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GRUPPOANALISI E COMUNITA'

TERAPEUTICA
UNO STRUMENTO DI LAVORO BASATO SU
SUPERVISIONE, VALUTAZIONE E RICERCA

RAFFAELE BARONE, SIMONE BRUSCHETTA, SERENA GIUNTA

EDIZIONI FRANCOANGELI, MILANO, 2010

Presentazione, Estratti e Citazioni


a cura di Simone Bruschetta

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Estratto dalla Prefazione
di Girolamo Lo Verso

Premessa
“Un testo utile che fornisce indicazioni per una prassi
efficace in contesti in cui spesso la mancanza di progettazione
schiaccia operatori e pazienti sotto il peso di banalizzazioni e
riduzionismi di ogni genere, pressioni ed inefficienze politico-
clientelari, contenimento farmacologico spesso fine a se stesso”.

Piuttosto che fornire improbabili procedure manualistiche con


formule e linee guida questo volume fornisce quadri teorici,
indicazioni di teoria della prassi, esperienze cliniche, aiuti alla
progettazioni, elaborazione e valutazione del lavoro. Tutto questo
nella convinzione che ogni realtà comunitaria debba avere una sua
progettazione gestionale e clinica e che ogni paziente debba avere un
proprio “progetto terapeutico personalizzato”.

Le strutture intermedie per la salute mentale


Le strutture intermedie comunitarie hanno una lunga storia nel
campo della salute mentale. La gruppoanalisi stessa viene in parte
fondata dal lavoro in questo campo di Bion, Foulkes, Main ecc. nel
dopoguerra inglese, da quello di Fabrizio e Diego Napolitani negli
anni ‘70 e da quello successivo di psichiatri/psicoterapeuti
gruppoanalisti quali Di Marco, Fasolo, Nosè, Federico, Mulè,
Barone, Bellia e molti altri che hanno concepito ed elaborato i servizi
di salute mentale in termini comunitari secondo il vecchio principio
di Rapaport, citato nel testo, di “community as a doctor”. Principio
che assunse dalla medicina il concetto di responsabilità della cura ma
che si basa sulla dimensione multipersonale, contestuale e relazionale
per realizzare la stessa. Sulla base dell’idea che in comunità ogni
fatto ed ogni gesto debbano essere finalizzati sia nei momenti di
specifiche relazioni riabilitative sia nella convivenza quotidiana.

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“Nel testo che qui presento viene esposta e valutata
un’esperienza che diviene il cuore ed il metodo principale della
possibilità terapeutica della comunità: quella dei gruppi. Gruppi
terapeutici e riabilitativi, gruppi di staff, gruppi di equipe ecc.; è
la dimensione gruppale che dinamicizza la formazione
psicologico-clinica degli operatori e consente loro di elaborare
un pensiero operativo sugli accadimenti della comunità e/o di
realizzare co-visioni e supervisioni”.

Il contesto storico-culturale del libro


Viviamo in anni problematici in cui ci interroghiamo sul perché il
modello analitico-comunitario non sia diventato prevalente in Italia
come metodo di cura. In questo volume vi è in parte una risposta
poiché si parla di “cura presa sul serio” e che non crei la
cronicizzazione che comunità non dinamiche, non basate sulla
centralità della relazione e della clinica ma esclusivamente su
contenimento farmacologico e riabilitazioni rigide e di
intrattenimento, rischiano di determinare

“Questo testo, a mio avviso può essere considerato come


fondativo di quella che oserei chiamare “gruppoanalisi
soggettuale di comunità” in cui la relazione è considerata
centrale nella nascita della vita psichica, della psicopatologia,
del lavoro di cura sia negli specifici momenti ad esso dedicati,
che nella vita di comunità, che nel rapporto con il territorio”.

La teoresi gruppoanalitica e la valutazione empirica


Nel testo vi è un approfondimento ed una rielaborazione del
lavoro di Foulkes e della scuola inglese, ma anche della
gruppoanalisi soggettuale italiana. Una integrazione rilevante, fra le
molte, è quella del concetto di “campo psichico” che partendo dalla
psicologia sociale è stato separatamente proposto in ambito analitico
all’inizio degli anni ’80 da Francesco Corrao, da Girolamo Lo Verso
stesso e dalla scuola siciliana di gruppoanalisi; utili contributi sono
venuti anche da Claudio Neri. Tale concetto si connette anche con
l’elaborazione di Renzo Carli sul contesto in psicologia clinica e di
Antonello Correale sul campo istituzionale, di matrice familiare e,

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pensiero familiare, campo familiare (Maurizio Andolfi, Vittorio
Cigoli, Corrado Pontalti).

“Nel libro sono contenute anche significative innovazioni. Una in


particolare riguarda il fondamentale lavoro di valutazione empirica
effettuata che mostra un modello di ricerca che tiene conto della
complessità dell’argomento, che integra metodi qualitativi,
quantitativi ed osservativi che non cerca improbabili oggettivazioni
ma affronta sul serio ed in modo adeguato l’oggetto di studio.
Particolarmente originale è poi la ricerca empirica in contemporanea
su gruppi di pazienti, di operatori, sulla rete, sulla supervisione.

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Estratto dall’Introduzione
di Raffele Barone, Simone Bruschetta, Serena Giunta

L’intento di fondo del libro


“L’intento di fondo che ci ha guidato nella redazione di
questo libro è stato quello di fornire degli orientamenti teorici ed
empirici sul dispositivo della Comunità Terapeutica intesa
gruppoanaliticamente come Set(ting) specifico per la cura dei
casi gravi orientato alla guarigione. Ma anche di presentare la
metodologia e l’epistemologia gruppale nelle sue varie modalità
operative ed applicazioni cliniche, con particolare riferimento
ad aspetti ed esperienze terapeutico-analitiche (osservazioni in
gruppo, carte di rete, gruppi terapeutici e gruppi di
supervisione) effettuate ed osservate direttamente sul campo”.

Sulla base di tali esperienze intendiamo contribuire alla riflessione


scientifica e culturale sul contributo che le Comunità Terapeutiche
hanno dato e possono ancora dare all’idea di una guarigione dalla
grave patologia mentale; oggi intesa come reale obiettivo terapeutico
secondo i più recenti orientamenti dell’Organizzazione Mondiale
della Sanità. Consideriamo infatti parte integrante della nostra pratica
clinica la tensione etica verso una guarigione dalla patologia mentale
che segua la definizione di Salute Mentale data dall’Organizzazione
Mondiale della Sanità, sin dal 2001, nel rapporto intitolato: Nuova
visione, nuove speranze.

“La salute mentale è uno stato di benessere nel quale il


singolo è consapevole delle proprie capacità, sa affrontare
le normali difficoltà della vita, sa lavorare in modo utile e
produttivo ed è in grado di apportare un contributo alla
propria comunità”.

Con tale rapporto l’OMS fonda quel nuovo approccio alla salute
mentale territoriale, riconoscendovi tra l’altro l’eccellente e la

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pionieristica funzione data dalla comunità scientifica italiana al suo
sviluppo, da allora denominato Community Based Mental Health.
A questo approccio, sviluppato successivamente con il Libro Verde
sulla Salute Mentale dalla Commissione Europea, riconosciamo il
grande merito di aver introdotto nella definizione di salute mentale
quelle fondamentali istanze contestuali, di tipo psicologico, sociale
ed economico, che la gruppoanalisi italiana ha, sin dalla sua nascita,
considerato come la matrice non soltanto del disagio mentale ma
anche della stessa identità psichica dell’essere umano.
Con questo libro ci proponiamo di valorizzare quindi le feconde
intuizioni comunitarie della gruppoanalisi al fine di presentare una
pratica di cura elaborata a partire da tanti anni di esperienze fatta in
quello che l’OMS ha appunto chiamato il laboratorio italiano.

La CTA Sant’antonio di Piazza Armerina (EN)


Questo volume non può, quindi, che aprirsi con i ringraziamenti a
tutti i pazienti, gli operatori, le comunità e le cooperative sociali che
ci hanno permesso di fare questa appassionante esperienza di lavoro
clinico e di ricerca empirica nel mondo delle Comunità Terapeutiche
e che soprattutto hanno accettato di contaminarsi e confrontarsi con
le pratiche gruppoanalitiche e con i dispositivi di intervento da noi
proposti.
Un doveroso ringraziamento va inoltre alla Comunità Terapeutica,
“Sant’Antonio” di Piazza Armerina in provincia di Enna, per il
contributo critico fornitoci rispetto al modello gruppale di intervento
comunitario in questo libro sviluppato.
Ci rifacciamo quindi ad un’esperienza condivisa nella quale una
visione relazionale della mente e soprattutto ad una metodologia
multipersonale della cura, si sposa con l’idea, epistemologicamente
ricca di implicazioni cliniche ed etiche, del curare per guarire. Non
soltanto curare il paziente, quindi, ma prendersi anche cura dei
gruppi di persone che lo accompagnano nella sua esistenza, per
guarirlo dalla patologia mentale ed alleviare la sofferenza sua e dei
contesti nei quali la sua personalità di dispiega socialmente.

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Il contenuto del libro
Il libro si apre con una prima parte tutta dedicata alla relazione tra
la comunità e la cura. La comunità terapeutica è qui intesa
soprattutto come comunità residenziale ma è d’obbligo sempre
contestualizzarla in una comunità locale che può intenzionare e
sostenere la sua finalità terapeutica oltre che residenziale. La cura
deve quindi essere sempre finalizzata alla guarigione pena la
cronicizzazione non soltanto della patologia dei pazienti, ma a anche
del ruolo sociale dell’istituzione comunità terapeutica, e dei disturbi
professionali stress-correlati degli operatoti. Per guarigione
intendiamo sia la ripresa di un processo evolutivo all’interso di un
contesto vitale o operativo paralizzato dalla cronicità specifica della
patologia mentale, sia la risoluzione della sintomatologia psichiatrica
per una graduale accesso a sempre maggiori condizioni di benessere
psicologico, sociale ed economico.
La seconda parte, dal titolo la terapia e la supervisione, presenta
invece i dispositivi terapeutici gruppali utilizzati o utilizzabili in
comunità, assieme alle modalità gestionali ed organizzative della
pratica di supervisione clinica ed istituzionale specifica per i contesti
comunitari residenziali. Pratica che verrà poi approfondita nella terza
parte con una ricerca empirica sulla sua efficacia clinica. In questa
parte del libro, dal titolo la valutazione e la ricerca, vengono inoltre
presentate alcune riflessioni metodologiche sulla valutazione nel
campo della salute mentale, oltre che alcuni utili strumenti per la
ricerca empirica e la pratica clinica. Tra questi citiamo il Colloquio
Carta di Rete, le procedure, la costruzione e la valutazione che
vengono proposte in Appendice.

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Estratto dal Cap. IV

Il Gruppo Analitico di Psicoterapia Comunitaria


Residenziale

Ci riferiamo qui ai gruppi analitici di supervisione comunitaria e


formazione continua, sviluppati presso la CTA sant’Antonio di
Piazza Armerina, ed ormai diventati uno specifico modello
gruppoanalitico-soggettuale dei gruppi analitici di psicoterapia
comunitaria residenziale. Questi gruppi organizzano uno specifico
asseto di lavoro che prevede il loro svolgimento, attraverso sedute di
una intera mezza giornata di lavoro, a cadenza settimanale, e con il
radicale coinvolgimento di tutta la comunità terapeutica residenziale
nel suo complesso. Le sedute sono strutturate sulla successione di tre
set gruppali distinti, ancorché interconnessi: gruppo equipe, gruppo
di comunità, gruppo staff.

“Il compito fondamentale di tali gruppi è quello di concepire


il processo terapeutico che la comunità deve attivare per
organizzare la cura di ciascun paziente. In essi è possibile
concepire altresì ogni nuovo ingresso nel campo mentale
comunitario, permettendo ai pazienti di fare l’esperienza
dell’ammissione in un nuovo gruppo, della convivenza con gli
altri partecipanti, ed infine della separazione da questi e dal
gruppo nel suo complesso. Attraversamenti questi, che
permettono a ciascun partecipante di elaborare un senso
personale di appartenenza e partecipazione alla vita della
comunità terapeutica. Attraversamenti che sprigionano tutto il
loro potenziale terapeutico grazie alla loro organizzazione in
seduta come dei veri e propri riti di passaggio, che
accompagnano i momenti significativi del processo terapeutico
di ciascuno (primi fra tutti gli ingressi e le dimissioni) e che si
sedimentano nella memoria storica del gruppo stesso e della
comunità nel suo complesso”.

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Scheda 4

I GRUPPI NELL’ESPERIENZA DELLA C.T.A.


SANT’ANTONIO
Un’osservazione sistematica di sei mesi
Febbraio-Luglio 2008

di Mariagiovanna Milano e Maria Grazia Matera

Il Piccolo Gruppo Equipe


Nell’esperienza di Piazza Armerina, il gruppo analitico di Supervisione
Comunitaria e Formazione continua ha avuto un ruolo centrale nello
sviluppo del campo terapeutico della comunità. Le persone che fin
dall’inizio hanno creato la comunità (Operatori, Equipe, Amministrazione,
Utenti e Familiari) sono sempre e costantemente tutti in gioco dentro
questo spazio gruppale. La comunità ha dato la possibilità di sperimentare
una convivenza possibile, fra tutte queste persone, fatta di dialoghi e di
silenzi, di voglia di incontrarsi e di conoscersi, di difficoltà a riconoscersi,
di comprensione e di incomprensione.
La giornata “gruppale” del mercoledì, è uno dei momenti più
significativi che la comunità tutta si concede, per pensare all’esperienza
vissuta nelle sue molteplici dimensioni. Attualmente i gruppi si svolgono
nell’arco dell’intera mattina (dalle 9:30 alle 13:30).
Apre la giornata il “gruppo equipe” della durata di un ora, cui
partecipano il supervisore/conduttore del gruppo di comunità ed appunto
tutti i membri dell’equipe.
Segue il “gruppo di comunità”, anch’esso della durata di un’ora, al
quale partecipano pazienti, equipe, operatori clinico-sociali, osservatori e
tirocinanti/volontari.
Il viaggio tra i gruppi del mercoledì si conclude con l’incontro in
“gruppo staff”, della durata di un’ora e mezza circa, al quale partecipa lo
staff clinico-sociale al completo (operatori ed equipe, tirocinanti ed
osservatori).
L’esperienza qui riportata è frutto di una osservazione sistematica del
gruppo equipe durata sei mesi (febbraio – luglio 2008). Il gruppo si è svolto
nella stanza di lavoro dell’equipe: il luogo era accogliente ed informale,
oltre a quattro sedie disposte in semicerchio vi si trovava anche un comodo
divanetto in cui di solito si accomodava il conduttore e uno dei membri

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dell’equipe.
Il gruppo equipe si configura come un piccolo gruppo in cui l’affettività
rappresenta spesso un vincolo, ma anche una possibilità che rende evidenti
da un lato le sensazioni di disorientamento provate dai presenti di fronte
alla esigenza di apprendere a dirsi le cose in modo schietto e diretto,
dall’altro, e soprattutto, la difficoltà a muoversi su due dimensioni, quella
emotiva e quella cognitiva. Se da un lato sembra chiaro che uno degli
obiettivi del gruppo è quello di condividere pensieri, emozioni, decisioni
rispetto alle dinamiche relazionali con i pazienti o con gli operatori,
dall’altro proprio l’emergenza di sentimenti di disagio, di pesantezza che a
volte si sperimentano all’interno del gruppo, determina una dimensione
emotivamente densa, spesso intollerabile e solo a tratti riconosciuta,
espressa ed attraversata consapevolmente.
Il gruppo equipe si è trovato a dover strutturare uno spazio relazionale e
mentale in cui ognuno poteva confrontarsi con l’operatività del setting del
lavoro terapeutico, con la sperimentazione di un processo di esposizione
personale diretta nella relazione con i pazienti e con gli operatori, con la
difficoltà e la possibilità di praticare spazi di riflessione su di sé nel
rapporto con gli altri, sulle dinamiche dell’identità che investono
contemporaneamente la dimensione personale e quella professionale.
Lo stare nei gruppi del setting terapeutico comunitario è stata così una
opportunità per sperimentare e riconoscere non solo i propri ruoli, ma
anche le funzioni terapeutiche che ognuno metteva in campo.
Il conduttore, in questo specifico gruppo ha avuto la funzione di
facilitare i processi gruppali con una azione di monitoraggio e di
“cura del gruppo che cura”. Egli ha mirato principalmente allo
sviluppo di un pensiero riflessivo tra i membri dell’equipe con
l’obiettivo del riconoscimento delle relazioni, dei vissuti, delle
emozioni, dei momenti positivi e negativi della vita quotidiana, per
contrastare la cronicità che sta dietro l’angolo ed affermare la vitalità
di una comunità, nel suo essere curante, “terapeutica” appunto, e non
“antiterapeutica”. Nella relazione costituivano infatti grande rischio,
iatrogeno per i pazienti e di burnout per gli operatori, le zone di non
dicibilità e non pensabilità delle “cose”, creando ambivalenza.

Il Grande Gruppo di Comunità


Il gruppo si è svolto nel salone della comunità ed è stato aperto a
tutti i soggetti che “abitano” e/o “vivono” la comunità terapeutica:
pazienti, operatori, membri dell’equipe, tirocinanti e volontari. Il

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gruppo era appunto “semi-aperto”, sostanzialmente stabile con un
lento ricambio di partecipanti, i nuovi pazienti/operatori/tirocinanti
inseriti in comunità. Gli operatori presenti erano tutti in turno, mentre
non erano presenti gli operatori che smontavano dal turno della notte
precedente. Il salone con le sedie veniva preparato dagli operatori,
anche alcuni pazienti collaborano; le sedie venivano disposte in una
grande ellissi e al centro del salone, a volte, veniva sistemato un
tavolino. La partecipazione al gruppo era libera, la mattina i pazienti
venivano invitati a partecipare dagli operatori, o dagli altri pazienti
stessi. Ci sono stati pazienti che erano presenti regolarmente al
gruppo (6/7), altri che partecipavano in modo discontinuo (una
decina), e due pazienti che non vi hanno partecipato affatto.
A gruppo avviato poteva accadere che entravano pazienti
inizialmente non presenti. Accadeva anche che un paziente,
precedentemente uscito dal salone, rientrava per riprendere la
partecipazione al gruppo. A volte, a chi desiderava uscire veniva
chiesto il motivo che lo spingeva ad abbandonare la seduta e lo si
invitava a provare a restare.Il gruppo dei pazienti presenti
regolarmente arrivava puntuale ed attendeva l’arrivo degli altri e del
conduttore. I posti variavano per tutti ad eccezione del conduttore
che solitamente sedeva nella parte frontale del salone. I primi a
prendere la parola erano i pazienti, la funzione degli operatori in
gruppo era di supporto e facilitazione della comunicazione; c’era una
parte dei pazienti più attiva e un’altra parte più silente. I pazienti in
gruppo si rivolgevano spesso agli operatori, difficilmente la
comunicazione era circolare tra i pazienti. Gli operatori, e soprattutto
il conduttore, allora sollecitavano i pazienti a comunicare tra loro e
ad aprire il confronto.Il conduttore ha mantenuto sempre uno stile
direttivo, era necessario intervenire per mantenere il tema oggetto
della discussione e per dare spazio a tutti i partecipanti. I rimandi dati
avevano lo scopo di dare senso e di rendere visibile quello che stava
accadendo nel “qui ed ora” e riconnetterlo al “lì ed allora.
In gruppo si parlava delle vicende personali, della vita in CT e del
desiderio della guarigione. Molto spesso la responsabilità e la
possibilità della guarigione sono state affidate agli operatori ed agli
psichiatri. Il lavoro che costantemente veniva fatto con il gruppo è
stato quindi quello di rimandare al paziente il suo ruolo attivo e
fondamentale per la guarigione. Si prestava presta molta attenzione

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alla motivazione dei pazienti al trattamento ed alla partecipazione al
proprio progetto terapeutico.
Il gruppo ha funzionato come uno specchio; ogni paziente eveva
la possibilità, attraverso le osservazioni provenienti dagli altri
partecipanti al gruppo (feedback), di rendersi conto di proprie
modalità di interazione sociale inadeguate e, conseguentemente, di
apprenderne di nuove, migliorando considerevolmente la propria
competenza sociale, il che ha costituito un fattore terapeutico molto
importante. Ricorrenti sono state frasi del tipo: “Ci dobbiamo aiutare
a vicenda”, “Sono cambiato in comunità”.

Il Gruppo Staff di dimensioni Intermedie


Al “gruppo staff” hanno partecipato tutti gli operatori, i membri
dell’equipe e i tirocinanti. Il gruppo si è svolto il mercoledì mattina e
segue il “grande gruppo” dopo una breve pausa. La frequenza stata
settimanale per la durata di un’ora e mezza e si è svoto in una stanza
al primo piano della comunità, situata in fondo al corridoio. Questo
spazio ha rappresentato l’unico momento in cui si incontranoi
insieme operatori ed equipe. Lo scopo del gruppo è doppio: la
supervisione e la formazione. Questo gruppo è stato per lo staff
l’occasione di “fermarsi”, lo spazio per pensare e pensarsi. Pensare i
pazienti, quello che accade ai pazienti, quello che accade a loro con i
pazienti, quello che avviene tra gli operatori, tra gli operatori e
l’equipe.
La modalità di lavoro proposta dal conduttore è stata la riflessione
comunitaria attraverso i casi clinici. In ogni seduta, due operatori
portavano il “caso” di un paziente al gruppo, cercando di ricostruirne
la storia clinica e familiare. Dal caso portato prendevano le mosse il
confronto e la riflessione su quello che accadeva al paziente, a loro
con quel paziente, al paziente con gli altri pazienti, con la famiglia,
ecc.
I pazienti non sono presenti all’incontro, ma sanno che c’è il
gruppo degli operatori che lavora e pensa a loro, c’è un gruppo che li
guarda e li riconosce. Spesso infatti capitava che qualche paziente
facceva capolino, apriva la porta e chiedava qualcosa. In questo caso
la reazione degli operatori era sempre la stessa e cioè quella di
rinviare il paziente al collega in turno. I pazienti sapevano che la
risposta, in questi casi, era sempre la stessa, ma sembravano non

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poter resistere al bisogno di “esserci”.
Tra il “grande gruppo” ed il “gruppo staff” ci sono stata molte
interconnessioni e corrispondenze. Anche nel “gruppo staff” c’era
una parte degli operatori più attiva ed una più silente e alcuni di loro,
così come alcuni pazienti, partecipano al gruppo molto raramente.
Taluni temi sono stati simili a quelli del “grande gruppo”, altri
invece hanno avuto a che fare con il ruolo professionale, la
costruzione della propria identità professionale, il “fare” in CT, il
“come” la dimensione del personale entra nel lavoro, il significato
del lavorare insieme, il legame con gli utenti, il rapporto con le
istituzioni, la malattia mentale e non per ultimoil tema del sociale.
Ciascun gruppo che si svolge in comunità, dunque si viene a configurare
come un luogo fisico/mentale in cui può avvenire la trasformazione di fatti
mentali e sociali, non assimilati ed integrati, in eventi dotati di
significazione simbolica; il luogo che consente il passaggio dal sintomo al
pensiero.
Sembra, infatti, esemplificativa un’immagine portata in gruppo da
un’operatrice a proposito della permanenza in comunità e del tempo che
occorre starci: “la comunità si può rappresentare come l’utero di una
mamma; l’utero protegge, contiene, alimenta e fa crescere il feto; dopo i
nove mesi però il bambino deve uscire. Anche dalla comunità i pazienti
devono uscire dopo avere fatto un percorso di crescita”.

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Estratto dalla Postfazione

di Santo Di Nuovo

“Una prassi senza valutazione e senza ricerca, specie nei


difficili e complessi ambiti che questo libro tratta, sarebbe sorda
e cieca. Sorda rispetto alle richieste della società civile di
dimostrare l’efficacia di interventi che essa finanzia, e degli
utenti (o delle loro famiglie) di avere delle garanzie sul
trattamento cui sono affidati. Cieca rispetto a possibili aspetti
critici di cui l’operatore non si accorgerebbe senza la verifica in
itinere del suo operato. Cieca anche sulle possibili alternative al
suo modo di lavorare, che segue schemi magari antichi e ben
collaudati, ma che possono essere inadatti al tipo di utenza e di
contesto specifici. Allora ben venga la metodologia di ricerca
che soppesa le variabili in gioco, formula delle ipotesi rispetto al
lavoro diagnostico e terapeutico, e le verifica nello specifico
contesto, pur nella consapevolezza della complessità e
dinamicità dell’oggetto considerato e dei rischi di riduzionismo
che questo tipo di verifiche inevitabilmente portano con sé.”

La terapia comunitaria dei pazienti gravi


I gruppi sono uno strumento potente in tale terapia, lo sapevano
già da Wilfred R. Bion e Sigmund H. Foulkes, e possono essere usati
anche in contesti come quelli studiati in questo libro con buone
probabilità di successo: leggere di queste prospettive di successo è il
migliore antidoto contro la sfiducia, la demotivazione, la
depersonalizzazione, il burnout di tanti operatori.
Ed uno strumento potente nella stessa direzione sono le “reti
personali e sociali”, di cui tanto si parla spesso senza comprenderne
il vero significato, e che invece qui vengono esemplificate con
precisione e competenza, anche rispetto ai modi di valutarne
efficienza ed efficacia.

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Sono convinto la parte del libro nella quale si presenta la ricerca
dice al lettore qualcosa di originale rispetto alla letteratura esistente.
Qualcosa che è certamente utile a chi vuole sottoporre a verifica il
suo lavoro quotidiano, senza illudersi che la valutazione scientifica
tocchi solo gli ‘scienziati’ di professione; pensando invece che
l’operatore deve essere anche ricercatore se vuole dare un senso a ciò
che fa e in cui, nonostante le difficoltà, si ostina a credere.

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GLI AUTORI

Raffaele Barone
Psichiatra, Psicoterapeuta Gruppoanalista. Docente di Psicopatologia
e lavoro clinico nella salute mentale, Università degli Studi di
Palermo. Dirigente Medico DSM Caltagirone, AUSL 3 Catania.

Simone Bruschetta
Psicologo, Psicoterapeuta Gruppoanalista. Dottore di Ricerca in
Scienze Otorinolaringoiatriche ed Audiologiche, Università degli
Studi di Catania.

Santo Di Nuovo
Ordinario di Psicologia nell’Università di Catania, Presidente della
Struttura Didattica di Psicologia. Le sue pubblicazioni riguardano
soprattutto la metodologia della ricerca e gli strumenti di assessment
in vari settori della psicologia.

Serena Giunta
Psicologa, Psicoterapeuta Gruppoanalista. Dottore di Ricerca e
Assegnista di Ricerca in Psicologia, Università degli Studi di
Palermo.

Girolamo Lo Verso
Ordinario di Psicoterapia, Università degli Studi di Palermo.
Psicoterapeuta Gruppoanalista. Past President dell’SPR Italia. Past
President della COIRAG. Ha contribuito con numerosi testi allo
studio della psicoterapia, della gruppoanalisi soggettuale.

Maria Grazia Matera


Psicologo clinico, specializzanda presso la Scuola di Psicoterapia
della COIRAG.

Mariagiovanna Milano
Psicologo clinico, specializzanda presso la Scuola di Psicoterapia
della COIRAG.

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