Sei sulla pagina 1di 32

Sharing Ideas

I principi della Wikinomics applicati ai casi di Qoob, SciVee e Zooppa

STEFANO MIZZELLA
Dottorato “Società dell’Informazione”

Abstract

La recente pubblicazione in italiano del testo di Don Tapscott ed Anthony D. Williams,


“Wikinomics”, ha aperto negli ultimi mesi un acceso dibattito sia in ambito accademico che nel web
e, in modo particolare, all’interno della blogosfera. Quella proposta da Wikinomics è l’analisi delle
nuove forme di collaborazione di massa che stanno sempre più velocemente rivoluzionando tanto la
società quanto l’economia. Il successo di una piattaforma collaborativa come Wikipedia viene
infatti eletto a metafora di un nuovo modo di concepire la produzione e la distribuzione di
conoscenza, ma rappresenta anche un inedito approccio a forme di business capaci di trarre
vantaggi economici dalla partecipazione attiva degli utenti.
Il pensiero portante alla base del concetto di wikinomics può essere riassunto come “arte e
scienza della peer production”. Con quest’ultimo termine i due autori intendono l’affermarsi di una
produzione orizzontale e democratica di informazione e conoscenza in qualsiasi ambito della
società contemporanea. Tale modello di sviluppo ha radice, sia in termini tecnologici che teorici,
all’interno delle dinamiche di condivisione del file-sharing e delle reti peer-to-peer.
Si è scelto, pertanto, di dedicare la trattazione del primo capitolo ai risultati di alcune ricerche
che hanno provato a fotografare, a livello nazionale ed internazionale, l’andamento dei
comportamenti di produzione, consumo e condivisione di contenuti digitali. Il secondo capitolo è
incentrato invece sull’analisi specifica dei quattro principi che costituiscono le fondamenta dell’idea
di wikinomics: l’apertura, il peering, la condivisione e l’azione globale. Nel terzo e conclusivo
capitolo, gli stessi principi sono stati messi alla prova attraverso il confronto con tre case histories
che riguardano particolari piattaforme collaborative di nuova generazione. Si è scelto, nello

Stefano Mizzella – stefano.mizzella@unimib.it; stefano.mizzella@gmail.com 1


specifico, di analizzare gli inediti modelli di business di Qoob, piattaforma italiana dedicata alla
musica e alla cultura underground, SciVee, piattaforma scientifica americana di condivisione
multimediale e Zooppa, start-up italoamericana interamente dedicata al social advertising. Seppur
presentando caratteristiche differenti, tutte e tre le piattaforme, caratterizzate dalla predominanza
del video come elemento costitutivo, sembrano dimostrare l’efficacia di approcci aperti
all’innovazione in cui le imprese che attirano e ricompensano i partecipanti più capaci hanno
l’opportunità di creare nuove e reali fonti di vantaggio competitivo.

Indice

1. Il paradigma dell’economia collaborativa ………………………………………………….….p. 3


2. I quattro principi della wikinomics…………………………………………………………….p. 11
3. Peer Production e User Generated Content ……………………….........................................p. 15
3.1 Qoob – Broadcasting Ideas.................................................................................................p. 17
3.2 SciVee – The free and widespread dissemination and comprehension of science..............p. 21
3.3 Zooppa – Advertising goes social........................................................................................p. 26

Conclusioni…………………………………………………………………………………….…p. 30

Riferimenti bibliografici………………………………………………………………………….p. 32

Stefano Mizzella – stefano.mizzella@unimib.it; stefano.mizzella@gmail.com 2


1. Il paradigma dell’economia collaborativa

Quando una rete ha lo scopo di diffondere qualcosa che ha un valore per le


persone come nel caso di una rete televisiva, il valore dei servizi è lineare. Se la
rete consente transazioni tra nodi individuali, il valore aumenta al quadrato.
Quando la stessa rete include la possibilità che gli individui formino gruppi, il
valore è invece esponenziale.
Donald Reed

È possibile definire nei termini di “economia collaborativa” il consolidarsi di un inedito modello


economico in cui le aziende entrano in contatto con milioni di produttori autonomi, al fine di co-
creare valore all’interno di reti a maglie larghe. Tale affermazione costituisce uno dei passaggi più
significativi del recente studio di Don Tapscott ed Anthony D. Williams dedicato alla
“wikinomics”. Il concetto di wikinomics rappresenta, nelle parole dei due autori, l’insieme di
“profondi cambiamenti strutturali e operativi che la grande impresa e la nostra economia stanno
vivendo, cambiamenti basati su nuovi principi competitivi come l’apertura, il peering, la
condivisione e l’azione su scala globale” (Tapscott, Williams, 2006, p. XI).
Dovendo scegliere uno slogan capace di racchiudere in una singola frase il senso complessivo
del lavoro di Tapscott e Williams, potremmo provare a definire il concetto di Wikinomics come
“l’arte e la scienza della peer production”, intesa nei termini di una produzione orizzontale e
democratica di informazione e conoscenza. Esiste un nesso sempre più stringente che tiene legate le
dinamiche di condivisione del file-sharing e delle reti peer-to-peer con questo nuovo modello di
produzione di informazione e conoscenza. È possibile ritrovare tracce di questo legame all’interno
di alcune ricerche che hanno provato a fotografare, a livello nazionale ed internazionale,
l’andamento dei comportamenti di produzione, consumo e condivisione di contenuti digitali.
Henry Jenkins è Direttore del Comparative Media Studies Program presso il Massachusetts
Institute of Technology1. All’interno della ricerca “Confronting the Challenges of Partecipatory
Culture: Media Education for the 21st Century”2, Jenkins definisce come “participatory culture”:

a culture with relatively low barriers to artistic expression and civic engagement, strong support for
creating and sharing one’s creations, and some type of informal mentorship whereby what is known by
the most experienced is passed along to novices. A participatory culture is also one in which members
believe their contributions matter, and feel some degree of social connection with one another (p. 4).

1
http://cms.mit.edu/
2
Henry Jenkins (con Ravi Purushotma, Katherine Clinton, Margaret Weigel, Alice J. Robison), Confronting the
Challenges of Participatory Culture: Media Education for the 21st Century, in
http://www.projectnml.org/files/working/NMLWhitePaper.pdf

Stefano Mizzella – stefano.mizzella@unimib.it; stefano.mizzella@gmail.com 3


In accordo con l’impostazione della ricerca, è possibile enucleare dalla definizione generale le
seguenti forme di partecipazione:

Affiliations: appartenenza, formale e informale, a comunity online centrate intorno a varie tipologie di
media (come Friendster, Facebook, bacheche on line, metagaming, gruppi di gioco, o MySpace);

Expressions: produzione di nuove forme creative (come il campionamento digitale, lo skinning e il


modding, le produzioni testuali e multimediali degli appassionati, pubblicazioni underground e mash-
up);

Collaborative Problem-solving: lavoro di gruppo, formale e informale, al fine di svolgere compiti e


sviluppare nuovo sapere (come Wikipedia, giochi di immaginazione e sabotaggi creativi);

Circulations: formazione del flusso mediatico (come podcasting e blogging)3.

Uno dei principali obiettivi proposti dalla ricerca è stato quello di legittimare la “New Media
Literacy” non soltanto da un punto di vista accademico, ma anche come valido strumento di crescita
e formazione per i ragazzi in età scolare. Le diverse attività collaborative proposte, modellate
intorno ai principi della cultura partecipativa, hanno infatti favorito lo sviluppo e la condivisione di
capacità e saperi nei ragazzi che hanno partecipato alla ricerca.
Tra le nuove tipologie di “skills” sviluppate attraverso le attività proposte dal gruppo di ricerca
di Jenkins, si vuole qui concentrare l’attenzione su tre concetti specifici: “Appropriazione”,
“Intelligenza collettiva” e “Networking”. Il termine “appropriazione” viene utilizzato per designare
l’abilità di fruire in modo significativo di contenuti mediali, unitamente alla possibilità di
“remixarli” tra loro in maniera creativa e originale. Tale forma di prosuming rimarrebbe tuttavia
una sorta di monade non comunicante con l’esterno se non fosse parte di un’abilità, più estesa, che
permette di riunire saperi diversi e di comparare le critiche e i suggerimenti altrui, finalizzati al
raggiungimento di un obiettivo finale comune. Senza cadere nelle ingenuità della formulazione
originaria di Pierre Lévy (1994), Jenkins racchiude queste capacità nella definizione di “intelligenza
collettiva”, attualizzando però il concetto rispetto a quelle che sono le nuove piattaforme
comunicative di tipo Web 2.0. Ciò significa applicare la semplice teorizzazione di intelligenza
collettiva a un preciso modello operativo – il “networking” – che consente di ricercare, sintetizzare
e disseminare informazione all’interno di una determinata architettura di rete:

In a world in which knowledge production is collective and communication occurs across an array of
different media, the capacity to network emerges as a core social skill and cultural competency. A
resourceful student is no longer one who personally possesses a wide palette of resources and
information from which to choose, but rather, one who is able to successfully navigate an already
abundant and continually changing world of information (p. 49).

3
Traduzione a cura dell’Autore.

Stefano Mizzella – stefano.mizzella@unimib.it; stefano.mizzella@gmail.com 4


L’applicazione dei principi di networking implica dunque una fruizione attiva e partecipativa
degli utenti nei confronti dei prodotti mediali, a cui fa seguito una sorta di etica incentrata sullo
scambio orizzontale di saperi e competenze. Di conseguenza, anche il semplice consumo di
contenuti digitali assume all’interno di tale scenario una nuova significazione, caratterizzata in
primo luogo dall’ormai assodata abitudine di scambiare file gratuitamente attraverso circuiti e
motori di ricerca peer-to-peer.
Una recente ricerca sul “file sharing” promossa dalla Fondazione Luigi Einaudi di Roma insieme
a Libercom – Osservatorio su Libertà e Comunicazione4 ha provato a sintetizzare il consumo di
contenuti digitali in Italia attraverso l’enucleazione di tre diverse tipologie di utenti:

1. Non downloader consapevoli: utenti che non hanno scaricato contenuti digitali nell’ultimo
anno ma sono consapevoli della possibilità di acquistare contenuti culturali da Internet;
2. Downloader pay: utenti che hanno scaricato contenuti digitali da Internet nell’ultimo anno a
pagamento;
3. Downloader free: utenti che hanno scaricato contenuti digitali da Internet nell’ultimo anno
gratuitamente da altri utenti.

Su un campione di 1600 utenti internet italiani, rappresentativi dell’intera popolazione internet


nazionale, la ricerca ha dimostrato come, in maniera per certi versi inattesa, la fetta più grande della
torta (67% - 1075 rispondenti) appartenga ai non downloader. Questi, si dividono a loro volta tra
coloro i quali, pur non avendo scaricato contenuti digitali nell’ultimo anno, sanno della possibilità
di acquistare musica/video da Internet (84% - 904 rispondenti) e coloro, invece, che non si
dichiarano consapevoli di tale possibilità (16% - 171 rispondenti). Si dividono il resto della torta i
downloader pay (7% - 119 rispondenti) e i downloader free (25% - 406 rispondenti). Come è lecito
attendersi, i risultati più interessanti sono quelli che emergono dal confronto tra queste ultime due
tipologie di utenti. Se lo squilibrio di percentuale può essere giustificato dalla fruizione limitata di
portali di musica e video a pagamento, l’analisi dei comportamenti di consumo e, in particolare, le
tipologie di prodotti scaricati, sembrano invece raggiungere percentuali decisamente più equilibrate.

4
I comportamenti di consumo di contenuti digitali in Italia. Il caso del file sharing, Direttore della ricerca: Davide
Bennato. Comitato scientifico: Alberto Abruzzese, Fausto Colombo, Giuseppe Corasaniti, Alberto Marinelli, Giovanni
Orsina, Gustavo Piga. In: http://www.libercom.it/

Stefano Mizzella – stefano.mizzella@unimib.it; stefano.mizzella@gmail.com 5


Fig. 1. Le tipologie di prodotti scaricati dai downloader pay.

Le percentuali della Figura 1 evidenziano infatti una tendenza ad utilizzare i portali di musica a
pagamento principalmente per scaricare singole tracce musicali (92%) piuttosto che interi album
musicali (solo il 17%). Risultano molto basse anche le percentuali degli utenti che acquistano
prodotti video dai portali a pagamento: 5% per i serial tv, 9% per le trasmissioni tv e non oltre il
12% per quanto riguarda il download di film.
Confrontiamo ora questi dati con quelli riassunti nella Figura 2, dedicata ai prodotti scaricati dai
downloader free:

Fig. 2. Le tipologie di prodotti scaricati dai downloader free.

In questo caso, se la musica rimane la “killer application” con un aumento degli album (21%)
rispetto ai downloader pay, è possibile notare percentuali più elevate soprattutto tra i contenuti
audiovisivi, in modo particolare per ciò che concerne il download di film (30%) rispetto a quello dei
serial televisivi (7%). L’11% relativo agli utenti che dichiarano di scaricare altri programmi
televisivi testimonia il modo in cui questa tipologia di utenti utilizzi le reti per il file sharing al fine
di creare una sorta di canale fruitivo alternativo alla televisione tradizionale.
Osservando le motivazioni alla base delle abitudini di consumo dei dowloader free (Figura 3),
vediamo come la possibilità di ottenere contenuti in maniera gratuita rappresenti certamente la
percentuale più alta (45%). Tuttavia, ben il 34% afferma che è la comodità di poterlo fare a casa a

Stefano Mizzella – stefano.mizzella@unimib.it; stefano.mizzella@gmail.com 6


rappresentare un benefit, mentre il 21% considera l’attività di file sharing come un modo alternativo
per scegliere i prodotti consentendo di valutare la qualità del contenuto prima di acquistarlo. Tali
percentuali esemplificano un mutamento sempre più radicato nelle abitudini di consumo degli
utenti. Un consumo, come evidenziano i dati riportati, basato non esclusivamente sulla gratuità dei
contenuti, ma dettato in larga parte da più profonde motivazioni legate a un atteggiamento critico e
consapevole nei confronti dei prodotti che si desidera fruire.

Fig. 3. Le motivazioni dei downloader free.

Emergono infatti da questa partizione voci come “condivisione” (14%), “specializzazione del
database” (15%) e “ampiezza del database” (19%) che, considerate nell’insieme, rappresentano
indicatori importanti di nuove e sicuramente più complesse tipologie di utenti. Al di là di qualsiasi
teorizzazione sulla tradizionale dicotomia spettatore attivo/passivo, il peer-to-peer sembra
rappresentare uno strumento assolutamente efficace non solo per il recupero di contenuti di nicchia
introvabili nei tradizionali canali mainstream, ma anche e soprattutto per la possibilità di mettere in
condivisione tali contenuti con gli altri utenti. Se a questo aggiungiamo anche una conseguente
destrutturazione del flusso mediatico – televisivo in particolare – dovuto a una possibilità di
fruizione svincolata dalla regolarità del palinsesto, vediamo come sia pressoché impossibile adattare
vecchie categorie interpretative per spiegare nuove abitudini di consumo che potremmo definire
“post-broadcasting”.
Rimanendo ancora nel solo versante video, una recente indagine condotta da Pew Internet &
American Life Project5 ha evidenziato come il 57% degli internauti adulti statunitensi abbia
utilizzato la Rete per guardare e scaricare contenuti video (tra questi, il 19% dichiara di farlo
abitualmente). Allo stesso tempo, i tre-quarti degli utenti (74%) che dispongono di una connessione
veloce, sia a casa che in ufficio, hanno dichiarato di guardare e scaricare abitualmente video on line.
Ma il dato della ricerca su cui vale la pena riflettere maggiormente è quello relativo alla percentuale
di coloro che hanno dichiarato di scambiare e condividere i link dei video con altri utenti: il 57%,

5
Mary Madden, Online Video, Pew Internet & American Life Project, 2007, in:
http://www.pewinternet.org/pdfs/PIP_Online_Video_2007.pdf

Stefano Mizzella – stefano.mizzella@unimib.it; stefano.mizzella@gmail.com 7


ovvero più della metà del totale degli utenti che guardano video on line. Infine, tre-quarti degli
utenti che guardano video on line (75%) hanno dichiarato di ricevere abitualmente link e
segnalazioni di video da parte di altri utenti.

Fig. 4. Le abitudini di consumo degli utenti che guardano e scaricano contenuti video (Source: Pew Internet &
American Life Project Tracking Survey, February 15 – March 7, 2007).

Provando a riflettere su tali dati e percentuali, alcune possibili considerazioni sono le seguenti.
La propensione al video-sharing risulta più forte – come era lecito attendersi – nella fascia d’età dei
“giovani adulti”, compresa tra i 18 e i 29 anni. Sono questi ultimi, infatti, a scambiare più
frequentemente video in maniera virale con i propri contatti on line e a guardare i video in
compagnia di amici e parenti (73%). Ancora, sono sempre i giovani adulti a privilegiare una
fruizione maggiormente attiva e partecipativa dei contenuti video, attraverso azioni come l’upload
dei propri video o l’aggiunta di punteggi e commenti ai video inseriti dagli altri utenti.
Lo scarto generazionale tra gli utenti è riscontrabile anche per ciò che riguarda le diverse
tipologie di video fruiti.

Stefano Mizzella – stefano.mizzella@unimib.it; stefano.mizzella@gmail.com 8


Fig. 5-6. Il gap generazionale riscontrabile tra le preferenze degli utenti giovani e di quelli più adulti.

In prima istanza, i dati della ricerca evidenziano un netto 62% di coloro che preferiscono vedere
video prodotti in maniera professionale, rispetto al 19% di utenti che dichiara la propria preferenza
nei confronti dei video amatoriali. Tuttavia, se rapportiamo tali percentuali alle fasce d’età secondo
cui sono stati divisi gli utenti, vediamo come il 30% dei giovani adulti dichiari di preferire video
amatoriali, mentre il 16% degli stessi ammetta di apprezzare allo stesso modo video di stampo
professionale e amatoriale. Ciò testimonia una differenziazione evidente, proprio nelle abitudini di
consumo, tra quella che potremmo definire “YouTube Generation” e gli utenti di età elevata. Se,
infatti, per gli utenti più adulti è quasi scontato chiedere alla rete la stessa professionalità richiesta,
seppur con le ovvie differenze del caso, ad altri mezzi di comunicazione tradizionali come tv,
cinema e stampa, in maniera inversa sono proprio gli utenti più giovani a decretare l’affermazione
degli User Generated Content come nuovo paradigma comunicativo. Uscire dalle ristrettezze
interpretative di questa dicotomia – professionale versus amatoriale – è il necessario punto di
partenza per osservare e capire il successo e la pervasività di fenomeni come YouTube, MySpace o
Wikipedia.
Ne è consapevole anche Chris Anderson, che nel suo studio illuminante sul concetto di “Long
Tail”, decreta l’avvenuta disintegrazione del mainstream in milioni e milioni di frammenti culturali

Stefano Mizzella – stefano.mizzella@unimib.it; stefano.mizzella@gmail.com 9


diversi come la causa più profonda capace di sconvolgere profondamente sia i media che
l’intrattenimento tradizionali: “l’era del one-size-fits-all è al capolinea, rimpiazzata da qualcosa di
nuovo: un mercato di moltitudini” (Anderson, 2006, p. XIX).

Fig. 7. Il modello di distribuzione a “coda lunga” proposto da Chris Anderson.

All’interno di questo mercato di moltitudini, un mercato invisibile divenuto finalmente visibile


grazie all’economia della distribuzione digitale, “hit” e “nicchie” convivono per la prima volta nella
storia sullo stesso livello economico: “entrambe voci in un database che vengono richiamate a
richiesta, entrambe ugualmente degne di essere trattate. All’improvviso, la popolarità non detiene
più il monopolio della redditività” (p. 13). Se nel ragionamento di Anderson la distinzione
fondamentale è dunque quella tra prodotti ideati per raggiungere il consenso del più alto numero di
persone nel più breve tempo possibile (hit) e prodotti destinati a vendite marginali ma tuttavia
costanti nel tempo (nicchie), nel caso di un fenomeno come YouTube tale ragionamento è ancor più
valido se applicato al rapporto tra contenuti professionali e amatoriali. Non solo, infatti, contenuti di
nicchia convivono in YouTube accanto a video creati appositamente dai più importanti network
televisivi mondiali. Ma casi eclatanti come il videoblog di “Lonelygirl5” o le performance musicale
degli “Ok Go” testimoniano quanto quella sorta di “aurea amatoriale” – vera o presunta non importa
– che aleggia intorno ad alcuni video costituisca il vero valore aggiunto alla base del successo
planetario di questa piattaforma. Di conseguenza, prodotti ideati e realizzati in modo del tutto
amatoriale non solo garantiscono, in accordo col principio della coda lunga, un consumo marginale
ma pur sempre costante e redditizio, ma in alcuni casi possono raggiungere picchi di notorietà e
vendibilità che si addicono maggiormente alla parte di sinistra della curva.
YouTube rappresenta a tutti gli effetti l’esempio più eclatante di tale rivoluzione, anche se negli
ultimi mesi si sono sviluppate nuove e altrettanto interessanti piattaforme votate al video-sharing e
alla valorizzazione, sotto diversi aspetti, degli User Generated Content. Di queste piattaforme ci

Stefano Mizzella – stefano.mizzella@unimib.it; stefano.mizzella@gmail.com 10


occuperemo all’interno del terzo e conclusivo capitolo, dopo aver analizzato e approfondito i
principi fondamentali che risiedono dietro al concetto di wikinomics.

2. I quattro principi della wikinomics

L’assunto originale che ha condotto Tapscott e Williams alla stesura del testo, giunta a
compimento dopo 5 anni di ricerca preliminare, è dettato dalla presa di coscienza del ruolo
crescente che la collaborazione di massa sta avendo sulla trasformazione – in alcuni casi già
avvenuta, in altri soltanto ipotizzata – di ogni singola istituzione della società attuale:

A causa dei profondi cambiamenti che si sono verificati nel campo della tecnologia, dello sviluppo
demografico, del business, dell’economia e del mondo intero, stiamo entrando in una nuova era nella
quale la gente parteciperà all’economia come non ha mai fatto finora. Questa inedita partecipazione ha
raggiunto un punto critico, nel quale le nuove forme della collaborazione di massa stanno cambiando il
modo in cui i beni e i servizi vengono inventati, prodotti, promossi e distribuiti in tutto il mondo. Tale
cambiamento offre opportunità di vasta portata a qualunque impresa, o individuo, si connetta a questa
rete collaborativa. (…) Oggi è in atto una rivoluzione. La crescente accessibilità delle tecnologie
informatiche fa sì che gli strumenti necessari per collaborare, creare valore e competere siano alla portata
di tutti. Ciò permette alla gente di partecipare all’innovazione e alla creazione della ricchezza in tutti i
settori dell’economia (p. 5).

“L’era della partecipazione”, come la definiscono i due autori, è resa dunque possibile
dall’emergere di nuove infrastrutture collaborative a basso costo – telefonia gratuita su Internet,
piattaforme globali per l’outsourcing, software open source – che consentono a migliaia e migliaia
di individui e piccoli produttori non solo di “co-creare” i prodotti, ma anche di eguagliare le grandi
corporation nell'accesso ai mercati e nella soddisfazione dei clienti a cui rivolgono la propria offerta
(p. 6). All’interno di tale scenario, è l'evoluzione costante di Internet a funzionare da propulsore per
il progresso di queste nuove forme di economia collaborativa. Attenti nell'evitare i vizi di forma di
etichette di successo come quella di Web 2.0, spesso utilizzata in maniera erronea, Tapscott e
Williams preferiscono parlare dell’affermazione di

una piattaforma globale e ubiquitaria per il calcolo computazionale e la collaborazione, che sta
ridefinendo quasi tutti gli aspetti dell’attività umana. Mentre la vecchia Rete era fatta di siti web, di click
e di occhi puntati sul monitor, la nuova Rete è fatta di comunità, di partecipazione e di peering. A mano
a mano che gli utenti e la potenza computazionale si moltiplicano e gli strumenti di facile utilizzo
proliferano, Internet si sta evolvendo in un computer globale, vivo e reticolare che chiunque è in grado
di programmare (p. 15).

Stefano Mizzella – stefano.mizzella@unimib.it; stefano.mizzella@gmail.com 11


Ciò che questa nuova forma di collaborazione di massa sta cambiando è il modo in cui le
imprese e le società sfruttano le loro conoscenze e capacità per innovare e creare valore. Così come
è lecito parlare di un “upgrade” per ciò che concerne il Web, allo stesso modo è possibile ipotizzare
l’avvento di un nuovo tipo di impresa capace di aprire le porte al mondo ai fini dell'innovazione,
condividendo con altri, soprattutto con i clienti, risorse ritenute un tempo inaccessibili. Un modello
imprenditoriale, dunque, in grado di far leva sulla collaborazione di massa come fonte principale di
sviluppo e capace, allo stesso tempo, di raggiungere un’estensione realmente globale (pp. 16-17).
Proviamo ora a sintetizzare e a passare brevemente in rassegna i quattro principi che Tapscott e
Williams pongono alla base della wikinomics:

L’apertura
“Oggi le imprese che fanno in modo di avere confini 'porosi', aperti alle idee e al capitale umano
esterno, battono quelle che fanno affidamento soltanto sulle proprie risorse e capacità interne
(p.18)”. Apertura implica dunque lo sdoganamento di informazioni aziendali precedentemente
tenute nascoste e la conseguente comunicazione di queste a partner, dipendenti, clienti o azionisti.
Il concetto di apertura è strettamente legato, nella trattazione dei due autori, all'altrettanto
fondamentale concetto di “trasparenza”, intesa qui come la divulgazione di informazioni pertinenti,
che rappresenta un trend sempre più consolidato all'interno della networked economy.
Un atteggiamento aperto e trasparente rappresenta dunque un vantaggio notevole sia per i clienti
che per i dipendenti dell'azienda: i clienti hanno così l'opportunità di verificare con più precisione il
reale valore del prodotto, mentre i dipendenti ne traggono una conoscenza molto più profonda della
strategia, del management e delle sfide che la loro azienda si trova ad affrontare.

Il peering
“Benché sia improbabile che le gerarchie spariscano nel prossimo futuro, sta emergendo una
nuova forma di organizzazione orizzontale che fa concorrenza all’azienda gerarchica rispetto alla
capacità di creare prodotti e servizi basati sulle tecnologie informatiche e in alcuni casi anche
oggetti materiali” (p. 21). Se questa nuova forma organizzativa può essere definita peering, Linux
ne rappresenta l'esempio più significativo. Tuttavia, la crescente facilità con la quale soggetti diversi
hanno ora la possibilità di organizzarsi in maniera autonoma per progettare beni o servizi, creare
conoscenza o dare vita a esperienze dinamiche e condivise, fa sì che i modelli peer-to-peer di
organizzazione dell’attività economica si stiano sempre più sviluppando al di là del software open
source. Il successo, nel campo del sapere, di un servizio come quello offerto da Wikipedia,
testimonia la capacità del peering di generare uno stile di produzione molto più efficace, rispetto al
modello di gestione gerarchica, ai fini dello svolgimento di attività sia interne che esterne al servizio
stesso.

Stefano Mizzella – stefano.mizzella@unimib.it; stefano.mizzella@gmail.com 12


Condivisione
“Le imprese illuminate stanno trattando la proprietà intellettuale come un fondo comune e
gestiscono un portafoglio equilibrato di asset legati a essa, in parte protetti e in parte condivisi” (p.
24). Quella che si sta delineando è una “nuova economia della proprietà intellettuale” in cui autori
e consumatori sono posti al centro di una vasta rete dedita alla creazione di valore. Gli esempi
offerti dalla musica digitale testimoniano la facilità con cui gli utenti possono condividere, remixare
e replicare opere tradizionalmente coperte da copyright. La capacità di creare e condividere valore
finisce per scontrarsi inevitabilmente con il sistema proprietario del patrimonio intellettuale.
Tuttavia, se per le società diventa quasi impossibile rinunciare alla possibilità di proteggere la loro
proprietà intellettuale di maggior rilievo, l'avvio di una estesa e oculata contribuzione ai commons
rappresenta “il modo migliore per sviluppare ecosistemi di business vivaci che facciano leva su un
corpus di base di tecnologie e conoscenze condivise per accelerare il passo della crescita e
dell'innovazione” (p. 25).

L’azione globale
“Per mantenere la propria competitività globale, bisogna monitorare gli sviluppi del business sul
piano internazionale e attingere a un bacino globale di talenti molto più ampio” (p. 27). Innovare e
produrre all'interno di un mercato globale significa per un'azienda “gestire le risorse umane e
intellettuali superando i confini culturali, disciplinari e organizzativi” (ib.). Per agire globalmente,
non limitandosi dunque al solo pensare globalmente, sono necessari alleanze globali, mercati del
capitale umano e comunità dedite alla peer production, al fine di accedere a scenari più ampi di
mercato, idee e tecnologie.

Quattro semplici principi, quelli qui sopra riportati, che hanno però la forza di tracciare un nuovo
percorso per quanti – società, singoli o organizzazioni – vorranno innovare attraverso strategie
votate alla condivisione di conoscenza. Perché le organizzazioni e le società di successo saranno
proprio quelle “che si abbevereranno al fiume della conoscenza umana e la incalaneranno in una
serie di nuove e utili applicazioni” (p. 29). Ma cosa accade quando si prova a ribaltare il punto di
vista e ci si pone dalla parte non più delle aziende o delle istituzioni ma degli utenti e dei
consumatori? Quali sono i reali vantaggi che un approccio votato alla wikinomics può generare nei
confronti non solo delle “corporate” ma anche del versante “consumer”? Del resto, le medesime
problematiche sollevate dal lavoro di Tapscott e Williams possono essere ritrovate nell’affermarsi
di quella che Yochai Benkler, docente di diritto all'università di Yale, ha definito “economia
dell'informazione in rete” [networked information economy]:

L'economia dell'informazione in rete sta sostituendo l'economia dell'informazione industriale che ha


caratterizzato la produzione di contenuti a partire dalla seconda metà circa del XIX secolo e per tutto il
XX secolo. Ciò che caratterizza l'economia dell'informazione in rete è che azioni individuali decentrate –
cioè le nuove e rilevanti condotte cooperative coordinate per mezzo di meccanismi non commerciali
radicalmente distribuiti, che non dipendono da strategie proprietarie – giocano un ruolo molto più grande

Stefano Mizzella – stefano.mizzella@unimib.it; stefano.mizzella@gmail.com 13


di quanto non fosse, o avrebbe mai potuto essere, nell'economia dell'informazione industriale (Benkler,
2006, pp. 3-4).

Quella tratteggiata da Benkler è, dunque, una rivoluzione profonda, strutturale, all’interno della
quale Internet assume un ruolo assolutamente prioritario e determinante. La rete rappresenta, infatti,
il “primo mezzo di comunicazione moderno capace di espandere il proprio raggio di diffusione
decentralizzando allo stesso tempo la struttura economica della produzione e distribuzione di
informazione, cultura e conoscenza” (p. 38). La decentralizzazione radicale dell’intelligenza nelle
reti permette una distribuzione di idee, informazione, cultura e conoscenza svincolata da quelle
stesse economie di scala colpevoli di aver favorito l’espansione dei mezzi di comunicazione di
massa sotto l’egida della concentrazione e del controllo (p. 40). Ecco perché il modello di sviluppo
del free software appare a Benkler come l’esempio più evidente di una nuova modalità di
organizzare la produzione “radicalmente decentrata, collaborativa e non proprietaria; basata sulla
condivisione delle risorse e degli output tra individui dispersi nello spazio e variabilmente
connessi, che cooperano senza dipendere né dal mercato né dagli ordini dei manager” (p. 76).
Quella a cui Benkler si riferisce è dunque una “produzione orizzontale basata sui beni comuni”
[commons-based peer production], attorno alla quale si possono sviluppare sistemi produttivi [peer
production] che dipendono dall'azione individuale autodeterminata e decentrata, piuttosto che
gerarchicamente assegnata (p. 79).
È questo il senso di una precisa chiave di lettura che John Maeda ha proposto all’interno del suo
studio sulle leggi della semplicità: “L’apertura semplifica la complessità. Con un sistema aperto, il
potere dei molti può compensare il potere dei pochi” (Maeda, 2006, p. 126). Similmente a quanto
teorizzato da Benkler, Maeda individua in un sistema operativo open source come Linux così come
nelle possibilità di innovazione messe a disposizione dalle API (Application Programming
Interface), gli esempi vincenti di un nuove modalità partecipative votate alla produzione orizzontale
di informazioni e conoscenza.

Stefano Mizzella – stefano.mizzella@unimib.it; stefano.mizzella@gmail.com 14


3. Peer Production e User Generated Content

All'interno di questo terzo e conclusivo capitolo proveremo a “testare” i quattro principi della
wikinomics su tre diversi servizi web di ultima generazione:

 Qoob - http://it.qoob.tv/
 SciVee - http://www.scivee.tv/
 Zooppa - http://zooppa.com/

Ci troviamo di fronte, nel primo caso, a una piattaforma totalmente italiana, americana nel caso
di SciVee e, infine, a una start-up italoamericana nel caso di Zooppa.
Pur presentando caratteristiche e modelli di business differenti, le tre piattaforme web
selezionate come case histories risultano accomunate dalla produzione orizzontale (peer
production) di informazioni e contenuti, unitamente alla legittimazione degli User Generated
Content come nuovo standard comunicativo di riferimento. Altro elemento caratterizzante delle tre
piattaforme scelte è la presenza predominante di contenuti video rispetto alle immagini statiche o al
testo scritto. Ciò è in linea con le tendenze registrate dalle numerose ricerche che hanno decretato il
video come uno dei fattori principali di crescita del Web 2.0. Tuttavia, non ci troviamo di fronte a
esempi tradizionali di aggregatori video, ma a piattaforme complesse modellate intorno al social
networking e votate alla valorizzazione dei contenuti prodotti in maniera autonoma e originale dagli
utenti.
Considerata la particolare architettura web utilizzata, unitamente ai servizi offerti agli utenti per
accrescerne la partecipazione e migliorarne la web experience, sembrerebbe quasi che le tre
piattaforme qui proposte siano esempi diversi di spin-off derivati da un macro-aggregatore video
come YouTube, capace di contenere al suo interno pressoché qualsiasi tipologia di contenuti video
prodotti sia da professionisti che da utenti amatoriali. Filmati a carattere scientifico, dunque, che
coabitano con video realizzati al solo scopo di divertire e far strappare un sorriso a chi li guarda.
Non è certo questa la sede per mettere in evidenza, semmai ce ne fosse ancora bisogno, lo
straordinario portato sociale, oltre che meramente tecnologico, di una “giant application” come
YouTube. Tuttavia, preme qui riportare una breve riflessione condotta da Henry Jenkins proprio
intorno al fenomeno YouTube, contenuta all’interno della postilla all’edizione italiana di “Cultura
convergente”:

YouTube si è affermato come punto di incontro fra una serie di comunità grassroots diverse, coinvolte
nella produzione e nella distribuzione dei contenuti dei media. Molto di quello che si è scritto su
YouTube dà per scontato che la disponibilità di tecnologie Web 2.0 ha reso possibile la crescita di
culture partecipative. Io direi proprio il contrario: è l’emergere di culture partecipative di ogni tipo negli
ultimi decenni che ha preparato la strada all’interessamento prima, poi alla rapida adozione e all’uso
diversificato di piattaforme come YouTube. Ma, incontrandosi attraverso questo portale comune, le varie
comunità di fan, comunità di brand e sottoculture apprendono tecniche e pratiche le une dalle altre,
facendo accelerare l’innovazione entro e fra le diverse comunità di pratica. Ci si potrebbe chiedere se

Stefano Mizzella – stefano.mizzella@unimib.it; stefano.mizzella@gmail.com 15


quello “You” in YouTube sia singolare o plurale, visto che nella lingua inglese la stessa parola vale per
entrambi i pronomi di seconda persona. YouTube è un sito di espressione personale, come dicono spesso
i giornalisti, o per l’espressione di visioni condivise entro comunità comuni? Il contenuto più potente su
YouTube arriva, ed è utilizzato, da specifiche comunità di pratica e perciò, in questo senso, è una forma
di collaborazione culturale (Jenkins, 2006, pp. 300-301).

Le parole di Jenkins, se per un verso invitano a evitare l’unilaterialità di un approccio


tecnologicamente determinato, dall’altro hanno il merito di fotografare in modo puntuale i possibili
incroci di varie culture partecipative all’interno di un unico spazio sociale come quello offerto da
YouTube. L’incapacità, o meglio, l’impossibilità di discernere in modo non ambiguo la singolarità
o la pluralità dello “You” equivale in questi termini alla definitiva presa di coscienza dell’affermarsi
di una cultura della partecipazione che, invece di essere univoca e universalmente riconoscibile, si
manifesta volta per volta sotto diversa forma e tipologia. Per tale ragione, si potrebbe affermare che
le community proposte da Qoob, SciVee e Zooppa – rispettivamente legate alla cultura e alla
musica underground, alla ricerca scientifica o alle nuove forme di advertising – abbiano trovato
all’interno di queste tre piattaforme uno spazio autonomo e riconoscibile, impossibile da ottenere
all’interno del mare magnum di YouTube. Ciò nonostante, in accordo con uno dei presupposti
teorici più importanti del Web 2.0, ogni singolo contenuto, anche se originariamente uploadato su
una determinata piattaforma, è capace di incrociarsi con altri contenuti e di migrare in maniera
nomadica su altre piattaforme, spesso divergenti rispetto a quella di origine. Ipotizziamo infatti la
possibilità di registrare con una videocamera o con un videofonino un episodio divertente o un
evento che riteniamo particolarmente interessante. Tali riprese possono essere editate, ora anche
direttamente on line, e caricate su una piattaforma di condivisione come YouTube. Nel momento in
cui il video viene postato e reso pubblico insieme ala striscia di codice utile per l’embedding, quel
determinato video può essere trasferito su altre piattaforme di video-sharing ma anche su blog e siti
personali o, ancora, all’interno di dispositivi mobili, con la conseguenza di recidere qualsiasi
legame tra il video stesso e l’originale contesto fruitivo.
Simili dinamiche di networking tra piattaforme e tipologie di utenti differenti può tuttavia dare
adito a miopie interpretative. Sempre più spesso si parla di Web Tv o di Net Tv, rischiando di
accomunare sotto questo unico termine-ombrello categorie diverse che vanno dalle User Generated
Tv alle Corporate Tv o, ancora, alle Brand Tv e alle Business Tv. Curiosamente, se in molti si
sono impegnati a scegliere il sostantivo migliore da utilizzare per il primo dei due termini, in pochi
o addirittura nessuno si è cimentato nella più ardua impresa di eliminare in modo drastico e
definitivo quel suffisso così stancamente generalista. Perché di “televisione” fenomeni come
YouTube e derivati hanno ben poco o niente, se non la prevalenza dei contenuti video rispetto al
testo scritto (anche se in alcuni casi la proporzione tra audiovisivo e commenti di testo può tendere
decisamente verso questi ultimi). Similmente, anche le finalità più o meno esplicite delle nuove
forme di Net Tv possono rappresentare un significativo fattore discriminante tra progetti
apparentemente simili: se, in alcuni casi, è il brand (servizio o prodotto) a fornire i presupposti per
la creazione – spesso artefatta – di una community, in altri è la community stessa a realizzare,

Stefano Mizzella – stefano.mizzella@unimib.it; stefano.mizzella@gmail.com 16


spontaneamente e senza pretendere alcuna retribuzione, il prodotto o il servizio che viene fruito. Gli
sviluppi più recenti e significativi del web hanno mostrato infatti l’efficacia di relazioni spontanee
legate a specifici gruppi di interesse, prive dunque di imposizioni provenienti tanto da centri
istituzionali quanto da modelli di marketing eccessivamente pervasivi e centralizzanti.
Altra questione cruciale è rappresentata in tale scenario dalle forme possibili di retribuzione che
un’azienda o un’impresa potrebbero mettere a disposizione dei propri utenti. In che modo, infatti, i
gestori delle piattaforme aperte dovrebbero ricompensare le persone e le organizzazioni che
forniscono un valore aggiunto alle loro piattaforme? In quale misura e secondo quali modalità i
sistemi di incentivazione monetaria stimolerebbero ulteriormente la creazione di valore? Cosa
accadrebbe, invece, se la retribuzione economica compromettesse le dinamiche spontanee che
hanno portato al successo comunità online come Flickr o YouTube?
È in risposta a simili interrogativi che i principi della wikinomics forniscono esempi reali di
social network in cui il brand può funzionare non soltanto da specchietto per la buona riuscita di
una campagna di marketing, ma anche e soprattutto come catalizzatore di idee e risorse creative
generate in modo autonomo dagli utenti. Tra i poli opposti delle “corporate communities” e della
filosofia quasi evangelica di Wikipedia, esistono dunque esempi concreti di nuove forme di
business modellate intorno a dinamiche partecipative in cui rimangono saldi i principi più nobili
della collaborazione “appassionata” degli utenti. Casi, dunque, di approcci aperti all’innovazione
in cui “le imprese che attirano e ricompensano i partecipanti più capaci hanno l’opportunità di
creare delle nuove fonti di vantaggio competitivo” (Tapscott, Williams 2006 p. 240). A tre di questi
esempi è dedicata la parte conclusiva del presente lavoro.

3.1 Qoob – Broadcasting Ideas

Qoob nasce il 30 novembre 2006 come progetto co-finanziato da MTV Italia e Telecom Italia
Media, sostituendo l’originario Yos (Your Open Source) e il successivo Flux6.
Rispetto alle più tradizionali piattaforme di video-sharing in stile YouTube, Qoob si differenzia
per la scelta di utilizzare esclusivamente contenuti generati dagli utenti e non video messi a
disposizione dai network broadcaster. Anche il livello di realizzazione dei video già presenti in
archivio è quasi sempre elevato in termini di qualità, e questo costituisce un vero e proprio filtro per
gli utenti “neofiti” che desiderano uploadare le proprie realizzazioni. Video, musica e immagini
sono le tre principali tipologie di contenuti offerte dal servizio, e si rifanno agli scenari
“underground” della musica elettronica, dell’animazione digitale, del cinema e del digital design.

6
Flux è stato un canale musicale analogico del gruppo Telecom inaugurato ufficialmente l'8 aprile del 2006 e oscurato
il 20 novembre dello stesso anno.

Stefano Mizzella – stefano.mizzella@unimib.it; stefano.mizzella@gmail.com 17


L’offerta di Qoob si basa inoltre su un sistema di distribuzione multipiattaforma: oltre al portale
web, i contenuti prodotti dalla community di Qoob sono infatti visibili anche in digitale terrestre
(DVB-T sul Multiplex La7/MTV) e sul satellite (DVB-S su Atlantic Bird 1). La cross-medialità di
Qoob risulta un valore aggiunto anche per il reale coinvolgimento degli utenti, dal momento che i
contenuti presenti all’interno del sito vengono costantemente monitorati e infine selezionati per
essere poi riprodotti nel corso della programmazione televisiva, sia terrestre che satellitare.
Più del modello comunicazionale adottato, è il claim di Qoob – “Broadcasting Ideas” – ad
esprimere in modo efficace il reale posizionamento del progetto e i relativi elementi di distinzione.
Al di là della chiara allusione al più noto “Broadcast Yourself” di YouTube, il claim di Qoob si
differenzia rispetto a quello del competitor statunitense proprio per il fatto di preferire le “idee” alle
“persone”. Naturalmente stiamo provando ad avanzare una forzatura teorica, ma probabilmente
questa diversa sfumatura interpretativa può risultare interpretabile come la volontà di privilegiare
contenuti qualitativamente elevati rispetto a quelli maggiormente amatoriali o autoreferenziali e
comunque votati al pure entertainment.

Fig. 8. L’home page di Qoob - http://it.qoob.tv/.

Più nello specifico, il modello di business proposto da Qoob si basa su un sistema di retribuzione
in denaro che premia i contenuti migliori tra quelli proposti dagli utenti. Ciò può avvenire attraverso
l’invio di contenuti di libera ispirazione o attraverso la partecipazione ai “commissioning” che
vengono regolarmente organizzati al fine di indirizzare le produzioni verso tipologie specifiche di
contenuto. Il commissioning avviene attraverso un “brief” iniziale, all’interno del quale vengono

Stefano Mizzella – stefano.mizzella@unimib.it; stefano.mizzella@gmail.com 18


fornite agli utenti le informazioni basilari sul taglio editoriale di video richiesto dal “committente”
(comico, di cronaca, di attualità, ecc.).

Fig. 9. La schermata del brief di uno dei commissioning attivi

Lo step successivo riguarda invece il “Tv Payout”, in cui vengono selezionati fino a un massimo
di 10 video (i migliori) tra tutti quelli inviati, che verranno ricompensati con 250 Qoob$ ciascuno.
Quando un contenuto viene scelto e proposto all’interno del palinsesto televisivo, gli utenti che
hanno prodotto quel determinato contenuto possono ricevere un compenso stabilito secondo il tasso
di cambio vigente tra i “Qoob dollars” e gli euro tradizionali7.
Richiamando le logiche di collaborazione proprie di un wiki, più utenti possono decidere di
lavorare in team, attingendo a competenze diverse, per ottenere un unico prodotto finale di alta
qualità: ogni videomaker può, ad esempio, stringere una collaborazione con un designer, per
migliorare la qualità delle grafiche che compariranno nel video, così come può accordarsi con un
audiomaker nel caso in cui avesse bisogno di una colonna sonora particolare.
La “QOOB Factory”, ovvero il centro di produzione creativa del gruppo, può inoltre decidere di
mettersi in contatto direttamente con gli autori dei contenuti migliori per finanziare e supportare la
produzione delle loro idee. In tal modo sono già state prodotte due serie ideate e realizzate con il

7
Nel momento in cui si scrive, il tasso di cambio è pari a 1 QOOB $ = 2 EURO. Per il primo video che viene scelto il
compenso è pari a 100 QOOB $ (equivalenti a 200 ), per il secondo si sale a 150 QOOB $ (300 ), mentre dal terzo
video in poi si può arrivare a guadagnare fino a 200 QOOB $ (400 ). Una volta stabilito il compenso, il pagamento
viene effettuato via mail attraverso PayPal.

Stefano Mizzella – stefano.mizzella@unimib.it; stefano.mizzella@gmail.com 19


contributo degli utenti: Techstuff, documentario sulla musica elettronica, e la serie animata
Eloquens.
L’esempio fornito da una piattaforma User Generated come Qoob testimonia dunque
l’affermarsi di un nuovo paradigma comunicativo basato su forme evolute di prosuming, grazie alle
quali gli utenti hanno la possibilità di passare, senza soluzione di continuità, dal ruolo di
consumatori a quello di co-innovatori e creatori dei prodotti e dei servizi che vengono consumati:

(…) i clienti non si limitano a modificare o personalizzare le merci: possono darsi un’organizzazione
autonoma allo scopo di creare le merci che desiderano. Gli utenti più avanzati, infatti, non aspettano più
che qualcuno li inviti a trasformare un prodotto in una piattaforma sulla base della quale sviluppare le
proprie innovazioni. Piuttosto danno vita a community di prosumer nell’ambito delle quali condividono
tutte le informazioni relative ai prodotti, collaborano e si scambiano suggerimenti, strumenti e trucchi da
hacker consumati (Tapscott, Williams, 2006, p. 141).

Il servizio offerto da piattaforme come Qoob non fa altro che legittimare e addirittura “premiare”
questa inedita tipologia di utenti, a testimonianza di quanto valore abbia, nell’economia digitale, il
riconoscimento e la valorizzazione della creatività dei clienti piuttosto che il loro indebolimento
attraverso offerte comunicative unidirezionali. In tale contesto, e in sintonia con l’etica hacker,
assume un ruolo di grande importanza la cultura del remix, intesa non certo nei termini di
appropriazione indebita, bensì come l’emergere di inedite ricombinazioni semantiche e valoriali:

È un’impostazione etica che definisce ciò che la nuova Rete sta diventando: un enorme parco giochi
pieno di bit informativi che vengono condivisi e “remixati” liberamente fino a creare una trama fluida e
fondata sulla partecipazione. Essendo maturato rispetto agli anni in cui era soltanto un medium utilizzato
per la presentazione statica di contenuti, oggi il web rappresenta il fondamento su cui poggiano nuove
forme dinamiche della collettività e dell’espressione creativa (p. 35).

Lawrence Lessig ha costruito alcune delle sue formulazioni teoriche più significative attorno alla
necessità di mantenere risorse libere per favorire l’innovazione e la creatività, perché senza di esse è
come se la creatività fosse monca (Lessig, 2001, p. 20). Le spinte evolutive che stanno cambiando il
modo di vivere e concepire il web ci restituiscono nuovi spazi di sperimentazione in cui essere liberi
di creare forme comunicative d’avanguardia incapaci di trovare dimora nel flusso mediatico
mainstream. La nuova Rete ha infatti il merito di mettere in discussione il presupposto secondo il
quale l’informazione – e, più in generale, qualsiasi altra tipologia di contenuto – debba partire da
una serie di prodotti accreditati e arrivare a una massa di consumatori passivi (Tapscott, Williams,
2006, p. 165). I contenuti presenti in piattaforme come Qoob rappresentano allora una ulteriore
dimostrazione della possibilità di sfidare quella che Tapscott e Williams definiscono “la moderna
aristocrazia creativa” (pp. 158-159). Ciò è possibile attraverso la legittimazione di una nuova
creatività che, sviluppandosi secondo modalità virali, arriva a meritarsi il riconoscimento e
l’approvazione di una comunità di esperti, unitamente a una retribuzione precedentemente insperata
per contenuti prodotti “dal basso”.

Stefano Mizzella – stefano.mizzella@unimib.it; stefano.mizzella@gmail.com 20


3.2 SciVee - The free and widespread dissemination and comprehension of science.

Il sesto capitolo del testo di Tapscott e Williams, intitolato “I nuovi alessandrini”, è dedicato
interamente alla rassegna di vari esempi atti a testimoniare la nascita di una nuova era della scienza
collaborativa, che consentirà di rendere più veloce e immediato lo sviluppo sia della ricerca che
dell’apprendimento scientifico: “L’apparizione di strumenti editoriali basati sul libero accesso e di
nuovi servizi web metterà a disposizione degli individui un patrimonio sconfinato di conoscenze e
contribuirà allo sviluppo di comunità di peer sparse in tutto il mondo” (Tapscott, Williams, 2006, p.
172). La vera innovazione, dunque, risiederebbe nella capacità di sfruttare un approccio aperto e
non gerarchico nei confronti della produzione e dello sfruttamento della conoscenza. Che si tratti di
conoscenza “aziendale” o di conoscenza prettamente scientifica, il passo in avanti da compiere
rispetto al passato è quello di considerare qualsiasi tipologia di conoscenza come prodotto di un
network in cui individui e organizzazioni condividono risorse al fine di trovare nuove soluzioni per
determinati problemi (p. 174). È dunque un approccio “peer-oriented”, come lo definiscono i due
autori, alla produzione della conoscenza e alla condivisione delle informazioni, a decretare la
nascita di una nuova “scienza collaborativa”, o “Scienza 2.0”:

Oggi sta per affermarsi un nuovo paradigma scientifico (…) ispirato dagli stessi progressi tecnologici
che stanno trasformando il web in un enorme ambiente di lavoro collaborativo. Proprio come le
applicazioni e gli strumenti collaborativi stanno trasformando le imprese, la nuova Rete cambierà per
sempre il modo in cui gli scienziati pubblicano i dati, li gestiscono e collaborano al di là dei confini
istituzionali. Le mura che dividono le istituzioni crolleranno e al loro posto emergeranno network
scientifici aperti. Tutti i dati e le ricerche scientifiche del mondo, finalmente, saranno a disposizione di
ogni singolo ricercatore – gratis – senza pregiudizi né costi indiretti (p. 178).

Gli esempi riportati per avvalorare questa tesi riguardano iniziative come OpenWetWare, un
progetto del MIT finalizzato alla condivisione di esperienze e informazioni nel campo della biologia
o, ancora, Bioinformatics.org, una piattaforma oper source che mette a disposizione della comunità
scientifica i dati genomici prodotti dal Progetto Genoma Umano. Naturalmente rimandiamo alla
lettura del testo per approfondire la trattazione di tali esempi. In questa sede ci limiteremo a fornire
un riferimento interessante ma comunque meno ambizioso rispetto a quelli riportati da Tapscott e
Williams. Il case study che si è scelto di analizzare è SciVee, una piattaforma scientifica di
condivisione multimediale, creata dagli scienziati per gli scienziati. Il principale obiettivo
perseguito da SciVee è quello di inaugurare una nuova fase della comunicazione scientifica capace
di andare al di là del testo scritto o delle tradizionali conferenze pubbliche. Un nuovo modo di
pubblicare e condividere contenuti scientifici che tragga vantaggio dalle innovative dinamiche
comunicazionali e relazionali offerte dalla Rete. Non è un caso, dunque, se recentemente SciVee sia
stato rinominato dalla rivista New Scientist come lo “YouTube della scienza”. L’accostamento

Stefano Mizzella – stefano.mizzella@unimib.it; stefano.mizzella@gmail.com 21


proposto da New Scientist, anche se può inizialmente far sorridere, non sembra poi così tanto
distante dalla realtà dei fatti.
Ciò che SciVee mette a disposizione dei ricercatori di tutto il mondo è proprio la possibilità di
diffondere e condividere, in maniera inedita, ricerche scientifiche, materiali, idee ed opinioni
intorno a vari ambiti della scienza. È la modalità di presentazione dei progetti e delle ricerche a
ricordare da vicino il modello comunicativo che ha reso YouTube la più diffusa e frequentata
piattaforma di video sharing a livello mondiale. SciVee permette, infatti, di presentare la propria
ricerca o il proprio progetto non soltanto in formato testuale o attraverso le slide, ma anche sotto
forma di un breve filmato in cui sono gli stessi scienziati a presentare in prima persona le proprie
iniziative. I video proposti sono spesso girati durante conferenze o workshop, mentre in altri casi si
ha a che fare con brevi sequenze contenenti materiale inedito filmato e montato in modo del tutto
professionale. Riprese quasi amatoriali si alternano, dunque, a sequenze di computer grafica di alto
livello o a brevi clip che restituiscono la vista di ciò che uno scienziato può studiare utilizzando un
microscopio professionale.

Fig. 10. L’home page di SciVee - http://www.scivee.tv/

La fruizione dei video garantisce agli utenti di SciVee la medesima gamma di opzioni che un
servizio come YouTube offre ai propri utenti. Ogni singolo video, infatti, oltre ad essere
accompagnato da una breve descrizione testuale che ne riassume il contenuto, può essere
commentato, “taggato”, votato e segnalato da tutti gli utenti che partecipano alla community. In ciò
Stefano Mizzella – stefano.mizzella@unimib.it; stefano.mizzella@gmail.com 22
si riassume la capacità del servizio di configurarsi come uno spazio di social networking
interamente dedicato alla ricerca scientifica. Ogni ricercatore ha, infatti, la possibilità di
personalizzare il proprio profilo e di mettersi in contatto con altri utenti per la realizzazione di
obiettivi comuni, sfruttando dunque il servizio alla stregua di altri social network professionali
come Linked In o Viadeo. Il networking tra i ricercatori è favorito inoltre dalla presenza di varie
community dedicate alla trattazione di un determinato argomento:

• Atmospheric and Climate Sciences Community;


• Bioinformatics, Morphology, and Taxonomy;
• Computer Networking;
• Computer Science Community,
• Comunidad Biopps: Ciencia, Investigación e Innovación en las Biociencias;
• e-health;
• Earth Science Video Community;
• History of Medieval Medicine;
• Mathematics Education;
• Medical Informatics;
• NASA Video Community;
• Neglected Tropical Diseases Community;
• NSF Video Community;
• SDSC Video Community;
• Sweetwater Union School District (CA);
• UCSD Science Video Community;
• Universal Science;
• US Forest Service Research & Development;
• Video Medicina;
• Wireless Sensor Networks Research.

All’interno di ogni community è possibile iscriversi con il proprio profilo, postare commenti,
uploadare video e segnalare agli altri membri della community i propri video preferiti.

Stefano Mizzella – stefano.mizzella@unimib.it; stefano.mizzella@gmail.com 23


Fig. 11. Il modello di networking proposto da SciVee

La seconda e forse più interessante modalità di presentazione di ricerche e contenuti è quella che
viene definita “Pubcast”. I Pubcast corrispondono infatti a video accompagnati da una
presentazione audio che ne descrive gli argomenti trattati, l’area di ricerca in cui il video si inserisce
e le possibilità di lavoro collaborativo che quel determinato argomento richiede. Pertanto,
all’interno di ogni Pubcast l’utente può scegliere tra tre diverse opzioni di fruizione: può leggere in
formato testuale l’intero paper che spiega e approfondisce le tematiche trattate dal video; può
visionare il profilo completo dell’autore del video (compresi tutti i video e i pubcast da questi
inseriti, i suoi link e le community di cui fa parte); può, infine, guardare il pubcast completo in cui
le immagini sono accompagnate dall’audio di presentazione.
I video sono poi raccolti in una serie di canali dedicati che permettono agli utenti una più
immediate ricerca dei contenuti che si desidera visionare. Questi i canali offerti da SciVee al
momento in cui si scrive:

• BMC Bioinformatics: an open access journal publishing original peer-reviewed research articles in
all aspects of computational methods used in the analysis and annotation of sequences and structures,
as well as all other areas of computational biology. BMC Bioinformatics (ISSN 1471-2105) is
indexed/tracked/covered by PubMed, MEDLINE, BIOSIS, CAS, Scopus, EMBASE, Thomson
Scientific (ISI) and Google Scholar;
• Nucleic Acids Research (NAR): a fully Open Access journal, providing rapid publication of leading
edge research into the nucleic acids under the following categories: chemistry, computational

Stefano Mizzella – stefano.mizzella@unimib.it; stefano.mizzella@gmail.com 24


biology, genomics, molecular biology, nucleic acid enzymes, RNA and structural biology. There is a
Survey and Summary section, and methods papers are published in NAR Methods Online. Each year
the first issue is devoted to biological databases, and a later issue to relevant web-based software
resources;
• PLoS Computational Biology: an open-access, peer-reviewed journal featuring works of
exceptional significance that further our understanding of living systems at all scales through the
application of computational methods;
• PLoS ONE: features reports of primary research from all disciplines within science and medicine.
By not excluding papers on the basis of subject area, PLoS ONE facilitates the discovery of the
connections between papers whether within or between disciplines;
• PLoS Pathogens: bacteria, fungi, parasites, prions and viruses cause a plethora of diseases that have
important medical, agricultural, and economic consequences. Moreover, the study of microbes
continues to provide novel insights into such fundamental processes as the molecular basis of
cellular and organismal function;
• Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America: is one of the
world's most-cited multidisciplinary scientific serials. Since its establishment in 1914, it continues to
publish cutting-edge research reports, commentaries, reviews, perspectives, colloquium papers, and
actions of the Academy. Coverage in PNAS spans the biological, physical, and social sciences.
PNAS is published weekly in print, and daily online in PNAS Early Edition;
• PROTEINS Journal: Structure, Function, and Bioinformatics publishes original reports of
significant experimental and analytic research in all areas of protein research: structure, function,
computation, genetics, and design;
• Recently Uploaded: Other: All pubcasts that are not yet categorized into an existing SciVee
channel and that are relevant to a specific peer-reviewed journal are temporarily listed in this
"Recently Uploaded: Other" channel. If the publication you upload with your pubcast is related to a
journal that is not yet available, a new channel will be created for you after review by SciVee
moderators. Until the new channel is created for pubcasts that need a new channel, they will be
accessible at this "Recently Uploaded: Other" channel;
• Saudi Medical Journal: was launched in 1979. It was the initiative and the vision of His Royal
Highness Prince Sultan Bin Abdul Aziz, Second Deputy Prime Minister of Defense and Aviation
and Inspector-General, who blessed and supported its beginning. The Journal has been published
regularly since 1979 (18 years - 18 volumes). Enthusiastic staff worked hard to maintain the
excellence of the Journal. Major General Dr. Abdul Hamid Al-Faraidi was founding Editor and the
leader of this Journal for all of the 18 years;
• Scandinavian Journal of Urology and Nephrology: aims to reflect current clinical research of
international scientific standard within all areas of urology and nephrology.

Anche se SciVee si propone come servizio ideato e progettato per il mondo della ricerca, la
piattaforma può raccogliere contenuti inviati da qualsiasi tipologia di utenti, sia esperti che
appassionati. Gli utenti possono uploadare contenuti scientifici in maniera gratuita, a patto però che
le ricerche siano già di dominio pubblico e possano essere riprodotte e scambiate con l’obbligo di
esplicitare sempre la fonte. Se per la riproduzione dei contenuti video viene applicata la Creative

Stefano Mizzella – stefano.mizzella@unimib.it; stefano.mizzella@gmail.com 25


Commons Attribution 3.0 License, i progetti e le ricerche coperti da copyright possono essere
visionati all’interno di gruppi chiusi il cui accesso è garantito ai soli utenti iscritti.

3.3 Zooppa – Advertising goes social

“Zooppa è una piattaforma innovativa di pubblicità generate dagli utenti e sponsorizzate dalle
aziende”. Il “what is” del sito di Zooppa riassume in modo efficace il servizio offerto da questa
start-up italoamericana. Zooppa è una start up incubata da H-FARM8, centro per la ricerca e
l’innovazione nel campo delle tecnologie e dei nuovi media, situato a Ca' Tron, vicino Venezia.
Lo scopo di Zooppa è quello di offrire agli utenti uno spazio per la creazione e la condivisione di
nuove forme di user generated advertising. Riportando un estratto della nota societaria, vediamo
come Zooppa sia legata a “un modello di business in cui persone e aziende entrano in contatto in un
contesto virale basato sulla creatività e sul riconoscimento di una somma di denaro variabile per i
contenuti autoprodotti. Questo significa incentivare il talento creativo di tutti coloro che solitamente
non hanno voce in capitolo nel mondo tradizionale della pubblicità”.
Il primo elemento su cui riflettere riguarda proprio la possibilità di mettere in contatto utenti non
professionisti e aziende affermate che si occupano di pubblicità, all’interno di un contesto dedicato
alla valorizzazione di contenuti prodotti dal basso. Il modello di business di Zooppa rappresenta
dunque una grande opportunità sia per gli utenti che per le aziende. Vediamo nello specifico come
ciò avviene. Zooppa si relaziona costantemente con aziende, nazionali e internazionali, interessate a
sfruttare i “contest” lanciati dal sito per commercializzare il proprio marchio attraverso nuove forme
di advertising. Si legge ancora nella nota societaria:

Sulla base delle indicazioni fornite dalle aziende committenti, gli utenti sono invitati a creare pubblicità
per marchi o prodotti delle aziende in questione. Gli utenti registrati possono partecipare con diversi tipi
di contributi: scrivere un’idea o una breve sceneggiatura per una potenziale pubblicità, realizzare delle
pagine grafiche con il logo dell’azienda e un pay off, produrre un’animazione o girare un video vero e
proprio.

La catena generatrice di valore è riassunta da Zooppa attraverso questa sorta di diagramma di


flusso: IO ti do un MARCHIO  TU crei una PUBBLICITÁ  TU voti la MIGLIORE  IO ti
PAGO. Ciò significa, più nel dettaglio, che a seguito di un accordo commerciale tra Zooppa e una
società, viene lanciato all’interno del sito un nuovo contest per gli utenti. Questi ultimi, a loro volta,
sono incoraggiati a collaborare tra loro attraverso un meccanismo di incentivi, denominato “Team

8
http://www.h-farm.it/

Stefano Mizzella – stefano.mizzella@unimib.it; stefano.mizzella@gmail.com 26


Bonus”, che serve a ricompensare chi, per esempio, ha realizzato un video utilizzando l’idea di un
altro utente, premiando dunque in modo proporzionale sia l’autore che il videomaker.

Fig. 12. L’home page di Zooppa - http://zooppa.com/

Al momento in cui si scrive, appaiono già conclusi i contest organizzati da Zooppa per i seguenti
brand:

• Alice
• Citroën C1 – DeeJay
• Fineco
• Global Warning
• Havaianas
• Love Affair
• Murphy&Nye
• Osè
• Pago
• Rai.Tv
• TomTom

Stefano Mizzella – stefano.mizzella@unimib.it; stefano.mizzella@gmail.com 27


Risulta interessante anche il meccanismo di social ranking che Zooppa propone ai suoi utenti. È
la community, infatti, a decretare i vincitori dei vari contest: in base ai voti e ai commenti ricevuti
dagli altri utenti, Zooppa assegna i premi in denaro ai video che hanno raggiunto il punteggio più
alto. Sono previste, inoltre, altre forme di collaborazione tra utenti e aziende. Nel caso in cui
un’azienda decidesse di utilizzare i materiali postati sul sito per sfruttarli come campagne
pubblicitarie su altri mezzi, Zooppa svolgerebbe a quel punto il ruolo di intermediario tra gli autori
dei contenuti e le aziende stesse, assicurando un range di prezzo variabile all’interno del quale far
incontrare gli interessi degli utenti e delle aziende.
Come nel caso di Qoob, anche Zooppa ha al suo interno una sorta di microeconomia che
richiama alla mente i Linden dollars di Second Life. Gli Zoop$ dollari rappresentano infatti la
moneta virtuale emessa dalla ZoopBank e si guadagnano partecipando e piazzando in classifica i
propri lavori nelle varie gare9. Come accade con il mondo virtuale di Second Life, anche gli Zoop$
possono essere convertiti in dollari americani.
Ribaltando il punto di vista dalla parte non più dell’utente ma delle aziende, il precedente
diagramma di flusso assume ora nuove sembianze: TU ci dai il tuo MARCHIO  …e sponsorizzi
una GARA su ZOOPPA  NOI ti forniamo la PUBBLICITÁ  …e ti diciamo come sei
PERCEPITO. La successione del diagramma serve sostanzialmente a rispondere a una domanda
che sembra più che lecito porsi. Perché, infatti, una grande azienda, con un brand già riconoscibile,
dovrebbe rivolgersi a un servizio come Zooppa per lanciare la propria campagna di advertising? E
perché, soprattutto, decidere di affidarsi alla produzione di utenti non professionisti e non alle
competenze certificate di un’affermata agenzia pubblicitaria? Questa la risposta o, meglio, le
risposte, fornite direttamente da Zooppa:

Perché potrete contare sulla forza innovativa di uno strumento in continua espansione come Internet,
sfruttandone tutta la viralità e la capacità di raggiungere ogni angolo del globo con una velocità
impensabile per qualsiasi altro media.
Perché potrete aumentare la creatività della vostra comunicazione e avere moltissimi nuovi spunti. Con
Zooppa.com avrete accesso ad un bacino creativo molto più esteso, sia grazie al numero di utenti che
intervengono nel nostro sito sia grazie alle caratteristiche del mezzo utilizzato. Il nostro modello
favorisce l’accesso ai nuovi linguaggi di comunicazione al ritmo di Internet.
Perché il vostro marchio potrà essere visto da un’audience allargata di persone. I video postati vengono
promossi nella rete sia dallo staff di Zooppa sia dagli utenti stessi, che contribuiscono a innescare un
circolo virtuoso di viralità.
Gli utenti che partecipano alle gare non solo entreranno in contatto con il vostro marchio, ma
condivideranno le loro idee parlando di voi nella rete. In questo modo, potrete avere un riscontro reale di
come le persone percepiscono la vostra azienda.

9
Uno Zoop$ equivale ad un dollaro americano, anche se gli Zoop$ possono essere convertiti in dollari reali solo dopo
aver raggiunto la soglia minima di 1,000 Zoop$.

Stefano Mizzella – stefano.mizzella@unimib.it; stefano.mizzella@gmail.com 28


La viralità della piattaforma è inoltre aumentata e rafforzata dai diversi servizi di community che
Zooppa mette a disposizione dei propri utenti: Zoopperland, Zooppa Store, Matto per Zooppa.

Fig. 13. La schermata iniziale di Zoopperland

Fig 14. Il blog ufficiale di Zooppa

Strumenti, questi, utili per conoscere e scambiare opinioni con i vari “zooppers”, commentare i
video più belli e acquistare gadget ufficiali. Una risorsa, soprattutto, per incentivare la creazione e

Stefano Mizzella – stefano.mizzella@unimib.it; stefano.mizzella@gmail.com 29


l’espansione del buzz, ovvero il passaparola prodotto dagli utenti su brand e servizi che, grazie al
web, sta letteralmente rivoluzionando le tradizionali dinamiche di marketing e di social reputation.

Conclusioni

Il web che verrà riuscirà a cambiare i modi in cui la gente collabora e accresce il sapere in una piccola
ditta, in una grande organizzazione, in un paese? Se funzionerà in un piccolo gruppo e potrà salire di
livello, potremo usarlo per cambiare il mondo? Già sappiamo che il Web ci permette di agire più in
fretta. Ma può cambiare la società, farci passare a un nuovo modo di lavorare? E sarà migliore o
peggiore? (Berners-Lee, 1999, p. 173).

Quelli sopra riportati sono alcuni degli interrogativi che Tim Berners-Lee pone a conclusione del
suo celebre studio sull’architettura del nuovo web. Difficile, quasi impossibile, fornire risposte
univoche alle questioni sollevate e lasciate in parte irrisolte da Berners-Lee. Il web è per sua natura
mutevole, incapace di cristallizzarsi e ipostatizzarsi in maniera definitiva. Al contrario, l’evolversi
della rete è frutto di un incessante processo produttivo che sempre più spesso vede gli utenti nel
ruolo di co-sviluppatori di piattaforme, contenuti e servizi. È intorno a tali dinamiche che si sta
definendo “una nuova nuova forma di organizzazione produttiva e sociale legata all’economia delle
reti digitali di comunicazione, una nuova configurazione che tende a rendere obsoleti e/o a relegare
allo spazio dell’evasione gli strumenti comunicativi della fase precedente” (Ferri, 2004, p. 34).
Il concetto di wikinomics proposto da Tapscott e Williams non fa altro che sottolineare e
legittimare queste innovative dinamiche di “social engineering”. Tuttavia, il rischio principale da
scongiurare in tale contesto è quello di far rientrare nella definizione operativa di wikinomics
piattaforme e servizi che in realtà non incarnano nel proprio know how i necessari principi di
impresa aperta, networking, partecipazione e condivisione.
Altra questione aperta è quella che riguarda il reale grado di penetrazione di queste nuove
tipologie di piattaforme web. Al di là degli esempi forniti nel testo da Tapscott e Williams, le tre
case histories qui analizzate hanno mostrato la presenza di community per certi versi ancora
immature e lontane dal radicamento effettivo riscontrabile in una piattaforma di video-sharing come
YouTube o all’interno di social network come MySpace o Facebook. Tuttavia, riteniamo
estremamente significativo osservare da vicino le dinamiche di fruzione degli early adopter, la loro
capacità di creare community e la loro abilità nel produrre e scambiare informazioni e contenuti in
maniera virale.
Appare dunque sempre più necessario focalizzare il punto di osservazione sugli utilizzatori
piuttosto che sulla tecnologia utilizzata. Questo perché, al di là dell’effettiva valenza dell’etichetta
che ne riassume il senso, riflettere sull’innovazione apportata dal Web 2.0 significa in primis
riconoscere la natura sociale dei dispositivi tecnologici: “La produzione sociale è modellata dalla

Stefano Mizzella – stefano.mizzella@unimib.it; stefano.mizzella@gmail.com 30


cultura. Internet non fa eccezione. La cultura dei produttori di Internet ha plasmato il mezzo. Questi
produttori sono stati, allo stesso tempo, i suoi primi utilizzatori” (Castells, 2001, p. 45).
I nuovi utilizzatori che, giorno dopo giorno, stanno ridisegnando la forma del web, hanno
l’opportunità di modellare le proprie risorse creative su un nuovo modo di produrre e scambiare
conoscenza. Allo stesso tempo, le imprese e le aziende più innovative hanno di fronte l’occasione di
far proprie tali risorse come mai è stato possibile fare fino ad ora: “Co-creare con i clienti è come
attingere al bacino di capitale intellettuale più qualificato che sia mai stato aggregato (…)”
(Tapscott, Williams, 2006, p. 166). È proprio questa capacità di riunire la conoscenza proveniente
da milioni di individui, capaci di organizzarsi in maniera autonoma, a dimostrare che “la
collaborazione di massa sta trasformando la nuova Rete in qualcosa di simile a un cervello globale”
(p. 39). Una produzione sociale capace di generare anche inedite modalità di retribuzione e nuovi
modelli di business sempre più votati al riconoscimento dei contenuti generati dagli utenti. Le
forme particolari che assumerà il rapporto tra prosumers ed aziende illuminate costituiscono la vera
sfida per quanti vorranno produrre innovazione in questa nuova fase del web.

Stefano Mizzella – stefano.mizzella@unimib.it; stefano.mizzella@gmail.com 31


Riferimenti bibliografici

Anderson, C., 2006, The Long Tail. Why the Future of Business Is Selling Less of More; trad. it.
2007, La coda lunga. Da un mercato di massa a una massa di mercati, Torino, Codice edizioni.

Benkler, Y., 2006, The Wealth of Networks: How Social Production Transforms Markets and
Freedom; trad. it. 2007, La ricchezza della Rete. La produzione sociale trasforma il mercato e
aumenta le libertà, Milano, Università Bocconi Editore.

Berners-Lee, T., 1999, Weaving the Web. The Original Design and Ultimate Destiny of the World
Wide Web by Its Inventor; trad. it. 2001, L’architettura del nuovo web. Dall’inventore della rete
il progetto di una comunicazione democratica, interattiva e intercreativa, Milano, Feltrinelli.

Castells, M., 2001, The Internet Galaxy. Reflections on the Internet, Business and Society; trad. it.
2002, Galassia Internet, Milano, Feltrinelli.

Ferri, P., 2004, Fine dei mass media. Le nuove tecnologie della comunicazione e le trasformazioni
dell’industria culturale, Milano, Guerini e Associati.

Jenkins, H., 2006, Convergence culture; trad. it. 2007, Cultura convergente, Milano, Apogeo.

Lessig, L., 2001, The future of ideas; trad. it. 2006, Il futuro delle idee, Milano, Feltrinelli.

Lévy, P., 1994, L’intelligence collective. Pour une antropologie du cyberspace; trad. it. 2002,
L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, Milano, Feltrinelli.

Maeda, J., 2006, The Laws of Simplicity; trad. it. 2006, Le leggi della semplicità, Milano, Bruno
Mondadori.

Tapscott, D., Williams, A. D., 2006, Wikinomics. How Mass Collaboration Changes Everything;
trad. it. 2007, Wikinomics. La collaborazione di massa che sta cambiando il mondo, Milano,
Etas.

Stefano Mizzella – stefano.mizzella@unimib.it; stefano.mizzella@gmail.com 32

Potrebbero piacerti anche