queste gradazioni,


non in conseguenza della cognizione od ignoranza legale, ma bens in
conseguenza del maggiore o minore impulso a delinquere.
- si

Coloro che scambiano l'intelletto con la volont, le cognizioni con

le passioni; coloro che vogliono sostituire le leggi del cuore a quelle


del cervello; intrudono nella nozione del dolo caratteri del tutto estra

nei, non accorgendosi che ben altra cosa si che il cuore agisca in
compagnia del cervello, e che l'uno e l'altro muovano il braccio; ed
altra cosa si che, assumendosi in considerazione la sola relazione

della cognizione dell'atto col comando della legge, sia possibile de


terminare il come ed il quando si debba punire.
Sia pur vero che il solo buon senso abbia sempre dettata la regola
pronunciata da Cicerone, che in omni injustitia permultum interest
se

utrum perturbatione aliqua animi, quae plerumque brevis est et ad


tempus, an consulto et cogitato fiat injuria. Leviora enim sunt qu
repentino aliquo motu accidunt, quam ea quae meditata et praep

rata inferuntur (De officiis, Lib. I. Cap. VIII). In questo passo Ci


cerone non si mai sognato di distinguere un dolo maggiore da un
minore, ma solamente una causa pi che l'altra di delinquere

Ed affinch si scorga meglio uno degli oggetti cui importa nella P


male economia di ben raffigurare, conviene annotar qu, che si pu
specialmente in due maniere ben diverse contravvenire ad una legg
La prima si con malvagit; la seconda con semplice eccesso di po
(1) Genesi del diritto penale, SS 1341 a 1344.

PARTE II.

265

Per malvagit io intendo denotare l'infrazione della legge, commessa


senza causa scusabile. e

. .

Per eccesso di potere intendo l'infrazione della legge commessa per


un principio, il cui fondamento pu essere scusabile atteso un primi
tivo bisogno. Cos, per esempio, farsi giustizia di propria mano non
invero compatibile collo stato di civile societ; ma dall'altra parte
non si pu affermare che la pretesa di taluno avente titolo di diritto

sia per s medesima ingiusta. Le vie semplici pertanto di fatto sono


bens atti contrari all'ordine sociale, ma non sono atti di vera malva
git. Cos pure se taluno, stimolato da fame incolpabile, si arroga qual
che cosa d'altrui, o provocato da grave ingiuria subitamente si sca
glia contro l'ingiuriante, od assalito eccede nella necessaria difesa,

n contravviene bens all'ordine voluto dallo stato civile, nel quale il di


ritto di privata violenza, ossia il diritto personale di coazione, non
pu essere esercitato fuorch nei casi irreparabili; ma nello stesso tem
po non agisce con quella radicale malvagit ch' propria agli atti com
messi o per petulanza, o per ferocia, o per una mera intemperanza
destituita d'ogni titolo fondamentale di ragione.

e Parlando con esattezza, fra l'una e l'altra specie di atti havvi una
reale differenza; talch se tanto gli uni quanto gli altri debbono es
sere vietati come delitti, ci non ostante s gli uni che gli altri deb
bono costituire una categoria diversa, e non mai essere considerati

come semplici variet di una stessa specie, e meno poi come grada
zioni dello stesso atto.

Questa confusione non pu essere praticata se non da coloro che


confondono l'essenza logica degli enti morali; o, a dir meglio, aa
stellano oggetti che il senso comune morale sa distinguere abbastan
za, e che un mero sguardo di filosofia pone nel suo limpido e preciso
n aspetto,

b)

Ma se gli atti commessi con malvagit sono per morale essenza di


versi dagli atti commessi per semplice eccesso di potere, ognuno sen

te quanto assurdo sia il parlare qu di dolo di proposito e di dolo d'im


peto, di dolo pieno e di dolo meno pieno. Egli sarebbe lo stesso che
dire che la vipera e la serpe, vedute alla stessa distanza dallo stesso

occhio e sotto lo stesso lume, siano gradazioni dello stesso animale (!).
-

Voi mi direte che per costituire il dolo si richiede tanto la cogni


(1) Genesi del diritto penale, SS 1346 a 1353.

,
18

266

SAGGIO ,

zione, quanto la libert. Se la prima consiste in un giudizio semplice,


pe'l quale si sente l'opposizione fra l'atto e la legge; la seconda con
siste nella esenzione da ostacoli nell'esercizio della nostra attivit. Ma
questa esenzione pu aver gradi. Dunque se dal canto della intelli
genza il dolo non ha gradi, ne pu avere dal canto della libert. -

A quest'obbietto rispondo, accordando l'antecedente e negando la


n conseguenza: altro dire che senza libert non possa esistere dolo,
ed altro dire che il dolo in ultima analisi tragga cos il suo essere

dalla libert, che ne debba seguire le fasi. La libert necessaria


in qualunque atto umano, sia buono, sia tristo, onde produrre me

rito o demerito almeno morale. Senza libert non pu esistere certa


mente dolo. E che perci? In forza di questo principio noi diremo
soltanto, che posto l'errore o la violenza che tolgono la libert, non
vi sar pi dolo. Ma allorch manca, non si pu verificare n il pi,
n il meno; ma si verifica soltanto il nulla. Dunque in mancanza di
libert non si pu verificare grado veruno che servir possa di misura
penale.
l.
-

Ma fra tutta la libert e tutta la dipendenza (ripiglier taluno) non


vi pu forse essere una posizione di mezzo? Qu io rispondo col
seguente dilemma: 0 questa posizione d luogo alla morale imputa

zione, o no. Se vi d luogo, noi non possiamo pi ammettere n un


n mezzo dolo, n un quarto di dolo; come non possiamo ammettere n

una mezza imputazione, n un quarto d'imputazione. Se poi non d


luogo ad imputazione, non vi potr essere n punto n poco il dolo,
n

la punibilit.

D)

Certamente uno che commette un delitto per una male intesa rive
renza, o per istigazione o minacce non imponenti ed evitabili, o per

altra influenza non isgravante da imputazione, meno pericoloso di


uno che lo commette per ispontanea e propria malvagit. Ma quest
cause non tolgono l'imputazione, ma soltanto autorizzano il legislato
re ad inveir meno, ossia ad opporre una minor forza dolorosa contr

di un operatore che agisce per debolezza, e non per malvagit


in qu non si tratta pi di dolo, ma di spinta.

Riteniamo che l'imputabilit criminale un titolo assoluto che d


azione alla pena soltanto in genere, vale a dire stabilisce il quando
si possa punire, qualunque sia l'interesse a delinquere o (1).
(1) Genesi del diritto penale, SS 1355 a 1358.

PARTE II.

267

dunque logicamente assurdo figurare gradi nel dolo (1).

Non sapremmo quali altri argomenti si possano domandare ancora


per ammettere la verit di queste due proposizioni, che sono come il

riassunto di quanto si discorso specialmente in questo Capo; vale a


dire:

e il

a 5

1. Il dolo, ossia prava intenzione, una condizione subbiettiva che


si verifica e si esige nei delitti propriamente detti, ossia nelle lesioni
immediate, e sempre e soltanto in esse.

it,

te

2 La pravit d'intenzione uno stato dell'animo cos semplice ed


nnico, che non pu ammettere specie e gradi di nessuna maniera.
- , ,

CAPO XVI.

ti

as -

se si

, v.

al re

Considerazioni particolari sulla colpa, e suoi gradi.


Condizione soggettiva propria delle lesioni mediate e

remote.
-

La colpa risulta da tutte quelle circostanze che costituiscono la ne


gligenza, ed in sostanza uno stato negativo dell'animo, che consiste
nella trascuranza della debita attenzione, onde dalle nostre azioni od

omissioni non derivi danno agli altri: quindi la colpa pu verificarsi sol
tanto in quegli atti che non sono immediatamente diretti ad offendere
un diritto, o meglio un oggetto del diritto individualmente determinato.
Quando un atto direttamente, immediatamente lesivo, e viene com

messo con la cognizione della natura sua e deliberatamente, non c' pi


sola colpa, ma prava intenzione.

Vediamo da ci, che talvolta lo stesso atto pu essere doloso o col


poso, secondoch vi ha o no questa scienza e deliberazione; ma per
sempre vero, che se per l'una parte la natura dell'atto non pu da sola
indurci a ritenere ch'esista in chi lo commise la prava intenzione, quan

do non vi concorrano le circostanze sulle quali si possa fondare il posi


tivo giudizio della pravit dell'agente; non pu dall'altro canto mettersi
in dubio che la natura di certi atti la escluda affatto, quanto ai rapporti
esteriori.

Aggiungiamo questa clausola: quanto ai rapporti esteriori; perch an


che nella colpa, come nella prava intenzione, considerate giuridicamen
te, non si pu badare che alla natura dell'atto esterno, e alle circostanze

cui necessariamente e ordinariamente si accompagna, per dedurne le


(1) Genesi del diritto penale, S 1363.

268

SAGGIO

disposizioni dell'animo di chi lo commise. Le intenzioni malvage, che

qualche volta possono in fatto condurre ad un atto di sua natura soltanto


colposo, e non doloso, non possono aver peso sulla bilancia del giurecon

sulto, e spettano interamente alla morale, alla coscienza. Tizio, per esem
pio, lascia una pistola carica in luogo dove pu facilmente essere scorta
e presa da un ragazzo, nella speranza che si ferisca o si uccida, per

avere la soddisfazione di recare grave dolore al padre, e trarre in que


sto modo vendetta di una offesa ricevutane; e il fanciullo realmente si

uccide. La morale dir certo che Tizio reo di omicidio perch lo ha


desiderato, e ne ha preparato l'occasione; ma il giureconsulto non po
tr vedervi che una colpa, sia pure gravissima, una trasgressione puni
bile, non mai un vero delitto, perch l'atto dal quale deriv la morte
del fanciullo non fu direttamente e immediatamente commesso da Tizio.

Speriamo che tutto questo sia stato abbastanza chiarito dalle cose

discorse fin qu, e per notiamo subito una differenza sensibilissima fra
il dolo e la colpa; ed , che data la moralit in genere dell'agente, la
sola natura degli atti per s immediatamente lesivi non basta per con

chiudere ch'esista il dolo, ma per il dolo pu trovarsi unicamente in


questa specie di lesioni; mentre invece la natura degli atti per s sol
tanto mediatamente lesivi basta a stabilire l'esistenza della sola colpa,
e l'esclusione del dolo. Le varie condizioni subbiettive per l'esistenza

delle lesioni punibili sono immedesimate colla diversa indole giuridica


delle lesioni medesime per modo, che se la lesione obbiettivamente con
considerata delitto, ma vi manchi la prava intenzione, questa mancanza

fa passare quell'azione, nel caso concreto, nella classe delle semplici


trasgressioni o lesioni mediate; mentre invece le lesioni mediate, sicco
me di loro natura non consistono in atti che di per s offendano un di
ritto obbiettivamente e individualmente determinato, non possono mai
dar luogo a pravit d'intenzione.

Cos, a cagione d'esempio, l'atto di Cajo che per ischerzo scarica


un'arma da fuoco contro Sejo, senza sospetto che sia carica, e lo uccide,
obbiettivamente preso una lesione immediata, ma commessa senza pra

va intenzione: non vi si trova che la colpa; e per quest'atto una

semplice lesione mediata, perch prodotta da una mancanza di quelle


cautele che suggerisce la prudenza, onde non recar danno ingiusto

ad

altri. Supponete invece che Cajo abbia lasciato una pistola carica espo
sta dove si trovano dei ragazzi, ed uno di questi giocando con l'arma
uccida s o un altro: avrete un atto di sua natura mediatamente lesivo,

PARTE II.

e quindi vi torner

269

impossibile figurarlo mai accompagnato da prava in

tenzione nei rapporti giuridici esterni, sebbene internamente l'intenzio


ne prava possa esservisi associata, e dar luogo all'imputazione morale
di un atto pi grave, che non sia la semplice negligenza, come nel caso
esposto poco sopra.

Dunque, in poche parole, sempre pi dimostrato che il dolo si ri

scontra soltanto nei veri delitti, e la colpa inerente alle trasgressioni


o lesioni mediate della legge giuridica.

Ci posto, d'uopo ancora esaminare la colpa sotto altri aspetti, e


notare altre differenze tra questa e la prava intenzione.

Il principio sul quale tanto insistemmo, che le condizioni subbiettive


delle diverse lesioni sono inerenti alla natura giuridica delle lesioni me

desime, ci porta a considerare le stesse condizioni rispetto al fondamento


razionale che segna la differenza tra le varie specie di lesioni.
Le lesioni immediate, cio i delitti, hanno questo carattere dall'essere
l'atto criminoso opposto al principio fondamentale del diritto non solo,

ma altres ad un dovere che la ragione direttamente deduce dal princi

pio stesso. Questa opposizione, che si manifesta ad ognuno senza bisogno


di una positiva dichiarazione, induce nell'uomo, che con animo delibe
rato commette il delitto, quella condizione subbjettiva che appelliamo
prava intenzione.

Invece le lesioni mediate non importano l'opposizione con un dovere


nella sua individualit direttamente dedotto per la ragione dal principio
fondamentale del diritto; ma consistono in azioni, le quali per s stesse
non offendono un diritto altrui, e sono lesive solo in quanto per man

canza delle cautele suggerite dalla prudenza, o del necessario soccorso,


possono mettere in pericolo l'integrit di qualche diritto.
Dunque il principio razionale, che determina l'indole delle lesioni
immediate, l'opposizione diretta colle immediate applicazioni del prin
cipio fondamentale del diritto e dei doveri giuridici naturali; e quello

che determina l'indole delle lesioni mediate la imprudenza, o l'omis


sione del doveroso soccorso reciproco individuale.

Dunque la diversit delle due condizioni subbiettive dolo e colpa si


lega al diverso principio che determina l'indole speciale delle lesioni
immediate e mediate.

Ci deve riuscire tanto pi facile a comprendersi, quando si ponga


mente alla connessione delle idee fin qui esposte. Si dimostrato che la
natura giuridica dei doveri e delle rispettive lesioni deriva dal vario mo

270

SAGGIO

do immediato, mediato o remoto, col quale si legano al principio del di


ritto, del dovere e della legge giuridica, e che l'indole delle condizioni
subbiettive dipende dall'intrinseca natura delle lesioni: dunque deve di

pendere pure da quel principio razionale, da cui deriva la stessa natura


giuridica dei doveri e delle lesioni, secondo la loro specie.
cos stretto il legame fra questi tre elementi, principio fondamen
tale del diritto e dei doveri giuridici, indole giuridica delle lesioni, e

condizioni subbjettive della loro imputabilit, che non possiamo sepa


rare l'uno dall'altro. Posta una lesione di certa specie, essa in quel

tale rapporto colla legge giuridica, e domanda per la sua esistenza quel
la data condizione, e non altra. Prendete le mosse da una certa condi
zione subbiettiva, e non potrete riuscire ad applicarla che a quella data

specie di lesioni, e non altra; e perci a quel dato rapporto con la legge
giuridica, e non ad un altro.
: Queste relazioni necessarie del dolo e della colpa, mentre escludono

specie o gradi diversi nel dolo, come si dimostrato nel Capo antece
dente, portano invece a scorgere una grandissima variet e gradazione
nella colpa.

Infatti la colpa non avendo luogo che negli atti i quali o per s o
per le circostanze ledono il diritto solo mediatamente, non costituisce
uno stato semplice, unico, indivisibile dell'animo; ma ammette di neces
sit il pi e il meno, le specie diverse, le gradazioni. Questa mediata re
lazione fra l'atto e la legge pu cominciare, diremo cos, dal punto il pi
prossimo alla lesione immediata, e discendere per gradazioni innumere
voli fino ad offese cos lontanamente legate al dovere, da segnare un mi

mimo grado di colpa punibile, e fino una semplice responsabilit civile.


La colpa e il dolo possono essere paragonati molto acconciamente a
quei due stati dell'animo, che sono la probabilit e la certezza.

Come la certezza non pu aver gradi, costituendo uno stato unico,


semplice, assoluto, indivisibile dell'anima, che assente alla verit distin
tamente conosciuta senza dubio di errare; cos il dolo, riposto nella li

bera e attiva determinazione di commettere il delitto, non pu ammet


tere il pi o il meno. Una deliberazione accompagnata dalla cognizione
dell'atto criminoso o , o non . Non possiamo pensare una frazione di
dolo, come non possiamo pensare una frazione di certezza.

Per lo contrario la probabilit ammette infinite gradazioni, come ne


ammette la colpa.

Ma alla stessa maniera che tra il massimo grado di probabilit e la

PARTE II.

27 l.

certezza v' una immensa distanza, o, per parlare pi giusto, un'asso


luta differenza di specie; anche tra il massimo di colpa e il dolo v'
una separazione non meno evidente
a
5 o
online
I gradi della probabilit crescono per la forza dei motivi che inducono
la mente all'assenso o al dissenso, e fanno sempre pi lieve il dubio del
contrario; i gradi della colpa vanno aumentando dal minimo al massimo,

secondoch l'atto commesso in un rapporto pi o meno stretto (non


mai per immediato) colla legge giuridica, e secondoch l'agente in
caso di conoscere pi o meno distintamente questo rapporto mediato del
l'atto colla legge stessa.

Segnata per tal guisa la differenza tra il dolo e la colpa, e veduto


come di questa si diano gradi, e non di quello, potremo facilmente per
suaderci che nella scala della colpa possono aver luogo tutte le varie
specie di lesioni (meno i delitti), e per anche le lesioni remote.
Di fatto, se per l'indole loro non possono ammettere una speciale
condizione subbjettiva per la loro esistenza e punibilit al pari delle le
sioni immediate e mediate, e pure sono vere lesioni e giustamente puni
bili, come si dimostrato; giocoforza conchiudere che la condizione

della loro punibilit sar l'una o l'altra di quelle che spettano alle altre
due

specie

di lesioni.

goe so

io

Ma si provato che la prava intenzione condizione subbjettiva


esclusivamente appropriata ai veri delitti, ossia lesioni immediate, e non
pu rinvenirsi in lesioni di altra specie: dunque rimane la sola colpa,
che nell'una o nell'altra delle sue gradazioni possa costituire la condi
zione subbjettiva per l'imputabilit delle lesioni remote.
e out lo

Alle diverse gradazioni della colpa pu talvolta aggiungersi anche il


proposito di violare la legge, che, come dicemmo pi sopra, si distingue
essenzialmente dalla prava intenzione o dolo in senso proprio ed esatto,
e pu accompagnare qualunque grado di colpa che si domandi a costi
tuire una lesione giuridica.
i
-

. Dobbiamo per altro avvertire, che il principio or ora esposto si rife


risce alla specie delle condizioni inerenti alle lesioni remote, non gi
all'estensione di essa. Vale a dire, che quando diciamo riscontrarsi la

colpa anche in questa specie di lesioni, non intendiamo perci ch'essa si


verifichi in tutta l'ampiezza delle sue gradazioni.
Egli infatti evidente dalle cose fin qu discorse, che le condizio
mi subbjettive vestono il carattere delle relazioui fra l'atto commesso e

la legge.

272

SAGGIO

Se questa relazione immediata, abbiamo la condizione tutta parti

colare, semplice, indivisibile del dolo, che inchiude sempre il proposito


di violare la legge, ed esclude la possibilit d'ignorarla; se mediata,
abbiamo la colpa ne suoi gradi anche massimi, nelle sue specie anche
pi gravi, che pu talvolta accompagnarsi coll'ignoranza della legge e
col proposito di violarla. Ci deriva dalla natura dell'atto opposto alla
legge, il quale si pu dimostrare ingiusto dalla ragione per una dedu
zione immediata o mediata dal principio razionale del diritto. Ma le le
sioni remote sussistendo solo in forza del precetto legislativo, che crea

positivamente l'atto doveroso, il quale in nessun modo dalla sola ragio


ne potrebbe essere nella sua individualit stabilito, non possono mai
presentare quei caratteri che derivano dalla genesi razionale delle lesio
mi immediate e mediate.

Quindi le specie e i gradi della colpa, che possono essere condizione

subbjettiva delle lesioni remote, saranno pi o meno vicine alla specie


e ai gradi di colpa che verificare si possono nelle lesioni mediate, quanto
pi le stesse lesioni remote si ravvicineranno o si allontaneranno dalle
lesioni mediate.

Per le circostanze particolari che possono rendere una lesione re


mota pi prossima che un'altra ad una od altra lesione mediata, o una

specie delle prime ad una specie delle seconde, non saranno mai tali da
far cambiare natura alla lesione remota in guisa da farla divenire mediata.
Questa una conseguenza naturalissima del principio gi stabilito,
che la natura della lesione prenda, a cos dire, norma e carattere dalla

relazione dell'atto colla legge giuridica naturale per modo, che ove l'at
to per s non pu essere qualificato ingiusto per una deduzione imme
diata o mediata dalla legge stessa, ma solo in forza di un precetto posi
tivo, fondato sovra un principio remoto di giustizia, questo atto si appa
lesa per indole sua distinto necessariamente da ogni altra specie.
da avvertire che la natura positiva delle lesioni remote, gi sopra

spiegata, fa s che se per una parte pu in esse verificarsi la colpa


nella misura che si conviene alla loro indole, dall'altra possono alla col
pa associarsi l'ignoranza della legge e il proposito di violarla pi facil

mente e pi spesso in queste, che non nelle lesioni mediate.


Sembra strano a prima giunta che due stati dell'animo cos opposti

si possano con eguale facilit riscontrare in una stessa specie di lesioni;


ma la proposizione riesce evidente, solo che si osservi essere d'indole
strettamente positiva, nelle loro particolari disposizioni, quelle leggi che

273
dunque facile che signorino per la stessa

PARTE II.

per tali lesioni sono violate.

loro indole positiva. Quanto poi al proposito di violare la legge, sicco

me le lesioni remote generalmente consistono in contravenzioni, alle quali


l'interesse spinge i cittadini onde esimersi dalle comandate, contribuzio
ni; cos facile che, anche conosciuta la legge, si violi
che se ne aspetta. ,

pel profitto
lo

E qu non possiamo trattenerci dall'osservare quanto strettamente si


connettano le verit, e come da principi veri si traggano conseguenze
non solo giuste, ma tali che servono alla lor volta di base e di conferma

ai principi altronde dedotti, e precedentemente stabiliti.


Si detto sopra, che le lesioni remote, come sono p. e. le contravenzio

mi di Finanza, costituiscono il grado infimo nella scala delle lesioni giu


ridiche razionalmente considerate, e che i delitti o crimini propriamente
detti stanno al sommo di questa scala. Queste due specie di lesioni for
mano gli estremi di tutte le lesioni punibili, ed offrono le differenze pi
marcate nella loro indole. Tali differenze si riscontrano pure nelle com
dizioni della loro imputabilit. Infatti, mentre nei delitti non pu darsi

l'ignoranza della legge e della ingiustizia dell'atto, nelle lesioni remote


l'ignorare la legge si verifica assai di sovente appunto per la differenza

essenziale tra esse e il delitto, ch' lesione immediata della legge natu
rale del giusto. Nelle leggi che puniscono i delitti, la razionalit delle
disposizioni della legge, positiva soltanto nella forma, esclude la possi
bilit che un agente morale la ignori; nelle leggi che puniscono le le
sioni remote l'indole strettamente positiva delle speciali disposizioni di

esse fa s che l'ignoranza della legge soventi volte s'incontri.


L'ignorare una legge debitamente promulgata non pu essere di scusa
per esimere dalla pena; ch anzi, come si avvertito, l'ignoranza me

desima di sua natura una specie di negligenza o colpa; se si vuole,


la minima rispetto alle leggi strettamente positive, perch fondate sovra

un principio di giustizia solamente remoto. Per lo contrario il proposito


di violare la legge, che oltr'essere inchiuso necessariamente nella prava
intenzione, verificantesi nei delitti, pu, come abbiamo gi osservato,
accompagnare le lesioni di qualunque specie, costituisce di per s una
colpa particolare, anzi il massimo grado della colpa relativa che pu tro
varsi in una data lesione,

Da tutto ci risulta, che i principi intorno alle condizioni per la im


putabilit delle lesioni mediate e remote si riducono ai seguenti:
1. Nelle lesioni mediate e remote non si pu mai verificare la pra

274

SAGGIO

vit d'intenzione, perch questa condizione che appartiene soltanto


alle lesioni immediate; ma solamente la colpa.
2. Le lesioni remote possono commettersi soltanto sotto quelle con

dizioni subbjettive generiche che accompagnano le lesioni mediate, quin


di con colpa.

3. Nelle lesioni remote pi facilmente che nelle mediate si pu ve


rificare l'ignoranza della legge e il proposito di violarla, mentre nelle
lesioni immediate la pravit d'intenzione si accompagna sempre col pro
posito di violare la legge, e non ammette la possibilit d'ignorarla.
CAPO XVII.
Della proporzione fra i delitti e le pene, e della pena di morte.

Gli argomenti che abbiamo svolti fin qu risguardano principalmente


le tre ricerche fondamentali intorno al diritto penale; cio la sua essen

za o principio costitutivo, la sua origine e il suo scopo. Ora ci rimane


a trattare della quarta, ossia della norma per commisurare le pene ai
delitti, nella quale cadono eziandio le considerazioni sulla pena di morte.
Che tutti i delitti non siano egualmente gravi, e che quindi diversa

debba essere la misura della pena, principio comune ed evidente. In


forza di questo principio il magistero penale, come esige un limite di
qualit, di cui abbiamo parlato, onde non tutte le azioni che difettano
di giustizia possono punirsi; cos richiede un limite di quantit, ossia

una regola onde non eccedere il confine di una giusta punizione per
ciascun delitto.

La idea di proporzione fra la colpa e la pena, e quella di retribu


zione, sono cos connesse, che si comprendono a vicenda; non potendosi

pensare una retribuzione senza proporzione, n proporzione fra delitto


e pena senza riferirsi all'idea di retribuzione.
Che se la pena dev'essere tanta quanto il demerito giuridico del
l'azione criminosa punibile, la proporzione fra la pena e il delitto non
potr dedursi da altra fonte, che dalla intrinseca natura dell'azione ri
erita alla legge giuridica.
Quindi la norma per commisurare la pena al delitto si desume neces
-

sariamente dall'essenza stessa del diritto penale, poich il magistero


penale essendo, come vedemmo, una retribuzione giuridica; pe'l retto
esercizio dell'autorit di punire fa d'uopo che s'instituisca un doppio
calcolo comparativo, cio un calcolo di fatto sulla maggiore o minore

PARTE II.

275

gravit delle pene, ed un calcolo di ragione giuridica sulla maggiore o


minore gravit del delitto in relazione all'importanza del diritto offeso
e del dovere giuridico violato.

, ,

i si i

Nell'applicazione delle pene devono quindi porsi a confronto il va


lore giuridico dell'azione ingiusta commessa, e il valore di fatto della
pena minacciata.

Questo calcolo comparativo conduce a stabilire, diremo cos, due sca


le parallele: l'una composta della serie graduale delle azioni ingiuste
punibili, che dalla massima lesione discende alle minime; l'altra formata

dalla serie graduale delle sofferenze che possono essere adoperate come
materiale di pena.

Ma perch l'una e l'altra serie possano servire all'uso pratico


necessario che il calcolo s dei delitti che delle pene non si faccia dietro
semplici vedute astratte, ma bens tenendo conto di tutte le circostanze,
per le quali si aumenta o diminuisce la giuridica gravit dell'atto puni
bile, ed il valore effettivo delle singole pene. In breve: conviene por
mente insieme al valore assoluto e al valore relativo s delle azioni cri

minose, che delle pene con cui possono venire colpite.

io

Fra le circostanze influenti sul valore giuridico dell'azione criminosa,


alcune sono tali che possono essere poste a calcolo dal legislatore; altre
possono essere soltanto indicate nella legge, rimesso al giudice il darvi
quel peso che, secondo la variet dei casi, siano per meritare
i sap
Quanto alle circostanze, per le quali il valore di fatto della pena pu
venire aumentato o diminuito, ci sembra poterle ridurre a due classi:

l'una consta di quelle circostanze che dipendono dalla natura del delitto
commmesso; l'altra di quelle che derivano dalla diversa maniera di sen
tire degli uomini nei diversi tempi e luoghi, onde gli stessi mezzi afflit

tivi assumono una gravit molto maggiore allorch la maggiore squisir


tezza del sentire rende pesanti all'animo certe pene, che sarebbero poco
o nulla sentite dagli uomini rozzi e d'ottuso senso in tempi meno civili.

Questa duplice cagione fa s che non si possa fissare un valore asso


luto alle pene, generalmente parlando; ma la loro intensit debba desu
mersi dalla gravit assoluta di esse combinata colle circostanze che ne
determinano il maggiore o minor valore concreto, secondo i tempi, i

luoghi e le circostanze generali che modificano l'umana sensibilit, e che


rendono la pena efficace a reprimere, quanto lo concede la libert del
l'arbitrio che rimane sempre intatta, la passione che fu soddisfatta col
delitto commesso.

f,

276

SAGGIO

Quest'ultima circostanza, che, come accennammo or ora, dipende dal


la natura dell'atto criminoso commesso, influisce nella scelta del genere

di pena, mentre l'altra principalmente risguarda la quantit ossia il grado


di essa. Diciamo principalmente, perch il grado di sensibilit non solo
deve guidare nella misura del quanto, ma si associa pure all'indole della
passione, o vogliam dire della spinta criminosa, per determinare la scel
ta anche della qualit della pena.
Non entreremo qu a svolgere ampiamente quest'argomento della qua
lit delle pene e della rispettiva loro gravit, rimettendoci al molto che

ne fu scritto dai pi celebri criminalisti. Abbiamo gi notato che l'in


dagine del valore delle pene una ricerca di puro fatto, nella quale
conviene tener conto di quelle molte circostanze che influiscono a de
terminare e a modificare questo valore. Il principio fondamentale, che
le pene essendo retribuzione devono essere proporzionate al delitto, ren

de un dovere pe'l legislatore l'instituire questo calcolo colla maggiore


diligenza, affinch la scala graduale delle pene possa corrispondere colla
scala graduale delle azioni punibili in quella esatta proporzione che la
giustizia richiede.
-

Ma la ricerca del valore delle azioni criminose, cos assoluto come


anche relativo alle circostanze, indagine propriamente giuridica.
L'idea direttiva di questo calcolo necessariamente la legge giuri
dica, i doveri da essa imposti, i diritti che vi corrispondono. Su questa
base non molto difficile graduare le azioni criminose, isolatamente con
siderate, secondo il loro valore assoluto. Come nell'ordine etico il valor

morale degli atti si misura dalla relazione pi o meno prossima col fine
supremo; cos nell'ordine giuridico il valore degli atti si misura in re
lazione al fine immediato dell'ordine dell'esteriore giustizia.
Perci la gravit giuridica delle azioni ingiuste non va confusa colla

gravit morale delle azioni malvage, considerate in relazione alla legge


morale; onde la notissima e pur talvolta in qualche legislazione dimen
ticata differenza tra il peccato e il delitto: differenza ch' la base di

ogni buon Codice criminale, onde non confondere la sanzione giuridica


colla sanzione morale; quella da applicarsi dall'umano potere, questa
riserbata a Dio solo (1). Di qu , che sebbene nell'attribuire il valore
(1) Non intendiamo che le azioni immorali non debbano mai punirsi. Diciamo,
che dovendo applicarsi la sanzione penale umana in proporzione alla gravit dell'at
to in relazione all'ordine giuridico, non bisogna prendere norma per misurare la

PARTE II.

277

giuridico a ciascun atto ingiusto punibile si proceda allo stesso modo


come nel determinare la gravezza dell'immoralit, prendendo cio come

criterio la maggiore importanza del dovere violato, dipendentemente


dalla pi prossima connessione col fine giuridico o morale rispettiva
mente; tuttavolta il maggiore delitto non coincide col maggior peccato.
La legge etica, non guardando soltanto all'esteriore giustizia, ma po
nendo a calcolo eziandio e principalmente le disposizioni dell'animo,
l'intenzione, ed avendo in mira il fine supremo e tutti i doveri dell'uomo

nella sua triplice relazione con s, cogli altri, con Dio; pone in cima
di tutti quei doveri che immediatamente si connettono col fine supremo,
e quindi riconosce le maggiori colpe nella violazione di cos fatti doveri.
Invece la legge giuridica limitandosi alle azioni esteriori, e mirando al
fine della convivenza umana, deve mettere a capo dei doveri giuridici

quelli che corrispondono ai pi importanti diritti, e valutare siccome le


maggiori lesioni giuridiche quegli atti che offendono cotesti diritti, che
sono la base ed il compendio di tutti gli altri, poich sono in una rela
zione immediata colla conservazione dell'uomo, e dello stato naturale
di societ in cui vive.

Conviene per confessare, che la determinazione del valore giuridico


assoluto delle azioni punibili riesce ben poco profittevole alla pratica
attuazione del magistero penale; poich a stabilire la pena giustamente

proporzionata per ciascun delitto necessit determinare in concreto


la gravit giuridica di ogni azione punibile, tenendo conto delle circo

stanze generali e speciali che vi hanno la pi grande influenza. s


Abbiamo detto che queste circostanze possono in parte porsi a calcolo
dal legislatore, in parte devono essere lasciate valutare al giudice, secon
do la variet dei casi. Le prime sono quelle che dipendono da fatti co
muni e generali; le seconde quelle che consistono in fatti speciali, che,
oltre ai comuni, possono verificarsi ne'casi avvenibili. S le une che le

altre sono importanti per la teoria della proporzione fra il delitto e la


pena; poich da esse, combinate col valore assoluto del delitto, dipende
la maggiore o minore gravit concreta di esso, e quindi la maggiore o

minor pena da applicarvisi tassativamente dal legislatore, ovvero dal giu


dice, secondo le norme e dentro i limiti fissati nella legge.
pena dalla sola gravit morale, quantunque una pena a molte azioni immorali giu

stamente
s'inligga, perch offendono ad un tempo l'ordine sociale, che non pu
stare senza la moralit.
-

278

SAGGIO

In ci si manifesta l'importanza della dottrina della retribuzione giu


ridica per la pratica applicazione delle pene ai delitti; poich essa pre
sta un criterio veramente giuridico tanto al legislatore che fa la legge,
quanto al magistrato che deve applicarla. Il primo, prendendo a guida il
valore assoluto di ciascun delitto, ed associandolo alle circostanze che

pu prevedere e calcolare, conosce il grado del delitto per applicarvi il


corrispondente grado di pena. Ma poich alcune circostanze pu preve
derle e non calcolarle esattamente, ed altre n prevederle, n calcolar
le; in necessit di rimettersi al prudente giudizio delle magistrature,

incaricate di applicare le leggi criminali, onde in ogni caso diano il do


vuto peso a queste circostanze aggravanti o mitiganti.
Siccome per sarebbe contrario ad ogni principio di giustizia e di

prudenza il rimettere al giudice intieramente la determinazione della


pena, aprendo il varco a sentenze arbitrarie, e sostituendo l'opinione e
forse le passioni del giudice all'imparzialit ed autorit della legge;
cos d'uopo che il legislatore, dopo fissata la specie della pena, ne de

termini i limiti dentro i quali possa il giudice commisurarla ai casi par


ticolari, procurando di stabilirli abbastanza lati per non coartare il giu
dice dentro un massimo ed un minimo di pena troppo poco fra loro di
stanti per ammettere una conveniente graduazione proporzionata alla
variet dei fatti concreti, sui quali dee pronunciare sentenza.

Tutto questo pu e deve fare il legislatore, ma non pu fare di pi; a


tutto il resto devono supplire la prudenza, il senno e i lumi del giudice,
il quale, guidato dall'idea medesima che dirige il legislatore, cio quella
della retribuzione proporzionata alla gravit giuridica dell'azione ingiu
sta commessa, trova in questa idea il principio per giudicare del quanto

ciascuna circostanza in ciascun caso particolare renda pi grave o pi


leggera e scusabile la commessa lesione giuridica relativamente alla legge
del giusto, al dovere che fu violato, al diritto che fu offeso. N altro

senso hanno le norme legislative che impongono al giudice di bilanciare


equamente le circostanze aggravanti e mitiganti, se non quello di obbli
garlo a determinare a termini di ragione il valore giuridico concreto di
ciascun'azione criminosa, onde applicarvi, dentro i limiti di legge, la
pena proporzionata.

Fra le circostanze generali, di cui deve farsi carico il legislatore,


quelle che risguardano la persona del reo danno luogo ad una contro
versia molto dibattuta fra i criminalisti, cio se le pene debbano essere
eguali per tutti i delinquenti.

PARTE II.

279

Molto fu scritto su questo punto; pure ci sembra che rimanga a dire

tuttavia qualche cosa, e che il principio della retribuzione e le conse

guenti norme per determinare la giuridica gravit dell'azione commessa


servano eziandio a risolvere questa disputa.
a
e i
a
Innanzi tutto per da avvertire, che una risposta soddisfacente, non

potrebbe esservi data in un senso assoluto e generale, essendo necessa


rio mettere a calcolo elementi e circostanze diverse.

is i

La questione infatti pu riferirsi alla qualit della pena, o alla quan


tit di essa.

Rispetto alla qualit, un fatto che a certi delinquenti la medesima

specie di pena, che reca ad altri afflizione, sarebbe indifferente o for


se anche piacevole. Tal appunto il caso degli oziosi e vagabondi, pe'
quali il carcere pu essere un beneficio desiderato (1).
-

, n.

Le instituzioni preventive, senza le quali manca una delle condizioni

di giustizia e di prudenza per l'esercizio del potere punitivo, devono


appunto essere dirette ad impedire l'oziosit, a procurare lavoro a chi
ne manca, e a costringervi quelli che preferiscono la vita vaga e l'iner

zia colpevole alla operosit che procaccia un onorato sostentamento. Ma


se, ad onta delle Case d'industria e di lavoro, e d'altri provedimenti
cos fatti, si trovano alcuni delinquenti oziosi e vagabondi, certo che

le pene sensibili all'operaio, all'agricoltore, all'uomo civile, saranno


assai poco efficaci sopra una tale genia, per la quale sono nulla i rite
gni, che mentre valgono a frenare in molti casi dal delitto, rendono ef
ficaci le pene ordinarie quando u commesso.

Le pene alquanto aspre e di breve durata, in confronto della prolun


gata detenzione in carcere, sono le sole che convengono a questa classe
di delinquenti.

Che se nella diversa qualit delle pene si voglia vedere eziandio in


chiusa una maggiore gravit, conviene riflettere che la medesima azione
criminosa, commessa da un uomo nelle circostanze ordinarie, e commessa

da un ozioso vagabondo, assume in quest'ultimo una maggiore gravit


giuridica, in quanto non si tratta di un atto isolato, ma di un atto ch'

l'effetto di una condotta abitualmente opposta a tutti i doveri della vita


civile. Poich se la societ importa una reciproca cooperazione di tutti
a

e , a a

(1) Non nuovo nei fasti criminali il caso di piccoli furti commessi per assicu
rarsi una reclusione di alcuni mesi, onde avere ricovero e vitto gratuito nella sta
gione dell'inverno.

280

SAGGIO

al fine comune, chi abitualmente vuole sottrarsi a questo dovere giuridico


commette una costante ingiustizia, che accresce la gravit della partico

lare lesione commessa. Cosicch quest'apparente eccezione alla regola


generale dell'eguaglianza delle pene per tutti non in realt che la con

seguenza dei principi, i quali regolano la scelta della qualit della pena
e la misura della sua quantit.

is

Il sesso e l'et sono altre due circostanze, intorno alle quali da ve.
dere se debbano influire ad ammettere una diversit di pena per lo stesso
delitto.

- Intorno al sesso ci pare che gli stessi principi ora accennati condu
cano a rispondere doversi ammettere, dentro certi limiti, una mitiga

zione di pena, qualora dalle particolari circostanze del fatto risulti che
la debolezza del sesso possa in parte scusare il delitto commesso. Non
crediamo per che il legislatore possa farsi carico della differenza del
sesso come di una circostanza generale, per cui si debbano stabilire pene
diverse nella qualit o nel grado, secondo la differenza di sesso del
delinquente, pe'l medesimo delitto, a cose del resto eguali.

La ragione della prima parte della nostra proposizione sta in ci,


che nelle cause determinanti la giuridica gravit della lesione entrando
necessariamente il maggiore o minore sforzo della volont rivolta al de
linquere, la debolezza che pi facilmente si pu trovare nella donna in

confronto dell'uomo pu minorare la gravit del delitto, considerato nella

sua prossima cagione, ch' la volont.

Dicemmo per che il legislatore non pu egli stesso disporre in ge


nerale su questo punto, perch tale circostanza una di quelle che non
agiscono generalmente, e che pu, come si notato, prevedere, ma non

calcolare anticipatamente. Tanto pi che potrebbe darsi il caso, in cui si


verificassero anche in un delinquente di sesso maschile le circostanze ana

loghe a quelle che nei fatti particolari possono essere indotte dalla de
bolezza di mente e di animo della donna; come, per esempio, nella co
operazione al delitto per seduzione o minacce.

Piuttosto quanto all'et possono e debbono essere stabilite alcune

norme nella legge. Sta infatti nel corso ordinario delle cose, che lo svi
luppo mentale non si compia prima di una certa et; e che quand'anche

il delinquente giovane abbia agito con discernimento bastante a costi


tuire la intenzione criminosa e la punibilit del suo delitto, la sua azio
ne non possa essere valutata della stessa gravit come nell'uomo matu
ro, in cui lo sviluppo delle facolt giunto alla sua pienezza.

PARTE II.

281

Trattandosi quindi d'una circostanza generale che pu essere prece


dentemente valutata, secondo l'andamento ordinario dello sviluppo delle
facolt dell'uomo, la legislazione pu e deve fissare l'et, fino alla quale
deve aver luogo la presunzione juris et de jure della non-imputabilit,

e stabilire quelle mitigazioni che vogliono essere portate nel grado della
pena, a cagione dell'et immatura in quel periodo nel quale dee aver

luogo la presunzione dell'imputabilit, finch non risulti nel caso spe


ciale il contrario, non per colla intensit medesima che si verifica nel

l'uomo giunto alla piena maturit dell'intelletto e del volere.

Rimane per anche in questo una gran parte da lasciare alla decisione
del giudice, che deve di caso in caso pronunciare sulla esistenza o no

della pravit d'intenzione nelle azioni propriamente criminose, ossia le


sioni immediate; e di quella sufficiente cognizione che costituisce la col

pa nelle lesioni mediate e remote. Ma ci non richiesto, propriamente


dai riguardi dell'et; s bene dalle condizioni generali, senza cui non
pu aver luogo l'applicazione delle pene.
, ,
-

Qualche legislazione attribuisce espressamente al giudice l'incarico


di decidere di caso in caso, se il giovane fino ad una certa et abbia

agito o no con discernimento. Se no, gl'impone di non punirlo, e solo


provedere alla sua emenda ed educazione in modi diversi, secondo la
variet delle circostanze (1). Se poi il giudice trova che il giovane reo
abbia agito con discernimento, allora gl'impone di applicargli la pena
con quelle moderazioni che il legislatore trova di stabilire in vista del
l'influenza costante dell'et su questo punto.

- a

In altre legislazioni non si trovano che alcune moderazioni alle pene,


quando si tratti di rei che non abbiano oltrepassata una certa et, sen
za attribuire al giudice espressamente l'incarico della decisione soprac
Cennata.

Per siccome la determinazione dell'esistenza o no della imputa

bilit criminale nei casi speciali cosa essenzialmente spettante al giu


dice, e non al legislatore, che non pu prevedere l'immensa variet
delle circostanze sulle quali deve fondarsi il giudizio preliminare sul
l'esistenza o no della imputabilit nel dato soggetto; cos in un modo o
nell'altro la decisione del giudice deve di necessit aver luogo su que
sto punto non solo a termini di ragione, ma eziandio in forza delle dis
a:

r.

- , a

(1) Cos appunto stabilisce il Codice penale francese, art. 66 a 69, per gli accu
sati che abbiano meno di sedici anni.
19

282

SAGGIO

posizioni dei Codici criminali in generale. Ci per altro non riguarda


propriamente l'influenza dell'et, ma quelle circostanze, provengano da
ritardato sviluppo o da altra causa, che valgono ad escludere l'imputa
bilit criminosa, e di cui in ogni caso deve farsi carico il giudice chia

mato dalla legge a pronunciare sull'esistenza o no della prava inten


zione negli atti criminosi ossia lesioni immediate, e della colpa nelle le
sioni mediate e remote.

Anche l'et senile fu da taluni considerata come circostanza recla

mante una moderazione di pena (1). Non pu invero negarsi che una
tal massima venga suggerita da un senso d'umanit, al quale si associa
un principio che ha influenza sulla determinazione della qualit e quan

tit delle pene in tutti i casi; ed , che le pene eccessive, anzich re


primere il delitto, lo favoriscono, come vedremo fra poco. Ed appunto
le pene gravi, ed ordinariamente giuste, divengono nel fatto e nell'opi
nione eccessive quando si applicano all'uomo giunto all'et cadente.
Per questa parte l'et senile diviene una circostanza che si pu preve

dere e calcolare dal legislatore nello stabilire le pene. In quanto poi si


possa nel delinquente vecchio manifestare una debolezza di mente e di
animo, che diminuisca la gravit del reato, valgono le stesse considera
zioni che abbiamo esposte parlando della differenza del sesso.
Pi grave e dibattuta la questione di cui ci occupiamo quando la si
riferisca alle diverse condizioni sociali. Criminalisti di molta levatura

hanno sostenuto il pro e il contro: alcuni volendo che le pene debbano


essere diverse, secondo la condizione ed altre circostanze personali del
reo; altri affermando che debbasi avere riguardo alla natura dell'azione
determinata secondo i generali principi, ma non punto alle differenti

classi sociali, e circostanze diverse da quelle di cui parlammo, per in


durre un diverso trattamento dei delinquenti.

Bentham, per esempio, d come una regola per la misura delle pene,
che la stessa pena non debba essere inflitta per lo stesso delitto a tutti

i delinquenti senza eccezione, e che bisogna guardare alle circostanze


che influiscono sulla sensibilit (2). Altri, tuttoch respingano il princi
pio dell'utilit, ch' la base delle dottrine di Bentham, hanno pure adot

(1) Per esempio, nel Codice penale francese, art. 70, ec., rispetto ai vecchi di
settant'anni compiuti.
(2) Thorie des peines, etc. Liv. I. Chap. V.

PARTE II.

283

tata la stessa massima (1). Romagnosi sostiene invece l'opposta, e svolge


ampiamente coll'usato acume quest'argomento (2).

Ci sembra per che un accurato esame delle ragioni addotte da una

parte e dall'altra guidi senza molta difficolt a conciliare le discordi


sentenze, mostrando come le ragioni medesime, colle quali si sostiene
la necessit di rendere diverse le pene secondo le classi, si ritorcano

agevolmente contro questa massima, e compiano quello che manca alla


piena dimostrazione dell'opposta dottrina.
Innanzi tutto conviene supporre la parit in tutte le altre circostanze,
riducendo la questione al solo punto della diversa condizione del reo, e
della maggiore o minore sua sensibilit.

In secondo luogo conviene distinguere le norme che devono guidare


nella scelta della qualit da quelle che regolano la misura della quantit
o del grado della pena.
Egli certo che i delitti di una data specie sono d'ordinario commessi
da una certa classe pi che da un'altra; e che nella scelta della qualit
della pena dovendosi por mente alla speciale passione che col delitto

viene soddisfatta, onde contraporvi il freno di una pena che valga a

rattenerla, si riesce in sostanza a stabilire colla determinazione delle


pene una differenza di qualit fra le pene che colpiscono le azioni cri
minose d'ordinario commesse da una classe di gente, in confronto di
quelle che di consueto commettonsi piuttosto da un'altra. Quindi l'ac
curata scelta della specie di pena soddisfa gi per s stessa al bisogno
di una diversit per quel tanto che realmente sussiste. E ci sembra che
le ragioni addotte a sostegno della differenza di pena secondo le classi
sociali si risolvano in sostanza nello stabilire la necessit di una diversa

specie, e non di un diverso grado. La quale diversit di specie venendo


determinata dalla qualit della passione eccitante al delitto, non pu
ammettere disputa ragionevole, ed inchiude, come dicemmo, una diver
sit nel trattamento delle varie classi di delinquenti, senza discendere a

casi individuali: cosa impossibile al legislatore, pericolosa pe'l giudice,


il cui arbitrio non avrebbe alcun limite.

Ma determinata la qualit della pena in relazione alla spinta che ec


cita la volont a quel dato delitto, conviene poi anche introdurre una

(1) Per esempio, il Taparelli nel Saggio teoretico di dritto naturale, n. 826.

(2) Genesi del diritto penale, S 1558 e seg.

284

SAGGIO

differenza nella quantit secondo le classi, o secondo la sensibilit de

gl'individui? Questa diversit, dato che si ammettesse, dovrebbe intro


durla il legislatore, o essere lasciata alla prudenza del giudice?

Lasciare al giudice una s larga facolt sarebbe estremamente perico


loso; poich impossibile stabilire un criterio sicuro che debba guidarlo
in via di ragione, dato che non potesse il legislatore fissarlo con una

norma positiva. Poniamo il caso di una pena infamante. Il delinquente


di una condizione sociale alquanto elevata ne viene punto nell'onore
pi che l'operaio. Un giudice quindi, considerando la maggiore inten
sit della pena pe'l ricco, ne diminuirebbe la durata in confronto del po
vero operaio; mentre un altro giudice considerando che il povero lavo

rante, il quale vive dell'altrui fiducia, viene a ridursi, mediante la pena


che suggella la sua infamia, in una tristissima condizione, opinerebbe che
si dovesse attenuare la pena di questo, calcolandone l'effetto molto pi
nocivo a lui, che non al ricco. L'uno prenderebbe a criterio la maggiore
sensibilit del reo; l'altro il maggior danno relativamente alla condizione
di questo: e si avrebbero le sentenze pi opposte, fondate sul medesimo
principio. Giustamente quindi abbiamo detto or ora, che sarebbe peri
coloso attribuire al giudice una s ampia facolt.
N questo potere, che si volesse attribuire al giudice, pu confondersi
con quello che la legge necessariamente deve lasciargli nell'applicare le
pene ai casi singoli entro certi limiti, ma per gradi da lui determinati;

poich le circostanze che influiscono in questo giudizio sono fatti che


possono e debbono constare dalle prove giuridicamente raccolte nel pro
cesso; mentre per l'opposto, nel caso di cui parliamo, tutto si appog
gerebbe sulla opinione soggettiva del giudicante.

Rimane quindi a vedere se il legislatore, dopo scelta la qualit della


pena secondo la spinta criminosa, ossia la passione eccitante al delitto,
debba discendere egli stesso a stabilire una diversa specie o misura di
essa secondo la condizione sociale del reo, o secondo la diversa sen
sibilit.

Intorno a ci osserveremo, che quanto alla specie, l'avere riguardo a

circostanze diverse dalla passione criminosa sovvertire l'economia pe.


male, e menomarne l'effetto. Punire, per esempio, il delitto commesso per

cupidigia di lucro con pena infamante, perche il reo ricco, e poco sen
tirebbe la pena pecuniaria; ovveramente punire con pena pecuniaria il
povero, perch a lui riesce pi sensibile che non l'infamia, mentre in
realt non pu soddisfarla; sarebbero assurdit manifeste.

PARTE II.

285

L'incertezza dell'effetto e l'impossibilit frequente d'infliggerle per


mancanza di mezzi nel reo, hanno molto ristretto l'uso delle pene pecu
niarie, e con grande ragione. Ma le azioni criminose che non possono
commettersi se non dai ricchi per avidit d'ingiusti guadagni, come p. e.
l'usura, non si saprebbe vedere come e perch dovessero essere diffe
rentemente punite; salvo sempre i limiti del massimo e minimo anche
nelle multe, per l'opportuna graduazione, secondo i casi e le circostanze
che possono e debbono risultare dal processo, ed influire sulla sentenza.

Si vede quindi che l'oggetto in questione, analizzato partitamente,


va sempre pi limitandosi, finch si riduce alle pene afflittive, che sono
le pi comunemente usate, e quelle che maggiormente si prestano al ma
gistero repressivo della giuridica sanzione.
I

Condotta la ricerca a questo punto, dopo tutto quello che si detto


ci sembra che una riflessione molto semplice, e che discende dalle dot
trine comunemente consentite, possa togliere ogni controversia.
Chi propugna l'eguaglianza delle pene per tutti, senza distinzione di
classi o particolare sensibilit, poste tutte le altre circostanze pari, pu
concedere benissimo agli avversari ogni loro premessa, e cavarne un de
cisivo risultato a proprio favore.
i
Infatti, che la stessa pena rechi una sofferenza diversa ai diversi de
linquenti, sia considerati per classi, sia presi anche individualmente,
verissimo. Ma bisogna considerare che anche i delitti rivestono alcuna
diversit secondo la classe di chi li commette, e secondo la maggiore
squisitezza della sensibilit, che pure dalla forza della volont fu supe

rata per commettere il delitto.

ai

All'uomo educato, che commette un furto, il carcere sar molto pi


sensibile che non all'uomo rozzo, abituato ad una vita stentata. Ma quan

to non pi grave la reit del primo, che a compiere il suo delitto do


vette superare tanti freni che vi si opponevano, in confronto del se
condo!

La pena una sofferenza sensibile; ma essa opera effettivamente sul


l'animo come freno della volont finch minacciata, e come sanzione
incorsa pe'l delitto commesso quando viene applicata. La sua efficacia

non isolata ed assoluta, ma concorrono a renderla pi o meno intensa


ed attiva anche le circostanze soggettive del reo. Ora le identiche cir
costanze, che rendono la stessa pena soggettivamente pi o meno grave,

sono quelle appunto che rendono soggettivamente pi o meno grave


eziandio l'identico delitto. Queste circostanze soggettive che affettano

286

SAGGIO

l'animo, che non appariscono all'esterno, e quindi sfuggono al legisla


tore e al giudice che non possono valutarle, danno per un valore rela
tivo diverso al delitto e alla pena. Ma queste diversit di valore essendo

perfettamente corrispondenti, producono una compensazione, per la quale


si rende tanto pi grave soggettivamente la pena, quanto fu pi grave
soggettivamente il delitto.
In conseguenza di ci i sostenitori dell'opinione, che le pene debbano
essere diverse in vista di queste circostanze soggettive, che rendono pi
o meno sensibile la pena, col loro argomenti rafforzano l'opinione con
traria; perch appunto l'eguaglianza delle pene per tutti, specialmente
in una societ incivilita, l'unico mezzo, col quale si possa ottenere un

aumento di sofferenza per chi meno scusabile nel delinquere, a ca


gione dei maggiori freni che infranse colla forza della volont per com
mettere l'azione criminosa.

Che se dalla disposizione dell'animo a sentire pi o meno l'efficacia


della pena si passi a considerare lo stato fisico del reo, onde pu ri
uscire pi o meno dolorosa, agevole persuadersi che se in qualche caso

pu essere lasciato in facolt del giudice il mitigarla o commutarla,


quando l'effetto suo si manifestasse eccessivo, di regola a questa circo
stanza non pu aversi alcun riflesso. Non dal legislatore, che deve provede
re ai casi comuni, e non farsi carico di ci che in via di eccezione pu av

venire; non dal giudice, perch non pu accertarsi della robustezza eet
tiva e della maggiore o minore sensibilit fisica di ogni individuo. Non
bisogna dimenticare, che in tutte le cose umane c' un limite, oltre il
quale non si pu giungere; e che l'esigere una perfezione astrattamente
desiderabile, produrre peggiori mali, che l'accontentarsi di quello che
si pu ragionevolmente ottenere.

D'altra parte se si consideri che le pene propriamente afflittive del


corpo, al pari di quelle in istretto senso appellate infamanti, come la
berlina e simili, degradano l'uomo, lo avviliscono, lo irritano, ed am

morzano quel po' di pudore e di decoro che ancora gli rimane, e costi
tuisce, a dir cos, il seme che, svolto e coltivato acconciamente, pu

iniziare il suo ravvedimento; e che quindi sono dall'esperienza dimo


strate tutt'altro che favorevoli alla emendazione del reo, ch' uno de

gli scopi cui deve tendere la pena; si scorge che vana riesce la questio
me, dacch non occorre occuparsi delle regole per misurare i gradi d'una
pena che vuol essere esclusa, ma soltanto della misura di quelle pene
che per la loro qualit soddisfacendo a tutte le viste del penale magi

PARTE II.

287

stero, sono le sole, il cui uso sia giustificato, e delle quali sia d'uopo
quindi stabilire le giuste proporzioni.
. Fra tutte per le particolari questioni relative alla specie e ai gradi
delle pene, occupa il primo luogo quella che versa intorno alla pena di
morte.

La mancanza di un principio veramente giuridico, sul quale si fon


dasse la scienza del diritto penale, fu certamente la precipua cagione,

per cui venne cotanto agitata la controversia sulla giustizia, e pi comu


nemente sulla opportunit della pena di morte.
In questa disputa, certo sopra ogni altra gravissima nelle giuridiche

discipline, si fatta una gran confusione, e si sono spinte le conchiu


sioni a tale eccesso, che se si dovessero menar buoni certi argomenti che

a primo aspetto parvero assai forti, bisognerebbe abolire i Codici crimi


nali ed ogni uso delle pene di qualunque specie.
Non si pu certamente mettere in dubio, che sia pregio grandissimo

di un popolo l'essere cos costumato da potersi ottenere la conservazione


dell'ordine sociale, il rispetto degli altrui diritti, in una parola, l'osser
vanza della giustizia, quanto meglio possibile, anche senza far uso di
pene gravi, e specialmente della pena di morte. Date cos favorevoli circo
stanze, crediamo anche noi che la pena di morte non dovrebbe essere in
flitta; poich dall'una parte difficilmente potrebbero succedere delitti che
di loro natura la meritassero, e per l'altra il valore relativo delle altre
pene si aumenterebbe in ragione della maggiore civilt di un tal popolo.

Aggiungiamo ancora, ch' certamente un dovere il procurare con tutti

i mezzi di produrre un tale aumento di moralit e di civilt nei popoli,


che diminuisca al pi possibile i delitti, e renda sufficienti le pene pi
miti a sancire l'osservanza della legge giuridica. Poich i principi della
giustizia e della morale condannerebbero quel potere che, unicamente
zelante di punire i colpevoli, si facesse provocatore dei delitti col pre
starvi le occasioni e gli stimoli, o col trascurare i mezzi di moralit e di

prevenzione ch'era obbligato ad adoperare e a promuovere studio


samente.

Tutto ci per altro risguarda le condizioni di giustizia e di moralit


per l'esercizio del potere punitivo: la questione della giustizia delle
pene in s stesse, della loro proporzione ai delitti, e della pena di morte
in particolare, altra cosa.
Applicando il principio, che le pene sono la sanzione della legge giu
ridica, la questione si riduce a determinare se la pena di morte sia di

288

SAGGIO

per s giusta per certe azioni criminose. Poich l'idea di sanzione im

portando quella di proporzione fra il delitto e la pena, ed essendo la


morte la massima pena possibile, dacch toglie d'un colpo insieme alla
esistenza dell'essere misto la base e la somma di tutti i diritti dell'uo

mo, non pu essere con giustizia applicata che alle massime violazioni
della legge giuridica naturale.
Dall'esame di molti scritti sull'argomento ci sembra risulti chiara
mente, che tanto gli avversari, come i difensori della pena di morte,
abbiano esagerato; e di qu le dispute senza fine.

. Egli impossibile sostenere la giustizia della pena di morte, la ne


cessit di minacciarla ne Codici, e di applicarla al caso, senza aggiun
gere la condizione indispensabile, ch'essa colpisca soltanto quei pochis
simi e gravissimi delitti che di loro natura la meritano, perch conten

gono una lesione immediata della massima gravit, alla quale non pu
essere proporzionata altra pena.
Tutti gli argomenti, co quali si sostiene la ingiustizia della pena di
morte in qualunque caso, si riducono in fine a negare che l'uomo abbia
mai il diritto di togliere la vita all'altro uomo. Allo stesso modo si pu
sostenere che non si pu incarcerare nessuno, perch l'uomo non ha il

diritto di privare della libert il suo simile (1).


e I propugnatori della pena di morte, ponendo la questione troppo in
generale, presentano agli avversari un lato debole, perch veramente la
pena di morte essendo massima, non pu applicarsi che alle massime le
sioni, certo pochissime. Gli avversari poi della pena di morte, volendo
abolirla affatto in qualunque caso, abbattono collo stesso colpo tutto il
magistero penale.

Nel fatto per la pena di morte non pu essere dimostrata giusta che
pe'i delitti di loro natura enormi, ed vero che l'uomo non ha il di
ritto di disporre dell'altrui vita. Ma nell'applicare la pena di morte ai
pochissimi enormi delitti che la meritano non l'uomo che ad un suo

pari la infligga: l'autorit publica che colla legge la minaccia, e col


(1) Per esempio, Beccaria si fa molto forte sul fatto, che ad onta della pena di
morte si commettono i delitti cui minacciata. Siccome si ruba ad onta del carcere,

e si commettono tutta sorta di delitti ad onta delle pene che li colpiscono, bisogne
rebbe a dirittura, per la stessa ragione, toglierle tutte. E notevole d'altra parte,

che si trovano talvolta gli stessi argomenti addotti pro e contro la pena di morte.
Rispettate la vita, se volete che sia rispettata. Altri dice: ritorcete contro l'omicida

i principi ch'egli segu. Uccise? Uccidetelo.

PARTE II.

289

mezzo dei tribunali la applica. Il potere di punire, derivante dal princi


pio fondamentale giuridico che costituisce l'essenza e il fine della so
ciet, e che si riduce alla necessaria sanzione della legge giuridica,
giustificato dalla legge stessa non come un potere dell'individuo rispetto
all'altro uomo, ma come un potere supremo della societ pel manteni
mento dell'ordine civile e della comune giustizia; potere che dev'essere

adoperato serbate le forme tutelari che ne assicurino il prudente, impar

ziale e solenne esercizio, a tutela dell'innocenza, e a giusta e propor


zionata retribuzione dei delinquenti. Il quale potere derivando dall'or

dine sociale, conforme ai principi della giustizia, e non ripugna alla


morale, quando sia esercitato entro i suoi confini di ragione s nella so

stanza che nella forma. Onde il precetto che impone di non infliggere le
pene a capriccio, ma nella giusta proporzione colla gravit dell'ingiu
stizia, a colui ch' provato averla commessa; dentro i limiti della stretta

necessit; dopo avere adoperati tutti quei mezzi che valgano a preve
mire i delitti; e serbate le forme tutelari, e il rispetto dovuto ai doveri

morali e religiosi, sempre e in tutto prevalenti (1).


a Non quindi che il diritto d'infliggere le pene, e quella di morte in
i

ti

particolare, sia una potest assoluta esistente da s, e da potersi eserci


tare a beneplacito del potere sociale. E un diritto che sussiste dentro
stretti confini di ragione, e sotto le accennate condizioni. Un pieno ar
bitrio sulla vita dell'uomo non appartiene a chi si sia. Dio solo libera
mente ha dato all'uomo la vita; Dio solo padrone di tagliarne il filo
a suo beneplacito.

- i titl

Ma, poste queste condizioni e questi confini di rigorosa giustizia, il


negare all'autorit publica la facolt d'infliggere la pena di morte alle
poche gravissime lesioni alle quali proporzionata, distruggere il
principio della proporzione naturale fra la pena e i delitti; sconvolgere
l'ordine della societ; dichiarare ad un tempo ingiusto l'uso dogni
altra pena: poich lo stesso principio della proporzione tra le pene ei
delitti, voluta dall'idea di retribuzione e sanzione, inchiusa in quella
della legge giuridica, che giustifica le pene minori pe'minori delitti, giu
stifica la massima pe'l delitto massimo.

Due principi quindi debbono essere posti intorno alla pena di morte:
l'uno la sua giustizia assoluta per le pochissime pi gravi lesioni;
l'altro la giuridica e morale obbligazione di prevenire il bisogno di ado
(1) Vedi la nota in fine di questo Capo.

200

perarla, promovendo

SAGGIO

popolo; mezzo
efficacissimo a trattenere gli uomini dai delitti, e sopratutto dai pi gravi.
la cultura intellettuale e morale del

Dal primo principio deriva che la pena di morte non debba essere
omessa nei Codici per quei rari fatti ai quali proporzionata.

Dal secondo discende la possibilit che in un dato paese possa non


manifestarsi la necessit di applicarla, come ne abbiamo esempio nella
Toscana, che per lunghissimo tempo non conobbe che cosa fosse pa
tibolo.

Da tutto ci si fa manifesto che la questione sulla giustizia ed op


portunit della pena di morte va risolta col medesimi principi che val
gono a stabilire le norme di ragione intorno alla giustizia delle pene in
genere nella naturale proporzione loro colla gravit intrinseca dell'azio
ne criminosa.

Il sistema penitenziario, del quale abbiamo gi mostrato il lato buono


e lodevole (pag. 192), venne in appoggio alla dottrina che avversa as

solutamente la pena di morte. Quel sistema, bello e giusto finch si li


mita alle ricerche intorno al regime delle carceri pi adatto alla emen
dazione dei colpevoli, e a prevenire il pericolo di una maggiore corru
zione, convertito in teoria e fondamento del diritto stesso di punire,
fals l'indole e lo scopo delle pene.
Egli certo che lo scopo delle pene minacciate ed inflitte nella societ
ai delinquenti non pu essere che un qualche bene da conseguire; altri

menti non vi sarebbe modo di giustificarle. Non il solo scopo che le


giustifichi; ma il fondamento razionale, con cui si dimostrano giuste,
necessariamente connesso col bene giuridico e morale che ne deriva.

Ora questo bene deve risguardare il delinquente, ovvero la societ?


Alcuni andarono tant'oltre da ritenere che il bene della societ sia l'uni

co scopo, anzi il principio che rende giuste le pene. Altri per l'opposto
vollero che nel punire si debba proporsi come fine unico, o almeno prin
cipale, il miglioramento del delinquente.

Ammessa quest'ultima sentenza, la pena di morte non pu mai essere


giusta, perch rende impossibile il miglioramento del colpevole, lascian

do unicamente luogo al pentimento nelle pure relazioni morali e nel


foro interno.

Ma le buone dottrine non sono mai agli estremi. Il delinquente pel

solo fatto del delitto non cessa di essere uomo, e quindi si devono ri
spettare i suoi fini quanto lo permette la sicurezza della societ, e come

lo esige la natura della pena, ch' sanzione della legge giuridica, e n

PARTE II.

291

gi sfogo di vendetta. Ma la societ non deve per questo dimenticare la


natura e lo scopo della pena.

La pena dev'essere una sofferenza. Lo scopo di essa difendere il


corpo sociale e i suoi membri dai delitti. L'emenda e il perfezionamento
morale del reo un altro fine, che certamente non dev'essere trascura

to, ma anzi associato al primo. Questa concordia fra i due scopi delle
pene sempre possibile, quando il modo della punizione non porge di
per s occasioni atte a corrompere vie pi il delinquente o a renderne
difficile il ravvedimento, e quando non sono trascurati i mezzi che diret
tamente influiscono ad emendarlo.

Ma limitare tutto il magistero penale ad una semplice pedagogia emen


datrice travisarne l'indole e il vero oggetto; menomarne l'efficacia
per la difesa della societ; dimenticare il principio su cui si fonda la

giustizia delle pene, indipendentemente dal loro fine.


Sarebbe ingiusto il tormentare incessantemente i condannati; ma
egualmente ingiusto l'impedire che sentissero il peso del castigo. Il se
condo sistema snatura la pena; il primo avvilisce e degrada l'uomo, lo
irrita, e pone ostacolo al suo ravvedimento.

Posto il principio, che la pena dev'essere commisurata all'intrinseca


gravit del delitto, impossibile negare la giustizia della pena di morte
per qualche gravissimo delitto, e senza dubio per l'omicidio propria
mente detto. Ove la si volesse sostenere eccessiva per questo gravissimo

crimine, verrebbe tolta ogni idea di proporzione fra il delitto e la pena;


ed invece di derivare la norma per commisurare la pena ai delitti da un
principio razionale, cio dalla stessa legge giuridica, si ricadrebbe nei
dubj e negli arbitri, che devono di necessit tener dietro ai giudizi va
ghi ed incerti, che hanno per base l'opinione e il sentire vario e mu
tabile.

La spaventosa profusione con che fu applicata la pena di morte nelle


leggi di tempi anche non molto lontani, spiega abbastanza il calore con

cui venne avversata. N pu dirsi che la disputa (a parte gli eccessi) sia
tornata inutile del tutto. La tendenza che si manifesta in molti Codici

criminali (1) a diminuire il numero dei delitti puniti colla morte, mostra

(1) I Codici che meritano particolare menzione sono la Parte I. del Codice pe
nale austriaco del 1803, semplice, conciso, moderato nelle pene, e che lascia facolt
al giudice di graduare la pena dentro certi confini, secondo la prevalenza delle cir
costanze mitiganti; assegnando eziandio una larga parte all'operoso pentimento,

292

SAGGIO ,

che il pensiero dei saggi legislatori, e dei dotti che sono chiamati a pro
porre i progetti dei Codici criminali, va sempre pi associandosi alle
vedute della scienza, che restringe grandemente il numero delle azioni

criminali, per le quali si possa riconoscere proporzionata e quindi giusta


la pena di morte.
Agli insegnamenti della teoria si aggiunsero quelli dell' esperienza,

che fecero aperti i tristi effetti delle pene troppo severe e sproporzionate
al delitto, le quali resero necessario un continuo ricorso al diritto di

grazia per mitigarle, convertendo per tal guisa in rimedio frequente


quello che dev'essere un provedimento riserbato a circostanze straordi
narie, che dai Codici non possono tutte prevedersi; ed inducendo forse

anco il sospetto nel popolo, che l'amministrazione della giustizia crimi


male non sia governata dall'imparzialit, ma dal favore e da secrete in
fluenze. Oltre a ci, le pene troppo severe fomentano le azioni criminose
pi gravi, dalle quali il delinquente spera pi sicura l'impunit; facen

do, per esempio, coll'uccisione del derubato scomparire un pericoloso


accusatore, che potrebbe dinotarlo alla publica autorit; ed inducono

una certa ripugnanza a denunziare i delitti e a far testimonianza: con


che vengono violate le prescrizioni e i provedimenti della legge, di

retti a scoprire i delitti; si d occasioni a false testimonianze; e quindi


per via indiretta si toglie l'efficacia alla pena, e si moltiplicano le azioni
criminose.

troppo noto che mai v'ebbero tanti fallimenti in Francia, quanto

nell'epoca in cui al fallimento doloso erano minacciate pene esorbitanti.


D'altra parte un cattivo partito quello di fare eccessivamente se
vera la legge, nell'ipotesi che quando verr il caso di applicarla vi si

onde esimere dall'incorrerla. Spetta a chi si occupa del commento delle leggi l'in

dicare in quali punti sia stato migliorato nella nuova redazione attivata col 1. Set
tembre del corrente anno 1852. Ma rispetto alla pena di morte vuol essere notato,
che se in questa nuova redazione fu minacciata ad alcuni maliziosi danneggiamenti
commessi sotto date circostanze di speciale gravit (SS85-88), analogamente a dis

posizioni che gi esistevano; venne per abolita in altri casi, come apparisce dal
confronto dei SS 52.53. 94. 148 a) del Codice 1803, Parte I., co SS 59. 108. 109.
167 a), b) della nuova redazione: sicch in sostanza fu realmente ancora pi limitato,

che nel precedente Codice, l'uso della pena di morte.


Vengono poi in ordine di data il Codice di Sassonia (1838), e quello del Wr
temberg (1839), il Codice di Brunswig e quello di Annover (1840); il Codice di

Baden, publicato nel 1845 ed attivato nel 1851. Intorno a ci da vedere l'Opera
del chiarissimo Mittermayer: La legislazione nel suo progresso.

PARTE II.

293

rimedier. La legge si riporterebbe all'uso frequente e quasi ordinario


del diritto di grazia; e chi ha il diritto di far grazia, secondo la varia
forma dei governi, potrebbe essere indolente, o riportarsi alla legge.
Ma poich nei Codici pi stimati e recenti si va diminuendo sempre
pi l'uso della pena di morte, non occorre discutere pi a lungo questo
punto, bastando notare a compimento delle cose brevemente ricordate,
che ai saggi legislatori concorrono a rendere omaggio di giusta lode non

solo i principi della giustizia, dell'umanit e della prudenza politica,


ma eziandio quelli generali del buon senso e della logica; poich se al

gravissimo delitto dell'omicidio propriamente detto, sia commesso col


ferro, col veleno, coll'appiccato incendio, o altrimenti, si trova propor
zionata la pena di morte, ci deriva dal rispetto che si vuole avere alla
vita dell'uomo, sommo fra tutti i diritti, leso dal delinquente calpestando
i sentimenti naturali, che sono il primo elemento della socievolezza.

Egli quindi sommamente giusto e ragionevole che tale rispetto alla


vita dell'uomo sia mantenuto anche dalla legge, la quale se risente l'in
fluenza dei costumi, influisce anch'essa reciprocamente sui costumi; e se

vuole inspirarli giusti, morali e mansueti, dev'essere anch'essa giusta,


morale, n eccessivamente severa (1).
r .
-

, , il

(1) Sebbene non entri nel piano di questo lavoro la ricerca dei principi, sui

quali dev'essere appoggiato un buon sistema di procedura criminale; tuttavolta


non dobbiamo passare in silenzio la conseguenza che discende spontanea dalle dot
trine che ci siamo industriati di esporre intorno ai fondamenti che giustificano

il

Diritto penale, e alle norme del suo pratico esercizio. Ed , che l'adottare quelle
instituzioni e forme di procedura, le quali, posposta ogni altra considerazione, val
gano pi sicuramente a tutelare l'innocenza; a prevenire giudizi erronei, parziali
od iniqui; a scoprire i veri colpevoli; a verificare le circostanze aggravanti o mi

tiganti l'azione punibile commessa; ad assicurare la difesa dell'imputato; a ren


dere solenni ed esemplari i criminali giudizi; in una parola, ad esercitare il ma
gistero penale colla rettitudine pi scrupolosa, e colla maggiore efficacia relativa
mente all'effetto cui deve tendere; un affare di rigorosa giustizia molto pi

grave senza confronto di quello che siano gli ordinamenti della procedura civile.
A questo proposito meritano d'essere notate le disposizioni delle leggi cano

niche, le quali da secoli stabilirono saggie e prudenti cautele processuali, antici


pando quelle che si predicano conquiste della filantropia e della scienza moderna.
Il Concilio Lateranense IV. dell'anno 1215, sotto il Pontificato di Innocenzo III.,

dopo di avere stabilito in generale nel Canone VIII. De inquisitionibus, che la ve

rit sia diligentemente investigata coram Ecclesiae senioribus, ed altre providenze,

29!,

SAGGIO

cos conchiude: Debet igitur esse praesens is, contra quem facienda est inquisitio,
misi se per contumaciam absentaverit; et exponenda sunt ei illa capitula, de quibus
fuerit inquirendum, ut facultatem habeat defendendi seipsum. Et non solum dicta,
sed etiam momina ipsa testium sunt ei, ut quid et a quo sit dictum appareat, publi
canda: mec mom ezceptiones et replicationes legitimae (graece, legitime) admitten
dae, me per suppressionem nominum, infamamdi; per eaeceptionum vero exclusionem,
deponendi falsum audaciam praebeatur (Labb, Collect. Concil. Tom. XIII., edit.
veneta, col. 939-940). Tanto sono vani i giudizj da taluno portati intorno alla sini
stra influenza del Diritto canonico sulla procedura criminale!

PARTE II.

295

C 0NCI, USIONE

Convinti del

radicale difetto di ogni teoria che non istabilisce il di


ritto di punire immediatamente sulla legge naturale giuridica, ci siamo
studiati di derivarlo unicamente da questa fonte, mostrando come anche
questa legge dovesse avere una sanzione sua propria, distinta da quella

della legge morale; a s analoga, e recata in atto nella vita presente e


nello stato sociale dal supremo potere.

Il principio costitutivo del diritto penale, riposto perci nella retri


buzione giuridica, mentre ne determinava la essenza e ne segnava l'ori
gine, ci serviva pure a giustificare l'uso delle pene, considerate nella
loro natura di mezzi rivolti al fine della difesa della societ e de suoi

membri dal delitto; e a tracciare le norme che devono regolare la loro


applicazione ai delitti, nella giusta proporzione.
Ma la teoria che abbiamo tentato di stabilire appoggiata sovra una
base cos solida, e sorretta da argomenti cos validi e chiaramente esposti
da non temere serie obbiezioni?
Ad altri il giudizio. Quanto a noi, un profondo convincimento ci spin

se a metterci per quest'arduo sentiero; poich alla fine il dimostrare la


giustizia intrinseca del magistero penale nella societ o possibile, o
non lo .

Che dopo tanti sforzi debbasi ritenere inetta la mente umana a dimo
strare questa verit, sentita dalla coscienza di tutta intera l'umanit,
senza eccezioni, tesi cos strana, che nessun uomo assennato vorrebbe
certamente difendere.

Ma se tale dimostrazione dee ritenersi possibile, non si pu tentare di


conseguirla che per due vie.

O partendo dall'idea che le pene siano un freno diretto a trattenere


la volont eccitata al delitto dalla passione criminosa, e quindi a difen
dere la societ e i suoi membri dagli effetti dell'intemperanza umana relazione col futuro.

296

SAGGIO

0 partendo dall'idea che le pene siano da applicarsi come sanzione


della violata giustizia relazione col passato.

Seguendo la prima strada, si prendono le mosse dall'effetto che si at


tende dalla minaccia delle pene, prescindendo dall'essenza loro; seguen
do la seconda si guarda all'essenza, e si prescinde dall'effetto.
Corre per fra l'un metodo e l'altro questa grande differenza: che

col secondo giustificandosi la pena intrinsecamente, l'effetto che ne con


segue non pregiudica punto la dimostrazione, anzi la corrobora; invece
col primo metodo non sciolta la questione principale della giustizia
intrinseca delle pene, e quindi rimane senza base il sistema.

Posti noi a questo bivio, ci attenemmo al secondo partito, e abbiamo


cercato di mostrare la giustizia delle pene considerandole quale sanzione

della legge giuridica; pur tuttavia riconoscendo che l'effetto, non il


principio giustificante la pena, si la difesa.
E ci confermava nel proposito nostro il vedere che il metodo opposto

conduceva direttamente a ridurre tutta l'economia penale ad un calcolo


di tornaconto. Bentham dice d'avere udito l'asserto, che le regole di
proporzione in un Codice penale sono inutili, perch suppongono ch'en
tri nelle passioni uno spirito di calcolo che non vi punto. Egli combatte

questo pensamento, lo dichiara assolutamente falso, e sostiene che negli


affari importanti tutti gli uomini calcolano (1). Nel fatto per la propor
zione fra i delitti e le pene non richiesta dalle ragioni del calcolo,
ma da quelle della giustizia; ed vero che i delinquenti talvolta calco

lano, ma non vero sempre.


Senza andar a cercare esempi nelle antiche cause celebri, potremmo
addurre casi avvenuti a memoria nostra di delinquenti che commisero il
delitto freddamente, sapendo e prevedendo la pena che li attendeva; ed
uno che sino al momento estremo protestava che avrebbe nuovamente
commesso l'assassinio, se non lo avesse gi consumato.

Ma fosse pur vero che la pena venisse posta sempre sulla bilancia da
chi medita il delitto, non ne seguirebbe perci la verit di una teoria
che sopra tale influenza appoggiasse la giustizia delle pene; poich si

dovrebbe sempre dimostrare su qual titolo si fondi il diritto di minac


ciarle e d'

infliggerle.

Anche prescindendo per un momento da questa considerazione, che


abbiamo gi sviluppata, ridotta la pena un elemento di calcolo, ne viene
(1) Thorie des peines. Liv. I. Chap. V.

PARTE II.

207

la conseguenza che tutte le pene, compresa la morte, o sono troppo leg


giere, o sono inutili; perch, ad onta delle pene, si commettono delitti.

Ove si parta dall'idea, che i nuovi delitti dimostrano troppo leggiere


le pene fino allora minacciate, converr accrescerle sempre pi ad ogni
nuovo fatto criminoso che accada; e con questo progressivo aumento del

la gravit delle pene giungere ad eccessi ripugnanti, non ch'altro, al

pi volgare buon senso. Ma poich, ad onta della pena minacciata, per


grave che sia, si commettono delitti, anzi tanto pi gravemente si de
linque, quanto pi sono esorbitanti le pene, converr dichiararle ineffi
caci, ed abolire Codici e Tribunali.

Queste conseguenze troppo ovvie del sistema che tende a stabilire la


giustizia delle pene sul loro effetto ed azione supposta costante ed uni
versale, quand'anche fosse rispettato abbastanza il libero arbitrio, ci
che per in cos fatta teoria non troppo facile, quando venga portata
alle sue ultime illazioni; queste conseguenze ci spaventarono, e ci per
suasero ch'era d'uopo cercare un'altra ancora di salvezza ai principi
del jus criminale, un altro fondamento alla sua teoria. Ed ecco la ragione
del tentativo che presentiamo senza pretensioni, e col solo desiderio che
le nostre idee, se sono riconosciute giuste, non rimangano infeconde;

poich la teoria del diritto penale ha troppa influenza non solo sulle le
gislazioni, ma anche sul pratico ufficio del giudice.
Il rispetto dovuto all'umana dignit, i diritti e i doveri del supremo

potere, le ragioni della morale, della giustizia e della prudenza, la si


curezza dell'individuo e della societ, e fino la prosperit materiale, pos
sono egualmente essere compromessi da una falsa dottrina intorno al di
ritto criminale, e da una legge penale mal fatta o male applicata.
Ben a ragione quindi gli Stati meglio inciviliti danno opera a miglio
rare le leggi, e a diffondere l'istruzione anche e principalmente in que

sto ramo delle giuridiche discipline, e a provedere i Tribunali di giudici


che all'integrit del carattere uniscano una mente nudrita di lunghi studi
sull'umana natura, sui fondamenti di quella tremenda potest che sono
chiamati ad esercitare, per delegazione del potere supremo, sui principi
della scienza e sulle leggi particolari che devono applicare.

Nobile e grande ufficio quello del giudice, specialmente criminale;


ma formidabile ministero, al quale non pu essere bastante una super

ficiale istruzione, un po' di pratica e di buon senso. Che se taluno pen


sasse essere queste qualit una guida sicura per fare, intendere ed appli
care le leggi, e sopratutto le criminali, lo pregheremmo di richiamare un
20

298

SAGGIO

tratto la storia de'tempi trascorsi; e di riflettere che se noi giudichiamo,


e talvolta troppo severamente, i nostri antenati, i quali una certa istru
zione, pratica e buon senso pure li avevano; una posterit di noi pi
illuminata ci chiamer al suo tribunale: che in questa materia non si
tratta soltanto di qualche pezzo di terreno o di qualche centinaio di
lire, che tuttavia giusto di preservare; ma si tratta della vita, del
l'onore, della libert, della sicurezza del nostri simili: e in fine, che v'

un Giudice supremo, al quale un giorno dovranno render conto anche


delle loro leggi e delle loro sentenze i legislatori e i giudici della terra.

FINE

INDICE
Asm e preliminare dell'Autore

Pag.

INTRoduzioNE premessa a quella parte del presente lavoro che va unita alla
Collezione delle Opere di G. D. Romagnosi. . . . . . . .

. .

. .

. .

VII

PARTE PRIMA. RICERCHE INToRNo AI PRINCIPI DEL DIRITTo


FILOSOFICO E ALLE SUE RELAZIONI COLLA MORALE

))

Caro I. Possibilit e necessit di determinare l'idea precisa del di


ritto. Dottrine diverse. Cnone fondamentale

CAro II. Dei rapporti. Dell'ordine, dei fini e dei mezzi in ge


nerale .

CAPo III. Dei fini dell'uomo nell'ordine morale. Il bene. Fine

supremo. Legge morale. Ordine etico .

. . .

13

Caro IV. Altri fini. Socialit. - Ordine giuridico. Attivit.


Ordine del diritto. Nesso dei tre ordini: etico, giuridico e del
diritto .

17

CAPo V. Moralit. - Giustizia. - Diritto. Loro relazioni. Li


mite e vera idea del diritto

21

CAeo VI. Delle relazioni fra diritto e dovere in particolare . .


Capo VII. Molteplici rapporti dell'uomo. Il Diritto e la Socie

41

t. Unit del Diritto

49

CAPo VIII. La Societ e lo Stato. - Osservazioni sulla distinzione

del diritto di societ in generico e speciale. - Condizioni pe'l retto


ordinamento della societ .

58

CAPo IX. Dei diritti nascenti dai rapporti sociali in particolare, pa


ragonati co'diritti individuali .

64

CAro X. Dell'utilit in relazione alla morale, alla giustizia, al di


ritto .

73

CAPo XI. Altre considerazioni sull'utile. - Ordine economico, e sua


connessione coll'ordine giuridico . . . . . . . . .
CAPo XII. La propriet e la libera concorrenza. Nuova conferma

89

della connessione fra l'ordine giuridico e l'economico. Prescri


zione e usucapione .

95

Nota sulla prescrizione e usucapione secondo il Diritto roma


no, il Diritto canonico e i Codici civili moderni .

118

300

INDICE

CAro XIII. La famiglia

. .

. . .

CAPo XIV. La eredit .

125

Pag.
.

138

Nota sopra gli eredi necessari e la porzione legittima secondo


il Diritto romano e i Codici moderni.

153

20

Nota sopra la successione ab intestato secondo le dette legis


lazioni

157

20

Nota sopra l'adozione e la successione degli adottivi, ec., secon


do le accennate legislazioni.

162

CAPo XV. Della coazione e della sanzione.

167

X0

PARTE SECONDA. TEoRIA DEL DIRITTo PENALE FoNDATA


SULLA
ESSO

SANZIONE
-

GIURIDICA

COMIE
-

PRINCIPIO

COSTITUTIVO

DI

179

DiscoRso preliminare sopra i sistemi intorno al diritto penale e la ragione


di questa seconda Parte . . . .
o
NoTA I. Sopra il componimento pecuniario pe' i delitti. .
Nota II. Sulla condizione comparativa degli operaj, dei poveri
sovvenuti e dei delinquenti
CAro I. Ad ogni legge necessaria una sanzione .

181
198

No

201

203

CAro II. Della sanzione della legge del dovere giuridico in parti
colare .

204

CAPo III. Riflessioni sui caratteri della sanzione della legge giuri
dica in confronto di quella della legge etica. Conferma delle cose
discorse nel Capo precedente. . . . . . . . . . .

207

CAPo IV. Idea delle pene e del diritto di punire. Altre conside
razioni sulla sanzione giuridica specialmente penale. A chi
spetti applicarla. . . . . . . . . . . . . . .
CAPo V. Capitali ricerche sul diritto penale. Sua definizione.

209
21 2

CAPo VI. Differenza tra il punire, ed altri atti pi o meno analoghi


o

214

CAPo VII. Differenza fra la esposta dottrina della sanzione giuridica


ed altre teorie sul diritto penale. . .
o

216

a questo

CAPo VIII. Osservazioni sulla teoria della difesa indiretta

218

CAPo IX. Carattere di retribuzione riconosciuto nelle pene dagli


scrittori

22

.
.
.
.
.

CAPo X. Delle azioni punibili in generale.


CAPo XI. Diritti, doveri, violazioni: loro specie relativamente alla
legge giuridica . . . . . . . . . . . . . . .

CAPo XII. Delle lesioni di diritto relativamente a chi le commette,

e della loro punibilit in particolare

. . .

CApo XIII. ldea concreta della sanzione giuridica. Limiti del

l'uso di essa. - Conseguente criterio peristabilire a quali lesioni

23

INDICE

301

si debba applicarla. Esercizio dell'azione penale d'ufficio, o


sopra istanza della parte . . . . . . . . . . . . Pag.
Caro XIV. Condizioni soggettive per l'imputabilit delle lesioni pu
nibili. Indole positiva delle lesioni remote.

CAPo XV. Delle varie disposizioni dell'animo, colle quali si possono


trasgredire le leggi, e in particolare della prava intenzione, condi
zione soggettiva propria delle lesioni immediate . . . . .
CAPo XVI. Considerazioni particolari sulla colpa, e suoi gradi.
Condizione soggettiva propria delle lesioni mediate e remote .
Caro XVII. Della proporzione fra i delitti e le pene, e della pena
di morte. .
Conclusione . . .

.
.

.
.

.
.

.
.

.
.

.
.

.
.

.
.

.
.

.
.

. .
. .

.
.

. .
. .

.
.

244

252

257

267

274
295

303

C O R R EZIONI

Pag. 1x. lin. 15. a quel poco


54. in fine (Capi VIII. e IX.)
))

124. lin. 24.

yo

185. in nota (1) pag. 197


207. lin. 7. prima dell'ultima. Essere
5. prima dell'ultima. Quegli

2)
))
b)

difettosi

221. 28-29. l'ordine naturale in so

leggi a quello
(Capi XI e XII.) (in alcune copie)
difettose

pag. 198
CSSere

quegli
l'ordine naturale, da cui voluta

ciet, da cui voluta la

la conservazione e il benessere

conservazione e il ben

dell'uomo in societ,

essere dell'uomo,

--

Solnsteiner

.
-

i.

in -

era

a-

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