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STEFANO MIZZELLA
Dottorato “Società dell’Informazione”
Abstract
Indice
Conclusioni…………………………………………………………………………………….…p. 30
Riferimenti bibliografici………………………………………………………………………….p. 32
a culture with relatively low barriers to artistic expression and civic engagement, strong support for
creating and sharing one’s creations, and some type of informal mentorship whereby what is known by
the most experienced is passed along to novices. A participatory culture is also one in which members
believe their contributions matter, and feel some degree of social connection with one another (p. 4).
1
http://cms.mit.edu/
2
Henry Jenkins (con Ravi Purushotma, Katherine Clinton, Margaret Weigel, Alice J. Robison), Confronting the
Challenges of Participatory Culture: Media Education for the 21st Century, in
http://www.projectnml.org/files/working/NMLWhitePaper.pdf
Affiliations: appartenenza, formale e informale, a comunity online centrate intorno a varie tipologie di
media (come Friendster, Facebook, bacheche on line, metagaming, gruppi di gioco, o MySpace);
Uno dei principali obiettivi proposti dalla ricerca è stato quello di legittimare la “New Media
Literacy” non soltanto da un punto di vista accademico, ma anche come valido strumento di crescita
e formazione per i ragazzi in età scolare. Le diverse attività collaborative proposte, modellate
intorno ai principi della cultura partecipativa, hanno infatti favorito lo sviluppo e la condivisione di
capacità e saperi nei ragazzi che hanno partecipato alla ricerca.
Tra le nuove tipologie di “skills” sviluppate attraverso le attività proposte dal gruppo di ricerca
di Jenkins, si vuole qui concentrare l’attenzione su tre concetti specifici: “Appropriazione”,
“Intelligenza collettiva” e “Networking”. Il termine “appropriazione” viene utilizzato per designare
l’abilità di fruire in modo significativo di contenuti mediali, unitamente alla possibilità di
“remixarli” tra loro in maniera creativa e originale. Tale forma di prosuming rimarrebbe tuttavia
una sorta di monade non comunicante con l’esterno se non fosse parte di un’abilità, più estesa, che
permette di riunire saperi diversi e di comparare le critiche e i suggerimenti altrui, finalizzati al
raggiungimento di un obiettivo finale comune. Senza cadere nelle ingenuità della formulazione
originaria di Pierre Lévy (1994), Jenkins racchiude queste capacità nella definizione di “intelligenza
collettiva”, attualizzando però il concetto rispetto a quelle che sono le nuove piattaforme
comunicative di tipo Web 2.0. Ciò significa applicare la semplice teorizzazione di intelligenza
collettiva a un preciso modello operativo – il “networking” – che consente di ricercare, sintetizzare
e disseminare informazione all’interno di una determinata architettura di rete:
In a world in which knowledge production is collective and communication occurs across an array of
different media, the capacity to network emerges as a core social skill and cultural competency. A
resourceful student is no longer one who personally possesses a wide palette of resources and
information from which to choose, but rather, one who is able to successfully navigate an already
abundant and continually changing world of information (p. 49).
3
Traduzione a cura dell’Autore.
1. Non downloader consapevoli: utenti che non hanno scaricato contenuti digitali nell’ultimo
anno ma sono consapevoli della possibilità di acquistare contenuti culturali da Internet;
2. Downloader pay: utenti che hanno scaricato contenuti digitali da Internet nell’ultimo anno a
pagamento;
3. Downloader free: utenti che hanno scaricato contenuti digitali da Internet nell’ultimo anno
gratuitamente da altri utenti.
4
I comportamenti di consumo di contenuti digitali in Italia. Il caso del file sharing, Direttore della ricerca: Davide
Bennato. Comitato scientifico: Alberto Abruzzese, Fausto Colombo, Giuseppe Corasaniti, Alberto Marinelli, Giovanni
Orsina, Gustavo Piga. In: http://www.libercom.it/
Le percentuali della Figura 1 evidenziano infatti una tendenza ad utilizzare i portali di musica a
pagamento principalmente per scaricare singole tracce musicali (92%) piuttosto che interi album
musicali (solo il 17%). Risultano molto basse anche le percentuali degli utenti che acquistano
prodotti video dai portali a pagamento: 5% per i serial tv, 9% per le trasmissioni tv e non oltre il
12% per quanto riguarda il download di film.
Confrontiamo ora questi dati con quelli riassunti nella Figura 2, dedicata ai prodotti scaricati dai
downloader free:
In questo caso, se la musica rimane la “killer application” con un aumento degli album (21%)
rispetto ai downloader pay, è possibile notare percentuali più elevate soprattutto tra i contenuti
audiovisivi, in modo particolare per ciò che concerne il download di film (30%) rispetto a quello dei
serial televisivi (7%). L’11% relativo agli utenti che dichiarano di scaricare altri programmi
televisivi testimonia il modo in cui questa tipologia di utenti utilizzi le reti per il file sharing al fine
di creare una sorta di canale fruitivo alternativo alla televisione tradizionale.
Osservando le motivazioni alla base delle abitudini di consumo dei dowloader free (Figura 3),
vediamo come la possibilità di ottenere contenuti in maniera gratuita rappresenti certamente la
percentuale più alta (45%). Tuttavia, ben il 34% afferma che è la comodità di poterlo fare a casa a
Emergono infatti da questa partizione voci come “condivisione” (14%), “specializzazione del
database” (15%) e “ampiezza del database” (19%) che, considerate nell’insieme, rappresentano
indicatori importanti di nuove e sicuramente più complesse tipologie di utenti. Al di là di qualsiasi
teorizzazione sulla tradizionale dicotomia spettatore attivo/passivo, il peer-to-peer sembra
rappresentare uno strumento assolutamente efficace non solo per il recupero di contenuti di nicchia
introvabili nei tradizionali canali mainstream, ma anche e soprattutto per la possibilità di mettere in
condivisione tali contenuti con gli altri utenti. Se a questo aggiungiamo anche una conseguente
destrutturazione del flusso mediatico – televisivo in particolare – dovuto a una possibilità di
fruizione svincolata dalla regolarità del palinsesto, vediamo come sia pressoché impossibile adattare
vecchie categorie interpretative per spiegare nuove abitudini di consumo che potremmo definire
“post-broadcasting”.
Rimanendo ancora nel solo versante video, una recente indagine condotta da Pew Internet &
American Life Project5 ha evidenziato come il 57% degli internauti adulti statunitensi abbia
utilizzato la Rete per guardare e scaricare contenuti video (tra questi, il 19% dichiara di farlo
abitualmente). Allo stesso tempo, i tre-quarti degli utenti (74%) che dispongono di una connessione
veloce, sia a casa che in ufficio, hanno dichiarato di guardare e scaricare abitualmente video on line.
Ma il dato della ricerca su cui vale la pena riflettere maggiormente è quello relativo alla percentuale
di coloro che hanno dichiarato di scambiare e condividere i link dei video con altri utenti: il 57%,
5
Mary Madden, Online Video, Pew Internet & American Life Project, 2007, in:
http://www.pewinternet.org/pdfs/PIP_Online_Video_2007.pdf
Fig. 4. Le abitudini di consumo degli utenti che guardano e scaricano contenuti video (Source: Pew Internet &
American Life Project Tracking Survey, February 15 – March 7, 2007).
Provando a riflettere su tali dati e percentuali, alcune possibili considerazioni sono le seguenti.
La propensione al video-sharing risulta più forte – come era lecito attendersi – nella fascia d’età dei
“giovani adulti”, compresa tra i 18 e i 29 anni. Sono questi ultimi, infatti, a scambiare più
frequentemente video in maniera virale con i propri contatti on line e a guardare i video in
compagnia di amici e parenti (73%). Ancora, sono sempre i giovani adulti a privilegiare una
fruizione maggiormente attiva e partecipativa dei contenuti video, attraverso azioni come l’upload
dei propri video o l’aggiunta di punteggi e commenti ai video inseriti dagli altri utenti.
Lo scarto generazionale tra gli utenti è riscontrabile anche per ciò che riguarda le diverse
tipologie di video fruiti.
In prima istanza, i dati della ricerca evidenziano un netto 62% di coloro che preferiscono vedere
video prodotti in maniera professionale, rispetto al 19% di utenti che dichiara la propria preferenza
nei confronti dei video amatoriali. Tuttavia, se rapportiamo tali percentuali alle fasce d’età secondo
cui sono stati divisi gli utenti, vediamo come il 30% dei giovani adulti dichiari di preferire video
amatoriali, mentre il 16% degli stessi ammetta di apprezzare allo stesso modo video di stampo
professionale e amatoriale. Ciò testimonia una differenziazione evidente, proprio nelle abitudini di
consumo, tra quella che potremmo definire “YouTube Generation” e gli utenti di età elevata. Se,
infatti, per gli utenti più adulti è quasi scontato chiedere alla rete la stessa professionalità richiesta,
seppur con le ovvie differenze del caso, ad altri mezzi di comunicazione tradizionali come tv,
cinema e stampa, in maniera inversa sono proprio gli utenti più giovani a decretare l’affermazione
degli User Generated Content come nuovo paradigma comunicativo. Uscire dalle ristrettezze
interpretative di questa dicotomia – professionale versus amatoriale – è il necessario punto di
partenza per osservare e capire il successo e la pervasività di fenomeni come YouTube, MySpace o
Wikipedia.
Ne è consapevole anche Chris Anderson, che nel suo studio illuminante sul concetto di “Long
Tail”, decreta l’avvenuta disintegrazione del mainstream in milioni e milioni di frammenti culturali
L’assunto originale che ha condotto Tapscott e Williams alla stesura del testo, giunta a
compimento dopo 5 anni di ricerca preliminare, è dettato dalla presa di coscienza del ruolo
crescente che la collaborazione di massa sta avendo sulla trasformazione – in alcuni casi già
avvenuta, in altri soltanto ipotizzata – di ogni singola istituzione della società attuale:
A causa dei profondi cambiamenti che si sono verificati nel campo della tecnologia, dello sviluppo
demografico, del business, dell’economia e del mondo intero, stiamo entrando in una nuova era nella
quale la gente parteciperà all’economia come non ha mai fatto finora. Questa inedita partecipazione ha
raggiunto un punto critico, nel quale le nuove forme della collaborazione di massa stanno cambiando il
modo in cui i beni e i servizi vengono inventati, prodotti, promossi e distribuiti in tutto il mondo. Tale
cambiamento offre opportunità di vasta portata a qualunque impresa, o individuo, si connetta a questa
rete collaborativa. (…) Oggi è in atto una rivoluzione. La crescente accessibilità delle tecnologie
informatiche fa sì che gli strumenti necessari per collaborare, creare valore e competere siano alla portata
di tutti. Ciò permette alla gente di partecipare all’innovazione e alla creazione della ricchezza in tutti i
settori dell’economia (p. 5).
“L’era della partecipazione”, come la definiscono i due autori, è resa dunque possibile
dall’emergere di nuove infrastrutture collaborative a basso costo – telefonia gratuita su Internet,
piattaforme globali per l’outsourcing, software open source – che consentono a migliaia e migliaia
di individui e piccoli produttori non solo di “co-creare” i prodotti, ma anche di eguagliare le grandi
corporation nell'accesso ai mercati e nella soddisfazione dei clienti a cui rivolgono la propria offerta
(p. 6). All’interno di tale scenario, è l'evoluzione costante di Internet a funzionare da propulsore per
il progresso di queste nuove forme di economia collaborativa. Attenti nell'evitare i vizi di forma di
etichette di successo come quella di Web 2.0, spesso utilizzata in maniera erronea, Tapscott e
Williams preferiscono parlare dell’affermazione di
una piattaforma globale e ubiquitaria per il calcolo computazionale e la collaborazione, che sta
ridefinendo quasi tutti gli aspetti dell’attività umana. Mentre la vecchia Rete era fatta di siti web, di click
e di occhi puntati sul monitor, la nuova Rete è fatta di comunità, di partecipazione e di peering. A mano
a mano che gli utenti e la potenza computazionale si moltiplicano e gli strumenti di facile utilizzo
proliferano, Internet si sta evolvendo in un computer globale, vivo e reticolare che chiunque è in grado
di programmare (p. 15).
L’apertura
“Oggi le imprese che fanno in modo di avere confini 'porosi', aperti alle idee e al capitale umano
esterno, battono quelle che fanno affidamento soltanto sulle proprie risorse e capacità interne
(p.18)”. Apertura implica dunque lo sdoganamento di informazioni aziendali precedentemente
tenute nascoste e la conseguente comunicazione di queste a partner, dipendenti, clienti o azionisti.
Il concetto di apertura è strettamente legato, nella trattazione dei due autori, all'altrettanto
fondamentale concetto di “trasparenza”, intesa qui come la divulgazione di informazioni pertinenti,
che rappresenta un trend sempre più consolidato all'interno della networked economy.
Un atteggiamento aperto e trasparente rappresenta dunque un vantaggio notevole sia per i clienti
che per i dipendenti dell'azienda: i clienti hanno così l'opportunità di verificare con più precisione il
reale valore del prodotto, mentre i dipendenti ne traggono una conoscenza molto più profonda della
strategia, del management e delle sfide che la loro azienda si trova ad affrontare.
Il peering
“Benché sia improbabile che le gerarchie spariscano nel prossimo futuro, sta emergendo una
nuova forma di organizzazione orizzontale che fa concorrenza all’azienda gerarchica rispetto alla
capacità di creare prodotti e servizi basati sulle tecnologie informatiche e in alcuni casi anche
oggetti materiali” (p. 21). Se questa nuova forma organizzativa può essere definita peering, Linux
ne rappresenta l'esempio più significativo. Tuttavia, la crescente facilità con la quale soggetti diversi
hanno ora la possibilità di organizzarsi in maniera autonoma per progettare beni o servizi, creare
conoscenza o dare vita a esperienze dinamiche e condivise, fa sì che i modelli peer-to-peer di
organizzazione dell’attività economica si stiano sempre più sviluppando al di là del software open
source. Il successo, nel campo del sapere, di un servizio come quello offerto da Wikipedia,
testimonia la capacità del peering di generare uno stile di produzione molto più efficace, rispetto al
modello di gestione gerarchica, ai fini dello svolgimento di attività sia interne che esterne al servizio
stesso.
L’azione globale
“Per mantenere la propria competitività globale, bisogna monitorare gli sviluppi del business sul
piano internazionale e attingere a un bacino globale di talenti molto più ampio” (p. 27). Innovare e
produrre all'interno di un mercato globale significa per un'azienda “gestire le risorse umane e
intellettuali superando i confini culturali, disciplinari e organizzativi” (ib.). Per agire globalmente,
non limitandosi dunque al solo pensare globalmente, sono necessari alleanze globali, mercati del
capitale umano e comunità dedite alla peer production, al fine di accedere a scenari più ampi di
mercato, idee e tecnologie.
Quattro semplici principi, quelli qui sopra riportati, che hanno però la forza di tracciare un nuovo
percorso per quanti – società, singoli o organizzazioni – vorranno innovare attraverso strategie
votate alla condivisione di conoscenza. Perché le organizzazioni e le società di successo saranno
proprio quelle “che si abbevereranno al fiume della conoscenza umana e la incalaneranno in una
serie di nuove e utili applicazioni” (p. 29). Ma cosa accade quando si prova a ribaltare il punto di
vista e ci si pone dalla parte non più delle aziende o delle istituzioni ma degli utenti e dei
consumatori? Quali sono i reali vantaggi che un approccio votato alla wikinomics può generare nei
confronti non solo delle “corporate” ma anche del versante “consumer”? Del resto, le medesime
problematiche sollevate dal lavoro di Tapscott e Williams possono essere ritrovate nell’affermarsi
di quella che Yochai Benkler, docente di diritto all'università di Yale, ha definito “economia
dell'informazione in rete” [networked information economy]:
Quella tratteggiata da Benkler è, dunque, una rivoluzione profonda, strutturale, all’interno della
quale Internet assume un ruolo assolutamente prioritario e determinante. La rete rappresenta, infatti,
il “primo mezzo di comunicazione moderno capace di espandere il proprio raggio di diffusione
decentralizzando allo stesso tempo la struttura economica della produzione e distribuzione di
informazione, cultura e conoscenza” (p. 38). La decentralizzazione radicale dell’intelligenza nelle
reti permette una distribuzione di idee, informazione, cultura e conoscenza svincolata da quelle
stesse economie di scala colpevoli di aver favorito l’espansione dei mezzi di comunicazione di
massa sotto l’egida della concentrazione e del controllo (p. 40). Ecco perché il modello di sviluppo
del free software appare a Benkler come l’esempio più evidente di una nuova modalità di
organizzare la produzione “radicalmente decentrata, collaborativa e non proprietaria; basata sulla
condivisione delle risorse e degli output tra individui dispersi nello spazio e variabilmente
connessi, che cooperano senza dipendere né dal mercato né dagli ordini dei manager” (p. 76).
Quella a cui Benkler si riferisce è dunque una “produzione orizzontale basata sui beni comuni”
[commons-based peer production], attorno alla quale si possono sviluppare sistemi produttivi [peer
production] che dipendono dall'azione individuale autodeterminata e decentrata, piuttosto che
gerarchicamente assegnata (p. 79).
È questo il senso di una precisa chiave di lettura che John Maeda ha proposto all’interno del suo
studio sulle leggi della semplicità: “L’apertura semplifica la complessità. Con un sistema aperto, il
potere dei molti può compensare il potere dei pochi” (Maeda, 2006, p. 126). Similmente a quanto
teorizzato da Benkler, Maeda individua in un sistema operativo open source come Linux così come
nelle possibilità di innovazione messe a disposizione dalle API (Application Programming
Interface), gli esempi vincenti di un nuove modalità partecipative votate alla produzione orizzontale
di informazioni e conoscenza.
All'interno di questo terzo e conclusivo capitolo proveremo a “testare” i quattro principi della
wikinomics su tre diversi servizi web di ultima generazione:
Qoob - http://it.qoob.tv/
SciVee - http://www.scivee.tv/
Zooppa - http://zooppa.com/
Ci troviamo di fronte, nel primo caso, a una piattaforma totalmente italiana, americana nel caso
di SciVee e, infine, a una start-up italoamericana nel caso di Zooppa.
Pur presentando caratteristiche e modelli di business differenti, le tre piattaforme web
selezionate come case histories risultano accomunate dalla produzione orizzontale (peer
production) di informazioni e contenuti, unitamente alla legittimazione degli User Generated
Content come nuovo standard comunicativo di riferimento. Altro elemento caratterizzante delle tre
piattaforme scelte è la presenza predominante di contenuti video rispetto alle immagini statiche o al
testo scritto. Ciò è in linea con le tendenze registrate dalle numerose ricerche che hanno decretato il
video come uno dei fattori principali di crescita del Web 2.0. Tuttavia, non ci troviamo di fronte a
esempi tradizionali di aggregatori video, ma a piattaforme complesse modellate intorno al social
networking e votate alla valorizzazione dei contenuti prodotti in maniera autonoma e originale dagli
utenti.
Considerata la particolare architettura web utilizzata, unitamente ai servizi offerti agli utenti per
accrescerne la partecipazione e migliorarne la web experience, sembrerebbe quasi che le tre
piattaforme qui proposte siano esempi diversi di spin-off derivati da un macro-aggregatore video
come YouTube, capace di contenere al suo interno pressoché qualsiasi tipologia di contenuti video
prodotti sia da professionisti che da utenti amatoriali. Filmati a carattere scientifico, dunque, che
coabitano con video realizzati al solo scopo di divertire e far strappare un sorriso a chi li guarda.
Non è certo questa la sede per mettere in evidenza, semmai ce ne fosse ancora bisogno, lo
straordinario portato sociale, oltre che meramente tecnologico, di una “giant application” come
YouTube. Tuttavia, preme qui riportare una breve riflessione condotta da Henry Jenkins proprio
intorno al fenomeno YouTube, contenuta all’interno della postilla all’edizione italiana di “Cultura
convergente”:
YouTube si è affermato come punto di incontro fra una serie di comunità grassroots diverse, coinvolte
nella produzione e nella distribuzione dei contenuti dei media. Molto di quello che si è scritto su
YouTube dà per scontato che la disponibilità di tecnologie Web 2.0 ha reso possibile la crescita di
culture partecipative. Io direi proprio il contrario: è l’emergere di culture partecipative di ogni tipo negli
ultimi decenni che ha preparato la strada all’interessamento prima, poi alla rapida adozione e all’uso
diversificato di piattaforme come YouTube. Ma, incontrandosi attraverso questo portale comune, le varie
comunità di fan, comunità di brand e sottoculture apprendono tecniche e pratiche le une dalle altre,
facendo accelerare l’innovazione entro e fra le diverse comunità di pratica. Ci si potrebbe chiedere se
Qoob nasce il 30 novembre 2006 come progetto co-finanziato da MTV Italia e Telecom Italia
Media, sostituendo l’originario Yos (Your Open Source) e il successivo Flux6.
Rispetto alle più tradizionali piattaforme di video-sharing in stile YouTube, Qoob si differenzia
per la scelta di utilizzare esclusivamente contenuti generati dagli utenti e non video messi a
disposizione dai network broadcaster. Anche il livello di realizzazione dei video già presenti in
archivio è quasi sempre elevato in termini di qualità, e questo costituisce un vero e proprio filtro per
gli utenti “neofiti” che desiderano uploadare le proprie realizzazioni. Video, musica e immagini
sono le tre principali tipologie di contenuti offerte dal servizio, e si rifanno agli scenari
“underground” della musica elettronica, dell’animazione digitale, del cinema e del digital design.
6
Flux è stato un canale musicale analogico del gruppo Telecom inaugurato ufficialmente l'8 aprile del 2006 e oscurato
il 20 novembre dello stesso anno.
Più nello specifico, il modello di business proposto da Qoob si basa su un sistema di retribuzione
in denaro che premia i contenuti migliori tra quelli proposti dagli utenti. Ciò può avvenire attraverso
l’invio di contenuti di libera ispirazione o attraverso la partecipazione ai “commissioning” che
vengono regolarmente organizzati al fine di indirizzare le produzioni verso tipologie specifiche di
contenuto. Il commissioning avviene attraverso un “brief” iniziale, all’interno del quale vengono
Lo step successivo riguarda invece il “Tv Payout”, in cui vengono selezionati fino a un massimo
di 10 video (i migliori) tra tutti quelli inviati, che verranno ricompensati con 250 Qoob$ ciascuno.
Quando un contenuto viene scelto e proposto all’interno del palinsesto televisivo, gli utenti che
hanno prodotto quel determinato contenuto possono ricevere un compenso stabilito secondo il tasso
di cambio vigente tra i “Qoob dollars” e gli euro tradizionali7.
Richiamando le logiche di collaborazione proprie di un wiki, più utenti possono decidere di
lavorare in team, attingendo a competenze diverse, per ottenere un unico prodotto finale di alta
qualità: ogni videomaker può, ad esempio, stringere una collaborazione con un designer, per
migliorare la qualità delle grafiche che compariranno nel video, così come può accordarsi con un
audiomaker nel caso in cui avesse bisogno di una colonna sonora particolare.
La “QOOB Factory”, ovvero il centro di produzione creativa del gruppo, può inoltre decidere di
mettersi in contatto direttamente con gli autori dei contenuti migliori per finanziare e supportare la
produzione delle loro idee. In tal modo sono già state prodotte due serie ideate e realizzate con il
7
Nel momento in cui si scrive, il tasso di cambio è pari a 1 QOOB $ = 2 EURO. Per il primo video che viene scelto il
compenso è pari a 100 QOOB $ (equivalenti a 200 ), per il secondo si sale a 150 QOOB $ (300 ), mentre dal terzo
video in poi si può arrivare a guadagnare fino a 200 QOOB $ (400 ). Una volta stabilito il compenso, il pagamento
viene effettuato via mail attraverso PayPal.
(…) i clienti non si limitano a modificare o personalizzare le merci: possono darsi un’organizzazione
autonoma allo scopo di creare le merci che desiderano. Gli utenti più avanzati, infatti, non aspettano più
che qualcuno li inviti a trasformare un prodotto in una piattaforma sulla base della quale sviluppare le
proprie innovazioni. Piuttosto danno vita a community di prosumer nell’ambito delle quali condividono
tutte le informazioni relative ai prodotti, collaborano e si scambiano suggerimenti, strumenti e trucchi da
hacker consumati (Tapscott, Williams, 2006, p. 141).
Il servizio offerto da piattaforme come Qoob non fa altro che legittimare e addirittura “premiare”
questa inedita tipologia di utenti, a testimonianza di quanto valore abbia, nell’economia digitale, il
riconoscimento e la valorizzazione della creatività dei clienti piuttosto che il loro indebolimento
attraverso offerte comunicative unidirezionali. In tale contesto, e in sintonia con l’etica hacker,
assume un ruolo di grande importanza la cultura del remix, intesa non certo nei termini di
appropriazione indebita, bensì come l’emergere di inedite ricombinazioni semantiche e valoriali:
È un’impostazione etica che definisce ciò che la nuova Rete sta diventando: un enorme parco giochi
pieno di bit informativi che vengono condivisi e “remixati” liberamente fino a creare una trama fluida e
fondata sulla partecipazione. Essendo maturato rispetto agli anni in cui era soltanto un medium utilizzato
per la presentazione statica di contenuti, oggi il web rappresenta il fondamento su cui poggiano nuove
forme dinamiche della collettività e dell’espressione creativa (p. 35).
Lawrence Lessig ha costruito alcune delle sue formulazioni teoriche più significative attorno alla
necessità di mantenere risorse libere per favorire l’innovazione e la creatività, perché senza di esse è
come se la creatività fosse monca (Lessig, 2001, p. 20). Le spinte evolutive che stanno cambiando il
modo di vivere e concepire il web ci restituiscono nuovi spazi di sperimentazione in cui essere liberi
di creare forme comunicative d’avanguardia incapaci di trovare dimora nel flusso mediatico
mainstream. La nuova Rete ha infatti il merito di mettere in discussione il presupposto secondo il
quale l’informazione – e, più in generale, qualsiasi altra tipologia di contenuto – debba partire da
una serie di prodotti accreditati e arrivare a una massa di consumatori passivi (Tapscott, Williams,
2006, p. 165). I contenuti presenti in piattaforme come Qoob rappresentano allora una ulteriore
dimostrazione della possibilità di sfidare quella che Tapscott e Williams definiscono “la moderna
aristocrazia creativa” (pp. 158-159). Ciò è possibile attraverso la legittimazione di una nuova
creatività che, sviluppandosi secondo modalità virali, arriva a meritarsi il riconoscimento e
l’approvazione di una comunità di esperti, unitamente a una retribuzione precedentemente insperata
per contenuti prodotti “dal basso”.
Il sesto capitolo del testo di Tapscott e Williams, intitolato “I nuovi alessandrini”, è dedicato
interamente alla rassegna di vari esempi atti a testimoniare la nascita di una nuova era della scienza
collaborativa, che consentirà di rendere più veloce e immediato lo sviluppo sia della ricerca che
dell’apprendimento scientifico: “L’apparizione di strumenti editoriali basati sul libero accesso e di
nuovi servizi web metterà a disposizione degli individui un patrimonio sconfinato di conoscenze e
contribuirà allo sviluppo di comunità di peer sparse in tutto il mondo” (Tapscott, Williams, 2006, p.
172). La vera innovazione, dunque, risiederebbe nella capacità di sfruttare un approccio aperto e
non gerarchico nei confronti della produzione e dello sfruttamento della conoscenza. Che si tratti di
conoscenza “aziendale” o di conoscenza prettamente scientifica, il passo in avanti da compiere
rispetto al passato è quello di considerare qualsiasi tipologia di conoscenza come prodotto di un
network in cui individui e organizzazioni condividono risorse al fine di trovare nuove soluzioni per
determinati problemi (p. 174). È dunque un approccio “peer-oriented”, come lo definiscono i due
autori, alla produzione della conoscenza e alla condivisione delle informazioni, a decretare la
nascita di una nuova “scienza collaborativa”, o “Scienza 2.0”:
Oggi sta per affermarsi un nuovo paradigma scientifico (…) ispirato dagli stessi progressi tecnologici
che stanno trasformando il web in un enorme ambiente di lavoro collaborativo. Proprio come le
applicazioni e gli strumenti collaborativi stanno trasformando le imprese, la nuova Rete cambierà per
sempre il modo in cui gli scienziati pubblicano i dati, li gestiscono e collaborano al di là dei confini
istituzionali. Le mura che dividono le istituzioni crolleranno e al loro posto emergeranno network
scientifici aperti. Tutti i dati e le ricerche scientifiche del mondo, finalmente, saranno a disposizione di
ogni singolo ricercatore – gratis – senza pregiudizi né costi indiretti (p. 178).
Gli esempi riportati per avvalorare questa tesi riguardano iniziative come OpenWetWare, un
progetto del MIT finalizzato alla condivisione di esperienze e informazioni nel campo della biologia
o, ancora, Bioinformatics.org, una piattaforma oper source che mette a disposizione della comunità
scientifica i dati genomici prodotti dal Progetto Genoma Umano. Naturalmente rimandiamo alla
lettura del testo per approfondire la trattazione di tali esempi. In questa sede ci limiteremo a fornire
un riferimento interessante ma comunque meno ambizioso rispetto a quelli riportati da Tapscott e
Williams. Il case study che si è scelto di analizzare è SciVee, una piattaforma scientifica di
condivisione multimediale, creata dagli scienziati per gli scienziati. Il principale obiettivo
perseguito da SciVee è quello di inaugurare una nuova fase della comunicazione scientifica capace
di andare al di là del testo scritto o delle tradizionali conferenze pubbliche. Un nuovo modo di
pubblicare e condividere contenuti scientifici che tragga vantaggio dalle innovative dinamiche
comunicazionali e relazionali offerte dalla Rete. Non è un caso, dunque, se recentemente SciVee sia
stato rinominato dalla rivista New Scientist come lo “YouTube della scienza”. L’accostamento
La fruizione dei video garantisce agli utenti di SciVee la medesima gamma di opzioni che un
servizio come YouTube offre ai propri utenti. Ogni singolo video, infatti, oltre ad essere
accompagnato da una breve descrizione testuale che ne riassume il contenuto, può essere
commentato, “taggato”, votato e segnalato da tutti gli utenti che partecipano alla community. In ciò
Stefano Mizzella – stefano.mizzella@unimib.it; stefano.mizzella@gmail.com 22
si riassume la capacità del servizio di configurarsi come uno spazio di social networking
interamente dedicato alla ricerca scientifica. Ogni ricercatore ha, infatti, la possibilità di
personalizzare il proprio profilo e di mettersi in contatto con altri utenti per la realizzazione di
obiettivi comuni, sfruttando dunque il servizio alla stregua di altri social network professionali
come Linked In o Viadeo. Il networking tra i ricercatori è favorito inoltre dalla presenza di varie
community dedicate alla trattazione di un determinato argomento:
All’interno di ogni community è possibile iscriversi con il proprio profilo, postare commenti,
uploadare video e segnalare agli altri membri della community i propri video preferiti.
La seconda e forse più interessante modalità di presentazione di ricerche e contenuti è quella che
viene definita “Pubcast”. I Pubcast corrispondono infatti a video accompagnati da una
presentazione audio che ne descrive gli argomenti trattati, l’area di ricerca in cui il video si inserisce
e le possibilità di lavoro collaborativo che quel determinato argomento richiede. Pertanto,
all’interno di ogni Pubcast l’utente può scegliere tra tre diverse opzioni di fruizione: può leggere in
formato testuale l’intero paper che spiega e approfondisce le tematiche trattate dal video; può
visionare il profilo completo dell’autore del video (compresi tutti i video e i pubcast da questi
inseriti, i suoi link e le community di cui fa parte); può, infine, guardare il pubcast completo in cui
le immagini sono accompagnate dall’audio di presentazione.
I video sono poi raccolti in una serie di canali dedicati che permettono agli utenti una più
immediate ricerca dei contenuti che si desidera visionare. Questi i canali offerti da SciVee al
momento in cui si scrive:
• BMC Bioinformatics: an open access journal publishing original peer-reviewed research articles in
all aspects of computational methods used in the analysis and annotation of sequences and structures,
as well as all other areas of computational biology. BMC Bioinformatics (ISSN 1471-2105) is
indexed/tracked/covered by PubMed, MEDLINE, BIOSIS, CAS, Scopus, EMBASE, Thomson
Scientific (ISI) and Google Scholar;
• Nucleic Acids Research (NAR): a fully Open Access journal, providing rapid publication of leading
edge research into the nucleic acids under the following categories: chemistry, computational
Anche se SciVee si propone come servizio ideato e progettato per il mondo della ricerca, la
piattaforma può raccogliere contenuti inviati da qualsiasi tipologia di utenti, sia esperti che
appassionati. Gli utenti possono uploadare contenuti scientifici in maniera gratuita, a patto però che
le ricerche siano già di dominio pubblico e possano essere riprodotte e scambiate con l’obbligo di
esplicitare sempre la fonte. Se per la riproduzione dei contenuti video viene applicata la Creative
“Zooppa è una piattaforma innovativa di pubblicità generate dagli utenti e sponsorizzate dalle
aziende”. Il “what is” del sito di Zooppa riassume in modo efficace il servizio offerto da questa
start-up italoamericana. Zooppa è una start up incubata da H-FARM8, centro per la ricerca e
l’innovazione nel campo delle tecnologie e dei nuovi media, situato a Ca' Tron, vicino Venezia.
Lo scopo di Zooppa è quello di offrire agli utenti uno spazio per la creazione e la condivisione di
nuove forme di user generated advertising. Riportando un estratto della nota societaria, vediamo
come Zooppa sia legata a “un modello di business in cui persone e aziende entrano in contatto in un
contesto virale basato sulla creatività e sul riconoscimento di una somma di denaro variabile per i
contenuti autoprodotti. Questo significa incentivare il talento creativo di tutti coloro che solitamente
non hanno voce in capitolo nel mondo tradizionale della pubblicità”.
Il primo elemento su cui riflettere riguarda proprio la possibilità di mettere in contatto utenti non
professionisti e aziende affermate che si occupano di pubblicità, all’interno di un contesto dedicato
alla valorizzazione di contenuti prodotti dal basso. Il modello di business di Zooppa rappresenta
dunque una grande opportunità sia per gli utenti che per le aziende. Vediamo nello specifico come
ciò avviene. Zooppa si relaziona costantemente con aziende, nazionali e internazionali, interessate a
sfruttare i “contest” lanciati dal sito per commercializzare il proprio marchio attraverso nuove forme
di advertising. Si legge ancora nella nota societaria:
Sulla base delle indicazioni fornite dalle aziende committenti, gli utenti sono invitati a creare pubblicità
per marchi o prodotti delle aziende in questione. Gli utenti registrati possono partecipare con diversi tipi
di contributi: scrivere un’idea o una breve sceneggiatura per una potenziale pubblicità, realizzare delle
pagine grafiche con il logo dell’azienda e un pay off, produrre un’animazione o girare un video vero e
proprio.
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http://www.h-farm.it/
Al momento in cui si scrive, appaiono già conclusi i contest organizzati da Zooppa per i seguenti
brand:
• Alice
• Citroën C1 – DeeJay
• Fineco
• Global Warning
• Havaianas
• Love Affair
• Murphy&Nye
• Osè
• Pago
• Rai.Tv
• TomTom
Perché potrete contare sulla forza innovativa di uno strumento in continua espansione come Internet,
sfruttandone tutta la viralità e la capacità di raggiungere ogni angolo del globo con una velocità
impensabile per qualsiasi altro media.
Perché potrete aumentare la creatività della vostra comunicazione e avere moltissimi nuovi spunti. Con
Zooppa.com avrete accesso ad un bacino creativo molto più esteso, sia grazie al numero di utenti che
intervengono nel nostro sito sia grazie alle caratteristiche del mezzo utilizzato. Il nostro modello
favorisce l’accesso ai nuovi linguaggi di comunicazione al ritmo di Internet.
Perché il vostro marchio potrà essere visto da un’audience allargata di persone. I video postati vengono
promossi nella rete sia dallo staff di Zooppa sia dagli utenti stessi, che contribuiscono a innescare un
circolo virtuoso di viralità.
Gli utenti che partecipano alle gare non solo entreranno in contatto con il vostro marchio, ma
condivideranno le loro idee parlando di voi nella rete. In questo modo, potrete avere un riscontro reale di
come le persone percepiscono la vostra azienda.
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Uno Zoop$ equivale ad un dollaro americano, anche se gli Zoop$ possono essere convertiti in dollari reali solo dopo
aver raggiunto la soglia minima di 1,000 Zoop$.
Strumenti, questi, utili per conoscere e scambiare opinioni con i vari “zooppers”, commentare i
video più belli e acquistare gadget ufficiali. Una risorsa, soprattutto, per incentivare la creazione e
Conclusioni
Il web che verrà riuscirà a cambiare i modi in cui la gente collabora e accresce il sapere in una piccola
ditta, in una grande organizzazione, in un paese? Se funzionerà in un piccolo gruppo e potrà salire di
livello, potremo usarlo per cambiare il mondo? Già sappiamo che il Web ci permette di agire più in
fretta. Ma può cambiare la società, farci passare a un nuovo modo di lavorare? E sarà migliore o
peggiore? (Berners-Lee, 1999, p. 173).
Quelli sopra riportati sono alcuni degli interrogativi che Tim Berners-Lee pone a conclusione del
suo celebre studio sull’architettura del nuovo web. Difficile, quasi impossibile, fornire risposte
univoche alle questioni sollevate e lasciate in parte irrisolte da Berners-Lee. Il web è per sua natura
mutevole, incapace di cristallizzarsi e ipostatizzarsi in maniera definitiva. Al contrario, l’evolversi
della rete è frutto di un incessante processo produttivo che sempre più spesso vede gli utenti nel
ruolo di co-sviluppatori di piattaforme, contenuti e servizi. È intorno a tali dinamiche che si sta
definendo “una nuova nuova forma di organizzazione produttiva e sociale legata all’economia delle
reti digitali di comunicazione, una nuova configurazione che tende a rendere obsoleti e/o a relegare
allo spazio dell’evasione gli strumenti comunicativi della fase precedente” (Ferri, 2004, p. 34).
Il concetto di wikinomics proposto da Tapscott e Williams non fa altro che sottolineare e
legittimare queste innovative dinamiche di “social engineering”. Tuttavia, il rischio principale da
scongiurare in tale contesto è quello di far rientrare nella definizione operativa di wikinomics
piattaforme e servizi che in realtà non incarnano nel proprio know how i necessari principi di
impresa aperta, networking, partecipazione e condivisione.
Altra questione aperta è quella che riguarda il reale grado di penetrazione di queste nuove
tipologie di piattaforme web. Al di là degli esempi forniti nel testo da Tapscott e Williams, le tre
case histories qui analizzate hanno mostrato la presenza di community per certi versi ancora
immature e lontane dal radicamento effettivo riscontrabile in una piattaforma di video-sharing come
YouTube o all’interno di social network come MySpace o Facebook. Tuttavia, riteniamo
estremamente significativo osservare da vicino le dinamiche di fruzione degli early adopter, la loro
capacità di creare community e la loro abilità nel produrre e scambiare informazioni e contenuti in
maniera virale.
Appare dunque sempre più necessario focalizzare il punto di osservazione sugli utilizzatori
piuttosto che sulla tecnologia utilizzata. Questo perché, al di là dell’effettiva valenza dell’etichetta
che ne riassume il senso, riflettere sull’innovazione apportata dal Web 2.0 significa in primis
riconoscere la natura sociale dei dispositivi tecnologici: “La produzione sociale è modellata dalla
Anderson, C., 2006, The Long Tail. Why the Future of Business Is Selling Less of More; trad. it.
2007, La coda lunga. Da un mercato di massa a una massa di mercati, Torino, Codice edizioni.
Benkler, Y., 2006, The Wealth of Networks: How Social Production Transforms Markets and
Freedom; trad. it. 2007, La ricchezza della Rete. La produzione sociale trasforma il mercato e
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Berners-Lee, T., 1999, Weaving the Web. The Original Design and Ultimate Destiny of the World
Wide Web by Its Inventor; trad. it. 2001, L’architettura del nuovo web. Dall’inventore della rete
il progetto di una comunicazione democratica, interattiva e intercreativa, Milano, Feltrinelli.
Castells, M., 2001, The Internet Galaxy. Reflections on the Internet, Business and Society; trad. it.
2002, Galassia Internet, Milano, Feltrinelli.
Ferri, P., 2004, Fine dei mass media. Le nuove tecnologie della comunicazione e le trasformazioni
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L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, Milano, Feltrinelli.
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Etas.