Mario Smargiassi
Com' noto, la questione dei limiti del sapere caratterizza l'intera articolazione
concettuale della Critica della ragion pura e costituisce il centro argomentativo della
critica di Kant alla metafisica tradizionale. Il nesso che sussiste in Kant tra i limiti
della conoscenza teoretica e la possibilit della vita morale dell'uomo stato spesso
rilevato e discusso; il primato della ragion pratica come espressione di un
orientamento filosofico di fondo e di una metafisica rinnovata nelle sue sorgenti di
validit, diventato una sorta di luogo comune dell'ermeneutica kantiana. Meno
chiaro ci sembra, tuttavia, il significato che si deve attribuire a questa trasformazione
pratica dei concetti fondamentali della metafisica (Dio, immortalit, libert), nel
passaggio dalla Critica della ragion pura alla Critica della ragion pratica e, pi
specificamente, dalle idee trascendentali teoretiche ai postulati della ragion pratica. Se
il passaggio dalla sfera teoretica a quella pratica non pu essere interpretato in senso
stretto come un superamento dei limiti posti chiaramente da Kant nella Critica
della ragion pura, il punto di vista della finitezza umana risulta confermato anche sul
terreno della ragion pratica, ed appare in relazione fondativa con la stessa dignit
dell'uomo come essere morale. Qui possiamo ovviamente evidenziare soltanto i
contorni essenziali della problematica, attraverso il confronto con i testi kantiani che
maggiormente chiariscono la natura del nesso indicato; a considerazioni generali
sull'origine dell'esigenza metafisica nell'interna dinamica della ragione umana e sulla
dissociazione dell'ulteriorit noumenica dal sapere, seguir un'analisi della dottrina
dei postulati come ri-configurazione (non teoretica) dei concetti fondamentali della
metafisica, e una discussione critica del celebre primato. Dopo aver delineato
l'intreccio problematico tra legge, libert e fede morale, si cercher di trarne alcune
conclusioni sulla metafisica di Kant, che aprono ad una filosofia positiva del
finito e meritano tuttora di essere elaborate ed approfondite.
Questo celebre incipit esprime tutta l'ambiguit della posizione di Kant nei confronti
della metafisica, che si puntualmente riflessa nell'ermeneutica kantiana dando luogo
a valutazioni molto contrastanti. Se Kant ha potuto essere considerato non del tutto a
torto un distruttore della metafisica, che ne avrebbe minato le stesse basi cognitive,
mostrando l'impossibilit di un qualunque sapere oltrepassante la sfera positiva dei
fenomeni, dell'esperienza, per altro verso l'insistenza sulla metafisica come destino
della ragione umana, dunque come struttura profonda e ineliminabile dell'uomo, ha
alimentato le pi diverse correnti idealistiche e spiritualistiche. Ma anzich limitarci a
scorgere nell'affermazione kantiana i germi di sviluppo del pensiero metafisico (o
antimetafisico) successivo, ci pare pi produttivo osservare come qui sia in atto un
tentativo di ridefinire altrimenti la questione della metafisica; pi precisamente,
Kant descrive la metafisica come problema e paradosso.
Innanzitutto la metafisica emerge nella sua dimensione autentica e originaria di
problema. Dire infatti che la metafisica un destino cui la ragione umana non pu
sottrarsi, perch spinta da un'esigenza fondamentale della sua natura, equivale ad
affermare che nel movimento stesso della ragione umana non pu non affacciarsi, ad
un certo livello dell'indagine, la domanda metafisica, e gli oggetti del tutto peculiari
che a tale domanda corrispondono (nel caso di Kant si tratta, com' noto, delle idee
Com' noto, anche sulla base di considerazioni di tipo architettonico sulle quali si
molto discusso, Kant ritiene che le idee della ragione siano soltanto di tre specie, e
precisamente si tratta qui di tre concetti di totalit assoluta (Dio, anima, mondo),[9]
che nella tradizione prekantiana costituivano gli oggetti della teologia, psicologia,
cosmologia razionali come rami della metafisica speciale:
Tutti i concetti puri, in generale, hanno a che fare con l'unit sintetica delle rappresentazioni,
a differenza dei concetti della ragion pura (idee trascendentali) i quali hanno a che fare con
l'unit sintetica incondizionata di tutte le condizioni in generale. Ne viene che tutte le idee
trascendentali si possono ricondurre a tre classi: la prima contiene l'unit assoluta
(incondizionata) del soggetto pensante [idea dell'anima]; la seconda contiene l'unit
assoluta della serie delle condizioni del fenomeno [idea del mondo]; la terza contiene l'unit
assoluta della condizione di tutti gli oggetti del pensiero in generale [idea di Dio].[10]
Il dinamismo unificante del pensiero non pu non articolarsi secondo questa triplice
direzione intenzionale, non pu non proiettare un'unit assoluta (incondizionata) a
fondamento rispettivamente dell'io come soggetto pensante, della serie dei fenomeni
esterni, e di tutti gli oggetti pensabili in generale. Dio, anima e mondo, cos concepiti,
non sono perci mere congiunture della ragione umana la cui genesi e funzionalit
possa essere chiarita su un piano prevalentemente storico-culturale, come se fosse
davvero ipotizzabile un futuro in cui la ragione potrebbe prescinderne del tutto senza
recare danno alla propria esigenza di unit. Al contrario, per Kant, una
giustificazione delle idee trascendentali della ragione non possibile mostrando che
di fatto gli uomini hanno pensato e pensano entit metafisiche come Dio, anima e
mondo, ma occorre invece argomentare che la ragione stessa ha bisogno, ed avr
sempre bisogno, di queste idee per pensare il proprio compimento sistematico. La
ragione si prospetta queste idee, le proietta per cos dire nel suo campo visivo,
per poter dare a se stessa la struttura del sistema. Se dobbiamo pensare
l'incondizionato (nelle tre idee trascendentali che abbiamo visto), perch
l'incondizionato, l'assoluto il compimento della ragione. Questo concetto bene
espresso ne I progressi della metafisica, un breve saggio del 1793 in cui Kant scrive:
Le condizioni sintetiche (principia) della possibilit delle cose, cio i loro principi di
determinazione (principia essendi), qui sono ricercate precisamente nella totalit della serie
ascendente in cui sono subordinate tra loro, a partire dal condizionato (dai principiatis), per
giungere all'incondizionato (principium quod non est principiatum). La ragione richiede ci
per compiersi in se stessa.[11]
teoretica, quello preso in considerazione nella Critica della ragion pura, non ci pare
azzardato affermare che Kant attribuisce alla metafisica una natura paradossale per
cui essa rappresenta, per la ragione umana, una necessit impossibile. Abbiamo gi
detto che la ragione umana si pone problemi che non pu risolvere con le sue forze e
dei quali, tuttavia, non pu nemmeno sbarazzarsi. L'ambiguit inizia a dissiparsi non
appena distinguiamo, con Kant, la metafisica come esigenza dalla metafisica come
sapere: correlativamente, la metafisica appare necessaria e naturale come esigenza,
ma impossibile e inconfigurabile come sapere. Qui naturalmente stiamo parlando
della metafisica in quanto dottrina delle idee della ragione, e sotto questo aspetto Kant
vede aprirsi una frattura incolmabile tra l'esigenza della ragione di pervenire
all'incondizionato attraverso le idee trascendentali e la pretesa di esprimere
l'incondizionato stesso nella forma del giudizio determinante (e quindi della scienza
vera e propria).
Le motivazioni vanno ricercate negli asserti di base della teoria della conoscenza di
Kant: il conoscere (umano) si muove sempre nell'ambito di condizioni che ne
definiscono la possibilit e l'estensione, e tra di esse figura l'intuizione spaziotemporale come unica garanzia di applicabilit delle forme categoriali in senso
cognitivo ed epistemico. La critica kantiana della metafisica poggia su una concezione
interamente positiva (e tuttavia non dogmatica) della facolt sensibile dell'uomo; l'io
umano si distingue da un problematico intelletto infinito proprio in quanto la
sensibilit per lui condizione della conoscenza.[12] Dire che la conoscenza umana
ricettiva e dunque finita, non conoscenza divina, per Kant non significa tanto che la
vera realt della cose ci si sottrae, bens, pi positivamente, che tutto ci che per noi
pu valere come realt (conosciuta) deve sempre avere un riferimento, diretto o
indiretto, alla pura struttura della sensibilit. Quest'ultima non uno schermo che ci
separa dalle cose in s; al contrario, come Heidegger ha acutamente rilevato nel suo
Kantbuch, spazio e tempo costituiscono la dimensione di apertura dell'io all'interno
della quale soltanto qualcosa pu apparire come dato ed offrirsi alla
categorizzazione, alla determinazione conoscitiva.[13] Va allora da s che
dell'incondizionato espresso nelle idee della ragione non pu esserci vera
conoscenza, mancando quel referente sensibile che solo si adegua alle possibilit di un
essere razionale finito.
Il nodo della questione nel singolare statuto dell'idea trascendentale, che rimane
polo o termine dell'intenzionalit della ragione pur non essendo propriamente un
oggetto. Kant sottolinea, nelle pagine della Dialettica trascendentale, come l'idea sia
incongruente rispetto a qualunque fenomeno, eppure la tendenza ad oggettivarla in
un contenuto di cui disporre direttamente nel conoscere per noi quasi irresisistibile,
perch radicata in una illusione naturale. E come non possibile far s che il mare in
lontananza non appaia pi alto rispetto all'osservatore che si trova sulla riva, anche
dopo che si svelata la radice dell'illusione, la parvenza (Schein) di un uso
speculativo delle idee non pu essere ridotta ad un banale errore logico.[14] Scrive
infatti Kant:
Esiste dunque una dialettica naturale e inevitabile della ragione pura; non dunque una
dialettica in cui si irretisca, per incompetenza, un improvvisatore, o che sia il frutto delle
artificiose elucubrazioni di un sofista per trarre in inganno le persone di buon senso; si tratta
invece di una dialettica inscindibilmente connessa con l'umana ragione, sicch, anche dopo il
chiarimento della sua infondatezza, non cesser per questo di sedurre la nostra ragione,
quasi una fenomenologia in nuce della ragione umana, che si carica di inequivocabili
connotazioni psicologiche, antropologiche ed esistenziali:
Al punto in cui siamo giunti abbiamo non solo percorso il territorio dell'intelletto puro,
considerandone accuratamente ogni parte, ma l'abbiamo altres misurato, assegnando il suo
posto a ogni cosa. Ma questo territorio un'isola che la natura ha racchiuso in confini
immutabili. il territorio della verit (nome seducente), circondata da un ampio e
tempestoso oceano, in cui ha la sua sede pi propria la parvenza, dove innumerevoli banchi
di nebbia e ghiacci, in corso di liquefazione, creano ad ogni istante l'illusione di nuove terre e,
generando sempre nuove ingannevoli speranze nel navigante che si aggira avido di nuove
scoperte, lo sviano in avventurose imprese che non potr n condurre a buon fine n
abbandonare una volta per tutte.[23]
L'ulteriorit il campo aperto della metafisica, l'oceano verso cui la ragione spinta da
un impulso naturale, come se essa non potesse appagarsi di quell'isola in cui la
conoscenza scientifica giustificata e garantita; come se essa presentisse che l'oceano
l'autentico fondamento da cui l'isola affiora come da un orizzonte pi vasto e pi
mobile. Ma, come Kant ha mostrato con estrema consapevolezza, questo fondamento,
se vi , in realt un abisso, una profondit insondabile, un orlo su cui il pensiero
teoretico si affaccia senza poter determinare alcunch. Oltre l'uso regolativo in cui le
idee trascendentali fecondano l'esperienza prescrivendo all'intelletto la massima
dell'unit sistematica, e anche al di l di un'accezione pi generale del termine
metafisica per cui essa viene semplicemente a designare una gamma di principi a
priori di un dominio ontologico assegnato (metafisica della natura, metafisica dei
costumi), la metafisica in Kant ci rimanda a questo protendersi della ragione
sull'incondizionato che nella pretesa di dar luogo a un vero sapere costituisce la sede
naturale e inevitabile dell'illusione. Il bisogno soggettivo di ammettere degli esseri
intelligibili, dei noumeni, cui gli stessi fenomeni nella loro condizionatezza
problematicamente rinviano e nei quali soltanto la ragione troverebbe quella
soddisfazione completa e definitiva che non pu mai sperare di ottenere percorrendo il
cammino dell'esperienza, non ci autorizza a formulare alcuna affermazione oggettiva e
vincolante sull'esistenza e la natura di questi esseri. Se dunque, per Kant, dobbiamo
certamente pensare un'anima immortale, un mondo intelligibile ed un essere
supremo, altrettanto vero che questi esseri intelligibili noi non possiamo
assolutamente conoscerli in modo determinato, cio cos come sono in s.[24]
La metafora kantiana dell'isola e dell'oceano istruttiva sotto diversi aspetti. In essa si
rispecchia un'immagine della ragione, in cui in primo piano l'esigenza di
circoscrivere il sapere entro confini ben definiti, ma in cui l'oceano d la dimensione
di come le questioni che oltrepassano i limiti della conoscenza non siano per questo
sprovviste di senso: la regione del senso molto pi vasta di quella del sapere. D'altra
parte, se ci impedisce di considerare gli esseri intelligibili della metafisica come
invenzioni arbitrarie da cui la ragione umana non pu ricavare nulla di positivo, non
bisogna neppure passare all'estremo opposto, pretendendo che vi sia realmente sapere
l dove possibile per noi scorgere solo del senso. Tra l'altro, raffigurando il campo del
sovrasensibile come un oceano vasto e tempestoso, punteggiato di presenze effimere
che continuamente ci promettono grandi scoperte, Kant intende metterci in guardia
dai pericoli di una speculazione che avventurosamente si sporge oltre il limite di ci
che possibile sapere, per invitarci invece ad apprezzare il contributo positivo che si
pu trarre da una riflessione sul limite come tale. Il non-sapere, come impossibilit di
conoscere l'ulteriorit metafisica, nella sua rigorosa giustificazione diventa un saperedi-non-sapere, l'assunzione ben fondata dei limiti strutturali della conoscenza umana
si converte in conoscenza del limite. Scrive infatti Kant:
La limitazione del campo dell'esperienza per via di qualche cosa, che rimane sotto ogni altro
rispetto ignoto, pure una conoscenza che rimane alla ragione da questo punto di vista; per
la quale essa non rimane chiusa entro il campo del sensibile e nemmeno pu vagare fuori di
esso, ma come si conviene alla conoscenza d'un limite, si restringe al rapporto di ci che
fuori con ci che dentro il limite stesso.[25]
dunque ragionevole ricercare uno scopo, una precisa finalit, anche nell'inevitabile
dialettica che a pi riprese ci rende vittime dell'illusione e che la critica filosofica deve
sempre di nuovo smascherare. Siamo almeno autorizzati a compiere questa ricerca,
poich per Kant impensabile che la ragione come tale, e non solo il suo uso
improprio, sia all'origine di parvenze ed inganni, o addirittura persegua l'illusione
come suo obiettivo principale (possiamo qui accennare al genio maligno di
Descartes, ma anche alla volont di potenza di Nietzsche, come figure esemplari di
una perversit o inversione della ragione alle quali il pensiero kantiano rimane
sostanzialmente estraneo). In tale contesto, lo scopo che si deve cogliere dietro
l'illusione del sapere metafisico non si esaurisce nella possibilit di trasformare le idee
trascendentali da presunti organi della conoscenza dell'assoluto in legittimi strumenti
metodologici per l'unificazione e il progresso delle scienze empiriche; certo, la stessa
conoscenza scientifica deve servirsi delle idee come schemi operativi in cui si
annuncia chiaramente il compito dell'unit sistematica, ma Kant ritiene che la
tendenza, insita nella nostra ragione, alla formazione di concetti trascendenti abbia
una radice pi profonda che non la pura esigenza della connessione degli elementi
dell'esperienza in un sistema. L'oltrepassamento dell'esperienza che la ragione ha di
mira nella metafisica non viene effettuato in direzione del sapere, ma nella prospettiva
dell'etica:
Quando io considero tutte le idee trascendentali, il cui complesso costituisce il vero e proprio
compito della ragion pura naturale, dal quale essa tratta ad abbandonare il semplice studio
della natura, a trascendere ogni possibile esperienza ed a costituire in questo suo sforzo
quella cosa che (sia essa vero sapere o sofisticheria) dicesi metafisica, io credo di vedere che
questa disposizione naturale miri a liberare la nostra ragione dai vincoli dell'esperienza e dai
confini della semplice scienza della natura in modo che essa veda almeno dinanzi a s aperto
un campo che contiene soltanto oggetti per l'intelletto puro, trascendenti ogni facolt
sensibile: non con l'intenzione invero che noi ci occupiamo speculativamente di essi (perch
non troviamo ivi terreno sul quale possiamo prender piede), ma perch i principi pratici, se
non trovassero dinanzi a s un campo aperto per le loro aspettative e speranze, non
potrebbero conquistarsi quella universalit di cui la ragione sotto l'aspetto morale ha
assolutamente bisogno.[28]
L'esistenza di Dio, l'immortalit dell'anima, la libert del volere, che non possono
essere oggetti di un sapere teoretico qualsiasi, diventano per Kant accessibili nella
dimensione della vita morale dell'uomo, attraverso l'analisi delle sue specifiche
esigenze. qui che si inserisce la nota dottrina kantiana del primato della ragion
pratica, secondo la quale la ragione umana obbligata ad assumere come valide dal
punto di vista pratico quelle stesse proposizioni che dal punto di vista speculativo
rimanevano per lei del tutto problematiche e indecidibili. Se infatti non ci dato
sapere se Dio esiste o se c' una vita futura o se la volont libera, e dunque le
tre proposizioni non hanno valore oggettivo, non possono essere n affermate n
negate perch oltrepassano il campo dell'esperienza possibile, Kant ritiene tuttavia che
in una prospettiva puramente morale non possiamo fare a meno di dare ad esse il
nostro assenso, in quanto indissolubilmente intrecciate con le condizioni della ricerca
del sommo bene. Il non-sapere teoretico, l'impossibilit della metafisica come scienza
delle realt intelligibili, manifesta la sua pi profonda efficacia e, si potrebbe dire,
positiva risoluzione in un ambito in cui non pi in primo piano il conoscere, ma
l'agire, non la determinazione categoriale dell'oggetto, ma la vita attiva del soggetto.
solo spostando lo sguardo alla ragione pratica che quelle stesse istanze generate dalla
ragione teoretica, destinate a restare prive di valore conoscitivo, rivelano il loro
significato pi concreto. Si pu qui parlare non tanto di un'etica come filosofia prima,
quanto di una radice metafisica (sia pure negativa: per la ragione umana,
l'ulteriorit si d come non-sapere) che onticamente condiziona, rendendola possibile,
l'etica, la vita morale dell'uomo, la ricerca del bene. Pi precisamente, come
cercheremo di mostrare attraverso qualche riferimento incrociato al testo kantiano, il
non-sapere metafisico (nella sua intenzionalit concreta: come non-sapere di Dio,
immortalit, libert) appare strutturato in una connessione originaria con la praticit
della ragione, o almeno con la possibilit di un impegno effettivo dell'uomo nel campo
morale. Ci che importa ora sottolineare che una soddisfazione totale delle pretese
speculative della ragione non solo risulta impossibile per interni vincoli cui
sottostanno necessariamente le funzioni del giudizio teoretico, ma anche
indesiderabile nella prospettiva della ragion pratica e delle sue esigenze peculiari; se
infatti si potesse mostrare con sufficiente chiarezza che la conoscenza oggettiva delle
realt metafisiche (almeno di alcune di esse) intaccherebbe l'autonomia della sfera
pratica, cos fortemente rivendicata da Kant, allora occorrerebbe concludere che
l'oscurit che avvolge il soprasensibile per la ragione teoretica pur sempre quella
luce che, per la ragione pratica, illumina la destinazione e la dignit dell'uomo,
aprendo l'orizzonte della finitezza e della responsabilit. Ma questo passaggio potr
delinearsi in modo convincente solo dopo un'analisi delle nozioni kantiane del sommo
bene e dei postulati della ragion pratica, che ripresentano in una nuova forma di
senso le idee della metafisica.
Com' noto, nella Critica della ragion pratica la dottrina del sommo bene istituisce
una connessione di principio tra i concetti di virt e felicit che, almeno all'inizio, non
poteva affatto dedursi da un'analisi della pura forma imperativa della legge, la quale
comanda incondizionatamente e senza riguardo per le conseguenze felici o infelici che
attendono il soggetto agente:
La legge morale l'unico motivo determinante della volont pura. Ma poich la prima
meramente formale (ossia concerne solo la forma della massima, che esige essere
universalmente legislatrice), fa perci astrazione, in quanto motivo determinante, da ogni
materia, e quindi da ogni oggetto del volere.[30]
D'altra parte, l'adeguazione della volont alla legge non esaurisce per Kant il compito
della soggettivit nella prospettiva morale, e il cosiddetto rigorismo non poi cos
radicale da espungere totalmente il riferimento alla felicit nella costruzione
concettuale del discorso etico. Il bene supremo non il bene sommo, la virt come
adesione rispettosa e disinteressata alla legge costituisce s il vertice e il fondamento,
ma non ancora la totalit e la concretezza della vita morale dell'uomo.[31]
L'aspirazione alla felicit rimane legittima in un essere razionale finito, quale l'uomo,
la cui natura sensibile e incarnata non pu essere messa semplicemente tra parentesi,
e anzi rappresenta in qualche modo il terreno concreto con cui deve sempre misurarsi,
criticamente, una filosofia della prassi; l'importante che la sensibilit non pretenda
di sostituirsi alla legge come movente dell'azione, e che quindi la felicit non diventi
essa stessa imperativa. Ma nelle forme che non contrastano in maniera
inequivocabile con il rispetto della legge morale, inquinando la purezza dell'intenzione
e quindi le radici stesse della moralit, l'esigenza (soggettiva e intersoggettiva) della
felicit non solo non viene astrattamente negata da Kant, bens egli ritiene che sia
addirittura doveroso, per un essere razionale finito, promuovere il pi possibile
l'accordo, la corretta proporzione tra virt e felicit, in se stesso e negli altri uomini.
[32]
Ci, ed qui che il rigorismo kantiano mantiene intatta la sua fisionomia, non significa
che si debba contemperare il diritto dell'individuo alla felicit con il dovere del
rispetto della legge morale, perch la legge continua a rappresentare (almeno nelle
intenzioni di Kant) l'unico tribunale cui deve affidarsi la volont dell'uomo per potersi
configurare come volont etica, come volont buona. Non solo una qualunque
simmetria tra virt e felicit come moventi dell'attivit umana resa impossibile
dall'assolutezza dell'ingiunzione etica, ma questa assolutezza, per il suo stesso senso,
ci che alla creatura [all'essere finito] pu spettare [...] sarebbe la consapevolezza della sua
convinzione [morale] confermata, al fine di sperare -- in base al progresso fin qui compiuto,
da un livello peggiore ad uno migliore di moralit, nonch al proposito cos appreso e
immutabile -- di proseguire ininterrottamente tale progresso, nella misura accessibile alla
propria esistenza, e persino al di l di questa vita, e cos al fine di essere pienamente
adeguata alla volont di Dio.[37]
metodologica generale della seconda Critica; infatti, come ben noto e come vedremo
meglio tra breve, la riduzione della libert ad un semplice postulato, da collocare
allo stesso livello argomentativo dell'immortalit e di Dio nell'analisi della vita morale
dell'uomo, appare in palese conflitto con il nesso strettissimo che Kant aveva
individuato, nell'Analitica della ragion pura pratica, tra legge morale e libert (e,
precisamente, tra evidenza della legge morale e deduzione della libert in senso
trascendentale), un nesso immediato e assolutamente peculiare, che non sembra
potersi affermare negli altri due casi senza stravolgere la fisionomia del pensiero
morale di Kant e l'originalit stessa dell'etica critica. Bisogna per dire che
l'assunzione della libert idealmente accanto a Dio e all'immortalit non priva di
ragioni interne, ed appare dettata (pi che da considerazioni di simmetria tra i
campi teoretico e pratico, o da un'inconfessata fedelt alla venerabile tradizione della
metafisica) dalla convinzione profondamente kantiana che della libert, come di Dio e
dell'immortalit, non sia possibile attingere una qualunque evidenza di tipo teoretico:
sotto questo aspetto, i tre concetti fondamentali della metafisica sembrerebbero
condividere il medesimo statuto logico. Come che sia, almeno innegabile che Kant in
alcuni passaggi cruciali della Critica della ragion pratica consideri la libert appunto
come un postulato, pur con tutte le difficolt che ci comporta. Si veda, in
proposito, il passaggio seguente:
[Per la via della ragione pratica] non conosciamo certo n la natura della nostra anima, n il
mondo intelligibile, n l'Ente sommo in ci che sono in se stessi, ma abbiamo solo riunito i
loro concetti nel concetto pratico del sommo bene, in quanto oggetto della nostra volont -- ,
e questo interamente a priori con la pura ragione, ma solo tramite la legge morale, e inoltre
meramente in relazione alla stessa, rispetto all'oggetto che essa comanda. Ma ci non
permette di discernere neanche in quale maniera sia possibile la sola libert, n come ci si
debba rappresentare teoreticamente e positivamente, questo modo di causalit; invece solo
che [la libert] ci sia, postulato mediante la legge morale e in sua funzione. Questo anche
il caso delle altre idee: nessun intelletto umano ne potr mai scandagliare la possibilit, ma,
per un altro verso, nessuna sofisticheria potr mai estorcere la convinzione che non siano
veri concetti, neppure all'uomo pi comune.[41]
Se la conoscibilit della libert nel suo specifico modo di operare come forma di
causalit noumenica ovviamente fuori discussione restando ferme le conclusioni
della critica della ragione teoretica, la sola esistenza della libert (che la libert ci
sia) altres un postulato della ragion pratica, la cui necessit viene esibita
mediante la legge morale e in sua funzione: equivalente alle altre due idee nel suo
rapporto strutturale con la moralit, la libert sembra qui perdere quel singolare
privilegio di ratio essendi della legge che Kant le aveva nettamente attribuito
nell'Analitica,[42] per inserirsi a tutti gli effetti nello stesso contesto argomentativo che
conduce alla validit dell'immortalit e di Dio in prospettiva etica. La riduzione della
libert ad un postulato, per quanto problematica possa apparire ad una disamina
globale dell'etica kantiana, obbedisce alla stessa logica che ha guidato Kant nella
trasformazione (o, per cos dire, ri-definizione) dei Grundbegriffe der Metaphysik
da oggetti teoreticamente inconseguibili a indispensabili punti di riferimento
dell'attivit pratica della ragione umana. Le idee di Dio, libert e immortalit, che
rimanevano inaccessibili come oggetti di un preteso sapere metafisico, acquistano un
saldo criterio di validit se ripensate a fondo sul terreno morale, cio non pi come tesi
sull'essere, ma come proposizioni sul dover essere.
A noi la questione interessa non tanto in astratto, come cifra complessiva del filosofare
kantiano, quanto nella sua intima relazione con il verdetto (negativo) della Critica
della ragion pura sulla possibilit umana di conoscere il soprasensibile; si tratta di
vedere, come gi ampiamente sottolineato, quali conseguenze (e di quale segno)
possono derivare sul terreno della ragion pratica dall'impossibilit della metafisica in
sede teoretica, e quindi dal paradosso dell'insorgenza di problemi legittimi, addirittura
inevitabili, che per non si lasciano dirimere in giudizi determinanti (sapere).
D'altra parte le idee trascendentali, nella forma di postulati della ragion pratica,
sembrano ormai godere di un riferimento oggettivo e di un potere determinante che
non potevano avere nel campo teoretico; infatti Kant afferma pi volte che, in quella
forma e solo in quella forma, i concetti cardinali della metafisica ottengono un reale
oggetto, e perci non possono pi essere neppure minimamente sospettati di
fantasticheria o arbitrio.[45] perci importante stabilire in linea generale che tipo di
oggettivit Kant abbia qui in mente: se si tratti, cio, di un sapere in qualche
modo analogo a quello teoretico, che supplisca a suo modo, in maniera indiretta, a
quel deficit conoscitivo cui la dialettica trascendentale sembrava aver definitivamente
consegnato il discorso metafisico. O se, al contrario, nella stessa pretesa di una
retroazione in senso compensativo della ragion pratica sulla ragione teoretica, si
annidi non solo un probabile fraintendimento del testo kantiano, ma anche, pi
radicalmente, la segreta nostalgia di un'etica teologica (laddove per Kant pu darsi, del
tutto legittimamente, una teologia morale).
solo guardando a ci che dobbiamo fare, piuttosto che a quanto possiamo
conoscere, che la nostra ragione acquista la certezza delle realt metafisiche, e quindi
sembrerebbe che per Kant la ragion pratica riesca a colmare quel vuoto lasciato dalla
ragione teoretica e ad aprirci direttamente uno spiraglio sul mondo intelligibile.
Svolgendo a pieno titolo questa funzione di supplenza, la ragion pratica sarebbe in
grado di condurre l'uomo verso quella sfera dell'incondizionato che costituisce il
centro dei suoi interessi pi alti, e dunque i limiti della ragione in campo teoretico
Ma se, come Kant pare qui concedere, la stessa ragione teoretica, indirizzata in tal
senso da quella pratica, deve ammettere non solo la possibilit di Dio, libert e
immortalit, ma la loro esistenza (sebbene non possa poi determinarla ulteriormente),
il primato della ragion pratica andrebbe indubbiamente inteso in senso ampliativo
rispetto alla sfera teoretica. Certo Kant ridimensiona subito la portata di questo
ampliamento, negando che esso equivalga ad una sia pur minima conoscenza degli
oggetti metafisici (di cui non abbiamo intuizione alcuna), ed affemando anzi che alla
ragione teoretica non resta che un uso meramente negativo di ci che le stato offerto
da una sorgente del tutto diversa;[47] ma se la ragione teoretica fosse davvero costretta
a riconoscere che quegli oggetti vi sono, il limite della conoscenza fenomenica stabilito
dalla Critica della ragion pura sarebbe gi infranto e la stessa ragion pratica non
riuscirebbe a mascherare a lungo quelle pretese speculative che, a parole, Kant le
aveva risolutamente negato.
Il dover essere, se questa ottica fosse perseguita fino in fondo, implicherebbe l'essere e
lo esigerebbe come una premessa o una promessa, senza le quali la moralit non
sarebbe nemmeno pensabile. La novit dell'impostazione kantiana rispetto alle
tradizionali prove metafisiche consisterebbe allora solo in una diversa (ed opposta)
direzione del procedimento fondativo: invece di cercare dimostrazioni teoretiche delle
realt metafisiche per dedurne principi e orientamenti sul versante pratico, si tratta di
muovere dalla certezza del nostro dovere per ritrovare, indirettamente, la validit di
asserzioni teoretiche di per s indimostrabili. Lo stesso Kant sembra talora avvalorare
questo mero rovesciamento della strategia fondativa; nel paragrafo dedicato
espressamente alla definizione del primato della ragion pratica, pur distinguendo
formalmente i due interessi della ragione (quello teoretico, rivolto alla conoscenza,
quello pratico, rivolto alla volont), egli afferma che la stessa ragione speculativa deve
accettare quelle proposizioni che la ragion pratica riconosce come necessarie nel suo
campo, e ci in nome dell'unit della ragione umana:
Se la ragione pura pu essere di per se stessa pratica e lo realmente, come attesta la
consapevolezza della legge morale, ebbene, pur sempre una medesima ragione, quella che,
con finalit teoretica o pratica, giudica secondo principi a priori, e allora chiaro che,
sebbene nel primo caso la sua facolt non riesca affatto ad affermare con tutta sicurezza certe
proposizioni, che peraltro neanche le contraddicono, tuttavia questa stessa ragione
speculativa deve accettare proprio tali proposizioni, non appena appartengano
indissolubilmente all'interesse pratico della ragione pura.[48]
In realt, a fronte di non poche ambiguit, nella Critica della ragion pratica (e
altrove) vi sono esplicite avvertenze che tolgono qualsiasi fondamento alla tesi, qui
delineata, di un puro e semplice recupero delle verit metafisiche (addirittura in
termini di evidenza dimostrativa!) dopo aver percorso la via della ragion pratica. In
una nota della Prefazione, Kant si rende conto che l'espressione postulato avrebbe
potuto generare un grave equivoco nel lettore, se le fosse stato commisto il significato
che hanno i postulati della matematica pura, che comportano una certezza
apodittica; ora, nel caso della ragion pratica, questa certezza della possibilit
postulata non affatto teoretica, e quindi neanche apodittica, ossia non una
necessit (ri)conosciuta rispetto all'oggetto, invece un'assunzione necessaria rispetto
al soggetto affinch osservi le sue leggi obiettive, ma pratiche, e quindi non che
un'ipotesi necessaria.[49] La struttura logica di un postulato pratico ben presentata
come necessit ipotetica; la sua oggettivit nient'altro che una relazione
(necessaria) con l'oggetto del dovere, non pu essere una certezza apodittica (neppure
di tipo pratico, perch questa compete soltanto alla legge morale).
Quando Kant dice che i postulati hanno validit oggettiva in campo pratico, che
dunque la possibilit delle idee, prima del tutto problematica, diventa ora assertoria,
non intende alludere ad un completamento della ragione teoretica attraverso
strumenti ad essa estranei.[50] La validit oggettiva sul piano pratico va intesa in
senso assolutamente letterale: cio come correlato di un non-sapere teoretico, che
rimane sempre presupposto e insuperabile, e come necessit soggettiva di ammettere
determinati oggetti (in connessione con la possibilit del sommo bene).[51] La
definizione dei postulati pratici come bisogni razionali puri, che abbiamo gi visto, ci
La connessione della dottrina dei postulati con la legge morale non dunque di tipo
strettamente deduttivo, poich la legge non richiede a suo fondamento un'altra
condizione,[53] ad essa esterna, ed appunto capace da se stessa di suscitare la
rappresentazione del dovere (o, ancor meglio, fa tutt'uno con questa
rappresentazione): non corretto affermare che l'esistenza di Dio o l'immortalit
dell'anima siano richieste espressamente dalla legge, come condizioni dell'adesione ad
essa. Non pu infatti darsi nessun movente del rispetto della legge al di fuori della
legge stessa. Nemmeno si pu pensare che Dio e immortalit siano momenti interni
della legge, sue interne necessit, perch, oltre al rischio di introdurre l'eteronomia nel
cuore stesso della ragion pratica, non si capirebbe allora in qual senso la necessit dei
postulati sia per Kant non solo interamente pratica, ma anche soggettiva (non un
dovere, ma un bisogno). Ad esempio, riguardo all'esistenza di Dio, Kant scrive:
Qui si deve notare bene che siffatta necessit morale soggettiva, ossia un bisogno, e non
obiettiva, e cio un dovere; poich non ci pu essere affatto il dovere di ammettere l'esistenza
di una cosa (giacch questo concerne meramente l'uso teoretico della ragione). E non si
intende nemmeno che l'assunzione dell'esistenza di Dio sia necessaria per stabilire un
fondamento di ogni obbligatoriet [...]. Qui al dovere appartiene solo il lavoro assiduo per
produrre e promuovere il sommo bene nel mondo, di cui pu dunque venire postulata la
possibilit.[54]
Un postulato dunque diverso sia da una proposizione teoretica, sia da una legge
apodittica pratica, e la sua definizione come bisogno pratico sufficientemente precisa
per escludere l'una e l'altra possibilit; ma trattandosi inoltre di un bisogno della
ragion pura pratica, esso perde qualunque tratto di arbitrariet (o, come direbbe
Kant, di fantasticheria) e, pur non essendo un dovere, intrattiene una relazione
necessaria con l'oggetto del dovere ( solo da questo punto di vista che si pu parlare,
qui, di validit oggettiva[55]). Questa relazione, come il passo kantiano appena letto
mostra in modo chiaro, una promozione incessante dell'impegno morale,
un'intenzionalit pratica tesa al lavoro assiduo, che la volont deve rappresentarsi, e
adottare come schema operativo, nella sua dinamica concreta; in altri termini, il
postulato dell'esistenza di Dio ha principalmente l'obiettivo di fornire al soggetto
dell'agire morale un'universale garanzia che il suo sforzo non pu essere
sistematicamente frustrato o vanificato da condizioni avverse (fisiche o metafisiche),
non pu cadere costantemente nel vuoto, perch ci equivarrebbe, in fondo, a
dichiarare vuota o chimerica (almeno per il mondo dell'uomo) la moralit stessa.
Senza questa garanzia, la legge morale continuerebbe certo a manifestare la sua
luminosa evidenza, ch essa non dipende n dall'uomo n da Dio; ma, secondo Kant,
sarebbe molto difficile fondare l'impegno dell'uomo per il sommo bene nel mondo, se
non presupponendo che la natura non si opponga per principio e in maniera
sistematica alle ragioni della moralit; se non postulando che il mondo stesso sia in
qualche misura permeabile alla volont del bene. In tal senso, Dio esiste vuol dire
che Dio il garante (non l'autore) della moralit; ma ci, ridotto al nucleo essenziale
che risulta indispensabile per la ragion pratica, significa che l'impegno (non la
perfezione) morale dell'uomo nel mondo realmente possibile, perch la natura non vi
si oppone.[56] Bisogna perci ammettere un qualche ordinamento finalistico del
mondo (e l'idea di una saggezza divina qui ci soccorre in modo sufficiente), affinch il
concetto stesso del sommo bene non riveli i tratti inequivocabili dell'utopia e l'azione
morale non ceda subito il passo alla rassegnazione e al quietismo. Per un singolare
rovesciamento, Dio esiste significa che la moralit pu abitare nel mondo, che i
frutti dell'impegno etico sono reali e tangibili, che il sommo bene il termine ideale di
un progetto di vita bisognoso di verifica. Idealit del sommo bene che proietta l'agire
all'infinito e possibilit di verificare il progetto universale nelle situazioni che di volta
in volta ci sono date, in altre parole trascendenza e immanenza, danno luogo ad
una tensione che costituisce la stessa positivit dell'etica kantiana. La trascendenza
del bene esige l'immanenza dello sforzo, del lavoro, dell'intenzionalit positiva e
produttiva. L'esistenza di Dio fornisce un sostrato non alla pretesa di sapere, ma alla
volont di agire,[57] in quanto un essere la cui razionalit rimane interna all'orizzonte
della finitezza non pu evitare di riferire la stessa esigenza dell'incondizionato alle
condizioni di un esercizio possibile.
Naturalmente nell'argomentare kantiano sulla necessit di postulare un ente
supremo, e anche di determinarne alcuni attributi in corrispondenza di esigenze
pratiche, un ruolo significativo giocato dal desiderio di felicit, che Kant ritiene
costitutivo dell'uomo e dunque ineliminabile almeno come speranza. La felicit, che
moralmente non pura in quanto dipendente dalla materia del volere, dalle
inclinazioni del soggetto, ritrova una certa purezza e legittimit presentandosi come
conseguenza (in un mondo possibile) della moralit. Si tratta di un passaggio
estremamente delicato, poich la prospettiva di una felicit futura pu esercitare
sull'uomo una forza persuasiva tale da surrogare il vero movente morale, cio il
rispetto della legge, l'adozione del bene in quanto bene. D'altra parte, se nella Critica
della ragion pratica il riferimento alla felicit dell'io finito ancora centrale per la
dottrina dei postulati, nella Critica della facolt di giudizio l'argomento morale per
l'esistenza di Dio viene pi chiaramente separato da tutto ci che pu apparire una
concessione, diretta o indiretta, all'egoismo. In una pagina che opportuno citare
diffusamente, Kant ricollega in modo esplicito l'assunzione trascendente di un
supremo legislatore morale alla struttura teleologica immanente della ragione umana,
che considera se stessa sotto l'angolo visuale dello scopo finale:
dunque almeno possibile, e il fondamento di ci anzi posto nel modo di pensare morale,
rappresentarsi un puro bisogno morale dell'esistenza di un essere sotto il quale la nostra
moralit guadagna pi forza oppure (almeno secondo la nostra rappresentazione) un pi
ampio orizzonte, cio un nuovo oggetto per il proprio esercizio, vale a dire, assumere un
essere moralmente legislatore fuori del mondo, senza nessun riguardo a una prova teoretica
e ancor meno a un interesse egoistico, a partire da un motivo morale puro, libero da ogni
influenza estranea (certo, qui solo soggettivo), sulla base della semplice raccomandazione di
una ragione pura pratica che legislatrice per s sola. E, seppure una tale disposizione
dell'animo occorresse di rado oppure non durasse a lungo, ma passasse fugace e senza effetto
durevole, o anche senza una qualche riflessione sull'oggetto rappresentato in tale simulacro e
senza uno sforzo di portarlo sotto concetti distinti, tuttavia non disconoscibile il
fondamento di questa disposizione, l'attitudine morale in noi, come principio soggettivo del
non accontentarsi, nella considerazione del mondo, della sua conformit a scopi secondo
cause naturali, ma del porgli alla base una causa suprema che domina la natura secondo
principi morali. -- A ci si aggiunge che ci sentiamo spinti dalla legge morale a tendere a un
sommo scopo universale e che per noi e l'intera natura ci sentiamo incapaci di raggiungerlo;
che possiamo giudicare di essere conformi allo scopo finale di una causa intelligente del
mondo (se ci fosse una tale causa) solo nella misura in cui tendiamo ad esso; e che cos
presente un puro motivo morale della ragione pratica per assumere questa causa (dato che
pu accadere senza contraddizione), se non altro per non correre il rischio di considerare del
tutto vana quella tensione e con ci di lasciarla svanire.[58]
I postulati non completano la ragione teoretica l dove essa destinata a fallire, non
operano un passaggio dal finito all'infinito con pretese oggettivanti, ma si risolvono
interamente in condizioni di una vita morale autentica nell'orizzonte del finito. Come
tali, sono oggetto di una fede che, pur radicandosi in un bisogno della soggettivit
morale, rimane problematica: tradurla in una forma di certezza dogmatica significa
svuotarla del suo senso pi proprio, privarla di quel rapporto con l'esperienza
possibile che anche in campo etico non viene mai da Kant totalmente interrotto.
In altre parole, l'innegabile esistenza in atto della legge morale dimostra l'esistenza
della nostra libert e la possibilit dell'esistenza di Dio e dell'immortalit; in questo
difficile ma decisivo passaggio kantiano, la libert gode di un primato assolutamente
chiaro rispetto alle altre idee della ragione, la simmetria che governava le idee nel
campo teoretico viene rotta nel campo pratico dal riconoscimento di un legame del
tutto peculiare tra il dato di fatto incontestabile del dovere e la libert come suo
fondamento esplicativo. Mentre cio l'esistenza di un imperativo categorico per la mia
ragione implica immediatamente la mia libert (non potrei essere interpellato dalla
legge morale se non fossi libero), per quanto riguarda invece Dio e un'anima
immortale non posso far conto su un'identica capacit dimostrativa. Ma ci significa
che, almeno nel caso della libert del volere, Kant autorizzi un'estensione della
conoscenza umana dal pratico al teoretico? Dal fatto che debba pensarmi come libero
per potermi considerare un essere morale segue forse che sono libero e che la mia
libert si trasforma in un oggetto positivo del conoscere?
Invero, per Kant la struttura deduttiva sono un essere morale, dunque sono libero
s logicamente stringente, ma in questo modo non abbiamo realmente esteso il nostro
sapere (teoretico). La certezza apodittica della libert non mi autorizza a speculare
sulla libert, riconducendola ad un qualche organon metafisico di cui potrei conoscere
il funzionamento; l'interesse di Kant qui di evitare che la ragione, in luogo di
esercitare la libert per i fini ultimi che la legge morale prescrive, si perda in una
speculazione sterile e incontrollata su presunti fondamenti metafisici della libert.
Ci comprensibile, e ben si accorda con l'orientamento critico di Kant e con la sua
avversione radicale per le costruzioni teoretiche magari affascinanti, ma arbitrarie. Si
pu almeno affermare l'esistenza della libert umana, anche se non conosciamo nulla
della sua natura pi profonda? La risposta di Kant : s, possiamo, anzi dobbiamo
affermarla, ma soltanto dal punto di vista pratico; anche in questa misura ridotta,
per cui non pretendiamo di interrogarci sull'essenza della libert, ma ci chiediamo solo
se essa effettivamente si dia, il problema della libert non pu essere risolto dal punto
vista teoretico. Pi precisamente, anche dopo che dal punto di vista pratico si
mostrata chiaramente la necessit della libert, non lecito concludere che, a questo
punto, l'affermazione io sono libero abbia ottenuto, sia pure indirettamente, una
dimostrazione teoretica.[65] Sotto questo aspetto, la stessa libert viene allineata da
Kant agli altri due postulati della ragion pratica.
L'irrappresentabilit della libert al di fuori del terreno pratico, che ha come
correlativo la necessit dell'assunzione della libert all'interno di tale terreno,
dunque tesa chiaramente ad evitare il doppio errore del dogmatismo e dello
scetticismo e a riconfermare l'atteggiamento di fondo della filosofia critica di Kant.
Rimane per il fatto che il rapporto del tutto speciale che sussiste tra legge morale e
libert non ci consente di allineare la libert umana su un unico piano con
l'immortalit e Dio, proprio perch un analogo rapporto diretto non sussiste per Kant
in questi ultimi casi. Inoltre, se Kant individua nella libert addirittura la chiave di
volta di tutto il sistema della ragion pura (tanto nella parte teoretica che pratica),
appare difficile affermare che in campo teoretico non vi sia spazio per una trattazione
positiva della libert: almeno, occorrerebbe mostrare perch la libert vada assunta
come fondamento della stessa attivit teoretica dell'uomo. Ovviamente non possiamo
soffermarci a lungo sulle aporie della concezione kantiana, ci interessa invece rilevare
come in Kant esista talora un nesso assai esplicito tra la libert dell'uomo nel suo
concreto esercizio e l'impossibilit di una conoscenza oggettiva e determinata del
soprasensibile. qui, in ultima analisi, che va situato il motivo dell'asimmetria tra le
idee della ragione in campo pratico di cui parlavamo prima. Il famoso primato della
ragion pratica va visto non tanto nell'ottica di una possibile integrazione e di un
completamento della ragione teoretica, e neppure come enfatizzazione generica del
problema morale; il nodo della questione piuttosto nella necessit di individuare una
forma di relazione con il soprasensibile che si accordi con la condizione umana finita
e, soprattutto, con il riconoscimento della dignit dell'uomo in quanto essere morale.
In un certo senso, il primato della ragione pratica configura in realt un primato della
libert, per cui quest'ultima non pu identificarsi semplicemente con un postulato,
ma deve essere pi di un postulato, deve avere una certezza diversa da quella che
possiamo riporre nell'esistenza di Dio e nell'immortalit, anche se con ci non
abbiamo compiuto propriamente un passo nella conoscenza teoretica del mondo
intelligibile. Correlativamente, si deve concedere che soltanto Dio e l'immortalit sono
in tutto e per tutto dei postulati, e solo nell'ottica del primato della libert si rivelano
pienamente tali.
secondaria, costruita sullo sfondo della prima, ma con funzione limitatrice. In altri
termini, la collocazione della libert tra i postulati obbedisce a ragioni analogiche (cos
come l'immortalit e Dio, la libert inconoscibile fuori del rapporto pratico), ma non
intacca la natura di fondamento: semmai, la rende comprensibile nei suoi limiti. In
questo modo, spogliata delle pi vistose ed ingombranti sovrastrutture che
tradizionalmente l'accompagnano, la libert dell'uomo viene restituita al ruolo pi
sobrio di possibilit finita, e dunque indirizzata ad un uso fecondo e concreto. Se
dunque, come fondamento, la libert detiene a tutti gli effetti un primato sugli altri
due Grundbegriffe della metafisica, la stessa libert, come postulato, viene
chiaramente ricompresa nell'orizzonte della finitezza.[70]
La fede morale che d origine ai postulati dunque per Kant un libero tener-pervero (freies Frwahrhalten), riferito ad oggetti che oltrepassano il campo
dell'esperienza possibile. Come l'espressione kantiana lascia intuire, si tratta qui di
un'apertura sul soprasensibile fatta interamente dal soggetto per il soggetto, ed
nell'interesse dell'etica che il teoreticamente inaccessibile pu diventare tema di una
convinzione ragionevole, tramite la libert. Ritroviamo perci lo stesso quadro della
Critica della ragion pratica, ma con una maggiore sottolineatura del momento
esistenziale della decisione: l'accento cade sulla libert di un assenso che il
conoscere teoretico non autorizza n incoraggia, ma che per il soggetto posto sotto la
legge morale costituisce l'unico modo di pensare come perseguibile ci per la cui
realizzazione nel mondo egli deve impegnarsi. Il tener-per-vero per cos dire res
subjecti, una questione che riguarda l'io nella sua totalit esistenziale, dunque non
oggettivamente cogente, proprio perch non ha altro riferimento che la decisione per
l'interesse pratico, e solo in questa chiave pu ottenere il riconoscimento
intersoggettivo delle sue istanze e una qualche universalit.[73] Se ci comandata la
realizzazione (mediante la libert) del sommo bene nel mondo, l'esistenza di Dio e
l'immortalit dell'anima, in quanto uniche condizioni della sua possibilit per noi
pensabili, sono cose del credere (res fidei), e propriamente le uniche tra tutti gli
oggetti che possono essere chiamate cos.[74]
Naturalmente, in un'ottica diversa da quella kantiana, appare del tutto legittimo
chiedersi se l'esistenza di Dio e l'immortalit dell'anima, anche come semplici res fidei,
siano davvero premesse indispensabili per promuovere l'impegno morale dell'uomo.
Questo punto non pu certo essere discusso qui, ma Kant ha avuto presente il
problema e, pur riservando a tali res un ruolo importante nell'etica, ha inteso evitare
qualsiasi soluzione dogmatica, che sarebbe stata in diretta contraddizione con la sua
concezione dell'autonomia. Nella Critica della ragion pratica, Kant tiene a
distinguere la necessit oggettiva (secondo la ragion pratica) di promuovere il sommo
bene (in quanto comandato dalla legge morale) dalle condizioni soggettive attraverso
cui pensiamo quel compito come possibile; di fatto, il modo, la maniera in cui
vogliamo pensarlo come possibile dipende dalla nostra scelta,[75] e ci che fa
inclinare la decisione a favore dell'esistenza di Dio un libero interesse della ragion
pura pratica, che non pu essere messo da parte. Se una fede comandata, e non
liberamente scelta dalla volont morale, sarebbe per Kant un controsenso e in ogni
caso sfocerebbe nel fanatismo, la fede razionale pura pu oscillare abbastanza spesso,
talvolta persino in chi abbia buone intenzioni, ma non mai cadere nella miscredenza.
[76]
La domanda che si deve porre al margine di queste considerazioni allora: come possa
un uomo che non crede in Dio e in un'anima immortale, pensare la possibilit del
sommo bene e argomentare il suo impegno etico nel mondo. Kant non sembra mai
ritenere l'ateismo una posizione seriamente sostenibile nel campo morale, ma in una
pagina della Critica della facolt di giudizio egli tratteggia proprio la classica figura
dell'ateo virtuoso, ben rappresentata da Spinoza:
Possiamo dunque ammettere il caso di un uomo retto (come per esempio Spinoza) che si
ritenga fermamente persuaso che non c' un Dio e che (dato che la conseguenza identica
rispetto all'oggetto della moralit) non c' neanche una vita futura: come giudicher costui la
sua propria interna determinazione di scopi mediante la legge morale che egli onora
attivamente? Egli non pretende, per il fatto di osservarla, nessun vantaggio per s, n in
questo n in un altro mondo; vuole piuttosto fare disinteressatamente solo il bene, per cui
quella sacra legge d a tutte le sue forze la direzione.[77]
Il limite della posizione ateistica non da rintracciare per Kant nel fatto che il soggetto
non riconosca in Dio il fondamento della legge morale, poich quest'ultima vincola la
volont del soggetto indipendentemente dalla questione se Dio esista o meno (in
astratto, Dio cos poco il fondamento della legge che essa appare invece come
quella struttura intrinsecamente razionale cui l'esistenza di Dio non potrebbe
aggiungere o togliere nulla in validit). Piuttosto, ancora una volta, in discussione non
il fondamento dell'etica, ma la possibilit dell'impegno di un essere razionale s, ma
finito, moralmente obbligato a tendere al sommo bene, ma al tempo stesso sovrastato
da una natura che lo limita in tutte le direzioni e sembra indifferente alla sua esistenza
individuale, al dramma che vi si consuma. Sotto questo aspetto, Kant ha buon gioco
nel descrivere lo sgomento che dovrebbe colpire l'uomo retto, se davanti ai suoi occhi
si aprisse improvvisamente lo spettacolo terribile del baratro del caos senza scopo
della materia,[78] nel quale tutte le vite saranno inghiottite e tutte le differenze
annullate in un'unica notte: la differenza tra l'uomo e gli altri animali, tra l'onesto e il
criminale, insomma tutto ci che pu far ritenere all'umanit di essere lo scopo finale
della creazione.[79] Qui si mostra una diversa immagine dinamica dell'abissalit del
pensare metafisico: non si tratta pi dell'oceano, del mare aperto in cui la ragione
umana si avventura affascinata dalla possibilit di nuove scoperte, ma di un vero e
proprio baratro, un assentarsi del senso che getta l'uomo nell'angoscia. Non si
tratta neppure di una semplice riduzione della metafisica alla fisica, in primo
luogo perch la libert dell'uomo non necessariamente eliminata dalla negazione di
Dio e dell'immortalit, ma soprattutto perch questa negazione pur sempre uno
sguardo sulla totalit e dunque ancora all'interno dell'esigenza metafisica. In ogni
caso, Kant fa notare che questo spettacolo del nichilismo o del non-senso non pu
non rappresentare un problema e un enigma per qualsiasi persona moralmente ben
disposta; poich c' il rischio che la stessa destinazione morale dell'uomo ne possa
uscire ridimensionata e l'impegno radicalmente indebolito, auspicabile anche per un
ateo non chiudersi aprioristicamente alla possibilit dell'esistenza di un autore
morale del mondo, per farsi un concetto almeno della possibilit dello scopo finale
prescrittogli moralmente, ci che pu fare senz'altro, essendo in s almeno non
contraddittorio.[80]
una fede dubitante, in cui l'assenso dato alle cose del credere completamente
sprovvisto di fondazione teoretica, moralmente non vincolante ma ragionevole, capace
di rinnovarsi e consolidarsi, di volta in volta, nella decisione inverante
(Frwahrhalten),[86] ma senza irrigidimenti dogmatici.
Per una soggettivit finita come Kant la descrive, solo la coscienza morale fondata su
una struttura cui compete il carattere dell'apoditticit; la fede morale rimane invece, in
ultima analisi, una questione di volont e di scelta, non riguarda direttamente la
moralit, ma il modo in cui vogliamo pensare come perseguibile, nel mondo, il
compito che la legge morale ci assegna. Puntualizzare lo statuto della fede, cio il suo
ambito di legittimit e la tipologia specifica del suo riferimento ad oggetti, appare
importante sotto un doppio profilo per l'interpretazione di Kant: non bisogna infatti
soltanto distinguere il sapere teoretico dalla fede morale, ma anche, altrettanto
nettamente, la legge (e la sua ratio essendi: la libert) dalla fede (e i postulati o cose
del credere: Dio e l'immortalit). La Critica della ragion pratica, quando presenta i
tre postulati morali come l'esatto analogon, per l'etica, di ci che le idee trascendentali
rappresentavano sul terreno della ragione teoretica, rischia di lasciare sullo sfondo
un'analogia diversa e decisiva: quella tra la libert e la legge. In realt, il loro
rapporto cos stretto che parlare di analogia del tutto fuorviante; si tratta piuttosto
di un'implicazione trascendentale reciproca, che Kant esprime nei termini noti di ratio
cognoscendi (della legge per la libert) e ratio essendi (della libert per la legge). Se
dunque, da un lato, l'equiparazione kantiana della libert a Dio e all'immortalit in
quanto postulati potrebbe indurci a considerare la libert come puro oggetto di fede
morale, anche vero che quest'ultima tende talora ad assumere tratti oggettivi e
vincolanti in campo etico, fin quasi a confondersi, se non con la legge stessa, con le
condizioni dell'adesione ad essa. Il modo non sempre coerente in cui Kant disegna il
rapporto e, per cos dire, l'intreccio problematico tra legge, libert e postulati in
effetti un punto di seria difficolt per il lettore della Critica della ragion pratica.
Ciononostante, due aspetti si impongono con una certa chiarezza: 1) il primato della
libert come fondamento rispetto alla libert come postulato; 2) l'insistenza di
Kant sul carattere soggettivo (nel senso spiegato) della fede in Dio e
nell'immortalit tale da far pensare che le ragioni che lo hanno spinto a sottolinearlo
sempre di nuovo fossero per lui assolutamente preminenti. Ne va della sua concezione
dell'autonomia morale come fondamento della dignit dell'uomo.
In questa ottica, notevole che nella Critica della facolt di giudizio la libert non
compaia mai in forma di postulato, accanto all'esistenza di Dio e all'immortalit
dell'anima; ad essa viene invece riconosciuta apertamente un'evidenza di tipo fattuale,
da cui l'unicit che la separa radicalmente dalle altre idee della ragione. Kant distingue
le cose del credere (mere credibile) dalle cose di fatto (scibile), queste ultime
definite come segue: Oggetti per concetti la cui realt oggettiva pu essere provata
(sia mediante la ragione pura, sia mediante l'esperienza, e nel primo caso a partire da
suoi dati teoretici o pratici, in ogni caso per per mezzo di un'intuizione a essi
corrispondente).[87] Tra le cose di fatto rientrano ovviamente tutti gli oggetti attestati
dall'esperienza (attuale o possibile, propria o altrui), ma anche le propriet
matematiche delle grandezze in geometria. Kant non menziona qui la legge morale,
che pure rappresenta per lui un fatto della ragione (si tratta tuttavia di un fatto
sui generis, che si risolve interamente in un dovere), bens la libert. Sebbene l'idea
della libert non possa essere esibita in un'intuizione possibile e dunque rimanga
teoreticamente trascendente, nondimeno essa si pu attestare mediante leggi
pratiche della ragione pura e, conformemente a queste, nelle azioni reali e quindi
nell'esperienza. -- l'unica tra tutte le idee della ragione pura il cui oggetto una cosa
di fatto e deve essere annoverato tra gli scibilia.[88]
L'apparente simmetria tra le idee della ragione nella dottrina dei postulati, che
ricalcava la struttura del campo teoretico, esplicitamente ricusata, con la nitida
affermazione del primato della libert; e, a ben vedere, non solo di questo si tratta,
poich nello stesso passaggio testuale sembrerebbe affacciarsi addirittura una nuova
concezione della libert, almeno in parte diversa da quella della Critica della ragion
pratica.[89]
Certo Kant parla qui della libert come oggetto di un sapere, come termine di una
cognizione evidente, ma ci non provoca particolare sorpresa, perch l'interna
connessione con il fatto della legge morale rende la libert non meno certa della
legge e dunque, da questo punto di vista, effettiva, operante, reale.[90] forse
l'unico caso in cui il dover essere implica chiaramente un essere come premessa
condizionante, l'essere della libert. Io non ho il dovere di essere libero, io sono libero:
la libert, che mi accessibile solo muovendo da ci che debbo fare (ratio
cognoscendi), non un dovere, ma un fatto e un fondamento (ratio essendi). Io non
credo di essere libero, io sono libero: la libert, che pure pu ragionevolmente aprirsi
alle cose del credere e dar loro l'assenso, non essa stessa qualcosa di
semplicemente creduto, ma ci che sta alla radice della fede morale e permette di
comprenderne la possibilit. Ma questo sapere della libert come si configura
esattamente? Come si concilia con la dottrina kantiana dei limiti della conoscenza
teoretica? Di sicuro, per Kant si tratta di un sapere pratico; lo stesso passaggio della
Critica della facolt di giudizio conferma che non esiste una intuizione della libert,
un organon per la sua conoscenza diretta: la pietra di paragone sempre la legge
morale, ma ora Kant sembra sottolineare con maggiore chiarezza il rapporto della
libert con l'esperienza, con il mondo dell'esperienza, in cui pu essere in qualche
modo attestata. Se la libert rimane imperscrutabile da un punto di vista teoretico, dal
punto di vista della prassi un fatto di cui siamo immediatamente certi e che incide
realmente sul mondo che ci circonda. Sotto questo aspetto, la libert per Kant non
solo un'idea trascendentale teoretica, n un postulato pratico, ma il fatto stesso della
metafisica come ragion pratica:[91] nella libert, e solo nella libert, la metafisica si
costituisce come fatto, anche se ci riguarda esclusivamente l'essere della libert.
Come essa sia possibile, ci resta precluso.
difficile stabilire fino a che punto l'esplicita assunzione della libert come fatto
rappresenti una novit sostanziale rispetto alla Critica della ragion pratica, oppure la
semplice variazione di un tema gi ampiamente sviluppato e meditato; comunque
significativo prendere atto, ancora una volta, che per Kant il primato della ragion
pratica mette capo ad un primato della libert. Essa appare sempre pi chiaramente
come l'unica delle tre idee della ragione la cui esistenza non soltanto oggetto di fede,
postulata (in funzione di un bisogno), ma affermata come un fatto, pur con le
limitazioni che abbiamo visto. Lasciamo ora da parte la questione se si possa parlare in
proposito di una certezza, non meramente teoretica, ma almeno teoretico-pratica
dell'esistenza della libert, se dunque nel caso della libert una separazione radicale
tra le sfere della ragione sia davvero sostenibile. Vogliamo invece richiamarci ad una
importante pagina kantiana, per mostrare come sussista un particolare interesse della
ragione per cui solo la libert possieda propriamente e a pieno diritto un valore
oggettivo e costitutivo in campo pratico; come si detto, questo interesse la
salvaguardia della dignit dell'uomo, che si manifesta essenzialmente nella sua
capacit di autodeterminazione pratica (autonomia) che ne fa un ente il cui essere
libert di porre la sua condotta sotto l'egida del bene, anche quando ci si scontra con
l'esigenza naturale della felicit? Vi dunque per Kant un nesso preciso tra il nonsapere come impossibilit di conoscere il soprasensibile e quella libert che ci
caratterizza intimamente nel concreto orizzonte della vita morale. In caso contrario, se
cio fosse possibile una conoscenza certa dell'assoluto,
il comportamento degli uomini, qualora la loro natura rimanesse cos com' ora, sarebbe
dunque trasformato in un semplice meccanismo, dove, come in un teatro di marionette, tutti
gesticolerebbero bene, ma, nei personaggi, non si potrebbe cogliere nessuna vita affatto.
Ora, poich la nostra condizione diversissima, poich, con tutti gli sforzi della nostra
ragione, abbiamo solo una visione molto oscura e ambigua del futuro, poich colui che
governa il mondo ci permette solo di congetturare la sua esistenza e la sua sovranit, non
per di scorgerla e di dimostrarla chiaramente, mentre invece la legge morale in noi, senza
prometterci o minacciarci alcunch con sicurezza, esige da noi un rispetto disinteressato, ma
per il resto, una volta che questo rispetto sia diventato attivo ed egemonico, solo allora e solo
a tale condizione ci permette di guardare un poco nel regno del soprasensibile, e sempre solo
debolmente, ebbene, pu cos avere luogo una radicata convinzione morale autentica,
consacrata immediatamente alla legge, e la creatura razionale pu diventare degna di
partecipare al sommo bene, che adeguato al valore morale della sua persona e non soltanto
alle sue azioni.[96]
a dirci che una conoscenza reale di Dio avrebbe come conseguenza nientemeno che la
morte dell'etica, il tramonto della coscienza morale e della libert, e dunque di nuovo
l'assentarsi del senso dell'esistenza finita dell'uomo. Ritorna qui in primo piano
l'insistenza sull'intenzione dell'azione, come autentica sorgente della moralit, e se ci
apparso a molti critici un ripiegamento interioristico e un'assenza di sostanza
etica, comunque un disinteresse per le conseguenze dell'azione, ci sembra che su
questa linea argomentativa del pensiero kantiano si possa ravvisare un importante
motivo di verit: il valore pi alto per l'esistenza dell'uomo nel mondo non
semplicemente il bene compiuto (cio la conformazione esteriore del
comportamento umano alla legge morale), ma il bene liberamente scelto e voluto.
Il discorso assume poi anche una tonalit religiosa che per certi versi ricorda i pensieri
di Pascal sul Dio che si nasconde, ed una concezione creaturale dell'uomo quella
che vividamente affiora nella pagina di Kant appena letta, cos come in altri contesti
della sua opera. Questa concezione tuttavia filtrata costantemente dalla prospettiva
dell'autonomia, il cui centro non Dio, ma la ragione umana finita. Il riferimento
kantiano ad un ritrarsi di Dio per rendere possibile l'impegno morale dell'uomo non
dunque un'allusione di tipo dogmatico a come potrebbero stare le cose nel disegno
divino, bens un'ipotesi filosoficamente rilevante attraverso la quale interpretare il
significato complessivo della condizione umana. In ultima analisi, se la Saviezza
insondabile per cui noi esistiamo degna di venerazione per ci che ci ha precluso non
meno che per quanto ci ha concesso,[99] ci vuol dire che il non-sapere metafisico,
nel senso spiegato, non solo d risalto e piena legittimit al sapere (scientifico), ma
anche una condizione imprescindibile per l'etica. Se anche non possiamo sapere con
certezza quale sia il fondamento dell'adeguata proporzione tra le nostre facolt, se esso
sia un Dio saggio, o una finalit naturale immanente, o qualcos'altro, dobbiamo per
pensare questa proporzione come conforme ad uno scopo, e sotto questo aspetto non
possiamo fare a meno di cogliere, in controluce, la nostra dignit di esseri morali.
Quest'ultima non sarebbe che una parola vuota di senso se non fosse originariamente
connessa con i limiti della conoscenza teoretica, e dunque con la nostra finitezza che
traduce l'esigenza dell'incondizionato in impegno nel mondo e per il mondo.
L'esistenza sensata del soggetto finito presuppone libert e responsabilit, solo a tali
condizioni possiamo onorare e promuovere quella umanit, in noi stessi e negli altri,
cui la legge ci rimanda. Una scienza dell'assoluto ridurrebbe forse l'etica all'esecuzione
puntuale di un programma, ma in quel caso non sarebbe pi in questione la seriet del
nostro impegno, il rischio che vi si connette, l'adesione libera ad una legge che rivela il
bene in quanto bene, senza prometterci o minacciarci alcunch con sicurezza. Kant
intende mostrare che un'etica al di l del sapere, al di l della teologia,[100] non solo
possibile, ma l'unica autenticamente umana, l'unica in grado di sottrarsi al circolo
economico-utilitario in cui il desiderio della felicit, commisto al timore di perderla
per sempre, orienta pi o meno segretamente tutte le nostre scelte. I limiti del sapere
fondano la libert e la dignit dell'uomo e mostrano che la ragione umana,
teoreticamente incompleta, pu essere sensata unicamente in quanto pratica, cio
nella tessitura di legge, libert e fede morale, nel rapporto asimmetrico, ma
imprescindibile, che esse determinano.
abbiamo pi volte fatto cenno non pu condurre ad una qualche assolutizzazione della
finitezza, che oltre ad essere una contraddizione in termini appare un atteggiamento
del tutto estraneo al pensiero di Kant. in quanto finito che il finito positivo, non in
quanto infinitizzato; la risoluzione del finito nell'infinito possibile solo in una
concezione negativa del finito, per cui quest'ultimo non pu essere tenuto fermo come
tale, ma sempre altro da s e in altro da s. Certo, il finito per definizione rapportocon-altro, cio con la totalit, con l'infinito, ma Kant ha mostrato in tutta la sua opera
critica che questo rapporto tanto necessario quanto problematico, e che il
trascendimento formale della ragione umana verso l'incondizionato non esce
realmente dal finito, non autorizza un'identificazione speculativa del finito con
l'infinito. Considerare il finito come positivo significa, invece, stabilire una
connessione inscindibile tra limite e possibilit, nel senso che ad ogni rigorosa
determinazione di un limite cui l'esistenza dell'uomo invariabilmente sottoposta pu
sempre corrispondere (in modalit che andranno di volta in volta precisate) un campo
di possibilit autentiche, che proprio quel limite fonda e garantisce. Questa dinamica
pu anche avere conseguenze drammatiche, poich il rapporto dell'uomo con la
totalit esprime pur sempre (e non pu non esprimere) una preponderanza della
totalit sull'uomo, una dipendenza dell'individuo dal mondo naturale e storico in cui
inserito. Ma ci non rappresenta un'obiezione, se si considera che il discorso della
positivit implica tutt'altro che il riferimento ad un'esistenza umana pacificata e
compiuta, riposante per cos dire nei suoi limiti, e quindi priva di tensioni,
contraddizioni, lacerazioni. La positivit che qui abbiamo in mente non una tonalit
emotiva, sebbene possa diventarlo; il finito positivo in quanto originariamente
senso, il senso delle possibilit dell'uomo.
Proviamo ad indicare i luoghi kantiani che pi facilmente confermano questa
interpretazione della finitezza, tenendo presente l'itinerario che abbiamo compiuto e le
conclusioni raggiunte. Ad esempio, nell'Analitica trascendentale della Critica della
ragion pura, la chiusura del campo noumenico alla conoscenza dell'uomo non ci fa
prendere atto che non conosciamo le cose in s, che la nostra conoscenza si ferma
ai fenomeni, se ci dovesse significare una separazione irrimediabile dal cuore della
realt; invece proprio perch non conosciamo le cose in s (e, teoreticamente
parlando, neppure siamo in grado di sapere se esse vi siano) che i fenomeni possono
sottostare all'unit sintetica dell'appercezione e darci quindi una vera conoscenza del
reale: la dottrina dei noumeni negativi toglie vigore argomentativo sia al dogmatismo
metafisico che allo scetticismo fenomenistico, elaborando un concetto positivo,
autonomo, della conoscenza finita dell'uomo. Nella Dialettica trascendentale,
l'incompletezza della ragione sul piano teoretico non solo costituisce una permanente
istanza di controllo critico della scienza empirica, facendo s che essa spinga sempre
pi a fondo l'unificazione e la coordinazione legale dei fenomeni naturali, ma prepara
e custodisce quello spazio vuoto, quella dimensione meta-teoretica in cui la
soggettivit umana pu trovare appagamento.[104] Questo spazio viene riempito
concretamente dalla ragion pratica, ma anche in questo caso non bisogna lasciarsi
ingannare dall'ambigua definizione del primato: nonostante il parere di autorevoli
interpreti, la tesi di una sostanziale congruenza tra il piano della legge morale
universale e quello dei postulati (Dio e immortalit) ci sembra insostenibile per
ragioni lucidamente esibite dallo stesso Kant, in alcuni passaggi molto significativi;
anche qui si deve allora cogliere la connessione strutturale tra limite e possibilit,
sottolineando come proprio la differenza radicale della fede morale dal sapere
teoretico (da un lato) e dalla certezza pratica della legge e della libert (dall'altro) sia la
condizione di senso di un'etica del finito dai tratti decisamente mondani e moderni.
[105]
Porre l'accento sul carattere positivo della finitezza non significa ovviamente
sottacere gli aspetti del pensiero kantiano in cui maggiormente si avverte l'inquietante
presenza del negativo, del male, della lacerazione esistenziale e storica, e che hanno
fatto intravedere in Kant addirittura un precursore del postmoderno.[106] Ci di cui in
realt abbiamo bisogno un'interpretazione di tipo dialettico, che sappia cogliere
entrambi i poli entro cui si muove l'esistenza umana finita, senza comporli in una
prospettiva astratta e conciliatrice, ma anche senza esasperarne la tensione al punto di
rendere inoperante e irriconoscibile, dietro il limite, la possibilit. Naturalmente
questa polarit interna non offre una chiave ermeneutica generalizzata, ma andrebbe
verificata, di volta in volta, nei diversi contesti problematici della filosofia di Kant,
soprattutto nelle transizioni da un contesto all'altro, che talora possono essere lette
come vere e proprie riconversioni di limiti in possibilit: mutamenti di ottica che
fanno apparire in una luce nuova e operativamente pi feconda ci che sembrava
lasciare il soggetto in una situazione di mera opacit, passivit e insoddisfazione. del
resto caratteristica essenziale della nozione kantiana di trascendentale
l'impossibilit di configurarsi come sostanza,[107] come univocit ontologica, e
dunque la necessit di risolversi funzionalmente in campi di validit distinti, anche se
correlabili. La trascendentalit la finitezza assunta come senso.
Ma quello che ci pare importante segnalare, al termine della nostra discussione, che,
da un lato, all'interno di ogni campo la dialettica di limite e possibilit assume forme
specifiche che definiscono la stessa struttura di quel campo; d'altra parte, il passaggio
da un campo all'altro s indicativo del mutamento di ottica che dicevamo, tuttavia
non comporta affatto la rimozione (l'Aufhebung) dei limiti del campo precedente.
quanto abbiamo cercato di mostrare nel passaggio dalle idee ai postulati: la ragion
pratica non sopprime i limiti della ragione teoretica, piuttosto li declina diversamente,
esibendoli tra le condizioni di possibilit dell'articolazione e dell'autonomia del suo
campo. Se in qualche misura corretto affermare che la ragion pratica risolve quei
problemi che la ragione teoretica sollevava necessariamente al proprio interno (senza
poter decidere in un senso o nell'altro), altrettanto vero che pu risolverli
esclusivamente nel suo linguaggio e nei suoi limiti. La ragion pratica non solo non
oltrepassa i limiti della sfera teoretica, la finitezza del conoscere, ma pu dare una
nuova forma di senso e di validit ai concetti fondamentali della metafisica
unicamente in quanto introduce altri limiti, altra finitezza. L'interrogazione sul senso
della totalit che all'origine dell'esigenza metafisica e che costituisce la destinazione
necessaria della ragione umana, rimane dunque consegnata all'orizzonte del finito, e
tale consegna, positivamente considerata, il fondamento stesso della dignit
dell'uomo, dell'autenticit del suo essere-nel-mondo, della possibilit di una vita
consapevole e responsabile. In Kant, il paradosso della metafisica, da cui siamo partiti,
sembra condurre a questo approdo, che ovviamente dovrebbe aprirsi a nuove indagini
e suscitare nuove domande.
Copyright 2004 Mario Smargiassi
Mario Smargiassi. I limiti del sapere: metafisica e ragion pratica in Kant. Dialegesthai.
Rivista telematica di filosofia [in linea], anno 6 (2004) [inserito il 1 settembre 2004],
Note
1. Un ampio studio condotto esplicitamente da questa prospettiva quello di H. Konhardt,
Die Einheit der Vernunft. Zum Verhltnis von theoretischer und praktischer Vernunft in
der Philosophie Immanuel Kants, Hain, Meisenheim am Glan 1979.
2. I. Kant, Critica della ragion pura, tr. it. a cura di P. Chiodi, UTET, Torino 1986, p. 29.
3. L'autentico scopo dell'indagine metafisica costituito soltanto da tre idee: Dio, libert,
immortalit, secondo un ordine per cui il secondo concetto, connesso al primo, deve
condurre al terzo, quale risultato necessario. Ogni altra cosa di cui questa scienza si
occupa, non le serve che come mezzo per giungere a queste idee ed alla loro realt. Le idee
occorrono alla metafisica non gi in vista della scienza della natura, ma per
l'oltrepassamento della natura (Critica della ragion pura, cit., p. 295, nota a).
4. Cfr., su questa linea interpretativa, O. Marquard, Skeptische Methode im Blick auf Kant,
Alber, Freiburg/Mnchen 1958, pp. 30ss.; J. Mittelstrass, Neuzeit und Aufklrung, De
Gruyter, Berlin/New York 1970, pp. 52ss. Sull'originariet della domanda metafisica, in
netto contrasto con l'indirizzo empiristico dell'esegesi kantiana, cfr. l'ampia ricerca di
Marty, il quale ritiene che in Kant la metafisica, anzich la sua presunta fine, ritrovi
piuttosto il suo autentico punto d'origine e la possibilit di un'organizzazione sistematica;
soltanto la metafisica intesa come dottrina costituita, e consegnata ad un manuale, cio
la metafisica razionalistica di stampo leibniziano-wolffiano, sarebbe con Kant giunta
realmente alla fine (cfr. F. Marty, La naissance de la metaphysique chez Kant. Une
tude sur la notion kantienne d'analogie, Paris, Beauchesne, 1980).
5. I. Kant, Prolegomeni ad ogni metafisica futura che vorr presentarsi come scienza, tr. it.
a cura di P. Martinetti (con testo tedesco a fronte), Rusconi, Milano 1995, p. 251.
6. Ibidem.
7. Sulla Dialettica trascendentale, l'opera di pi ampio respiro ed impegno teoretico rimane
quella, ormai classica, di Heinz Heimsoeth (cfr. H. Heimsoeth, Transzendentale
Dialektik. Ein Kommentar zu Kants Kritik der reinen Vernunft, 4 voll., De Gruyter,
Berlin, 1966-1971). Tra i lavori pi recenti, il volume di Michelle Grier si segnala sia per
l'attenta analisi del livello argomentativo generale della Dialettica, sia per la continua
sottolineatura degli aspetti metodologici ed epistemologici della concezione kantiana
dell'uso regolativo delle idee (cfr. M. Grier, Kant's Doctrine of Transcendental Illusion,
Cambridge University Press, Cambridge 2001).
8. Critica della ragion pura, cit., p. 288
9. Il metodo con cui Kant ricava le tre idee della ragion pura dalle forme dell'inferenza
sillogistica (categorica, ipotetica o disgiuntiva) stato spesso criticato come oscuro ed
artificioso, non senza qualche fondamento. Per un'analisi delle obiezioni mosse a Kant
su questo punto e un tentativo, se non di difesa, almeno di comprensione pi
approfondita dell'argomento kantiano, cfr. M. Grier, Kant's Doctrine of Transcendental
Illusion, cit., pp. 133-139.
10. Critica della ragion pura, cit., pp. 292-293.
11. I. Kant, I progressi della metafisica, tr. it. a cura di P. Manganaro, Bibliopolis, Napoli
1967, p. 97.
12. La differenza fondamentale tra conoscenza infinita e conoscenza finita che mentre la
prima creatrice del suo oggetto, alla seconda, caratteristica dell'uomo, l'oggetto
originariamente dato (e solo in quanto dato ha bisogno di essere pensato,
determinato attraverso le categorie dell'intelletto). Scrive Heidegger: Se la conoscenza
darci la totalit assoluta dell'esperienza e perci come una trama senza fine, che ci rinvia
sempre ad altri termini a noi non dati, ma condizionanti i termini a noi dati, si slancia per
cos dire al di l dell'esperienza, onde riattaccarsi a principi noumenici assoluti, che sono
naturalmente non la totalit effettiva degli oggetti dell'esperienza, ma una specie di
totalit virtuale, onde determinata la serie intera degli oggetti possibili (P. Martinetti,
Introduzione alla metafisica. Teoria della conoscenza, Marietti, Torino 1987, p. 191).
21. Il riferimento oggettivo del principio euristico sempre un riferimento indiretto, ma in
questa forma anche universalmente necessario, che "indica" compiti e "metodi" in ogni
comprensione della natura (H. Heimsoeth, Transzendentale Dialektik, cit., vol. III, p.
596).
22. Prolegomeni, cit., p. 215.
23. Critica della ragion pura, cit., p. 230.
24. Prolegomeni, cit., p. 225.
25. Ivi, p. 237.
26. Per alcune considerazioni generali sulla dialettica tra limite e possibilit, si veda
l'ultimo paragrafo di questo saggio.
27. Critica della ragion pura, cit., p. 490.
28. Prolegomeni, cit., p. 241.
29. Critica della ragion pura, cit., p. 567.
30. I. Kant, Critica della ragione pratica, tr. it. a cura di A. M. Marietti (con testo tedesco a
fronte), Rizzoli, Milano 1994, p. 371. Il concetto del sommo bene non compare
nell'Analitica della ragion pura pratica (la parte dell'opera dedicata espressamente
all'individuazione ed analisi del principio formale costitutivo della moralit), ma soltanto
nella Dialettica della ragion pura pratica (in cui si affaccia invece l'esigenza di
determinare l'oggetto della volont morale). L'oggetto ultimo cui tende la ragion pura
pratica la totalit incondizionata, ma in questo modo, analogamente a quanto avviene
nel campo teoretico, la ragione diventa dialettica ed entra in conflitto con se stessa
(riprendendo il linguaggio della prima Critica, Kant parla qui di antinomia della ragion
pratica). La tensione di fondo che genera la dialettica in campo pratico quella tra la
virt, il rispetto scrupoloso e disinteressato della legge morale, che costituisce la
condizione suprema dell'etica, e la felicit, che per un essere finito non pu non entrare a
far parte della totalit del senso dell'istanza pratica. La soluzione dell'antinomia non
consiste nella semplice eliminazione della felicit dall'etica (stoicismo), e neppure
nell'identificazione immediata della virt con la felicit (epicureismo), bens nella
rigorosa subordinazione della felicit alla virt: per avere un valore etico, la felicit deve
essere pensata esclusivamente come conseguenza (in un mondo possibile) del rispetto
della legge. Sull'antinomia della ragion pratica e il suo rapporto con la dottrina del sommo
bene (se vi sia realmente un'antinomia, come ritiene Kant; il ruolo effettivo svolto dai
postulati nella sua soluzione; la differenza tra mondo sensibile e mondo intelligibile, ecc.),
cfr. B. Milz, Der gesuchte Widerstreit. Die Antinomie in Kants Kritik der praktischen
Vernunft, De Gruyter, Berlin/New York 2002.
31. Critica della ragione pratica, cit., pp. 373ss.
32. Che l'etica kantiana sia tenacemente e sistematicamente ostile alla felicit, che dunque
quest'ultima non possa in nessun caso rappresentare un bene, opinione diffusa e
trova riscontro in affermazioni assai nette di Kant al riguardo. Tuttavia ci non
corrisponde alla realt, soprattutto se la questione della felicit viene analizzata non solo
nella Critica della ragion pratica, ma anche per esempio nella Metafisica dei costumi,
pi attenta agli aspetti applicativi della riflessione morale. Recentemente, Allen Wood
ha inteso mostrare come in Kant il valore condizionale della felicit (cio il fatto che
essa non possa essere, di per s, un bene) non conduca ad una posizione
antieudaimonistica di principio, e proprio il concetto del sommo bene nel mondo ne offre
una chiara testimonianza: Dal punto di vista umano, il valore condizionale della felicit
significa che essa buona solo nella misura in cui il suo scopo moralmente permesso. La
felicit di cui godo attraverso la violazione di diritti altrui o del mio dovere non un bene.
Ma, in conseguenza di ci, ogni porzione di felicit che mi pongo come fine senza violare
nessuno dei miei doveri diventa un bene e ha un diritto oggettivo su tutti gli esseri
razionali (A. Wood, Kant's Ethical Thought, Cambridge University Press, Cambridge
1999, p. 409). La monografia di Wood senz'altro tra le pi aggiornate e complete uscite
negli ultimi anni e ha soprattutto il pregio di sottolineare la concretezza del pensiero
etico di Kant, spesso al di l delle sue formulazioni esplicite.
33. Critica della ragione pratica, cit., pp. 403-405.
34. Ivi, p. 405.
35. Muovendo da questo concetto kantiano-fichtiano dell'infinit del compito morale,
Cohen stabilisce una distinzione rigorosa tra eternit ed immortalit, che in Kant ancora
si intrecciavano e confondevano: L'eternit non significa cos null'altro che la prospettiva
dell'incessante, infinito tendere ad andare avanti da parte della volont pura. Di per s,
non significa affatto un tempo eterno o un luogo eterno, ma solo il lavoro eterno (H.
Cohen, Etica della volont pura, tr. it. a cura di G. Gigliotti, ESI, Napoli 1994, p. 296). Al
contrario, per Cohen, l'idea dell'immortalit individuale non necessaria alla fondazione
dell'autocoscienza etica e affonda le sue radici nel mito.
36. Un'interpretazione del postulato dell'immortalit in senso radicalmente immanentistico
stata riproposta recentemente da Alain Renaut: La nozione tradizionale d'immortalit
dell'anima nient'altro che la versione ipostatizzata dell'idea di un miglioramento
indefinito del reale, di un progresso all'infinito e di una vittoria riportata all'infinito sulla
natura -- cio, chiaramente, l'idea di un progresso eterno del genere umano o
dell'immortalit della specie, che l'idea di immortalit individuale esprime alla sua
maniera, a condizione di significare soltanto la relazione dell'individuo con un progresso
collettivo che lo oltrepassa, in cui egli muore senza morire veramente, poich il progresso
verso il bene continua (A. Renaut, Kant aujourd'hui, Aubier, Paris 1997, p. 178).
37. Critica della ragione pratica, cit., p. 407.
38. Ivi, p. 411.
39. Il fatto che la realt del sommo bene debba richiedere un intervento di Dio non vuol dire
che la realizzazione di esso non costituisca lo scopo finale della ragion pratica finita, il
termine ideale della progettualit e della prassi umana. Al contrario, il sommo bene per
Kant l'unico fine in cui possiamo vedere unificati gli sforzi di tutti gli esseri razionali ben
disposti, e perci l'unico fine concepibile che possa essere universalmente condiviso da
tutti gli uomini e considerato da essi come un fine comune di tutti i loro sforzi (nella
misura in cui questi sforzi si accordano con la moralit) (A. Wood, Kant's Ethical
Thought, cit., p. 313). Tra il sommo bene totalmente compiuto, e il sommo bene
puramente sognato ed atteso, c' l'intenzionalit concreta del lavoro etico degli uomini, e
in questo spazio operativo si situano quelle tensioni ed ambiguit della dottrina kantiana
del sommo bene spesso rilevate dalla critica. Sulle diverse accezioni del sommo bene
nell'opera di Kant, cfr. J. Silber, Kant's Conception of Highest Good as immanent and
transcendent, in: Philosophical Review (1959), pp. 469-492.
40. Critica della ragione pratica, cit., p. 413.
41. Ivi, pp. 431-433 (il corsivo nostro).
42. Cfr. l'importante nota della Prefazione: La libert bens la ratio essendi della legge
morale, ma la legge morale la ratio cognoscendi della libert. Poich, se la legge morale
non fosse prima pensata chiaramente nella nostra ragione, noi non ci riterremmo mai
autorizzati ad ammettere qualcosa come la libert (sebbene quest'ultima non sia in s
contraddittoria). Ma se non ci fosse alcuna libert, sarebbe impossibile incontrare la legge
morale in noi (Ivi, p. 95, nota a).
confinato nell'ambito pratico, facendone derivare, semmai, il 'primato' che, proprio per
questo, sarebbe da riconoscere alla 'ragion pratica' nei confronti di quella teoretica, ma
anche in tal modo confermandone l'estraneit rispetto a quest'ultima (S. Landucci,
Sull'etica di Kant, Guerini, Milano 1994, p. 203).
58. I. Kant, Critica della facolt di giudizio, tr. it. a cura di E. Garroni e H. Hohenegger,
Einaudi, Torino 1999, pp. 278-279.
59. Ivi, p. 288.
60. Cohen stato uno dei critici pi radicali non solo della dottrina dei postulati, ma della
stessa idea del sommo bene, in cui ha ravvisato un pericoloso cedimento dell'etica
kantiana all'eudaimonismo e dunque l'offuscarsi di quella purezza del movente morale
che lo stesso Kant aveva cos energicamente affermato. Scrive infatti Cohen: Per la
certezza della realt etica che autonoma in s, suprema e inattaccabile, per la fermezza
dell'autonomia morale e per l'affermazione della sublimit della legge morale formale,
nella quale la massima privata, mediante la sua unit con la comunit degli esseri
autonomi, diventa scopo in s, scopo finale; in base a questa idea fondamentale dell'etica
kantiana noi rifiutiamo i postulati; essi differiscono lo scopo finale; la determinazione
materiale che era stata evitata s'insinua di nuovo nella legge morale (H. Cohen, La
fondazione kantiana dell'etica, tr. it. a cura di G. Gigliotti, Milella, Lecce 1984, pp. 323324). D'altra parte, questa conseguenza pu essere evitata distinguendo accuratamente il
fondamento universale dell'etica dalla struttura di una volont finita, in cui la moralit si
incarna in una dimensione progettuale teleologica: La tarda dottrina kantiana del
sommo bene presuppone [...] proprio la teoria definitiva della moralit e la fondazione dei
suoi principi indipendentemente dall'idea del sommo bene; quest'ultimo sorge solo
dall'applicazione della pura morale alla teleologia di un volere finito; non lo scopo
supremo gi dato, ma quello che deve essere dapprima progettato, del nostro agire morale
nel mondo (K. Dsing, Il problema del sommo bene nella filosofia pratica di Kant, in:
AA. VV., Introduzione alla morale di Kant. Guida alla critica, a cura di G. Tognini, NIS,
Roma 1993, p. 135).
61. Pietro Chiodi ha bene illustrato l'insostenibilit di questa tesi, nel modo seguente: Nulla
di pi falsante che inserire la rigorosa sottrazione del mondo morale alle condizioni di
validit del mondo della conoscenza nel presunto progetto di una riabilitazione della
vecchia metafisica e dei suoi schemi fondativi [...]. Il mondo morale, come ogni altro
mondo dell'attivit umana, risponde a specifiche e precise condizioni di validit. La sua
incondizionatezza rispetto al mondo della conoscenza non il risultato di una sottrazione
a qualunque ordine e tipo di considerazione, ma il modo di essere di un particolare tipo di
condizionamento. Fra mondo della conoscenza e mondo morale esiste un rapporto di
compatibilit e non di riduzione delle rispettive condizioni di validit. Questo il
significato del celebre: "Ho dovuto delimitare il sapere per far posto alla fede" della
Prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura (P. Chiodi, La
deduzione nell'opera di Kant, Taylor, Torino 1961, p. 278).
62. Questo punto in realt piuttosto controverso, alcuni autori contestano vivacemente la
riduzione soggettiva della validit dei postulati. Ad esempio, Lewis White Beck, nel suo
commentario analitico alla Critica della ragion pratica, obietta che se la dottrina dei
postulati si riferisse esclusivamente al postulare come atto pratico e non alla verit dei
postulati stessi, non sarebbe possibile costruire una teoria unitaria della ragione umana
(teoretica e pratica); Kant, al contrario, proprio per aver pensato l'unit dei due interessi
della ragione in modo tale che l'insufficienza della ragione teoretica venga colmata
dalla ragion pratica, ha considerato l'argomento morale [come valido] per gli oggetti
posti, e non solo come un argomento per la necessit di porre questi oggetti (L. W. Beck,
Kants Kritik der praktischen Vernunft. Ein Kommentar, Finke, Mnchen 1974, p.
243). Il rilievo di Beck ci pare corretto solo nella misura in cui, per Kant, i postulati hanno
effettivamente un oggetto, una direzione intenzionale legittima, e in questa struttura
l'oggetto tanto necessario quanto l'atto. Questo per non significa che si esca dalla
necessit soggettiva di porre un oggetto (per la volont), come ritiene Beck, che non a
incarnare, nella fede, questo interesse (cfr. M. Kuehn, "Kant's Transcendental Deduction
of God's Existence as a Postulate of Pure Practical Reason", in: Kant-Studien, 76 (1985),
pp. 152-169). Se dunque la fede morale di Kant ben lontana da qualsiasi decisionismo,
non assumendo mai la forma della scommessa o del salto mortale, non ponendo mai
unilateralmente l'accento sull'individualit della scelta, ci sembra per che un certo
spessore esistenziale dell'apertura alle cose del credere sia effettivamente presente e
risulti peraltro in linea con l'impostazione generale del razionalismo critico kantiano.
Questa apertura infatti accessibile ad ogni essere razionale finito (in quanto
strutturalmente interessato al compimento dell'istanza pratica), ma, non potendo essere
comandata bens solo raccomandata, rimane res subjecti.
87. Critica della facolt di giudizio, cit., pp. 299-300.
88. Ivi, p. 300.
89. Di questo avviso Weil, che cos commenta la prospettiva della Critica della facolt di
giudizio sulla libert come fatto: Il cambiamento talmente importante da
coinvolgere anche la concezione della libert. Kant, vero, aveva esitato. Nella Critica
della ragion pura, almeno a volte, aveva presentato la libert come un fatto immediato e
direttamente conosciuto; nella Critica della ragion pratica la libert era dedotta
dall'esistenza della legge morale, essa sola immediatamente saputa; ora Kant le riconcilia
[...]. La libert si prova nell'azione: in altre parole, vi sono azioni sensate (E. Weil, op.
cit., pp. 92-93).
90. Cfr., in proposito, F. Kaulbach, Immanuel Kant, De Gruyter, Berlin 1969, p. 247.
91. Uno dei limiti pi palesi dell'interpretazione heideggeriana del problema della metafisica
in Kant ci sembra proprio quello di non aver valorizzato fino in fondo la dimensione eticopratica della finitezza umana, come terreno nativo di una metafisica concreta. Per la
verit, lo stesso Heidegger aveva aperto la strada per questo genere di approfondimento,
in un paragrafo del suo Kantbuch dedicato all'analisi del nesso tra immaginazione
trascendentale e ragion pratica (cfr. M. Heidegger, op. cit., pp. 137ss.); qui Heidegger
offre un frammento di lettura ontologico-esistenziale del sentimento morale:
Sottoponendomi alla legge, io mi sottopongo a me stesso in quanto ragion pura. In
questo sottopor-mi-a-me-stesso, io mi elevo a me stesso, come a un essere libero che si
autodetermina. Questo particolare elevar-si a se stesso, sottomettendosi a s, manifesta
l'Io nella sua "dignit". E in un senso negativo: nel rispetto per la legge, che io stesso mi
do in quanto essere libero, io non posso disprezzarmi. [...] Il rispetto il modo d'esser
responsabile dell'essere di fronte a se stesso, l'autentico esser se stesso (ivi, p. 137).
tuttavia evidente che in Heidegger gli accenti fondamentali sono spostati altrove, e
precisamente confluiscono in quella ripetizione del problema della temporalit come
orizzonte essenziale dell'esistenza finita, che Kant aveva in qualche modo individuato
nella sua dottrina dello schematismo trascendentale senza poterne svolgere
coerentemente le implicazioni. Naturalmente le analisi heideggeriane del rapporto tra
temporalit, finitezza e metafisica rimangono un punto di riferimento imprescindibile per
l'ermeneutica kantiana, ma ci si pu domandare se l'interesse assolutamente dominante
posto sulla Critica della ragion pura non tradisca un teoreticismo di fondo cui
Heidegger rimasto fermo anche nel periodo successivo della sua riflessione filosofica.
Non infatti possibile ripetere il problema della metafisica anche muovendo dalla
Critica della ragion pratica? Kant non ha forse richiesto l'unit della ragione umana
finita nei suoi diversi interessi (teoretico e pratico), conferendo un primato di senso
alla ragion pratica intesa come libert? Per Krger, il cui libro del 1931 sulla morale
kantiana una sorta di contrappunto dell'interpretazione di Heidegger, l'autentico
nucleo della finitezza umana non da rintracciare nella temporalit e nell'essere-per-lamorte, bens nel costituirsi della legge morale come fatto della ragione (cfr. G. Krger,
Philosophie und Moral in der kantischen Kritik, II ed., Mohr, Tbingen 1969, pp. 230231). L'opera di Krger discutibile per la sottovalutazione sistematica degli aspetti pi
moderni dell'etica kantiana e per una lettura forse troppo platonizzante di Kant, ma
metodologicamente ha aperto una valida prospettiva di ricerca. Sulla praticit della
domanda metafisica come domanda di senso, si vedano i volumi di Weil e Marty gi citati.
92. Come la proporzione delle facolt conoscitive dell'uomo sia saviamente adeguata alla
sua destinazione pratica (Critica della ragione pratica, cit., pp. 465-469).
93. Ivi, p. 465.
94. La stessa nozione del primato della ragion pratica non esprime un primato sulla ragione
teoretica, se ci deve significare che il fondamento ultimo della ragione teoretica si trova
al di fuori di essa, cio nella pratica. In realt, tra le due sfere della ragione umana
possibile solo correlazione (in termini di equilibrio o armonia), ma non riduzione
dell'una all'altra, n riconduzione di entrambe ad un contesto semantico omogeneo,
originariamente indifferenziato. Primato della ragion pratica significa invece che, nella
composizione armonica tra interessi diversi in cui consiste la strutturazione unitaria della
ragione, l'interesse pratico l'unico che dischiude propriamente un orizzonte di senso
all'esistenza umana nel mondo (si veda, in proposito, l'ultimo paragrafo di questo lavoro).
Sull'unit della ragione umana in quanto si estrinseca in due dimensioni co-originarie e
irriducibili, cfr. D. Henrich, "Der Begriff der sittlichen Einsicht und Kant's Lehre vom
Faktum der Vernunft", in: Kant, hrsg. von G. Prauss, Kln 1973, pp. 226-227.
95. Critica della ragion pratica, cit., p. 467.
96. Ivi, p. 469.
97. Una delle esegesi pi penetranti del passo in questione quella fornita da Weil (cfr. E.
Weil, Problemi kantiani, tr. it. a cura di P. Venditti, Quattroventi, Urbino 1980, pp. 4446). L'autore pone giustamente in connessione l'impossibilit di una conoscenza oggettiva
di Dio con la stessa struttura finita, temporale, libera e responsabile dell'esistenza umana
nel mondo, dunque con il senso autentico di questa esistenza. Cfr. anche P. Chiodi, La
deduzione nell'opera di Kant, cit., p. 279; H. Konhardt, op. cit, pp. 272-273.
98. Ogni conoscenza, ogni scienza oggettivante di Dio andrebbe contro l'interesse dell'uomo,
su un punto decisivo, il punto decisivo: il possesso di una tale conoscenza trasformerebbe
l'essere libero nella propria responsabilit, soggetto delle proprie decisioni e delle proprie
scelte, nello schiavo obbediente o in rivolta di un signore la cui onnipotenza,
continuamente davanti agli occhi dell'uomo, farebbe di lui tutt'al pi un tecnico della
felicit (E. Weil, op. cit., p. 45).
99. Critica della ragione pratica, cit., p. 469.
100. C. Chalier, Pour une morale au-de-la du savoir. Kant et Levinas, Albin Michel, Paris
1998. Questo studio costituisce un articolato confronto tra due prospettive che vengono
talora collocate, piuttosto genericamente, ai poli opposti del pensiero etico (Kant come il
filosofo dell'autonomia, Levinas come il sostenitore pi radicale dell'eteronomia).
L'autore ha giustamente individuato nella tematica dell'al di l del sapere l'autentico
punto di intersezione ed affinit tra i due modelli di filosofia morale. Solo muovendo da
questo nucleo tematico comune si potranno poi delineare con chiarezza le differenze di
orientamento: Kant e Levinas rinunciano all'illusione di fondare la morale sul sapere e
cercano nel soggetto la fonte della moralit. Tuttavia i loro percorsi d'approccio a questo
soggetto divergono; l'uno parte dal finito, l'altro dall'infinito. In effetti, Kant fa
innanzitutto astrazione dall'infinito e dalla presenza concreta dell'altro uomo, per isolare
l'elemento morale nella sua purezza e scoprire le sue condizioni a priori. [...] Levinas
pensa al contrario che la dimensione etica del soggetto si rivela solo a condizione di
cominciare dall'infinito e in quanto richiede la presenza singolare dell'altro uomo di
fronte a s. Ora, questa modalit presuppone, per il soggetto, la rinuncia ad ogni ricerca
del fondamento. Essa passa per una relazione con l'infinito irriducibile ad una
conoscenza, una relazione paradossale con ci che significa senza rivelarsi e che Levinas
chiama volto (Ivi., p. 32).
101. Senza l'uomo l'intera creazione sarebbe un semplice deserto, gratuita e senza scopo
finale. Per non neanche la sua facolt conoscitiva (ragione teoretica) ci in riferimento
a cui l'esistenza di tutto il resto nel mondo riceve, solo allora, il suo valore, per il fatto che,
per cos dire, c' qualcuno che pu considerare il mondo. Infatti, se questa considerazione
del mondo non gli rendesse rappresentabili nient'altro che cose senza scopo finale, dal
fatto che esso viene conosciuto la sua esistenza non ne deriverebbe in alcun modo un
valore; si deve gi presupporre un suo scopo finale in riferimento al quale la stessa
considerazione del mondo abbia un valore (Critica della facolt di giudizio, cit., pp. 274275).
102. Sono io che colgo nella conversione alla libert ragionevole, nella comprensione
immediata del mio fondamento, la possibilit di dare un senso alla mia esistenza e quindi
a quella del mondo [...]. Il mondo possiede senso e valore nella misura e solo nella misura
in cui l'uomo si pone nella sua azione e per sua scelta come senso rendendo sensata la
propria vita (E. Weil, Problemi kantiani, cit., p. 95).
103. Su Kant come filosofo della possibilit positiva, cfr. N. Abbagnano, Esistenzialismo
positivo. Due saggi (1948), in: Id., Scritti esistenzialisti (a cura di B. Maiorca), UTET,
Torino 1988, pp. 501-533, pp. 522-523.
104. La ragion pratica "occupa" certamente lo "spazio vuoto" creato e preservato dalla
ragione teoretica, ma non nel modo oggettivo che "dissimula" l'uso teoretico della ragione,
bens nel modo della realizzazione pratica; e questa l'"apertura nella libert" (G.
Reibenschuh, Menschliches Denken. Eine systematische Studie am Boden der Kantischen
Philosophie, De Gruyter, Berlin/New York 1997, p. 194). Il lavoro di Reibenschuh non
soltanto una ricerca monografica su Kant, ma un dialogo fitto e appassionato con i temi
centrali della filosofia kantiana, nella prospettiva di una metafisica concreta: La
"metafisica concreta" non sostanzialmente una "dottrina", che in quanto dottrina
sarebbe sempre eteronoma, ma rappresenta la compenetrazione per principio
processuale del singolo uomo concreto nella dimensione morale-spirituale, in cui egli non
pu mai essere "al posto di altri" (G. Reibenschuh, op. cit., p. 226). Il criterio generale
che l'autore adotta per distinguere la metafisica astratta dalla metafisica concreta
che quest'ultima: 1) si configura come orizzonte di senso e processualit, non come
dottrina statica (lo spazio vuoto della ragione teoretica rende possibile la dinamica
concreta della libert); 2) la sfera di autenticit del soggetto quella dell'autonomia
morale, che tuttavia non pu realizzarsi nell'interiorit privata, ma deve fungere
essenzialmente da condizione di riconoscimento reciproco, comunicazione e tolleranza
(nella relazione io-tu). Certo si tratta di un Kant riletto alla luce dell'esperienza filosofica
contemporanea (Buber e Jaspers in particolare) e del dibattito, ancora molto vivo, sulla
crisi delle ideologie, ma proprio in questo tentativo di attualizzazione della
metafisica kantiana consiste l'originalit del contributo di Reibenschuh.
105. Sulla modernit dell'etica kantiana le opinioni sono tuttora piuttosto discordanti. Gi
Krger aveva sostenuto, con buoni argomenti e notevole impegno filologico, che Kant in
realt non si trova all'origine del pensiero moderno, bens alla fine della tradizionale
metafisica teistica; proprio questo genere di metafisica egli avrebbe cercato di salvare
dalla dissoluzione incombente, attraverso le esigenze della ragion pratica e la dottrina dei
postulati (cfr. G. Krger, Philosophie und Moral in der Kantischen Kritik, cit., pp. 5ss.).
Ora, ci sembra fuor di dubbio la presenza nel pensiero morale di Kant di elementi che si
inseriscono in un'organizzazione coerente solo presupponendo, alla loro base, una
concezione creaturale dell'uomo e della sua ragione (la ragione umana, come afferma il
Weil interprete di Kant, teomorfa, deve pensarsi come imago dei, anche se,
paradossalmente, non pu conoscere nulla della natura di Dio). per altrettanto vero
che l'aver ricondotto chiaramente almeno due concetti della metafisica tradizionale (Dio e
l'immortalit) nell'ambito del soggettivo, della fede (e non del fondamento) morale,
non rappresenta un estremo tentativo di conservazione dell'ordine ontologico vigente,
bens una rottura radicale con esso, forse oltre le stesse intenzioni di Kant. In ogni caso,
anche accogliendo parzialmente l'obiezione di Krger, occorre prendere atto che nella
Critica della ragion pratica si manifestano precise linee di tendenza che, nel loro
insieme, collaborano alla costruzione di una coscienza moderna, in quanto rendono il
passaggio dalla morale alla metafisica teistica sempre pi debole e soggettivo (B. Milz,
Der Gesuchte Widerstreit, cit., p. 352).
106. Cfr. A. Caracciolo, Kant e il nichilismo contemporaneo, in: Id., Pensiero contemporaneo e
nichilismo, Guida, Napoli 1976, pp. 7-35. L'autore, tentando di valutare la presenza di
Kant nella vicenda del nichilismo contemporaneo, considerato nella molteplicit delle
dimensioni che esso investe, scorge non solo, nella dottrina del male radicale, una
manifestazione ante litteram della crisi del moderno nel cuore stesso della modernit, ma
anche, nell'insistenza di Kant sulla fede morale come donazione di senso, l'attivazione di
un circolo non vizioso che conduce oltre il nichilismo.
107. Per un'analisi critica del concetto di trascendentale e una fenomenologia delle non
poche oscillazioni semantiche cui Kant lo sottopone nella stessa Critica della ragion
pura, cfr. A. Rigobello, I limiti del trascendentale in Kant, Silva, Milano 1963, in cui si
mette bene in luce la singolare natura di aggettivo insostantivabile del trascendentale
kantiano.