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Antologia platonica
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Antologia platonica

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L’Antologia Platonica è una capitale operazione di esplorazione o, detto in linguaggio tecnico, di ermeneutica platonica; che prende forma nel tardo Martinetti (anni ‘930), intorno alla in lui progressivamente accentuatasi coscienza della frattura che Platone introduce nel pensiero metafisico, attraverso la perentoria condanna della forma originaria della sapienza greca: quella che prese forma a Mileto nel tardo VI secolo a.e.v., a procedere da Talete ed Anassimandro, e si definisce speculativamente intorno alla grande e suggestiva metafora simbolica dell’atomismo. ChePlatone condanna perché l’Atomismo spiega il cosmo, ergo anche l’uomo, riducendolo a natura ed escludendo l’intervento divino; che invece è, mutuando da Aristotele: il Primo Motore Immobile nel logos di Platone. Per Platone Dio è inconoscibile, ergo la vera sapienza irraggiungibile, da dove con e dopo Platone il passaggio alla filosofia (vocabolo che egli crea) a indicare l’atteggiamento mentale del vero intelletto speculativo. Un classico della filosofia del Novecento, riproposto in una nuova edizione per un pubblico di appassionati, ma con la segreta speranza che il testo arrivi nelle scuole medie superiori, dove, fortunatamente, la filosofia è ancora un valore.
LanguageItaliano
Release dateMar 29, 2021
ISBN9791280353153
Antologia platonica

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    Antologia platonica - Piero Martinetti

    Greca

    nota biobibliografica

    Nella articolata e complessa speculazione filosofica di Piero Martinetti – Pont Canavese (To) 21 VIII 1872 Cuorghé (To) 21 III 1943 – l’Antologia Platonica (Torino 1939 1a ed.) è l’approdo ermeneutico conclusivo di una attenta meditata ricerca intorno alla frattura che Platone introduce nella metafisica, attraverso la sua perentoria condanna della formalizzazione originaria della sapienza greca: quella che prese forma a Mileto nel tardo VI secolo a.e.v., a procedere da Talete ed Anassimandro, e si definisce speculativamente intorno alla grande e suggestiva metafora simbolica dell’atomismo, ancora oggi ben salda, pur nelle diverse metamorfosi, al centro della nostra Conoscenza scientificoumanistica. E che Platone condanna perentoriamente per quanto l’atomismo spiega anche l’uomo riducendolo a natura, escludendo l’intervento divinio, ergo negando la sua natura creaturale.

    Una faglia, entro il continente della metafisica, accentuata: approfondita in ambito romano e medioevale dalla condanna ciceroniana, di matrice neoplatonica, dell’epicureismo. E malgrado Cicerone sia stato l’editore dell’opera per la quale continuano ad essere anche oggi recepiti gli elementi strutturali dell’epicureismo: il de Rerum Natura di Lucrezio: l’opera che impronta il Rinascimento in quanto e per quanto modella in modo determinante il pensiero di Machiaveli e di Montaigne, e poi l’Illuminismo.

    Al centro dell’epicureismo, a differenza che nella speculazione di Platone, c’è una visione non demiurgica della trascendenza; che impronta anche lo stoicismo per quanto afferma la netta separazione tra il divino numinoso e la vita: il bios.

    Frattura tra scienza e religione, tra ragione e trascendenza che il grandioso panteismo di Spinoza, e anche il noumeno di Kant, cercheranno di ricomporre. È questa faglia tra bios e trascendenza che interroga la coscienza: la ragione alta della speculazione metafisica martinettiana. E lo è anche dalla coscienza nel Martinetti che l’unità di bios e trascendenza era stata già la ragione speculativa originaria dei grandi sapienti greci non materialisti, oggi individuati come pre-socratici, tra Eraclito ed Empedocle, con al centro i grandi eleati Parmenide e Zenone. E dalla cui speculazione prende forma quella che è oggi la filosofia; e però i loro scritti giunti a noi per pochi frammenti. Ma scritti ben presenti: al centro della meditazione metafisica dei dialoghi platonici, che per questo sono anche il palinsesto di tutta la precedente sapienza greca d’ambito delfico tanto pitagorica che eleatica; individuare i cui apporti nella metafisica di Platone è la ragione speculativa che governa il progetto martinettiano di ermeneutica platonica: determina l’articolarsi strutturale della sua Antologia Platonica, come parla anche dal contesto dei suoi passi che collegano e spiegno i testi platonici, già a discendere dal magnifico esegetico indice. E l’Antologia Platonica è anche il luogo speculativo da dove prende avvio e forma la rilettura dei cosiddetti pre socratici di Giorgio Colli.

    Da questa premessa discendiamo ad un abbozzo di biobibliografia martinettiana. Il padre, avvocato, voleva avviarlo agli studi giuridici, ma dopo il liceo ad Ivrea, anche per l’influenza della madre, opta per e frequenta (1890 – 93) i corsi di filosofia dell’università di Torino, dove si laurea con Giovanni Flechia, dopo averne seguito i corsi di sanscrito, nel 1893 con una originale tesi su Il sistema Sankhya: sistema metafisico dove sono prefigurati molti elementi poi del pensiero buddhista, del quale il Martinetti fu studioso e cultore.

    Nel 1894 approfondisce la conoscenza del tedesco presso l’università di Lipsia, acquisendo così, il solo tra i filosofi italiani del XX secolo, una perfetta padronanza delle quattro lingue capitali per la speculazione filosofica: il sanscrito, il greco classico nelle sue tre versioni, il latino, e il tedesco. Questa padronanza linguistica avrà un ruolo decisivo nella costante felice opera martinettiana di volgarizzazione in lingua italiana, nella sua chiara limpida prosa, dei grandi testi della metafisica, un cui esempio è appunto la nostra Antologia Platonica.

    Negli anni di formazione, Piero Martinetti permane entro una più che bimillenaria acquisita separazione, di ascendenze epicureo stoiche, tra la politica, luogo delle ambizioni e delle vanità, e la metafisica: luogo di distacco dalle passioni mondane, verso una conoscenza equilibrata e una misura serena di vita. Ed il testo esemplare che vale ammirazione e fama, e la libera docenza nel 1905, a Piero Martinetti: Introduzione alla metafisica – teoria della conoscenza (Torino 1904) è del tutto esterno all’ambito del problema politico.

    Nel progetto intellettuale del giovane filosofo questo libro era solo la prima parte di un’opera alla cui seconda parte lavorò tutta la vita; e che sarà pubblicata postuma e incompiuta, su iniziativa di Adriano Olivetti.

    Per poter svolgere, in un coerente progetto di vita, la propria ricerca metafisica, Piero Martinetti insegna filosofia, prima nei licei, e poi presso l’università di Milano dal 1906 al 1931, anno in cui la politica lo caccerà dalla cattedra. E dopo che l’insegnamento aveva caratterizzato la vita di Piero Martinetti, per il rilievo che il momento pedagogico aveva in lui acquistato, intorno alla coscienza che: Ogni filosofo ha i suoi concetti, le sue divisioni, i suoi schemi caratteristici; chi insegna chiuso in essi, finisce per contribuire anch’egli a quella specie di isolamento onde nasce poi quello spirito di scuola così funesto allo spirito di verità. (dall’introduzione al volume Kant).

    In questo quadro prendono forma le monografie postume su Kant, su Hegel, su Spinoza, che si verranno delineando come residui di corsi accademici, mentre la ricerca, l’interesse centrale dello studioso permane, fin dagli anni di formazione, e anche sotto suggestione materna, speculativamente, intorno al nesso religione filosofia, che così sintetizza esemplarmente: "La critica segna l’avvento decisivo e conscio della religiosità filosofica, che allontana da sé definitivamente l’illusione di umanizzare l’assoluto, o almeno riconoscere questi tentativi per ciò che sono: come dei simboli necessari alla debolezza nostra. Noi abbiamo dunque sgombrato la via, tolte le illusioni; adesso ci resta la domanda: come dobbiamo pensare questo assoluto? Esso è in noi come presentimento di una realtà che ci trascende; come dobbiamo pensarlo? Qui comincia la metafisica critica. È la ragione stessa, nella sua forma più alta, che si rivela all’assoluto, e che deve essere per noi il simbolo dell’assoluto… Una metafisica quindi puramente umana e simbolica, ma che assolve al suo vero compito: che è di guidarci con sicurezza verso i nostri più veri ed alti destini"(Introduzione alla metafisica, pg. 242 ed. 1904).

    Si respira, nel breve passo sopra riportato, l’orgoglio d’una giovane mente che ha elaborato una visione fiduciosamente volta al futuro, ma sulla quale si abbatte la sventurata temperie prima della guerra coloniale libica e poi della prima guerra mondiale. Il filosofo giudica entrambe espressioni dell’egoismo e dell’avidità delle classi dirigenti; davanti ai cui massacri il pensiero di Piero Martinetti si raccoglie e concentra, ripensa l’ordine del reale da una audace radicalità; che è però una evoluzione e una precisazione della originaria visione, dalla coscienza di dover opporre la propria visione spirituale al basso arrivismo della coeva classe dirigente italiana. Prende così forma una riflessione etica sul suo presente: Il breviario spirituale (Milano 1922) pubblicato anonimo. È un manuale di buona vita, un autentico testo sapienziale, di vasta eco tra gli intelletti migliori di quel tempo, da Capitini a Garin: che indicano nelle pagine dello scritto una autentica guida spirituale, un argine levato contro la barbarie fascista. Un testo sulla dimensione concreta del vivere: sulla quale il filosofo meditò in modo costante, come ci confermano, con il suo vegetarianesimo praticato, i due saggi Pietà verso gli animali, e L’Amore, entrambi postumi (a cura di A. Di Chiara).

    Piero Martinetti vede nel fascismo null’altro che la continuazione e il perfezionamento di quella volontà di dominio da parte delle élite che aveva portato alla prima guerra mondiale. Netta la condanna personale del fascismo fin dai primi anni ‘920. Mentre prosegue il suo insegnamento accademico, pubblica La Libertà (Milano 1928), una profonda riflessione sui nessi tra l’uomo e il suo ruolo nella società; una tra le più alte risposte metafisiche europee al progetto politico totalitario fascista, nel quale il Martinetti non vede che l’effetto d’una degenerazione più profonda: la commistione tra religione e politica.

    La nascita della religione politica, corruzione a un tempo della religione e della politica, è per Piero Martinetti la grave responsabilità del cattolicesimo storico: il cattolicesimo paolino – costantiniano. E la degenerazione del cattolicesimo da sapienza spirituale in religione politica Martinetti ricostruisce, in un mirabile esempio di equilibrata esposizione costruita su indagine storica e riflessione metafisica sulla teologia (su questo secondo punto si veda il capitale saggio Ragione e fede), in quello che è poi diventato il suo testo più conosciuto: Gesù Cristo e il cristianesimo (Milano 1934). Il libro è immediatamente sequestrato dal governo fascista su richiesta del Vaticano. Incomincia così un esilio interno del filosofo, perseguitato, episodicamente incarcerato, perché ormai coscientemente determinato a farsi voce di quanti la cui miseria economica, ma prima ancora spirituale, toglie alla povera vita voce, a denunciare la grave sopraffazione che patiscono.

    Illustra esemplarmente l’orgogliosa libera vita appartata di Piero Martinetti nei tristi anni del fascismo l’epistolario, sapientemente curato e annotato da P. G. Zunino (Firenze 2011); mentre Amedeo Vigorelli, in Piero Martinetti. La metafisica civile di un filosofo dimenticato, (Milano 1998) traccia un bel ritratto del Nostro, anche se non analizza che superficialmente il peso dei saggi e recensioni martinettiani comparsi tra gli anni ‘920 – ‘40 sulla Rivista italiana di Filosofia; nel panorama della cultura italiana dell’antifascismo saggi determinanti per la nascita dell’Azionismo. E soprattutto la biografia del Vigorelli non affronta che marginalmente la dimensione europea e non provinciale della metafisica neokantiana martinettiana, con al centro il problema del ruolo del simbolo, in rapporto ai coevi boriosi e metafisicamente sterili storicismo crociano, attualismo gentiliano, e neotomismo cattolico; e del marxismo gramsciano, rimasto sostanzialmente imprigionato entro la matrice hegeliana: attraverso la quale si apparenta tanto allo storicismo crociano che all’attualismo gentiliano.

    PF

    Opere principali di Piero Martinetti

    Introduzione alla metafisica (1904), L’etica di Spinoza esposta e commentata (1920), Breviario Spirituale (1922), Antologia kantiana (1925), La libertà (1928), Gesù Cristo e il cristianesimo (1934), Il Vangelo (1936), Antologia platonica (1939), Schopenhauer (1941), Ragione e Fede (1942).

    postume: Il compito della filosofia ed altri saggi editi ed inediti (1951), Scritti di metafisica e di religione, 2 vol (1976), Spinoza (1987), L’Amore (1998).

    amicus Plato sed …

    perché rieditare l’antologia platonica di Piero Martinetti

    Nella un dì celeberrima canzone di Domenico Modugno ‘La lontananza’ il vento spegne i fuochi piccoli, mentre fa avvampare più alti quelli grandi. Così è il tempo per le fortune delle personalità intellettuali. Più ce ne allontaniamo e più la cultura italiana del XX secolo ci appare sovrastata dalla grande figura di Piero Martinetti (1872 – 1943), maestro di tutto l’antifascismo laico nei due rami del pacifismo capitiniano e dell’azionismo (Olivetti, Colorni, Duccio Galimberti, Ginzburg, Bobbio, Banfi, …).

    La riflessione di Piero Martinetti è articolata intorno alla profonda convinzione che la filosofia sia una grande impresa collettiva; attraverso la quale la specie umana, per la mediazione della ragione, a partire dalla riflessione sul mondo naturale, evolve il suo processo di umanizzazione, fino a delineare come orizzonte della specie una grande neodarwiniana fratellanza egualitaria universale del vivente tutto.

    Da questa premessa prende forma il capolavoro martinettiano (Introduzione alla metafisica, Milano 1904), ma soprattutto quella attenzione puntuale per il definirsi del problema della conoscenza nella riflessione delle grandi personalità filosofiche, con particolare costante attenzione alle riflessioni di Spinoza, Kant e Shopenhauer, ma soprattutto di quel vero snodo capitale del pensiero metafisico che sono gli scritti di Platone; dove converge tutto quel complesso travaglio speculativo i cui albori sono nella scuola di Mileto (Talete Anassimandro …). Un pensiero che migra dalla Ionia verso la Magna Grecia per sfuggire all’invasione persiana. Qui si articola nelle due grandi scuole pitagorica ed eleatica, per poi investire, con la sofistica, tra la Guerra del Peloponneso (452 – 406) e l’egemonia macedone, la Grecia continentale, provocando il capitale distinguo socratico, intorno al problema della conoscenza attraverso la ragione, tra filosofi: coscienti dei limiti del proprio sapere in rapporto alla conoscenza; e sofisti: certi di possedere un sapere dialettico capace di manipolare e governare in uno gli uomini e la natura.

    A noi questo distinguo capitale, — che con la vittoria del monoteismo definirà l’opposizione inconciliabile tra teologia: sapere assoluto emanato da Dio, e filosofia: conoscenza elaborata dai pensatori attraverso la ragione a partire dalla natura, — ci è pervenuto per la formalizzazione platonica. Una grande sintesi simbolica, in quanto e per quanto nei suoi dialoghi Platone traduce in rappresentazioni problematiche, tra mito e razionalità, tutta la precedente ricerca metafisica, assumendo una posizione decisamente razionalista ma anche anti naturalista. Nella filosofia di Platone il mondo naturale è una pura proiezione d’un universo trascendente di idee, emanate da un inconoscibile altrove, la cui vera percezione originaria è nel sacro. Visione condivisa dal Martinetti, qui è l’illusoria giunzione (come ancora Martinetti chiarì) tra platonismo e monoteismo. Illusoria perché Platone esclude ogni rivelazione diretta del sacro, condannandola come volgare antropomorfismo.

    Martinetti ha meditato lungo tutto l’arco della sua vita la speculazione platonica, che ha smontato e ricostruito negli anni, di questa complessa e ostinata sua riflessione sull’opera di Platone lasciandocene preziosa testimonianza in una memorabile antologia (Torino 1939), per la quale il lettore individua, resa in modo chiaro, la complessa metafisica del sommo filosofo. Una metafisica platonica esplorata nel suo momento costitutivo socratico, dietro il quale, e sovrastanti spesso negli sviluppi del pensiero di Platone, stanno i contributi delle due scuole pitagorica ed eleatica, per prendere diretto contatto con le cui fonti Platone intraprese i suoi viaggi nella Magna Grecia. E attraverso l’antologia martinettiana scorgiamo che nel quadro della speculazione platonica, il vero maestro, e con il quale Platone è in costante teso confronto dialettico, è l’eleate Parmenide.

    Solo individuata nei suoi elementi costitutivi socratici pitagorici ed eleatici. la metafisica platonica: la sua visione e morale e politica ed estetica si precisa in tutta la sua articolata complessità. Questo è il prezioso dono per lo studioso dell’antologia platonica di Piero Martinetti, ma che ha un ulteriore prezioso valore. Tutti i testi platonici sono stati tradotti dal Martinetti; e in uno splendido italiano limpido ed accessibile, sempre discosto dall’astruso in ragione della capacità del Martinetti di individuare e formulare chiari i problemi metafisici.

    Ecco perché la nostra casa editrice è venuta nella determinazione di rieditare non solo la preziosa antologia platonica, ma anche quelle kantiana e schopenaueriana, entrambe tradotte ed articolate nell’enucleato dei problemi metafisici dal Martinetti, a ricostruire, con l’antologia platonica, tre momenti capitali del procedere della ragione umana verso l’universale.

    FP

    ANTOLOGIA PLATONICA

    Traduzione e commento di

    Piero Martinettti

    ANTOLOGIA PLATONICA

    CAPITOLO I. — Il pensiero socratico

    1. Le memorie socratiche del Fedone. — 2. La riforma socratica come riflessione razionale sulla vita. — 3. La purificazione della mentalità volgare e il risveglio della intuizione morale interiore. — 4. La morale platonica dei dialoghi socratici. — 5. L’imperio assoluto della coscienza.

    CAPITOLO II. — Le influenze pitagoriche

    1. Il sovrapporsi dell’esigenza metafisica all’esigenza morale- religiosa. — 2. Il valore obbiettivo della giustizia e l’ordine eterno delle cose: la bellezza; l’amore. — 3. La teoria platonica dell’amore.

    CAPITOLO III. — Le influenze eleatiche e la teoria della conoscenza

    1. L’identificazione del buono con l’uno: la dualità del sensibile e dell’intelligibile come fondata sulla dualità del conoscere. — 2. Confutazione delle teorie empiriche di Protagora – Primo punto: insostenibilità del relativismo assoluto. — 3. Secondo punto: il relativismo e il divenire universale. — 4. Terzo punto; gli elementi astratti del conoscere. — 5. Le forme mitigate dell’empirismo. — 6. La teoria della conoscenza di Antistene. — 7. L’esigenza d’un ordine obbiettivo assoluto: la visione d’un ordine obbiettivo assoluto come riminiscenza. — 8. La teoria dell’errore: il non essere dell’illusione e dell’errore come non essere relativo, come essere altro. — 9. Il progresso verso l’intuizione dell’intelligibile: la dialettica. — 10. Il riconoscimento dell’opinione vera come sapere relativamente valido.

    CAPITOLO IV. — Il dualismo metafisico e la dottrina delle idee

    1. La distinzione dei due gradi dell’essere e il dualismo fondamentale: L’uno come trascendente e l’uno come partecipato. — 2. L’uno trascendente come mondo intelligibile: il mondo delle idee. — 3. La costituzione interiore del mondo delle idee: il non essere nel mondo ideale. — 4. Il problema del rapporto del mondo ideale col mondo sensibile. — 5. Il problema della loro corrispondenza: l’imitazione e la partecipazione. — 6. Il principio dell’irrazionalità e del non essere.

    CAPITOLO V. — La creazione

    1. La creazione come racconto mitico: il riflesso del mondo delle idee nella materia. — 2. La creazione dell’Anima e la sua divisione: gli esseri divini. — 3. I demoni e le anime umane. – Genesi del mondo fisico. — 4. L’umanità: il mito del «Politico». — 5. Il male radicale.

    CAPITOLO VI. — La morale

    1. La «caduta» dell’anima e il problema della libertà: la liberazione per la conoscenza. — 2. La conoscenza vera come intuizione della realtà spirituale: le cosidette prove della immortalità. — 3. I miti relativi al destino delle anime: l’ordine morale come legge universale. — 4. Confutazione delle teorie empiriche del piacere. — 5. Il vero piacere come connesso con la perfezione spirituale: la concezione ascetica della vita. — 6. Posteriore riconoscimento del valore dei beni inferiori: la subordinazione di tutta la vita alla bellezza, all’armonia ed alla verità.

    CAPITOLO VII. — La politica

    1. Fondamento morale della politica platonica. — 2. Origine dello stato: lo stato ideale della «Repubblica». — 3. Il regno dei filosofi. — 4. La sua realizzazione. — 5. Le deviazioni dallo stato ideale e le forme tipiche del governo corrotto. — 6. La teoria del «Politico» e delle «leggi». — 7. Valore della politica platonica.

    CAPITOLO VIII. — L’arte e la religione

    1. Giudizi di Platone sull’arte: l’arte come ispirazione e l’arte come imitazione. — 2. La filosofia platonica e la religione: il dualismo fondamentale; posizione di Platone rispetto alle religioni tradizionali.

    INTRODUZIONE

    Platone nacque verso il 427 a. C. ad Egina: ma era ateniese e di famiglia ricca e nobile suo zio materno era il famoso Crizia, fautore dell’illuminismo, che prese viva parte alle lotte intestine di Atene e fu il capo dei trenta tiranni. Si attaccò verso i vent’anni a Socrate: ciò che lo attirò verso di lui fu probabilmente il motivo stesso che attirava tanti giovani verso i sofisti: il desiderio di prepararsi con un’educazione filosofica alla vita politica. Ma le vicende della sua città diedero alla sua attività un altro indirizzo. Il governo dispotico e sanguinario dei Trenta, come il governo democratico che sorse dopo la loro caduta (403), furono per lui sorgente di amare delusioni: la condanna di Socrate per opera della democrazia gli tolse ogni velleità di partecipazione alla vita pubblica. È giusto ricordare che Platone non fu presente alla sua morte (Fedone, 59 B). Fu egli impedito da malattia? Noi non lo sappiamo. Nei primi anni dopo la morte di Socrate, salvo un breve soggiorno a Megara, Platone passò la maggior parte del tempo ad Atene. In questi anni pubblicò probabilmente i primi dialoghi, forse già composti o ideati mentre Socrate era ancora in vita. Verso il 390 egli avrebbe intrapreso un lungo viaggio in Egitto od a Cirene; ma il fatto è seriamente messo in dubbio. Certo è invece che verso il 389 passò nell’Italia meridionale, dove ebbe agio di conoscere da vicino il pitagorismo e strinse amicizia col pitagorico Archita, filosofo, matematico ed uomo di stato, che era a Taranto a capo del governo. In lui egli trovò realizzata quell’unione che fu il sogno di tutta la sua vita: l’unione dell’uomo di stato col filosofo. Dall’Italia passò in Sicilia accogliendo l’invito che Dionigi I, tiranno di Siracusa e mecenate di poeti e di filosofi, gli aveva rivolto. Probabilmente ciò che mosse Platone a visitare la corte fastosa e dissoluta del tiranno siciliano fu anche la speranza di veder realizzata la sua più costante aspirazione: fin da giovane infatti, egli aveva sentito un vivo impulso ad occuparsi di politica (Lettera VII 324 C) e già fin d’allora aveva concepito la filosofia soprattutto come strumento della riforma della corrotta costituzione politica. Che cosa destò in Dionigi un rapido malumore contro Platone? Noi lo ignoriamo. L’unico risultato del viaggio fu l’amicizia stretta con Dione, cognato del tiranno. Poco tempo dopo il suo arrivo egli fu costretto a ripartire e ad imbarcarsi su d’una nave, che le circostanze costrinsero ad approdare ad Egina. Gli Egineti erano allora in guerra con Atene: ogni Ateniese che cadeva nelle loro mani era condannato alla morte od alla schiavitù. Platone fu fatto schiavo: per fortuna fu riconosciuto da un ricco cirenaico, che lo riscattò e gli permise di rientrare ad Atene (388).

    Gli anni seguenti vennero consacrati da Platone alla fondazione ed alla direzione dell’«Accademia», una specie di scuola di educazione filosofica e politica, così chiamata da «Academo», un antico eroe ateniese, che era il patrono del luogo ov’essa era sorta. L’istituto possedeva uno statuto ed un patrimonio proprio: quali fossero i metodi d’insegnamento non ci consta. Esso comprendeva delle sale per i corsi e per gli allievi: un locale consacrato alle Muse (museo) conteneva i libri e le collezioni scientifiche. L’istituto durò a lungo e fu soppresso solo, dopo circa novecento anni di vita, nel 529 d. C. da Giustiniano.

    Nel 367 Platone, che anche nella fondazione dell’Accademia si era proposto un fine politico, credette gli si aprisse di nuovo l’occasione di diventare il riformatore d’uno stato: quando a Siracusa, morto il vecchio Dionigi, gli succedette il figlio trentenne, che sembrò desideroso di ricevere gli insegnamenti di Platone e di lasciarsi guidare da lui nella direzione dello stato. Alle istanze del giovane principe si erano forse aggiunte quelle del suo amico Dione. Ma egli trovò a Siracusa una situazione ben diversa da quella sperata: Dione fu bandito tre mesi dopo l’arrivo di Platone e Platone stesso finì per essere tenuto dal tiranno in una custodia sospettosa e poi lasciato libero nel 365 con la promessa che sarebbe tornato. Ed infatti Platone si lasciò indurre nel 361 e dalle insistenze di Dionigi II, che provava una certa vanità nell’avere il grande filosofo alla sua corte, e dalla speranza di aiutare il suo amico Dione, il quale attendeva di veder revocato il suo bando. Ma il risultato fu una nuova e più grave delusione: Platone finì per restare in una specie di pericolosa prigionia, dalla quale lo liberò l’amico Archita, che spedì una nave con un’ambasciata ed ottenne dal tiranno la libertà di Platone. Dopo la partenza di Platone (360) Dione tornò in Sicilia con un nucleo di partigiani e cacciò da Siracusa Dionigi II; ma pochi anni dopo fu egli stesso ucciso. Dopo l’insuccesso e la morte di Dione, che era stato per Platone il discepolo prediletto ed incarnava ai suoi occhi il re filosofo, Platone cessò d’interessarsi di politica. Egli continuò a scrivere e ad insegnare nella sua Accademia fino alla morte che lo colse, più che ottantenne, nel 348-7.

    Noi conosciamo ben poco la sua figura morale e non sappiamo quanto siano fondate le accuse che gli furono mosse da alcuni antichi. Certo tre cose oscurano il suo carattere filosofico. La prima è la. sua eccessiva preoccupazione politica, alla quale troppo spesso subordinò anche la sua filosofia; la seconda è il fatto di avere abbandonato il suo maestro nelle ultime ore. La terza è la sua eccessiva indulgenza nel giudicare le perversioni dell’amore, familiari alle classi aristocratiche della Grecia d’allora.

    Platone è il solo filosofo antico del quale ci siano pervenuti tutti gli scritti: a ciò contribuì senza dubbio anche il loro valore letterario. Essi hanno questo carattere: che, ad eccezione dell’Apologia, di tredici lettere e d’una piccola raccolta di definizioni, essi sono tutti redatti in forma dialogica. Egli adottò probabilmente questa forma mosso dall’esempio del suo maestro, Socrate, che esprimeva le sue idee filosofiche conversando e confutando: anche altri discepoli di Socrate, come Antistene, Aristippo, Eschine, scrissero delle composizioni dialogate. Ma dovette concorrervi anche il temperamento artistico di Platone, a cui ripugnava la gravità pedantesca di un’esposizione didattica. Il personaggio centrale dei suoi primi dialoghi è sempre Socrate: che però si eclissa sempre più nei dialoghi posteriori e scompare del tutto nella grande ultima opera, nelle Leggi. In questa diversità del róle di Socrate si rispecchia il mutamento progressivo del punto di vista: che nei primi dialoghi riproduce senza grandi alterazioni la dottrina di Socrate e in seguito se ne allontana sempre più verso una concezione personale, nella quale prevalgono gli elementi pitagorici ed eleatici.

    Non tutti gli scritti pervenuti a noi sotto il nome di Platone sono riconosciuti dalla critica: già gli antichi respingevano come apocrifi o come sospetti alcuni dei dialoghi di minore importanza. I moderni estesero questo sospetto anche ad alcuni dei dialoghi maggiori; ma l’autenticità di questi si può dire oggi concordemente riconosciuta. Un problema ben più grave, nel quale le opinioni sono anche oggi discordi, è quello del loro ordine cronologico: una questione di grande importanza per la determinazione dello svolgimento del pensiero platonico. Tuttavia anche in questo punto è possibile, almeno quanto alle linee generali, riconoscere un certo accordo. La posizione rispettiva dei singoli dialoghi è sempre ancora incerta: ma è generalmente (se non unanimemente) accolto un ordine dei gruppi, che dai dialoghi del periodo socratico va, attraverso le grandi composizioni dell’età matura (Fedone, Convito, Fedro, Repubblica, Teeteto), ai dialoghi del periodo dialettico (Parmenide, Sofista, Politico, Filebo) ed alle ultime sintesi del Timeo e delle Leggi.

    Il carattere stesso degli scritti platonici, che seguono l’evoluzione del suo pensiero, è la libertà estrema della trattazione, che inquadra e spesso nasconde in una cornice storica drammatica l’indagine filosofica vera e propria, rendono estremamente difficile una visione d’insieme. In Platone il letterato prende ancora molto spesso il sopravvento sul filosofo con pregiudizio della precisione razionale e della perfezione sistematica. «In Platone la scienza non è ancora scompagnata dall’arte e perciò non bastano i canoni della scienza a giudicare dell’opera sua, ma i concetti dell’arte altresì devono essere tenuti in conto, chi voglia giudicare rettamente» (Fraccaroli). Non è possibile anzi nasconderci che al valore estetico non corrisponde sempre un pari valore filosofico. Anche in mezzo alle prolissità, ai giuochi sofistici ed alle divagazioni mitiche risplendono sempre le divinazioni profonde, e sovente ironiche, d’una mente altissima. Ma essa sembra sovente arrestarsi con compiacenza in questi giuochi dello spirito, i quali nascondono la concatenazione precisa del suo pensiero sotto un’abbondanza di futili particolari. I commentatori (e non solo i commentatori antichi) hanno troppo spesso dato un’importanza eccessiva a questi fronzoli dialettici dell’opera platonica ed hanno qualche volta anche cercato in essi un’immaginaria sapienza trascendente. Del resto Platone stesso dichiara nella lettera VII (341 E) di non aver voluto esporre chiaramente le sue idee in modo accessibile a tutti: come Maimonide egli vuole lasciar trasparire la sfera d’oro della verità attraverso le maglie della rete d’argento ai pochi intelligenti, che dalle sue leggere indicazioni sono capaci di riscoprirla essi stessi. Una seconda causa di oscurità è la mescolanza della speculazione con il mito. Il mito è per Platone una finzione destinata a suggerire con tutta l’approssimazione possibile una verità quando questa non è speculativamente determinabile in modo preciso nei suoi particolari. Così, per esempio, la retribuzione delle opere nell’al di là è per Platone una verità filosofica: nessun uomo di buon senso potrà tuttavia arrogarsi di fissare il come: qui soccorre il mito, che, traducendo la verità in immagini necessariamente inadeguate (sulle quali Platone stesso esercita qualche volta la sua ironia), esprime con ciò stesso i limiti delle sue pretese. Ma questo può essere chiaramente fissato solo in astratto: in concreto è spesso difficile separare nettamente i due elementi. La creazione delle anime nel Timeo è, per esempio, un mito: ma non è un mito allora tutta l’attività del demiurgo? E che cosa si nasconde sotto il mito della creazione? Un’ultima causa d’oscurità, e non la meno importante, è l’incostanza e l’imprecisione della sua terminologia. Chi può dire, per esempio, con sicurezza quanti sensi e quali abbia nel Parmenide il verbo «essere», sul quale pure è imperniata, nella seconda parte, tutta la discussione?

    Un’esposizione complessiva, semplice, ridotta alle linee essenziali, fondata su d’una scelta di testi, è forse quindi per la conoscenza di Platone più utile che la lettura isolata dell’uno o dell’altro dei suoi dialoghi, anche dei maggiori. E questa visione complessiva ha un’importanza tanto più essenziale in quanto Platone, come i grandi filosofi dell’antichità classica, non ha per noi soltanto un interesse storico. Gran parte della nostra cultura spirituale è d’origine greca: anche quelli che non hanno mai letto Platone stanno sotto la sua influenza, si servono dei suoi concetti, agitano problemi che hanno avuto origine nel suo pensiero. A questo interesse meramente culturale si aggiunge anche, oggi, un interesse religioso. In mezzo alla corruzione ed alla decadenza del mondo greco Platone accolse in sé la severa predicazione socratica e la svolse in un sistema di pensieri che ebbe per l’umanità il valore d’una rivelazione e si propagò attraverso i secoli come un richiamo delle anime alla loro patria eterna. Anche noi oggi attraversiamo un’età altrettanto oscura, in cui le correnti più torbide della vita minacciano di travolgere le forme più delicate e più alte dello spirito. Anche a noi quindi la sua voce profetica può essere ancora un ammaestramento salutare, un’assicurazione ed un conforto.

    «Dante beve nel Paradiso terrestre, sulla cima del monte del Purgatorio, dalle acque di Lete per cancellare la memoria delle cure terrene e del peccato e poi dalle acque di Eunoe per vivificare lo spirito e prepararlo alla visione del Cielo. Gli scritti di Platone sono per noi Lete ed Eunoe ad un tempo: essi ci liberano dai limiti dell’esistenza temporale e ci aprono la via ad una visione ideale del mondo» (Caird).

    capitolo i – Il pensiero Socratico

    1. Nonostante le contraddizioni che sono state a più riprese rilevate, l’interpretazione tradizionale, che assegna i primi dialoghi ad un periodo «socratico», nel quale Platone segue più o meno fedelmente la dottrina del maestro, è sempre ancora la tesi più verisimile. Ciò che Platone ha ricevuto da Socrate è essenzialmente il profondo pathos morale che anima specialmente alcune fra le più antiche composizioni ‘Apologia, Critone, Gorgia, Fedone) e che, sebbene più tardi passi in seconda linea dinanzi ad altri motivi, non è mai scomparso interamente dalla speculazione platonica. Esso non è certo una creazione dello spirito platonico: chi ciò afferma mostra di misconoscere tutto quanto sappiamo del carattere morale di questa grande personalità. Anzi, pur riconoscendo tutto il valore dell’opera filosofica di Platone, noi possiamo dire che il più grande merito suo è di averci conservato l’immagine fedele dell’ultimo periodo di vita del suo grande maestro: le pagine del Fedone, che ne narrano la morte, hanno le loro uguali soltanto nel Vangelo. Riferisco qui le ultime pagine, dove Platone narra come Socrate, dopo d’aver parlato delle speranze dell’immortalità e della serenità, con cui il saggio deve affrontare la morte, accostandosi il momento di morire, si accinge agli ultimi preparativi.

    Voi, caro Kebes e Simmia e gli altri, vi accingerete un giorno, ciascuno alla sua ora, a questo viaggio; me invece chiama oggi il destino: e mi sembra quasi tempo che io vada al bagno, perché è meglio che io beva il veleno dopo preso il bagno e risparmi alle donne la pena di lavare un cadavere.

    Quando Socrate ebbe finito di parlare, Critone disse: Ebbene, caro Socrate, non hai tu niente da raccomandare a quelli che sono qui ed a me circa i tuoi figliuoli o qualunque altra cosa, nella quale noi potessimo farti cosa gradita?

    Niente altro, caro Critone, se non ciò che vi ho sempre raccomandato: che voi abbiate cura di voi stessi: così voi renderete servizio a me, ai miei ed a voi stessi in ciò che farete, anche se ora non me lo promettete: che se voi trascurerete voi stessi e ciò che ho detto ora e prima non sarà per voi una guida nella vita, tutte le promesse e le proteste che mi potreste fare oggi non servirebbero a nulla.

    Noi faremo tutto quello che potremo, rispose Critone. Ma come dobbiamo seppellirti?

    Come vorrete, se potrete avermi ed io non vi sfuggirò. E con un sorriso tranquillo disse a noi: Il nostro Critone, cari amici, non può persuadersi che io sono quel Socrate che adesso vi parla e dispone tutto quello che dice: ma pensa che io sia colui che egli vedrà fra breve cadavere e mi chiede come deve seppellirmi. Tutto quello che io vi ho esposto a lungo e cioè che io, dopo che avrò bevuto il veleno, non resterò più fra voi, ma andrò incontro a qualche destino migliore, egli credeva che io ve lo dicessi — almeno così sembra — per consolare voi ed anche me stesso. Io vi prego dunque d’essere garanti per me di fronte a Critone, ma nel senso contrario a quello in cui egli fu garante per me di fronte ai giudici. Egli garantì che io non sarei fuggito: voi dovete invece garantire che io, quando sarò morto, non resterò qui, ma me ne andrò via immediatamente, perché Critone sopporti più facilmente la mia morte e non si disperi vedendo bruciare o seppellire il mio corpo, come se io soffrissi dei grandi mali, e non dica ai miei funerali: che egli espone Socrate, che egli accompagna o seppellisce Socrate. Perché tu devi sapere, caro Critone, che esprimersi male non vuol dire solo incorrere in una negligenza, ma anche far del male alle anime. Bisogna invece prendere la cosa con coraggio e dire che tu seppellisci il mio corpo; tu poi seppelliscilo come ti piace e nel modo che tu credi più conforme alle leggi.

    Poiché ebbe detto questo si alzò e passò in una stanza per bagnarsi: Critone lo seguì e Socrate ci pregò di attenderlo. Noi l’attendemmo parlando fra noi delle cose dette ed esaminandole, poi discorrendo della grande disgrazia che ci aveva colpiti: noi ci consideravamo come dei figli privati del padre e condannati a passare il resto della vita come orfani.

    Quando egli fu uscito dal bagno, gli vennero condotti i figli — egli ne aveva tre, dei quali uno già grandicello — e si fecero entrare le donne di casa sua: egli parlò con loro in presenza di Critone e poiché ebbe detto quanto voleva, fece uscire le donne e i figliuoli e ritornò a noi. Il tramonto del sole era già imminente perché egli era restato a lungo nella stanza vicina. E rientrando dalla stanza si sedette: ed aveva scambiato con noi poche parole quando entrò il servo degli Undici e disse: Caro Socrate, io non ho da rimproverarti ciò che debbo di solito rimproverare agli altri, che, quando io, per incarico dell’autorità, vengo ad ordinar loro di bere il veleno, si adirano con me e mi maledicono. Perché in tutto questo tempo io non solo ho trovato in te l’uomo più nobile, più mite, più buono di tutti quelli che sono passati qui, ma sono anche ora fermamente convinto che tu non sei adirato con me, ma con quelli che sono causa della tua disgrazia e che tu sai bene chi siano. Adesso tu sai che cosa io vengo ad annunziarti: addio e guarda di sopportare con fermezza l’inevitabile. E dopo si volse piangendo e si ritirò. Socrate guardandolo disse: Addio anche a te: io farò come tu dici. E voltosi a noi disse: Quanta gentilezza in quest’uomo! Durante tutto il tempo che io ho passato qui egli veniva a vedermi e si tratteneva con me: era il migliore degli uomini ed ora come mi piange con tutto il cuore! Ma andiamo, Critone, obbediamogli: che qualcuno mi porti il veleno, se è già stato

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